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LINEE GUIDA PER UN NUOVO SVILUPPO DELLA COOPERAZIONE SOCIALE IN ITALIA Progetto Iniziativa Comunitaria Equal Incubatori di impresa sociale IT-S2-MDL-351 A cura di UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DELLA TUSCIA IMPRESA A RETE SOC. COOP. SOC. ONLUS

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LINEE GUIDA PER UN NUOVO SVILUPPO DELLA

COOPERAZIONE SOCIALE IN ITALIA

Progetto Iniziativa Comunitaria EqualIncubatori di impresa sociale

IT-S2-MDL-351

A cura di

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DELLA TUSCIA

IMPRESA A RETE SOC. COOP. SOC. ONLUS

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INDICE

INTRODUZIONE 4

PARTE A) LE PRECONDIZIONI PER UN NUOVO SVILUPPO 8

1. IL FENOMENO DELL’IMPRESA SOCIALE IN ITALIA(A CURA DI STEFANO MONELLINI-IMPRESA A RETE SOC. COOP. SOC. ONLUS)

9

1.1 Orizzonte normativo del concetto di impresa sociale 91.2 I principali indicatori della cooperazione sociale italiana di tipo “B” 101.3 Aspetti giuridici del concetto di “terzo settore” nei principalipaesi occidentali

12

1.4 Cenni sulla nuova legge sull’impresa sociale 152. IL DIRITTO AL LAVORO DELLE PERSONE SVANTAGGIATE(A CURA DI ANTONELLA CAU – DEAR, UNIVERSITÀ DELLA TUSCIA)

18

2.1 Oltre il confine: iniziative internazionali e comunitarie 182.2 Alcune esperienze europee comparate 212.3 La Legge ’68 sul “collocamento mirato” ed il ruolo dell’economia sociale in Italia 282.4 Un approccio “reticolare” all’inclusione sociale del soggetto svantaggiato 532.5 Le politiche sociali e le autonomie locali 602.6 Il decreto n° 276, attuativo della legge 14 febbraio 2003, n° 30 (“Legge Biagi”) 622.7 Strumenti di flessibilità 803. SCENARI EVOLUTIVI DELL’ECONOMIA SOCIALE ITALIANA(A CURA DI STEFANO MONELLINI-IMPRESA A RETE SOC. COOP. SOC. ONLUS)

88

3.1 Gli scenari internazionali 883.2 Gli scenari nazionali 903.3 Gli scenari locali: il “welfare municipale” 94

PARTE B) LE CONDIZIONI PER UN NUOVO SVILUPPO: LINEE GUIDA 99

1. FARE IMPRESA SOCIALE(A CURA DI STEFANO MONELLINI-IMPRESA A RETE SOC. COOP. SOC. ONLUS)

100

1.1 Le politiche aziendali ed imprenditoriali dell’economia sociale 1001.2 L’idea imprenditoriale ed il business plan 1021.3 L’analisi delle risorse 1041.4 L’ambiente competitivo 1041.5 Le scelte strategiche ed il posizionamento competitivo 1072. STRUMENTI PER AGEVOLARE L’INSERIMENTO LAVORATIVO DISOGGETTI SVANTAGGIATI(A CURA DI STEFANO MONELLINI-IMPRESA A RETE SOC. COOP. SOC. ONLUS)

108

2.1 Gli strumenti sociali ed imprenditoriali 108

PARTE C) ELEMENTI DI FATTIBILITA’ E COMPATIBILITA’ DELLO 112

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SVILUPPO DELL’IMPRESA SOCIALE NEI MERCATI NAZIONALI

1. I SETTORI PREVALENTI DI ATTIVITA’ DELLA COOPERAZIONE SOCIALEDI TIPO “B” TRA POLITICHE SOCIALI E POLITICHE DEL LAVORO(A CURA DI STEFANO MONELLINI-IMPRESA A RETE SOC. COOP. SOC. ONLUS)

113

1.1 Premessa 1131.2 I settori prevalenti di attività delle cooperative sociali di tipo “B” 1162. GUIDA ALLE SCHEDE PER I LETTORI(A CURA DI STEFANO MONELLINI-IMPRESA A RETE SOC. COOP. SOC. ONLUS)

119

3. “CASE STUDIES” SUI SETTORI DI INTERVENTO TIPICI DELL’ECONOMIASOCIALE ITALIANA(A CURA DI STEFANO MONELLINI-IMPRESA A RETE SOC. COOP. SOC. ONLUS)

120

3.1 Settore Ristorazione, mense, preparazione pasti 1203.2 Settore edilizia e piccola manutenzione 1213.3 Settore servizi turistici 1213.4 Settore pulizia 1223.5 Settore ambiente e rifiuti 1223.6 Settore logistica 1233.8 Settore servizi museale 1243.9 Settore servizi bibliotecari 1243.10 Settore termoidraulica 1253.11 Settore impianti elettrici 1254. LE FONTI RINNOVABILI COME SETTORE INNOVATIVO PER UN NUOVOSVILUPPO DELL’ECONOMIA SOCIALE ITALIANA(A CURA DI STEFANO MONELLINI-IMPRESA A RETE SOC. COOP. SOC. ONLUS)

127

4.1 Perché fare impresa sociale nel campo delle fonti rinnovabili 1274.2 Modelli formativi 1294.3 Tipologia di impresa sociale impegnata nel settore delle fonti rinnovabili 1304.4 Strumenti imprenditoriali per l’economia sociale impegnata nelle fonti rinnovabili 1325. “CASE STUDIES” DELL’ECONOMIA SOCIALITALIANA SUI SETTORI DELLEFONTI ENERGETICHE RINNOVABILI(A CURA DI STEFANO MONELLINI-IMPRESA A RETE SOC. COOP. SOC. ONLUS)

140

5.1 Il solare termico 1405.2 Il fotovoltaico 1425.3 La cogenerazione 1495.4 Le biomasse 1515.5 Buone pratiche imprenditoriali nel settore delle fonti rinnovabili 1536. FORMULE INNOVATIVE DI IMPRENDITORIA SOCIALE IN AGRICOLTURA(A CURA DI SAVERIO SENNI – DEAR, UNIVERSITÀ DELLA TUSCIA)

160

6.1 Premessa 1606.2 L’agricoltura come ambito ‘innovativo’ per fare impresa sociale 1616.3 Il profilo dell’impresa sociale in agricoltura 1676.4 Buone pratiche di impresa sociale in agricoltura: agricoltura Capodarco 1736.5 Opportunità e vincoli per l’impresa sociale in agricoltura 1756.6 L’attività agrituristica (A CURA DI CARMEN COLOIERA – ASSOCIAZIONE TURISMO VERDE) 177CONCLUSIONI 182BIBILOGRAFIA 184

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INTRODUZIONE

Le finalità della presente ricerca riguardano, essenzialmente, una ricognizione

circa le effettività opportunità offerte alla cooperazione sociale in ordine

all’espansione delle proprie attività nel quadro dei settori innovativi dell’economia

sociale italiana.

Parlare, oggi, di cooperazione sociale italiana presuppone l’analisi di alcune

tematiche indispensabili a delineare possibili scenari futuri, ovvero:

a) il mutamento del quadro normativo, rinnovato rispetto alla legislazione

precedente, e che, inevitabilmente, comporta un cambio di accezione sia rispetto al

fenomeno in sè, sia rispetto agli attori-protagonisti del sistema dell’economia

sociale;

b) i fenonemi legati ai sistemi economici nazionali ed internazionali, e

precisamente:

- la globalizzazione dell’economia mondiale, che comporta processi che, al tempo

stesso, rendono palesi alcune contraddizioni, in relazione alle disparità economiche

e finanziarie tra i paesi del Nord e del Sud del mondo, nonché alle problematiche

ambientali a cui sono, evidentemente, legate quelle della democrazia e della

militarizzazione del globo,

- un “quadro” interpretativo dei fenomeni economico-sociali italiani che solo può

essere studiato all’interno delle scelte strategiche dell’Unione Europea in ordine alla

sua concorrenzialità rispetto ai mercati nord-americani, russi (in particolare per

quanto concerne le questioni di natura energetica) ed asiatici (si pensi alle “sfide”

ai mercati globali proposte dalla Cina, dalla Corea e dall’India),

- un mercato dell’economia nazionale italiana che ricerca nuovi “slanci” rispetto ad

un quadro di recessione che ha caratterizzato l’ultimo quinquennio, e da cui, con

grande fatica, comincia a riemergere;

c) il posizionamento stesso, sui mercati (nazionali e stranieri) della cooperazione

sociale italiana, che mostra una difficoltà strutturale ad essere competitiva rispetto

alle sfide attuali, per le seguenti ragioni:

- il fatto, che, fino ad oggi, il mondo della cooperazione sociale italiana ha dedicato

i propri “sforzi imprenditoriali” alla realizzazione di interventi, progetti e servizi

guardando alle proprie, specifiche, realtà localistiche, tutt’al più “aprendosi”, a

volte in modo timido o diffidente, a volte per mere ragioni di convenienza

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commerciale, alla realizzazioni di “reti” nazionali di intervento, fortemente

connotate dalla tipologia specifica di intervento (quasi sempre “di nicchia”),

- la prevalenza di interventi finalizzati alla realizzazione di servizi di natura socio-

assistenziale (cooperazione sociale di tipo “A”), con forte dipendenza dal sistema

pubblico di erogazione delle risorse;

- la scarsa capitalizzazione delle organizzazioni, con conseguente, limitata,

assunzione di rischio imprenditoriale;

- la difficoltà di sviluppo dei modelli e degli approcci connessi alla cooperazione

sociale di tipo “B” (connesse anche a mancanza di lungimiranza strategica).

Gli elementi individuati, dal punto di vista della ricerca, finalizzata alla stesura

di “linee guida” per un nuovo sviluppo della cooperazione sociale in Italia, non

possono non essere presi in considerazione ed analizzati attentamente, poiché essi

condizionano, e non poco, le ipotesi di partenza del presente lavoro.

Vi è inoltre da aggiungere che, se le indagini sugli aspetti teoretici del

fenomeno dell’impresa sociale risultano da una vasta bibliografia, certamente meno

attenzione è stata data a quegli indicatori statistici che potrebbero, oggi,

consentirci di dire qualcosa circa la consistenza attuale e le tendenze evolutive dei

settori di attività del mondo della cooperazione sociale impegnata nel nostro

Paese.

Il presente lavoro indica, essenzialmente, delle linee guida per la cooperazione

sociale italiana che seguono una duplice traiettoria (esse, in qualche modo, ne

rappresentano le ipotesi di partenza), ovvero:

1) Fare innovazione, per l’impresa sociale, significa entrare in una logica

di assunzione di “rischio imprenditoriale”, ovvero:

a. uscire da una filosofia di “economia di nicchia”, con particolare riferimento alla

cooperazione sociale di tipo “B”;

b. emanciparsi, come succede in molti casi per la cooperazione sociale di tipo “A”,

dai fenomeni di dipendenza dai decisori politici locali e dalla finanza pubblica;

c. sperimentarsi in percorsi imprenditoriali all’interno di nuovi settori (e non

necessariamente o soltanto in una dimensione localistica o nazionale);

d. sintonizzarsi sui nuovi fenomeni economico-sociali che trovano origine, a volte,

dalla parte opposta del globo, ma i cui effetti e le cui ricadute sono riscontrabili

quotidianamente nelle scelte imprenditoriali dell’economia sociale (si pensi

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solamente ai fenomeni energetici, od alle forme di concorrenza dall’Asia rispetto ai

mercati dell’artigianato in senso ampio).

2) La fattispecie giuridica della “cooperativa sociale di tipo B” rappresenta

“il” vero soggetto potenzialmente protagonista di processi di innovazione

imprenditoriale, poiché:

a. fa propria la “filosofia” ed i metodi dell’inclusione lavorativa e sociale, fattori che

incorporano, contestualmente, obiettivi di efficienza/efficacia imprenditoriale e di

natura etico-sociale, sia rispetto all’oggetto produttivo, sia al proprio modello

organizzativo ed alle relazioni interne con il personale;

b. in molti settori, in particolare quelli innovativi delle economie locali, agisce sulle

relazioni con le amministrazioni locali e nazionali (attraverso pratiche di co-

progettazione, ai sensi della legge 328/2000, ed attraverso affidamenti diretti di

attività produttive di beni e di servizi, ai sensi dell’art. 5 della legge 381/’91),

favorendo, così le modificazioni dei quadri legislativi locali in direzione di uno

sviluppo sostenibile in senso socio-eco-ambientale;

c. consente la capitalizzazione e l’esportazione del proprio “know-how” rispetto ai

prodotti e servizi tipici delle cooperative di servizi finalizzate all’inclusione sociale;

d. è possibile sperimentare formule imprenditoriali che favoriscono ottiche

consortili, federative, nonchè l’afflusso di capitali misti (pubblici, privati, e, per

l’appunto, del privato sociale e delle cooperative sociali in particolare).

Coerentemente, dunque, con tale impostazione, il presente lavoro di ricerca

intende:

- affrontare il problema definitorio connesso alle cooperative/imprese sociali, con

l’obiettivo di identificarne una corretta accezione ed, a partire da essa, individuare

il loro posizionamento sui mercati attuali ed/o potenziali, con particolare

riferimento a quegli elementi di innovatività che possono consentirne uno sviluppo

nel tessuto economico-sociale del nostro paese;

- “fotografare” sinteticamente, alla luce dei più recenti dati sulla situazione della

cooperazione italiana, la sua numerosità, i suoi aspetti organizzativi e gestionali;

- fare alcune riflessioni circa gli scenari evolutivi dell’economia sociale italiana,

inserendole all’interno della più generale riflessione sul diritto al lavoro dei soggetti

disabili, puntando, prevalentemente, l’attenzione sulla cooperazione sociale di tipo

“B” e, conseguentemente, sulle pre-condizioni di sviluppo ed effetti su di esse delle

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due più recenti leggi (68/’99 e 30/2001) che le coinvolgono direttamente rispetto a

modalità e metodologie di inclusione socio-lavorativa di soggetti svantaggiati;

- fornire le linee guida per uno sviluppo della cooperazione sociale in Italia, a

partire dall’individuazione di “pacchetti” formativo/informativi circa il “fare impresa

sociale”, l’individuazione di strumenti imprenditoriali ed economico-finanziari per la

nascita e lo sviluppo delle stesse, la descrizione delle principali metodologie di

inserimento lavorativo dei soggetti portatori di svantaggio;

- individuare il ventaglio di settori che rappresentano gli ambiti tipici e quelli

innovativi dell’economia sociale nazionale, definendo bacini e profili professionali

individuati, così come scaturiscono dal lavoro di “ricerca sul campo”;

- per ciascun settore (tipico od innovativo) individuato, effettuare una descrizione

tecnica ed offrire al lettore una serie di parametri economico-finanziari che ne

descrivano la sostenibilità dal punto di vista degli investimenti, l’individuazione e la

praticabilità dal punto di vista dell’inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati;

- esaminare con particolare attenzione il settore delle fonti energetiche rinnovabili,

cercando di dimostrare la sua potenzialità quale settore strategico per la

cooperazione sociale italiana, fornendo schede dettagliate rispetto ad esperienze

già avviate, che possono rappresentare modelli di attività d’impresa, per le

cooperative di tipo “B” che intendano investire in esso;

- approfondire il tema relativo all’innovazione rappresentata dalle formule

innovative di imprenditoria sociale nel campo dell’agricoltura e del segmento

agrituristico.

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PARTE A)

LE PRECONDIZIONI PER UN NUOVO SVILUPPO

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1. IL FENOMENO DELL’IMPRESA SOCIALE IN ITALIA

1.1 ORIZZONTE NORMATIVO DEL CONCETTO DI IMPRESA SOCIALE

1.1.1 Impresa-cooperativa sociale in senso giuridico

Il termine “Impresa Sociale” (d’ora in avanti IS) fa riferimento, dal punto di vista

giuridico, all’art. 2082 del Codice Civile, che identifica l’imprenditore come il

soggetto che esercita professionalmente un’attività economica organizzata finalizzata

alla produzione ed allo scambio di beni e servizi: con il termine sociale si intende

invece la finalità dell’attività di impresa, ovvero l’apporto di un beneficio per la

comunità.

1.1.2 La legge 381 del 1991: aspetti principali

La legge 381/’91, all’art. 1, individua due tipologie di organizzazioni per il

perseguimento dello scopo sociale:

Le cooperative di tipo A (CA) - destinate ad occuparsi della gestione dei servizi

socio-sanitari, assistenziali ed educativi.

Le cooperative di tipo B (CB) - dedicate a svolgere attività produttive finalizzate

all’inserimento lavorativo di persone svantaggiate.

La novità della legge consisteva proprio nel fatto di avere individuato tale fattispecie

giuridica come strumento privilegiato per l’inserimento lavorativo di tali soggetti.

Le persone svantaggiate che svolgono attività nei più svariati settori della CB,

debbono costituire almeno il trenta per cento dei lavoratori della cooperativa. L’art 4

della legge 381/1991 ricomprende, nella generale categoria “persone svantaggiate”

(con obbligo di certificazione dello svantaggio) gli invalidi fisici, psichici e sensoriali,

gli ex degenti di istituti psichiatrici, i soggetti in trattamento psichiatrico, i

tossicodipendenti, gli alcoolisti, i minori di età in situazioni di particolari difficoltà

familiari, i condannati ammessi alle misure alternative alla detenzione.

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Le cooperative possono agire autonomamente, rispetto all’Ente pubblico, oppure

in accordo con questo mediante la stipula di convenzioni-tipo, che ogni regione può

adottare per regolarne e disciplinarne le attività.

L’art. 5 della legge prevede già che gli enti pubblici possano, anche in deroga alla

disciplina in materia di contratti della pubblica amministrazione, stipulare

convenzioni, attraverso la pratica dell’”affidamento”, alle CB, ed il suo scopo è

l’incentivazione di opportunità di lavoro per le persone svantaggiate soci-lavoratori o

dipendenti delle stesse.

1.2 I PRINCIPALI INDICATORI DELLA COOPERAZIONE SOCIALE ITALIANA

DI TIPO “B”

La cooperazione sociale italiana è un fenomeno in costante (e, per certi aspetti,

prepotente) crescita: l’ISTAT ha svolto la seconda rilevazione sulle cooperative

sociali1, iscritte nei registri regionali e provinciali al 31 dicembre 2003: il numero

delle cooperative sociali, rispetto alla precedente rilevazione del 2001, risulta

cresciuto dell’11,7%, esse sono 6.159.

“A conferma della relativa novità del fenomeno, più del 60% delle cooperative

sociali italiane è nato dopo il 1991”2.

La prevalenza della CA è dimostrata dai dati che attestano al 60,2% le imprese di

questa tipologia, mentre sono il 32,1 quelle di tipo B, il 4% hanno oggetto misto

(svolgono sia attività di tipo A sia di tipo B), i consorzi sono il 3,6%.

“Dal punto di vista economico, le cooperative sociali registrano nel complesso

circa 4,5 miliardi di euro di entrate. I valori non sono distribuiti omogeneamente tra

le varie tipologie di cooperativa: a fronte di un valore medio della produzione di 720

mila euro, le cooperative di tipo A si attestano a circa 770 mila euro per unità, quelle

di tipo B e ad oggetto misto a circa 473 mila euro, mentre i consorzi presentano un

valore medio pari a circa 2 milioni di euro”3.

Le cooperative più piccole prevalgono tra quelle di tipo B, dove la percentuale di

unità con ricavi inferiore a 250 mila euro sale al 52,5%. Al contrario, le cooperative

1 ISTAT, “Le cooperative sociali in Italia Anno 2003”, 2 marzo 2006

2 idem

3 Idem

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10

medio-grandi e grandi sono maggiormente frequenti tra quelle di tipo A e ad oggetto

misto (circa il 55% delle cooperative appartenenti a queste tipologie mostrano ricavi

uguali o superiori a 250 mila euro), e soprattutto tra i consorzi, tra i quali il 70,1%

ha un importo del valore della produzione uguale o superiore a 250 mila euro.

A conferma di quanto detto precedentemente, rispetto al regime di “dipendenza”

da erogazioni della PP.AA., la maggioranza assoluta delle cooperative sociali (64,4%)

registra entrate di origine prevalentemente pubblica e il 35,6% di fonte

prevalentemente privata: la prevalenza del ricorso al finanziamento pubblico è

relativamente più accentuata per le cooperative di tipo A (71,9%), mentre lo è meno

per le cooperative di tipo B (50,4%).

“Nel corso del 2003 sono 23.575 le persone svantaggiate presenti nelle

cooperative sociali di tipo B (26,1% in più rispetto al 2001). La percentuale di

soggetti svantaggiati presenti in cooperativa rispetto al totale dei lavoratori si

attesta, a livello nazionale, al 46,5%, ben al di sopra del limite minimo (30%)

stabilito dalla legge 381 del 1991. 4”.

Le cooperative sociali di tipo “B” rappresentano il più efficace strumento di

inserimento lavorativo ed inclusione sociale di soggetti in condizione di svantaggio: si

vedrà, inoltre, come, in realtà, esso è in grado di creare processi di inclusione

ordinaria sia per tali soggetti (disagiati certificati), sia per quei soggetti appartenenti

all’area del c.d. “disagio della normalità” (strettamente connesso al fenomeno delle

“nuove povertà”).

L’efficacia dello strumento viene confermato dai dati 2005 del Centro Studi CGM:

“La cooperazione sociale – complessivamente 7-8 per mille dell’economia, ma con

poco più di un quarto del valore prodotto da cooperative di inserimento lavorativo,

quindi attestabile intorno al 2 per mille – inseriva da sola già nel 1999 più del 5% dei

disabili italiani, cifra che oggi è probabilmente salita al di sopra del 7%. Numeri che

dicono al tempo stesso la straordinarietà di una esperienza che riesce a competere

sul mercato con una quota di lavoratori deboli (contando anche gli svantaggiati non

disabili) 20-30 volte superiore a quella delle altre imprese e delle pubbliche

amministrazioni5”.

4 idem

5 Centro Studi CGM (a cura di), “Beni comuni Quarto Rapporto sulla cooperazione sociale italiana”, Edizioni

Fondazione Giovanni Agnelli, Torino, 2005

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Rispetto alle tipologie di soggetti svantaggiati presenti nelle cooperative di tipo B,

le categorie più numerose sono quelle dei disabili e dei tossicodipendenti (45,5% e

16,8%, rispettivamente).

I soggetti svantaggiati relativamente più frequenti all’interno delle cooperative di

tipo B localizzate nelle diverse aree geografiche sono:

_ i pazienti psichiatrici e i tossicodipendenti nel Nord-ovest;

_ gli alcolisti, i pazienti psichiatrici, i minori e i tossicodipendenti nel Nord-est;

_ i detenuti ed ex detenuti, i disabili e i disoccupati al Centro;

_ i disabili e i disoccupati nel Mezzogiorno6.

1.3 ASPETTI GIURIDICI DEL CONCETTO DI “TERZO SETTORE” NEI

PRINCIPALI PAESI OCCIDENTALI

1.2.1 Due modelli organizzativi a confronto

Di seguito si riportano alcune, schematiche, riflessioni circa il concetto di “terzo

settore” nelle principali democrazie a capitalismo avanzato7:

“Modello di derivazione statunitense: è strettamente legato al concetto di

nonprofit che operativamente si esplica attraverso il vincolo della distribuzione dei

profitti.

La presenza di un tale vincolo, tuttavia, non garantisce affatto la finalità sociale di

un’iniziativa: negli USA la maggioranza degli ospedali ha una configurazione

nonprofit, ma i poveri possono accedervi con grandissima difficoltà. Tale vincolo,

dunque, appare essere condizione necessaria, ma non sufficiente a garantire un

orientamento volto agli interessi della collettività, è però formidabile il meccanismo di

sviluppo: l’obbligo di reinvestire in tutto od in parte gli utili, una volta remunerato il

lavoro, garantisce un flusso di risorse per la crescita8”.

6 ISTAT, op. cit.

7 Il presente contributo fa riferimento integrale al testo di: C. Borzaga ed A. Santuari, “Le imprese sociali

nel contesto europeo”, ISSAN, Working Paper n. 13.

8 idem

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12

“Modelli di derivazione europea: il secondo modello organizzativo è invece di

derivazione europea ed è basato sul meccanismo della partecipazione e del controllo

democratico (…)

In un numero crescente di esperienze nella stessa organizzazione sono presenti più

tipologie di portatori di interessi; in questi casi si parla di multi-stakeholders

organisations (…).

Nei diversi contesti europei, è possibile ricavare le seguenti considerazioni

riguardanti le esperienze di gestione privata di servizi sociali a carattere

imprenditoriale, ma con finalità collettiva:

a. le imprese sociali esistono in tutti i paesi, anche in quelli con un settore

nonprofit tradizionale e più strutturato ed in quelli con un welfare più consolidato;

b. risulta chiaro un maggior sviluppo dell’impresa sociale nei paesi a welfare

debole, principalmente nei paesi latini, Grecia compresa; questi paesi sono

caratterizzati dal paradosso della crisi di un sistema di welfare non ancora

pienamente realizzato e quindi stanno percorrendo più di altri strade innovative (…).

Schematicamente si possono individuare tre modelli storicamente affermatisi in

Europa:

a. offerta pubblica prevalente: Danimarca, Svezia, Finlandia e Regno Unito;

b. finanziamento pubblico, ma rilevante offerta privata attraverso organizzazioni

consolidate della Pubblica Amministrazione: Germania, Olanda e Francia;

c. scarsa offerta di servizi e larga prevalenza di trasferimenti: Italia, Spagna,

Portogallo e Grecia”9.

1.2.2 Il “caso Italia”: due tentativi di definizione di impresa sociale10

“Il citato dibattito intorno alla nozione di impresa sociale si è sviluppato da

almeno un decennio, da quando ci si è resi conto che il settore nonprofit, oltre che

9 idem

Per un ulteriore approfondimento sul fenomeno dell’impresa sociale nel continente europeo si faccia

riferimento al testo di A.C Giorio., “Caratteristiche e regolazione delle imprese sociali nei paesi europei”,

in A. Scialdone (a cura di), “Regole della Reciprocità”, ISFOL

10 Il presente contributo è tratto dal testo dell’IRS-Istituto per la ricerca sociale, “L’impresa sociale in

Italia-Dimensioni, nodi critici, prospettive”, Dicembre 2003.

Il quaderno è stato realizzato all’interno del progetto Equal “Innovating local development employment

initiatives in the third sector”– codice IT/S/MDL/055 – Asse Imprenditorialità. Alla ricerca hanno

collaborato le società “Impresa a Rete”, “C.N.C.A” e “DROM”.

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produrre beni relazionali (coesione, partecipazione sociale e politica), poteva dare un

contributo sostanziale anche alla soluzione dei problemi occupazionali.

L’attenzione alle potenzialità di creazione di posti di lavoro da parte delle

organizzazioni nonprofit è scaturita soprattutto in seguito alla pubblicazione da parte

della Commissione Europea del Libro Bianco del 1993 che identificava nei ‘servizi di

prossimità’ uno dei principali settori di crescita occupazionale dell’Europa comunitaria

nel decennio successivo.

Dopo un periodo nel quale il concetto di impresa sociale è stato di fatto utilizzato

(soprattutto in Francia e Spagna) per indicare le imprese costituite con l’obiettivo

prevalente di creare posti di lavoro (nell’ambito dei servizi sociali), a partire dalla

metà degli anni novanta, è però prevalsa l’idea di generalizzare il concetto di impresa

sociale in modo da includervi ‘tutte le organizzazioni nonprofit impegnate nella

produzione stabile e continuativa di servizi di interesse collettivo secondo modalità

imprenditoriali11’.

Prima definizione:

Alla base di tale definizione vi sono le due dimensioni in cui si articola l’impresa

sociale: quella economico imprenditoriale e quella sociale.

La prima si realizza se sono rispettati quattro requisiti:

i) la produzione di beni e/o servizi deve avvenire in forma continuativa;

ii) l’impresa opera con un elevato grado di autonomia;

iii) l’attività genera un livello significativo di rischio economico;

iv) nella forza lavoro dell’impresa compaiono un certo numero di lavoratori

retribuiti.

La dimensione sociale è determinata da altri quattro requisiti:

v) la produzione di benefici avviene a favore della collettività;

vi) l’impresa è il frutto di un’iniziativa collettiva, promossa da un gruppo di cittadini;

vii) il governo dell’impresa avviene su base diversa dalla semplice proprietà del

capitale;

viii) è garantita una partecipazione allargata ai processi decisionali che coinvolga

tutte o quasi le persone o i gruppi interessati all’attività (non solo lavoratori e

utenti);

Seconda definizione:

11 Definizione del gruppo di ricerca transnazionale EMES (The Emergence of Social Enterprise)

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Altri autori hanno adottato una definizione operativa di impresa sociale basata

sulla ‘rilevanza economica’. Secondo tale definizione l’impresa sociale risulterebbe

costituita dalle organizzazioni nonprofit che:

i) producono o erogano beni e servizi (sarebbero quindi escluse le organizzazioni

impegnate nei servizi di advocacy);

ii) vendono, almeno in parte, tali servizi a terzi;

iii) impiegano una quota di personale retribuito oltre una soglia minima12”.

1.4 CENNI SULLA NUOVA LEGGE SULL’IMPRESA SOCIALE (D. LGS. N°

155/2006)

1.3.1 La qualifica di I.S.

Il D.Lgs. 155/06 non definisce direttamente cosa sia l’impresa sociale, ma

stabilisce che “possono acquisire la qualifica di impresa sociale tutte le organizzazioni

private che esercitano in via stabile e principale un’attività economica organizzata al

fine della produzione o dello scambio di di beni o servizi di utilità sociale” e che

hanno particolari requisiti.

Poiché sono esplicitamente citati anche gli “enti di cui al libro V del codice civile”,

tutte le forme societarie possono essere I.S. (a differenza delle ONLUS, per le quali

l’unica forma di società ammessa è quella cooperativa).

Non possono acquisire la qualifica di I.S. le amministrazioni pubbliche.

Le I.S. non possono essere dirette o controllate da Amministrazioni Pubbliche o

da imprese lucrative.

Gli Enti ecclesiastici (e quelli delle confessioni religiose con cui lo Stato ha

stipulato intese) possono direttamente esercitare attività di impresa sociale,

individuandole mediante l’adozione - in forma di scritture private autenticate - di

specifici regolamenti.

Le organizzazioni che limitino statutariamente l’erogazione dei beni o servizi a

soci, associati o partecipi non possono acquisire la qualifica di I.S. .

L’organizzazione che esercita l’impresa sociale deve essere costituita per atto

pubblico (eccezione per gli enti ecclesiastici); e gli atti costituitivi “oltre a quanto

12

IRS-Istituto per la ricerca sociale, op. cit.

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specificamente previsto per ciascun tipo di organizzazione” devono indicare l’oggetto

sociale ricadente nei campi di attività specifici dell’I.S., e prevedere l’assenza di

scopo di lucro.

Gli atti costitutivi devono essere depositati presso il registro delle imprese, “per

l’iscrizione in apposita sezione”.

Nella denominazione è obbligatoria la locuzione “impresa sociale”, che può essere

usata solo da organizzazioni che esercitino un’impresa sociale.

1.3.2 I campi di attività

assistenza sociale, ai sensi della legge 328/00;

assistenza sanitaria, per l’erogazione delle prestazioni rientranti nei livelli

essenziali di assistenza;

assistenza socio-sanitaria, ai sensi del DPCM 29 Novembre 2001;

educazione, istruzione e formazione, ai sensi della legge 53/03;

tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, “con esclusione delle attività, esercitate

abitualmente di raccolta e riciclaggio dei rifiuti”;

valorizzazione del patrimonio culturale;

turismo sociale;

formazione universitaria e post-universitaria;

ricerca ed erogazione di servizi culturali;

formazione extra-scolastica;

Al di fuori di questi settori possono essere I.S. le organizzazioni che finalizzano

l’attività di impresa all’inserimento lavorativo di lavoratori svantaggiati e lavoratori

disabili.

Le definizioni di questi soggetti non coincidono con quelle della l. 381/91.

Infatti le tipologie di lavoratori svantaggiati e disabili sono alcune tra quelle

indicate nel Regolamento CE 2204/2002.

1.3.3 L’assenza dello scopo di lucro (art. 3), i gruppi (art. 4) e la responsabilità

patrimoniale (art. 6), i soci e gli amministratori (artt. 8 e 9)

Il D.Lgs. fissa il principio della destinazione degli utili e degli avanzi di gestione

allo svolgimento dell’attività statutaria o ad incremento patrimoniale.

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Stabilisce quindi il divieto di distribuzione diretta e indiretta degli utili, fissando

limiti ai compensi degli amministratori e dei lavoratori, e alla remunerazione degli

strumenti finanziari.

Ai gruppi di I.S. si applicano le norme disposte dal cod. civ. per i gruppi societari.

Gli accordi di gruppo devono esser depositati presso il registro delle imprese.

I gruppi devono redigere e depositare il bilancio consolidato.

Tutte le organizzazioni che esercitano un’impresa sociale, se dispongono di un

patrimonio superiore a ventimila euro godono della limitazione di responsabilità al

solo patrimonio.

L’ammissione e l’esclusione dei soci devono essere regolate secondo principi di

non discriminazione; negli statuti deve essere prevista la possibilità di ricorso

all’assemblea dei soci avverso ai provvedimenti di rifiuto dell’ammissione o di

esclusione (derivazione dalla disciplina delle cooperative).

Negli enti associativi, la nomina della maggioranza degli amministratori non può

essere riservata a soggetti esterni. Non possono rivestire cariche sociali soggetti

nominati da società lucrative o amministrazioni pubbliche.

1.3.4 Normativa ONLUS e cooperative sociali (art. 17)

Le ONLUS che acquisiscono la qualifica di I.S. continuano ad applicare le

disposizioni tributarie previste dal D.Lgs. 460/97.

Possono acquisire la qualifica di I.S., mantenendo la “normativa specifica delle

cooperative”, le cooperative sociali che inseriscano nei propri statuti le disposizioni

relative al bilancio sociale (art. 10 c. 2), e al coinvolgimento dei lavoratori e dei

destinatari delle attività (art. 12); le relative modifiche statutarie, entro dodici mesi

dall'entrata in vigore del decreto, possono essere approvate dall’assemblea ordinaria.

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2. IL DIRITTO AL LAVORO DELLE PERSONESVANTAGGIATE

2.1 OLTRE CONFINE: INIZIATIVE INTERNAZIONALI E COMUNITARIE

Secondo talune stime comunitarie (1996), le persone con disabilità o meglio

ricompresse nella dicitura “fasce deboli/svantaggiate”, in Europa, sono circa 45

milioni: la metà in età lavorativa. Il dato, destinato a non subire significative

variazioni nei prossimi venticinque anni, giustifica il diffuso interesse per tutta una

serie di problematiche relative all'inserimento e al mantenimento del posto di

lavoro: si evidenzia, da un lato, la necessità di garantire pari opportunità nella

ricerca di occasioni lavorative e una tutela adeguata contro le discriminazioni

dall'altro, l'esigenza di eliminare i fattori che ostacolano il mantenimento

dell'attività lavorativa, ovvero l'assenza di programmi specifici di riqualificazione

professionale, la difficoltà di ottenere il part-time o i permessi e, non ultimi, i

problemi legati all'adeguamento del luogo di lavoro. Da più parti viene evidenziata

la necessità di compensare le difficoltà culturali, professionali e sociali con un

sovrappiù di offerta nei settori dell'informazione, della formazione e della mobilità.

Sul piano internazionale, l'International Labour Organization (ILO) si muoveva

in tal senso già nel 1983 con l'adozione della Vocational Rehabilitation and

Employment (Disabled Persons Convention n. 59 e della Recommendation n. 68),

mentre l'Assemblea delle Nazioni Unite emanava, dapprima, la Dichiarazione sui

diritti delle persone disabili e, successivamente le UN Standard Rules on the

Equalization of Opportunities for Persons with Disabilities (1993). Anche le

istituzioni comunitarie, attraverso la promozione di progetti mirati, si sono poste

l'obiettivo di rimuovere gli ostacoli culturali e materiali per una reale integrazione.

Il primo programma di azione sociale comunitario che si poneva la scopo di

inserire le persone affette da “minorazioni” (così definite) nella dinamica

complessiva di innalzamento del livello di vita e di integrarle, tanto

economicamente quanto socialmente, risale al 1974. Da allora si sono succeduti

numerosi programmi nel settore della formazione e dell'inserimento lavorativo,

nell'informazione delle problematiche connesse alle diverse abilità e nello scambio

di esperienze:

- taluni si sono rivolti alla creazione delle condizioni per una politica globale

(HELIOS);

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- altri hanno offerto, attraverso un sistema di informazione computerizzata,

conoscenze concernenti tutti i settori della disabilità (HANDYNET);

- altri ancora, come HORIZON, hanno avuto l'obiettivo di migliorare le

condizioni di integrazione economica, professionale e sociale delle persone

con disabilità.

Contemporaneamente è stato definito un quadro politico di impegno a livello

europeo attraverso l'approvazione della Carta comunitaria dei diritti sociali

fondamentali dei lavoratori (1989), l'emanazione dell'Accordo sulla Politica

Sociale, la pubblicazione del Libro Bianco relativo a "La politica sociale europea".

Più recentemente, con la risoluzione del Consiglio Europeo del dicembre 1997, sono

stati formulati gli orientamenti in materia di occupazione, evidenziando la necessità

di incoraggiare l'adattabilità delle imprese e dei lavoratori e di promuovere le

politiche in tema di pari opportunità.

Per il periodo 2000-2006 il Fondo Sociale Europeo ha costituito uno dei più

importanti strumenti di sostegno della strategia europea per l'occupazione.

La programmazione ha, difatti, concentrato i suoi interventi sia sullo sviluppo

delle risorse umane sia sulle politiche dell'impiego attraverso alcuni settori di

intervento importanti fra cui:

- le politiche attive del mercato del lavoro volte a prevenire e combattere la

disoccupazione;

- la lotta all'esclusione sociale;

- lo sviluppo dei sistemi di formazione professionale e della formazione lungo tutto

l'arco della vita;

- l'adattabilità della forza lavoro e delle imprese ai mutamenti del mercato del

lavoro.

I vari Stati dell'Unione Europea hanno avviato, con tempi e modalità diverse,

specifiche politiche socio-assistenziali, formative ed occupazionali. Tutti hanno

emanato legislazioni in materia di inserimento lavorativo:

Nella maggior parte dei casi tale inserimento viene incentivato attraverso il

sistema delle quote: in Austria, ad esempio, le imprese devono assumere una

persona con disabilità ogni 25 dipendenti, (l'imprenditore che non rispetta la quota

è tenuto a pagare una tassa di compensazione per ogni mancata assunzione; in

Francia la percentuale è del 6%; in Grecia è del 3% (in aziende di oltre 50

dipendenti); in Irlanda è pari al 3%, ma nel solo settore pubblico; in Lussemburgo

il 5% nelle aziende di oltre 25 dipendenti; nei Paesi Bassi varia dal 3% al 5% ed in

Spagna è del 2% per aziende di 50 dipendenti.

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Alcuni paesi (es. Svezia, Danimarca e Finlandia) dispongono di legislazioni che

delineano un contesto per l'integrazione socio-lavorativa delle persone con

disabilità; in altri Stati sono state emanate normative che prevedono, invece,

interessanti clausole di non discriminazione (es. Regno Unito).

Un punto di partenza comune è stata la Classificazione Internazionale di

Menomazione, Disabilità e Handicap elaborata, nel 1980, dall'Organizzazione

mondiale della Sanità: l'handicap era riconosciuto quale condizione di svantaggio

conseguente ad una menomazione (definita come la perdita temporanea o

permanente di una funzione psicologica, fisiologica o anatomica) o ad una disabilità

(intesa come la limitazione a la perdita delle capacità di svolgere attività nel modo

a nei limiti considerati “normali” per un individuo) che in un certo soggetto limita e

impedisce l'adempimento del ruolo normale per tale soggetto in relazione all'età,

sesso e fattori socioculturali.

Il concetto di “normalità” si basava, pertanto, su ideali statistici con

l’intendimento di ciò “che più spesso accade”.

Detta Classificazione è stata adottata da molti Stati europei, sebbene nessuna

delle definizioni contenute nelle varie legislazioni nazionali coincida perfettamente

con essa: le differenze sostanziali permangono, soprattutto, nei metodi valutativi

individuati per definire il grado di disabilità, il quale si riflette a sua volta sul

diverso tipo di tutela assicurata.

In paesi quali Austria e Germania, ad esempio, sono considerate persone

disabili - ai fini dell'inserimento lavorativo - le persone con un tasso di invalidità

superiore al 50% (purchè tale invalidità sussista da almeno sei mesi). In Belgio, il

parametro ritenuto utile è una capacità di guadagno inferiore di un terzo rispetto a

quella media di una persona normodotata. In Svezia, invece, la diversa abilità non

è una caratteristica del singolo, ma è considerata un problema di interazione tra

l'individuo e l'ambiente, pertanto la disabilità è quella cd. funzionale che rende

difficile l'espletamento delle normali funzioni.

Tutti i paesi comunitari, comunque, promuovono l'occupazione dei disabili e

delle fasce deboli attraverso interventi economici: incentivi finanziari per i datori di

lavoro (ad esempio, rimborso per i costi sostenuti nell'adeguamento del posto di

lavoro a concessione di premi all'occupazione) oppure sussidi alla persona con

disabilità commisurati alla gravità della patologia o svantaggio.

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2.2 ALCUNE ESPERIENZE EUROPEE COMPARATE

2.2.1 Francia

A. Datori di lavoro obbligati

La comparazione fra sistemi giuridici diversi è di fondamentale importanza

perchè offre la possibilità di individuare spunti di riflessione e confronto.

La normativa francese in materia di inserimento lavorativo delle persone con

disabilità presenta alcuni aspetti interessanti.

Quanto ai soggetti vincolati all'obbligo di assunzione l'art. L. 323-1 cod. lav.

recita:

"ogni datore di lavoro che occupa almeno venti dipendenti è tenuto ad

impiegare, a tempo pieno o a tempo parziale, talune categorie di beneficiari nella

percentuale del 6% dell'effettivo totale dei suoi dipendenti".

La dottrina prevalente (Cros-Courtial M.G., 1988) ritiene che l'espressione "ogni

datore di lavoro", contenuta nella citata disposizione, sia talmente ampia da

comprendere non solo tutti i settori di attività - industria, commercio, agricoltura -

ma anche le società cooperative, i liberi professionisti, i sindacati, le associazioni.

Altrettante perplessità (Cros-Courtial M.G., 1988) ha suscitato il secondo

comma dell'art. L.323 - 1, circa l'obbligo di assunzione nelle aziende con più

stabilimenti: tale disposizione sottrae da ogni vincolo tutte quelle imprese di grandi

dimensioni divise in stabilimenti con meno di venti dipendenti ciascuno.

Il successivo art. L.323 - 2 obbliga all'assunzione i datori di lavoro pubblici

(ovvero lo Stato e gli enti pubblici dello Stato diversi da quelli industriali e

commerciali; gli enti territoriali ed i loro enti pubblici, diversi da quelli industriali e

commerciali). L’assunzione nella Pubblica Amministrazione francese può avvenire

per concorso (consentendo lo svolgimento delle prove in funzione della natura

dell'handicapé); in base all'esame d'accesso agli impieghi riservati; attraverso

l'assunzione diretta per contratto annuale, rinnovabile una sola volta, al termine

del quale può intervenire il passaggio in ruolo a condizione che integrino i requisiti

attitudinali per l'esercizio della funzione.

Una importante disposizione relativa ai concorsi nel settore pubblico è

contenuta nell'art. 26, comma 4, della legge 30 giugno 1975, n. 75-534: nessun

candidato disabile può essere escluso – con tale motivazione - da un concorso, se

la disabilità è stata ritenuta compatibile con l'impiego al quale il concorso stesso

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consente l’accesso.

Il Codice del lavoro francese contiene anche alcune precisazioni circa la base di

riferimento per il calcolo della quota d'obbligo del 6%. L'art. L.323 - 4 richiama il

modello delineato dall'art. 43 1-2 del codice del lavoro, relativo all'elezione dei

comitati aziendali: "i dipendenti con contratto a durata indeterminata, i lavoratori a

domicilio e i lavoratori disabili impiegati nelle imprese, nei laboratori protetti o nei

centri di distribuzione del lavoro a domicilio sono computati integralmente

nell'effettivo dell'impresa”.

I dipendenti con contratto a durata determinata, i dipendenti con contratto di

lavoro intermittente, i lavoratori messi a disposizione dell'impresa da un'impresa

esterna, ivi compresi i lavoratori temporanei, sono computati nell'effettivo

dell'impresa in proporzione al loro tempo di presenza in questa nel corso dei dodici

mesi precedenti.

I dipendenti con contratto a durata determinata, con contratto di lavoro

temporaneo, o messi a disposizione da un'impresa esterna sono esclusi dal

computo degli effettivi quando sostituiscono un dipendente assente o il cui

contratto di lavoro è sospeso.

Vengono escluse dal conteggio alcune categorie d'impiego in ragione del fatto

che richiedono attitudini particolari: si tratta per lo più di professioni diffuse nel

settore delle costruzioni e dei trasporti (es. muratori, fattorini).

Una volta stabilito il numero di persone con disabilità che devono essere

assunte per adempiere all'obbligo di legge, i datori hanno la possibilità di effettuare

la cd. "ponderazione" partendo dal presupposto che è possibile un computo

particolare in base alla gravità dell'handicapé, all'età, all'esperienza di formazione o

inserimento lavorativo pregresso: ad esempio, i lavoratori con un grado di disabilità

media vengono considerati pari ad un'unità e mezza mentre quelli più gravi

contano come due unità e mezza. Il legislatore intende così favorire i lavoratori

giovani o anziani rispetto a quelli di età intermedia, ed i soggetti che hanno

ricevuto una formazione in strutture specializzate o protette.

B. Le categorie di beneficiari

Per quel che riguarda i soggetti beneficiari colpisce il numero elevato e la

particolarità delle categorie.

L'art. L.323 - 3 distingue:

1) i lavoratori riconosciuti disabili dalla commissione tecnica d'orientamento e di

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riqualificazione professionale;

2) le vittime di incidenti del lavoro o di malattie professionali che abbiano

comportato un'incapacità permanente pari almeno al 10% e titolari di una rendita

attribuita sulla base del sistema generale di sicurezza sociale o di ogni altro sistema

di protezione sociale obbligatoria;

3) i titolari di una pensione d'invalidità attribuita sulla base del sistema generale

di sicurezza sociale, di ogni altro sistema di protezione sociale obbligatoria o sulla

base delle disposizioni che regolano i pubblici impiegati a condizione che l'invalidità

riduca almeno di 2/3 la loro capacità di lavoro o di guadagno;

4) i militari, anziani e assimilati, titolari di una pensione di invalidità in base al

codice delle pensioni militari d'invalidità e delle vittime di guerra;

5) le vedove di guerra non risposate, titolari di una pensione ai sensi del

medesimo Codice, il cui coniuge militare o assimilato è deceduto per le

conseguenze di una ferita o di una malattia imputabile ad un servizio di guerra

mentre era in possesso di un diritto alla pensione di invalidità per un tasso pari

almeno all'85%;

6) gli orfani di guerra, minori di anni 21, e le madri vedove non risposate o le

madri nubili, di cui rispettivamente il padre o il figlio, militare o assimilato, è

deceduto per le conseguenze di una ferita o di una malattia imputabile ad un

servizio di guerra o mentre si trovava in possesso di un diritto alla pensione di

invalidità per un tasso pari almeno al 5%.

7) le vedove di guerra risposate aventi almeno un figlio a carico nato dal

matrimonio con un militare o assimilato deceduto, quando queste vedove hanno

ottenuto o avrebbero avuto il diritto di ottenere, prima di risposarsi, una pensione

alle condizioni previste al n. 5 di cui sopra;

8) le mogli di invalidi internati per alienazione mentale imputabile ad un servizio

di guerra, se esse beneficiano dell'art. L. 124 del codice delle pensioni militari di

invalidità e delle vittime di guerra;

9) i titolari di un assegno o di una pensione di invalidità attribuiti secondo le

condizioni definite dalla L. n. 91-1398 del 31 dicembre 1991 relativa alla protezione

sociale dei vigili del fuoco volontari in caso di incidente sopravvenuta o di malattia

contratta in servizio.

La categoria sub 1) è oggetto di una specifica normativa e definisce lavoratore

disabile ogni persona le cui possibilità di ottenere e conservare un lavoro siano

effettivamente ridotte in seguito ad un'insufficienza o riduzione delle capacità

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fisiche o mentali. Tale qualità può essere riconosciuta esclusivamente dalla

commissione tecnica di orientamento e di riqualificazione professionale,

C.O.T.O.R.E.P, prevista dall'art. L. 323-11.

Tale nozione di travailleur handicapè è ritenuta poco precisa poichè, da un

punto di vista logico, in essa potrebbero essere inclusi non solo i soggetti

appartenenti alla categoria n.1), ma anche quelli delle categorie di cui ai numeri 2),

3), 4) e 9) dello stesso art. 323: si fa osservare che anche un invalido di guerra

può avere problemi nell'ottenere o conservare il posto di lavoro a causa di una

disabilità fisica o mentale.

Sul piano legislativo le categorie vengono mantenute distinte in quanto il

problema dell'handicapè è stato affrontato in momenti diversi e con logiche

differenti, creando una normativa stratificata e poco coordinata.

Merita un cenno anche la già citata CO.TO.R.E.P (introdotta dalla L. 534/75

cd. legge di orientamento in favore dell'inserimento professionale dei

disabili): essa è competente per il riconoscimento della qualità di lavoratore

disabile, deve pronunciarsi sull'orientamento della persona disabile e sulle misure

adatte ad assicurare la sua riqualificazione, deve designare le aziende o i servizi

che concorrono alla rieducazione e alla riqualificazione.

Ha una composizione ampia e variegata, con membri dotati delle necessarie

competenze tecniche: vi sono membri designati congiuntamente dal Direttore del

lavoro e dal Capo servizio delle leggi sociali in agricoltura, tra cui un

rappresentante dell'Agenzia nazionale per l'impiego ed un medico del lavoro; altri

designati dal Direttore degli affari sanitari e sociali; rappresentanti degli organismi

d'assicurazione contro le malattie e degli organismi gestionali dei centri di

rieducazione professionale; rappresentanti delle associazioni dei disabili e delle

organizzazioni sindacali.

La decisione della CO.T.O.R.E.P viene presa dopo l'esame del fascicolo da parte

dell'équipe tecnica (la quale provvede a stilare un rapporto) prendendo in

considerazione diversi parametri: la natura e l'importanza della disabilità fisica o

mentale, la qualificazione acquisita o acquisibile, l'attitudine a mantenere l'impiego.

Successivamente la prima sezione della commissione provvede a classificare

l'individuo con una delle tre categorie di handicap (leggero-medio-grave), mentre

la seconda sezione si occupa dei casi di handicap gravi per i quali non è consentito

l'espletamento di un lavoro nel settore ordinario.

Dalla narrativa di cui sopra si delinea come la Francia si concentri, tutt’oggi, ad

una definizione di handicap piuttosto che cercare di trovare una descrizione, non

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solo letterale ma culturale e socio-politica, delle diverse potenzialità degli individui

in situazioni di svantaggio.

2.2.2 Regno Unito: Disability Discrimination Act (1995)

A. Ambito applicativo

Alcuni studi statistici hanno evidenziato come i lavoratori con disabilità, anche

nel Regno Unito, vengano spesso sottopagati, siano costretti a svolgere lavori di

basso profilo professionale, incontrino maggiori difficoltà nella ricerca di un posto di

lavoro.

Fino al 1995 non esisteva alcuna normativa specifica che affrontasse i problemi

di discriminazione nell'inserimento e nello svolgimento del rapporto di lavoro; solo

il Disabled Persons (Employment) Act del 1944 prevedeva l'obbligo, per i datori di

lavoro con più di 20 dipendenti, di assumere persone con disabilità in una

percentuale minima del 3%; per rientrare fra i beneficiari della legge era richiesta

l'iscrizione delle persone in un apposito registro.

Di fatto il sistema risultava essere del tutto inefficace; molti ritenevano che il

solo fatto di possedere la cd. Green Card (Blue Card in Nord Irlanda) aumentasse

la possibilità di essere oggetto di atti discriminatori.

Il Disability Discrimination Act 1995 introduce una serie di disposizioni

importanti non solo in ambito lavorativo.

L'obiettivo del DDA, con il suo stesso titolo in apertura, è "to make it unlawful

to discriminate against disabled persons in connection with employment, the

provision of good, facilities and services or the disposal or management of

premises; to make provision about the employment of disabled persons and to

establish a National Disability Council".

B. Concetto di disabilità e persona disabile

Nella normativa inglese sono specificati i concetti di disabilità e di persona

disabile: una persona è considerata disabile se la patologia fisica o mentale ha effetti

sfavorevoli, sostanziali e di lunga durata sulla sua capacità a svolgere le normali

attività quotidiane. Tale definizione è ampia e generica, non contiene alcuna

indicazione nè sul significato di patologia fisica o mentale, nè su quello di “effetti

sostanziali". Sebbene tali aspetti siano stati affrontati in un provvedimento specifico,

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i giudici inglesi non nascondono le incertezze e le difficoltà esistenti nella fase

interpretativa ed applicativa del provvedimento.

Sul termine menomazione, ancor oggi in lingua anglosassone usato, viene in

aiuto la definizione data dall'O.M.S..

Si ritengono escluse dall'ambito della definizione la dipendenza da alcool e

nicotina, la piromania, la cleptomania, l'esibizionismo, il voyerismo. Vi rientrano,

invece, gli effetti di antidolorifici e sedativi assunti su prescrizione medica.

Nel Schedule (§1) viene, altresì, chiarito che nell'ambito delle disabilità mentali

rilevanti ai sensi di legge rientrano le malattie mentali clinicamente riconosciute e

che le gravi deturpazioni (§3) sono da considerarsi impairment, anche nel caso in cui

siano autoprocurate (ad esempio, a seguito di depressioni o tentati suicidi).

L'abilità a svolgere le normali azioni quotidiane viene determinata valutando gli

effetti della disabilità su almeno uno degli aspetti quali la mobilità, la destrezza

manuale, la coordinazione dei movimenti, la continenza, il linguaggio-l'udito-la vista,

la capacità di concentrarsi o di apprendere, la percezione del pericolo.

Un'ulteriore precisazione, contenuta nella guida, riguarda gli effetti della

menomazione: essi non devono essere nè insignificanti nè temporanei. A tal fine

viene considerato il tempo necessario per svolgere l'attività e il modo in cui essa

viene eseguita, confrontando i risultati con quelli ottenuti in casi analoghi da persone

normodotate. Le conseguenze della menomazione devono, altresì, essere di lunga

durata: devono cioè durare da almeno, o per almeno, 2 mesi oppure accompagnare

la persona per tutto il resto della propria vita (es. le malattie terminali).

Gli effetti sono rilevanti anche se si presentano in modo variabile o se sono

progressivi (si pensi all'epilessia). E’ sufficiente che vi sia diagnosi medica anche se i

sintomi non si sono ancora manifestati (es. sieropositività).

Un problema su cui si è discussa a lungo riguarda l'applicabilità delle tutele del

DDA 1995 anche ai soggetti che, grazie ai trattamenti terapeutici o all'utilizzo di

ausili, riescono a controllare/correggere le conseguenze della loro disabilità (si pensi

alla persona mutilata che utilizza una protesi ortopedica), ma è ormai unanime l'idea

che tali persone debbano considerarsi comunque protette dal provvedimento

legislativo.

Sono persone disabili tutti coloro che sono stati registrati come tali in base al

Disabled Persons Employment Act 1944 entro la data del 12.01.1995 e che

risultavano ancora iscritti alla data del 2.12.1996.

Ugualmente tutelati nell'ambito della nuova normativa sono i soggetti discriminati

a pausa delle cd. past disabilities (ad esempio, ex malati di mente).

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C. Le disposizioni in materia di lavoro

Le disposizioni relative alla tutela delle persone con disabilità nell'inserimento

lavorativo e nello svolgimento del rapporto di lavoro sono contenute nella parte II (in

vigore dal 2.12.1996).

Le stesse hanno trovato compiuta specificazione grazie ad un Code of Practice for

the elimination of discrimination in the fiield of employment against disabled persons

or persons who have o had disability.

Il termine employment è utilizzato nella sua più ampia accezione. La condizione

necessaria per l'applicazione della normativa antidiscriminatoria in oggetto è lo

svolgimento dell'intero rapporto di lavoro in aziende situate nel Regno Unito o

nell'Irlanda del Nord. Il lavoro a bordo di navi ed aerei è escluso, salvo disposizione

contraria per casi particolari.

Nel testo originario erano esclusi dall'ambito applicativo i datori di lavoro aventi

alle loro dipendenze meno di 20 lavoratori. In tal modo, però, molte piccole aziende

restavano escluse dal vincolo. A seguito delle numerose lamentele, provenienti

soprattutto dalle associazioni di tutela delle persone disabili, la soglia è stata

abbassata a 15 dipendenti dal 1998. Per stabilire se un datore di lavoro è soggetto al

DDA occorre prendere in considerazione il numero di persone che aveva alle sue

dipendenze al tempo in cui è stata, presumibilmente, posta in essere la

discriminazione.

Nella normativa non è contenuta, invece, alcuna indicazione circa le modalità di

computo dei dipendenti nel caso di gruppi societari. La dottrina ritiene sia necessario

valutare separatamente ogni società e considerare il numero dei dipendenti della

società in cui si presume sia stata attuata la discriminazione.

Fra i casi di esclusione dall'obbligo di assunzione ricordiamo le forze armate ed i

pompieri.

Il DDA 1995 è, invece, applicabile nei confronti delle organizzazioni sindacali

(Sez. 1 3-1 5) definite come "an organisation of workers, an organisation of

empIoyers or any other organisation whose members carry on a particular profession

or trade for the purposes of which the organisation exists". Un'organizzazione

sindacale non può fissare particolari condizioni d'ammissione che siano

discriminatorie per soggetti con disabilità che vogliano iscriversi (ad esempio quote di

iscrizione più elevate).

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D. Tipologie di discriminazioni

Nella Sez. 4 sono dichiarati illeciti:

1) gli atti di discriminazione compiuti nella fase di selezione del personale da

assumere (ad esempio richiedere requisiti preassuntivi non necessari) o nello

svolgimento dell'attività lavorativa (cd. discriminazioni dirette);

2) l'uso, ingiustificato, di criteri, metodi, pratiche e procedure che ostacolano le

persone con disabilità nell'inserimento e nello svolgimento del rapporto;

3) la cd. victimisation, ovvero il comportamento discriminatorio conseguenza del

fatto che la persona disabile ha intrapreso un'azione giudiziaria under the Act,

oppure si sia informata circa le modalità per intraprenderla.

Strettamente connesso con la realizzazione di discriminazioni indirette è il dovere

in capo al datore di fare reasonable adjustments.

Tali discriminazioni si concretizzano nel caso di inadempimento tanto nella fase di

selezione (ad esempio, il mancato utilizzo di questionari preassuntivi idonei), quanto

nello svolgimento del rapporto (ad esempio, non apportando le modifiche necessarie

alla postazione di lavoro oppure non permettendo il mutamento di mansioni o di

orario laddove ciò sia possibile).

Il principale problema riguarda l'individuazione del tipo di adattamento opportuno

al singolo caso. Nella sez. 6 sono indicati i vari steps da seguire. Occorre valutare i

reali benefici che derivano effettuando le modifiche, i costi necessari e le possibilità

finanziarie del datore, il quale non ha imposto alcun obbligo se non è a conoscenza, e

non può ragionevolmente venire a conoscenza, dell'esistenza della disabilità.

2.3 LA LEGGE 68/1999 SUL “COLLOCAMENTO MIRATO” ED IL RUOLO

DELL’ECONOMIA SOCIALE IN ITALIA

2.3.1 Le esigenze di riforma

L’analisi di alcuni casi europei, appunto la Francia ed il Regno Unito, non sono

altro che spunti di riflessione per comprendere meglio il travagliato itinerario avuto

dalla nostra legislazione interna in materia.

Gli ultimi tempi, che hanno poi portato alla realizzazione della L.68/99, sono stati

caratterizzati, soprattutto, da un’ottica di vera e concreta concertazione con le parti

sociali interessate.

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Molti auspicavano la riforma della Legge 482/1968, recante "La disciplina

generale delle assunzioni obbligatorie presso le pubbliche Amministrazioni e le

aziende private", ritenendola non più rinviabile. In effetti tale normativa ha sempre

offerto una tutela residuale e ha deluso i molti che nutrivano la speranza di poter,

nonostante i problemi di salute, trovare un lavoro idoneo.

Sovente è rimasta disapplicata a causa delle aliquote di riserva troppo elevate e

delle gravi disarmonie esistenti nell'incontro tra domanda ed offerta di lavoro che

hanno determinato rifiuti reciproci tanto da parte delle aziende quanto dalle persone

in cerca di lavoro. Inoltre, ha escluso dal proprio ambito applicativo le aziende

medio-piccole con meno di 35 dipendenti (per lo più del settore artigianale), le quali

rappresentano -attualmente - circa l'85% del tessuto produttivo italiano.

Altrettanto rilevante, purtroppo quale limite, è stata l'assenza di disposizioni

concernenti strumenti e iniziative di supporto, sia nella fase iniziale dell'inserimento,

sia durante lo svolgimento del rapporto di lavoro. Solo la legislazione regionale ha

introdotto agevolazioni fiscali e forme di contribuzione per l'adeguamento del posto

di lavoro, per l'eliminazione delle barriere architettoniche, per la dotazione degli

eventuali ausili necessari.

La nuova Legge 68/1999 recepisce i principi contenuti nella Legge Quadro citata,

ponendosi, come finalità, la promozione dell'inserimento e della integrazione

lavorativa delle persone disabili nel mondo del lavoro, attraverso servizi di sostegno

e di collocamento mirato. Essa affronta l'integrazione lavorativa dei disabili puntando

sull'introduzione di principi innovativi quali il sistema di incentivazioni graduate in

base al livello di inabilità del soggetto (art. 1 3); l'istituzione di un Fondo gestito dalle

singole Regioni ed autofinanziato dal sistema sanzionatorio (art. 14), con pene in

caso di omissione o ritardata denuncia o di non copertura delle quote dell'obbligo,

per cause imputabili al datore (art. 15); la valorizzazione delle autonomie locali cui fa

riferimento il D.LGS 469/1997, con l'attribuzione di ampie facoltà nell'individuazione

dei percorsi per l'inserimento e degli strumenti di integrazione e formazione;

l'obbligo, per le imprese pubbliche e private che intendono partecipare a bandi per

appalti pubblici o intrattenere rapporti convenzionali - di concessione con pubbliche

amministrazioni, di presentare idonea certificazione che attesti l'ottemperanza agli

obblighi di legge (art. 17).

Certamente è una normativa che prevede, esplicitamente, e suggerisce,

implicitamente, tante opzioni. In taluni punti il testo risulta poca chiaro, mentre in

altri ha richiesto e richiederà l'integrazione con provvedimenti regolamentari di

primaria importanza se si vorrà rendere operativo il nuovo sistema (sono di

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competenza della Presidenza del Consiglio dei Ministri, del Ministero del Lavoro, delle

Regioni). Tenta comunque un maggiore coinvolgimento di tutte le parti sociali

coinvolte nell'inserimento lavorativo prendendo come base di riferimento le

numerose esperienze maturate nelle diverse realtà regionali (ad esempio, in Liguria,

Lombardia, in Piemonte, Veneto, Trentino Alto Adige, Emilia Romagna).

La Legge 482/1968 era, ormai da tempo, considerata una legge burocratica ed

assistenziale, clientelare, coercitiva ma, soprattutto, inadeguata visto il riferimento,

fra l'altro, a percentuali di invalidità che nulla dicevano concretamente circa

l'autonomia della persona, la sua capacità lavorativa e le sue competenze.

Proprio sulla necessità di modificare i criteri di accertamento dell'invalidità si è

discusso a lungo, evidenziando l'esigenza di introdurre valutazioni che individuassero

il reale grado di autonomia e la capacità lavorativa effettiva del disabile, in modo da

effettuare un inserimento lavorativo fondato sia su una valutazione obiettiva delle

attitudini e delle possibilità di ogni individuo, sia sul potenziamento delle stesse

attraverso progetti mirati di formazione professionale.

La nuova legge 68/99 sembra, fortunatamente, muoversi verso un maggiore

coordinamento tra politiche attive del lavoro, politiche formative ed inserimento

lavorativo.

Il miglioramento delle condizioni di lavoro e dell'ambiente, attraverso la

rimozione delle barriere architettoniche, l'adeguamento dei tempi e delle modalità di

organizzazione del lavoro, lo sviluppo del terziario e delle nuove tecnologie

informatiche-telematiche, offrono prospettive interessanti. Anche lo sviluppo di ausili

e di metodologie didattiche (formazione a distanza e telelavoro) consentono di

facilitare il processo di apprendimento e lo svolgimento di molte attività che, in

passato si ritenevano incompatibili con la stato di invalidità.

Fra i momenti più significativi dello sviluppo della legislazione a favore

dell'inserimento lavorativo delle persone con disabilità è bene, innanzitutto, ricordare

l'emanazione della Legge 381/1991, sulla "Disciplina delle cooperative sociali"

Il legislatore italiano ha voluto così valorizzare ed incoraggiare lo costituzione

delle cooperative sociali di tipo “B” (cd. cooperative di produzione e lavoro integrate),

come già ricordato nei capitoli precedenti, aventi od oggetto "lo svolgimento di

attività diverse - agricole, industriali, commerciali a di servizi - finalizzate

all'inserimento lavorativo di persone svantaggiate": invalidi, ex degenti di istituti

psichiatrici, soggetti in trattamento psichiatrico, tossicodipendenti, alcolisti, minori in

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età lavorativa in situazioni di difficoltà familiare, condannati ammessi alle misure

alternative alla detenzione.

Ugualmente degna di nota è la Legge Quadro n. 104 del 1992 riguardante

"l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate". Per la

prima volta, sul piano legislativo, si è posta al centro la persona nella sua globalità,

indipendentemente dallo stato e dal tipo di patologia o difficoltà in cui si trova, con

un approccio innovativo che considera la persona disabile nel suo sviluppo unitario

dalla nascita, alla presenza in famiglia, nella scuola, nel lavoro e nel tempo libero.

Con tale normativa è stata avviato un processo di coinvolgimento sulla realtà

della disabilità che interessa le diverse amministrazioni centrali e periferiche dello

Stato ed offre nuovi spazi, opportunità, alle forze dell'associazionismo, del

volontariato, della cooperazione e del privato sociale.

Oltre o garantire il pieno rispetto della dignità della persona disabile si insiste

sulla necessità di rimuovere le situazioni invalidanti e di predisporre interventi che

evitino processi di emarginazione: ha, infatti, introdotto una nuova concezione della

diversa abilità sancendo il principio della valutazione del soggetto in base alle

concrete capacità lavorative e relazionali e prevedendo, altresì, strumenti importanti

(ad esempio, i permessi retribuiti ex art. 33) per i lavoratori che versano in uno stato

di disabilità ritenuta grave.

2.3.2 Gli incentivi

Ai datori che, anche non obbligati in base alla legge, assumono persone disabili è

concessa la fiscalizzazione totale, per la durata massima di otto anni, dei contributi

previdenziali ed assistenziali relativi ad ogni lavoratore disabile che, assunto in base

alla presente legge, abbia una riduzione della capacità lavorativa superiore al 79% o

minorazioni ascritte dalla prima alla terza categoria delle tabelle annesse al TU delle

norme in materia di pensioni di guerra; analoga fiscalizzazione totale è concessa in

caso di assunzione di lavoratori con disabilità intellettiva e psichica,

indipendentemente dalle percentuali di invalidità.

Una fiscalizzazione del 50%, per la durata massima di cinque anni, dei contributi

previdenziali e assistenziali spetta, invece, qualora si assuma una persona disabile

con una riduzione della capacità lavorativa compresa tra il 67% e il 79% o invalidità

ascritte dalla quarta alla sesta categoria del testo unico delle norme in materia di

pensioni di guerra.

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Un'ulteriore agevolazione per le assunzione è il rimborso forfettario parziale delle

spese necessarie alla trasformazione del posto di lavoro per renderlo adeguato alle

possibilità operative dei disabili con riduzione della capacità lavorativa superiore al

50% o per l'utilizzo di tecnologie di telelavoro ovvero per la rimozione delle barriere

architettoniche che limitano in qualsiasi modo l'integrazione lavorativa del disabile.

2.3.3 La L. 68/99 ed il soggetto portatore di svantaggio:rafforzamento delle proprie

competenze

Il processo di interazione sociale degli ultimi anni e le nuove classificazioni

internazionali ICF sulla disabilità hanno registrato notevoli progressi sia in termini

dei risultati raggiunti, sia nella consapevolezza di poter ricoprire ruoli significativi

all'interno della società, in linea con condizioni sociali favorevoli.

Dalle classificazioni del 1980 con l’ICIDH ove si parlava solamente di

menomazione e poi handicap, dal 2001 con l’introduzione della Classification of

Human Functioning (ICF appunto) è nata la nuova classificazione del

funzionamento, della disabilità e della salute ed è a questa che tutti i paesi Membri

dell’Unione dovrebbero fare riferimento per la creazione di un linguaggio comune

anche tra professionalità diverse. L’ICF è lo strumento dell’OMS impegnata nella

ricognizione dei fattori ambientali che determinano condizioni di disabilità

temporanee o permanenti.

L’ottica non è la negazione dell’esistenza delle differenze ma l’attuazione di

norme comportamentali generalizzate che favoriscano e consentano di espletare in

pieno il proprio diritto di partecipazione e di cittadinanza.

In linea con questa cultura, si è progressivamente manifestata la richiesta di un

posto di lavoro adeguato alle proprie competenze, alle capacità funzionali, ma

soprattutto alle proprie aspettative.

Il legislatore, sensibile a questa aspirazione, è intervenuto strutturando un

impianto normativo che vede come momento centrale la legge n. 68/1999, la quale

mira, attraverso la diffusione del concetto innovativo di collocamento mirato ad

inserire la “persona giusta al posto giusto”.

Il raggiungimento della normativa in questione ha visto, però, un travagliato iter.

La riforma del collocamento obbligatorio, che ha portato, quindi, all'attuazione del

precetto Costituzionale (art. 38 Cost. che demandava ad una specifica normativa la

disciplina del diritto al lavoro dei soggetti diversamente abili) è nata proprio dalla

sempre crescente esigenza di modellare discipline distinte per gruppi di soggetti

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omogenei ed accordare una maggiore tutela a coloro che sul lavoro presentano

impedimenti gravi.

Il pregio della nuova legge è, quindi, quello di rivolgersi solo alle persone con

disabilità, considerando tutte le varie forme di difficoltà/svantaggio fisico e/o

mentale, e di sostituire il concetto di invalido civile con una definizione

omnicomprensiva che raggruppi tutti coloro che in età lavorativa presentino

minorazioni fisiche, psichiche, intellettive e sensoriali che a vario titolo comportino

una riduzione della capacità lavorativa; il tutto in linea con i principi normativi

presenti a livello internazionale e comunitario.

Allo stato attuale, di conseguenza, appare chiaro come le modifiche apportate dal

nuovo impianto normativo abbiano allo stesso tempo confermato e modificato il

diritto di essere protetti nell'ambito del collocamento per i soggetti diversamente

abili, creando, al riguardo, una netta distinzione a seconda che il soggetto sia

portatore di una patologia/menomazione, o che per altre motivazioni sia comunque

meritevole di una protezione normativa

La disabilità, pertanto, non è caratteristica o attributo di un individuo. ma

piuttosto una complessa interazione di condizioni, molte delle quali determinate

dall'ambiente, largamente influenzate dagli atteggiamenti e dai comportamenti

sociali e condizionate dalle limitazioni create dal contesto umano.

L'orizzonte di riferimento è dunque il soggetto disabile ed il contesto lavorativo.

La L. 12 marzo 1999 n. 68 si riferisce anche ai portatori di disabilità intellettiva.

Le persone con disabilità, comunque, possono essere ricomprese nella categoria

dei soggetti svantaggiati: la legge n. 104/1992, infatti, considera tutti i portatori di

handicap come soggetti che a causa della loro minorazione riscontrano difficoltà di

apprendimento o di relazione tali da determinare un processo di svantaggio sociale e

di emarginazione.

Si può infatti affermare, che il lavoro rappresenta per ogni essere umano il

significato della propria vita sociale e relazionale. È. quindi, necessario che l'elemento

fondamentale di tutte le normative statuali moderne sia la tutela e la promozione del

lavoro in linea con gli altri basilari principi di tutela, di promozione e di rispetto della

persona.

Le diverse forme di tutela hanno, comunque. un loro comune denominatore:

assicurare ai soggetti con disabilità condizioni di vita dignitose, educazione e -

laddove sia possibile - inserimento lavorativo.

2.3.4L’impianto della Legge 68/99 ed il collocamento mirato

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La Legge n. 68 del 1999 ha esteso su tutto il territorio nazionale la metodologia

del "collocamento mirato", già operativa prima della nuova legge con grande

successo in molte regioni italiane. Questo nuovo approccio, attorno al quale ruota

ogni disposizione della legge, parte dalla consapevolezza che ad una disabilità fisica,

psichica e/o sensoriale non corrisponde sempre e comunque una riduzione delle

capacità lavorative. Infatti, è attraverso una "serie di strumenti tecnici e di supporto

che permettono di valutare adeguatamente le persone con disabilità nelle loro

capacità lavorative e di inserirle nel posto di lavoro adatto, attraverso analisi dei

posti di lavoro, forme di sostegno, azioni positive e soluzione di problemi connessi

con gli ambienti, gli strumenti e le relazioni interpersonali sui luoghi quotidiani di

lavoro e di relazione" (art. 2) che lo spirito della norma si propone di “inserire la

persona disabile giusta al posto di lavoro adatto” (come ribadito nelle numerose

riunioni per la stesura del testo normativo tenutesi presso il Ministero del Lavoro).

La ratio della norma auspica la creazione di un approccio che permetta di

integrare nel mondo del lavoro persone diversamente abili agli stessi livelli di

produttività degli altri lavoratori ove ne ricorrano le condizioni e siano presenti

prerequisiti specifici da entrambe le parti.

Il tema può essere affrontato per ogni ambito lavorativo e/o produttivo compreso

quello agricolo: sarà buona prassi procedere, quindi, ad un’attenta analisi delle

competenze e potenzialità del soggetto da inserire tenuto conto specificatamente dei

carichi fisici, dello stress legato alla variabilità costante delle mansioni o delle

condizioni atmosferiche, della ripetitività o meno di alcune azioni.

2.3.5 Soggetti beneficiari

I beneficiari della legge (art. 1 e 18) sono le persone disoccupate di seguito

elencate:

• persone affette da disabilità fisiche e/o psichiche con una riduzione della

capacità lavorativa superiore al 45%;

• persone invalide del lavoro con grado di invalidità superiore al 33%;

• persone non vedenti (colpiti da cecità assoluta o con un residuo visivo non

superiore ad un decimo ad entrambi gli occhi, con eventuale correzione) o sorde

(colpite da sordità dalla nascita o prima dell'apprendimento della lingua parlata);

• persone invalide di guerra, invalide civili di guerra e di servizio;

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• vedove, orfani, e profughi ed equiparati ad orfani, nonché i soggetti

individuati dalla L.407 del 1998 (vittime del terrorismo e della criminalità

organizzata).

La Circ. Min. Lav. n. 4 del 2000 precisa che al suddetto elenco devono essere

aggiunti coloro che sono rimasti permanentemente inabili (a prescindere dalla

percentuale) in seguito a fatti di terrorismo e della criminalità organizzata, oltre ai

figli, ai coniugi ed ai fratelli conviventi e a carico: in base all'art. 1, comma 2, legge

407/1998 essi godono del diritto al collocamento obbligatorio con precedenza

rispetto ad ogni altra categoria e con preferenza o parità di titoli.

In attesa di una disposizione organica che regolamenti specificatamente chi si

trova in particolari situazioni di svantaggio sociale viene, inoltre, attribuita una quota

di riserva aggiuntiva pari al 1 % - da calcolarsi sul numero di dipendenti dei datori di

lavoro pubblici e privati che occupano più di cinquanta dipendenti - in favore: degli

orfani e dei coniugi superstiti di coloro che sono deceduti per cause di lavoro, di

guerra o di servizio; degli orfani e dei coniugi dei soggetti riconosciuti grandi invalidi

per cause di guerra , di servizi e di lavoro e dei profughi italiani rimpatriati. Tale

quota è pari ad un'unità per i datori pubblici e privati che occupano da 51 a 150

dipendenti.

2.3.6 Datori di lavoro e quote di riserva

La quota d'obbligo di assunzione per le aziende pubbliche e private è scaglionata

a seconda del numero di addetti; la quota d'obbligo è stata abbassata (dal 15% al

7%) rispetto alla legislazione precedente, estendendola ad un numero maggiore di

datori di lavoro (l'obbligo di assunzione, infatti, riguarda aziende che hanno inseriti

stabilmente almeno 15 dipendenti invece dei 35 della legislazione precedente).

Le quote di riserva sono modulate dall'art. 3 della legge n.68/99 secondo l'entità

dimensionale del datore di lavoro, cui deve aggiungersi, almeno in via transitoria ed

in attesa della riforma della materia, la quota spettante agli orfani, ai coniugi

superstiti ed alle categorie equiparate, come individuate dall'art.18 comma 2 della

legge:

Numero di Quota d'obbligo d'assunzione

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35

addetti

15 - 35 dipendenti un lavoratore disabile

36 - 50 dipendenti due lavoratori disabili

Più di 50 dipendenti 7% di lavoratori disabili

Più di 50 dipendenti 1% vedove, orfani, e profughi

Per i datori di lavoro privati che occupano da 15 a 35 dipendenti l'obbligo di

assunzione si applica solo in caso di nuove assunzioni.

In tal caso i datori di lavoro hanno dodici mesi di tempo per ottemperare

all'obbligo di assunzione a partire dalla data in cui si effettua la predetta assunzione.

I datori di lavoro privati possono essere autorizzati, su loro motivata richiesta, ad

assumere in una unità produttiva un numero di lavoratori aventi diritto al

collocamento obbligatorio superiore a quello prescritto, portando le eccedenze a

compenso del minor numero di lavoratori assunti in altre unità.

Qualora la richiesta di compensazione territoriale interessi unità provinciali

ubicate in regioni diverse la competenza al rilascio del provvedimento autorizzativo

spetta al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali (Direzione Generale per

l'Impiego).

Il rilascio, altrimenti, del provvedimento autorizzativo per le richieste riguardanti

unità produttive situate in province della medesima regione rientra nella competenza

del servizio provinciale del territorio ove il datore di lavoro ha la sede legale.

La partecipazione (art. 17), da parte di imprese pubbliche o private, a bandi per

appalti pubblici o a rapporti convenzionali o di concessione con pubbliche

amministrazioni è subordinata alla dichiarazione di adempimento delle norme che

disciplinano il diritto al lavoro dei disabili.

Le aziende interessate in sede di partecipazione al bando di gara o alla

convenzione ovvero alla concessione incorrono nell’obbligo di presentare apposita

certificazione rilasciata dai competenti Servizi Provinciali dalla quale risulti

l'ottemperanza alle norme della Legge 68/99, pena l'esclusione dalla stessa gara o

convenzione o concessione.

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2.3.7 Base di computo. Esclusioni ed esoneri

Per i datori di lavoro pubblici e privati che operano in settori con caratteristiche di

pericolosità elevata o particolare, quindi nel settore del trasporto pubblico aereo,

marittimo e terrestre e per gli impianti su fune, sono previste esclusioni dall'obbligo

di assunzioni di lavoratori disabili per il personale viaggiante, navigante e

direttamente adibito alle aree operative di esercizio e regolarità dell'attività di

trasporto.

Sono esclusi dalla base di computo per la determinazione della quota di riserva i

lavoratori occupati ai sensi della presente legge ovvero con contratto a tempo

determinato di durata non superiore a nove mesi, i soci di cooperative di produzione

e lavoro, nonché i dirigenti, altresì i lavoratori assunti con contratto di formazione e

lavoro, con contratto di apprendistato, con contratto di reinserimento, con contratto

di lavoro temporaneo presso l'impresa utilizzatrice, e con contratto di lavoro a

domicilio, così come i lavoratori assunti per attività lavorativa da svolgersi

esclusivamente all'estero.

Parimenti non sono computabili gli orfani ed i coniugi superstiti di coloro che

siano deceduti per causa di lavoro, di guerra o di servizio, ovvero in conseguenza

dell'aggravarsi dell'invalidità riportata per tali cause, nonché i coniugi ed i figli di

soggetti riconosciuti grandi invalidi per causa di guerra, di servizio e di lavoro ed i

profughi italiani rimpatriati. Egualmente sono esclusi dal computo i lavoratori

divenuti inabili allo svolgimento delle proprie mansioni per infortunio o malattia che

abbiano subito una riduzione della capacità lavorativa in misura pari o superiore al

sessanta per cento, a meno che l'inabilità non sia stata determinata da violazione, da

parte del datore di lavoro pubblico o privato delle norme in materia di sicurezza ed

igiene del lavoro. Sono altresì esclusi dalla base di computo, i lavoratori divenuti

disabili successivamente all'assunzione per infortunio sul lavoro o malattia

professionale, qualora abbiano acquisito un grado di invalidità superiore al 33%.

Per i partiti politici, le organizzazioni sindacali, gli Istituti pubblici di Assistenza e

Beneficenza (IPAB) e le organizzazioni che, senza scopo di lucro, operano nel campo

della solidarietà sociale, dell'assistenza e della riabilitazione, la quota di riserva si

computa esclusivamente con riferimento al personale tecnico-esecutivo e svolgente

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funzioni amministrative e l'obbligo di assunzione insorge solo in caso di nuova

assunzione.

I datori di lavoro privati e gli enti pubblici economici che, per le speciali condizioni

della loro attività, non possono occupare l'intera percentuale dei disabili, possono

richiedere, dietro presentazione di una relazione che palesi un’adeguata motivazione,

agli uffici provinciali per l'inserimento lavorativo dei lavoratori disabili competenti per

territorio, di essere parzialmente esonerati dall'obbligo dell'assunzione.

Il Servizio provinciale può autorizzare l'esonero parziale fino alla misura

percentuale massima del 60% della quota di riserva, percentuale che può essere

aumentata fino all'80 per cento per i datori di lavoro che operano nel settore della

sicurezza e vigilanza e nel settore del trasporto privato.

Le motivazioni a sostegno della richiesta di esonero parziale devono evidenziare

almeno una delle seguenti caratteristiche delle attività lavorative della ditta: a)

faticosità della prestazione lavorativa richiesta; b) pericolosità connaturata al tipo di

attività, anche derivante da condizioni ambientali nelle quali si svolge l'attività

stessa; c) particolare modalità di svolgimento dell'attività lavorativa.

L'autorizzazione all'esonero parziale, concessa per un periodo di tempo

determinato, viene rilasciata in presenza di almeno una delle caratteristiche

suindicate ed in assenza di mansioni compatibili con le condizioni di disabilità e con le

capacità lavorative degli aventi diritto. In caso di autorizzazione all'esonero parziale

dall'obbligo di assunzione le aziende devono versare al Fondo regionale per

l'occupazione dei disabili un contributo esonerativo per ciascuna unità non assunta,

per ogni giorno lavorativo per ciascun lavoratore disabile non occupato.

In caso di mancato o inesatto versamento del contributo esonerativo il servizio

provvede a diffidare il datore di lavoro inadempiente e, nel caso di perseveranza

nell'inadempienza, trasmette le relative comunicazioni al servizio ispettivo della

direzione provinciale del lavoro competente per territorio, che provvede alla notifica

all'interessato, del verbale contravvenzionale.

Qualora il datore di lavoro non ottemperi al pagamento delle sanzioni

amministrative il servizio dichiara, con apposito provvedimento, la decadenza

dall'esonero parziale.

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2.3.8 Servizi per l'impiego, comitati tecnici

Le competenze del collocamento in generale, e quindi anche del collocamento

obbligatorio per le persone diversamente abili, sono state trasferite dal Ministero del

Lavoro alle Regioni ed alle Province (D.Lgs.469/97).

La legge 68/99 prevede l'istituzione a livello regionale e provinciale dei servizi per

l'inserimento lavorativo dei lavoratori disabili che provvedono, in raccordo con i

servizi sociali, sanitari, educativi e formativi del territorio, secondo le specifiche

competenze loro attribuite, alla programmazione, all'attuazione, alla verifica degli

interventi volti a favorire l'inserimento lavorativo dei soggetti beneficiari della legge

68/99.

I servizi per l'inserimento lavorativo dei lavoratori disabili curano l'avviamento

lavorativo, la tenuta delle graduatorie dei beneficiari della legge 68/99, il rilascio

delle autorizzazioni relative agli esoneri parziali e alle compensazioni territoriali, la

stipula delle convenzioni e l'attuazione del collocamento mirato.

Attualmente si denota ancora, purtroppo, una minore incisività delle azioni volte

a favorire l’ingresso delle persone con disabilità nelle aziende agricole soprattutto per

l’assenza, a tutt’oggi, di operatori in grado di poter supportare tali percorsi di

inserimento lavorativo e di una cultura tale, sia nei datori di lavoro che nei servizi di

collocamento, da potere valorizzare le potenzialità fornite dall’impiego di manodopera

diversamente abile in questo ambito di operatività.

Le Regioni sono dotate di competenza specifica in materia di politica attiva del

lavoro ed in maniera particolare per:

a) programmazione e coordinamento di iniziative volte ad incrementare

l'occupazione e ad incentivare l'incontro tra domanda e offerta di lavoro anche con

riferimento all'occupazione femminile;

b) collaborazione alla elaborazione di progetti relativi all'occupazione di soggetti

tossicodipendenti ed ex detenuti;

c) programmazione e coordinamento di iniziative volte a favorire l'occupazione

degli iscritti alle liste di collocamento con particolare riferimento ai soggetti

destinatari di riserva di cui all'articolo 25 della L. 223/91;

d) programmazione e coordinamento delle iniziative finalizzate al reimpiego dei

lavoratori posti in mobilità e all'inserimento lavorativo di categorie svantaggiate;

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e) indirizzo, programmazione e verifica dei tirocini formativi e di orientamento e

borse di lavoro;

f) indirizzo, programmazione e verifica dei lavori socialmente utili ai sensi delle

normative in materia;

g) compilazione e tenuta della lista di mobilità dei lavoratori previa analisi

tecnica.

A livello regionale, anche attraverso le Commissioni regionali per l'impiego, le

Regioni definiscono e coordinano le politiche per favorire la crescita dell'occupazione,

anche dei lavoratori disabili, nominando anche apposite sub-commissioni competenti

per il collocamento mirato.

La competenza del collocamento è stata affidata alle Province.

I servizi per l'impiego provinciali si avvalgono di un Ufficio provinciale per

l'inserimento lavorativo dei lavoratori disabili (art. 6), a cui fanno riferimento specifici

servizi tecnici denominati comitati tecnici (uno o più "comitati tecnici" presenti in

numero differente secondo le risorse ed esigenze delle singole province).

I comitati tecnici, composti da funzionari ed esperti del settore sociale e medico-

legale, coadiuvati da una commissione tripartita della quale fanno parte sindacati ed

associazioni di persone disabili, operano sulla base del profilo socio-lavorativo e la

diagnosi funzionale elaborati dalla commissione di accertamento della L 104/92

presso le ASL (art. 1 e DPCM del 13.1.2000), ed in raccordo con i servizi territoriali

per aggiornare le informazioni utili ai fini della definizione di un progetto

individualizzato per ogni persona iscritta alle liste del collocamento provinciale.

Il comitato tecnico, d’altronde, così come composto attualmente, ha insito un

deficit strutturale per la presenza di operatori per lo più con professionalità mediche

e sociali senza, però, avere la possibilità di una composizione diversa ed adeguata

alle esigenze del singolo lavoratore in esame per la specificità della patologia; il

rischio è quello di applicare una stessa metodologia di inserimento a situazioni le più

diverse tra loro non riuscendo, quindi, nell’intento di un’applicazione corretta dello

strumento legislativo oggettivato nel “collocamento mirato”.

Il Comitato tecnico ha le seguenti funzioni:

a) valuta le capacità e potenzialità lavorative dei lavoratori disabili, anche

sulla base degli opportuni accertamenti;

b) definisce gli strumenti atti all'inserimento lavorativo ed al collocamento

mirato;

c) predispone un piano di sostegno e tutoraggio all'inserimento lavorativo, in

raccordo con i servizi competenti;

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d) orienta i lavoratori disabili verso formazioni o aggiornamenti professionali

utili;

e) orienta i datori di lavoro sulle opportunità e le metodologie per

l'inserimento lavorativo di lavoratori disabili in azienda;

f) predispone, in raccordo con la commissione di accertamento di cui al

DPCM 13.1.2000, i controlli sui luoghi di lavoro sull'andamento degli inserimenti

lavorativi in rispondenza agli obiettivi del collocamento mirato, aventi per finalità la

verifica della permanenza dello stato invalidante e delle capacità già accertate

nonché la validità dei servizi di sostegno e di collocamento mirato;

g) collabora alla raccolta di informazioni per la formulazione del profilo socio-

lavorativo della commissione di accertamento di cui al DPCM 13.1.2000

h) collabora alla stesura dei programmi di formazione e di riqualificazione

professionale dei lavoratori disabili.

Tale sommatoria di attività in ambito agricolo ha trovato finora scarse

applicazioni per il fatto che difficilmente le aziende superano la soglia dei 15

dipendenti e per il fatto che molte ritrosie ancora vigono sulla effettiva produttività di

tali soggetti in agricoltura.

2.3.9 Modalità di assunzione

Per poter accedere ai benefici della Legge n.68/99, le persone con disabilità in

possesso dello stato di disoccupazione devono iscriversi nell'apposito elenco tenuto

dagli uffici competenti del collocamento obbligatorio e, le stesse,vengono inserite in

una graduatoria unica sulla base del punteggio risultante dagli elementi e dai criteri

stabiliti dalle regioni e dalle province.

I datori di lavoro devono presentare agli uffici competenti la richiesta di

assunzione entro 60 giorni dal momento dell'obbligo di assunzione dei lavoratori

disabili; la richiesta può essere presentata anche attraverso i prospetti informativi

inviati periodicamente agli uffici competenti (art. 9).

I datori di lavoro procedono alle richieste di assunzione attraverso chiamata

numerica e chiamata nominativa (art. 7).

La legge prevede che le aziende obbligate possano usufruire in sede di richiesta

di assunzione di diversi tipi di chiamata secondo il seguente prospetto:

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Aziende Chiamata nominativa Chiamata numerica

Da 15 a 35 dipendenti 1 lavoratore disabile

Da 36 a 50 dipendenti 1 lavoratore disabile 1 lavoratore disabile

Oltre 50 dipendenti 60% dipendenti disabili 40% dipendent i

disabili

Inoltre, nel caso il lavoratore necessiti di un particolare percorso di sostegno

all'inserimento lavorativo, le aziende possono richiedere agli uffici provinciali del

collocamento obbligatorio di stipulare apposite convenzioni. In tal caso l'azienda fa

richiesta di assunzione attraverso chiamata nominativa.

La procedura delle convenzioni consente di accedere alle agevolazioni previste

dalla legge.

Per i lavoratori con disabilità psichica la richiesta di assunzione è sempre

nominativa e viene disciplinata sempre da una convenzione.

I lavoratori che divengono inabili allo svolgimento delle proprie mansioni (art. 4)

in conseguenza di infortunio o malattia, si ricorda, non possono essere computati

nella quota di riserva obbligatoria se hanno subito una riduzione della capacità

lavorativa inferiore al 60 per cento o, comunque, se sono divenuti inabili a causa

dell'inadempimento da parte del datore di lavoro, accertato in sede giurisdizionale,

delle norme in materia di sicurezza ed igiene del lavoro.

Per i predetti lavoratori l'infortunio o la malattia non costituiscono giustificato

motivo di licenziamento nel caso in cui essi possano essere adibiti a mansioni

equivalenti ovvero, in mancanza, a mansioni inferiori. Nel caso di destinazione a

mansioni inferiori essi hanno diritto alla conservazione del trattamento economico più

favorevole legato alle mansioni di provenienza. Qualora per i predetti lavoratori non

sia possibile l'assegnazione a mansioni equivalenti o inferiori, gli stessi vengono

avviati, dai servizi per l'inserimento lavorativo di lavoratori disabili competenti per

territorio, presso altra azienda, in attività compatibili con le residue capacità

lavorative.

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2.3.10 Rapporto di lavoro con i lavoratori disabili

Ai lavoratori assunti a norma della legge 68/99 (art. 10) si applica il trattamento

economico e normativo previsto dalle leggi e dai contratti collettivi, come per tutti gli

altri lavoratori.

Il datore di lavoro non può chiedere al disabile una prestazione non compatibile

con le sue diverse abilità.

Nel caso di aggravamento delle condizioni di salute o di significative variazioni

dell'organizzazione del lavoro, il disabile può chiedere che venga accertata la

compatibilità delle mansioni a lui affidate con il proprio stato di salute.

Nelle medesime ipotesi il datore di lavoro può chiedere che vengano accertate le

condizioni di salute del disabile per verificare se, a causa delle sue difficoltà, possa

continuare ad essere utilizzato presso l'azienda. Qualora si riscontri una condizione di

aggravamento che, sia incompatibile con la prosecuzione dell'attività lavorativa, o

tale incompatibilità sia accertata con riferimento alla variazione dell'organizzazione

del lavoro, il disabile ha diritto alla sospensione non retribuita del rapporto di lavoro

fino a che l'incompatibilità persista.

Durante tale periodo il lavoratore può essere impiegato in tirocinio formativo.

La richiesta di accertamento e il periodo necessario per il suo compimento non

costituiscono causa di sospensione del rapporto di lavoro.

Il rapporto di lavoro può essere risolto nel caso in cui, d’altronde, anche attuando

i possibili adattamenti dell'organizzazione del lavoro, la predetta commissione accerti

la definitiva impossibilità di reinserire il disabile all'interno dell'azienda nonostante

l’applicazione del principio di “massima fattibilità” sia dal punto di vista architettonico

che di analisi dell’organizzazione del lavoro e della struttura aziendale.

Il recesso di cui all'articolo 4, comma 9, della legge 23 luglio 1991, n. 223,

ovvero il licenziamento per riduzione di personale o per giustificato motivo oggettivo,

esercitato nei confronti del lavoratore occupato obbligatoriamente, sono annullabili

qualora, nel momento della cessazione del rapporto, il numero dei rimanenti

lavoratori occupati obbligatoriamente sia inferiore alla quota di riserva prevista

all'articolo 3 della legge in questione.

In caso di risoluzione del rapporto di lavoro, il datore di lavoro è tenuto a darne

comunicazione, nel termine di dieci giorni, agli uffici competenti, al fine della

sostituzione del lavoratore con altro avente diritto all'avviamento obbligatorio.

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La direzione provinciale del lavoro, sentiti gli uffici competenti, dispone la

decadenza dal diritto all'indennità di disoccupazione ordinaria e la cancellazione dalle

liste di collocamento per un periodo di sei mesi del lavoratore che per due volte

consecutive, senza giustificato motivo, non risponda alla convocazione ovvero rifiuti il

posto di lavoro offerto corrispondente ai suoi requisiti professionali e alle disponibilità

dichiarate all'atto della iscrizione o reiscrizione nelle predette liste.

2.3.11 Convenzioni

Per favorire il raccordo tra le esigenze delle aziende e quelle dei lavoratori disabili

sono previste apposite convenzioni (artt. 11 e 12 e linee programmatiche per la

stipula delle convenzioni del 2.3.2001).

Attraverso le convenzioni, sottoscritte dalle parti interessate (lavoratori, datori di

lavoro, uffici provinciali per l'inserimento lavorativo dei lavoratori disabili e enti che

possono favorire l'integrazione lavorativa) è possibile definire un programma

personalizzato di interventi, per risolvere nella maniera più efficace gli ostacoli che si

incontrano nell'inserimento sui luoghi di lavoro.

Le convenzioni perseguono l'obiettivo prioritario di assicurare il più possibile la

stabilizzazione, seppure progressiva, del rapporto di lavoro.

In agricoltura si è sviluppata in maniera preponderante l’idea delle convenzioni

per l’inserimento di lavoratori diversamente abili con disabilità psichiche più o meno

gravi ma pochi, ad esempio, sono i programmi strutturati per l’inserimento lavorativo

di soggetti con disabilità motoria probabilmente perché ritenuto un ambito ove

possano difficilmente superarsi le barriere date dalla tipologie degli attrezzi di lavoro

e delle strumentazioni.

In questo settore, peraltro, vi è da segnalare come imprenditori agricoli divenuti

a loro volta disabili, per infortunio sul lavoro, siano riusciti nell’intento di modificare,

anche con accorgimenti sostanziali, le postazioni di lavoro o gli attrezzi.

Note marche produttrici di macchine trattrici sono riuscite, infatti, ad applicare i

sistemi di guida adattati a diverse difficoltà.

Da queste esperienze si potrebbe cogliere l’avvio per una sperimentazione più

ampia delle opportunità offerte dall’agricoltura.

Tornando al discorso delle convenzioni vi è da segnalare che ne esistono di tre

tipi:

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a) convenzioni ordinarie, che prevedono la determinazione di un programma

per favorire un efficace inserimento lavorativo senza accedere alle agevolazioni

previste dalla legge (art. 11 comma 1 e 2)

b) convenzioni di integrazione lavorativa per l'avviamento di lavoratori

disabili che presentino particolari caratteristiche e difficoltà di inserimento nel ciclo

lavorativo ordinario, che permettono di accedere alle agevolazioni previste dalla

legge (art. 11 comma 4)

c) convenzioni con cooperative sociali o liberi professionisti, che

permettono di identificare un percorso formativo personalizzato per lavoratori non in

grado di accedere direttamente al mercato del lavoro aperto.

I primi due tipi di convenzione (art. 11) sono stipulati tra uffici provinciali per

l'inserimento lavorativo di lavoratori disabili, imprese pubbliche e private e lavoratori

disabili.

Esse possono essere attivate qualora si valuti che il lavoratore richieda particolari

interventi di sostegno per favorire il suo inserimento lavorativo e rimuovere gli

ostacoli che si presentano in azienda.

I contenuti della convenzione vengono stabiliti anche sulla base di una

valutazione tecnica della struttura preposta agli interventi del collocamento mirato

(cioè del comitato tecnico che lavora all'interno dei Comitati provinciali per

l'impiego), che ha competenza nel valutare il tipo di sostegno da mettere in campo in

modo da rispondere alle esigenze dell'azienda e del lavoratore disabile.

I lavoratori disabili psichici vengono avviati su richiesta nominativa solo mediante

le convenzioni.

Secondo la legge le convenzioni devono indicare:

- le generalità dei contraenti e responsabili;

- i tempi e modalità delle assunzioni;

- le mansioni a cui adibire le persone non diversamente abili e le modalità di

svolgimento;

- i piani personalizzati su cui misurare l'efficacia degli interventi del collocamento

mirato;

- gli interventi di mediazione da mettere in atto e rispettive competenze ed

impegni finanziari;

- le forme di sostegno, di consulenza e di tutoraggio da parte degli appositi

servizi;

- le modalità e le procedure per le verifiche periodiche;

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- gli eventuali accordi con enti pubblici e privati ed i rispettivi impegni di risorse e

di scadenze.

E', vieppiù, possibile una ulteriore personalizzazione delle convenzioni sulla base

di specifiche esigenze motivate e verificate.

La legge infatti prevede che "tra le modalità che possono essere convenute vi

sono anche la facoltà della scelta nominativa, lo svolgimento di tirocini con finalità

formative o di orientamento, l'assunzione con contratto di lavoro a termine, lo

svolgimento di periodi di prova più ampi di quelli previsti dal contratto collettivo,

purché l'esito negativo della prova, qualora sia riferibile alla menomazione da cui è

affetto il soggetto, non costituisca motivo di risoluzione del rapporto di lavoro".

Il comitato tecnico, per "specifici progetti di inserimento mirato", "può proporre -

a seguito di richiesta - l'adozione di deroghe ai limiti di età e di durata dei contratti di

formazione-lavoro e di apprendistato" da inserire nelle convenzioni.

Le assunzioni previste nella convenzione possono essere programmate secondo

scansione temporale predefinita, nel corso dell'intero periodo di validità delle

convenzioni, anche indicando il numero percentuale degli avviamenti previsti per

ciascun periodo di riferimento.

Le convenzioni possono essere stipulate anche da aziende non soggette

all'obbligo di assunzione, cioè con meno di 15 dipendenti: in tal caso le aziende

contraenti possono usufruire delle agevolazioni previste dalla legge.

Gli uffici provinciali per l'inserimento lavorativo dei lavoratori disabili possono

stipulare un terzo tipo di convenzione (art. 12) con i datori di lavoro privati soggetti

all'obbligo di assunzione e con le cooperative sociali di cui alla legge 8 novembre

1991, n. 381, e con i disabili liberi professionisti, anche se operanti con ditta

individuale.

Tali convenzioni sono finalizzate all'inserimento temporaneo dei lavoratori disabili

presso le cooperative sociali stesse, ovvero presso i citati liberi professionisti, ai quali

i datori di lavoro si impegnano ad affidare commesse di lavoro.

Questa convenzione viene attivata solo in presenza di una accertata difficoltà ad

inserire il lavoratore disabile direttamente in azienda, perché si valuta che abbia

bisogno di interventi formativi propedeutici all'inserimento lavorativo vero e proprio.

Si tratta, pertanto, di casi in cui si valuta che il lavoratore presenti disabilità di

base che non gli permettano di svolgere autonomamente attività necessarie ed

indispensabili all'autonomia personale (mancanza di abilità nell'igiene personale,

nell'orientamento, etc.) e/o all'assegnazione di una mansione (difficoltà agli

apprendimenti in situazione, difficoltà di concentrazione, orientamento delle abilità

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manuali, etc.). In questo caso, dietro parere motivato del comitato tecnico del

collocamento mirato, si identifica un percorso formativo propedeutico al lavoro che

viene svolto in una cooperativa sociale (o presso disabili liberi professionisti, anche

se operanti con ditta individuale) che sia in condizione di realizzare questo percorso

formativo.

La stipula della convenzione impegna la cooperativa sociale identificata ad

accogliere il lavoratore disabile per un periodo di 12 mesi prorogabile di ulteriori 12

mesi da parte dei competenti servizi provinciali.

La legge prevede espressamente che la convenzione sia subordinata alla

sussistenza dei seguenti requisiti:

a) contestuale assunzione a tempo indeterminato del disabile da parte del datore

di lavoro;

b) copertura dell'aliquota d'obbligo da parte dell'azienda;

c) impiego del disabile presso la cooperativa sociale ovvero presso il libero

professionista, con oneri retributivi, previdenziali e assistenziali a carico di questi

ultimi, per tutta la durata della convenzione;

L’indicazione nella convenzione dei seguenti elementi è necessaria:

1) l'ammontare delle commesse che il datore di lavoro si impegna ad affidare alla

cooperativa ovvero al libero professionista; tale ammontare non deve essere

inferiore a quello che consente alla cooperativa stessa ovvero al libero professionista

di applicare la parte normativa e retributiva dei contratti collettivi nazionali di lavoro,

ivi compresi gli oneri previdenziali e assistenziali, e di svolgere le funzioni finalizzate

all'inserimento lavorativo dei disabili;

2) i nominativi dei soggetti da inserire;

3) l'indicazione del percorso formativo personalizzato.

Tali convenzioni, non ripetibili per lo stesso soggetto, non possono riguardare più

di un lavoratore disabile, se il datore di lavoro occupa meno di 50 dipendenti, ovvero

più del 30 per cento dei lavoratori disabili da assumere ai sensi dell'articolo 3 della

L.68/99 se il datore di lavoro occupa più di 50 dipendenti.

Gli uffici provinciali per l'inserimento lavorativo dei lavoratori disabili, infine,

possono stipulare con i datori di lavoro privati soggetti agli obblighi e con le

cooperative sociali apposite convenzioni finalizzate all'inserimento lavorativo

temporaneo dei detenuti disabili.

Durante il periodo di vigenza della convenzione, i servizi competenti non

procedono ad avviamenti d'ufficio (numerico) ai sensi della normativa in materia di

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assunzioni obbligatorie, per le unità lavorative dedotte in convenzione e per l'intera

durata del programma.

In caso di mancato adempimento degli obblighi assunti in convenzione per fatto

imputabile al datore di lavoro, il servizio medesimo procede all'avviamento per le

unità lavorative corrispondenti secondo le modalità ordinarie di cui alla legge n. 68

del 1999.

Tra le maglie di tale dettato normativo si ritiene possa esserci spazio per azioni

volte ad una maggiore presenza delle parti portatrici di interessi in agricoltura

affinché si possano sviluppare sinergie orientate ad una effettiva, stabile e duratura

presenza del soggetto portatore di disabilità all’interno delle aziende agricole.

Allo stato odierno permane un coinvolgimento vocazionale delle ASL e poco

partecipativo da parte di altri interlocutori seppur necessariamente coinvolti nella

rappresentanza degli agricoltori.

2.3.12 Tirocini formativi e di orientamento (Art.18 Legge 196/97 – D.M. 25/03/98, n.

142 – D.M. 22/01/01)

I tirocini possono essere una interessante opportunità per agevolare le scelte

professionali mediante la conoscenza diretta del mondo del lavoro e per realizzare

momenti di alternanza tra studio e lavoro. Per le aziende rappresentano sicuramente

uno strumento che facilita la preselezione del personale senza peraltro comportare

obblighi di assunzione.

Al termine del tirocinio, l'Azienda è tenuta a certificare l'esperienza svolta.

Tali percorsi trovano l’esplicazione della loro realizzazione nella collaborazione

costante tra le ASL competenti e le cooperative sociali.

Attualmente, in tale senso, si registra un sensibile allargamento dei soggetti

coinvolti in agricoltura: difatti, si registra un avvio di richieste da parte di aziende

agricole, senza connotazione giuridica della cooperazione, per l’inserimento nella

struttura di persone con disabilità nonostante, preme sottolinearlo, non incorrano

nell’obbligo dell’assunzione e, spesso, non siano di grandi dimensioni.

2.3.12.1 Beneficiari

Persone che abbiano già assolto l'obbligo scolastico.

Il tirocinio non si configura come rapporto di lavoro e quindi non comporta la

cancellazione dalle liste di collocamento.

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Durata massima del tirocinio:

- 4 mesi, per studenti che frequentano la scuola secondaria

- 6 mesi, per inoccupati o disoccupati, inclusi lavoratori in mobilità

- 6 mesi, per allievi di istituti professionali di Stato, di corsi di formazione

professionale, di attività formative post-diploma o post-laurea, anche nei 18 mesi

successivi al termine degli studi

- 12 mesi, per studenti universitari, studenti che frequentano corsi di diploma

universitario, dottorati di ricerca o corsi di perfezionamento e specializzazione post-

secondari anche non universitari, anche nei 18 mesi successivi al termine degli studi

- 12 mesi, per persone svantaggiate (Legge 381/91)

- 12 mesi, per laureati da non più di 18 mesi

- 24 mesi, per soggetti portatori di disabilità

Modalità di esecuzione

Il tirocinio è un rapporto triangolare tra:

• Tirocinante,

• Azienda ospitante: pubblica o privata,

• Ente promotore: Università, Scuole, Enti di Formazione, Centri per

l’Impiego, Comunità terapeutiche, Servizi di inserimento lavorativo per disabili,

Cooperative sociali.

L'Ente Promotore stipula con l'Azienda una convenzione dove vengono esplicitate

le modalità di svolgimento del tirocinio (luogo e mansioni da svolgere, durata, nomi

dei responsabili); la convenzione deve essere corredata da un progetto formativo e

di orientamento concordato dall'azienda e dal tirocinante.

Copia di tale convenzione deve essere trasmessa alla Regione, alla struttura

territoriale del Ministero del Lavoro competente in materia di ispezione e alle

rappresentanze sindacali.

L'Ente Promotore ha funzioni di assistenza e garanzia; il tirocinante deve essere

assicurato presso l'Inail e per la responsabilità civile verso terzi. Sia l'ente promotore

che l'azienda devono indicare un proprio tutor.

2.3.12.2 Costi

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Il tirocinio non costituisce rapporto di lavoro e come tale non è in alcun modo

retribuito.

La copertura INAIL e assicurativa è a carico dell'Ente Promotore.

Qualora l'Ente Promotore sia una struttura pubblica competente in materia di

collocamento, il datore di lavoro può assumersi l'onere dell'assicurazione INAIL.

E' consentito il rimborso al tirocinante di spese documentate (buoni pasto, trasporti,

etc.).

I datori di lavoro possono essere rimborsati degli oneri sostenuti per l'attivazione

dei tirocini attraverso il finanziamento di progetti che prevedano l'inserimento di

giovani del Mezzogiorno presso imprese operanti in Regioni del Centro-Nord.

Si evidenzia che alcune Regioni e Province concedono contributi ai tirocinanti.

Il tutor

I soggetti promotori devono garantire la presenza di un tutor.

Il tutor è il responsabile didattico e organizzativo. Allo stesso compete: il controllo

dei contenuti formativi del tirocinio; il tutoraggio in termini di aiuto, motivazione ed

orientamento ai soggetti avviati; il monitoraggio dell'istituto e la verifica degli esiti.

2.3.12.3 Il responsabile aziendale dell'inserimento dei tirocinanti

Nominato dal soggetto ospitante (Azienda pubblica o privata) ha il compito di:

- seguire il tirocinante nell'area aziendale dove opera e nei momenti formativi;

- contribuire alla stesura del progetto formativo;

- affiancare il tirocinante in azienda;

- illustrare le modalità delle fasi lavorative;

- chiarire le eventuali problematiche che possono emergere durante il tirocinio;

- valutare la prestazione del tirocinante.

Tale figura è il riferimento per il tutor organizzativo didattico che segue i

tirocinanti durante la loro esperienza.

2.3.12.4 Valore dei tirocini

Le attività svolte nel corso di un tirocinio possono avere valore di credito

formativo e, ove certificato dalle strutture promotrici, possono essere riportate nel

curriculum dello studente o del lavoratore ai fini dell'erogazione da parte delle

strutture pubbliche dei servizi per favorire l'incontro tra domanda e offerta di lavoro.

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A chi rivolgersi

• Datore di lavoro: all'Assessorato al Lavoro competente per territorio;

• Lavoratore: al Centro per l'Impiego competente per territorio o

all'Università.

2.3.13 Fondo nazionale e regionale

E' istituito presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali il Fondo per il

diritto al lavoro dei disabili (art. 13), finanziato annualmente attraverso il bilancio

dello Stato. Sulla base dello stato di applicazione della norma e di utilizzo dei fondi

accreditati il fondo ripartisce tra le regioni le sue dotazioni finanziarie.

Le Regioni istituiscono il Fondo regionale per l'occupazione dei disabili (art. 14).

Il fondo è alimentato dai fondi nazionali, dalle sanzioni previste per i datori di

lavoro inadempienti, dalle oblazioni delle aziende esonerate e da contributi di diversa

origine.

Il fondo è gestito da un comitato regionale in cui sono rappresentati sindacati,

imprenditori ed è destinato a finanziare tutte le iniziative di sostegno dei percorsi di

inserimento lavorativo.

In particolare, eroga:

• contributi agli enti che svolgono attività rivolta al sostegno ed

all'integrazione;

• contributi aggiuntivi (rispetto ai rimborsi forfetari);

• ogni altra provvidenza in attuazione di questa legge.

2.3.14 Sanzioni

Le aziende oltre i 15 dipendenti sono obbligate ad inviare annualmente un

prospetto riepilogativo la situazione occupazionale della loro struttura produttiva: gli

inadempienti sono soggetti ad una sanzione amministrativa per ritardato invio,

maggiorata per ogni giorno di ulteriore ritardo.

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Ai responsabili di inadempienze da parte delle pubbliche amministrazioni si

applicano le sanzioni penali, amministrative e disciplinari previste dalle norme sul

pubblico impiego.

Trascorsi sessanta giorni dalla data in cui insorge l'obbligo di assumere lavoratori

disabili, per ogni giorno in cui risulti scoperta la quota dell'obbligo, il datore di lavoro

è tenuto a versare una sanzione amministrativa giornaliera e per ciascun lavoratore

disabile non occupato.

In caso di omissione totale o parziale del versamento dei contributi legati alle

richieste di esonero parziale di assunzione (art. 5), la somma dovuta può essere

maggiorata, a titolo di sanzione amministrativa, dal 5 per cento al 24 per cento su

base annua.

Qualora l'azienda rifiuti l'assunzione del lavoratore disabile, la direzione

provinciale del lavoro redige un verbale che trasmette agli uffici competenti ed

all'autorità giudiziaria.

La partecipazione, da parte di imprese pubbliche o private, a bandi per appalti

pubblici o a rapporti convenzionali o di concessione con pubbliche amministrazioni è

subordinata alla dichiarazione di adempimento delle norme che disciplinano il diritto

al lavoro dei disabili, nonché apposita certificazione rilasciata dagli uffici competenti

dalla quale risulti l'ottemperanza alle norme della presente legge, pena l'esclusione

dalla gara (art. 17).

Il quadro normativo finora prospettato non è sufficientemente idoneo ad

un’analisi successiva degli inserimenti avvenuti dal momento di entrata in vigore

della Legge che è andato a coincidere con l’avvenuto riassetto dei Servizi all’Impiego

e della delega alle Regioni e alle Province in materia.

Vi è da notare come sia scarsamente rappresentativo o pressoché assente il dato

in merito all’inserimento di persone con diversamente abili in ambito agricolo con

stabilità concreta dell’inserimento successivamente all’esito di una convenzione e/o

di un tirocinio.

2.3.15 L'attuale contesto normativo: vincoli ed opportunità

La nostra Carta costituzionale ci vincola, a fronte di specifiche caratteristiche

personalistiche e solidaristiche, a spingere il legislatore a definire nel tempo un

sistema di servizi sociali e sanitari a tutela delle persone e delle famiglie, tenendo

conto del mutare delle condizioni culturali, sociali ed economiche.

La realtà attuale risulta contraddittoria nonostante fosse stata avviata un'ampia

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azione riformatrice a partire dagli Anni '70.

Il suo obiettivo principale era quello di costruire un assetto istituzionale ed

organizzativo dei servizi rispettoso delle autonomie locali ed in grado di favorire un

approccio efficace e globale ai bisogni dei cittadini. Oggi non esistono adeguate

garanzie di piena esigibilità dei diritti né strumenti idonei che ne consentano

l’identificazione sostanziale e permangono forti sperequazioni tra regione e regione.

Non è stato realizzato un sistema integrato di risposte. I soggetti titolari della

gestione dei servizi sono troppo differenziati, a volte in competizione tra loro e si

investe poco per riportare ad unitarietà le politiche sociali.

Le cause e concause possono essere ricercate:

1) nel non completamento del progetto riformatore avviato, approvando una

legge quadro sui servizi sociali;

2) nell'incapacità o involontarietà degli amministratori di utilizzare

correttamente gli strumenti previsti dalle leggi in vigore, ad esempio per attivare

l'associazionismo tra comuni, per la gestione di servizi;

3) nella scelta del legislatore di affidare la gestione delle aziende sanitarie a

direttori generali tecnici.

Il quadro generale risulta particolarmente articolato per la presenza di elementi

frenanti, quali quelli prima sottolineati, nonché di segnali di un vero stravolgimento

positivo.

Le novità possono essere casi sintetizzate:

a) la presenza delle comunità locali oltre allo Stato e al mercato rende più

dinamica la vita sociale, in genere, ed il rapporto tra bisogni e sistema delle risposte,

in particolare;

b) una pubblica amministrazione in grado di percepire la possibilità di effettivi

cambiamenti nella gestione dei servizi ;

c) un’attenzione più puntuale alla differenziazione dei ruoli istituzionali e politici

da quelli prettamente tecnici.

2.4 UN APPROCCIO “RETICOLARE” ALL’INCLUSIONE SOCIALE DEL

SOGGETTO SVANTAGGIATO

Le politiche del lavoro sono passate da una prevalente azione passiva di

protezione del reddito (o l’indennizzazione del soggetto svantaggiato) ad una

stimolazione diretta alla partecipazione dei soggetti nel mercato del lavoro.

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53

In particolare, esse cercano di rispondere ai seguenti requisiti:

a. mirare a promuovere capacità e non ad assegnare beni e risorse;

b. sviluppare capacità, sia specifiche che aspecifiche (o trasversali);

c. analizzare le condizioni soggettive dello svantaggio;

d. implementare politiche del corso della vita;

Occorre arricchire l’agenda delle misure di “welfare” e sostenere il pieno

intreccio tra politiche del lavoro e politiche sociali.

Occorre dunque sottolineare come ci si trovi di fronte al problema del c.d. “disagio

della normalità”, in cui possono essere incluse, tendenzialmente, tutte le fasce di

popolazione, dal momento che esso riguarda forme di malessere non

necessariamente “conclamate” e “tradizionali” (come, ad esempio, l’essere

tossicodipendenti, malati cronici, in stato di forte deprivazione materiale, detenuti,

ecc.), ma che possono colpire soggetti, appunto, normali.

La legge 12/3/1999, n° 68, di “riforma del collocamento obbligatorio” si

caratterizza, in sostanza, per le seguenti linee direttive:

1. la progressiva omogeneizzazione dei circuiti ordinari e speciali di collocamento;

2. la liberalizzazione del “matching” tra domanda ed offerta di lavoro;

3. il riassetto politico-organizzativo della presenza pubblica nel mercato del lavoro,

mediante il decentramento di “funzioni e compiti dello Stato”, secondo i criteri di

sussidiarietà e d’integrazione;

4. un approccio al tema della disabilità di tipo “reticolare”, volto a cercare sinergie

ed interdipendenze tra la funzione pubblica, il mondo dell’impresa profit ed il

mondo dell’economia sociale, con particolare riferimento alla cooperazione sociale

di tipo “B”.

Accanto a tali punti di forza, però, è possibile individuare anche alcune criticità,

ed esattamente:

1. le categorie di cui all’articolo 1 della legge non esauriscono le fasce deboli

potenzialmente includibili (in particolare alla luce del fenomeno del “disagio della

normalità” di cui si è parlato in precedenza, nonché le persone non facilmente

“censibili” (ad esempio le persone il cui disagio può essere connesso ai fenomeni

legati alle nuove povertà, come pure i “senza fissa dimora”, le “ragazze madri”,

ecc.);

2. l’inevitabile difficoltà con cui si opera in funzione dell’inclusione di soggetti i cui

“skills” professionali non corrispondono alle richieste ed alle necessità del mercato

(i cosiddetti “incollocabili”);

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3. Il “matching”, esclusivamente realizzato dall’ente pubblico o da sue emanazioni

(come sono i Centri per l’impiego) comporta il rischio di una gestione “burocratico-

amministrativa del disabile, che contrasta con un reale lavoro di “presa in carico”

complessiva del soggetto svantaggiato.

2.4.1 Il ruolo indispensabile dell’economia sociale

Occorre ribadire la priorità che la legge 68/’99 assegna a quel principio di

“presa in carico globale” che consente di “individualizzare” i percorsi di inclusione

dei portatori di svantaggio, che affronta, tra gli altri, il problema dell’esclusione dal

mercato del lavoro.

Qual è il valore aggiunto che la cooperazione sociale può fornire per una

corretta attuazione della legge e, soprattutto, per un pieno raggiungimento delle

sue potenzialità?

La legge mostra di cogliere e fare proprio, come principio legislativo,

quell’approccio che ha caratterizzato e caratterizza da sempre l’economia sociale

rispetto alle fasce deboli della società: la filosofia ed il modello operativo delineato

dalla legge consente, come detto, di realizzare quella modalità “integrale” della

presa in carico attraverso la quale è possibile progettare interventi che, se da un

lato consentono la restituzione dei pieni diritti di cittadinanza, dall’altro

responsabilizzano il soggetto ad affrontare attivamente e responsabilmente il

mercato del lavoro, spezzando i circoli viziosi degli interventi meramente

assistenziali.

Attraverso l’art.12, è possibile una reale accoglienza di tali soggetti ed offrire

loro le opportunità di lavoro presso le cooperative sociali "in regime di

esternalizzazione”: i portatori di svantaggio vengono così individuati avvalendosi,

tra l’altro, delle informazioni dei “Centri per l’Impiego” delle Province, in stretto

collegamento con i servizi territoriali, creando, così, un “circuito virtuoso” che

connette il soggetto pubblico (le Province, titolari della responsabilità della

realizzazione del “matching” domanda/offerta di lavoro), le imprese profit (per

ottemperare agli obblighi di legge sul collocamento obbligatorio) e l’economia

sociale (le cooperative sociali di tipo “B”).

Va detto che tale modello, per realizzarsi efficacemente nelle prassi quotidiane

di impiego del soggetto disabile, presuppone la scelta (e la fatica) di operare

inserimenti lavorativi soprattutto rispetto a target che l’esperienza quotidiana nel

campo del mercato del lavoro e delle fasce deboli autorizza a definire difficilmente

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collocabili, sia per ragioni di “pregiudizio” rispetto alle effettive potenzialità

produttive, sia per i “rischi” connessi alle modificazioni del clima aziendale: in

questo senso, occorre soddisfare la richiesta di forza lavoro da parte delle le

aziende “profit”, sia agendo sugli incentivi pubblici, sia, ancora una volta,

utilizzando i principi e le metodologie che consentono l’esternalizzazione alle

cooperative sociali di tipo “B” del collocamento obbligatorio (tali soggetti

imprenditoriali, per la propria natura, sono in grado di assorbire soggetti deboli

certificati, in taluni casi “incollabili” diversamente, anche fino al 40% del totale del

proprio organico, di soggetti affetti da disabilità, fornendo personale formato e

percorsi di accompagnamento.

Si tratta sostanzialmente di operare una scelta oltre che di buon governo, di

civiltà, che ponga tutti i cittadini su uno stesso piano rispetto ai diritti e alle

opportunità offerte (il lavoro è un diritto costituzionalmente garantito),

riconoscendo esplicitamente ma soprattutto operativamente che l’inserimento

lavorativo delle fasce deboli richiede percorsi sì integrati, in modo che il sistema di

riferimento sia unico, ma che vengano mantenute alcune peculiarità e specificità

senza le quali il diritto il lavoro per questa fascia di cittadini resta una semplice

enunciazione di principio.

Per costruire in tal senso un’azione di sistema non è sufficiente enunciare

pedissequamente le parti che compongono il sistema stesso, non basta

formalizzare protocolli, seppure indispensabili, ma occorre compiere prima di tutto

un cambiamento di carattere culturale ed operativo che ponga il cittadino in primo

piano e promuova percorsi di collaborazione in un’ottica che sia si di integrazione

ma che sappia riconoscere al sistema capacità di adattamento in contesti diversi

dove la differenza deve diventare forza e non appiattimento su regole prestabilite e

perciò immutabili.

2.4.2 La necessità di supportare il mondo “profit” rispetto alle pratiche di inclusione

socio-lavorativa

All’interno di una pubblicazione realizzata nella Regione dell’Umbria da parte

dell’’Agenzia Umbria Lavoro13, è stata svolta un’indagine campionaria, all’interno

del mondo dell’impresa profit, per valutare caratteristiche dei percorsi di

13

Agenzia Umbria Lavoro, “Le fasce deboli nel mercato del lavoro regionale: situazione attuale, scenari

futuri e politiche possibili”, 2004

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inserimento lavorativo (ai sensi della l. 68/’99 e non) ed il livello di

soddisfazione/insoddisfazione di tali percorsi.

Da tali dati, emerge, in sintesi, che le imprese giudicano gli inserimenti

lavorativi dei disabili:

- altamente critici per quanto concerne le tipologie di target dei disabili psichici o

mentali, delle persone in condizione di dipendenza da sostanze stupefacenti od

alcol-correlate e delle persone in condizione di detenzione od in percorsi ex-

detentivi;

- di media problematicità: per quanto concerne lavoratori a bassa scolarità,

lavoratori in condizione socialmente emarginata e di persone scolarizzate ma prive

di esperienza (in questo caso, si “mescolano” dati tra tipologie di target affetti da

disabilità con quelle relative a persone che manifestano il cosiddetto “disagio della

normalità”;

- di facile gestione: per quanto concerne i cittadini non comunitari, ed i disoccupati

di lunga durata.

I dati descritti individuano, essenzialmente, imprese di piccole dimensioni: se

si analizzano gli stessi dati, con riferimento alle e imprese di grandi dimensioni ,

può notarsi come il livello di soddisfazione viene compresso, praticamente, il, in

relazione agli inserimenti lavorativi di tutte le categorie proposte e viste in

precedenza.

Un ulteriore dato14 particolarmente significativo riguarda le percezioni, i

pregiudizi e le immagini distorte a proposito dell’argomento: infatti, le imprese con

esperienza di percorsi di inserimento lavorativo giudicano, mediamente, meno

problematico l’inserimento di quelle che invece non ne hanno alcuna esperienza.

Per quanto concerne poi il livello di soddisfazione che esprimono gli imprenditori

rispetto a tali percorsi, emergono i seguenti valori:

- gravemente insoddisfacente vengono definiti i percorsi relativi ai disabili psichici,

o mentali, e quelli delle persone in condizione di dipendenza;

- sufficiente livello di soddisfazione: i disabili fisici o sensoriali, i detenuti od ex-

detenuti, i lavoratori non qualificati, le persone socialmente emarginate;

- piena soddisfazione: i disoccupati di lunga durata, le persone con titolo studio

elevato ma privi di esperienza.

E’ stato chiesto alle imprese, poi, quali sono i fattori che incidono sulla

soddisfazione. Sono emerse le seguenti risposte:

a. l’adattabilità al contesto lavorativo;

14 idem

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b. la dimensione organizzativa e relazionale

c. la disponibilità all’apprendimento e la sfera delle competenze

d. l’affidabilità sul lavoro

e. le attitudini personali

f. le performances lavorative

g. le agevolazioni ed incentivi ricevuti per l’inserimento

E’ stato chiesto alle imprese, poi, quali sono i fattori che incidono sulla facilità

dell’inserimento lavorativo:

a. il supporto al lavoratore da parte di servizi specializzati;

b. l’ integrazione economica che compensi il gap di produttività;

c. la disponibilità al rapporto di lavoro a condizione di poterlo interrompere;

d. il tirocinio pre-assunzione;

e. la possibilità di pagare un salario ridotto;

f. la possibilità di unadattamento del posto di lavoro attraverso incentivi;

g. contratti di lavoro speciali

h. la possibilità di ridurre il costo del lavoro per i disabili;

i. possibilità di effettuare una scelta nominativa del lavoratore da occupare (si

tratta, in effetti, dell’unico elemento della l. 68/’99 che è, effettiavemnte conosciuto

dalle imprese-campionate).

Se si tenta un’analisi delle risposte date dalle imprese, incrociandole con i dati già

visti sull’impiego dei soggetti disabili, si possono individuare alcuni “filoni” di

intervento di politica sociale e lavorativa che faciliti il matching tra il mondo del

lavoro profit ed il mondo della disabilità:

1. e’ opportuno concentrare le risorse sui più deboli fra i deboli;

2. risulta alquanto problematico quantificare i target di disabilità sulla base delle

iiscrizioni ai CPI;

3. Le imprese mostrano pregiudizi ed immagini distorte rispetto al tema

dell’inserimento lavorativo ed una assoluta mancanza di conoscenza delle

opportunità offerte dalla l. 68/’99;

4. la necessità di integrare politiche sociali e delle politiche del lavoro;

5. una frattura tra momento dell’assistenza medica, psicologica, sociale e della

ricerca di lavoro.

Uno dei temi più interessanti che riguardano l’inserimento lavorativo delle

“fasce deboli” è l ’attenzione particolare che i servizi di

avviamento/accompagnamento al lavoro devono porre rispetto al rapporto con

l’impresa: da questo punto di vista, occorre “stressare” ancora una volta la

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centralità dei momenti di concertazione operativa tra Provincia (soggetto incaricato

di realizzare il “matching” tra domanda ed offerta di lavoro), i Comuni, gli operatori

dei servizi socio-sanitari, gli operatori dei servizi di avviamento/accompagnamento

al lavoro, cui spetta il compito di verificare le condizioni per l’effettiva possibilità di

realizzare l’intervento di inclusione.

L’impresa profit, protagonista centrale per una piena ed efficace attuazione

della legge, va interpellata sia come risorsa per l’inserimento lavorativo, sia come

soggetto collaboratore nella gestione del progetto individualizzato, sia come

soggetto destinatario di altri servizi; l’attività di accompagnamento al lavoro deve

prevedere pacchetti di servizi da proporre ad un cliente plurimo – cioè il sistema

soggetto svantaggiato/servizio socio sanitario/azienda – che, rispetto al tema

specifico, risulta nel suo complesso debole.

In sostanza, le imprese chiedono, per poter realizzare pratiche di inclusione

lavorativa:

a. servizi reali di supporto alle aziende;

b. incentivi economici e riduzione costi;

c. modifica delle regole.

Alle aziende occorre, dunque, fornire servizi complessivi di consulenza, analisi

dei ruoli e dei processi, formazione, promozione e sviluppo, marketing, nella

consapevolezza che l’erogazione di questi servizi è collegata strettamente a quella

dei servizi rivolti ai soggetti svantaggiati (progetto personalizzato, monitoraggio,

tutoraggio e così via) ed ai servizi per le altre agenzie (servizi socio-assistenziali,

agenzie educative ecc.), in quanto è evidente che l’inserimento lavorativo può

realizzarsi con qualche probabilità di successo solo all’interno di una strategia che

coinvolge tutti gli attori del processo.

Quindi lo stretto e continuativo rapporto con l’impresa, non limitato al contesto

domanda/offerta, è uno degli elementi principali per l’attivazione corretta di

percorsi di inserimento lavorativo; l’intento dunque non consiste esclusivamente

nel concentrarsi sui soggetti deboli, ma di considerare le imprese “profit” che

accolgono, talvolta volontariamente più di frequente per obbligo di legge, tali

soggetti nel loro ambiente produttivo.

In questo scenario, le aziende vengono esse stesse considerate soggetti deboli,

in quanto devono accollarsi il più delle volte rischi personali, organizzativi e

finanziari in un contesto sempre più competitivo che riduce loro i margini economici

ma anche operativi e che le porta ad adottare scelte sempre più obbligate.

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E’ necessario dunque sperimentare concretamente una modalità di relazione

con le aziende basata sulla conoscenza delle loro peculiarità, sui problemi e sulle

prospettive di sviluppo per stabilire rapporti di collaborazione e di mutuo vantaggio

tra i servizi di avviamento/accompagnamento al lavoro e le imprese.

2.5 LE POLITICHE SOCIALI E LE AUTONOMIE LOCALI

Nel dibattito attuale sulla riforma dello Stato e sulle evoluzioni delle politiche

sociali, sembra ormai assodato che su ambedue gli aspetti la base portante sia da

individuare nella società civile, considerata in tutte le sue articolazioni ed organizzata

nella comunità locale.

Per comunità locale intendiamo un luogo di vita e di attività di persone, famiglie,

gruppi, soggetti nonchè sintesi dei vari e particolari interessi. La comunità quindi

come luogo nel quale si costruisce coesione sociale e si esercita la solidarietà

mediante processi di negoziazione e di concertazione.

Nell'attuale momento di modifica, da uno Stato sociale definito "pesante ed

invasivo" alla centralità delle autonomie locali, la comunità locale, dapprima

destinataria passiva di politiche e di interventi, ora gradualmente valorizzata nelle

sue "capacità di cura", di esprimere forme di presa in carico comunitaria, sia dei

bisogni a cui dare risposta, sia delle opportunità da garantire.

2.5.1. Le responsabilità decentralizzate

La rete di servizi è subordinata all’analisi della Carta Costituzionale e della

legislazione successiva: in essa è stato implementato il sistema delle responsabilità

per rendere fruibili ed esigibili i diritti ivi sanciti.

La connotazione dei diritti è strettamente coniugata con quella dei doveri, nel

senso che l'impegno delle istituzioni non può essere sostitutivo dell'impegno

solidaristico a cui anche il mercato e il terzo sistema, le famiglie, cioè tutti i soggetti

sociali sono comunque chiamati a rispondere.

“La sola solidarietà istituzionale produce assistenza. Il solo impegno del mercato

produce beneficenza” (F. Vernò, 2000).

Sul versante istituzionale, il fatto di maggior rilievo è costituito dalla riforma delle

Autonomie Locali, avviata dalla L. 142/90 ed in fase di ancora completamento. Il

Comune si configura come l'istituzione pubblica alla quale è attribuita la funzione di

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rappresentare gli interessi della comunità locale e di garantirne e promuoverne la

soddisfazione.

Nel sistema delle responsabilità viene attribuito all'Ente Locale un ruolo che si

differenzia, sia per livello che per intensità, da quello di tutti gli altri soggetti. E’ il

comune che ha la responsabilità istituzionale di rilevare ed interpretare i bisogni e di

garantire il livello di soddisfazione degli stessi. Altre leggi, oltre alla citata L. 142/90,

aiutano a definire detto sistema delle responsabilità, formalizzando situazioni e ruoli

che già si erano venuti consolidando nella realtà amministrativa e nella cultura

politica, sociale ed economica. In particolare sono da evidenziare la L. 266/91, sul

volontariato e la L.381/91, sulla cooperazione sociale. La peculiarità di questi

soggetti è quella d perseguire interessi che si collocano al di fuori della propria

compagine per proiettarsi nella società civile. Si partecipa in tal modo al ruolo di

promozione degli interessi pubblici dei quali sono tradizionalmente portatori gli enti

istituzionali. In sostanza si supera il vecchio assetto delle responsabilità che vedeva

una netta separazione tra la posizione dei soggetti istituzionali e quella di altri

soggetti. Legata a questa concezione si finiva con l'identificare il concetto di pubblico

con quello di istituzionale. Oggi l'assetto è più complesso: vediamo soggetti non

istituzionali che si trovano a condividere, a livelli diversi con i soggetti istituzionali, le

responsabilità pubbliche pur in piena libertà ed autonomia. Tra questi soggetti non

istituzionali abbiamo le organizzazioni di volontariato, le organizzazioni nonprofit, le

organizzazioni for-profit, che per libera scelta decidono di coinvolgersi in momenti

programmatori e gestionali nel sistema di responsabilità attivato dall'Ente Locale.

Un nodo è rappresentato dalla necessità di ricomporre a sistema l'insieme delle

singole responsabilità.

2.5.2 La creazione dei servizi in rete

Sul singolo Comune, pertanto, risulta auspicabile, in qualità di titolare

istituzionale delle politiche dei servizi alla persona, l’attivazione di pungolamenti e

processi per la messa in rete dei servizi.

L’analisi economica e non solo sociale del fenomeno sviluppa caratteristiche

individuate:

_ nell'efficacia: tenere conto della globalità della persona;

_ nell’efficienza: evitare sovrapposizioni e razionalizzare l'uso delle risorse;

_ nell’esigibilità: creare condizioni per l’acquisizione dei diritti;

La rete, tuttavia, è conglomerato di legami, di metodologie e protocolli condivisi

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e, quindi, si auspica un’intersezione tra una resa di servizi pubblici con i servizi

privati finalizzati alla creazione di strumenti estesi per la comunità tutta.

La realizzazione dei Piani di Zona, già attivi in alcune regioni, favorirà la

condivisione di metodologie e programmi ma l’ottica, soprattutto, dovrà essere quella

di implementare strumenti di monitoraggio costante dei risultati attesi e raggiunti e

di acquisire una sensibilità e snellezza istituzionale idonea ad eventuali

“aggiustamenti di rotta” .

2.6 IL DECRETO N° 276, ATTUATIVO DELLA LEGGE 14 FEBBRAIO 2003,

N°. 30 (LEGGE “BIAGI”)

“Sia l’articolo 13, ma ancor di più l’articolo 14 della Riforma Biagi, ispirandosi a

positive esperienze del recente passato creano i presupposti giuridici e gli strumenti

gestionali per sperimentare nuove forme di intervento, in un quadro di assoluta

garanzia per prevenire qualsiasi forma di sfruttamento e di illegalità.

L’aspetto più rilevante di questa parte della riforma, che completa la già avviata

riforma dei servizi per l’impiego e del sistema di collocamento in chiave di servizio

attivo per la prevenzione della disoccupazione di lunga durata, va ricercato proprio nel

diverso approccio alla problematica dell’inserimento dei lavoratori che nel mercato del

lavoro presentano maggiori difficoltà. Finora lo strumento usato è stato quasi

esclusivamente quello legato allo schema obbligo-sanzione (riserca obbligatoria, diritti

di precedenza ecc.). La Riforma Biagi viceversa adotta la logica promozionale, non solo

attraverso un sistema di convenienze (deroghe, minori costi ecc) ma anche attraverso

un sistema di servizi pubblico-privato cui è affidato il compito di perseguire

l’obiettivo”15.

La vera protagonista del sistema di inserimento lavorativo promosso dall’articolo

14 è la cooperazione sociale, riconosciuta come un valido strumento per l’inserimento

dei soggetti, non alternativo bensì complementare rispetto al collocamento

obbligatorio.

“L’articolo 14 ha infatti come obiettivo specifico quello di realizzare un

meccanismo che consenta di rendere disponibile una quota dei posti di lavoro che

15 Rosato S., “Un possibile nuovo ruolo della cooperazione sociale d’inserimento lavorativo”, in

Belotti V. (a cura di) “Valutare il lavoro”, Guerini e associati, 2004

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viene trasformata in commesse (lavoro) finalizzate all’inserimento dei disabili e degli

altri soggetti svantaggiati attraverso l’impiego in cooperativa.

A differenza di quanto previsto dall’articolo 12 della legge 68/99, tuttavia, questa

relazione non va gestita in forma diretta tra impresa/cooperativa/ disabile, ma in

forma collettiva indiretta (imprese/cooperative/ disabili) grazie alla mediazione di un

sistema di compensazione e mediante di computo consensualmente definito16”.

2.6.1 Forme contrattuali e mercato del lavoro

2.6.1.1 Appalto di servizi

È un contratto con il quale un soggetto (committente) incarica un imprenditore

(appaltatore) di compiere un'opera o un servizio a fronte di un corrispettivo in

denaro.

L'imprenditore (appaltatore), per compiere l'opera o il servizio commissionati, deve:

• organizzare i mezzi necessari (dirige i lavoratori alle proprie dipendenze senza che

il committente possa interferire nelle modalità concrete di svolgimento del lavoro

stesso)

• assumere il rischio d’impresa (rispondere del risultato finale davanti al

committente)

Gli elementi che distinguono il contratto d'appalto dalla somministrazione sono

l'organizzazione dei mezzi necessari e l'assunzione dei rischi d'impresa.

L'appalto di servizi è caratterizzato dall'assunzione di una obbligazione solidale tra il

committente e l'appaltatore: ciò significa che i lavoratori dipendenti dell'appaltatore

possono rivolgersi, entro un anno dalla fine del contratto di appalto, al committente

per riscuotere i crediti da lavoro (retribuzione, contributi etc) nel caso in cui il loro

datore di lavoro non li abbia pagati.

La legge Biagi ha espressamente stabilito che non costituisce trasferimento d’azienda

o di ramo della stessa l'ipotesi in cui un nuovo appaltatore subentri al contratto di

appalto e assuma i lavoratori già impiegati nell'appalto stesso.

16 idem

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Normativa di riferimento: Decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 art. 29

2.6.1.2 Apprendistato

L'apprendistato è un contratto a contenuto formativo, in cui il datore di lavoro oltre a

versare un corrispettivo per l'attività svolta garantisce all'apprendista una formazione

professionale. Il D.lgs 276/2003 individua tre tipologie di contratto, con finalità

diverse:

• apprendistato per l'espletamento del diritto-dovere di istruzione e formazione, che

consente di conseguire una qualifica professionale e favorire l'entrata nel mondo del

lavoro dei più giovani

• apprendistato professionalizzante, che consente di ottenere una qualifica attraverso

una formazione sul lavoro e un apprendimento tecnico-professionale

• apprendistato per l'acquisizione di un diploma o per percorsi di alta formazione, che

consente di conseguire un titolo di studio di livello secondario, universitario o di alta

formazione e per la specializzazione tecnica superiore

Destinatari:

• apprendistato per il diritto-dovere di formazione: giovani e adolescenti che abbiano

compiuto 15 anni (prevalentemente la fascia d'età tra i 15 e i 18 anni)

• apprendistato professionalizzante e apprendistato per l'acquisizione di un diploma o

per percorsi di alta formazione: giovani tra i 18 e i 29 anni e diciassettenni in

possesso di una qualifica professionale (conformemente alla Riforma Moratti)

Settori:

L'apprendistato si applica a tutti i settori di attività, compreso quello agricolo. Il

numero complessivo di apprendisti assunti non può superare del 100% il numero del

personale qualificato e specializzato già in servizio presso il datore di lavoro. I datori

che non hanno alle proprie dipendenze lavoratori qualificati o specializzati (o ne

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hanno meno di tre), possono assumere fino a tre apprendisti. Alle imprese artigiane

si applicano limiti diversi (Legge 443/1985, art. 4).

Durata:

L'apprendistato per il diritto-dovere di formazione ha una durata massima di 3 anni,

determinata in base alla qualifica da conseguire, al titolo di studio, ai crediti

professionali e formativi acquisiti, nonché al bilancio delle competenze realizzato dai

servizi pubblici per l'impiego o dai soggetti privati accreditati. L'apprendistato

professionalizzante può durare da 2 a 6 anni, in base a quanto stabilito dalla

contrattazione collettiva. È possibile sommare i periodi di apprendistato svolti

nell'ambito del diritto-dovere di istruzione e formazione con quelli dell'apprendistato

professionalizzante. La durata dell'apprendistato per l'acquisizione di un diploma o

per percorsi di alta formazione deve essere stabilita, per i soli profili che riguardano

la formazione, dalle Regioni in accordo con le parti sociali e le istituzioni formative

coinvolte.

Caratteristiche:

Il contratto di apprendistato deve avere forma scritta e indicare la prestazione alla

quale è adibito l'apprendista, il suo piano formativo e la qualifica che conseguirà al

termine del rapporto di lavoro. Il compenso dell'apprendista non può essere stabilito

in base a tariffe di cottimo e il suo inquadramento non può essere inferiore per più di

2 livelli rispetto a quello previsto dal contratto aziendale per i lavoratori che svolgono

la stessa mansione o funzione. La qualifica professionale conseguita attraverso uno

qualsiasi dei tre contratti di apprendistato costituisce credito formativo per il

proseguimento nei percorsi di istruzione e formazione professionale. Il datore di

lavoro non può recedere dal contratto in assenza di una giusta causa o di un

giustificato motivo, può però chiudere il rapporto di lavoro al termine del periodo di

apprendistato. Per tutti i contratti di apprendistato resta valida la disciplina

previdenziale e assistenziale prevista dalla Legge 25/1955.

Perché sia operativa la disciplina relativa alle tre tipologie di apprendistato è

necessaria la regolamentazione dei profili formativi demandata dal Dlgs 276/2003

alle Regioni e alle Province autonome. È inoltre necessaria la definizione delle

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modalità di riconoscimento dei crediti formativi da parte del Ministero del lavoro e

delle politiche sociali - di concerto con il Ministero dell'istruzione, dell'università e

della ricerca, e previa intesa con le Regioni e le Province autonome. La disciplina

delle modalità di erogazione della formazione aziendale, nel rispetto degli standard

generali fissati dalle Regioni competenti, verrà inoltre stabilita dai contratti collettivi

di lavoro. Dalla data di entrata in vigore del Dlgs 276/2003 non è più necessario

chiedere alla Direzione provinciale del lavoro territorialmente competente

l'autorizzazione preventiva all'assunzione, infatti è stato abrogato l'art. 3 della legge

19 gennaio 1955, n. 25.

Normativa di riferimento:

• Decreto legislativo 276/2003, artt. 47-53

• Circolare ministeriale del 14 ottobre 2004 n. 40

2.6.1.3 Contratto di inserimento

Il contratto di inserimento mira a inserire (o reinserire) nel mercato del lavoro alcune

categorie di persone, attraverso un progetto individuale di adattamento delle

competenze professionali del singolo a un determinato contesto lavorativo. Momento

centrale del contratto è la redazione del piano di inserimento lavorativo, che deve

garantire l'acquisizione di competenze professionali attraverso la formazione on the

job.

Il contratto di inserimento sostituisce il contratto di formazione e lavoro (CFL) nel

settore privato.

Lavoratori:

• persone di età compresa tra 18 e 29 anni

• disoccupati di lunga durata tra 29 e 32 anni

• lavoratori con più di 50 anni privi del posto di lavoro

• lavoratori che intendono riprendere un'attività e che non hanno lavorato per

almeno due anni

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• donne di qualsiasi età che risiedono in aree geografiche in cui il tasso di

occupazione femminile sia inferiore almeno del 20% a quello maschile (oppure quello

di disoccupazione superiore del 10%)

• persone riconosciute affette da un grave handicap fisico, mentale o psichico

Datori di lavoro:

• enti pubblici economici, imprese e loro consorzi

• gruppi di imprese

• associazioni professionali, socio-culturali e sportive

• fondazioni

• enti di ricerca pubblici e privati

• organizzazioni e associazioni di categoria

Non è prevista una percentuale massima di lavoratori che possono essere assunti

con contratto di inserimento (anche se questa potrà essere stabilita dai contratti

collettivi nazionali, territoriali o aziendali).

Il datore di lavoro, per poter assumere con questo contratto, deve aver mantenuto in

servizio almeno il 60% dei lavoratori il cui contratto di inserimento sia scaduto nei 18

mesi precedenti.

Settori:

Il contratto può essere stipulato per tutte le attività e per tutti i settori, esclusa la

pubblica amministrazione.

Una novità della legge Biagi sta nell'aver incluso tra i soggetti che possono assumere

con contratto d'inserimento anche i gruppi d'impresa, riconoscendo loro il ruolo

giuridico di datore di lavoro.

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Durata:

Il contratto di inserimento va da 9 a 18 mesi, (fino a 36 mesi per gli assunti con

grave handicap fisico, mentale o psichico). Non vanno conteggiati ai fini della durata

i periodi relativi al servizio civile o militare e l'assenza per maternità. Non può essere

rinnovato tra le stesse parti (ma si può stipulare un nuovo contratto di inserimento

con un diverso datore di lavoro) e le eventuali proroghe devono comunque aversi nei

limiti stabiliti (18 o 36 mesi).

Caratteristiche:

Il contratto di inserimento deve avere forma scritta e contenere l'indicazione precisa

del progetto individuale di inserimento. La mancanza di forma scritta comporta la

nullità del contratto e la trasformazione in un rapporto di lavoro a tempo

indeterminato.

La definizione del progetto individuale di inserimento deve avvenire con il consenso

del lavoratore e nel rispetto di quanto stabilito dai contratti collettivi nazionali,

territoriali o aziendali, oppure all'interno di enti bilaterali.

Trattamento economico e normativo:

Al contratto di inserimento si applicano per quanto compatibili le previsioni relative ai

contratti di lavoro subordinato a tempo determinato. L'inquadramento del lavoratore

assunto non può essere inferiore per più di due livelli rispetto a quello previsto dal

contratto nazionale per i lavoratori che svolgono la stessa mansione o funzione.

Al datore di lavoro spettano inoltre degli sgravi economici e contributivi per

l'assunzione di lavoratori con contratto di inserimento.

Attuazione:

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Le modalità di definizione del piano di inserimento, in particolare per quanto riguarda

la realizzazione del progetto, devono essere stabilite dai contratti collettivi nazionali e

territoriali e dai contratti aziendali.

Sempre attraverso la contrattazione collettiva dovranno essere definiti orientamenti,

linee guida e codici di comportamento che garantiscano l'effettivo adeguamento delle

competenze professionali al contesto lavorativo.

Normativa di riferimento:

• Circolare ministeriale del 21 luglio n. 31

• Decreto legislativo 276/2003, artt. 54-59

2.6.1.4 Distaccamento aziendale

Il distacco o comando si ha quando un datore di lavoro (distaccante), per proprie

esigenze produttive, pone temporaneamente uno o più lavoratori (distaccati) a

disposizione di un altro soggetto (distaccatario) per l'esecuzione di una determinata

attività lavorativa.

La riforma Biagi ha regolato il distacco nel settore privato.

Il distacco è caratterizzato dalla presenza di un interesse produttivo temporaneo del

datore di lavoro distaccante, che deve permanere per tutta la durata del distacco. È

necessario il consenso del lavoratore nel caso in cui, durante il periodo del distacco,

debba svolgere mansioni diverse, sebbene equivalenti, rispetto a quelle per cui è

stato assunto. Se il distacco comporta un trasferimento presso una sede di lavoro

che dista 50 km da quella originaria, deve essere giustificato da comprovate ragioni

tecniche, produttive, organizzative o sostitutive.

Se il distacco è effettuato in assenza di questi elementi, il lavoratore può chiedere la

costituzione di un rapporto alle dipendenze del soggetto che ha utilizzato la

prestazione (distaccatario). La richiesta deve essere fatta tramite ricorso, presentato

al giudice del lavoro e notificato anche al solo distaccatario.

Il datore di lavoro distaccante può:

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• sostituire il lavoratore distaccato con un altro lavoratore assunto a tempo

determinato

• richiedere al soggetto presso cui il lavoratore è distaccato un rimborso delle spese

sostenute a seguito del distacco (rimborso che non può superare il costo

effettivamente sostenuto

Trattamento economico e normativo:

Il trattamento economico e normativo rimane a carico del datore di lavoro

distaccante. La contribuzione INAIL è calcolata con riferimento alla tariffa e ai premi

del soggetto presso cui il lavoratore è distaccato.

La disciplina sul distacco è immediatamente operativa.

Normativa di riferimento:

• Circolare Ministero del lavoro e delle politiche sociali n. 3/2004

• Decreto legislativo 276/2003, art. 30

2.6.1.5 Contratto a progetto

Il contratto di lavoro a progetto è un contratto di collaborazione coordinata e

continuativa caratterizzato dal fatto di:

• essere riconducibile a uno o più progetti specifici o programmi di lavoro o fasi di

esso

• essere gestito autonomamente dal collaboratore in funzione del risultato, nel

rispetto del coordinamento con l'organizzazione del committente e

indipendentemente dal tempo impiegato per l'esecuzione dell'attività lavorativa

La disciplina prevista in materia di lavoro a progetto è finalizzata a prevenire l'utilizzo

improprio delle collaborazioni coordinate e continuative e a tutelare maggiormente il

lavoratore.

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Il contratto di lavoro a progetto può essere stipulato da tutti i lavoratori e per tutti i

settori e le attività, con le seguenti esclusioni:

• agenti e rappresentanti di commercio

• coloro che esercitano professioni intellettuali per le quali è necessaria l'iscrizione a

specifici albi professionali (già esistenti al momento dell'entrata in vigore del decreto)

• componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società

• partecipanti a collegi e commissioni (inclusi gli organismi di natura tecnica)

• pensionati al raggiungimento del 65° anno di età

• atleti che svolgono prestazioni sportive in regime di autonomia, anche in forma di

collaborazione coordinata e continuativa

• collaborazioni coordinate e continuative di tipo occasionale "minima", ovvero di

durata non superiore a 30 giorni con un unico committente, e per un compenso

annuo non superiore a 5.000 euro con lo stesso committente

• rapporti di collaborazione con la pubblica amministrazione

• rapporti e attività di collaborazione coordinata e continuativa comunque resi e

utilizzati a fini istituzionali in favore di associazioni e società sportive dilettantistiche

affiliate alle federazioni sportive nazionali e agli enti di promozione sportiva

riconosciuti dal CONI (Comitato Olimpico Nazionale Italiano)

Il contratto di lavoro a progetto deve essere redatto in forma scritta e deve indicare,

a fini della prova, i seguenti elementi:

• durata della prestazione di lavoro: può essere determinata (indicata

specificamente) o determinabile in quanto il rapporto dura finché non sia stato

realizzato il progetto, il programma o la fase di lavoro

• individuazione e descrizione del contenuto caratterizzante del progetto o

programma di lavoro, o fase di esso

• corrispettivo e criteri per la sua determinazione, tempi e modalità di pagamento,

disciplina dei rimborsi spese

• forme di coordinamento tra lavoratore a progetto e committente sull'esecuzione

(anche temporale) della prestazione lavorativa

• eventuali misure per la tutela della salute e sicurezza del collaboratore a progetto

(oltre a quelle previste in applicazione delle norme relative all'igiene e sicurezza del

lavoratore sul luogo di lavoro)

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Il contratto termina quando il progetto, il programma o la fase vengono realizzati. Il

recesso anticipato può avvenire per giusta causa o in base alle modalità previste

dalle parti nel contratto individuale.

Trattamento economico e normativo:

Il compenso deve essere proporzionato alla quantità e qualità del lavoro eseguito e

deve tenere conto dei compensi normalmente corrisposti per analoghe prestazioni di

lavoro autonomo nel luogo di esecuzione del contratto.

Il Dlgs 276/2003 prevede una maggior tutela, rispetto alle collaborazioni coordinate

e continuative, del lavoratore in caso di malattia, infortunio e gravidanza:

• la malattia e l'infortunio del lavoratore comportano solo la sospensione del rapporto

che però non è prorogato e cessa alla scadenza indicata nel contratto o alla fine del

progetto, programma o fase di lavoro.

• Il committente può comunque recedere se la sospensione si protrae per un periodo

superiore a un sesto della durata stabilita nel contratto (quando determinata) ovvero

superiore a 30 giorni per i contratti di durata determinabile

• la gravidanza comporta la sospensione del rapporto e la proroga dello stesso per

180 giorni

Sono stati inoltre previsti a favore del lavoratore:

• facoltà di svolgere la propria attività per più committenti (salvo diversa previsione

del contratto individuale)

• diritto a essere riconosciuto autore dell'invenzione fatta nello svolgimento del

lavoro a progetto

Normativa di riferimento:

• Circolare del Ministero del lavoro e delle politiche sociali n. 1/2004

• Decreto legislativo 276/2003, artt. 61-69

• Decreto legislativo 6 ottobre 2004, n. 251

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2.6.1.6 Contratto di lavoro intermittente

Il contratto di lavoro intermittente (o a chiamata) è un contratto di lavoro mediante il

quale un lavoratore si pone a disposizione del datore di lavoro per svolgere

determinate prestazioni di carattere discontinuo o intermittente (individuate dalla

contrattazione collettiva nazionale o territoriale) o per svolgere prestazioni in

determinati periodi nell’arco della settimana, del mese o dell’anno (individuati dal

Dlgs 276/2003).

Questo contratto costituisce una novità per l'ordinamento italiano ed è previsto in

due forme: con o senza obbligo di corrispondere una indennità di disponibilità, a

seconda che il lavoratore scelga di essere o meno vincolato alla chiamata.

L'obiettivo del contratto intermittente è la regolarizzazione della prassi del cosiddetto

lavoro a fattura, usato finora per le richieste di attività lavorativa non occasionale ma

con carattere intermittente. Rappresenta anche un'ulteriore possibilità di inserimento

o reinserimento dei lavoratori nel mercato del lavoro.

A) Può essere stipulato da qualunque lavoratore:

• per lo svolgimento di prestazioni di carattere discontinuo o intermittente, indicate

dalla tabella allegata al Regio decreto 6 dicembre 1923, n. 2657 (in attesa delle

regolamentazioni dei contratti collettivi)

• per il lavoro nel week-end o in periodi predeterminati (ferie estive, vacanze

pasquali o natalizie)

B) Può essere stipulato, in via sperimentale, indipendentemente dal tipo di attività

da:

• lavoratori disoccupati con meno di 25 anni

• lavoratori con più di 45 anni che siano stati espulsi dal ciclo produttivo o che siano

iscritti nelle liste di mobilità e di collocamento

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C) Può essere stipulato da qualunque impresa ad eccezione di quelle che non abbiano

effettuato la valutazione dei rischi prevista dalla legge sulla sicurezza nei posti di

lavoro (Dlgs 626/1994). Non può essere stipulato dalla pubblica amministrazione.

Il contratto di lavoro intermittente può essere stipulato a tempo determinato o

indeterminato. Deve avere la forma scritta e deve contenere l'indicazione di una

serie di elementi (che devono conformarsi a quanto sarà contenuto nei contratti

collettivi) quali: durata, ipotesi che ne consentono la stipulazione, luogo, modalità

della disponibilità, relativo preavviso, trattamento economico e normativo per la

prestazione eseguita, ammontare dell'eventuale indennità di disponibilità, tempi e

modalità di pagamento, forma e modalità della richiesta del datore, modalità di

rilevazione della prestazione, eventuali misure di sicurezza specifiche.

Non è possibile ricorrere al lavoro intermittente nei seguenti casi:

• sostituzione di lavoratori in sciopero

• se si è fatto ricorso nei sei mesi precedenti a una procedura di licenziamento

collettivo, ovvero se è in corso una sospensione o riduzione d'orario con cassa

integrazione (questo divieto è derogabile da un accordo sindacale) per le stesse unità

produttive e/o mansioni cui si riferisce il contratto di lavoro intermittente.

Retribuzione e indennità:

Al lavoratore intermittente deve essere garantito un trattamento economico pari a

quello spettante ai lavoratori di pari livello e mansione, seppur riproporzionato in

base all'attività realmente svolta. Per i periodi di inattività, e solo nel caso in cui il

lavoratore si sia obbligato a rispondere immediatamente alla chiamata, spetta

un'indennità mensile, divisibile per quote orarie. È stabilita dai contratti collettivi, nel

rispetto dei limiti minimi fissati con decreto ministeriale, e non spetta nel periodo di

malattia oppure di altra causa che renda impossibile la risposta alla chiamata. Il

rifiuto di rispondere alla chiamata senza giustificato motivo può comportare la

risoluzione del rapporto, la restituzione della quota di indennità di disponibilità riferita

al periodo successivo all'ingiustificato rifiuto, e il risarcimento del danno la cui misura

è predeterminata nei contratti collettivi o, in mancanza, nel contratto di lavoro.

I contributi relativi all'indennità di disponibilità devono essere versati per il loro

effettivo ammontare in deroga alla normativa in materia di minimale contributivo.

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Nel caso di lavoro intermittente per predeterminati periodi della settimana, del mese

o dell'anno l'indennità è corrisposta solo in caso di effettiva chiamata.

Il contratto di lavoro intermittente è una novità per l'ordinamento italiano.

Il decreto ministeriale 10 Marzo 2004 ha quantificato l'indennità di disponibilità da

corrispondere al lavoratore in attesa di chiamata. Il successivo decreto 23 ottobre

2004, in attesa delle determinazioni della contrattazione collettiva, ammette la

stipulazione di contratti di lavoro intermittente per le tipologie di attività indicate

nella tabella allegata al Regio decreto 6 dicembre 1923, n. 2657.

Il lavoro intermittente è immediatamente utilizzabile anche per il lavoro nel week-

end o in periodi predeterminati (ferie estive, vacanze pasquali o natalizie), come

chiarito già dalla nota ministeriale del 12 luglio 2004 e confermato dal Dlgs 251/2004

(correttivo del Dlgs. 276/2003).

Normativa di riferimento:

• Circolare ministeriale del 3 febbraio 2005, n. 4

• Decreto Ministero del lavoro e delle politiche sociali di concerto con il Ministero

dell'economia e delle finanze 30 dicembre 2004

• Decreto Ministero del lavoro e delle politiche sociali 23 ottobre 2004

• Decreto legislativo 251/2004, art. 10

• Decreto Ministero del lavoro e delle politiche sociali 10 Marzo 2004

• Decreto legislativo 276/2003, artt. 33-40

2.6.1.7 Lavoro accessorio

Le prestazioni di lavoro accessorio sono attività lavorative di natura occasionale

svolte da soggetti a rischio di esclusione sociale o, comunque, non ancora entrati nel

mercato del lavoro o in procinto di uscirne.

Il contratto di lavoro occasionale accessorio ha due finalità:

• far emergere il sommerso che caratterizza alcune prestazioni lavorative, tutelando

maggiormente lavoratori che altrimenti opererebbero senza protezione

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• favorire l'inserimento lavorativo di fasce deboli del mercato del lavoro, aumentando

le possibilità di lavoro presso le famiglie e gli enti senza fine di lucro

Lavoratori:

• disoccupati da oltre un anno

• casalinghe, studenti, pensionati

• disabili e soggetti in comunità di recupero

• lavoratori extracomunitari con regolare permesso di soggiorno, nei sei mesi

successivi alla perdita del lavoro

Datori di lavoro:

Il Dlgs 276/2003 non indica espressamente i soggetti a favore dei quali può essere

prestata l'attività, ma, sulla base di quanto stabilito dalla legge 30/2003, si può

ritenere che questi siano:

• famiglie

• enti senza fine di lucro

• soggetti non imprenditori o, se imprenditori, al di fuori dell'esercizio della propria

attività

Settori e attività:

• piccoli lavori domestici a carattere straordinario, compresa l'assistenza domiciliare

ai bambini e alle persone anziane, ammalate o con handicap

• insegnamento privato supplementare

• piccoli lavori di giardinaggio, pulizia e manutenzione di edifici e monumenti

• realizzazione di manifestazioni sociali, sportive, culturali o caritatevoli

• collaborazione con enti pubblici e associazioni di volontariato per lo svolgimento di

lavori di solidarietà o di emergenza, come quelli dovuti a calamità o eventi naturali

improvvisi

Nel settore agricolo non sono considerate prestazioni di natura occasionale quelle

rese da parenti e affini entro il terzo grado, quelle rese per motivi di solidarietà a

titolo gratuito o dietro rimborso spese.

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La forma del contratto è libera. Il rapporto di lavoro occasionale, anche con più datori

di lavoro, non può superare i trenta giorni di durata nel corso dell'anno solare e i

5.000 euro annui per lavoratore. È prevista una particolare procedura per il

pagamento del corrispettivo: i lavoratori sono retribuiti attraverso la consegna di

buoni lavoro dal valore nominale fissato da un Decreto del Ministro del lavoro e delle

politiche sociali, acquistati in precedenza dai datori di lavoro presso le rivendite

autorizzate.

Il valore nominale dei buoni deve essere stabilito da un decreto del Ministro del

lavoro e delle politiche sociali, tenuto conto della media delle retribuzioni rilevate per

le attività lavorative affini.

Una volta effettuata l'attività e ricevuti i buoni, il lavoratore deve presentarli ai centri

autorizzati i quali, rispetto al valore nominale del buono:

• trattengono una percentuale (fissata dal suddetto decreto ministeriale) come

rimborso spese del servizio prestato

• versano i contributi Inps (13%) e Inail (7%) dovuti

• pagano il restante importo al lavoratore

Il compenso è esente da qualsiasi imposizione fiscale e non incide sullo stato di

disoccupazione o inoccupazione del lavoratore accessorio.

Chi è interessato a svolgere prestazioni di lavoro accessorio deve comunicare la

propria disponibilità ai soggetti accreditati o ai Servizi per l'impiego i quali

invieranno, a spese dell'interessato, una tessera magnetica personalizzata.

Il Ministro del lavoro e delle politiche sociali individuerà le aree metropolitane e il

concessionario del servizio al fine di avviare la prevista fase di sperimentazione.

Normativa di riferimento:

• Decreto legislativo 276/2003, artt. 70-74

• Decreto legislativo 6 ottobre 2004, n. 251

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2.6.1.8 Job sharing

Il lavoro ripartito (anche chiamato job sharing) è un rapporto di lavoro speciale,

mediante il quale due lavoratori assumono in solido l'adempimento di un'unica e

identica obbligazione lavorativa. La solidarietà riguarda le modalità temporali di

esecuzione della prestazione nel senso che i lavoratori possono gestire

autonomamente e discrezionalmente la ripartizione dell'attività lavorativa ed

effettuare sostituzioni fra loro. Entrambi sono direttamente e personalmente

responsabili dell'adempimento dell'obbligazione. Questa forma contrattuale ha

l'obiettivo di conciliare i tempi di lavoro e di vita, attraverso nuove opportunità di

bilanciamento tra le esigenze di flessibilità delle imprese e le esigenze dei lavoratori.

Il contratto di lavoro ripartito può essere stipulato da tutti i lavoratori e da tutti i

datori di lavoro, ad eccezione della pubblica amministrazione. Rispetto a quanto

previsto dalla precedente normativa (circolare Ministero del lavoro e della previdenza

sociale n. 43/1998), la vera novità del contratto di lavoro ripartito previsto dalla

legge Biagi sta nell'aver limitato la possibilità di gestire il lavoro in solido a due

lavoratori.

Il contratto di lavoro ripartito, a fini probatori, deve avere forma scritta e contenere

le seguenti indicazioni:

• la misura percentuale e la collocazione temporale del lavoro giornaliero,

settimanale, mensile o annuale che si prevede venga svolto da ciascuno dei due

lavoratori, secondo gli accordi intercorsi e ferma restando la possibilità per gli stessi

lavoratori di determinare, in qualsiasi momento, la sostituzione tra di loro o la

modifica consensuale della distribuzione dell'orario di lavoro (che deve essere

comunicato al datore con cadenza almeno settimanale, al fine di certificare le

assenze)

• il luogo di lavoro, nonché il trattamento economico e normativo spettante a ciascun

lavoratore

• le eventuali misure di sicurezza specifiche per l'attività lavorativa svolta

Il rapporto di lavoro può essere stipulato a termine o a tempo indeterminato. Per

quanto riguarda il trattamento economico, vige il principio di parità di trattamento

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rispetto ai lavoratori di pari livello e mansione. Il trattamento è comunque

riproporzionato in base alla prestazione lavorativa effettivamente eseguita.

Il datore non può opporsi alla ripartizione dell'attività lavorativa stabilita dai due

lavoratori. Ai fini previdenziali i lavoratori ripartiti sono assimilati ai lavoratori a

tempo parziale, ma il calcolo delle prestazioni e dei contributi dovrà essere effettuato

mese per mese, salvo conguaglio in relazione all'effettivo svolgimento della

prestazione lavorativa.

In caso di dimissioni o licenziamento di uno dei due lavoratori, il rapporto si estingue

anche nei confronti dell'altra parte, ma il datore di lavoro può chiedere all'altro di

trasformare il rapporto in un contratto di lavoro subordinato a tempo pieno o

parziale. Il datore può anche rifiutare l'adempimento di un terzo soggetto.

L'attuazione e la regolamentazione del lavoro ripartito è vincolata alla contrattazione

collettiva. In assenza di contratti collettivi, si applica la normativa generale del lavoro

subordinato in quanto compatibile con la natura del rapporto di lavoro ripartito. Il

regime transitorio e l'attuazione dei rinvii alla contrattazione collettiva potranno

essere affidati anche a un Accordo interconfederale su convocazione del Ministro del

lavoro e delle politiche sociali.

Normativa di riferimento:

• Decreto legislativo 276/2003, artt. 41-45

2.6.1.9 Part-time

Il lavoro a tempo parziale (part-time) si caratterizza per un orario, stabilito dal

contratto individuale di lavoro, inferiore all'orario di lavoro normale (full-time)

Il rapporto a tempo parziale può essere:

• orizzontale quando la riduzione d'orario è riferita al normale orario giornaliero

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• verticale quando la prestazione è svolta a tempo pieno ma per periodi

predeterminati nella settimana, nel mese e nell'anno

• misto quando il rapporto di lavoro a tempo parziale è articolato combinando le

modalità orizzontale e verticale

Il rapporto di lavoro a tempo parziale si è rivelato un valido strumento per

incrementare l'occupazione di particolari categorie di lavoratori, come giovani,

donne, anziani e lavoratori usciti dal mercato del lavoro. Si configura come un

rapporto di lavoro stabile, non precario, che permette di soddisfare le esigenze di

flessibilità delle imprese da una parte e di adattarsi a particolari esigenze dei

lavoratori quali la conciliazione tra lavoro e famiglia.

Il rapporto a tempo parziale può essere stipulato dalla generalità dei lavoratori e dei

datori di lavoro.

La disciplina del lavoro a tempo parziale si applica interamente anche al settore

agricolo. Nel settore pubblico è possibile ricorrere al lavoro part-time, ma non si

applicano le modifiche introdotte dalla riforma.

Il contratto di lavoro part-time è un contratto di lavoro subordinato a tempo

determinato o indeterminato.

Deve essere stipulato in forma scritta ai fini della prova e deve contenere puntuale

indicazione della durata della prestazione lavorativa e dell'orario di lavoro, con

riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all'anno.

Trattamento economico e normativo:

Il lavoratore part-time non deve essere discriminato rispetto al lavoratore a tempo

pieno per quanto riguarda il trattamento economico e normativo:

• ha diritto alla stessa retribuzione oraria del lavoratore a tempo pieno, anche se la

retribuzione, l'importo dei trattamenti economici per malattia, infortunio e maternità

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vengono calcolati in maniera proporzionale al numero di ore lavorate, salvo che i

contratti collettivi non stabiliscano che il calcolo avvenga in maniera più che

proporzionale

• ha diritto allo stesso trattamento normativo dei lavoratori assunti a tempo pieno

sotto tutti gli aspetti quali la durata del periodo di ferie annuali, la durata del

congedo di maternità e del congedo parentale, il trattamento della malattia e

infortunio ecc.

2.7 STRUMENTI DI FLESSIBILITA’

Rispetto alla precedente disciplina, il Dlgs 276/2003 prevede maggiore flessibilità

nella gestione dell'orario di lavoro e minori vincoli per la richiesta di prestazione di

lavoro supplementare, lavoro straordinario e per la stipulazione di clausole flessibili o

elastiche. I contratti collettivi devono stabilire i limiti, le causali (per il lavoro

supplementare), le condizioni e modalità (per il lavoro elastico e flessibile) e le

sanzioni legati al ricorso al lavoro supplementare, elastico e flessibile. In ogni caso:

• Lavoro supplementare: è prestato oltre l'orario di lavoro stabilito nel contratto di

lavoro part-time orizzontale (anche a tempo determinato), ma entro il limite del

tempo pieno; quando il tempo pieno non sia stato raggiunto è ammissibile anche nel

part-time verticale o misto. Non è più necessario rispettare il limite massimo del

10% delle ore lavorate e in caso di superamento dei limiti è stata abolita la sanzione

legale della maggiorazione del 50%. In attesa che i contratti collettivi stabiliscano

altri limiti massimi, è necessario il consenso del lavoratore. La mancanza del

consenso non costituisce mai un giustificato motivo di licenziamento. I contratti

collettivi stabiliscono anche il trattamento economico per le ore di lavoro

supplementare

• Lavoro straordinario: è il lavoro prestato oltre il normale orario di lavoro full time. È

ammissibile solo nel rapporto di lavoro part-time di tipo verticale o misto anche a

tempo determinato

• Lavoro elastico: è prestato per periodi di tempo maggiori rispetto a quelli definiti

nel contratto di lavoro part-time verticale o misto a seguito della stipulazione di

clausole elastiche

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• Lavoro flessibile: è prestato in periodi di tempo diversi rispetto a quelli fissati nel

contatto di lavoro part-time di tutte e tre le tipologie a seguito della stipulazione di

clausole flessibili. Il lavoro a turni non integra una clausola flessibile

Le clausole elastiche e flessibili possono essere stipulate anche per i contratti a

tempo determinato. La disponibilità del lavoratore allo svolgimento di lavoro flessibile

ed elastico deve risultare da un patto scritto e, salve diverse intese fra le parti, è

richiesto un periodo di preavviso di almeno due giorni lavorativi da parte del datore

di lavoro.

In assenza delle disposizioni dei contratti collettivi il datore di lavoro e i lavoratori

possono concordare direttamente clausole flessibili ed elastiche.

Diritti e doveri

Il lavoratore a tempo parziale ha gli stessi diritti e doveri nei riguardi del datore di

lavoro di tutti i lavoratori subordinati. Ha inoltre il diritto, se previsto dal contratto

individuale, di precedenza nel passaggio dal part-time a full-time rispetto alle nuove

assunzioni a tempo pieno, avvenute nelle unità produttive site nello stesso ambito

comunale e per le stesse mansioni o mansioni equivalenti.

Il lavoratore a tempo pieno ha invece il diritto a essere informato, anche con

comunicazione scritta in luogo accessibile a tutti, dell'intenzione di procedere ad

assunzioni a tempo parziale per poter presentare domanda di trasformazione.

Il lavoratore affetto da patologie oncologiche ha il diritto di trasformazione del

rapporto di lavoro da full-time a part-time. Il rapporto di lavoro a tempo parziale

deve essere trasformato nuovamente in rapporto di lavoro a tempo pieno quando il

lavoratore lo richieda.

Il datore di lavoro, oltre ai diritti e doveri tipici del rapporto di lavoro subordinato,

ha:

• il diritto a richiedere lavoro supplementare, straordinario e stipulare clausole

flessibili ed elastiche secondo le modalità e nei limiti indicati dalla legge

• il dovere di informare le rappresentanze sindacali aziendali dell'andamento del

ricorso al lavoro part-time

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• il dovere di informare i lavoratori dell'intenzione di procedere a nuove assunzioni

part-time e full-time e di trasformare il contratto ai lavoratori affetti da malattie

oncologiche

La disciplina del rapporto a tempo parziale contenuta nel Dlgs 276/2003 è

immediatamente operativa, infatti non è prevista una fase di transizione, né un rinvio

ad una fase di verifica della normativa.

Il regime transitorio e l'attuazione dei rinvii contenuti alla contrattazione collettiva

potranno essere affidati anche ad un accordo interconfederale su convocazione del

Ministro del lavoro e delle politiche sociali.

Normativa di riferimento:

• Circolare Ministero del lavoro delle politiche sociali n. 9/2004

• Decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 artt. 46 e 85, comma 2

2.7.1 La somministrazione

La somministrazione di manodopera permette ad un soggetto (utilizzatore) di

rivolgersi ad un altro soggetto appositamente autorizzato (somministratore), per

utilizzare il lavoro di personale non assunto direttamente, ma dipendente del

somministratore. Nella somministrazione occorre distinguere due contratti diversi:

• un contratto di somministrazione, stipulato tra l'utilizzatore e il somministratore, di

natura commerciale

• un contratto di lavoro subordinato stipulato tra il somministratore e il lavoratore

Entrambi i contratti possono essere stipulati:

• a tempo determinato

• a tempo indeterminato

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La somministrazione rientra nell'ambito delle esternalizzazioni delle attività di

impresa, ed è diretta, da un lato, ad offrire alle aziende un nuovo ed efficiente

strumento per procurarsi forza lavoro e, dall'altro, ad offrire particolari garanzie ai

lavoratori somministrati.

Destinatari:

• Contratto tra somministratore e utilizzatore: la legge non pone limiti per la

stipulazione del contratto da parte dell'utilizzatore. La pubblica amministrazione può

stipulare soltanto contratti di somministrazione a tempo determinato. Il

somministratore invece deve essere un'Agenzia per il lavoro debitamente autorizzata

allo svolgimento dell'attività di somministrazione e iscritta nell'apposita sezione

dell'Albo informatico

• Contratto tra somministratore e lavoratore: il contratto di lavoro può essere

stipulato da tutti i lavoratori

Settori:

Il contratto di somministrazione a tempo indeterminato può essere stipulato per:

• servizi di consulenza e assistenza nel settore informatico

• servizi di pulizia, custodia, portineria

• servizi di trasporto di persone e movimentazione di macchinari e merci

• gestione di biblioteche, parchi, musei, archivi, magazzini e servizi di economato

• attività di consulenza direzionale, assistenza alla certificazione, programmazione

delle risorse, sviluppo organizzativo e cambiamento, gestione del personale, ricerca e

selezione del personale

• attività di marketing, analisi di mercato, organizzazione della funzione commerciale

• gestione di call-center

• costruzioni edilizie all'interno degli stabilimenti per installazioni o smontaggio di

impianti e macchinari, per particolari attività produttive che richiedano fasi

successive di lavorazione, (con specifico riferimento all'edilizia e alla cantieristica

navale), per l'impiego di manodopera diversa per specializzazione da quella

normalmente impiegata nell'impresa

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• in tutti gli altri casi previsti dai contratti collettivi di lavoro nazionali o territoriali

stipulati da associazioni comparativamente più rappresentative dei lavoratori e datori

di lavoro

Il contratto di somministrazione a tempo determinato può essere stipulato:

• per far fronte a esigenze di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o

sostitutivo, anche se riferibili all'ordinaria attività dell'utilizzatore (art. 20, Dlgs

276/2003)

• per le “esigenze temporanee” indicate dalle clausole dei contratti collettivi

che avranno efficacia fino alla loro naturale scadenza (art. 86, Dlgs 276/2003).

Il contratto di lavoro a tempo determinato può essere prorogato, con il consenso del

lavoratore e per atto scritto, nei casi e per la durata prevista dal contratto collettivo

applicato dal somministratore.

Il contratto tra utilizzatore e somministratore deve avere forma scritta e contenere

alcune specifiche indicazioni.

Non è richiesta invece alcuna forma specifica per il contratto di lavoro che lega il

somministratore e il lavoratore.

Trattamento economico e normativo:

I lavoratori dipendenti dal somministratore hanno diritto alla parità di trattamento

economico e normativo rispetto ai dipendenti di pari livello dell'utilizzatore, a parità

di mansioni svolte.

L'utilizzatore è obbligato in solido con il somministratore a corrispondere ai lavoratori

i trattamenti retributivi e i contributi previdenziali: pertanto se il somministratore non

dovesse versare il dovuto al lavoratore questo può richiederlo all'utilizzatore, che è

obbligato a corrisponderlo. In caso di contratto di lavoro a tempo indeterminato è

previsto da parte del somministratore il pagamento di un'indennità la cui misura

viene determinata dal contratto collettivo di riferimento e non può essere inferiore ad

una somma prevista dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali.

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Il contratto di lavoro a tempo indeterminato è soggetto alla disciplina generale dei

rapporti di lavoro prevista dal codice civile e dalle leggi speciali. Il contratto può

essere stipulato anche a tempo parziale.

Se il contratto di lavoro è stipulato a tempo determinato si applicano in quanto

compatibile le disposizioni del contratto a termine (Dlgs 368/2001), con alcune

differenze:

• il somministratore può concludere più contratti a termine con il lavoratore senza il

rispetto di alcun intervallo di tempo

• gli obblighi di informazione e formazione hanno una disciplina specifica per la

somministrazione

• i limiti percentuali di stipulazione di contratti a termine non si applicano alla

somministrazione, poiché l'utilizzatore potrebbe anche avvalersi esclusivamente di

questo tipo di contratto per la sua attività lavorativa.

È nulla ogni clausola che possa limitare, anche indirettamente, la facoltà

dell'utilizzatore di assumere il lavoratore al termine del contratto di

somministrazione. Il divieto può essere derogato a fronte di una congrua indennità

per il lavoratore, secondo quanto previsto dal contratto collettivo applicabile al

somministratore.

Il contratto di somministrazione potrà essere stipulato da:

• le Agenzie di lavoro interinale, già autorizzate ai sensi della previgente normativa,

non appena abbiano presentato richiesta di autorizzazione ai sensi della nuova

normativa;

• tutti gli altri soggetti non appena saranno autorizzati all’esercizio dell’attività di

somministrazione e iscritti all'Albo (secondo quanto previsto dal Dlgs 276/2003).

Normativa di riferimento:

• Circolare Ministeriale 24 giugno 2004, n. 25

• Decreto Ministero del lavoro e delle politiche sociali 10 Marzo 2004

• Decreto ministero del lavoro e delle politiche sociali 23 dicembre 2003

• Decreto legislativo 276/2003, artt. 20-28

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2.6.2.2 Trasferimento d’azienda

Il trasferimento d'azienda si verifica quando cambia il titolare dell'attività, a seguito

di operazioni quali cessione contrattuale, fusione, affitto, usufrutto.

Il trasferimento può riguardare l'intera azienda o parte di essa e in questo caso si

parla di trasferimento di ramo d'azienda. Questo ultimo tipo di trasferimento è

ammissibile solo se la parte di azienda che si intende trasferire è funzionalmente

autonoma al momento del trasferimento (con il Dlgs 276/2003 non è più necessario

che tale autonomia sia preesistente al trasferimento).

Quando vi è il trasferimento dell'azienda o di un ramo di essa cambia il titolare

dell'attività e quindi cambia il datore di lavoro. La legge tutela il lavoratore con

alcune disposizioni specifiche e prevede che in caso di trasferimento:

• il rapporto di lavoro non si estingue, ma continua con il nuovo titolare dell'azienda;

il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano

• il lavoratore può chiedere al nuovo datore di lavoro il pagamento dei crediti da

lavoro che aveva maturato al momento del trasferimento; il nuovo datore di lavoro è

pertanto obbligato in solido con il vecchio titolare per tali crediti

• nel caso di stipulazione di un contratto d'appalto tra azienda d'origine e ramo

trasferito, il lavoratore dipendente di questo ultimo può agire in giudizio direttamente

nei confronti dell'azienda di origine per obbligarla al pagamento dei debiti che questa

ha contratto con il ramo trasferito

• il nuovo titolare deve continuare ad applicare il contratto collettivo nazionale, in

vigore al momento del trasferimento, fino alla sua scadenza

• il trasferimento d'azienda non costituisce motivo di licenziamento

• se il trasferimento si verifica in imprese che occupano più di 15 dipendenti, è

obbligatorio per il datore di lavoro avvertire con comunicazione scritta, almeno 25

giorni prima dell'atto di trasferimento, le rappresentanze sindacali che avviano

procedure di analisi e verifica necessarie alla tutela dei lavoratori

Normativa di riferimento:

• Decreto legislativo 276/2003, art. 32

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3. SCENARI EVOLUTIVI DELL’ECONOMIA SOCIALE ITALIANA

3.1 GLI SCENARI INTERNAZIONALI

La globalizzazione dell’economia mondiale comporta processi che, al tempo

stesso, rendono palesi alcune contraddizioni, in relazione alle disparità economiche

e finanziarie tra i paesi del Nord e del Sud del mondo; nonché, ancor più eclatanti,

le problematiche ambientali a cui sono, evidentemente, legate quelle della

democrazia del globo.

D’altra parte, per parlare dello specifico “settore” di cui si occupa la presente

pubblicazione, proprio lo stesso fenomeno, rappresenta un’opportunità,

consentendo all’economia sociale, contestualmente, di esportare i propri modelli di

sviluppo, basati sulla solidarietà economica e sociale e di inserirsi, in tali processi di

disuguaglianza, influendo in forma progressiva sulla costruzione di sistemi di

welfare dei paesi più penalizzati (al cui interno, tali “disuguaglianze” si fanno

ancora più stridenti).

E’ un fatto, inoltre, che, fino ad oggi, il mondo della cooperazione sociale

italiana abbia dedicato i propri “sforzi imprenditoriali” alla realizzazione di

interventi, progetti e servizi guardando alle proprie, specifiche, realtà localistiche,

tutt’al più “aprendosi”, attraverso forme federative e consortili, alla realizzazioni di

“reti” nazionali di intervento, fortemente connotate dalla tipologia specifica di

intervento.

La realtà dell’internazionalizzazione dell’economia riguarda, al contrario, per le

suddette ragioni, molto da vicino la cooperazione sociale nazionale italiana, a cui

può, senza alcun dubbio, essere affidato il compito, non già di intervenire sulle

problematiche endemiche o sulle emergenze/contingenze dei PVS (compito svolto,

peraltro in modo molto prezioso, dalle ONG, con modelli e metodologie che le sono

propri), bensì di operare su e rispetto a quei fenomeni (positivi e negativi) che

proprio i processi di sviluppo rendono e renderanno sempre più manifesti.

Oggi, partendo da una prima analisi relativa ai paesi dell’ex-blocco sovietico

(alcuni già all’interno dell’UE, altri in procinto di entrarvi), molti fenomeni legati

all’uso/consumo di sostanze stupefacenti, alle devianze (criminalità organizzata,

tratta degli esseri umani), alle psico-patologie, ecc., sono dure realtà su cui, in

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parte, la stessa UE, in parte gli stessi governi locali, invitano il mondo del nonprofit

ad agire concretamente, in termini di prevenzione e di intervento.

Certo è che, proprio in tali paesi, spesso, la denominazione giuridica

“cooperativa” evoca “spettri” del passato collettivista, rispetto ai quali occorre

ragionare e spiegare serenamente agli interlocutori locali, la specificità

dell’economia sociale, proprio per “sgombrare il campo” da equivoci e false

interpretazioni.

E’ quindi forti di tali considerazione che va implementata una strategia di

accompagnamento e tutoraggio di tutte quelle realtà di economia sociale che

“guardano” all’internazionalizzazione delle proprie attività nell’ottica descritta.

Essenzialmente, un lavoro di questo tipo presuppone le seguenti azioni:

1) l’analisi delle risorse interne delle cooperative, al fine di consentire una

capitalizzazione ed una sistematizzazione dei propri saperi e know-how, con

relativo posizionamento rispetto ai mercati;

2) la predisposizione di programmi di intervento, e/o la partecipazione a bandi

europei o nazionali nei paesi-obiettivo, attraverso strumenti che già oggi sono

messi a disposizione dal Ministero delle Attività Produttive (come ad esempio la

realizzazione di consorzi per l’internazionalizzazione delle attività), una specifica

formazione rispetto alla “filosofia” dell’intervento di internazionalizzazione, che non

prevede una sorta di “colonizzazione” economica (così come purtroppo, avviene,

spesso, da parte di alcuni mondi “profit”), bensì finalizzata a realizzare partenariati,

sinergie e collaborazioni con i protagonisti dell’economia e dei mondi vitali locali,

consentendo, “in loco”, lo “spin-off” e lo “start-up” di nuova impresa con

manodopera locale e, nei limiti del possibile, capitale locale;

4) un “salto di qualità” nel senso dell’assunzione del rischio imprenditoriale,

iniziando un nuovo percorso di “autonomizzazione”, rispetto alla logica della

dipendenza dai soggetti e dai poteri pubblici, da agire su un livello più alto (quello

internazionale, appunto), non certo in modo isolato o solitario, bensì attraverso

formule imprenditoriali che favoriscano ottiche consortili, federative, l’afflusso di

capitali misti (pubblici, privati, e, per l’appunto, del privato sociale e delle

cooperative sociali in particolare).

Il limite storico dell’economia sociale, in particolare per quanto concerne le CB,

come parte del tessuto economico e produttivo che permette l'abbassamento delle

barriere che ostacolano l’ingresso e la permanenza nel mondo del lavoro di quei

soggetti più deboli e meno garantiti dal mercato tradizionale, in genere opera in

settori marginali, a basso valore aggiunto, a bassa redditività e ad elevata

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instabilità, relegando così le opportunità di integrazione di soggetti svantaggiati

solo a settori poco qualificati: obiettivo della presenza sugli scenari internazionali

dell’economia sociale è, dunque, operare, quindi, affinché l’IS si inserisca in settori

di mercato innovativi e ad elevata possibilità di sviluppo, al fine di rispondere

sempre meglio alle esigenze di sostenibilità delle imprese sociali e di sviluppo della

qualità delle imprese stesse.

3.2 GLI SCENARI NAZIONALI

3.2.1 Punti di forza e criticità del sistema dell’economia sociale italiano

La ricognizione sui dati dell’economia sociale italiana, i mille dibattiti (mai

definitivamente esauriti) sulla definizione dell’impresa sociale, all’interno degli

ulteriori dibattiti sul nonprofit e sul “terzo settore” e, non ultima, l’attuale

evoluzione del sistema di welfare nazionale, induce gli Enti Pubblici (in particolare

le Regioni) ad un profondo ripensamento del proprio ruolo istituzionale nei campi

dell’economia sociale nazionale.

Contestualmente, sono le stesse imprese sociali a dover verificare al proprio

interno la coerenza con la propria mission aziendale ed a dover aggiornare le

proprie pratiche di lavoro in funzione dei mutamenti di tali scenari.

a) I punti di forza

Il nostro Paese possiede, nella legge 381/’91, una delle normative più evolute

rispetto ad un corretto approccio al fenomeno dell’impresa sociale, e, ciò,

nonostante essa non sia priva di elementi su cui il dibattito debba essere

ulteriormente approfondito (ma questo dipende anche dal fatto che l’economia

sociale rappresenta un fenomeno ancora relativamente recente): i suoi “punti forti”

sono la “filosofia”, i modelli ed i metodi del lavoro sociale, la “leva” legislativa

dell’art. 5 consente infatti l’affidamento alle cooperative sociali di appalti che,

accanto all’incentivazione della presenza sui mercati del settore nonprofit, attuano i

principi e le metodologie dell’inclusione lavorativa.

La riforma del sistema dell’economia sociale nazionale e locale trova poi un

ulteriore rafforzamento attraverso il recepimento dell’art. 20 L. 52/’96, finalizzato

all’assegnazione all’economia sociale delle gare con “clausola sociale” sopra soglia.

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b) Le criticità

Le CS, come testimoniano i dati ISTAT, presentano una situazione di forte

crescita economica e occupazionale, non priva, tuttavia, dei rischi e delle

contraddizioni che si accompagnano alle trasformazioni del welfare (sussidiarietà e

devolution) e alla crescente precarizzazione del lavoro.

In particolare, come si è già visto precedentemente:

- le tipologie di interventi sono prevalentemente finalizzati alla realizzazione di

servizi di natura socio-assistenziale (cooperazione sociale di tipo “A”), che non si

configurano come veri e propri fenomeni imprenditoriali di economia sociale,

quanto piuttosto, come sistemi di gestione, in nome e per conto del soggetto

pubblico, di servizi socio-assistenziali, con la conseguente, forte dipendenza dal

sistema pubblico di erogazione delle risorse, ed i rischi connessi al fenomeno

dell’indebolimento dei canali di trasferimento della finanza pubblica;

- la scarsa capitalizzazione delle organizzazioni nonprofit con conseguente, limitata,

assunzione di rischio imprenditoriale;

- le difficoltà di sviluppo dei modelli e degli approcci connessi alla cooperazione

sociale di tipo “B”, conseguenza delle non complete attuazioni dei principi legislativi

sia dell’art. 5 della l. 381 (e, conseguentemente dell’art. 20 L. 52/’96), e dell’art.

12 della l. 68, il cui recepimento, da parte dei Centri per l’Impiego provinciali e dal

sistema aziendale “profit”, non si è concretizzato in un’attenzione reale nei

confronti delle categorie di soggetti svantaggiati difficilmente collocabili od

“incollocabili” (target che l’esperienza quotidiana dimostra poter trovare ampio

spazio nella CB).

Ne discende, come conseguenza, la necessità di percorsi di autonomizzazione

economico-finanziaria, da parte delle CA e, conseguentemente, di diversificazione

del proprio prodotto/servizio, e la scarsa promozione dei soggetti che operano in

regime di economia sociale, ovvero, soprattutto, la CB, costretta a lavorare con

mezzi poverissimi ed in settori di “nicchia”, con le inevitabili ripercussioni sulla loro

stabilità economico-finanziaria e sul piano dei contratti per il personale, in

particolare quello svantaggiato.

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3.2.2 Ruolo e compiti delle istituzioni e delle sue agenzie di sviluppo per

l’implementazione del sistema dell’economia sociale

Uno dei principali problemi dell’attuale assetto organizzativo delle città italiane

e del sistema di vita che le governa, è quello della crescente complessità, a fronte,

paradossalmente, di una maggiore presa di coscienza dei problemi, di attivare

forme effettive di inclusione sociale dei cittadini più deboli, debolezza che sempre

di più si caratterizza per la sua natura molteplice, dalle differenze culturali, sociali,

etniche, oltre, evidentemente, a quelle di ordine fisico e psichico: si tratta di

restituire vitalità ad uno slancio che la nostra tradizione e cultura non hanno certo

soppresso, ma che fatica a sperimentare canali innovativi ed efficaci di intervento,

pur in presenza di opportunità legislative.

Occorre sottolineare come l’inclusione sociale dei soggetti deboli necessita di un

approccio e di un modello che ne enfatizzino quel principio di “presa in carico

globale” che consente di “individualizzare” i percorsi di inclusione, al fine di

affrontare le varie componenti del disagio sofferto e delle sue conseguenze, una

delle quali, tra le più gravi, è l’esclusione dal mercato del lavoro. Inoltre, operando

con la modalità “integrale” della presa in carico è possibile progettare interventi

che, se da un lato consentono la restituzione dei pieni diritti di cittadinanza,

dall’altro responsabilizzano il soggetto ad affrontare attivamente e

responsabilmente il mercato del lavoro, spezzando i circoli viziosi degli interventi

meramente assistenziali.

Tale modello di intervento può risultare “vincente” a patto che vengano

realizzati alcuni, indispensabili passaggi, fondamentali per fare chiarezza sulla

complessità dell’intervento di inserimento lavorativo sociale delle fasce deboli, nella

prospettiva del modello citato.

L’impresa sociale deve poter avere uno spazio centrale nell’approccio ai temi

dello sviluppo economico ed etico-sociale del nostro Paese: ciò è possibile solo a

patto che forze politiche, istituzionali, economiche e mondi vitali vengano messi in

condizione di strutturare un'unica rete per la creazione e la gestione di un’azione di

sistema che ottimizzi i percorsi di sviluppo dell’impresa sociale e dei principi

dell’inclusione al lavoro.

Tale lavoro risulta indispensabile ed è possibile solo tenendo presenti alcuni

criteri cardine attraverso cui si struttura tale modello, nel riconoscimento delle

specificità di tutti i “nodi” della rete, nodi che solo in questo modo possono

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contribuire efficacemente ad una corretta impostazione al problema dell’inclusione

sociale.

Tali criteri cardine sono i seguenti:

1) mettere in rete ed integrare le numerose competenze istituzionali, cui spetta il

compito di individuare i bisogni (attraverso il monitoraggio costante della

“domanda di lavoro” e delle reali opportunità offerte dal mondo dell’impresa

“profit” e “nonprofit”), ed allestire dei tavoli di lavoro operativi che consentano

l’effettiva “personalizzazione” degli interventi sulle fasce deboli;

2) un pieno utilizzo degli strumenti legislativi a disposizione delle istituzioni (con

particolare riferimento alla legge 68/’99 sul “collocamento mirato” delle fasce

deboli ed al principio dell’esternalizzazione che coinvolge principalmente il mondo

della CB);

3) ottimizzare tutte le risorse che la società civile esprime relativamente al tema

specifico: in particolare, la sensibilità da sempre espressa dal mondo del lavoro,

dell’impresa e sindacale rispetto ai temi dell’inclusione sociale;

4) indirizzare una gestione delle risorse all’interno del sistema, che permetta un

dialogo efficiente alla ricerca della massima efficacia.

Alla luce di tali valutazioni, dal punto di vista del sistema complessivo, e dei

suoi attori principali, alle istituzioni spettano i seguenti compiti e responsabilità:

a) Ruolo di promozione dell’economia sociale all’interno delle stesse

istituzioni

1) promozione dei principi e delle metodologie burocratico-amministrative

dell’art. 5 /381, per dare alla norma piena applicazione, fungendo, così, da

“volano” per lo sviluppo regionale dell’economia sociale;

2) promozione dello sviluppo dei principi della socio-eco-sostenibilità, che, da

una parte, incoraggiano l’integrazione e l’inclusione sociale, e, dall’altra, indirizzano

l’economia sociale verso settori realmente innovativi della sostenibilità ambientale

(risparmio energetico, energia da fonti rinnovabili, ecc.), sostenendo il processo di

uscita dell’economia sociale dalle proprie “nicchie” imprenditoriali;

b) Ruolo di promozione presso l’economia sociale

1) attraverso un lavoro di consulenza alle imprese sociali per attivare percorsi

di riqualificazione e diversificazione dei propri progetti, prodotti e servizi sul piano

dell’innovatività nei settori di intervento, delle politiche di capitalizzazione e

dell’utilizzo degli strumenti economico-finanziari;

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2) attraverso un servizio di accompagnamento e tutoraggio rivolto alle imprese

sociali, per attivarsi con modalità innovative rispetto alla progettazione ed

attuazione dei fondi destinati all’economia sociale.

3.3 GLI SCENARI LOCALI: IL “WELFARE MUNICIPALE17”

3.3.1 Un nuovo modello di welfare

La riorganizzazione dei sistemi di welfare sanitario e sociale ha seguito, negli

ultimi 25 anni, un modello a carattere prevalentemente istituzionale e

assistenziale, a costi crescenti e ormai insostenibili, con impoverimento delle

famiglie e delle comunità locali sia in termini di competenza relazionale, sia in

termini economici. Dal modello tradizionale di welfare assistenziale si è venuto

sempre più affermando, in questi ultimi anni, un welfare dei consumatori, utenti di

aziende ed organismi erogatori di prestazioni, tariffate, numerate, quantificate,

acquisibili ovunque sul mercato pubblico e privato.

Con l’introduzione di questo “sistema dei consumatori” si è passati da un

modello integrato, centrato sulla titolarità di funzioni di erogazione in capo al

soggetto pubblico, a un modello contrattuale, imperniato sulla separazione fra

soggetti acquirenti e soggetti erogatori delle prestazioni.

Il limite del welfare dei servizi, laddove si è realizzato pienamente, risiede

proprio nella delega ad un sistema reso vieppiù efficiente ma non per questo

efficace dalla risposta ad ogni bisogno sanitario e sanitario-sociale, in cui il

soggetto, la famiglia, la comunità gradualmente non contano più come risorsa.

Le leggi di riorganizzazione dell'assistenza sociale e sanitaria, pur avendo

rappresentato grandi innovazioni di sistema e di concreta liberazione per decine di

migliaia di persone, non si sono trasformate in occasioni continuative di

cambiamento avvertite dalle persone e dalle famiglie. Non sono divenute risorse

effettive usufruite e percepite come tali dai portatori di bisogno. Non sono

divenute, in modo esteso, patrimonio sociale e cultura concretamente spendibile.

Una ragione, forse prevalente, delle difficoltà a procedere sulla strada indicata

dalle leggi di sistema citate (D. Lgs 229/99, Legge 328/00), è dovuta anche al

17 Righetti A. (Responsabile Ufficio Progetti Speciali e Sviluppo Aziendale, ASL n° 2, Caserta), Documento

di sintesi “Fondazione della Salute”, Caserta, 2006

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mancato sviluppo dei sistemi di welfare a carattere comunitario, volti ad accrescere

protagonismo, contrattualità e libertà di scelta delle persone e delle famiglie nei

confronti delle istituzioni. Ciò ha significativamente limitato il necessario processo

di trasformazione dei costi delle cure e dell’assistenza in investimenti produttivi di

salute che soddisfino realmente i bisogni delle persone e delle famiglie.

Ne è derivato un sistema solo in apparenza più efficiente, con costi sempre

maggiori, la cui efficacia percepita è sempre più scarsa.

Lo scenario alternativo che si ritiene di proporre è quello del passaggio da un

sistema di protezione sociale che ha affidato allo Stato il compito di produrre

benessere, e con esso la salute della popolazione, ad una realtà nella quale

produrre benessere – e con esso salute – che diventa un compito anche

della società civile, all’interno di un sistema relazionale che connette le

varie dimensioni del benessere (sociale, economico, ambientale, oltre che

meramente sanitario) fra le sfere civili e fra queste ultime e il sistema

politico-amministrativo.

Uno scenario che vede funzione principale dell’azione pubblica quella di

“incrementare l’autonomia dei soggetti” secondo principi di equità, di solidarietà, di

partecipazione e sussidiarietà.

Il modello cui si fa riferimento è quello della "comunità solidale", o della

“welfare community”: un modello di politica sociosanitaria che, modificando

profondamente i rapporti tra istituzioni e società civile, garantisce maggiore

soggettività e protagonismo alla comunità civile, aiutandola nella realizzazione di

un percorso di auto-organizzazione e di autodeterminazione fondato sui valori della

solidarietà, della coesione sociale e del bene comune.

Ciò è realizzabile, da un lato, attraverso la costruzione di sistemi di sostegno

delle persone, fondati sul rafforzamento delle reti naturali di comunità, sulla

qualificazione degli interventi di solidarietà organizzata e sulla migliore integrazione

con i servizi territoriali socio-sanitari, “capaci” di “fare comunità”; dall’altro,

attraverso la ridefinizione di approcci, metodologie e tecniche per conseguire

efficacia ed appropriatezza dell’assistenza, dei servizi e delle prestazioni del

Servizio Sanitario Nazionale, relative alle specifiche esigenze delle persone in

condizioni di disabilità sociale conseguente o concomitante a malattie psichiche o

fisiche e a marginalità socio-ambientale.

Si delinea, quindi, un programma di trasformazione progressiva degli

interventi: da modalità prevalentemente sanitarie di risposta al bisogno socio-

sanitario, a forme partecipate ed organiche al tessuto sociale.

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La centralità della persona ed il valore dei legami di comunità sono gli assunti

che sostengono le linee d’intervento della metodologia descritta, fondata sulla

progettualità individuale.

In tal senso, si ritiene necessario aumentare la capacità di presa in carico

comunitaria (formale e informale) dei bisogni delle persone con disabilità sociale e

realizzare interventi in cui la “persona” sia sostenuta negli atti di vita quotidiana da

forme di solidarietà organizzata, che la veda partecipe insieme alle famiglie, ai

volontari, agli operatori pubblici e privati.

3.3.2 Promuovere i legami di comunità

Si delinea, quindi, lo scenario di un welfare mix fondato sulla comunità, sulla

responsabilizzazione dei suoi membri ed, in primo luogo, dei destinatari dei

programmi che, in questa prospettiva, devono giocare un ruolo più attivo e,

perfino, imprenditoriale. Non più con-sumers ma pro-sumers, cioè cittadini

portatori di un bisogno che sono al contempo produttori, distributori e consumatori

dei beni e servizi di welfare. Sono essi i protagonisti di nuove forme di mercato non

più esclusivamente fondato sullo scambio di beni o servizi ma sulla creazione di

legami, altrimenti detti beni relazionali.

3.3.3 Un nuovo rapporto con gli attori privati: dall’esternalizzazione alla

partnership

L’attività riabilitativa nelle aree sociosanitarie è innanzitutto attività di

promozione attiva, garanzia, ricostruzione dell’accesso ai diritti di cittadinanza delle

persone con disabilità sociale. In tale contesto, va ridefinito il rapporto con gli attori

privati, sinora ispirato – in modo talvolta implicito – al meccanismo della delega di

attribuzioni e competenze, in un modello bipolare di relazione pubblico-privato.

Nel modello di comunità solidale, qui proposto, i Servizi Pubblici non delegano

la gestione di una parte delle proprie competenze al privato, ma piuttosto ricercano

partners per la costruzione/rimodulazione dei contesti ove intervenire sulle

determinanti sociali.

Il ruolo del partner privato (in particolare l’economia sociale e civile) non sarà la

produzione di un rigido (anche se articolato) set di prestazioni o la gestione di

strutture più o meno protette, ma la realizzazione di occasioni di

apprendimento/espressività, casa/habitat sociale, formazione/lavoro, socialità,

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ossia di intervento sulle principali determinanti della salute ed al tempo stesso di

promozione e garanzia dei diritti dei cittadini nelle aree citate. Al centro del

sistema sarà, quindi, la “persona” con un nome ed un volto unico ed irripetibile,

portatrice di valori, convinzioni, scelte individuali, e non una struttura od una

organizzazione (anche se nonprofit). Al partner si dovrà chiedere di fornire queste

occasioni attraverso la valorizzazione dell’ambiente, dei contesti, delle famiglie e

delle relazioni.

Per raggiungere questi obiettivi è essenziale attivare strumenti d’integrazione

organizzativa (Unità di Valutazione e Progettazione) per la formulazione di Progetti

terapeutico-riabilitativi personalizzati, con assegnazione di responsabilità precise e

di precise scadenze di verifica con il coinvolgimento delle famiglie nell’attuazione

degli stessi, possibilmente su base locale/comunale.

E’ altresì indispensabile riconvertire i costi sanitari in investimenti: la variabile

economica, seppur necessaria, deve in questa progettualità essere “incorporata”

nel sociale e gli elementi di scambio devono centrarsi sui legami più che sui beni (i

beni forniscono l’indispensabile mediazione d’oggetto in un percorso riabilitativo).

Si dovranno promuovere, in altri termini, forme di privato sociale che

favoriscano l’inserimento nelle compagini sociali, in veste di soci fruitori, dei

destinatari dei servizi, come strategia di (ri)attribuzione di poteri e diritti ai soggetti

deboli. Si tratta in sostanza di evitare che qualcuno (una organizzazione) faccia

qualcosa su o per qualcun altro (i fruitori) a fronte di un vantaggio economico (il

bene), ma di ottenere che qualcuno faccia qualcosa con qualcun altro (il legame).

Il partner privato (insieme con gli altri soggetti) promuoverà e sosterrà la

nascita ed il funzionamento di gruppi di mutuo-aiuto di famigliari e di persone con

disabilità sociale e di cooperative sociali, specie di quelle con finalità di inserimento

lavorativo e di fruizione di spazi abitativi. Verranno realizzate organizzazioni

mutuali in cui siano presenti diversi portatori di interesse: gli utenti ed i loro

rappresentanti, i lavoratori, i volontari ecc, coinvolti e sostenuti dal Servizio

Pubblico cui comunque spetta la responsabilità della funzione di controllo nella

direzione del welfare comunitario.

3.3.4 Il budget di cura come ambito di sperimentazione del nuovo modello di

welfare municipale

L’investimento economico, definito “budget di cura” (BdC), rappresenta l’unità

di misura delle risorse economiche, professionali e umane necessarie per innescare

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un processo volto a ridare ad una persona, attraverso un progetto terapeutico

riabilitativo individuale, un funzionamento sociale accettabile, alla cui produzione

partecipano il paziente stesso, la sua famiglia e la sua comunità.

Attraverso il budget di salute s’intendono promuovere effettivi percorsi

abilitativi individuali nelle aree (corrispondenti al tempo stesso ai principali

determinanti sociali della salute e a diritti di cittadinanza costituzionalmente

garantiti): apprendimento / espressività, formazione / lavoro, casa / habitat

sociale, affettività / socialità.

Sinteticamente, gli obiettivi nelle quattro aree dovranno essere:

a) occasioni di apprendimento, applicazione e sviluppo delle conoscenze

acquisite, in maniera strutturata (reti formali) e non strutturata (reti informali).

Obiettivo delle attività dovrà essere l’apprendimento e l’acquisizione di abilità,

prima non possedute, e/o lo sviluppo delle stesse, avendo cura d’identificare ciò

che la persona è in grado di fare;

b) conseguimento ed eventuale possesso da esercitare della casa/habitat

sociale, in forma singola o mutualmente associata (gruppi di convivenza).

Le abitazioni, che attraverso il BdC entrano nella disponibilità delle persone-utenti,

potranno avere forme di supporto differenziate, in relazione alla scelta delle stesse

persone-utenti e del servizio pubblico;

c) formazione professionale e pratica di una attività - in qualità di soci

lavoratori o fruitori di ambienti operosi, produttivi e di alto scambio

interumano - come sostegno alla costruzione di forme reddituali attive delle

persone-utenti in età lavorativa, con finalità emancipative o economiche, oppure

come partecipazione attiva alla comunità;

d) concrete risposte ai bisogni minimali delle persone in condizione di

svantaggio, di promozione dell’avere, del possedere, della proprietà personale,

intese come elementi ricostruttivi e mediatori dell’affettività/socialità e, quindi,

della contrattualità. La promozione continua degli strumenti di partecipazione

attiva, all’interno degli organismi di solidarietà organizzata.

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PARTE B)

LE CONDIZIONI PER UN NUOVO SVILUPPO:

LINEE GUIDA

1. FARE IMPRESA SOCIALE

1.1 LE POLITICHE AZIENDALI ED IMPRENDITORIALI DELL’ECONOMIA

SOCIALE

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1.1.1 Premessa

L’economia sociale intende ricercare una coerenza di fondo con gli obiettivi di

natura economica, sociale ed ambientale riconducibili al principio di “sviluppo

sostenibile”.

Tale scelta di fondo intende favorire il perseguimento di azioni caratterizzate da tre

obiettivi:

1. politiche dell’occupazione centrate sull’inserimento professionale di soggetti

“esclusi” o “portatori di svantaggio”;

2. politiche d’impresa ispirate alla ricerca di una maggiore competitività nel

mercato della sostenibilità eco-socio-ambientale

3. politiche ispirate ad un ruolo di co-progettazione sociale con gli enti locali.

1.1.2 Politiche dell’occupazione

Nel quadro della Strategia Europea per l’Occupazione, l’economia sociale

contribuisce allo sviluppo economico locale ed all’aumento delle opportunità

occupazionali attraverso la creazione di iniziative imprenditoriali che consentano ai

lavoratori delle imprese sociali, con particolare riferimento ai soggetti svantaggiati

a norma della l. 381/91 ed alle fasce deboli e/o soggetti a rischio di esclusione in

generale, l'opportunità di posti di lavoro di maggiore qualità, più remunerativi e

maggiormente qualificati. La considerazione alla base di tale scelta è che un

soggetto svantaggiato inserito in settori marginali riesce con difficoltà a superare la

condizione di svantaggio, mentre se inserito in percorsi qualificati può evolvere e

compiere un reale processo di inclusione sociale.

Vale la pena sottolineare ulteriormente lo sforzo teso a favorire formule

organizzative che favoriscano l’inclusione di soggetti con difficoltà ad inserirsi nel

mercato del lavoro tradizionale (e, quindi, non solamente di coloro che possiedono

un “certificato” di disagio conclamato), siano esse dovute a ragioni sanitarie o

sociali, o da collegare ai processi di espulsione di categorie di lavoratori giudicati

non più competitivi nel mercato di lavoro tradizionale (ragione da attribuire ai

processi di lavorazione che presuppongono l’utilizzo di tecnologie avanzate, che

comportano “barriere” all’accesso od il trasferimento in Paesi a minor costo di

manodopera degli stessi processi).

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1.1.3 Politiche d’impresa

L’impresa sociale deve tentare di individuare bacini occupazionali e modelli

imprenditoriali innovativi che permettano alle strutture dell'economia sociale di

sperimentare il passaggio da soggetti che assorbono risorse pubbliche a soggetti

che creano e valorizzano risorse per lo sviluppo locale sostenibile.

Da questo punto di vista, appaiono decisivi i processi di costituzione e ricerca di

“reti” europee e nazionali finalizzate, fondamentalmente, a perseguire i seguenti

obiettivi:

1. aumentare le attività di “lobby”, per posizionarsi in forma sempre più

competitiva nei rispettivi mercati e la visibilità nel mercato, nel tentativo di

espandere le proprie “quote di mercato” e di favorire la crescita del sistema

dell’economia sociale,

2. integrare e complementare esperienze, anche allo scopo di conoscere

rispettivamente potenzialità (‘plus’) ed aree di miglioramento (‘minus’) , favorendo

lo scambio di eccellenze e “know-how”, marketing e metodologie di lavoro,

3. combattere l’aggressività dell’economia di mercato rispetto a settori cui alcuni

provvedimenti di legge nazionali (e direttive europee) potrebbero favorire un

accesso;

4. “abbattere” i costi della produzione dei servizi.

1.1.4 Ruolo di co-progettazione sociale nel campo dell’eco-socio-sostenibilità

(sviluppo socialmente sostenibile)

Vi è poi da sottolineare che i processi di integrazione e connessione sopra descritti

intendono conciliare due aspetti dell’impresa sociale che, se non governati,

apparirebbero in contrapposizione l’uno con l’altro:

a. le potenzialità offerte dalla dimensione locale delle singole realtà ed unità

produttive, che favoriscono, per loro stessa natura, il collegamento con il territorio-

mercato, la controllabilità, trasparenza e democraticità delle azioni di

imprenditorialità sociale,

b. le opportunità che nascono da strutture di coordinamento provinciali, regionali,

nazionali ed europee.

Come soggetti imprenditoriali, ma al tempo stesso “costruttori” di processi di

sostenibilità e “compatibilità” di tipo etico, prima ancora che economico e sociale, i

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soggetti dell’economia sociale. diventano, di fatto, soggetti in grado di porsi come

co-progettisti sociali, di concerto con i soggetti pubblici, con un numero di

investitori sempre più consistente proveniente dal privato e con la stessa

cittadinanza attiva.

Tale co-progettazione si traduce, come già suggerito in precedenza, in promozione

di comunità locali solidali e competenti rispetto alle proprie domande/bisogni ed

alla consapevolezza delle conseguenze delle proprie scelte di comportamento e di

consumo (in particolare rispetto all’ambiente, in senso ampio).

D’altronde, le sinergie con reti più larghe consentono di garantire una “ricaduta

benefica”, che è un valore aggiunto tipico delle “grandi imprese” (si pensi ai

processi federativi o consortili), e che garantisce inevitabilmente la diffusione di

una cultura d’impresa nel campo dello sviluppo sostenibile.

Ancora, le strutture del benessere sociale e l’integrazione dei soggetti “disagiati”,

come pure le compatibilità economiche della gestione del “welfare” sono problemi

di tutti gli Stati europei: sono esportabili, a livello europeo, quelle esperienze in cui

le prassi economico-sociali rappresentino un modello che non solo intercetta, ma

stimola il cittadino/consumatore, favorendo, da parte delle imprese, il presidio del

territorio, cosa che potrebbe garantire la sintonia con le tendenze del mercato e,

per ciò stesso, migliorare la qualità, mantenendo costi “compatibili”.

1.2 L'IDEA IMPRENDITORIALE ED IL BUSINESS PLAN18

L’idea imprenditoriale è l’elemento di input centrale per avviare un percorso di

costruzione di un’azione nel mondo dell’IS: ogni qualvolta ci si trovi nella condizione

di dover prendere una decisione di tipo imprenditoriale, è necessaria una

programmazione seria ed oculata, al fine di abbattere quanto più possibile il rischio

naturalmente connesso alle iniziative economiche.

L'elemento principale di tale progettazione ed analisi è il Business Plan: il

Business Plan (BP) è il documento, strategico e programmatico, sul quale devono

basarsi le scelte imprenditoriali, nelle fasi di creazione, start-up, posizionamento e

18 Il presente materiale riprende, rielaborandolo sinteticamente secondo modalità autonome, contributitratti da vari corsi e moduli formativi della S.D.A Bocconi (Scuola di Direzione Aziendale dell’UniversitàBocconi di Milano), 2005, cui i redattori hanno partecipato tra il 2003 ed il 2005.

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103

sviluppo.

Se compilato con i giusti criteri, il BP (o Piano di Impresa o Piano di Fattibilità o

Progetto di Impresa) rappresenta:

1. lo strumento più idoneo per valutare la possibilità di successo dell'idea;

2. un piano operativo compiuto ed efficace per individuare e gestire le azioni;

3. il progetto da sottoporre ai finanziatori per poter valutare la bontà della proposta;

4. la base per effettuare il controllo dei risultati e porre in essere gli strumenti

correttivi;

5. la pianificazione per individuare gli investimenti e tutte le risorse necessarie

all'iniziativa;

6. lo strumento grazie al quale individuare il bisogno finanziario dell'impresa per

a v v i a r e l a p r o p r i a a t t i v i t à ;

7 . l ' ana l i s i su cu i basa re l ' o rgan i z zaz i one a z i enda l e ;

8. la formulazione più coerente degli obiettivi e dello sforzo necessario al loro

raggiungimento.

Il BP si compone di due parti: una descrittiva ed una numerica.

Nella parte descrittiva occorre formalizzare l'idea (produzione di beni e/o servizi) e la

struttura con la quale realizzare l'idea, nonché specificare quali e quanti sono i clienti

di riferimento (domanda), quanti e quali sono i concorrenti (offerta), quali politiche di

vendita si adotteranno e quali sono i punti di forza e di debolezza della nuova

impresa.

Nella parte numerica si procederà a definire: risultato economico previsto, attraverso

l'individuazione dei costi e dei ricavi; stato patrimoniale, attraverso la previsione

delle attività e delle passività; possibilmente analisi dei flussi finanziari ed indici di

bilancio. Il tutto su base, almeno, triennale.

Gli elementi e le tematiche da sviluppare all'interno del BP sono le seguenti:

1. l'individuazione dell'opportunità imprenditoriale;

2. l'analisi dell'ambiente competitivo;

3. analisi dei fattori critici di successo;

4. analisi delle risorse che si hanno a disposizione;

5. le scelte strategiche inerenti al segmento di intervento ed al posizionamento

aziendale;

6. il piano marketing;

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7. i piani operativi ed organizzativi;

8. il piano economico-finanziario e le proiezioni su più anni.

1.3 L’ANALISI DELLE RISORSE

Le risorse finanziarie rappresentano l'insieme del capitale (proprio o di terzi)

che può essere messo a disposizione dell'iniziativa. Questo serve a finanziare gli

investimenti e l'attività nei primi mesi di vita, ovvero nel lasso di tempo impiegato

dal sistema per garantire la liquidità necessaria al funzionamento ordinario

dell'azienda. E' importante sottolineare che occorre bilanciare la previsione del

fabbisogno (attraverso un'adeguata valutazione) con la capacità di indebitamento (e

quindi la possibilità di onorare gli impegni presi con i terzi finanziatori grazie alla

redditività delle vendite): solo l'equilibrio fra tali aspetti permette di costruire

un'azienda solida dal punto di vista strutturale.

Per quanto riguarda le Risorse Umane occorre stabilire su quali forze si può

contare, quali sono le competenze, quali ruoli e funzioni possono essere ricoperti

nella fase di start-up. Laddove ci si renda conto che le risorse interne sono

insufficienti, bisogna valutare la possibilità di usufruire di apporti professionali esterni

(difficilmente, all'inizio, si potrà pensare a delle assunzioni): in tal caso occorrerà

stabilire accordi adeguati, in grado di garantire l'affidabilità della prestazione e la

disponibilità nel tempo.

1.4 L’AMBIENTE COMPETITIVO

Per ambiente competitivo si intende l'insieme dei soggetti e delle dinamiche di

interrelazione che caratterizzano il settore di interesse.

Per giungere ad un quadro di lettura significativo, è opportuno procedere

dapprima ad un'analisi dei fattori macroscopici (analisi di scenario), di riferimento

generale, riconducibili al settore in sè, e poi calarsi nel mercato specifico in cui

opererà la nuova azienda, nell'osservazione dei "fenomeni di segmento".

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E' importante procedere in questo senso in quanto sarà sempre il settore di

appartenenza ad influenzare, con una diffusione "a pioggia", tutte le ramificazioni

successive e sottostanti; inoltre, ricostruire le origini dello sviluppo dei

prodotti/servizi ai quali ci riferiamo permetterà di individuarne gli elementi peculiari,

le costanti e le dinamiche alle quali la nostra offerta sarà particolarmente sensibile.

1.4.1 Analisi della domanda

Occorre avere a questo punto un'esatta definizione delle caratteristiche

qualitative e quantitative in termini di vendita:

- Quanti e quali sono i tipi di clienti? Perché i clienti acquisteranno il

prodotto/servizio, quali sono i bisogni dominanti?

- Quali sono le leve di maggiore efficacia nel processo di acquisto?

- Quanto è importante la componente del servizio accessorio al prodotto?

- Come si distribuiscono le vendite nel corso dell'anno?

- A cosa è dovuto il fenomeno?

- Cosa spinge il cliente a cambiare fornitore?

1.4.2 Analisi dell’offerta

Analizzare l'offerta significa, essenzialmente, esaminare la concorrenza ed

individuare le caratteristiche degli operatori di mercato e dei prodotti/servizi presenti.

Una buona analisi permetterà poi di individuare i punti di forza e di debolezza dei

competitors, le aree già "affollate" dal punto di vista della numerosità competitiva, le

aree scoperte (possibilmente appetibili da un punto di vista reddituale), le difficoltà di

inserimento che si incontreranno.

Fra i vari aspetti da rilevare troveremo:

- Cosa offrono i concorrenti?

- Chi sono e come si suddividono il mercato (in termini di volume e valore)?

- A quanto ammonta il fatturato medio?

- Ci sono accordi tra le aziende?

- Quali strategie adottano le aziende?

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- Quali sono le risultanze di queste strategie?

- Come sono ripartite le aziende sul territorio?

1.4.3 Ciclo di vita del prodotto/servizio ed analisi di eventuali prodotti sostitutivi

E' essenziale procedere anche alla ricostruzione del ciclo di vita del

prodotto/servizio, al fine di individuare quale offerta potrebbe posizionarsi nella fase

di avvio o sviluppo, in modo da non correre il rischio di sacrificare le risorse a

disposizione in un prodotto/servizio giunto alla fase di maturità o, peggio, di declino.

Per prodotti sostitutivi si intendono quei beni/servizi che possono, anche con

caratteristiche tecniche diverse, soddisfare, in maniera analoga, il bisogno del nostro

cliente potenziale. Per prodotti complementari si intendono beni e servizi

direttamente connessi all'utilizzo di ciò che è oggetto della nostra offerta.

Si dovrà accertare:

- quali sono i prodotti sostitutivi (o tecnologie o modalità di gestione degli impianti)

che soddisfano il medesimo bisogno?

- quali sono gli elementi che possono indurre il cliente ad acquistarli al posto del

nostro prodotto/servizio (prezzo, servizi accessori, modalità di pagamento,

personalizzazione degli impianti, facilità d'uso, modalità d'acquisto, ecc.);

- quali punti di forza/debolezza presentano?

- quali sono i prodotti complementari o, comunque, direttamente o indirettamente

connessi all'utilizzo/fruizione del nostro prodotto/servizio?

Come potrebbero influenzare il successo di vendita del nostro prodotto/servizio?

1.4.4 Punti di forza e di debolezza; minacce ed opportunità; vantaggi competitivi

Se le analisi precedenti sono state effettuate nella giusta maniera, si è giunti alla

possibilità di individuare esattamente quali sono i punti a favore della concorrenza e

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quali a sfavore: si dovrà, soprattutto, lavorare su questi ultimi, cercando di colmare i

vuoti di lasciati dagli altri.

L'analisi delle minacce e delle opportunità è invece mirata a: individuare gli

avvenimenti che in futuro potrebbero influenzare il settore di appartenenza, in modo

negativo o positivo; quantificare gli effetti ed i tempi di accadimento; porre in atto gli

strumenti atti a fronteggiare i pericoli o sfruttare le possibilità.

Una particolare minaccia per la nuova impresa è l'ingresso sul mercato di

concorrenti, forti dal punto di vista finanziario, tecnologico, organizzativo, che,

valutata la bontà dell'idea decidono una massiccia aggressione commerciale. Fin dal

momento della nascita, l'impresa deve porre in atto tutte le strategie mirate

all'acquisizione, immediata, di un vantaggio competitivo difendibile: fra queste

figureranno certamente i servizi orientati alla fidelizzazione del cliente.

1.5 LE SCELTE STRATEGICHE ED IL POSIZIONAMENTO COMPETITIVO

Una volta delineato il quadro competitivo (ovvero tutti gli elementi caratterizzanti

il segmento nel quale intendiamo muoverci) e le risorse che abbiamo a disposizione,

possiamo definire le nostre scelte strategiche: sulla base di queste appronteremo i

p i a n i o p e r a t i v i .

In merito al segmento prescelto, dovremo procedere ad una definizione esatta dei

target di riferimento, con caratteristiche specifiche, bisogni da soddisfare,

comportamenti di acquisto: ogni gruppo dovrà godere di politiche ad hoc, mirate alla

massima soddisfazione (Customer Satisfation). Ad ogni categoria corrisponderà

quindi un prodotto ed un insieme organizzato ed ottimizzato di strumenti

appartenenti al Marketing Mix.

Ultimo elemento da definire è il "Posizionamento Competitivo" ovvero la

collocazione sul mercato rispetto ai concorrenti; il modo con il quale il target deve

percepire l'azienda (in termini di offerta); l'insieme dei valori attribuiti dal cliente ai

prodotti/servizi.

Per disegnare una buona mappa di posizionamento è consigliabile scegliere

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parametri significativi, al di fuori di quelli generalmente utilizzati (qualità, prezzo).

Nel campo delle energie rinnovabili potrà essere opportuno selezionare valori quali:

risparmio energetico, anni di ammortamento impianto, necessità di manutenzione

etc

Quanto più l'azienda riuscirà a distinguersi dai concorrenti tante maggiori saranno

le possibilità di successo.

2. STRUMENTI PER AGEVOLARE L’INSERIMENTO

LAVORATIVO DI SOGGETTI SVANTAGGIATI

2.1 GLI STRUMENTI SOCIALI ED IMPRENDITORIALI

2.1.1 Borse lavoro

Quello della borsa lavoro è, attualmente, il principale strumento di carattere

sociale utilizzato per l’accompagnamento al lavoro delle persone svantaggiate.

Nella pratica operativa di questi anni si possono individuare tre diverse

tipologie di borsa lavoro, in relazione allo svantaggio sofferto dalla persona e

alle prospettive che per questa possono ragionevolmente aprirsi:

a) borse lavoro per persone affiancate agli operatori in situazione di

produzione, per dare loro la possibilità di sperimentare il contatto con la

dinamica lavorativa e/o l’impiego in diverse attività con lo scopo di orientarsi;

questi percorsi terminano, di norma, con l’assunzione definitiva della persona

(anche se non necessariamente nella cooperativa);

b) borse lavoro per gruppi di persone gestiti da un Istruttore Tecnico; essi

formano squadra a sé stante, marginale alla produzione, con l’obiettivo di

lavorare sulle capacità di base (ad es. memoria, concentrazione, espressione,

del vissuto, auto-valutazione, percezione del pericolo, ecc.); in taluni casi il

percorso può concludersi con l’inserimento lavorativo;

c) borse lavoro per persone con handicap molto grave, accompagnate da

operatori sociali e che dedicano alcune ore settimanali ad attività

complementari, di “rifinitura” alla normale produzione; si tratta, generalmente,

di casi in cui la gravità dello svantaggio sofferto non permette di progettare un

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inserimento lavorativo, ma per i quali ha comunque senso attivare un percorso

nell’ambito di un contesto produttivo “reale”.

2.1.2 La gemmazione d’impresa, l’assistenza allo start-up

L’economia sociale ha acquisito e consolidato, soprattutto in ambito

cooperativo, una notevole esperienza per quanto concerne l’assistenza

all’attivazione d’impresa, la consulenza allo start-up di nuove realtà

imprenditoriali (specialmente giovanili) e la consulenza nei processi di

riorganizzazione aziendale e di sviluppo delle strategie di marketing.

2.1.3 La mediazione e l’accompagnamento al lavoro

Per propria mission, l’economia sociale persegue l’obiettivo di una

integrazione tra le funzioni della CA e CB, quale parte di una più matura

concezione dell’intervento sociale, ritenendo che distinguere e separare ambiti

quali quelli dell’educazione e dell’assistenza da quello del lavoro, sebbene

motivato, per quanto concerne le tecnologie e gli aspetti operativi, costituisca

tuttavia una pericolosa parcellizzazione dell’intervento sul disagio della persona,

che rimane invece un soggetto “a tutto tondo”.

L’impresa sociale è perciò sempre più spesso impegnata in progetti in cui

detta integrazione risulta essere strategica: è nell’ambito di tale integrazione

che si profila sempre più chiaramente un ruolo del privato sociale attestato non

più soltanto sul livello socio-educativo dell’intervento, ma anche e soprattutto

su quello dei servizi all’impresa e quello dell’accompagnamento al lavoro in

situazione produttiva del soggetto.

2.1.4 Il processo di inserimento lavorativo del soggetto svantaggiato

L’inserimento lavorativo di una persona svantaggiata consiste

sostanzialmente nell’instaurazione di un rapporto di socio-lavoratore con la CS e

la contestuale assunzione in organico, alle condizioni contrattuali previste dallo

statuto e dai regolamenti (che i soci stessi si danno), con la regolare iscrizione

nel libro-matricola dell’azienda e l’emissione di una busta-paga; si tratta,

perciò, di una condizione radicalmente diversa da quella della persona che

usufruisce di una borsa lavoro, cioè una condizione che risponde a logiche che

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non sono soltanto quelle della riabilitazione e/o della terapia, ma anche e

soprattutto quelle della produzione e, in generale, della dinamica lavorativa,

anche se, ovviamente, esistono, a monte della definizione di un vero e proprio

rapporto di lavoro, tutti i passaggi intermedi necessari ad assicurare un

adeguato percorso di accompagnamento.

L’inserimento lavorativo è infatti principalmente un’opportunità, per la

persona svantaggiata, di partecipare attivamente, con le proprie capacità e

limiti, alla vita produttiva ed alle dinamiche del mercato, così come previsto

dalla legge 381/91, secondo la quale la CB persegue l’obiettivo dell’integrazione

sociale dei cittadini attraverso la produzione di beni e servizi, utilizzando il

lavoro quale strumento per l’emancipazione della persona.

Dal punto di vista dell’IS, ogni inserimento di persona svantaggiata

costituisce una scommessa imprenditoriale, che presuppone una metodologia di

approccio e di gestione non casuale.

1. Per fare un inserimento lavorativo, in una qualsiasi delle attività della

cooperativa, si procede, innanzitutto, con un’analisi dell’attività stessa, in modo

da poterla scomporre in mansioni semplici, in singole procedure il più possibile

elementari.

2. Si passa poi alla conoscenza delle capacità dell’individuo da inserire, del suo

grado di autonomia, deducibili attraverso l’osservazione di alcuni indicatori

disponibili, quali ad esempio: la manualità, la resistenza alla fatica, la

meticolosità, la memorizzazione, la comprensione delle consegne, l’adattamento

alle diverse situazioni, il ritmo di rendimento, le relazioni con i colleghi,

l’organizzazione nel lavoro, l’iniziativa, la comprensione del processo lavorativo,

la continuità, la puntualità, il modo di presentarsi, la capacità di lavorare in

gruppo, etc.

3. Successivamente si tenta l’abbinamento tra le mansioni individuate e le

capacità della persona, affidando quest’ultima alla supervisione in affiancamento

del caposquadra o di un operatore esperto.

4. A questo punto si apporta una modificazione al contesto produttivo,

tentando di trovare un primo nuovo equilibrio, compatibile con il nuovo

operatore entrato, riguardo a ritmi, tempi, ambiente e rapporti, il tutto assieme

ai colleghi di lavoro e, quando possibile e/o opportuno, al cliente.

5. Questo primo assetto produttivo viene progressivamente modificato nel

tempo, attraverso verifiche e aggiustamenti sia degli aspetti legati alla

produttività, sia degli aspetti relativi all’evoluzione delle capacità lavorative e

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111

alle aspettative che il soggetto ha maturato riguardo al proprio lavoro; si

verifica perciò un mutamento nelle condizioni di lavoro (mansioni, ritmi, tempi,

aumento/diminuzione di monte-ore, etc.) onde favorire lo sviluppo delle

capacità della persona, una sua migliore e più stabile collocazione nel processo

produttivo, nonché un migliore risultato economico per la cooperativa.

6. Un’attenzione particolare viene, infine, riservata alla formazione del

personale, con corsi di qualificazione o riqualificazione professionale, nonché

con momenti teorico-pratici di formazione interna, per migliorare lo svolgimento

delle attuali prestazioni lavorative o per orientare la persona verso altre attività

produttive.

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112

PARTE C)

ELEMENTI DI FATTIBILITA’ E COMPATIBILITA’ DELLO

SVILUPPO DELL’IMPRESA SOCIALE NEI MERCATI NAZIONALI

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1. I SETTORI PREVALENTI DI ATTIVITA’ DELLA

COOPERAZIONE SOCIALE DI TIPO “B” TRA POLITICHE

SOCIALI E POLITICHE DEL LAVORO

1.1 PREMESSA

Come cambia il mercato del lavoro nelle nostre società nell’attuale momento

storico?

Si assiste, essenzialmente, a 4 fenomeni, destinati ad influenzare enormemente il

rapporto con il mondo del lavoro, sia per quanto concerne i cosiddetti

“normodotati”, sia, a maggior ragione, le fasce deboli, ovvero:

a. una maggiore eterogeneità della composizione sociale dei soggetti che si

presentano sui mercati del lavoro;

b. una maggior variabilità delle prestazioni professionali e delle carriere

lavorative;

c. una maggior flessibilità dei rapporti di lavoro e diffusione delle forme di lavoro

atipico;

d. una pluralizzazione delle forme del lavoro (tra cui anche quello precario).

Come si è visto, la disabilità è una condizione che ognuno, anche

temporaneamente, può sperimentare nella propria vita (dunque, non è più un

problema di una gruppo minoritario di popolazione): una delle conseguenze della

mutazione di approccio al tema è rappresentata dal fatto che la parola handicap è

stata eliminata.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha pubblicato, nel 2001, la

“Classificazione internazionale del funzionamento, della disabilità e della salute”

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(’ICF), che 191 Paesi, tra cui l’Italia, riconoscono come la nuova norma per

classificare salute e disabilità.

Si hanno, secondo tale impostazione, due criteri di classificazione delle fasce

deboli, e precisamente:

Fasce deboli tradizionali

a. per ragioni legate a fattori fisici congeniti o consequenziali;

b. per ragioni legate a patologie psichiatriche: molte di queste patologie sono

condizionate dai processi strettamente legati al contesto sociale post-industriale,

patologie borderline, doppia o triplice diagnosi);

c. per ragioni legate a fattori di contesto familiare pluriproblematico;

d. per ragioni legate a fattori legati a scelte di vita alternative

Nuove fasce deboli

“I sopranumerari (esuberi)”: il cui problema nasce dal fatto che le nuove

esigenze della iper-competitività, accompagnata dalla riduzione di posti di lavoro,

li rendono “inutili” e non immediatamente funzionali allo sviluppo economico del

sistema.

L’impostazione citata ha inevitabilmente comportato e comporterà in modo

sempre più incisivo dei mutamenti dal punto di vista della ratio dell’impostazione

delle politiche imprenditoriali dell’economia sociale ed, in particolare, della CB.

Di seguito i principali “passaggi storici” attraverso i quali l’Unione Europea ha

indicato le linee strategiche di sviluppo dell’imprenditorialità finalizzata alla lotta

all’esclusione sociale che così da vicino “tocca” l’IS.

E’ a partire dal 1997 che parte il processo finalizzato alla costruzione della

Strategia Europea dell’Occupazione (SEO): in base ad essa, e secondo l’approccio

centrato sulla“presa in carico globale delle problematiche delle fasce deboli

rispetto all’inclusione lavorativa e sociale, le politiche del lavoro vengono definite

una “questione di interesse comune”.

I principi fondamentali della SEO sono:

a. dotarsi di una strategia coordinata per le rispettive politiche nazionali

b. l’istituzione di un meccanismo di “sorveglianza multilaterale”

c. la definizione delle 4 linee strategiche: occupabilità, imprenditorialità,

adattabilità, pari opportunità

d. ogni linea strategica è articolata in diciannove linee direttrici

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Successivamente, all’interno dei Consigli europei di Lisbona, di Nizza e di

Stoccolma (2000), si punta su un’impostazione integrata delle politiche e dei

modelli di intervento in tema di esclusione sociale.

Le politiche del lavoro sono passate da una prevalente azione passiva di

protezione del reddito (o l’indennizzazione del soggetto svantaggiato) ad una

stimolazione diretta alla partecipazione dei soggetti nel mercato del lavoro.

In particolare, esse cercano di rispondere ai seguenti requisiti:

b. mirare a promuovere capacità e non ad assegnare beni e risorse;

b. sviluppare capacità, sia specifiche che aspecifiche (o trasversali);

c. analizzare le condizioni soggettive dello svantaggio;

d. implementare politiche del corso della vita;

e. integrazione tra le politiche del lavoro e le politiche sociali

Oggi si stima che sono più di 55 milioni le persone a rischio di esclusione,

ovvero il 15% della popolazione europea.

Occorre arricchire l’agenda delle misure di welfare e sostenere il pieno

intreccio tra politiche del lavoro e politiche sociali.

Le politiche del lavoro vengono definite una “questione di interesse

comune”, ma la questione veniva posta già nel libro Bianco di J. Delors del

1993, le cause dell’emorraggia occupazionale venivano individuate in:

1) la congiuntura economica

2) la struttura politico-economica

3) lo sviluppo tecnologico

Il terzo "tipo" di disoccupazione che caratterizza il sistema europeo è quella

tecnologica: benché esistano nuovi bisogni legati al cambiamento degli stili di

vita, alla trasformazione delle strutture e delle relazioni familiari, alla crescita

dell'occupazione femminile ed al progressivo invecchiamento della popolazione,

alla tutela ambientale ed al recupero delle aree urbane, il mercato non vi fa

fronte, in quanto lo sviluppo della domanda e dell'offerta incontra ostacoli

notevoli. Dal lato della domanda si pone il problema dell'elevato costo relativo

del lavoro scarsamente qualificato, che si riflette sul prezzo dei servizi, mentre

dal lato dell'offerta vi è la tendenza a considerare questo tipo di lavori

degradanti, poiché ritenuti scarsamente qualificati. Questo tipo di servizi,

pertanto, vengono solitamente lasciati al mercato nero o all'iniziativa statale.

Secondo le stime, i cosiddetti lavori "socialmente utili" sarebbero in grado di

creare 3 milioni di nuovi posti di lavoro all'interno dell'Unione.

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Il "libro bianco" di J. Delors indica, tra l’altro, alcuni "nuovi bacini

d'impiego":

1. I servizi zonali di assistenza

assistenza domiciliare agli anziani e ai disabili, assistenza sanitaria,

preparazione di pasti e i lavori domestici; custodia dei bambini che non hanno

ancora raggiunto l'età scolare e, fuori dell'orario scolastico, degli scolari,

compresi gli spostamenti tra casa e scuola; assistenza ai giovani in difficoltà,

attraverso il sostegno a livello scolastico, offerta di attività ricreative

(soprattutto sportive), inquadramento per i più svantaggiati; sicurezza di

immobili destinati ad abitazione; piccoli negozi mantenuti in aree rurali ma

anche nei quartieri decentrati.

2. L'audiovisivo

3. Le attività ricreative e culturali

4. Il miglioramento della qualità della vita

rinnovamento dei vecchi quartieri e dei vecchi habitat per migliorare il comfort

(attrezzature sanitarie e isolamento acustico) e garantire meglio la sicurezza,

sviluppo dei trasporti pubblici locali, resi più confortevoli, frequenti, accessibili

(in particolare ai disabili) e sicuri, e offerta di nuovi servizi quali i taxi collettivi

nelle aree rurali.

5. La protezione dell'ambiente

conservazione delle zone naturali e degli spazi pubblici (riciclaggio locale dei

rifiuti); trattamento delle acque e risanamento delle zone inquinate; controllo

delle norme di qualità; dispositivi per risparmio energetico, segnatamente per le

abitazioni.

1.2 I SETTORI PREVALENTI DI ATTIVITA’ DELLE COOPERATIVE SOCIALI

DI TIPO “B”

Si è tentata una ripartizione empirica del tipo di attività prevalentemente svolta

dalle cooperative sociali di tipo “B”, sulla base delle indicazioni fornite dalla Lega

Nazionale delle Cooperative, all’interno di un lavoro di ricerca che DROM,

consorzio nazionale della cooperazione sociale, d’intesa con l’ANCST e grazie al

contributo di Coopfond, ha realizzato a partire dal gennaio 2004 e pubblicato nel

2005.

La rilevazione risente del fatto che, nelle schede che individuano i settori di

attività delle aziende, una percentuale rilevante di esse ha dichiarato

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117

semplicemente di svolgere attività di inserimento lavorativo di soggetti

svantaggiati, non identificando alcuna specifica azione imprenditoriale riferibile ai

settori di attività, dunque, per esse, non è stato possibile rilevarne i settori (se

non per conoscenza diretta da parte dei redattori).

Di fatto, sono state individuate, all’interno della ricerca, 162 cooperative, per i

quali, invece, è stato possibile rilevare i settori di attività prevalenti: ne emerge,

quindi, un quadro delle attività attualmente svolte dalle CB aderenti a Legacoop,

che si riporta nella seguente tabella:

Settore di attività prevalente N° assoluto N°%Pulizie 37 23,0 %Raccolta differenziata-Verde-Giardinaggio-Florovivaismo-Parchi

27 16,7%

Ristorazione collettiva 15 9,3%Attività artigianali e rilegatoria erestauro

11 6,7%

Servizi educativi, ricreativiculturali e sportivi

8 5,0%

Manutenz ion i , e l e t t r i c i t à ,meccanica, termoidraulica

8 5,0%

Servizi informatici-grafica estampa

7 4,3%

Turismo 7 4,3%Agricoltura (anche biologica) edallevamento

6 3,7%

Facchinaggio-Spedizioni 6 3,7%Edilizia 5 3,1%Trasporti 5 3,1%Custodia-Sicurezza-Antincendio 4 2,5%Gestione parcheggi 3 1,8%Gestione museale e bibliotecaria 3 1,8%Manutenzione Cimiteri 2 1,2%Commercio equo 2 1,2%Lavanderia industriale 2 1,2%Bar 1 0,6%Servizi audio-video 1 0,6%Gestione call-center 1 0,6%Servizi amministrativi 1 0,6%Totale 162 100%

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Come si vince dalla tabella, sulle 162 imprese sociali individuate, 79

(corrispondente al 49% del totale, ovvero praticamente la metà) riferiscono,

come settore di attività prevalente le pulizie, l’ambito ambientale/ecologico e la

attività relativa alla ristorazione collettiva: si tratta, di fatto, di una conferma di

quelli che sono i settori tradizionali in cui la CB si è andata posizionando nel corso

dei suoi 10 anni di azione imprenditoriale.

Non è possibile, in base ai dati in possesso dei redattori, a proposito di tali

dati, dire qualcosa circa la natura pubblica o privata dei finanziamenti e degli

investimenti realizzati, ma è da credere, anche sulla base dei dati

precedentemente descritti, che una parte consistente di essi provenga da

erogazioni pubbliche.

Vi è poi da considerare che il dato riferito alle prime 3 voci sia

percentualmente sovrastimato, rispetto agli altri: ciò corrisponde ad una precisa

scelta metodologica, dal momento che si è preferito rilevare il settore di attività

prevalente per non sovrastimare il dato relativo alle attività che hanno valori

economico-finanziari marginali all’interno delle stesse cooperative.

Si è scelto cioè, di “fotografare” i settori di attività della CB aderente a

Legacoop cercando di inquadrare quelle che, allo stato attuale, sono le loro scelte

imprenditoriali prevalenti.

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119

2. GUIDA ALLE SCHEDE PER I LETTORI

Sulla base dell’esperienza quotidiana, confermata dai dati appena riportati, è

possibile dunque, identificare alcuni bacini di attività, da parte delle CB che ne

rappresentano, per così dire, il “serbatoio” storico o tradizionale della propria

azione imprenditoriale.

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Le finalità della presente ricerca sono anche quelle di consentire un’analisi dei

parametri economico-finanziari che rappresentano i valori di base per un corretto

approccio, da parte delle neo-imprese sociali, ai mercati all’interno dei quali

ricercare un posizionamento.

In tal modo si intende offrire una sorta di “guida tecnica”, di natura

economico-finanziaria, per verificare la compatibilità e l’accessibilità rispetto al

proprio progetto imprenditoriale.

Si è distinto, in questo senso, tra case-studies riferiti a settori prevalenti di

attività, distinguendoli da quelli che si è definito settori innovativi

(prevalentemente nel settore delle energie e delle fonti rinnovabili e nel campo

agricolo ed agrituristico).

La tabella riportata di seguito individua i parametri prescelti per analizzare la

sostenibilità e la compatibilità imprenditoriale:

PARAMETRO

ECONOMICO/FINANZIARIO

INDICATORE

SOGLIA DI ACCESSO AL MERCATOMODELLO ORGANIZZATIVO IMPRESASOCIALECAPITALE INIZIALEPERCENTUALE LAVORO SUL PRODOTTOCOSTI LOCALIZZATIVIRICAVI MINIMI ATTESI ANNUIMARGINE OPERATIVO

Rispetto a ciascun settore di attività verrà, dunque, riportata un’indicazione

relativa alla soglia di accesso (alta, media o bassa), il tipo di modello

organizzativo minimale richiesto, il capitale iniziale minimo richiesto (riferito in

molti casi a mini od auto-impresa come spesso capita nella CB, almeno nella fase

iniziale del proprio ciclo di vita), la percentuale del lavoro sul prodotto, la

definizione di costi, ricavi e margine operativo.

3. “CASE STUDIES” SUI SETTORI DI INTERVENTO TIPICI

DELL’ECONOMIA SOCIALE ITALIANA

3.1 SETTORE RISTORAZIONE, MENSE, PREPARAZIONE PASTI, BAR,

PANIFICIO

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121

3.1.1 Scheda riepilogativa

PARAMETRO

ECONOMICO/FINANZIARIO

INDICATORE

SOGLIA DI ACCESSO AL MERCATO ALTA

° ADEMPIMENTI:- PREPOSTO PER ISCRIZIONE AL

REC- RELATIVI AL DECRETO

LEGISLATIVO 155 DEL 1997- AUTORIZZAZIONE SANITARIA

LOCALE

- REQUISITI I S O 9 0 0 1(FACOLTÀ DELL’ENTE PUBBLICO)° NECESSITÀ DI INVESTIMENTI

RELATIVI A MACCHINARI, LOCALI

E MEZZI DI TRASPORTO

° NECESSITÀ DI ADDETTI CON

ESPERIENZA SPECIFICA NELLA

R I S T O R A Z I O N E E

SOMMINISTRAZIONE DI ALIMENTI

E BEVANDE

MODELLO ORGANIZZATIVO IMPRESASOCIALE

1 DIRETTORE CON ESPERIENZA

ALMENO TRIENNALE

1/3 CUOCHI DIPLOMATI (DI CUI

1 CAPOCUOCO)2/6 AUSILIARI DI CUCINA

TRASPORTATORI

CAPITALE INIZIALE 100.000 PERCENTUALE LAVORO SUL PRODOTTO 50%COSTI LOCALIZZATIVI MEDI

RICAVI MINIMI ATTESI ANNUI 60.000 /ANNUI PER ADDETTO

MARGINE OPERATIVO 5-10 %

3.2 SETTORE EDILIZIA E PICCOLA MANUTENZIONE

3.2.1 Scheda riepilogativa

PARAMETRO

ECONOMICO/FINANZIARIO

INDICATORE

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122

SOGLIA DI ACCESSO AL MERCATO BASSA

° INVESTIMENTI RELATIVI A

MACCHINARI ED ATTREZZATURE

° NECESSITÀ DI AVERE

PERSONALE CON COMPETENZE DI

BASE NEL SETTORE

° P I A N O F O R M A T I V O

CORRISPONDENTE A MODULI

ESPERIENZIALI DI ALMENO

1.000 H.MODELLO ORGANIZZATIVO IMPRESASOCIALE

1 MURATORE

1 MANOVALE

CAPITALE INIZIALE 15.000 PERCENTUALE LAVORO SUL PRODOTTO 70%COSTI LOCALIZZATIVI MINIMI

RICAVI MINIMI ATTESI ANNUI 40.000 /ANNUI PER ADDETTO

MARGINE OPERATIVO 20 %

3.3 SETTORE SERVIZI TURISTICI

3.3.1 Scheda riepilogativa

PARAMETRO

ECONOMICO/FINANZIARIO

INDICATORE

QUOTA DI MERCATO -SOGLIA DI ACCESSO AL MERCATO BASSA

RIGUARDA L’ACQUISIZIONE DI

RISORSE CON ADEGUATA

CAPACITÀ GESTIONALE

PROFILI PROFESSIONALI ADEGUATI ALLA TIPOLOGIA DI

STRUTTURA RICETTIVA

CAPITALE INIZIALE NON INFERIORE AI 50.000 IN

B A S E A N C H E A L L E

C A R A T T E R I S T I C H E D I

STAGIONALITÀ DELLA STRUTTURA

PERCENTUALE LAVORO SUL PRODOTTO SEZIONE RISTORATIVA: 50%SEZIONE IMMOBILIARE: 15%(AL NETTO DELLA RENDITA

IMMOBILIARE)COSTI LOCALIZZATIVI ALTI SIA NEL CASO DI ACQUISTO

DELLA STRUTTURA, SIA NEL CASO

DELL’AFFITTO

RICAVI MINIMI ATTESI ANNUI 75.000 ANNUI

MARGINE OPERATIVO 10%

3.4 SETTORE PULIZIA

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123

3.4.1 Scheda riepilogativa

PARAMETRO

ECONOMICO/FINANZIARIO

INDICATORE

QUOTA DI MERCATOSOGLIA DI ACCESSO AL MERCATO BASSA

° (E V E N T U A L E ) FASCIA DI

CLASSIFICAZIONE DELLE IMPRESE

DI PULIZIA (D.M. 274/’97)° (EVENTUALE) REQUISITI

ISO9001 (FACOLTÀ DELL’ENTE

PUBBLICO)MODELLO ORGANIZZATIVO IMPRESASOCIALE

1 PERSONA CON ESPERIENZA

1 ADDETTO O PIU’CAPITALE INIZIALE 1.000

PERCENTUALE LAVORO SUL PRODOTTO 95%COSTI LOCALIZZATIVI MINIMI

RICAVI MINIMI ATTESI ANNUI 25.000 /ANNUI PER ADDETTO

MARGINE OPERATIVO 1 %

3.5 SETTORE AMBIENTE E RIFIUTI

3.5.1 Scheda riepilogativa

PARAMETRO

ECONOMICO/FINANZIARIO

INDICATORE

QUOTA DI MERCATOSOGLIA DI ACCESSO AL MERCATO BASSA

° INVESTIMENTI RELATIVI A

M A C C H I N A R I E D

ATTREZZATURE

° NECESSITÀ DI AVERE

PERSONALE CON COMPETENZE

DI BASE NEL SETTORE

° P I A N O F O R M A T I V O

CORRISPONDENTE A MODULI

ESPERIENZIALI DI ALMENO

200 H.MODELLO ORGANIZZATIVO IMPRESASOCIALE

1 PERSONA CON ESPERIENZA

PLURIENNALE E FORMAZIONE

SPECIFICA

1 ADDETTO O PIU’CAPITALE INIZIALE 30.000

PERCENTUALE LAVORO SUL PRODOTTO 90%COSTI LOCALIZZATIVI MINIMI

RICAVI MINIMI ATTESI ANNUI 28.000 /ANNUI PER

ADDETTO

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124

MARGINE OPERATIVO 3-4 %

3.6 SETTORE LOGISTICA

3.6.1 Scheda riepilogativa

PARAMETRO

ECONOMICO/FINANZIARIO

INDICATORE

SOGLIA DI ACCESSO AL MERCATO MEDIA

° NECESSITÀ DI ISCRIZIONE

ALL’ALBO TRASPORTATORI PER

CONTO TERZI

° NECESSITÀ DI ISCRIZIONE

ALL’ALBO DELLE IMPRESE DI

FACCHINAGGIO

INVESTIMENTI RELATIVI A MEZZI

DI TRASPORTO

° NECESSITÀ DI AVERE

PERSONALE CON COMPETENZE DI

BASE NEL SETTORE E PRESTANTE

FISICAMENTE

° P I A N O F O R M A T I V O

CORRISPONDENTE A MODULI

ESPERIENZIALI DI ALMENO 100H.

MODELLO ORGANIZZATIVO IMPRESASOCIALE

1 PERSONA CON ESPERIENZA

1 ADDETTO O PIU’CAPITALE INIZIALE 20.000 PERCENTUALE LAVORO SUL PRODOTTO 90%COSTI LOCALIZZATIVI MEDI

NECESSITÀ DI UN CAPANNONE

PER RICOVERO MEZZI

RICAVI MINIMI ATTESI ANNUI 30.000 /ANNUI PER ADDETTO

MARGINE OPERATIVO 2-3 %

3.7 SETTORE SERVIZI MUSEALI

3.7.1 Scheda riepilogativa

PARAMETRO

ECONOMICO/FINANZIARIO

INDICATORE

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QUOTA DI MERCATO -SOGLIA DI ACCESSO AL MERCATO MOLTO ALTA

SI TRATTA DI UN’AZIONE:- DI INTERLOCUZIONE POLITICA CON IL

SOGGETTO PUBBLICO

- DI ACQUISIZIONE DI PROFESSIONALITÀ

IN DISCIPLINE AUTONOME NELL’AMBITO

DEI BENI CULTURALI

PROFILI PROFESSIONALI LAUREATI IN DISCIPLINE AUTONOME

NELL’AMBITO DEI BENI CULTURALI

CAPITALE INIZIALE PUÒ ANCHE ESSERE MOLTO BASSO,TRATTANDOSI DI BENI GIÀ ACQUISITI

PERCENTUALE LAVORO SULPRODOTTO

90%

COSTI LOCALIZZATIVI MOLTO BASSI, TRATTANDOSI DI

UN’AZIONE DI ESTERNALIZZAZIONE DA

PARTE DELL’ENTE PUBBLICO

RICAVI MINIMI ATTESI ANNUI -MARGINE OPERATIVO 7%

3.8 SETTORE SERVIZI BIBLIOTECARI

3.8.1 Scheda riepilogativa

PARAMETRO

ECONOMICO/FINANZIARIO

INDICATORE

QUOTA DI MERCATO -SOGLIA DI ACCESSO AL MERCATO MOLTO ALTA

SI TRATTA DI UN’AZIONE:- DI INTERLOCUZIONE POLITICA CON IL

SOGGETTO PUBBLICO

- DI ACQUISIZIONE DI PROFESSIONALITÀ

IN DISCIPLINE AUTONOME NELL’AMBITO

DEI BENI CULTURALI

PROFILI PROFESSIONALI LAUREATI IN DISCIPLINE AUTONOME

NELL’AMBITO DEI BENI CULTURALI

CAPITALE INIZIALE PUÒ ANCHE ESSERE MOLTO BASSO,TRATTANDOSI DI BENI GIÀ ACQUISITI

PERCENTUALE LAVORO SULPRODOTTO

90%

COSTI LOCALIZZATIVI MOLTO BASSI, TRATTANDOSI DI

UN’AZIONE DI ESTERNALIZZAZIONE DA

PARTE DELL’ENTE PUBBLICO

RICAVI MINIMI ATTESI ANNUI -MARGINE OPERATIVO 7%

3.9 SETTORE TERMOIDRAULICA

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126

3.9.1 Scheda riepilogativa

PARAMETRO

ECONOMICO/FINANZIARIO

INDICATORE

SOGLIA DI ACCESSO AL MERCATO MEDIA

° ADEMPIMENTI:- REQUISITI TECNICI AI SENSI

DELLA LEGGE 46/1990- REQUISITI I S O 9 0 0 1(FACOLTÀ DELL’ENTE PUBBLICO)° NECESSITÀ DI INVESTIMENTI

RELATIVI A MACCHINARI E MEZZI

DI TRASPORTO

° NECESSITÀ DI ADDETTI CON

ESPERIENZA SPECIFICA NEL

SETTORE

° P I A N O F O R M A T I V O

CORRISPONDENTE A MODULI

ESPERIENZIALI DI ALMENO 1000H.

MODELLO ORGANIZZATIVO IMPRESASOCIALE

1 IDRAULICO CON ESPERIENZA

ALMENO PLURIENNALE

1 O PIÙ ADDETTI APPRENDISTI

CAPITALE INIZIALE 5.000 PERCENTUALE LAVORO SUL PRODOTTO 60%COSTI LOCALIZZATIVI MEDI

RICAVI MINIMI ATTESI ANNUI 55.000 /ANNUI PER ADDETTO

MARGINE OPERATIVO 20 %

3.10 SETTORE IMPIANTI ELETTRICI

3.10.1 Scheda riepilogativa

PARAMETRO

ECONOMICO/FINANZIARIO

INDICATORE

SOGLIA DI ACCESSO AL MERCATO MEDIA

° ADEMPIMENTI:- REQUISITI TECNICI AI SENSI

DELLA LEGGE 46/1990- REQUISITI I S O 9 0 0 1(FACOLTÀ DELL’ENTE PUBBLICO)° NECESSITÀ DI INVESTIMENTI

RELATIVI A MACCHINARI E MEZZI

DI TRASPORTO

° NECESSITÀ DI ADDETTI CON

ESPERIENZA SPECIFICA NEL

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127

SETTORE

° P I A N O F O R M A T I V O

CORRISPONDENTE A MODULI

ESPERIENZIALI DI ALMENO 1000H.

MODELLO ORGANIZZATIVO IMPRESASOCIALE

1 ELETTRICISTA CON ESPERIENZA

ALMENO PLURIENNALE

1 O PIÙ ADDETTI APPRENDISTI

CAPITALE INIZIALE 5.000 PERCENTUALE LAVORO SUL PRODOTTO 60%COSTI LOCALIZZATIVI MEDI

RICAVI MINIMI ATTESI ANNUI 55.000 /ANNUI PER ADDETTO

MARGINE OPERATIVO 20 %

4. LE FONTI RINNOVABILI COME SETTORE INNOVATIVO

PER UN NUOVO SVILUPPO DELL’ECONOMIA SOCIALE

ITALIANA

4.1 PERCHE’ FARE IMPRESA NEL CAMPO DELLE FONTI RINNOVABILI

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128

L’ipotesi che anima questa parte del lavoro è che le attività eco-sostenibili e le

risposte all'emergenza ambientale rappresentino bacini innovativi in grado di

rispondere ed offrire soluzioni concrete alle esigenze di qualificazione e di sviluppo

imprenditoriale dell'economia sociale.

L’IS, intesa come nuova realtà produttiva, è fortemente legata al proprio ruolo

ed alle proprie strategie volte a sostenere lo sviluppo dei singoli territori, definendo

e sperimentando metodologie innovative: essa, in particolare, nel settore delle

fonti energetiche rinnovabili (FENR), intende favorire strategie che consentano

l’allocazione nelle fasce alte del mercato del lavoro, individuando così un nuovo

modello di economia sociale che, invece di gravare sul pubblico, sia il soggetto

centrale di un processo di sviluppo delle risorse pubbliche economiche e naturali.

L’economia sociale moderna sta operando, sempre di più, in settori ad alto

valore aggiunto e su ambiti sempre più specializzati e caratterizzati da più alti livelli

di qualificazione: la creazione di IS operanti nei settori sopra menzionati, quindi ,

potrà fornire una importante risposta in termini di espansione in settori sempre più

qualificati.

Infatti, le IS, ed in particolare le CB impegnate nell’attività di inserimento

lavorativo di soggetti svantaggiati, hanno operato, fino ad oggi, in settori a basso

valore aggiunto e su lavori poco specializzati e caratterizzati da bassi livelli di

qualificazione.

Ma lo scenario sta rapidamente mutando.

Occorre porre l’accento sulle metodologie e strategie imprenditoriali,

economiche e finanziarie che permettano e facilitino l'ingresso di imprese sociali

all’interno di tali bacini.

L’economia sociale può mettere a punto la creazione di strumenti e modalità di

lavoro, finalizzate alla promozione del dialogo e della creazione di reti tra mondo

istituzionale (ai sensi della legge 328/00), produttivo ed associativo e tra i diversi

attori del campo della sostenibilità ambientale, attraverso relazioni/partenariati con

soggetti pubblici come Enti Locali ed Università e privati (coinvolgendo il mondo del

profit, anche facendo leva sui principi della “Responsabilità Sociale dell’Impresa”)

come pure le imprese tecnologiche, necessarie per rendere sostenibile il nuovo

modello di impresa sociale.

Inoltre, l’obiettivo della promozione dello sviluppo locale, legato sia ai soggetti

classici dell'economia sociale che alle nuove tecnologie per la tutela e lo sviluppo

dell'ambiente, trova nelle attività legate allo sviluppo sostenibile il mercato

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129

possibile per la propria crescita e per la definizione di un nuovo modello di

economia sociale.

A livello di processi, l’imprenditoria sociale consente l’adozione di approcci

“multifocali” e sistemici rispetto al tema del disagio ed alle tipologie di svantaggio

(l’economia sociale nutre ormai una grande esperienza nelle politiche di

occupazione di soggetti a svantaggio certificabile e soggetti il cui svantaggio non è

certificabile, soggetti, cioè, che si è fatto precedentemente rientrare nell’ambito del

più ampio concetto di “disagio della normalità”), ed ai temi connessi a nuove

metodologie formative offerte dalla società della conoscenza, azioni di

sensibilizzazione rivolte al tessuto produttivo ed agli operatori dei servizi rispetto

alle specifiche esigenze delle fasce deboli coerentemente con la dimensione delle

risorse umane e lo sviluppo di interventi volti a ridurre il disagio sociale.

L’economia sociale può svolgere, dunque, un ruolo centrale come attore

determinante rispetto alla diffusione e sviluppo delle FENR e come interlocutore

fondamentale per gli operatori dei relativi mercati di riferimento, per gli Enti Locali,

per gli operatori economici di una determinata comunità locale e per le fasce di

popolazione a rischio di esclusione sociale.

I soggetti dell’economia sociale si sono concretamente dimostrati la categoria di

attori locali più portata a promuovere “risposte in rete” a pluralità di bisogni

espressi a livello territoriale e sociale, collaborando con Enti Locali, imprese profit”

ed, eventualmente, attori diversi: è quindi idonea ad impegnarsi in settori

innovativi come quelli definibili dell’area della “sostenibilità socio-ambientale”,

creando così opportunità di inserimento delle IS nel nuovo mercato delle FENR.

4.2 MODELLI FORMATIVI

4.2.1. Obiettivi dell’azione formativa

Un’azione di carattere formativo nel campo dell’economia sociale finalizzata alla

diffusione dell’utilizzo di FENR risponde alle seguenti finalità:

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a. la nascita, lo sviluppo, il consolidamento dell'impresa sociale e la conseguente

creazione, stabilizzazione, aumento di qualità dei posti di lavoro per persone

altrimenti escluse dal mercato del lavoro;

b. la diffusione di buone prassi istituzionali finalizzate a favorire la crescita ed il

consolidamento dell'economia sociale quale risposta strutturale al problema

dell'esclusione sociale;

c. la diffusione della conoscenza e dell'utilizzo delle FENR, come scelta - sia

istituzionale che delle collettività locali in genere - di salvaguardia dell'ambiente e

di eco-sostenibilità.

4.2.2 Le azioni e le competenze

Tali modelli e percorsi formativi puntano all’individuazione delle professionalità

necessarie per le nuove imprese e/o per le imprese esistenti che vogliano

espandersi nel settore delle FENR, in particolare si concentrano su aspetti relativi al

“fare impresa sociale”, sulle metodologie di inserimento lavorativo, come pure sui

profili professionali tecnici necessari per la creazione di un’impresa che operi nel

settore delle FENR.

Le azioni puntano alla formazione di progettisti, promoters, capo-installatori,

installatori, all’applicazione di strumenti per l’inserimento lavorativo (di cui le

imprese sociali sono di natura già portatrici), a settori, come quello in questione, a

più alto grado di specializzazione ed a maggiore valore aggiunto ed a maggiore

redditività, consolidamento del raccordo con gli Enti Locali e con il mondo delle

famiglie e delle imprese profit.

Le azioni formative sono finalizzate all’individuazione di figure professionali in

grado di gestire ed operare all’interno di imprese sociali impegnate nel settore delle

FENR, a cui possano far riferimento i Comuni, Enti Parco ed altri Enti Locali per

richiedere consulenze per l’istallazione d’impianti che utilizzino FENR a favore della

valorizzazione del territorio e per la relativa analisi energetica.

Gli argomenti principali dell’azione formativa vertono su:

a. cultura tecnica specialistica nel settore dell’energia da fonti energetiche

rinnovabili;

b. cultura tecnica di base sulle metodologie tese alla conoscenza del territorio ed

all’acquisizione e sistematizzazione dei dati che ne descrivono le caratteristiche;

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c. cultura tecnica di base sulle metodologie di sfruttamento delle FENR e di

applicazione delle metodologie di risparmio energetico (URE);

d. conoscenza approfondita delle IS e delle problematiche rispetto all’inserimento

lavorativo delle cosiddette fasce deboli;

e. conoscenza dell’ente pubblico, dei meccanismi di funzionamento di gare, appalti,

affidamenti;

I tecnici formati sviluppano le seguenti competenze (ovviamente, ciascuno

all’interno del proprio grado e livello di mansioni):

• di assistenza tecnica alle pubbliche amministrazioni, strutture pubbliche e

comunità, PMI ed operatori economici individuali;

• di valutazione e selezione delle tecnologie energetiche appropriate ai diversi

contesti industriali, abitativi e pubblici, ecc.;

• realizzative, operative e tecniche per l’attivazione pratica dei piani energetici e

delle soluzioni individuate;

• tecnico-operative e relazionali per creare e gestire attività lavorative autonome

associate;

• di autoformazione continua, anche attraverso internet, per l’aggiornamento

professionale diretto ed il costante adeguamento delle sue competenze alle

richieste di mercato;

• di facilitatori del collegamento con le Istituzioni di competenza, Associazioni di

categoria, Enti ed Imprese del settore.

4.3 TIPOLOGIA DI IMPRESA SOCIALE IMPEGNATA NEL SETTORE DELLE

FONTI RINNOVABILI

La metodologia riguarda la creazione di nuove piccole imprese di 6-8 persone o

di unità aziendali di analoghe dimensioni in imprese esistenti, composte di tre

figure:

il promoter,il capo-installatore, l’ installatore, più un direttore/manager, se le

dimensioni dell’impresa lo richedono (il manager può, eventualmente, anche

coincidere con il promoter).

Numero Qualifica Mansioni

1 Manager Mansioni pertinenti ad attività di gestione

dell’azienda prevalentemente amministrative (fisco,

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legislazione, bandi di gara, etc.).

1 Promoter Mansioni pertinenti ad attività relative alle relazioni

con l’esterno (promozione, diffusione, seminari) ed alla

supervisione delle attività tecniche (progettazione,

dimensionamento e scelta degli impianti).

2 Capoinstallatori Ruolo di coordinamento tecnico delle attività di

montaggio, collaudo e manutenzione.

4 Installatori Ruolo di esecuzione delle attività tecniche di

montaggio, collaudo e manutenzione.

Uno schema organizzativo di riferimento può essere, pertanto, quello

individuato in figura 1:

FIGURA 1:

E’ evidente che, trattandosi di strategie per lo sviluppo locale che non possono

prescindere dalla reale condizione del tessuto socio-economico che caratterizza

ciascun territorio, l’eventuale presenza di aziende già operanti nel settore potrà dar

luogo ad azioni differenti, finalizzate al medesimo sviluppo occupazionale ma

attraverso l’utilizzo di strumenti che valorizzino questa eventuale presenza

imprenditoriale.

4.4 STRUMENTI IMPRENDITORIALI PER L’ECONOMIA SOCIALE

IMPEGNATA NELLE FONTI RINNOVABILI19

19

Consorzio ABN-A&B Network Sociale; “Progetto Renergy-Percorsi di accompagnamento alla creazione

di impresa e strumenti a supporto di iniziative dell’economia sociale nel bacino innovativo delle fonti

rinnovabili”, in “Equal Progetto I.TER.A”“L’impresa no profit nel settore ambientale”, 2004

1 Capo-installatore

1-2 Installatori

1 Capo-installatore

1-2 Installatori

1 Direttore Manager

1 Promoter

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133

4.4.1 Le strategie generali

La strategia generale che l’IS intende attivare per aumentare la propria

presenza nei bacini innovativi FENR ed URE consiste nello sviluppare azioni

integrate volte a favorire e promuovere il settore delle attività eco-sostenibili sia

nel mercato del pubblico che in quello del privato, creando un terreno fertile per la

crescita dell’economia sociale e per la nascita di attività di imprenditoria sociale in

settori ad elevato valore aggiunto ed ad alta specializzazione.

L’impresa sociale, nel corso degli ultimi anni, ha incentrato le proprie risorse per

favorire politiche occupazionali e di crescita dell'economia sociale individuando

come settori di mercato innovativo, appunto, quelli del risparmio energetico e delle

FENR.

Attualmente, l’economia sociale è particolarmente impegnata nel mercato,

nell’installazione di impianti alimentati da FENR e realizzando interventi di

risparmio energetico: l'idea portante è quella che individua negli Enti Locali i

soggetti centrali del processo di sviluppo dell'URE e delle FENR.

Gli enti locali (EE.LL.), infatti, essendo le realtà istituzionali più vicine al

cittadino, sono in grado di fungere da volano per il mercato privato, avviando un

processo di aggregazione della domanda.

La strategia generale consiste nell'attivare percorsi negli EE.LL. finalizzati alla

realizzazione di interventi di risparmio energetico e di impianti alimentati da FENR

nelle strutture pubbliche.

Al fine di rendere tale percorso un intervento di sistema, occorre formalizzare

accordi con l'obiettivo di offrire servizi di tipo formativo/consulenziale alle

Autonomie locali, con i quali i firmatari si impegnano ad operare insieme per:

• facilitare e promuovere il ricorso, da parte degli enti locali della Regione, ad

interventi che possano coniugare aspetti di rilevanza energetico-ambientale con i

valori e gli obiettivi propri dell’economia sociale;

• stimolare e favorire interventi di risparmio energetico e/o di utilizzo di fonti

energetiche rinnovabili sulle strutture pubbliche attraverso contratti ESCO (tema

che si avrà modo di approfondire in seguito);

• proporre, a titolo non oneroso, ai singoli Comuni l’espletamento di attività

riconducibili all’area ESCO (Energy Service Company) attraverso valutazioni di

“audit energetico” con l’elaborazione di un piano tecnico, economico e finanziario,

rientrante nella categoria F.T.T (Finanziamento Tramite Terzi) senza costi

aggiuntivi per gli EE.LL., in modo tale che vengano create le premesse per la

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costituzione di cooperative di lavoro e/o per la stabilizzazione di lavoratori in

mobilità;

• promuovere, sostenere e diffondere il processo sopra descritto e le buone

pratiche già sperimentate, anche utilizzando forme di affidamento diretto ai sensi

dell’art. 5 della Legge 381/91, favorendo in questo modo lo sviluppo di opportunità

occupazionali nel territorio della Regione, con particolare riferimento all’inserimento

lavorativo di soggetti a rischio di esclusione dal mercato del lavoro.

4.4.2 Gli strumenti finanziari20

A. Gli strumenti finanziari pubblici

Seppure con modalità sensibilmente diverse e con risultati, non sempre

all'altezza degli obiettivi prefissati, ogni paese europeo ha predisposto normative

ad hoc per il supporto finanziario all'adozione di sistemi di produzione di energia da

fonti rinnovabili, e le esperienze e gli strumenti finanziari privati non possono

prescindere dal fatto che si inseriscono in un contesto fortemente influenzato dalla

presenza del supporto pubblico.

A loro volta gli stessi Enti Locali possono sostenere il settore attraverso

sovvenzioni, anche sotto forma di fondi di garanzia per favorire l’accesso al credito,

piuttosto che attraverso sgravi sulla tassazione locale o misure che vadano ad

abbattere gli interessi passivi sul capitale di terzi, o altre forme di incentivazione

all’investimento tecnologico nel settore. Resta inteso che lo strumento finanziario

pubblico, che sia europeo, nazionale o locale, può fungere da volano all’attività

imprenditoriale, ma non può sostituire il suo fabbisogno di capitale proprio.

B. Gli strumenti finanziari privati

Gli strumenti privati possono essere divisi tra la raccolta e l’impiego dei

capitali.

La raccolta di strumenti finanziari privati può essere fatta attraverso particolari

prodotti previsti dal sistema bancario, ma anche direttamente dall’impresa sociale

secondo quanto previsto dalla riforma del diritto societario.

20 IdemNell’ambito del citato progetto, questa parte relativa agli strumenti finanziari a disposizionedell’economia sociale è stata sviluppata in sinergia con ricercatori diBanca Popolare Etica

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Gli istituti di credito, dal lato della raccolta, possono offrire ai propri

risparmiatori fondi verdi (fondi d’investimento socialmente consapevole), certificati

di deposito dedicati, conti correnti verdi e libretti di risparmio.

I fondi verdi (o fondi socialmente consapevoli) investono in imprese che si

distinguono per l'impegno nel settore ambientale (la verifica dei requisiti ambientali

richiede controlli e analisi periodiche normalmente effettuate da società di

consulenza specializzate). La gestione di questi fondi è basata sulla volontà

d’investire sulle imprese che manifestano una grande attenzione a tematiche (e

problematiche) anche di tipo ambientale. Si privilegiano, in generale, tutte le

imprese che tentano di conciliare l’obiettivo del profitto e i bisogni dei lavoratori e

delle comunità in cui operano.

E’ possibile identificare tre categorie di fondi esistenti:

• i fondi etici, basati sul criterio di evitare di finanziare le attività non in linea con

l’etica di chi li promuove e/o di vincolare l’impiego dei risparmi alle imprese che

dimostrano di ricercare il miglioramento dell’impatto sociale o ambientale della

propria attività;• i fondi del settore ambientale, che investono in imprese appartenenti al settore

ambientale tradizionale, costituito da quattro principali tipi: gestione delle acque,

riciclaggio dei rifiuti, tecnologie ambientali, recupero terreni abbandonati o

consulenza ambientale

• i fondi verdi, che investono principalmente tra le imprese definibili come green

pioners, ovvero nelle imprese che utilizzano energia pulita, nelle imprese agricole

biologiche, nelle imprese di turismo ecologico e nelle imprese che offrono al

dettaglio prodotti ecologici; questa nuova generazione di fondi rappresenta un

approccio più sofisticato a seguito di una più approfondita comprensione delle

relazioni tra problemi ambientali e rendimento finanziario.

I clienti dei fondi socialmente consapevoli sono privati, organizzazioni e gruppi

che rispettano i problemi etici, ambientali o religiosi; vi sono anche clienti

istituzionali come i fondi d’investimento, fondi pensione, e i governi interessati ad

investimenti di lungo periodo, consapevoli che i problemi ambientali e sociali

offrano un’ulteriore garanzia di profitto nel lungo periodo oltre ad essere

eticamente corretti.

I certificati di deposito sono un altro strumento di raccolta che può essere

finalizzato al finanziamento di energia da fonti rinnovabili; nel caso dei certificati di

deposito dedicati del tipo di quelli emessi dalla Banca popolare Etica in Italia, il

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risparmio è vincolato con una durata collegata al tasso di interesse; questi come

altri certificati di deposito caratterizzati in senso ambientale legano l’attività di

raccolta a quella d’impiego predefinito verso aziende che presentano chiare

caratteristiche di eco compatibilità. E’ la banca che garantisce l’uso dei fondi

raccolti con l’emissione dei certificati e s’impegna ad investirli (alle condizioni più

vantaggiose possibili) a sostegno di progetti ambientalmente proattivi.

I conti correnti verdi e i libretti di risparmio consistono in strumenti di raccolta a

disposizione del grande pubblico e delle imprese, con la peculiarità di vincolare

l'impiego del risparmio raccolto esclusivamente al finanziamento di attività nel

settore ambientale (e quindi anche della produzione di energia da fonti

alternative). In altri casi, come per esempio Banca Etica in Italia, è data al

risparmiatore la facoltà di indirizzare il proprio risparmio verso il settore

ambientale. Un altro esempio viene dall'olandese Triodos Bank che dispone di c/c e

libretti di risparmio differenziati a seconda che il risparmiatore sia un individuo o

un’impresa: al primo viene offerto un Eco Account, al secondo l’Eco Business

account.

Le IS possono a loro volta prevedere, nei propri statuto, l’emissione di

strumenti finanziari, sia di tipo partecipativo, che presuppongono la partecipazione

all’IS a titolo di socio finanziatore (o di socio ordinario) e permettono la

capitalizzazione della società attraverso apporti di capitale di rischio, sia di tipo non

partecipativo, che si sostanzia in ricorso a capitale di terzi alternativo al prestito

bancario.

Attraverso adeguate campagne di fund raising le IS possono rivolgersi

direttamente ai risparmiatori sensibili per ottenere un maggiore equilibrio

finanziario, oppure un tasso di interesse meno gravoso di quello bancario, o anche,

nella peggiore delle ipotesi, la possibilità di accedere a capitale di terzi, anche a

costi più elevati rispetto ai tassi bancari, in situazioni di scarsa bancabilità

dell’impresa stessa (in questi casi la previsione statutaria e la contrattualistica

devono essere stilate con la massima attenzione per evitare che l’IS venga a

trovarsi in una situazione di forte dipendenza dal socio finanziatore, se non

addirittura cadere vittima di logiche da usura).

Operazioni di fund raising particolarmente mirate potrebbero permettere alle IS

di aumentare il capitale proprio attraverso donazioni, oppure di accedere a capitale

di terzi con remunerazione a costo zero.

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La raccolta effettuata attraverso istituti finanziari si traducono ordinariamente in

impieghi attraverso operazioni di mutuo a favore delle IS, ma possono anche dare

luogo ad impieghi sotto forma di leasing, project finance, prestiti a condizioni

agevolate.

Il leasing per l’acquisto di tecnologie ambientali è una forma di finanziamento

molto flessibile, che risulta più efficace nel caso in cui le attrezzature oggetto del

contratto sono mobili e vendibili, anche se viene utilizzato in modo più generale. In

ambito ambientale si ricorre a tale forma di contratto per l’acquisto delle tecnologie

più disparate, dagli impianti di monitoraggio alle turbine a vento. Questa forma di

finanziamento a vantaggio del settore ambientale viene utilizzato quasi

esclusivamente in quei paesi in cui è collegato ad agevolazioni fiscali, quali l’Olanda

in cui esistono schemi di ammortamento anticipato per l’uso di nuova tecnologia

ambientale: solitamente, in questi casi, le banche diventano proprietarie legali delle

attrezzature, così da poter ottenere i vantaggi derivanti dall’ammortamento

anticipato, e poi danno le stesse in leasing a condizioni particolarmente

vantaggiose per le imprese che le utilizzano.

Il project finance si adatta particolarmente al finanziamento di progetti

innovativi in settori specifici, specialmente se richiedono investimenti notevoli. Nel

settore ambientale il project financing è ritenuto lo strumento più idoneo per una

efficace attivazione delle risorse progettuali e imprenditoriali: l’investimento può

riguardare progetti specifici inerenti l’acqua, l’energia rinnovabile o la gestione dei

rifiuti. Negoziare un contratto efficace può altrimenti essere difficile e controverso,

in particolare nei settori come quello idrico dove può comportare un incremento di

costi per l’utente. La finanza di progetto nel settore ambientale innovativo presenta

tuttavia dei limiti: nell’esempio classico di project financing, quale la costruzione di

un’autostrada o di un ponte, la certezza della tariffa è quasi assoluta e quindi

l’esistenza di sistemi accessori di garanzia per il finanziatore non ha ragione di

esistere; in questo caso, invece, anche se può esistere una tariffa che costituisce

una forma di garanzia del buon esito dell’investimento, i rischi per il finanziatore

crescono in maniera notevole a causa dell’innovatività del settore; ciò spiega la

riluttanza che spesso le banche manifestano nel finanziare tali progetti che

richiedono capitali molto elevati e offrono rendimenti finanziari di difficile

valutazione (anche perché di lungo periodo).

I prestiti a condizioni agevolate, anch'essi adottati da banche operative nel

settore ambientale, sono prestiti offerti a imprese sia grandi che piccole e intesi a

finanziare principalmente l’edilizia conforme a criteri ambientali, i miglioramenti

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dell’efficienza energetica e la sostituzione dei veicoli esistenti con unità a minor

impatto ambientale; offrono condizioni favorevoli per interventi di miglioramento

dell'efficienza energetica o in generale con impatto ambientale positivo, in generale

compensate da interventi pubblici a copertura dell’agevolazione della quota

interessi a favore dell’IS.

Tali prestiti possono rivolgersi anche alle persone fisiche, per prodotti specifici:

prestiti per favorire la conversione a veicoli che utilizzano carburanti meno

inquinanti, prestiti, garantiti o meno da ipoteca, per migliorare l’efficienza

energetica delle abitazioni, prestiti ipotecari agevolati per l’acquisto di abitazioni in

prossimità del luogo di lavoro per chi non possieda un’automobile. Anche in questo

caso il fatto che questi prodotti vengano effettivamente offerti spesso dipende dalla

possibilità di godere di incentivi fiscali.

C. Uno strumento specifico per gli investimenti FENR ed URE: Il Finanziamento

Tramite Terzi (F.T.T.) e le Energy Service Companies (ESCO)

Il Finanziamento Tramite Terzi (FTT) è un sistema di finanziamento di progetti

nel campo dell’energia allo scopo di promuovere interventi finalizzati alla

razionalizzazione energetica e alla sostituzione degli idrocarburi con fonti

rinnovabili, nell’ottica di migliorare o l’efficienza energetica del paese (istituzioni

pubbliche) o la bolletta energetica aziendale (società private). Tali interventi

possono riguardare sia il settore industriale che quello residenziale o terziario. Il

FTT consiste nella fornitura globale, da parte di una società esterna chiamata

Energy Service Company o ESCO, dei servizi di diagnosi o finanziamento,

progettazione, installazione, gestione e manutenzione di un impianto tecnologico

dalle cui prestazioni deriverà il risparmio energetico e quindi monetario che

permetterà alla ESCO sia di recuperare l’investimento effettuato che di remunerare

il capitale investito. L’ESCO finanzia infatti tutti i costi e le imprese del programma

(ricerche, ingegneria, materiali, costi di lavoro, avviamento delle operazioni,

valutazione ed utilizzazione dei risultati) mentre recupera il costo totale

dell’investimento, incluso il proprio profitto, in proporzione ed in base al risparmio

che risulta dal progetto.

Una ESCO è dunque un’impresa in grado di fornire tutti i servizi tecnici,

commerciali e finanziari necessari per realizzare un intervento di razionalizzazione

energetica, assumendosi l’onere dell’investimento ed il rischio di un mancato

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risparmio, a fronte della stipula di un contratto in cui siano stabiliti i propri utili.

Non si limita quindi a fornire semplicemente le risorse finanziarie con le quali

l’imprenditore realizzerà autonomamente l’investimento, ma deve possedere, in

proprio o tramite gruppi collegati, le adeguate competenze tecniche e le

disponibilità economiche necessarie per realizzare quanto ad essa commissionato

dall’imprenditore, offrendo anche flessibilità in base alle esigenze di chi ha richiesto

i relativi servizi. La ESCO è finanziata o da risorse proprie o da istituti di credito

esterni, in base alle necessità del progetto in questione. A sua volta, l’eventuale

istituto di credito dovrà valutare l’erogazione del finanziamento non più sulla base

delle garanzie offerte dall’imprenditore ma giudicando la validità del progetto in

base ad uno studio tecnico sulla capacità dell’impianto di conseguire i risultati

previsti.

L’utente finale, infine, fruitore della migliore performance energetica

dell’impianto installato, corrisponde alla ESCO un canone pari alla differenza della

bolletta energetica prima e dopo l’intervento per un numero di anni stabilito

contrattualmente a priori. Alla scadenza poi, l’impianto realizzato diventa a tutti gli

effetti proprietà dell’imprenditore (o dell’istituzione pubblica) che potrà così godere

a pieno dei benefici conseguiti.

In un’operazione di FTT sono presenti i seguenti attori:

1. ESCO, che promuove e sviluppa il progetto e si assume le responsabilità dei

rischi tecnici e finanziari;

2. utente, cliente della ESCO, nei cui impianti viene realizzato il progetto;

3. finanziatore, che finanzia il progetto attraverso l’ESCO (in molti casi è la stessa

ESCO).

Oltre a questi tre agenti principali ve ne sono altri che partecipano al progetto

quali: fornitori di apparecchiature e servizi il cui ruolo è evidente, compagnie

d’assicurazioni che generalmente coprono i rischi di un mancato risparmio

energetico dovuto, per esempio, a danni ai macchinari, a rischi finanziari, ed altri.

Le caratteristiche di una ESCO sono l’indipendenza, la credibilità, le possibilità

finanziare per poter lavorare in tutta sicurezza.

Il rapporto tra l’ESCO e l’utente è determinato da un contratto che deve coprire

tutte le condizioni negoziabili quali le percentuali di risparmio per l’ESCO, il periodo

di tempo in cui l’ESCO prenderà parte all’investimento, lo scopo del progetto, il

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modo in cui si valuterà il risparmio prendendo in considerazione la produzione, la

qualità, le materie prime ed altre clausole legali generali per assicurare i diritti di

ciascuna delle parti.

Alle volte viene espressamente creata una società per sviluppare un progetto in

cui entrano l’ESCO (con una partecipazione di maggioranza), l’utente, altre ditte

coinvolte e perfino il fornitore di energia. Tale società ha un proprio statuto legale e

l’operatività deve essere concordata in precedenza per permettere l’avviamento e

lo sviluppo del progetto. In questo caso l’ESCO è responsabile della gestione della

società.

5. “CASE STUDIES” DELL’ECONOMIA SOCIALE ITALIANA SUI

SETTORI DELLE FONTI ENERGETICHE RINNOVABILI

5.1 IL SOLARE TERMICO

5.1.1 Tecnologia ed applicazioni

La tecnologia per l'utilizzo termico dell'energia solare ha raggiunto maturità ed

affidabilità tali da farla rientrare tra i modi più razionali e puliti per scaldare l'acqua

o l'aria nell'utilizzo domestico e produttivo. Il rendimento dei pannelli solari è

aumentato di un buon 30 % nell'ultimo decennio, rendendo varie applicazioni

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nell'edilizia, nel terziario e nell'agricoltura, commercialmente competitive.

Le applicazioni di uso corrente sono:

1. Produzione di acqua calda sanitaria per uso domestico. Il riscaldamento

dell’acqua calda per docce, bagni e tutti i possibili usi domestici e industriali,

costituisce il principale uso dei pannelli solari. Si tratta soprattutto di piccoli sistemi

con 4-6 mq di superficie captante montata sul tetto e un accumulo di 200-300 litri.

2. Riscaldamento dell’ambiente. Il riscaldamento degli ambienti può essere

sostenuto dall’impianto solare. I sistemi possibili sono diversi, principalmente

suddivisi in impianti funzionanti con liquido a base di acqua ed impianti ad aria.

3. Riscaldamento piscine. Questo utilizzo è diffuso in tutta Europa, soprattutto per

il riscaldamento di alcuni gradi delle piscine scoperte con l’utilizzo di semplici

pannelli scoperti. La spesa è contenuta ed i vantaggi economici sono considerevoli.

Le piscine coperte invece richiedono il riscaldamento tutto l’anno perciò sono dotate

di collettori solari vetrati con uno scambiatore di calore che viene inserito nel

s i s t e m a d i f i l t r a g g i o d e l l ’ a c q u a .

4. Altri usi: sono molteplici gli usi possibili delle tecnologie solari per uso termico ad

esempio sono utilizzati nel campo dell’agricoltura, dell’industria, della

refrigerazione, e dell’alta temperatura per la produzione di elettricità.

5.1.2 Legislazione

Tra la nutrita legislazione riferita alle applicazioni del solare termico si

segnalano il D.p.r. 412/93, che individua alcune tecnologie di utilizzo delle FENR o

assimilate per la produzione di energia in specifiche categorie di edifici, di proprietà

pubblica o adibiti a uso pubblico, tra cui letteralmente: "Impianti con pannelli solari

piani per produzione di acqua calda per usi igienici e sanitari destinati ad abitazioni

civili, case di pena, caserme, collegi, conventi, comunità religiose, siti in località

con irradianza media annuale su piano orizzontale maggiore di 150 W/m2; pannelli

solari piani per produzione dell’acqua delle vasche delle piscine; pannelli solari piani

per riscaldamento di acqua calda per usi igienici e sanitari destinata a docce in

impianti sportivi con particolare riferimento ai campi all’aperto".

5.1.3 Vantaggi ambientali

Il principale vantaggio è la notevole riduzione di emissione di CO_ in aria

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142

rispetto ad un impianto tradizionale.

A titolo di esempio si consideri che in una caldaia a metano si producono nella

fase di combustione 0,25 Kg./giorno di CO2, per ogni kWh termico. Ma ancora più

immediata è la considerazione che un piccolo impianto solare ad integrazione della

caldaia a gas per una famiglia di 4 persone a Roma, assicurando lo stesso confort

per tutto l’anno, può risparmiare il 60% del consumo del gas, riducendo le

emissioni di gas CO2 in atmosfera da 635 Kg./anno a 251 Kg./anno.

5.1.4 Vantaggi occupazionali

I posti di lavoro creati direttamente dal settore delle tecnologie rinnovabili ed in

particolare per il solare (termico e fotovoltaico), sono principalmente nell'ambito

della produzione e dell'installazione, resta infatti estremamente limitato il

contributo occupazionale alla manutenzione degli impianti che normalmente viene

quantizficato nel piano di ammortamento in un 2%. Agli effetti diretti

sull'occupazione vanno comunque considerati tutti gli effetti "indotti" dalla crescita

di un reparto tecnologico nei settori produttivi intermedi. In particolare, per il

solare termico, la ricaduta occupazionale è stimata in 1 posto di lavoro ogni 70

mq/anno x anno di pannelli installati. Per l’installazione è prevista la creazione di

squadre di operatori formate da 3-8 lavoratori, a seconda della tipologia di forma

imprenditoriale prevista. (Le qualifiche professionali possono variare da

installatore, capo-installatore, progettista a manager a seconda della complessità

della struttura operativa).

5.1.5 Gli investimenti

Per l’installazione di pannelli solari termici si deve prevedere un investimento di

circa EUR 570/mq installato.

L’investimento è coperto normalmente per il 30% da contributi del Ministero

dell’Ambiente, o da altre misure di carattere locale e regionale.

In condizione di normale operatività, l’impianto viene ammortizzato in circa

quattro anni.

5.1.6 Scheda riepilogativa

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143

PARAMETRO

ECONOMICO/FINANZIARIO

INDICATORE

QUOTA DI MERCATO 40.000/50.000 M2 ANNUI

SOGLIA DI ACCESSO AL MERCATO BASSASI TRATTA DI UN’AZIONE CHE PREVEDE

L’ACQUISIONE DI:- PERMESSI ED ADEMPIMENTI

NORMATIVI O L’ADESIONE A CONSORZI

CHE SIANO GIÀ IN POSSESSO DEI

REQUISITI

- REALIZZAZIONE DI INVESTIMENTI

- FORMAZIONE ADDETTI (250/300H.)

MODELLO ORGANIZZATIVO IMPRESASOCIALE

MIN. 3 ADDETTI PART-TIME

CAPITALE INIZIALE 20.000/30.000 (AUTOMEZZO,ATTREZZATURA E SQUADRA)

PERCENTUALE LAVORO SUL PRODOTTO 50%COSTI LOCALIZZATIVI MINIMI

RICAVI MINIMI ATTESI ANNUI 150.000 /ANNUI

PREZZI 600/800 M2SI STIMA 1 POSTO DI LAVORO OGNI

80 M2 LAVORATI

MARGINE OPERATIVO 15%

5.2 IL FOTOVOLTAICO

5.2.1 Tecnologia ed applicazioni

La tecnologia fotovoltaica (FV) consente di trasformare direttamente l’energia

associata alla radiazione solare in energia elettrica. Essa sfrutta il cosiddetto effetto

fotovoltaico, basato sulle proprietà di alcuni materiali semiconduttori in grado di

convertire l’energia della radiazione solare che li colpisce, in energia elettrica,

senza bisogno di parti meccaniche in movimento e senza l’uso di alcun

combustibile. Il materiale semiconduttore universalmente utilizzato a tale scopo è il

silicio. Di tutta l’energia solare che colpisce una cella solo una parte viene

convertita in energia elettrica, in genere con rendimenti compresi tra il 10 ed il

14% e poiché la radiazione solare media raggiunge 1kW/m2, ogni cella sviluppa

una potenza di circa 1 Watt in condizioni standard (25° C di temperatura e

radiazione pari a 1.000 W/m2. Più celle collegate formano un modulo FV

(collegamento in serie di 36 celle), i moduli a loro volta possono essere collegati in

stringa ed infine la potenza elettrica richiesta determina il numero di stringe

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collegate in parallelo. Il trasferimento dell’energia dal sistema fotovoltaico alle

utenze avviene attraverso ulteriori dispositivi necessari a trasformare la corrente

continua prodotta in corrente alternata. Il complesso di tali dispositivi prende il

nome di BOS (Bilance of System).

Le applicazioni più comuni sono secondo la configurazione elettrica in sistemi

autonomi (stand alone) e sistemi connessi alla rete elettrica (grid connected).

Gli impianti fotovoltaici di connessione in rete hanno la particolarità di regime di

interscambio con la rete elettrica locale. In pratica, nelle ore diurne viene

consumata l’energia elettrica prodotta dal proprio impianto, mentre quando la luce

non è sufficiente o l’utenza chiederà più energia, sarà la rete elettrica che garantirà

l’approvvigionamento dell’energia necessaria. D’altro canto se l’impianto produce

più energia di quanto l’utenza stessa richiederà, tale energia potrà essere messa in

rete. In questo caso si parla di eccedenza.

Esiste una precisa regolamentazione circa le connessioni degli impianti

fotovoltaici alla rete di distribuzione, per cui con un contatore installato dall’ENEL

(il cui costo si aggira sui 30 /anno), si procede a fine anno alla valutazione

dell’energia consumata e prodotta.

A solo titolo di esempio si puòo considerare che in Italia 1kwp fotovoltaico è in

grado di produrre 1.500 kw/h anno con un risparmio medio di circa 300,00 /anno

e che una famiglia media difficilmente utilizza l’erogazione del suo contratto

attestandosi di norma a 1,5/1,7 KW.

I costi di acquisto ed installazione sono ancora elevati (circa . 7.500/kwp) ma,

considerando che questi impianti hanno bassissimi costi di manutenzione, un ciclo

di vita di oltre 20 anni, e che una intelligente serie di contributi ammortizza a 5-6

anni l’investimento, appare del tutto evidente anche la convenienza economica.

L'effetto fotovoltaico consiste nella trasformazione diretta della luce solare in

energia elettrica, a differenza di quasi tutti gli altri sistemi per i quali c'è almeno un

passaggio intermedio tra la fonte primaria e la produzione di energia elettrica:

energia meccanica (es. eolico, idroelettrico..) o energia termica ( es.

termoelettrico a combustibili fossili, nucleare, ecc..).

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145

In commercio attualmente sono presenti tre varietà di celle al silicio con

efficienze che vanno dal 5% al 15% circa:

Celle al silicio monocristallino, costano di più e richiedono una maggiore quantità

di energia per produrle ma hanno un'efficienza che può arrivare al 15%.

Celle al silicio policristallino (o multicristallino) con un'efficienza fino al 12 %.

Pannelli al silicio amorfo, costano meno e richiedono meno energia per la

produzione ma hanno efficienze minori (dal 5% al 9%).

Nonostante i costi si siano progressivamente ridotti negli ultimi decenni

rimangono comunque elevati, oggi in un sito con buona insolazione il kWh prodotto

non è inferiore a 0,27 Euro, circa 6 volte il costo dell'energia prodotta dai sistemi

idroelettrici, 4 volte rispetto ai sistemi eolici e 2 volte il costo dell'energia elettrica

normalmente pagata dalle utenze domestiche. In Germania e in Giappone i costi

sono sensibilmente minori, il più grande impianto fotovoltaico d' Europa (5 MWp)

recentemente installato ad Amburgo con una tecnologia all'avanguardia (17% di

efficienza) ha avuto un costo di 4.000 al kWp, in Italia si ha il record di costo:

nell'isola di Stromboli è stato recentemente inaugurato un impianto da 100 kWp

che è costato 25.000 al kWp.

La politica di incentivi adottata in passato non ha favorito lo sviluppo del

fotovoltaico, anzi, da una parte ne ha limitato la diffusione (incentivi limitati e

quindi anche casi di favoritismo) dall'altra non ha favorito la ricerca (quasi nessun

fondo) ed essendo incentivi sull'investimento (conto capitale) hanno in molti casi

fatto lievitare i prezzi e comunque non hanno certamente contribuito ad abbassarli.

Con le nuove norme, che hanno preso spunto dal sistema tedesco, si premia la

produttività dei sistemi (conto energia) e quindi l'utilizzatore finale sarà indotto a

fare una scelta mirata alla migliore resa del sistema in rapporto al prezzo, dovendo

comunque affrontare la spesa iniziale per l' intero costo. Come già detto il sistema

in conto energia ha permesso, in Germania, l'installazione di numerosissimi sistemi

FV, ad alta efficienza e ad un costo mediamente inferire del 50% rispetto ai sistemi

installati in Italia, incentivati in conto capitale.

5.2.2 Legislazione

Protocollo di Kyoto della convenzione quadro delle Nazioni unite sui cambiamenti

climatici.

Decisione n. 646/2000 del Parlamento europeo e del Consiglio del 28 febbraio

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146

2000 che adotta un programma pluriennale per promuovere le fonti energetiche

rinnovabili nella Comunità.

Delibera del Comitato Interministeriale n. 137 del 19/11/98. Linee guida per le

politiche e misure nazionali di riduzione delle emissioni di gas serra.

Libro bianco europeo per una strategia e un piano di azione della Comunità.

Dlgs 16 marzo 1999 n.79. Decreto Bersani. Attuazione dell direttiva 96/92/CE

recante norme per il mercato interno dell’energia elettrica.

Decreto MICA/MinAmb 11/11/99. Direttive per l’attuazione delle norme in materia

di energia elettrica da fonti rinnovabili di cui ai commi 1, 2 e 3 dell’art.11 del

decreto legislativo 16 marzo 1999, n. 79.

D.M. del 21/12/2001. Programma di diffusione delle fonti energetiche rinnovabili,

efficienza energetica e mobilità sostenibile nelle aree naturali protette.

5.2.3 Vantaggi ambientali

La silenziosità di tale tecnologia e l’assenza di qualsiasi emissione ed il beneficio

ambientale ottenibile, direttamente proporzionale alla quantità di energia elettrica

prodotta, hanno costituito da sempre per i pannelli fotovoltaici l’immagine da

associare ad una energia pulita ed un modello di sviluppo sostenibile (per fare un

esempio circa la mancata emissione in atmosfera, basterà considerare che per ogni

kW/h elettrico vengono bruciati l’equivalente di 2,56 kWh sotto forma di

combustibile fossile e di conseguenza vengono immessi nell’atmosfera circa 0,53

Kg di anidride carbonica.

Si può quindi dire che ogni kWh di energia prodotto dal sistema fotovoltaico

evita l’emissione di 0,53 Kg. d anidride carbonica).

5.2.4 Vantaggi occupazionali

I posti di lavoro creati direttamente dal settore delle tecnologie rinnovabili,

come anche dalle altre tecnologie energetiche, sono principalmente nell'ambito

della produzione e dell'installazione, da una parte, e nella gestione e manutenzione

(O&M) degli impianti, dall'altra. Oltre agli effetti diretti sull'occupazione vanno poi

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147

considerati tutti quegli effetti "indotti" dalla crescita di un particolare reparto

tecnologico nei settori produttivi intermedi. Gli effetti indiretti sull'occupazione sono

importanti per quelle tecnologie, come il fotovoltaico e i sistemi solari termici a

bassa temperatura, che hanno uno scarso bisogno di manodopera per il loro

funzionamento, ma hanno un elevato impatto occupazionale a causa della

produzione di quei beni intermedi necessari alla loro propria produzione.

In particolare, nel settore del fotovoltaico la ricaduta occupazionale è stimata in

1 posto di lavoro ogni 210 mq/anno di pannelli installati.Per l’installazione è

prevista la creazione di squadre di operatori formate da 3-8 membri, a seconda

della tipologia di forma imprenditoriale prevista. (Le qualifiche previste sono:

installatore, capoinstallatore, progettista, manager. I titoli di studio richiesti vanno

dalla scuola media inferiore alla laurea.)

5.2.5 Gli investimenti

In attuazione dell’articolo 7 del Decreto Legislativo 387 del 2003, atteso da

quasi 12 mesi (15 agosto 2004 era la data di scadenza indicata dal Dlgs

387/2003), sulla Gazzetta Ufficiale n. 181 del 5 agosto 2005 è stato pubblicato il

Decreto del ministero delle attività produttive emanato il 28 luglio 2005 che

stabilisce i criteri per l'incentivazione della produzione di energia elettrica mediante

conversione fotovoltaica della fonte solare in Conto Energia.

Tale decreto è stato poi aggiornato e modificato il 6 febbraio 2006 ed è stato

pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n.38 del 15 febbraio 2006.

L’obiettivo di questo nuovo provvedimento è l’installazione di impianti per un

totale di 1000 MWp di potenza (1.000.000 kWp) entro il 2015, di cui 60 MWp per

impianti da 1 a 50 kWp e 25 MW per gli impianti da 50 kWp a 1 MWp per ciascuno

degli anni dal 2006 al 2012 inclusi.

Al contrario di quanto avviene in Germania e Spagna, (dove questa forma di

incentivazione è in atto ormai da tempo), con la sola remunerazione dei kWh

fotovoltaici immessi in rete, in Italia il beneficio economico per i sistemi fotovoltaici

è costituito da 2 voci:

1) (Quota del Conto Energia) il ricavo derivante dalla remunerazione di tutti i

kWh prodotti dall’impianto

2) (Surplus) il risparmio conseguito grazie all’utilizzo dei kWh fotovoltaici +

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148

l’utilizzo delle eccedenze (kWh che entrano nella rete elettrica locale perché non

consumati dall’utenza) che avverrà nei seguenti modi:

a. scomputo dalle bollette nel caso di impianti aventi potenza fino a 20 kWp

(“net-metering”)

b. vendita a tariffe prefissate (minori rispetto alla tariffa del Conto Energia) se

si è in possesso di una partita IVA e si aderisce, anziché ad un contratto di solo

scambio, ad un contratto di vendita e scambio.

Verrà così misurata tutta l’energia elettrica prodotta dal sistema fotovoltaico,

sulla quale si calcolerà quindi la quota da corrispondere relativa all’agevolazione del

Conto Energia.

L’energia elettrica da fonte fotovoltaica sarà in parte usata (con conseguente

risparmio economico derivante dall’energia non prelevata dalla rete locale), mentre

le eccedenze entreranno nella rete, passando attraverso il contatore installato al

fianco (“in serie”) al contatore esistente, che conteggerà i kWh immessi in rete, da

scontare sulle bollette successive. Questo sistema “misto” permetterà quindi di

sommare al “guadagno” consentito dal Conto Energia il “risparmio” permesso

dall’uso nell’utenza e dalla cessione alla rete dell’energia fotovoltaica.

Tutta l'energia elettrica prodotta dai sistemi fotovoltaici (misurata tramite un

contatore che verrà installato a valle del sistema) verrà pagata con una tariffa

molto interessante:

1) gli impianti da 1 a 20 kWp godranno di una tariffa incentivante pari a 0,445

/kWh per 20 anni (da applicarsi a tutta la produzione di energia elettrica

fotovoltaica), alla quale sarà possibile sommare il meccanismo di surplus per net-

metering: utilizzo dell’energia da parte dell’utenza e cessione alla rete elettrica

locale dell’energia in esubero rispetto alle necessità istantanee dell’utenza stessa

(eccedenze), che vengono poi scontate dalle bollette successive, per il calcolo di

tale risparmio, che dipende dalle varie condizioni contrattuali si può prendere come

valore di riferimento quello medio pari a 0,18 /kWh.

2)gli impianti da 20 a 50 kWp godranno di una tariffa incentivante pari a 0,46

/kWh per 20 anni, alla quale sarà possibile sommare il meccanismo di surplus:

3)gli impianti di potenza compresa tra 50 kWp e 1 MWp godranno di una tariffa

incentivante che viene decisa dallo stesso richiedente, ma la cui valorizzazione

dovrà tener conto di un:

meccanismo a gara: chi chiede di meno avrà più possibilità di vedersi

riconosciuta la tariffa incentivante, che al massimo potrà essere di 0,49 /kWh,

sempre per 20 anni. Anche per questo tipo di sistemi varrà la combinazione Conto

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149

Energia + utilizzo dell’energia e vendita delle eccedenze alla rete elettrica locale, ai

sensi della Delibera 34/05 dell’Autorità per l’Energia Elettrica il Gas per la quale

sono stabilite le seguenti tariffe di vendita sulla base dei livelli di energia immessa

in rete.

5.2.6 Scheda riepilogativa

PARAMETRO

ECONOMICO/FINANZIARIO

INDICATORE

QUOTA DI MERCATO 80/100 MEGAWATT ANNUI

SOGLIA DI ACCESSO AL MERCATO BASSASI TRATTA DI:- APPARTENENZA A RETI, GRUPPI

O MARCHI

- AVERE DISPONIBILITÀ DELLA

MATERIA PRIMA

MODELLO ORGANIZZATIVO IMPRESASOCIALE

MIN. 3 ADDETTI PART-TIME

CAPITALE INIZIALE 20.000/30.000 (AUTOMEZZO,ATTREZZATURA E SQUADRA)

PERCENTUALE LAVORO SUL PRODOTTO 10%COSTI LOCALIZZATIVI MINIMI

RICAVI MINIMI ATTESI ANNUI 1.000.000 /ANNUI

PREZZI 5.500 KW/H.S I STIMA 1 POSTO DI LAVORO

OGNI 45 KW/H.MARGINE OPERATIVO 8%

5.3 LA COGENERAZIONE

5.3.1 Tecnologia ed applicazioni

La cogenerazione, indicata anche con l'acronimo CHP (Combined Heat and

Power) è la generazione simultanea o sequenziale di due diverse forme di energia,

meccanica e termica, partendo da una singola fonte di energia primaria ed

effettuata con un solo sistema integrato. Il principio su cui si basa la

cogenerazione è quello di recuperare il calore generato durante la fase di

produzione di energia elettrica, che solitamente viene perso, e riutilizzarlo per

produrre energia termica. Quindi la cogenerazione deve essere considerata una

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150

soluzione impiantistica finalizzata ad aumentare l'efficienza dei processi di

produzione energetica.

5.3.2 Vantaggi ambientali

• Maggiore efficienza nella conversione energetica;

• Periodi di payback interessanti, anche grazie alla normativa che prevede la

defiscalizzazione del gas usato in input ;

• Favorisce il decentramento della produzione energetica, evitando le inevitabili

perdite dovute al trasporto su lunghe distanze ;

• Consente una strategica copertura dei fabbisogni elettrici, garantendo gli utenti

dagli eventuali black-out o dalle anomalie della rete.

E’ utile ricordare che lo sviluppo di progetti per il miglioramento dell’ efficienza

nelle produzioni energetiche è un esplicito obiettivo delle politiche ambientali

comunitarie e che la cogenerazione è al centro di una proposta di direttiva del

Parlamento europeo e del Consiglio del 2002, che garantisca negli anni a venire

una crescita del numero di impianti di cogenerazione sul territorio europeo. Il

grande interesse che tale tecnologia ha riscontrato a livello globale e locale trova le

sue fondamenta nella possibilità di ridurre il consumo di energia primaria (e quindi

le emissioni in atmosfera relative) migliorando il rendimento dei processi di

trasformazione: in questo modo la grossa dispersione energetica realizzata negli

impianti convenzionali di produzione di energia elettrica viene ridotta andando a

servire la produzione di calore per il riscaldamento in rete di edifici civili e per il

condizionamento estivo;

• Riduzione delle emissioni inquinanti, (I sistemi CHP consentono una notevole

riduzione dei gas serra: in particolare ogni kWh prodotto in un impianto a

cogenerazione alimentato a metano consente un risparmio di 450 g di CO2

rilasciata in atmosfera rispetto alla produzione separata di energia elettrica e

termica, che equivale ad una diminuzione del 43% dell'anidride carbonica. Inoltre

la mitigazione dell'impatto ambientale deriva anche dalla riduzione dei particolati,

degli NOx e degli SOx. )

5.3.2 Vantaggi occupazionali

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151

Dal punto di vista occupazionale, la creazione di impianti di produzione diffusa di

energia sul territorio ha un duplice vantaggio: quello di permettere possibilità di

nuova occupazione o di rioccupazione attraverso la riqualificazione di personale

LSU, LPU, in mobilità occupato in settore industriali in crisi (officine meccaniche,

elettroniche, automobilistiche, etc) (per fare un esempio una piccola centrale da

1,5 Mw da Gas Metano produce 5 occupati, mentre una centrale da biomasse

produce un indotto di ben 30 occupati), ma anche quella di generare uno sviluppo

economico nel territorio attraverso una serie di piccole industrie ed aziende nate

come indotto dalla centrale di cogenerazione.

5.3.3 Incentivi e agevolazioni

I tempi di payback di un impianto CHP sono ridotti grazie alle previste dagli enti

pubblici. Ciò e dovuto al fatto che le proprietà particolari della cogenerazione, sia

sotto il profilo energetico che ambientale, sono oggi ampiamente riconosciute ed

incentivate, sia nell'ambito della Comunità Europea che nello stesso quadro

legislativo italiano. All'interno del "Piano energetico nazionale" la cogenerazione

viene assimilata alle "fonti di energia rinnovabili", con una serie di interventi mirati

ad agevolare anche le piccole e medie imprese nel miglioramento della loro

efficienza energetica; la tariffazione del gas metano utilizzato per la produzione di

energia elettrica usufruisce della defiscalizzazione; finanziamenti agevolati sono

periodicamente messi a disposizione da Stato e Regioni.

5.3.4 Scheda riepilogativa

PARAMETRO

ECONOMICO/FINANZIARIO

INDICATORE

QUOTA DI MERCATO 80/100 MEGAWATT ANNUI

SOGLIA DI ACCESSO AL MERCATO MOLTO ALTA

SI TRATTA DI UN’AZIONE CHE PREVEDE

L’ACQUISIONE DI:- P R O F E S S I O N A L I T A À A L T E

(INGEGNERIA)- POSSESSO PATENTINI PER

CONDUZIONE MACCHINE

- FORMAZIONE ADDETTI (600/800 H.)

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152

MODELLO ORGANIZZATIVO IMPRESASOCIALE

LA SQUADRA DEVE AVERE AL SUO

INTERNO:- COMPETENZE INGEGNERISTICHE

- COMPETENZE RELATIVE ALLA

CONDUZIONE MACCHINE

- COMPETENZE NELLA PROGETTAZIONE E

SVILUPPO

CAPITALE INIZIALE ALTO RISPETTO ALL’ACQUISIZIONE

DELLA RISORSA UMANA

PERCENTUALE LAVORO SUL PRODOTTO 30%COSTI LOCALIZZATIVI MINIMI

RICAVI MINIMI ATTESI ANNUI 1 IMPIANTO ANNUO

CA. 1.500.000 ANNUI

PREZZI VARIABILE TRA I 400.000 ED I

1.200.000 / MEGAWATT

SI STIMANO 3 POSTI DI LAVORO AD

IMPIANTO

MARGINE OPERATIVO 20%

5.4 LE BIOMASSE

5.4.1 Scheda descrittiva

La realizzazione di impianti per la produzione energetica da biomasse costituisce

una soluzione innovativa che abbatte il consumo dei derivati del petrolio e le

emissioni inquinanti, attraverso l’utilizzo di biomasse da legno vergine, proveniente

dal taglio programmato dei boschi, pulizia periodica dei boschi, esbosco, potature di

oliveti e vigneti, ecc., risorse di cui i nostri territori sono ricche.

Di fatto la produzione energetica da biomasse riveste un duplice valore:

• da un lato costituisce un importante contributo al corretto impiego delle

risorse boschive ed alla corretta manutenzione del territorio, in particolare sotto gli

aspetti della salvaguardia antincendio e della conservazione e tutela;

• dall’altro lato costituisce una valida risorsa sotto il profilo economico e

sociale, in quanto favorisce la costruzione di nuova impresa con consistenti apporti

in in termini occupazionali per il territorio.

5.4.2 Scheda riepilogativa

PARAMETRO INDICATORE

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153

ECONOMICO/FINANZIARIO

QUOTA DI MERCATO -SOGLIA DI ACCESSO AL MERCATO MOLTO ALTA

SI TRATTA DI UN’AZIONE CHE PREVEDE

L’ACQUISIONE DI:- RISORSA UMANA AD ALTA

RESISTENZA FISICA

- STRUTTURA LOCALIZZATIVA

- RIQUALIFICAZIONE ADDETTI

(150/200 H.)MODELLO ORGANIZZATIVO IMPRESASOCIALE

MIN. 3 ADDETTI PART-TIME

CAPITALE INIZIALE 50.000/60.000 (TRATTORE,MOTOSEGHE, ECC.)

PERCENTUALE LAVORO SUL PRODOTTO 75%%COSTI LOCALIZZATIVI MEDI ( ACQUISIZIONE DI UN

CAPANNONE)RICAVI MINIMI ATTESI ANNUI 100.000 /ANNUI

PREZZI 7 /QUINTALE

1 POSTO DI LAVORO PER CA. 4.000QUINTALI DI PRODUZIONE

MARGINE OPERATIVO 10%

5.5 BUONE PRATICHE IMPRENDITORIALI NEL SETTORE DELLE FONTI

RINNOVABILI21

5.5.1 L’Autoproduzione e la generazione distribuita di energie rinnovabili

La generazione distribuita da FENR, dunque, rappresenta potenzialmente uno

strumento “rivoluzionario, sia dal punto di vista dell’eco-sostenibilità, ma anche

perché “tende”, per sua stessa natura, a porre in essere un “modello aggregativo a

rete” che è parte integrante delle modalità dell’agire della società civile organizzata

in funzione della realizzazione dei propri bisogni.

21 idem

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154

L’avverbio “potenzialmente” sta ad indicare che, ancora, vi sono alcuni vincoli,

di ordine normativo, tecnico-gestionale, ed economico che ne ostacolano la

diffusione: in tale contesto, si sta agendo attraverso sperimentazioni che mirano ad

utilizzare meccanismi aggregativi nuovi, che hanno come obiettivo il superamento

di tali vincoli e di fare da “volano” per una espansione progressiva del fenomeno

della generazione distribuita da FENR.

Vale la pena di citare una di queste sperimentazioni: essa contiene alcune

caratteristiche tipiche di un modello fondato sulle “azioni dal basso” e concerne

“micro-istallazioni diffuse di auto-produttori da FENR” presso piccoli Comuni

delle regioni Campania e Basilicata.

L’esperienza che si va di seguito a descrivere, oltre a contenere le logiche, i

principi, le metodologie ed il know-how tipici del fenomeno dell’auto-produzione,

sperimenta un meccanismo aggregativo di tipo “finanziario” che rappresenta

senz’altro una “buona pratica” ed un’efficace azione di “mainstreaming”.

Il progetto vede coinvolti, essenzialmente, 3 soggetti: la Regione Campania, 7

Comuni (alcuni campani e alcuni lucani), una società consortile impegnata nel

campo delle fonti rinnovabili (il Consorzio ABN-A & B Network Sociale di

Perugia).

La Regione finanzia, in conto capitale, il 75% dell’investimento (in regime di

auto-produzione) finalizzato all’istallazione di micro-impianti fotovoltaici per la

produzione di energia elettrica destinato alle popolazioni locali.

Ai piccoli Comuni resta, dunque, l’onere finanziario del restante 25%

dell’investimento. Si tratta della parte residuale, ma comunque difficilmente

sostenibile per un ente locale dalle capacità di spesa limitate: è qui che “entra in

scena” l’impresa sociale: tale società, come soggetto tecnico in grado di realizzare

l’opera, propone ai Comuni di progettare e realizzare gli impianti finanziando essa

stessa interamente l’iniziativa, e fa un contratto con l’ente comunale che consente

a quest’ultimo di “rimborsare” l’investimento economico e finanziario attraverso la

“quota di risparmio sulla bolletta energetica” , ovvero la differenza data dalla spesa

comunale attuale per energia elettrica generata da impianti tradizionali e la spesa

per consumi energetici da FENR sostenuta per un periodo “x” di anni (normalmente

il convenzionamento è per 10/15 anni). Si parla di un meccanismo tipo finanziario,

dal momento che l’accordo, presuppone una valorizzazione della spesa sostenuta

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nel tempo, e comprende, quindi, un complesso calcolo di interessi che sostanzia il

contratto tra il singolo Comune ed il Consorzio.

Si provi a valutare insieme i benefici per tutti i soggetti coinvolti, frutto di tale

sperimentazione:

• la Regione svolge pienamente il suo ruolo istituzionale di “facilitatore” (attraverso

la concessione del finanziamento) di un’opera di diffusione di istallazioni di energia

“pulita”, con il ben noto impatto a livello di salvaguardia dell’ambiente, come pure

sociale e culturale;

• il piccolo Comune “auto-produce” energia elettrica da un impianto alimentato da

FENR “a costo zero”, dal momento che non è costretto ad un esborso finanziario

d’impianto e che il costo economico dell’operazione è parificato al risparmio

rispetto all’attuale livello dei consumi di energia;

• il Consorzio ABN si incarica della progettazione e realizzazione del progetto

(assumendosi il “rischio d’impresa” del 25% dell’investimento): dall’altra parte, si

garantisce il rientro dall’investimento oltre che attraverso l’utile derivante dal

meccanismo della produzione, anche attraverso il volume di risparmio sulle bollette

energetiche dei piccoli Comuni ed eventuali servizi aggiuntivi forniti al Comune

richiedente.

Un primo vantaggio dovuto a tale metodologia, nell'ottica di un processo di

aggregazione dei comuni coinvolti, è quello di sfruttare economie di scala riducendo

i costi per la realizzazione degli impianti e facilitando così la diffusione delle FENR.

Ma un ulteriore vantaggio, maggiormente significativo, può essere sottolineato,

in prospettiva, se si pensa al processo in atto di liberalizzazione del mercato

energetico. A partire dal 2007, infatti, con un mercato completamente liberalizzato,

il Consorzio ABN, che finanzia e realizza gli impianti, oppure una società “ad hoc”

creata dall’aggregazione dei comuni coinvolti, potrà gestire gli impianti in conto

energia e richiedere l'emissione di titoli di efficienza energetica (Certificati Bianchi),

rilasciati dal GRTN, che sono preziosi strumenti d'incentivazione per la diffusione

delle FENR.

Dal punto di vista del “sistema locale”, tale modello operativo (che vede

protagonisti l’Ente Pubblico nelle sue varie articolazioni e l’Impresa Sociale) di

micro-istallazioni diffuse di autoproduzione di energia tramite il fotovoltaico sta

conseguendo alcuni interessanti risultati:

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• un “effetto di trascinamento”, dal momento che un numero sempre maggiore di

Comuni del territorio delle regioni Campania e Basilicata intende coinvolgersi in tale

iniziativa: è ormai ben noto come la possibilità di sviluppare “reti” e partenariati

che consentano la progressiva aggregazione di un numero sempre maggiore di

soggetti (in questo caso pubblici) favorisce una maggior economicità degli

investimenti ed un’azione dal basso sulle “leve” della politica energetica ispirata ai

principi della generazione distribuita;

• un’efficace azione di “mainstreaming” nei confronti della collettività, che si misura

nella capacità di coinvolgere altri soggetti pubblici, altri territori, altre Regioni e

Comuni nella predisposizione di analoghe iniziative; ad esempio il Consorzio di

bonifica di Paestum ha emanato un bando per la realizzazione di impianti

fotovoltaici che ricalca la metodologia sopra descritta;

• un’azione di sviluppo locale centrata su una scelta di politica energetica fondata

sull’uso delle fonti rinnovabili ed un’azione di sviluppo occupazionale (attraverso il

modello consortile abn che prevede la nascita/sviluppo “in loco” di un’impresa che

si faccia carico del progetto) che consenta di beneficiare la manodopera locale,

nonché una certa percentuale di soggetti portatori di svantaggio (le cooperative di

tipo “B” sono “disegnate” dalla legge 381/’91proprio a questo scopo e la stessa

legge, nel suo articolo 5, consente alle stesse di poter ottenere l’assegnazione

diretta dell’appalto);

• un’azione di “apertura del mercato”, sia nei confronti dei soggetti pubblici, ma,

inevitabilmente, quando la legislazione lo consentirà, anche nei confronti dei

soggetti privati e degli utenti domestici;

• tutto ciò non è altro se non un’opera di diffusione di “cultura” non solo rispetto

alle opportunità di produzione energetica da fonti rinnovabili in forma auto-

generata, ma anche di sperimentazione di un modello in cui la stessa società civile

si organizza, identifica i propri bisogni rispetto al proprio fabbisogno energetico e si

offre delle risposte in modo autonomo, coerente, economicamente vantaggioso ed

eticamente sostenibile.

5.5.2 La cooperativa “Parco Solare”

Un esempio di cooperativa operante nel settore delle FENR è quello della

cooperativa “Parco Solare”, aderente al “Consorzio ABN-A & B Network Sociale”.

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La cooperativa Parco Solare si è costituita nel 2001 nell’ambito del progetto

“Comune solarizzato” come strumento di politica attiva per la stabilizzazione di

Lavoratori Socialmente Utili (LSU) ed ha operato inizialmente nel Parco Nazionale

del Cilento e Vallo di Diano. Attualmente la cooperativa sta estendendo le

proprie attività anche al di fuori del territorio provinciale nel quale è nata.

Per fornire un’idea dei volumi di lavoro possibili per una cooperativa di questo

genere si riportano di seguito un elenco dei progetti realizzati o in corso di

realizzazione:

• in corso di realizzazione il progetto “Parco solarizzato del Cilento e Vallo di Diano”

estrapolazione del modello Comune solarizzato in un territorio ben preciso ed ad

alto pregio ambientale. Esso prevede l’installazione di circa 5000 mq di pannelli

solari termici, per un valore di circa 3.098.741,00 finanziati da Parco Nazionale

del Cilento e Vallo di Diano e Ministero dell’Ambiente e tutela del territorio, per la

produzione di acqua calda sanitaria presso gli edifici pubblici degli 80 comuni del

Parco. La realizzazione del progetto “parco solare” apporterà un beneficio sia

ambientale che economico, risparmiando all’ambiente 5,62 t/giorno di CO2 ed un

risparmio energetico di 10 MWth/giorno che in termini finanziari rappresentano

599.225,31 all’anno. Ad oggi sono stati installati 1800 mq di pannelli solari termici;

• in corso di realizzazione un impianto termico solare di mq 160 per il

riscaldamento di una piscina comunale in comune di Felitto. Si tratta dell’impianto

più grande d’Italia per riscaldamento di piscina;

• realizzati vari impianti privati termico solare per produzione di acqua calda

sanitaria;

• realizzazione di un campo fotovoltaico da 20 kW per la produzione di energia

elettrica, per un valore di 173.000,00, presso il comune di Magliano Vetere (SA)

finanziato dal Ministero dell’Ambiente e tutela del territorio e del Parco Nazionale

del Cilento e Vallo di Diano nell’ambito di 10.000 tetti fotovoltaici;

• in corso di realizzazione un campo fotovoltaico di 5 kW presso il centro di

educazione ambientali del Parco nel comune di Lustra;

• approvati dalla regione Campania 350 kW di impianti fotovoltaici nelle piccole

medie imprese.

La cooperativa è inoltre partner e socio tecnologico privato della Provincia di

Salerno nell’ambito della società di gestione dell’agenzia “AGEAS” Salerno, per la

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gestione dell’energia e l’ambiente salernitana”, agenzia finanziata nell’ambito del

progetto comunitario “SAVE”. L’agenzia si propone la diffusione delle fonti

energetiche rinnovabili e del risparmio energetico in ambito provinciale, nazionale

ed internazionale.

Tale aspetto rappresenta una conferma del fatto che una cooperativa di questo

tipo può giocare un ruolo che va ben oltre la semplice realizzazione e manutenzione

di impianti ma può operare come agente fondamentale di promozione, diffusione e

sviluppo dell’URE e delle FENR sul territorio.

La cooperativa, infatti, ha attuato diverse azioni in questo senso:

-Convegni e corsi: Promozione nelle scuole e presso comuni (Vibonati) con

l’ausilio di Assessore all’Ambiente della Provincia di Salerno e della Presidenza del

Parco Nazionale del Cilento e Vallo di Diano.

-Promozione presso manifestazioni fieristiche:”Borsa del turismo sostenibile”

Vallo della Lucania 2002.

-Coordinatore in sede locale della Giornata Nazionale delle Fonti Energetiche

Rinnovabili: “Impianti Aperti ai Cittadini” 17 e 18 maggio 2003.

-Consulenza a tecnici: illustrazione delle tecnologie e delle possibilità di

integrare gli edifici con impianti per l’utilizzo delle FENR.

-Promozione e proposte alle aziende: progettazione di impianti adatti alle varie

esigenze per aziende di tipo turistico (alberghi, campeggi, ecc.), casearie

(caseifici), conserviere (pomodoro, pasta e funghi).

-Promozione televisiva: divulgazione ed informazione su reti televisive locali --

Promozione delle FER nel programma “Sereno Variabile” su Rai 2.

-Consulenze personalizzate e gratuite in tutta la provincia consigliando le

migliori soluzioni per il risparmio energetico.

-Promozione informativa a mezzo posta o e-mail in merito al sostegno alle fonti

energetiche rinnovabili.

-Promozione Web: Promozione informativa tramite sito Internet sulle FER e i

loro vantaggi ambientali ed economici.

5.5.3 Finalità della Cooperativa di autoproduttori ed autoconsumatori FENR dei

Comuni del Comprensorio Montano della Carnia

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Un esempio significativo in tal senso è rappresentato dalla "Cooperativa di

autoproduttori e consumatori FENR", più brevemente "Coopsole". Tale società

cooperativa, promossa da un gruppo di Comuni del Comprensorio montano

della Carnia, "non ha finalità speculative, ma intende migliorare le condizioni

d’esercizio, economiche, morali e sociali dei propri Soci, facendoli partecipi dei

benefici della mutualità, applicandone i metodi ed ispirandosi, nella sua attività, ai

principi della libera e spontanea cooperazione alla cui diffusione ed affermazione è

impegnata. A tal fine la Società, sia in via diretta che per il tramite di società

controllate o partecipate, si propone l’esercizio di una impresa per:

a. la produzione, l’acquisto e/o importazione, e successiva fornitura, distribuzione,

vendita e/o esportazione di energia elettrica e termica generata da fonti rinnovabili

e/o assimilate e/o convenzionali;

b. la distribuzione e la fornitura di gas combustibili e di risorse idriche; la gestione

di servizi a rete, anche nel campo delle telecomunicazioni;

c. realizzare, installare e gestire, sia direttamente sia in forma associata, impianti

per la produzione e la somministrazione di energia di qualsiasi tipo;

d. provvedere, sia in Italia sia all’estero, al reperimento delle materie prime e dei

prodotti finiti necessari allo svolgimento dell’attività al fine di assicurare una

regolare fornitura ed un regolare servizio ai propri Soci ed utenti;

e. eseguire lavori nel settore delle installazioni e delle attrezzature elettriche,

f. eseguire lavori nei settori degli impianti tecnologici speciali,

g. promuovere e/o gestire corsi di formazione e ogni altra attività, anche ricreativa,

atta a garantire la crescita culturale e professionale dei soci e delle popolazioni

della zona in cui la Società svolge l’attività"22.

22 Estratto dallo statuto della "Coopsole soc. coop. a r.l.”

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6. FORMULE INNOVATIVE DI IMPRENDITORIA SOCIALE

IN AGRICOLTURA

6.1 PREMESSA

Com’è noto i processi di crescita economica determinano il declino di importanza

relativa delle attività agricole e più in generale di quelle incluse nel cosiddetto settore

primario.

In Italia l’agricoltura contribuisce per appena il 2,5% alla formazione del valore

aggiunto nazionale e circa il 5 % in termini di occupati. Eppure nella storia italiana

dell’imprenditorialità sociale di tipo B l’esercizio di attività agricole ha sempre avuto

un certo rilievo.

Il censimento delle cooperative sociali realizzato nel 2001 dall’ISTAT ha

individuato 448 imprese che svolgono attività agricole. Sebbene in tali attività

l’ISTAT abbia incluso anche la manutenzione del verde, attività di puro servizio che

non implica necessariamente l’esercizio di attività di produzione agricola, sembra

ragionevole stimare una presenza di IS “agricole” nel contesto dell’imprenditorialità

sociale ben più elevata di quanto non avvenga nell’ambito delle imprese for profit.

Si può affermare dunque che l’agricoltura fa parte del DNA dell’imprenditorialità

sociale, perlomeno in alcune regioni dove questo fenomeno si è avviato proprio a

partire dalle campagne, diversi anni prima che venisse inquadrato dal legislatore con

la 381.

Questo capitolo intende dedicare uno spazio specifico all’agricoltura come ambito

di attività per l’IS – quasi paradossalmente - innovativo in quanto capace di

determinare delle opportunità di inclusione che altri ambiti produttivi non sempre

riescono a conseguire. Questa parte del lavoro intende dunque focalizzarsi sulle

giustificazioni di una scelta “agricola” da parte di un’IS, sulle possibilità e sui vincoli

che tale scelta determina.

Diversamente dalle attività presentate nei precedenti paragrafi risulta

problematico delineare degli schemi standard per l’esercizio di un’attività agricola

imprenditoriale. Questa infatti è fortemente condizionata da numerosi fattori non

prevedibili a priori quali la natura dei terreni che si andranno ad utilizzare, le

caratteristiche climatiche, la localizzazione dell’impresa in termini rurale/urbana, le

produzioni tipiche del territorio e ultimo, ma non in ordine di importanza, da quelli

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che sono gli specifici profili e/o preferenze dei soggetti svantaggiati che si intendono

coinvolgere nel progetto imprenditoriale.

6.2 L’ AGRICOLTURA COME AMBITO ‘INNOVATIVO’ PER FARE IMPRESA

SOCIALE

L’agricoltura, da sempre, è un settore a spiccata vocazione sociale. Il modello

familiare che tuttora impronta la stragrande maggioranza delle imprese agricole, in

Italia come in Europa e oltre, fa sì che nell’unità di produzione agricola dimensione

economico-produttiva e dimensione sociale siano strettamente intrecciate al punto

che risulterebbe difficile definire il confine tra la sfera ‘economica’ dell’impresa e

quella ‘sociale’ della famiglia.

La prima funzione sociale svolta dalle imprese agricole è storicamente stata, e

per molti versi continua ad essere, esercitata nell’ambito della famiglia conduttrice.

Ad esempio, per riferirsi ad aspetti connessi alla problematica dell’inclusione sociale e

lavorativa, le aziende agricole hanno da sempre rappresentato una concreta

opportunità di partecipazione attiva ai processi produttivi per membri della famiglia

agricola affetti da condizioni di svantaggio, con ridotta o nulla capacità contrattuale

da spendere sul mercato del lavoro.

L’IS agricola può trarre insegnamento da quanto accaduto per secoli nell’ambito

delle unità economiche di produzione in agricoltura, ovvero la capacità che queste

hanno dimostrato di coinvolgere persone svantaggiate o a rischio di esclusione

sociale, senza condizionare più di tanto la loro connotazione imprenditoriale.

Tale capacità si fonda su alcune specificità dei processi di produzione agricola che

fanno riferimento principalmente ai processi di produzione, ma che coinvolgono

anche aspetti connessi allo sbocco commerciale dei prodotti ottenuti.

Con riferimento alle loro finalità è opportuno di distinguere il ruolo terapeutico-

riabilitativo dei processi agricoli, da quello di opportunità lavorativa per persone

escluse o collocate ai margini del mercato del lavoro.

6.2.1 La dimensione terapeutico-riabilitativa

Sebbene all’IS, nei confronti delle situazioni di disagio, disabilità, svantaggio in

generale, venga affidato primariamente il ruolo di promuovere inclusione lavorativa o

le condizioni affinché questa venga conseguita, molte cooperative sociali che operano

in ambito agricolo erogano, in stretta collaborazione con i servizi sociali o

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sociosanitari, servizi a prevalente carattere terapeutico-riabilitativo. Questa

possibilità si fonda su alcune peculiarità del contesto produttivo agricolo che

concernono sia le modalità di attuazione dei processi produttivi che i prodotti

ottenuti.

Caratteristica del tutto peculiare delle attività agricole è quella di svilupparsi in

uno stretto rapporto tra l’uomo e le piante o gli animali.

Tra i primi a realizzare che attraverso la peculiare relazione tra uomo e natura

che si viene a determinare nelle attività di coltivazione e di allevamento si potessero

perseguire obiettivi di carattere terapeutico per soggetti affetti da patologie della

sfera psichica, mentale o comportamentale vi fu nel XVIII secolo Benjamin Rush,

considerato uno dei padri della psichiatria americana. Ma è solo a partire dagli anni

trenta del XX secolo che si cominciano a diffondere prima all’interno degli ospedali

psichiatrici poi gradualmente in ambienti esterni i programmi terapeutici e di

riabilitazione basati sulla cura delle piante. Nel dopoguerra nasce e si sviluppa nei

paesi anglosassoni una vera e propria disciplina curativa che coniuga competenze

mediche con quelle agronomiche: si tratta dell’Horticultural Therapy, solo da pochi

anni tradotta come “terapia assistita con le piante”. Analogamente, a partire dagli

anni ottanta si sviluppa un crescente interesse verso forme terapeutiche assistite con

gli animali.

I punti di forza di questi percorsi di intervento medico-sanitario risiedono in

alcune prerogative specifiche delle attività di coltivazione e di cura degli animali e

che di seguito riassumeremo.

In primo luogo si tratta di attività che hanno a che fare con elementi familiari,

quali sono appunto le piante e gli animali, e pertanto agevolmente ‘riconoscibili’

anche da individui con limiti o difficoltà di natura cognitiva o psichica. Piante ed

animali sono esseri viventi che non discriminano nessuno e, soprattutto per quanto

riguarda le piante, non presentano caratteri di minacciosità. Tali aspetti, solitamente

trascurati, rappresentano importanti proprietà delle attività agricole in chiave sociale,

ovvero quando l’obiettivo è anche quello di un coinvolgimento attivo di soggetti

svantaggiati, particolarmente nel caso di forme di svantaggio connesse alla sfera

cognitiva o psichica.

Un secondo aspetto fa riferimento alle modalità con cui possono svilupparsi le

relazioni uomo-pianta in un contesto agricolo. In tal senso si rileva come queste nel

corso dei secoli si siano notevolmente dilatate e come il ventaglio delle possibili

tecniche di produzione della gran parte dei prodotti dell’agricoltura è estremamente

ampio e diversificato.

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Una generica coltivazione può essere condotta al coperto oppure in pieno campo,

o in entrambe le modalità in successione. Possono essere utilizzati presidi chimici in

modo ampio, parziale o nullo, avvalendosi dei metodi di coltivazione biologico o

biodinamico. Il grado di meccanizzazione può essere molto variabile, oscillando tra la

possibilità di realizzare cicli produttivi quasi interamente meccanizzati e quella di

condurli con modalità esclusivamente manuali. Adottando il concetto di matrice della

tecnica, le n diverse modalità di produzione di un singolo prodotto, moltiplicate per

gli m diversi prodotti realizzabili in un’azienda agricola generano una matrice delle

possibili tecniche agricole dalle dimensioni difficilmente stimabili.

La visione di un settore agricolo monofunzionale, quale quella che ha prevalso nei

decenni trascorsi, ha fatto sì che di tutte le innumerevoli modalità produttive

realizzabili in agricoltura venissero prese in considerazione solo quelle che

garantivano all’impresa agricola i migliori risultati in termini rigorosamente

economico-produttivi. Ciò ha fortemente limitato il numero dei processi di produzione

ritenuti meritevoli di interesse e ha comportato una perdita di consapevolezza nei

confronti della varietà delle possibilità di produzione.

Il riconoscimento alle attività agricole di un ruolo multifunzionale contribuisce a

restituire all’unità di produzione agricola questa prerogativa e riporta interesse verso

modalità di esecuzione dei processi produttivi che adottando esclusivamente una

logica di efficienza economica verrebbero scartate.

Se si confronta la tradizionale unità produttiva in agricoltura, ovvero l’azienda

agricola, con quelle di altri settori emerge come nessuno di questi possa vantare

unità di produzione versatili, flessibili e duttili come accade nel settore primario. Nei

progetti di inclusione di persone con disabilità o portatrici di disagio sociale, la

possibilità di disegnare itinerari terapeutico-riabilitativi o di inserimento lavorativo

appropriati rispetto alle specifiche abilità residue può rappresentare per queste

esperienze una straordinaria opportunità.

Un’ulteriore aspetto dell’agricoltura che assume interesse nella prospettiva di

generare attraverso le attività agricole dei benefici di carattere sociale riguarda l’aver

a che fare con tempi biologici. L’arco temporale in cui si sviluppano i processi di

produzione agricoli, per quanto variabile, è generalmente molto lungo rispetto a

quanto non avvenga nel settore secondario o nel terziario. Il progresso tecnico è sì

riuscito in alcuni casi ad abbreviarlo, ma in misura limitata.

La relativa lentezza dei cicli di produzione rende il settore primario un ambito nel

quale i ritmi di lavoro non sono quasi mai incalzanti; consente di poter modulare la

‘velocità’ di esecuzione delle varie operazioni e anche di fermarsi, di concedersi

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pause, senza per questo necessariamente mettere a rischio la qualità del prodotto

finale.

L’intensità delle sollecitazioni sensoriali che si hanno conducendo attività a

carattere agricolo rappresenta un ulteriore aspetto che viene sovente sottolineato

nella letteratura sul ruolo terapeutico delle attività agricole. La vista, l’udito, l’olfatto

e, ovviamente, il gusto nell’assaporare i prodotti del proprio lavoro, vengono tutti

stimolati in un contesto di produzione agricola e ciascuno di questi può rappresentare

uno strumento terapeutico. In diversi casi relativi a soggetti con patologie che ne

hanno determinato una intima chiusura rispetto al contesto sociale esterno proprio

lavorando sugli stimoli sensoriali che genera il contatto attivo con le piante è stato

possibile conseguire importanti risultati terapeutici.

Fare agricoltura implica inoltre movimento fisico. Oltre a quella sensoriale, anche

la dimensione motoria dell’individuo viene continuamente sollecitata; le mansioni

sedentarie sono molto limitate e ciò viene considerato un aspetto rilevante nel caso

di soggetti con patologie di tipo mentale o della sfera psichica che possono

ripercuotersi anche sulla sfera motoria.

L’interazione con organismi viventi presenta altri aspetti interessanti nella

prospettiva di una finalità sociale delle attività agricole. Proprio perché le piante

coltivate e gli animali allevati sono esseri viventi, ciascuno è diverso dall’altro. Ciò

determina che nell’eseguire delle operazioni colturali, o di cura degli animali, anche

le più semplici, intervengano momenti che si potrebbero definire “micro-decisionali”.

Una semplice operazione come l’annaffiatura manuale di piante in serra, ad esempio,

richiede una qualche valutazione sulla quantità d’acqua da erogare a ciascuna pianta

prima che si passi a quella successiva. L’espianto di erbe infestanti da un orto dove

sono presenti ortaggi in accrescimento genera delle scelte continue in merito alle

specie da estirpare e a quelle da lasciare, che determina un piccolo momento

decisionale per ciascun atto di estirpazione eseguito. Analoghe considerazioni

possono riguardare le operazioni di raccolta, di taglio di prati e così via. Ancora, la

presenza di una micro-decisionalità diffusa non costituisce certo un aspetto di

interesse nell’ambito dell’agricoltura ‘ordinaria’, ma lo può diventare quando

l’obiettivo dell’attività agricola è anche quello di inclusione di soggetti svantaggiati. In

tal senso è accaduto che persone affette da gravi difficoltà cognitive quando

coinvolte in attività colturali abbiano rivelato capacità ‘decisionali’ totalmente

sconosciute prima.

Nella letteratura sulla terapia orticulturale una delle chiavi di lettura che ricorre

più spesso per illustrare l’efficacia di programmi terapeutico-riabilitativi basati sulla

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coltivazione di piante riguarda il senso di responsabilità che si determina

nell’accudimento di piante o animali.

La condizione di svantaggio determina per molti individui che altri, in misura

dipendente della gravità dello svantaggio, si prendano cura di loro. Nelle attività di

coltivazione e di allevamento tale condizione viene ribaltata: sono i soggetti, per

quanto portatori di disabilità o di altra forma di disagio o di fragilità, che si prendono

cura di altri organismi. Nella partecipazione ad attività di coltivazione o di

allevamento si sviluppa negli individui un senso di responsabilità che rappresenta un

elemento di costruzione di una propria identità: sono “io” che ho aiutato questa rosa

a fiorire, questo ortaggio a giungere a maturazione, questa gallina a deporre le uova,

ecc.

L’agricoltura cosiddetta sociale appare così un’agricoltura responsabile nel più

ampio senso del termine: che si assume delle responsabilità nei confronti di persone

non pienamente integrate nella comunità, contribuendo alla coesione sociale della

collettività, e che promuove l’assunzione di responsabilità da parte di soggetti a cui

nella maggior parte dei casi si tende a non affidare alcuna responsabilità.

Le considerazioni sopra sviluppate evidenziano alcune particolari proprietà dei

processi agricoli, sia di coltivazione che di allevamento, che possono coadiuvare un

percorso terapeutico-riabilitativo. Anche altre attività non agricole possono

presentare alcune di tali caratteristiche, ma solo in agricoltura queste sembrano

presentarsi tutte congiuntamente.

Ulteriori elementi di peculiarità della sfera agricola che in questa chiave meritano

di essere sottolineati riguardano i prodotti finali.

Una prima fondamentale specificità dei prodotti derivanti dai processi agricoli

riguarda la loro finalità: nella grande maggioranza dei casi essi sono destinati al

nutrimento e per questo motivo rientrano nella categoria dei beni di primaria

necessità. Per soggetti con difficoltà psichiche e cognitive la consapevolezza, non

difficile da percepire, di essere coinvolti in attività della quale loro stessi potranno

trarre beneficio consumandone il prodotto finale aggiunge valenza terapeutica agli

altri aspetti sopra presentati.

Un secondo aspetto proprio dei prodotti delle attività agricole può presentare forti

implicazioni per le iniziative agricole a finalità sociale. Ci si riferisce al fatto che tali

prodotti non conservano alcuna traccia che riveli le eventuali condizioni di svantaggio

o di difficoltà di coloro che hanno partecipato al ciclo produttivo. L’olio, il vino, gli

ortaggi, i fiori, le uova, il miele prodotti dall’agricoltura sociale possono essere

prodotti assolutamente comparabili a quelli prodotti dalle aziende agricole non

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‘sociali’, nel senso che le eventuali capacità limitate di alcuni dei partecipanti al

processo produttivo non pregiudicano la qualità del prodotto finale. In altri termini, e

facendo riferimento ad una esemplificazione, nulla fa ritenere che sia possibile

all’assaggio distinguere, a parità di tutte le altre condizioni, un campione d’olio

ricavato da olive raccolte da un soggetto con deficit cognitivo, da quello raccolto da

un esperto olivicoltore.

Questa caratteristica assume importanza in quanto implica che la qualità, e di

conseguenza la commerciabilità, dei prodotti dell’IS agricola può essere elevata.

La vendita dei prodotti rappresenta un passaggio di grande rilevanza centrale

nell’ambito dell’agricoltura sociale in quanto rappresenta un ulteriore fattore

terapeutico: incrementa l’autostima dei soggetti coinvolti e permette, attraverso lo

scambio, di stabilire relazioni con l’ambiente esterno.

6.2.2 La funzione occupazionale nei confronti di fasce deboli

Nell’ambito delle funzioni di utilità sociale potenzialmente erogabili da programmi

agricoli quali quelli condotti nelle fattorie sociali è opportuno tener distinte le

iniziative a finalità terapeutico-riabilitativa da quelle che mirano all’inserimento

lavorativo di persone svantaggiate.

In questo paragrafo ci soffermiamo sulle possibilità da parte delle imprese

agricole ad esplicita finalità sociale di promuovere occupazione per soggetti

svantaggiati e di contribuire in questo modo a ridurre l’esclusione sociale nelle aree

rurali e non solo in queste.

In realtà l’ipotesi che l’agricoltura sia in grado di dare occupazione a individui in

età lavorativa ma esclusi dal mercato del lavoro, risulta certamente di notevole

interesse ma al momento non suffragata dai risultati di specifiche indagini.

Pur mancando, come si è detto, studi specifici sull’inserimento lavorativo in

ambito agricolo di persone svantaggiate, un documento della Commissione Europea

del 2001, concernente la situazione occupazionale delle persone con disabilità

quantifica nella misura del 5,7% la quota di disabili occupati in agricoltura sul totale

dei disabili occupati. Un dato superiore a quello relativo agli occupati complessivi

(disabili e non) che a livello comunitario risultano occupati nel settore primario per il

4% (Commissione Europea, 2001).

L’inserimento lavorativo in agricoltura di soggetti svantaggiati si configura

sovente come il naturale sbocco di percorsi di formazione inerenti gli ambiti di

produzione agricola. Le esperienze formative rivolte a persone con svantaggio e

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concernenti specifici comparti dell’agricoltura (orticoltura e florovivaismo sono tra i

più ricorrenti) hanno dimostrato, a volte anche ben oltre le più ottimistiche

aspettative, che sussiste per persone con limitate abilità un’ampia capacità di

apprendere e di implementare numerose mansioni specifiche di processi produttivi di

carattere agricolo.

Nel dibattito sull’integrazione nel mondo del lavoro di persone svantaggiate si è

ampiamente discusso sul ruolo della cooperazione sociale, ovvero se la cooperativa

sociale dovesse rappresentare un momento di passaggio per il soggetto con

svantaggio, in un percorso che avrebbe dovuto sfociare in un’occupazione nel settore

pubblico o in quello privato, o se l’IS potesse essere il punto d’arrivo del percorso di

inserimento lavorativo. Nella realtà italiana si verificano entrambe le situazioni. La

possibilità di acquisire posizioni di lavoro al di fuori di una situazione comunque

protetta quale è quella dell’IS dipende, ovviamente, sia da variabili inerenti il

soggetto da avviare al lavoro, sia dal contesto lavorativo locale e dall’esistenza di

effettive opportunità di inserimento.

Per quanto riguarda il settore agricolo, al di fuori delle cooperative sociali di tipo

B, l’inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati può presentare alcune difficoltà

legate al fatto che si tratta di un settore incentrato sull’impresa familiare, con

limitata incidenza del lavoro dipendente. In aree rurali dove è presente un settore

agricolo di tipo intensivo e specializzato (ad esempio, le aree del florovivaismo,

dell’orticoltura, della vitivinicoltura, dell’allevamento bovino) vi sono unità produttive

che ricorrono a manodopera dipendente e che, anche se non soggette all’obbligo di

assumere persone svantaggiate, potrebbero rendersi disponibili a partecipare a

progetti sociali, che riconoscano all’impresa stessa un ruolo di responsabilità sociale.

6.3 IL PROFILO DELL’IMPRESA SOCIALE IN AGRICOLTURA

Se una qualche funzione di carattere sociale il settore agricolo non abbia mai

mancato di svolgerla, utilizzeremo il termine di “agricoltura sociale” per riferirci a

quelle esperienze nelle quali vengono condotte attività a carattere agricolo, inteso in

senso lato (coltivazioni di specie vegetali, allevamento di specie animali selvicoltura,

trasformazione dei prodotti alimentari, agriturismo, gestione di attività equestri, …)

con l’esplicito proposito di generare benefici per fasce particolari della popolazione

(bambini, anziani, persone con bisogni speciali). Secondo questa definizione

l’agricoltura a finalità sociali, o agricoltura sociale, si propone dunque esplicitamente

di svolgere una funzione di utilità sociale e in tal senso crea le forme organizzative

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più adatte a tale finalità. L'IS in agricoltura rappresenta una di queste modalità

organizzative, sebbene non l’unica.

L’imprenditorialità sociale, come si è visto, ha presentato negli ultimi anni in Italia

un vivace dinamismo che ha interessato anche il settore agricolo. La legge 381 sulle

cooperative sociali, infatti, menzionava esplicitamente le attività agricole tra quelle

riconosciute per le cooperative di inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati. Tra

questi le persone con disabilità, soprattutto di origine mentale o psichica, possono

trovare nelle attività agricole, come si è discusso sopra, un ambito nel quale

esprimere le proprie abilità residue e valorizzare le proprie capacità di partecipazione

alla vita produttiva.

La duplice crisi del modello tradizionale del sistema di welfare e di quello che ha

governato il sostegno alle imprese agricole per alcuni decenni apre interessanti spazi

di azione per declinare in chiave agricola interventi sociali in ambito rurale e

periurbano.

Nel delineare alcuni aspetti specifici che dovrebbero connotare l’IS in agricoltura

occorre avere la consapevolezza che non esistono ‘ricette’ standard in questo ambito.

Come nel più generale contesto del terzo settore, la virtuosità delle singole

esperienze, dei singoli progetti o iniziative dipende da numerose variabili, sia

endogene che esogene, non tutte e non sempre programmabili a priori. Basti

pensare al ruolo delle motivazioni personali delle risorse umane coinvolte e della loro

capacità di integrarsi in sistemi più ampi stabilendo proficue relazioni umane e

istituzionali con le altre organizzazioni e gli altri attori del territorio.

L’analisi delle esperienze di imprenditorialità sociale in ambito agricolo già attive

da anni in alcune regioni italiane consente però di individuare alcuni tratti comuni che

possono essere assunti come “linee guida” nell’avvio di nuove esperienze in questo

ambito.

Di seguito verranno indicate alcuni condizioni che caratterizzano l’azione e

l’organizzazione di esperienze agricole esplicitamente finalizzate a generare servizi

sociali, con particolare riferimento a persone con bisogni speciali: dall’offerta di

servizi terapeutico-riabilitativi all’inserimento lavorativo.

6.3.1 La diversificazione produttiva

Per esplicare al meglio le proprie finalità l’IS agricola tende ad assumere

un’organizzazione produttiva altamente diversificata.

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Diversamente dalle altre imprese agricole, o più in generale dalle imprese a fini di

lucro tout court per le quali la spinta alla diversificazione si ispira al buon senso

economico che suggerisce di “non mettere tutte le uova in un solo paniere”, nelle

imprese agricole a finalità sociale la necessità di diversificare le attività produttive è

dettata anche dal servizio di inclusione che queste realtà perseguono. Un

ordinamento produttivo diversificato dilata le possibilità di inclusione di soggetti con

bisogni speciali, ampliando il ventaglio di mansioni necessarie alla conduzione delle

attività produttive e di conseguenza accresce le possibilità di includere persone con

limitate abilità, o con particolari esigenze derivanti dal ridotto grado di autonomia.

La diversificazione viene anche perseguita integrando le attività agricole in senso

stretto – ovvero di coltivazione o di allevamento – con altre attività a queste

connesse finalizzate all’offerta di servizi a cittadini: ospitalità agrituristica, attività

didattiche rivolte alle scuole, vendita dei prodotti, aziendali e non. Almeno una di

queste attività è presente in molte imprese agricole a natura sociale e l’importanza

della loro presenza risiede anche nel determinare apertura dell’impresa verso

l’esterno, una condizione che di rado si rinviene nelle aziende agricole ordinarie.

6.3.2 La sostenibilità ambientale

Un secondo aspetto che accomuna gran parte delle esperienze di agricoltura

sociale concerne la conduzione delle attività produttive secondo il metodo biologico.

Vi è nei fatti una naturale convergenza tra il perseguimento di finalità sociali ed il

rispetto dell’ambiente. Entrambi questi orientamenti trovano nell’assunzione di una

forma di responsabilità verso la collettività una radice comune: responsabilità sociale

da un lato e ambientale dall’altro.

Ma oltre alla ragione motivazionale vi sono altre considerazioni di ordine pratico:

da un lato sviluppare i processi di produzione in regime biologico evita la presenza e

la manipolazione di prodotti in qualche misura tossici in un contesto nel quale sono

attivamente coinvolti soggetti che possono presentare forme di svantaggio anche

grave. Dall’altro lato incrementa i livello qualitativo dei prodotti, arricchendoli di una

‘qualità ambientale’ che una quota crescente di consumatori domanda e per la quale

è disposta a pagare o direttamente, attraverso il loro acquisto, o indirettamente

attraverso i pagamenti previsti nell’ambito delle politiche agricole comunitarie.

6.3.3 La manualità nella conduzione delle attività produttive

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Nelle realtà di agricoltura sociale generalmente il lavoro non è un fattore

limitante.

La flessibilità che caratterizza il modello produttivo dell’azienda agricola conduce

generalmente l’IS a privilegiare la scelta di colture e di allevamenti a più elevato

fabbisogno di manodopera. Tra le prime, nelle imprese agrisociali, si rinvengono

spesso le colture ortive, quelle florovivaistiche, le piante aromatiche, i piccoli frutti,

ma anche viticoltura e olivicoltura per le quali la principale operazione colturale, la

raccolta, è solitamente condotta con modalità manuale. Tra gli allevamenti si trovano

prevalentemente quelli inerenti piccole specie (conigli, galline ovaiole, animali da

cortile in genere, apicoltura) ma anche l’allevamento equino ed asinino, anche per le

specifiche capacità di queste specie di relazionarsi con l’uomo.

Le stesse attività in serra, di cui si è detto in precedenza, richiedono

prevalentemente lavoro manuale e anche per questo motivo sono spesso presenti

nelle esperienze di agricoltura sociale.

Anche nei comparti produttivi agricoli nei quali sono andate ormai diffondendosi

tecniche altamente meccanizzate, rimane sempre la possibilità di realizzare tali

attività con modalità manuale, a conferma di una duttilità nell’organizzazione della

produzione che forse nessun altro settore produttivo ha come l’agricoltura.

6.3.4 La fattoria sociale come organizzazione produttiva ‘aperta’

Un aspetto di fondamentale importanza per un progetto di carattere agricolo con

finalità sociali riguarda la sua apertura nei confronti dell’ambiente esterno. Le

imprese agricole sociali, così come altre esperienze simili che accolgono e

coinvolgono soggetti deboli, potrebbero correre il rischio di creare dei ghetti, per

quanto ‘verdi’ e felici, verso i quali convogliare risorse umane socialmente escluse.

Per evitare ciò la fattoria sociale deve porsi come soggetto aperto alla comunità

locale in grado di offrire ulteriori servizi oltre quelli indirizzati verso persone con

bisogni speciali. L’apertura di un punto vendita dei propri prodotti o di altri produttori

locali, la realizzazione di percorsi didattici per le visite di scolaresche e di famiglie, la

presenza di punti ristori in azienda o di ospitalità di tipo agrituristico costituiscono

esempi percorribili (e da molte esperienze in questo ambito già percorsi) per

sostanziare il principio dell’apertura all’esterno. I vari servizi attivati in tal senso, tra

l’altro, possono, con le entrate che generano, contribuire alla sostenibilità economica

del progetto.

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Attraverso l’apertura alla comunità locale, e non, la fattoria sociale consolida la

propria reputazione nel territorio, rafforza i legami con la popolazione locale e con le

altre organizzazioni e istituzioni, e in definitiva potenzia l’efficacia dei percorsi di

inclusione che attraverso l’esperienza di agricoltura sociale vengono perseguiti.

Un’autentica inclusione di soggetti ad elevato rischio di marginalizzazione sociale

non può infatti prescindere da un loro coinvolgimento in un progetto fortemente

radicato nella comunità locale e da questa “partecipato”.

Va notato, infine, come attivando i servizi esemplificati la fattoria sociale non solo

ne trae un beneficio economico e sociale, ma contribuisce ad ampliare la disponibilità

di servizi nel territorio rurale e conseguentemente la sua qualità della vita.

6.3.5 La fattoria sociale e la chiusura del ciclo produttivo

Le profonde trasformazioni del comparto agroalimentare avvenute a partire dalla

metà del secolo scorso hanno comportato una crescita del ruolo delle imprese

industriali di trasformazione e di quelle di commercializzazione e distribuzione e il

corrispondente declino di importanza della fase di produzione delle materie prime

agricole. Sempre più le unità produttive del settore agricolo sono andate integrandosi

in più ampi sistemi agroindustriali, specializzandosi nella gran parte dei casi nelle

prime fasi della produzione di alimenti, perdendo il contatto diretto con il

consumatore finale.

Da questa angolazione la fattoria sociale presenta una discontinuità rispetto alle

aziende agricole del proprio contesto territoriale. I beni prodotti vengono solitamente

destinati, in forma di vendita o in altra forma, ai consumatori finali. Il ciclo

produttivo, dunque si chiude nella fattoria stessa a volte anche attraverso

l’attuazione di attività di trasformazione in appositi laboratori aziendali. La

produzione di un bene agricolo ‘finito’ appare anch’essa coerente con le strategie e

gli obiettivi della fattoria sociale. Sia che il prodotto finale venga venduto, sia, come

accade in altri casi, che sia autoconsumato all’interno della fattoria o nella cerchia dei

soggetti a vario titolo coinvolti nel progetto, la sua produzione assume un significato

rilevante per tutti i soggetti che vi hanno partecipato, in particolare per quelli

svantaggiati. La percezione dell’utilità del proprio contributo, anche se fosse limitato

solo ad un piccolo segmento del processo produttivo, e del senso del proprio

impegno è infatti significativamente più profonda quando la realtà in cui si è

attivamente coinvolti genera un prodotto finale, come un alimento pronto per il

consumo, del quale si percepisce con immediatezza l’importanza e l’utilità.

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La produzione di beni alimentari finali, inoltre, avvicina l’esperienza di agricoltura

sociale ai consumatori, e quindi ai cittadini, o portandoli direttamente in azienda

qualora sia presente il punto vendita aziendale o in altri luoghi di vendita situati in

luoghi più strategici se il luogo dove si trova la fattoria sociale non è adeguato in tal

senso.

6.3.6 Vendere i propri prodotti

Si è già detto della prerogativa che hanno molte imprese agricole sociali con

riferimento alle modalità di vendita in azienda dei prodotti. Una nuova prospettiva

commerciale per le fattorie sociali che sta lentamente aprendosi è quella dei Gruppi

di acquisto solidale (GAS). I GAS si sono sviluppati negli ultimi anni soprattutto

nell’Italia settentrionale e centrale con lo scopo di organizzare acquisti direttamente

dai produttori da parte di un insieme di consumatori finali. Gruppi di dimensione

variabile di famiglie si organizzano per effettuare collettivamente gli acquisti di alcuni

prodotti, solitamente beni alimentari, prendendo contatto con aziende agricole in

grado di soddisfare le loro richieste. Oltre ai vantaggi economici che si presentano

per entrambe le controparti dello scambio, il sistema promosso dai Gas consente ai

consumatori finali di avere maggiori informazioni sull’origine dei prodotti acquistati e

di alimentare così situazioni di fiducia che raramente si rinvengono attraverso

acquisti attraverso i tradizionali canali della distribuzione. I GAS si caratterizzano

sovente anche per motivazioni ideali e sociali che li portano a stabilire accordi con

aziende agricole che conducono con senso di responsabilità le attività di produzione:

responsabilità nei confronti dell’ambiente, del benessere degli animali, del

mantenimento della biodiversità, ecc. Le fattorie sociali non solo tendono a

presentare tutte queste forme di responsabilità, ma vi aggiungono anche una

responsabilità sociale che accentua il valore dei prodotti ottenuti.

Nelle fattorie sociali la vendita dei prodotti, in qualsiasi modo questa venga

effettuata ma comunque indirizzata ai consumatori finali senza intermediari,

rappresenta uno importante veicolo di diffusione della qualità sociale delle attività

svolte e, oltre che fonte di entrate, un formidabile strumento di costruzione del

consenso intorno al progetto sociale ed imprenditoriale.

Numerosi sono le esperienze ‘virtuose’ in questo ambito. Ci limitiamo a citare due

casi che hanno avuto risonanza nazionale.

Il primo è quello dei vini prodotti nella casa circondariale di Velletri, in provincia

di Roma. Attraverso la costituzione di una cooperativa sociale, la “Lazaria”, e grazie

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ad un finanziamento del Ministero della Giustizia, un gruppo di detenuti coinvolto

nella conduzione di un vigneto situato all’interno delle mura carcerarie ha potuto

avviare attività di trasformazione per la produzione di vini di qualità a denominazione

di origine. Il “Fuggiasco”, vino novello, il “Recluso” e il “Quarto di Luna”,

commercializzati su mercati nazionali ed esteri dalla cooperativa sociale, sono

diventati il simbolo di un possibile riscatto di soggetti socialmente esclusi.

Il secondo è quello dell’associazione Libera Terra, che comprende un gruppo di

cooperative sociali agricole del meridione che su terreni confiscati alla mafia

producono prodotti di elevata qualità agroalimentare, venduti principalmente

attraverso il commercio elettronico. Impegno sociale e legalità vengono veicolati sui

mercati nazionali attraverso il cibo.

6.4 BUONE PRATICHE DI IMPRESA SOCIALE IN AGRICOLTURA:

AGRICOLTURA CAPODARCO

Nell’Italia centrale, in particolare nel Lazio e nelle Marche, Capodarco è nome

molto noto tra gli operatori del sociale.

La Comunità di Capodarco nasce nel 1967 a Fermo, in provincia di Ancona, per

dare risposte a gruppi sociali marginalizzati, in particolare persone con disabilità o

portatrici di disagi sociali.

Quattro anni dopo nasce la Comunità di Capodarco di Roma e nel 1978 a

Grottaferrata, un comune alle porte di Roma, viene fondata la cooperativa

Agricoltura Capodarco, in seguito divenuta cooperativa sociale di tipo B per

l’inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati.

La cooperativa muove i primi passi su di un terreno di circa 3 ettari sul quale

insiste un antico e ampio casale acquisiti da un istituto religioso.

La localizzazione della cooperativa appare subito come un elemento centrale per

le sue strategie di sviluppo: il fondo, infatti, si trova in un contesto certamente di

campagna, a dominare la Valle Marciana, ma al tempo stesso ad un passo dal centro

di Grottaferrata (comune di 19.000 abitanti) e dalla storica abbazia di San Nilo,

frequentata annualmente da un gran numero di visitatori. Si trova dunque in quel

territorio ibrido tra il rurale e l’urbano che per iniziative di questo tipo ne rappresenta

sovente uno dei punti di forza.

Nel corso degli anni Agricoltura Capodarco consolida la propria vocazione sociale,

offrendo risposte di varia natura alle richieste provenienti dai servizi sociali dei

comuni, ai servizi di salute mentale delle aziende sanitarie e anche direttamente alle

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famiglie con componenti in condizioni di svantaggio. Al tempo stesso la cooperativa

non trascura la propria natura di impresa agricola ampliando considerevolmente la

superficie coltivata. Altri appezzamenti vengono acquisiti in locazione e attualmente

la dimensione produttiva della cooperativa è di circa 23 ettari dislocati in vari comuni

dei Castelli Romani.

Lo sviluppo imprenditoriale si realizza anche allargando gli ambiti di attività. Le

principali tappe di questo percorso vedono nascere nel 1990 il Centro di Formazione

Professionale e recentemente, nel 2004, grazie alla ristrutturazione di un fabbricato

per lungo tempo destinato a magazzino, l’avvio di un’attività di “agriturismo

sociale”, con attività di ristorazione, sala convegni e piccola ospitalità.

La multifunzionalità dell’agricoltura, così ampiamente discussa ed esaminata in

molti documenti, trova in Agricoltura Capodarco una delle sue espressioni più

emblematiche e concrete al tempo stesso. Si tratta infatti di un impresa agricola che

oltre alla funzione produttiva, svolge anche funzioni ambientali (le produzioni sono

condotte in regime biologico), funzioni formative e didattiche e una funzione sociale

che ne rappresenta il fulcro.

6.4.1 L’attività agricola

La funzione più strettamente produttiva, quella di produzione agricola, si realizza

sia con attività di coltivazione che di allevamento. La produzione di uova biologiche -

circa 1.100 in media al giorno - rappresenta nel bilancio dell’impresa una delle

entrate più consistenti. Le principali coltivazioni sono quelle orticole, presso il centro

aziendale, quelle viticole per la produzione di vino a denominazione d’origine e quelle

olivicole nei terreni situati in altri centri del comprensorio.

Tra le altre attività a carattere agricolo va menzionata l’apicoltura con circa 200

arnie.

La maggior parte della produzione viene commercializzata nel punto vendita

aziendale. Parte del prodotto viene smaltito anche in alcune mense di Roma o al

mercato di Grottaferrata.

6.4.2 La funzione sociale

Agricoltura Capodarco ha sempre creduto fortemente nella capacità delle attività

agricole di rappresentare un’occasione di inclusione sociale e di inserimento

lavorativo di soggetti svantaggiati. L’organizzazione delle attività produttive così

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diversificata consente ai soggetti svantaggiati non solo di trovare ciascuno un suo

appropriato coinvolgimento nelle attività della cooperativa, ma spesso anche ad

assumere un ruolo di significativa importanza.

Se come cooperativa sociale di tipo B Agricoltura Capodarco ha come primo scopo

quello di promuovere l’inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati tale funzione

viene comunque affiancata da altre iniziative che hanno nelle persone con svantaggio

i beneficiari finali. È attivo un centro di formazione professionale specificatamente

orientato nella progettazione e attuazione di percorsi formativi, principalmente nel

settore agricolo, per soggetti svantaggiati e, come si è detto, da circa un anno è in

funzione una struttura agrituristica con specifico orientamento verso l’ospitalità di

persone con bisogni speciali.

Una delle caratteristiche della fattoria sociale Agricoltura Capodarco è il suo

elevato grado di apertura alla comunità locale. Il punto vendita aziendale risulta

molto frequentato sia da consumatori locali che provenienti dalla capitale.

Aldilà del punto vendita, Agricoltura Capodarco è una struttura sempre aperta per

la cittadinanza: promuove visite didattiche, convegni e seminari di discussione di

tematiche sociali, concerti e feste aperte a tutti. Rappresenta ormai nel tessuto locale

un punto di riferimento per l’intera collettività e non solo per la sua parte più debole.

Agricoltura Capodarco racchiude tutti quei tratti che consentono ad un’IS in

agricoltura, di svilupparsi sia sul terreno agricolo che quello sociale. La

diversificazione delle attività, la manualità delle operazioni colturali, la chiusura in

azienda dei cicli produttivi, l’apertura al territorio ne rendono più che una fattoria

sociale un vero e proprio “fattore” di sviluppo sociale del territorio.

6.5 OPPORTUNITÀ E VINCOLI PER L’IMPRESA SOCIALE IN AGRICOLTURA

La scelta di operare in ambito agricolo, lungi dal rappresentare un opzione dal

sapore obsoleto, apre all’imprenditorialità sociale delle prospettive potenzialmente di

notevole interesse. L’attenzione crescente della società nei confronti del cibo, come

elemento fondante dell’identità culturale e come fattore di qualità della vita, sta

determinando una nuova centralità per i produttori agricoli, soprattutto per quelli che

coniugano elementi di qualità alimentare con la salvaguardia dell’ambiente, delle

tradizioni rurali e alimentari locali.

Un’ulteriore opportunità è riconducibile alla lettura sempre più “multifunzionale”

che le istituzioni deputate a promuovere lo sviluppo agricolo e rurale stanno dando

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dell’impresa agricola. Un’impresa sempre più vista come soggetto economico duttile,

versatile, capace di offrire una diversificata gamma di beni e di servizi, tra i quali,

come si è argomentato sopra anche servizi di natura sociale.

Proprio questa lettura multifunzionale dischiude delle consistenti opportunità

finanziarie messe a disposizione dalla politica comunitaria agricola e di sviluppo

rurale. Il settore primario, infatti, rimarrà ancora nella prossima programmazione

finanziaria comunitaria (2007-2013) un settore dove si indirizzeranno notevoli risorse

finanziarie pubbliche. Parte rilevante di tali risorse è riservata a promuovere

l’ammodernamento strutturale del settore e a sostenere i processi di riconversione

delle imprese agricole verso le nuove domande dei cittadini e dei consumatori.

In questa chiave una prospettiva che alcune regioni stanno considerando di aprire

è quella di accompagnare, anche finanziariamente, percorsi di carattere sociale in

ambito agricolo al fine di ampliare le forme di diversificazione produttiva in ambito

agricolo di rafforzare l’offerta di servizi sociali nei contesti rurali. Tali opportunità

troveranno concreta definizione nei Piani di Sviluppo Rurale che le amministrazioni

regionali stanno definendo nei dettagli e che saranno approvati in sede comunitaria

entro la fine del 2006.

Dal punto di vista del fabbisogno finanziario, dunque, l’IS in agricoltura può

spendere le proprie specificità sia sul terreno delle politiche sociali e delle politiche

del lavoro che su quello delle politiche agricole e di sviluppo rurale.

Ciò presuppone, però, una capacità degli operatori del sociale, che solitamente

rappresentano la base fondativa di un’impresa sociale di tipo B in qualunque ambito

questa eserciti le proprie attività produttive, di raccordarsi con le professionalità e

più in generale con il sistema organizzativo-istituzionale del mondo agricolo.

La scelta di operare in agricoltura non è per un’IS scevra da difficoltà. Tra queste

vanno segnalate le seguenti:

- una sostanziale estraneità degli operatori del mondo agricolo alle tematiche

del sociale, e viceversa;

- la gradualità temporale che richiede un progetto di creazione di impresa in

agricoltura, anche per via dei tempi biologici richiesti dai processi produttivi;

- la più o meno elevata aleatorietà delle produzioni;

- l’interazione diretta con i consumatori finali, nel caso si intenda adottare

questa strategia commerciale;

- la necessità di una presenza continua nel corso dell’anno, aspetto ancor più

vincolante nel caso di presenza di allevamenti.

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La creazione di impresa sociale in agricoltura rappresenta una sfida di grande

interesse che richiede però competenze pluridisciplinari sui tre principali versanti che

caratterizzano le attività dell’impresa: quello sociale, quello economico-

imprenditoriale e quello tecnico-agronomico. Un efficace mix di queste tre “anime”

dell’impresa agrisociale può generare modelli imprenditoriali dinamici, efficaci ed

efficienti e dare risposte innovative alla sfida dell’inclusione sociale.

6.6 ATTIVITA’ AGRITURISTICA

E’ un caso di agricoltura multifunzionale che porta la famiglia rurale/impresa ad

impegnarsi su diversi campi:

• Agricoltura

• Trasformazione

• Vendita prodotti

• Accoglienza

• Ristorazione

• Animazione

• Utilizzazione risorse esterne

• Vendita servizi

Sono oltre 12.000 le aziende agrituristiche oggi in Italia, 10.000 gli alloggi,

130.000 i posti letto, 8.000 le aziende con ristorazione.

Buona parte degli operatori agrituristici proviene da altra attività. Soprattutto nel

centro-nord e in Puglia e Calabria. L’agricoltura beneficia così dell’ingresso di capitali

esterni grazie ad un settore che da qualche anno gode dello stesso sistema di

contribuzione delle attività legate all’artigianato ed al terziario (regime “de minimis”).

Allo stesso tempo l’incremento dell’attività agricola ha portato alla creazione di nuovi

posti di lavoro e alla salvaguardia del territorio e dell’edilizia rurale.

6.6.1 Cosa fare per aprire un agriturismo

• formulare un progetto di ospitalità che preveda la disponibilità di edifici,

locali e spazi da destinare all’accoglienza

• scegliere se l’ospitalità sarà organizzata in appartamenti o in camere,

tenendo ben presente che si possono utilizzare esclusivamente edifici già esistenti e

non più utilizzati per la conduzione dell’attività agricola

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• prevedere gli investimenti necessari per adattare gli edifici alle attività

previste

• esaminare la legislazione regionale che disciplina il settore per stabilire le

dimensioni degli investimenti e dell’attività

• fare una indagine sui tipi di contributo regionali e statali ai quali poter

accedere e finalizzati all’avvio e al miglioramento dell’attività agrituristica. Trovare

canali di finanziamento europei attraverso i Piani di Sviluppo Rurale predisposti dalle

Regioni

• quantificare la manodopera da impiegare per organizzare l’agriturismo

• prevedere quali attività affiancare all’offerta di ospitalità e ristoro e a quale

tipo di ospite rivolgere l’offerta

• prevedere le fasce di prezzo da applicare per i vari tipi di servizio, stabilite

anche in base ai parametri locali

• elaborare un bilancio di massima tenendo conto delle quote di

ammortamento del capitale investito

• preparare un piano dei tempi di realizzazione e di promozione dell’attività

6.6.2 Le regole

Sono fissate da leggi regionali coordinate da una legge-quadro dello Stato (L.20

febbraio 2006, n.96). L’attività agrituristica deve essere connessa all’attività agricola

ovvero finalizzata sempre alla migliore valorizzazione delle risorse agricole.

Per esercitare l’attività agrituristica occorre il rilascio di una autorizzazione

comunale previa verifica – da parte dell’autorità regionale – della complementarietà

dell’agriturismo rispetto alla attività agricola con due criteri (a seconda delle

disposizioni regionali):

1. prevalenza del fatturato agricolo su quello agrituristico

2. prevalenza delle ore di lavoro richieste per l’attività agricola sulle ore di

lavoro richieste per l’attività agrituristica, sulla base di tabelle convenzionali dei

tempi di lavoro.

L’operatore per iniziare l’attività deve:

• avere l’autorizzazione comunale, ma essendo l’agriturismo disciplinato dalle

leggi regionali, non esiste un iter amministrativo unico. Nel caso in cui il Comune

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non risponda entro un arco di tempo stabilito dalle Regioni (60 o 90 giorni) la

domanda si intende accolta (principio del silenzio/assenso)

• registrare gli ospiti in arrivo secondo le norme di pubblica sicurezza

• ottenere l’autorizzazione sanitaria per i locali destinati all’accoglienza e

all’uso delle sostanze alimentari

• laddove si svolga attività di trasformazione dei prodotti o servizio di

ristorazione, dotarsi del piano aziendale di autocontrollo igienico-sanitario previsto

• essere in possesso di abilitazione sanitaria (libretto o frequentazione di corsi

formativi secondo le norme regionali)

• utilizzare nella ristorazione la quota di prodotto proprio stabilita dalla legge

regionale)

• rispettare tutte le norme relative ai servizi (Tarsu, Siae, canone Rai, fiscali,

ecc.)

• dare inizio alla vita fiscale dell’attività agrituristica con la comunicazione

all’ufficio IVA che la partita del titolare dell’azienda si estende all’attività agrituristica.

6.6.3 L’offerta

E’ multiforme: maggiori novità del settore agrituristico sono quelle riguardanti

l’offerta di nuovi servizi e attività. Non più quindi solo alloggio e ristorazione (che

insieme coinvolgono solo il 3,2% degli agriturismi). Tra i servizi, la vendita diretta è il

più diffuso, soprattutto al Sud (75%). Segue l’offerta di attività culturali e ricreative

e la degustazione. In aumento le attività sportive, le fattorie didattiche e le fattorie

sociali. Alle classiche proposte di escursioni a piedi, a cavallo o in bicicletta si

aggiungono offerte di attività ricreative e culturali come corsi di cucina, di ricamo, di

artigianato.

6.6.4 L’azienda

E’di dimensioni medio grandi (il 30,2% delle aziende supera i 50 ettari). La

conduzione è familiare, integrata dal lavoro di salariati. Produce e trasforma prodotti

di qualità: 6 aziende su 10 presentano produzioni biologiche con marchi comunitari

(Dop, Igp) e nazionali (Doc, Docg, Igt). Tra le coltivazioni, quelle permanenti (olivi

60%- vigne 39%), cerealicole (50%). Ma c’è molta varietà zootecnica (37,5%),

frutticola (30%), orticola (32%). 7 aziende su 10 trasformano i loro prodotti (86,5%

al Sud), il 60% ha un punto vendita. Tra le trasformazioni: olio (52, 5%), conserve

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di frutta (48,5%), ortaggi (27,5%), carni e salumi (16,5 e 14,5%). A completare la

filiera, la vendita diretta (61,1%) e le degustazioni (37,9%).

Le regole per lo svolgimento di tali attività sono fissate da leggi regionali

6.6.5 L’operatore

Oltre alla tradizionale trasformazione di imprenditori agricoli in operatori

agrituristici si nota la crescita di chi proviene da altre esperienze e ha deciso di

investire in agricoltura. L’età media dell’operatore agrituristico è 47 anni. Il 42% è

donna, il 58% è uomo. Il 60% è in possesso di diploma di scuola media superiore, il

6% ha un diploma di scuola media inferiore, il 6% ha una laurea specifica nel settore

agricolo, il 28% ha altri tipi di laurea. Il 47% proviene dal mondo agricolo, il 20% dal

commercio, il 20% dai servizi, il 13% da altro. L’11% proviene dalla stessa regione,

l’11% dalla stessa provincia, il 33% dallo stesso comune, il 45% da altra regione.

Solitamente vive in azienda (70%), soprattutto se risiede al nord, o nello stesso

comune (19%). Il resto arriva a risiedere anche in regione diversa. I motivi principali

che lo hanno spinto a all’avvio dell’attività sono la valorizzazione del patrimonio

fondiario dell’azienda (55,4%), incrementarne il reddito (38,1%) e sfruttare strutture

altrimenti non utilizzate (6,5%). Il 65,8% degli operatori ha richiesto contributi

finanziari: il 67% dei casi al momento dell’avvio dell’attività. Friuli, Marche, Umbria,

Veneto, Basilicata, Puglia e Sicilia sono le regioni che hanno saputo meglio

approfittare degli incentivi per investire sulla ristrutturazione degli edifici, l’acquisto

degli arredi, la partecipazione ad attività di formazione.

6.6.6 Strategie dell’operatore

Garantire all’ospite un soggiorno tranquillo stabilendo da subito un diretto

contatto, educandolo alla campagna, alla cultura enogastronomica e alla conoscenza

del territorio per il mantenimento delle tradizioni rurali, la manutenzione del

paesaggio rurale e la tutela dell’ambiente. Far conoscere all’ospite le scelte aziendali

(non OGM, biologico, biodinamico, ecc.), organizzare proposte all’interno dell’azienda

(sport, corsi, itinerari a tema, degustazioni, vendita diretta prodotti), con altre

aziende e con imprese anche non agricole che gravitano sul territorio. Parlare le

lingue straniere.

6.6.7 I finanziamenti

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• Piani di Sviluppo Rurale previsti dalle Regioni, specialmente nell’ambito delle

misure relative alla “diversificazione delle attività del settore agricolo” e agli

“investimenti nelle aziende agricole”

• Legge sulla imprenditoria giovanile in agricoltura (L. n.441 del dicembre

1998)

• Legge per l’imprenditoria femminile n. 215/92 (contributi fino al 60% per

impianti e attrezzature e fino al 40% per la commercializzazione dei prodotti e per i

servizi)

• Legge 135/97 finalizzata ad incentivare iniziative imprenditoriali in campo

agricolo, da parte di giovani, in aree definite dall’Unione Europea “in ritardo di

sviluppo” o a “declino industriale” o “rurali svantaggiate” per la produzione,

trasformazione e commercializzazione di prodotti in agricoltura, compresa l’attività

di agriturismo. I destinatari sono giovani che subentrano ad un parente entro il

secondo grado (genitori, nonni, fratelli/sorelle) nella conduzione dell’azienda agricola.

Possono accedervi anche giovani che sono già imprenditori agricoli, ma che

intendono subentrare al parente per ampliare la propria attività.

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CONCLUSIONI

Il settore dell’imprenditorialità sociale in Italia continua a mostrare tassi di

crescita importanti in termini di numero di imprese, di fatturato, di occupati, di

soggetti svantaggiati inseriti. Meno rilievo viene dato, in particolare negli studi

sulla cooperazione sociale, al tipo di attività svolta dalle IS. Anche in questo caso

si sta assistendo ad un ampliamento e ad una diversificazione dei settori di

intervento e al diffondersi di esperienze in settori a carattere fortemente

innovativo.

Questo rapporto ha cercato di coniugare la presentazione di uno stato dell’arte

sulla questione dell’economia sociale e dell’inserimento lavorativo di fasce deboli,

con l’indicazione dei possibili ambiti di attività per le imprese sociali,

specificatamente di inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati, con

particolare focalizzazione su ambiti o su modalità innovativi per fare IS.

Una delle principali sfide che infatti attende chi si propone di creare IS, come

è previsto nel percorso del presente progetto EQUAL, è quella di carattere

imprenditoriale. La cooperazione sociale italiana, fenomeno peraltro di notevole

originalità ed interesse nel panorama europeo, si muove nell’arena

imprenditoriale ancora con troppo incertezze. La dimensione sociale, che pure

queste imprese debbono perseguire e sviluppare statutariamente, non può e non

deve rappresentare un freno alla piena assunzione di una dimensione di impresa.

La finalità sociale, in qualunque ambito di attività l’impresa sociale operi, va

collocata pienamente nel perimetro dell’azione imprenditoriale del soggetto

economico, affinché si crei una sorta di sinergia tra le due componenti (quella

sociale appunto e quella imprenditoriale) dalla quale entrambe ne escano

rafforzate.

Sovente, come nel caso di questo progetto, la costituzione di una nuova

impresa sociale avviene a partire da un’organizzazione già esistente operante

nell’ambito del terzo settore ma senza caratteri di impresa. Il passaggio da

associazione/organizzazione nonprofit ad impresa sociale non è banale. Sebbene

non l’unico, uno degli aspetti critici concerne il rapporto con il mercato di

riferimento. L’IS infatti, come qualunque impresa, deve inserirsi in uno o più

mercati con i quali instaura dei rapporti che sono alla base della vitalità stessa

dell’impresa. L’esperienza italiana della cooperazione sociale, sia di tipo A che B,

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mostra come a volte tali mercati siano stati “costruiti” dalle stesse cooperative,

facendo emergere domande latenti di servizi che queste andavano a soddisfare.

Altre volte esse si sono inserite in arene mercantili esistenti. In questo caso

diviene cruciale identificare con attenzione su quale mercato collocarsi, ovvero

quale tipo di attività esercitare e con quali modalità.

Questo, come detto, appare un aspetto rimasto un po’ in ombra nel dibattito

sulla cooperazione sociale e per questo motivo il rapporto ha inteso dedicare un

congruo spazio ad ambiti e settori di attività per nuove imprese sociali. Senza la

pretesa di aver esaminato tutti i possibili settori di attività, cosa che avrebbe

richiesto un progetto di ricerca ad hoc, sono stati presentati con maggior dettaglio

due ambiti produttivi che, a giudizio del gruppo di lavoro che ha redatto il

documento, possono oggi costituire un’opzione vincente per l’impresa sociale: le

fonti energetiche rinnovabili e l’agricoltura con le attività a questa connesse, quali

l’agriturismo. Si tratta di due settori di produzione estremamente diversi fra loro

ma che possono rappresentare, e in alcune esperienze di punta a livello nazionale

già rappresentano, un terreno sul quale la cooperazione sociale di tipo B può

spendere proficuamente, sia sul versante sociale che su quello imprenditoriale, le

proprie specificità. Il rapporto ha dato ampio spazio alle specifiche opportunità

questi due ambiti di attività offrono all’IS i quali, oltre che inserire l’IS in mercati

fortemente dinamici, implicano la produzione di beni o servizi che soddisfano

bisogni assolutamente centrali per i cittadini e i consumatori: energia da un lato e

cibo e ambiente dall’altro. In tali settori, operano già da tempo imprese sociali

che coniugano capacità di stare su mercati anche di ampio raggio, creazione di

reddito e di occupazione per soggetti normodotati e svantaggiati, mantenendo al

tempo stesso più o meno stretti rapporti con le reti locali e con la comunità del

territorio di appartenenza.

Il quadro complessivi nel quale oggi si muove l’IS è in grande movimento. Sul

versante dei mercati, la globalizzazione degli scambi da un lato innalza il livello

delle sfide imprenditoriali per le imprese che su tali mercati intendono operare,

dall’altra apre delle nicchie di mercato delle quali i processi di globalizzazione

sostanzialmente si disinteressano. Tali processi hanno ripercussioni sulle politiche

del lavoro, anch’esse sotto continua revisione e di conseguenza sulle politiche

sociali, le cui compatibilità finanziari costituiscono da alcuni anni una spina nel

fianco per i governanti di molte società sviluppate. Tutto ciò, insieme alle recenti

novità normative che specificatamente investono l’IS, accresce

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significativamente, rispetto ai decenni trascorsi, il “livello del campionato” nel

quale oggi, IS nuove o esistenti, si trovano ad operare.

Questo rapporto ha inteso dare un contributo conoscitivo e di indirizzo

affinché l’imprenditorialità sociale possa sempre più consolidarsi nel nostro paese

e rispondere alle crescenti aspettative nei suoi confronti da parte della società nel

suo complesso.

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