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Nella tumultuosa Barcellona degli anni Venti, il giovane David Martín cova unsogno, inconfessabile quanto universale: diventare uno scrittore. Quando lasorte inaspettatamente gli offre l'occasione di pubblicare un suo racconto, ilsuccesso comincia infine ad arridergli. È proprio da quel momento tuttaviache la sua vita inizierà a porgli interrogativi ai quali non ha immediatarisposta, esponendolo come mai prima di allora a imprevedibili azzardi etravolgenti passioni, crimini efferati e sentimenti assoluti, lungo le strade diuna Barcellona ora familiare, più spesso sconosciuta e inquietante, dai cuiangoli fanno capolino luoghi e personaggi che i lettori de L'ombra del ventohanno già imparato ad amare. Quando David si deciderà infine ad accettarela proposta di un misterioso editore —scrivere un'opera immane erivoluzionaria, destinata a cambiare le sorti dell'umanità—, non si renderàconto che, al compimento di una simile impresa, ad attenderlo non cisaranno soltanto onore e gloria… Con uno stile scintillante e grandesapienza narrativa, Zafón torna a guidarci tra i misteri del Cimitero dei LibriDimenticati, regalandoci una storia in cui l'inesausta passione per i libri, lapotenza dell'amore e la forza dell'amicizia si intrecciano ancora una volta inun connubio irresistibile.

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Carlos Ruiz ZafónIl gioco dell'angelo

Il cimitero dei libri dimenticati - 2

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A MariCarmen,« a nation of two» .

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ATTO PRIMOLa città dei maledetti

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1

Uno scrittore non dimentica mai la prima volta che accetta qualche moneta o unelogio in cambio di una storia. Non dimentica mai la prima volta che avverte nelsangue il dolce veleno della vanità e crede che, se riuscirà a nascondere a tutti lasua mancanza di talento, il sogno della letteratura po-trà dargli un tetto sulla testa,un piatto caldo alla fine della giornata e soprattutto quanto più desidera: il suonome stampato su un miserabile pezzo di carta che vivrà sicuramente più a lungodi lui. Uno scrittore è condannato a ricordare quell'istante, perché a quel punto ègià perduto e la sua anima ha ormai un prezzo.

La mia prima volta fu un lontano giorno di dicembre del 1917. Avevodiciassette anni e lavoravo a « La Voz de la Industria» , un giornale in rovina chelanguiva in un cavernoso edificio che una volta aveva ospitato una fabbrica diacido solforico e le cui pareti trasudavano ancora quel vapore che corrodeva imobili, i vestiti, l'anima e perfino le suole delle scarpe. La sede del giornale siergeva oltre la foresta di angeli e croci del cimitero del Pueblo Nuevo, e dalontano il suo profilo si confondeva con quello delle tombe di famiglia ritagliate suun orizzonte accoltellato da centinaia di comignoli e di edifici che intessevano unperpetuo crepuscolo nero e scarlatto sopra Barcellona.

La sera in cui sarebbe cambiato il corso della mia vita, il vicedirettore delgiornale, don Basilio Moragas, volle convocarmi poco prima della chiusuranell'oscuro cubicolo incassato in fondo alla redazione che funge-va da fumoir disigari e da ufficio per lui. Don Basilio era un uomo dall'aspetto feroce e dai baffirigogliosi che andava per le spicce e sosteneva la teoria secondo la quale un usoliberale degli avverbi e l'aggettivazione eccessiva erano cose da pervertiti e dapersone con carenze vitaminiche. Se scopriva un redattore incline alla prosafiorita, lo spediva tre settimane a stilare necrologi. Se, dopo la purga, il soggettorecidivava, don Basilio lo destinava alle pagine dei lavori domestici vita naturaldurante. Lo temeva-mo tutti, e lui lo sapeva.

—Don Basilio, mi ha fatto chiamare?— mi affacciai timidamente.Il vicedirettore mi guardò di sottecchi. Entrai nell'ufficio che puzzava di

sudore e di tabacco, in quest'ordine. Don Basilio ignorò la mia presenza econtinuò a rivedere uno degli articoli che aveva sulla scrivania, matita rossa allamano. Per un paio di minuti mitragliò il testo di correzioni, quando non si trattavadi amputazioni, masticando improperi come se io non ci fossi. Non sapendo chefare, notai una sedia appoggiata al muro e feci per accomodarmi.

—Chi le ha detto di sedersi?— mormorò don Basilio senza sollevare gli occhidal testo.

Mi alzai in fretta e furia e trattenni il respiro. Il vicedirettore sospirò, lasciòcadere la matita rossa e si adagiò sulla poltrona per esaminarmi come se fossi unarnese inservibile.

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—Mi hanno detto che lei scrive, Martín.—Deglutii e quando aprii la bocca ne uscì un ridicolo filo di voce.—Un po', insomma, non so, voglio dire che, be', sì, scrivo… ——Sono sicuro che lo farà meglio di come parla. E cosa scrive, se non so-no

indiscreto?——Gialli. Mi riferisco a… ——Ho afferrato l'idea.—Lo sguardo che mi rivolse don Basilio fu impagabile. Se gli avessi detto che

modellavo statuette del presepe con lo sterco fresco, gli avrei strappato il triplodell'entusiasmo. Sospirò di nuovo e si strinse nelle spalle.

—Vidal dice che lei non se la cava male. Che si fa notare. Certo, con laconcorrenza che c'è da queste parti, non bisogna nemmeno correre troppo.

Ma se lo dice Vidal.—Pedro Vidal era la firma più prestigiosa di « La Voz de la Industria» . Aveva

una rubrica settimanale di cronaca che costituiva l'unico pezzo meri-tevole diessere letto in tutto il giornale, ed era autore di una dozzina di romanzi d'avventurache avevano ottenuto una modesta popolarità, incen-trati su gangster del Ravalcoinvolti in intrighi d'alcova con signore dell'al-ta società. Sempre infilato inimpeccabili completi di seta e lustri mocassi-ni italiani, Vidal aveva l'aria el'atteggiamento da attore d'avanspettacolo, con i capelli biondi sempre benpettinati, i baffetti a matita e il sorriso facile e generoso di chi si sente a suo agionella propria pelle e nel mondo.

Proveniva da una famiglia di « indiani» che avevano fatto fortuna nelleAmeriche con il commercio di zucchero e che al ritorno avevano affondato identi nella succulenta torta dell'elettrificazione della città. Suo padre, il patriarcadel clan, era uno degli azionisti di maggioranza del giornale, e don Pedroutilizzava la redazione come un parco giochi per ammazzare la noia di non averdovuto lavorare un solo giorno per necessità in tutta la vi-ta. Poco importava cheil quotidiano perdesse soldi allo stesso modo in cui perdevano olio le nuoveautomobili che cominciavano a scorrazzare per Barcellona: carica di titolinobiliari, la dinastia dei Vidal adesso si dedicava a collezionare nell'Ensanchebanche e terreni estesi come piccoli princi-pati.

Pedro Vidal era stato il primo a cui avevo mostrato gli abbozzi che scrivevoquando ero appena un bambino e lavoravo portando caffè e sigarette inredazione. Aveva sempre trovato tempo per me, per leggere i miei scritti e darmibuoni consigli. A poco a poco mi aveva trasformato nel suo aiu-tante e mi avevapermesso di battere a macchina i suoi testi. Era stato lui a dirmi che, se volevogiocarmi il destino alla roulette russa della letteratura, era disposto ad aiutarmi e aguidare i miei primi passi. Fedele alla parola, mi gettava adesso tra gli artigli didon Basilio, il cerbero del giornale.

—Vidal è un sentimentale che crede ancora a leggende profondamente

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antispagnole come la meritocrazia o il concedere opportunità a chi le merita enon al raccomandato di turno. Ricco sfondato com'è, può permettersi di fare ilpoeta in giro per il mondo. Se io avessi la centesima parte dei soldi che a luiavanzano, mi sarei messo a scrivere sonetti e gli uccellini verrebbero a mangiaredalle mie mani, incantati dalla mia bontà e dal mio fascino.—

—Il signor Vidal è un grand'uomo— protestai.—Di più. È un santo perché, nonostante la faccia da morto di fame che lei si

ritrova, da settimane mi tormenta dicendomi quanto è lavoratore e pieno ditalento il beniamino della redazione. Lui sa che in fondo sono un mol-laccione, epoi mi ha assicurato che se le concedo questa opportunità mi regala una scatola diCohiba. E se lo dice Vidal, per me è come se Mosè scendesse dalla montagna conil suo pezzo di pietra in mano e la verità rivelata che gli aleggia sulla testa. Perciò,per concludere, perché è Natale, e per zittire il suo amico una volta per tutte, leoffro di debuttare come gli eroi: contro ogni ostacolo, a dispetto del mondo.—

—Grazie infinite, don Basilio. Le garantisco che non si pentirà di… ——Non parta in quarta, ragazzino. Vediamo: cosa ne pensa dell'uso generoso e

indiscriminato di avverbi e aggettivi?——Che è una vergogna e che dovrebbe essere contemplato dal codice penale

— risposi con la convinzione del convertito militante.Don Basilio annuì con approvazione.—Va bene, Martín. Ha chiare le priorità. A sopravvivere in questo mestiere

sono quelli che hanno priorità e non princìpi. Ecco il piano. Si sieda e si beva tuttoperché non lo ripeterò due volte.—

Il piano era questo: per ragioni che don Basilio non ritenne opportunoapprofondire, la controcopertina dell'edizione domenicale, tradizionalmen-teriservata a un racconto o a un reportage di viaggio, era venuta a mancareall'ultimo momento. Era prevista una narrazione dalla vena patriottica edall'acceso lirismo sulle gesta degli almogaveri, in cui questi ultimi, tra una cosa el'altra, salvavano la cristianità e tutto quanto c'era di degno sotto il cielo, acominciare dalla Terra Santa per finire al delta del Llobregat.

Purtroppo, il testo non era arrivato in tempo oppure, sospettavo io, a donBasilio non andava di pubblicarlo. E così, a sei ore dalla chiusura non c'eranocandidati a sostituire il racconto, se non una pubblicità a pagina intera di un bustodi stecche di balena che prometteva fianchi da sogno e immu-nità ai cannelloni.Di fronte al dilemma, l'ufficio centrale aveva deliberato che bisognava fare dinecessità virtù e individuare i talenti letterari nascosti in redazione, al fine diriempire il buco e uscire a quattro colonne con un articolo di taglio umanistico perlo svago del nostro affezionato pubblico familiare. La lista di comprovati talenti acui fare ricorso era composta da dieci nomi, nessuno dei quali, naturalmente, erail mio.

—Martín, amico mio, le circostanze hanno cospirato per far sì che nemmeno

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uno dei paladini che abbiamo in organico risulti presente o sia loca-lizzabile entroun margine di tempo prudenziale. Di fronte all'imminente disastro, ho deciso diconcedere a lei l'onore.—

—Conti su di me.——Conto su cinque cartelle a spazio doppio entro sei ore, signor Edgar Allan

Poe. Mi porti una storia, non un discorso. Se voglio sermoni, vado alla messa dimezzanotte. Mi porti una storia che non ho mai letto prima e, se l'ho già letta, mela porti scritta e raccontata così bene che non me ne accorga neanche.—

Mi preparavo a uscire di corsa quando don Basilio si alzò, fece il giro dellascrivania e mi posò sulla spalla una manona del volume e del peso di un'incudine.Solo allora, vedendolo da vicino, mi accorsi che gli sorridevano gli occhi.

—Se la storia è decente, gliela pagherò dieci pesetas. E se è più che decente epiace ai lettori, gliene pubblicherò altre.—

—Qualche indicazione particolare, don Basilio?— domandai.—Sì: non mi deluda.—Le sei ore successive le passai in trance. Mi sistemai al tavolo al centro della

redazione, che era riservato a Vidal nei giorni in cui gli girava di venire in ufficioa perdere un po' di tempo. La sala era deserta e immersa in una tenebra intessutadel fumo di diecimila sigarette. Chiusi gli occhi un istante ed evocai un'immagine,un manto di nubi nere che si rovesciavano in forma di pioggia sulla città, un uomoche camminava in cerca di ombre con le mani insanguinate e un segreto nellosguardo. Non sapevo chi era né da che cosa fuggiva, ma nelle successive sei oresarebbe diventato il mio miglior amico. Infilai un foglio nel rullo e, senzaconcedermi un attimo di tregua, cominciai a spremere quanto avevo dentro.Lottai con ogni parola, ogni frase, ogni espressione, ogni immagine e ogni letteracome se fossero le ultime che avrei scritto. Scrissi e riscrissi ogni rigo come se neandasse della mia vita e poi lo riscrissi di nuovo. La mia unica compagnia furonol'eco del ticchettio incessante della tastiera che si perdeva nella sala in penombrae il grande orologio a muro che esauriva i minuti che mancavano all'alba.

Poco prima delle sei del mattino strappai l'ultima cartella dal rullo e sospiraisopraffatto, con la sensazione di avere un vespaio in testa. Sentii i passi lenti epesanti di don Basilio, che era emerso da uno dei suoi sonnel-lini controllati e siavvicinava con circospezione. Presi i fogli e glieli consegnai, senza osaresostenere il suo sguardo. Don Basilio si sedette al tavolo accanto e accese lalampada. I suoi occhi scivolarono su e giù per il testo senza tradire alcunaespressione. Poi lasciò per un istante la sigaretta sul bordo del tavolo e,guardandomi, lesse ad alta voce il primo rigo.

—« Cade la notte sulla città e le strade odorano di polvere da sparo come ilrespiro di una maledizione» .—

Don Basilio mi guardò di sottecchi e io mi feci scudo di un sorriso che nonlasciò al riparo nemmeno un dente. Senza dire altro, si alzò e partì con il mio

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racconto tra le mani. Lo vidi allontanarsi verso il suo ufficio e chiudersi la portaalle spalle. Rimasi pietrificato, senza sapere se mettermi a correre o aspettare lasentenza di morte. Dopo dieci minuti che mi sembrarono dieci anni, la portadell'ufficio si aprì e la voce tonante di don Basilio si fece sentire in tutta laredazione.

—Martín. Mi faccia il favore di venire.—Mi trascinai il più lentamente possibile, accorciando ogni volta il passo di

qualche centimetro, finché non ebbi altra scelta che affacciarmi nell'ufficio esollevare lo sguardo. Don Basilio, con la temibile matita rossa in mano, miguardava freddamente. Cercai di deglutire, ma avevo la bocca secca. DonBasilio raccolse i fogli e me li restituì. Li presi e mi girai verso la porta più infretta che potei, dicendo a me stesso che ci sarebbe sempre stato posto per unaltro lustrascarpe nella hall dell'hotel Colón.

—Lo porti in tipografia e lo faccia andare in macchina— disse la voce allemie spalle.

Mi voltai, credendo di essere oggetto di uno scherzo crudele. Don Basilio aprìil cassetto della scrivania, contò dieci pesetas e le mise sul tavolo.

—Queste sono sue. Le suggerisco di comprarcisi un altro modellino perchésono quattro anni che la vedo sempre con lo stesso completo, e le sta sempre seitaglie più grande. Se vuole, vada a trovare il signor Pantaloni nella sua sartoria incalle Escudellers e gli dica che la mando io. La tratterà bene.—

—Molte grazie, don Basilio. Farò così.——E intanto mi prepari un altro di quei racconti. Stavolta le do una settimana.

Ma non mi si addormenti. E vediamo se in questo ci sono meno morti, perché allettore di oggi piace il finale sdolcinato in cui trionfa la grandezza dello spiritoumano e tutte quelle stupidaggini.—

—Sì, don Basilio.—Il vicedirettore annuì, poi mi tese la mano. Gliela strinsi.—Buon lavoro, Martín. Lunedì voglio vederla alla scrivania che era di

Junceda, che adesso è sua. La metto in cronaca.——Non la deluderò, don Basilio.——No, non mi deluderà. Mi mollerà, prima o poi. E farà bene, perché lei non

è un giornalista e non lo sarà mai. Ma non è nemmeno ancora uno scrittore digialli, anche se crede di esserlo. Resti qui per un po' e le inse-gneremo un paio dicose che non guastano mai.—

In quel momento, con la guardia bassa, mi invase un tale senso di gratitudineche mi venne voglia di abbracciare quell'omaccione. Don Basilio, la mascheraferoce di nuovo al suo posto, mi inchiodò con uno sguardo d'acciaio e mi indicò laporta.

—Niente scene, per favore. Chiuda quando esce. E buon Natale.——Buon Natale.—

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Il lunedì successivo, quando arrivai in redazione pronto a occupare per laprima volta la mia scrivania personale, trovai una busta di carta da pacchi con unfiocco e il mio nome scritto con i caratteri che per anni avevo battuto amacchina. La aprii. All'interno trovai la controcopertina della domenica con lamia storia incorniciata e un messaggio che diceva:

« Questo è solo l'inizio. Fra dieci anni io sarò l'apprendista e tu il maestro. Iltuo amico e collega, Pedro Vidal» .

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2

Il mio debutto letterario sopravvisse al battesimo del fuoco e don Basilio, fedelealla parola data, mi offrì l'opportunità di pubblicare un altro paio di racconti più omeno dello stesso tenore. Ben presto la direzione decise che la mia folgorantecarriera avrebbe avuto periodicità settimanale, sem-preché continuassi asvolgere puntualmente i miei compiti in redazione al-lo stesso prezzo. Avvelenatodalla vanità e dalla stanchezza, passavo le giornate a rivedere i testi dei mieicolleghi e a redigere di corsa articoli di cronaca nera con orrori indescrivibili, perpoter poi dedicare le notti a scrivere da solo nella sala della redazione un raccontoa puntate bizantino e operistico che accarezzavo da tempo nella miaimmaginazione e che, sotto il titolo I misteri di Barcellona, mescolava senzapudore Dumas e Bram Stoker, passando per Sue e Féval. Dormivo più o meno treore al giorno e sfoggiavo l'aspetto che avrei avuto se le avessi trascorse in unabara. Vidal, che non aveva mai conosciuto quella fame che non ha niente a chevedere con lo stomaco e che ti mangia dal di dentro, era dell'opinione che mistessi bruciando il cervello e che di quel passo avrei celebrato il mio funeraleprima dei vent'anni. Don Basilio, che non si scandalizzava per la mia labo-riosità,aveva altre riserve. Mi pubblicava ogni capitolo malvolentieri, infastidito daquello che riteneva un eccesso di morbosità e un malaugurato sperpero del miotalento al servizio di soggetti e trame di dubbio gusto.

Ben presto I misteri di Barcellona portarono alla luce una piccola star deiromanzi d'appendice, un'eroina che avevo immaginato come soltanto adiciassette anni si può immaginare una femme fatale. Chloé Permanyer era ladark lady delle vampire. Troppo intelligente e ancor più contorta e ambigua,Chloé Permanyer indossava sempre le più incendiarie novità di lingerie raffinatae officiava da amante e braccio destro dell'enigmatico Baltasar Morel, cervellodell'inframondo, che viveva in una dimora sotterranea popolata da automi emacabre reliquie la cui entrata segreta si trovava nelle gallerie scavate sotto lecatacombe del Barrio Gótico. Il metodo prediletto da Chloé per far fuori le suevittime era sedurle con una danza ipno-tica in cui si liberava degli indumenti perpoi baciarle con un rossetto avvelenato che paralizzava tutti i muscoli del corpo ele faceva morire asfis-siate in silenzio mentre lei le guardava negli occhi, dopoessersi bevuta un antidoto sciolto nel Dom Perignon riserva imperiale. Chloé eBaltasar avevano il loro codice d'onore: eliminavano solo la feccia e ripulivano ilmondo da bulli, vermi, baciapile, fanatici, sciocchi dogmatici e ogni tipo di cretiniche ne facevano un luogo più miserabile del dovuto per gli altri, in nome dibandiere, dèi, lingue, razze o schifezze di ogni specie dietro cui mascherare laloro avidità e la loro grettezza. Per me erano eroi eterodossi, come tutti i veri eroi.Per don Basilio, i cui gusti letterari si erano fermati all'epoca d'oro del versospagnolo, quelle erano assurdità di dimensioni co-lossali, ma considerando la

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buona accoglienza ricevuta dalle storie e l'affetto che, suo malgrado, provava neimiei confronti, tollerava le mie stra-vaganze e le attribuiva a un eccesso dieccitazione giovanile.

—Lei ha più mestiere che buon gusto, Martín. La patologia che l'affligge haun nome e quel nome è Grand Guignol, che sta al dramma come la sifi-lide allevergogne. Il suo raggiungimento forse è piacevole, ma da lì in poi si precipita arotta di collo. Dovrebbe leggere i classici, o almeno don Benito Pérez Galdós, perelevare le sue aspirazioni letterarie.—

—Ma ai lettori i racconti piacciono— argomentavo io.—Il merito non è suo. È della concorrenza, così inetta e pedante da far

precipitare un asino in stato catatonico in meno di un paragrafo. Vediamo seriesce a maturare, una buona volta, e a cadere dall'albero del frutto proibito.—

Io annuivo fingendo contrizione, ma segretamente accarezzavo quelle paroleproibite, Grand Guignol, e mi dicevo che ogni causa, per quanto frivola, avevabisogno di un campione che ne difendesse l'onore.

Cominciavo a sentirmi il più fortunato dei mortali quando scoprii che adalcuni colleghi del giornale dava fastidio che il beniamino e mascotte ufficialedella redazione avesse mosso i primi passi nel mondo delle lettere, mentre le loroaspirazioni e ambizioni letterarie languivano da anni in un grigio limbo di miserie.Il fatto che i lettori del quotidiano leggessero con avidità e apprezzassero queimodesti racconti più di qualunque altro testo pubblicato negli ultimi vent'annipeggiorava solo le cose. In pochissime settimane vidi come l'orgoglio ferito dicoloro che fino a poco tempo prima avevo considerato la mia unica famiglia litrasformava in un tribunale ostile che iniziava a togliermi il saluto e la parola eche si compiaceva nell'af-finare il proprio risentito talento rivolgendomi allespalle espressioni di sarcasmo e disprezzo. La mia incomprensibile buona sorteveniva attribui-ta all'aiuto di Pedro Vidal, all'ignoranza e alla stupidità dei nostriabbonati, nonché al diffuso e comodo paradigma nazionale secondo il qualeottenere qualche successo in qualsiasi ambito professionale costituiva, senzaeccezioni, una prova inconfutabile di incapacità e mancanza di meriti.

Davanti a quell'inattesa e infausta piega degli avvenimenti, Vidal cercava difarmi coraggio; ma io iniziavo a sospettare che i miei giorni in redazione fosserocontati.

—L'invidia è la religione dei mediocri. Li consola, risponde alle inquietudiniche li divorano e, in ultima istanza, imputridisce le loro anime e con-sente digiustificare la loro grettezza e la loro avidità fino a credere che siano virtù e chele porte del cielo si spalancheranno solo per gli infelici come loro, cheattraversano la vita senza lasciare altra traccia se non i loro sleali tentativi disminuire gli altri e di escludere, e se possibile distruggere, chi, per il semplicefatto di esistere e di essere ciò che è, mette in risalto la loro povertà di spirito, dimente e di fegato. Fortunato colui al quale la-trano i cretini, perché la sua anima

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non apparterrà mai a loro.——Amen— conveniva don Basilio. —Se lei non fosse nato ricco, avrebbe

dovuto fare il prete. O il rivoluzionario. Con sermoni così, crolla contrito perfinoun vescovo.—

—Sì, ridete pure— protestavo io. —Intanto, quello che non possono vederenemmeno dipinto sono io.—

A parte il ventaglio di inimicizie e diffidenze che i miei sforzi mi stavanoprocurando, la triste realtà era che, nonostante le mie arie da autore popolare, lostipendio mi bastava a stento per sopravvivere, comprare più libri di quelli cheavevo il tempo di leggere e affittare una stanzetta in una pensione sepolta in unvicolo vicino a calle Princesa e diretta da una gali-ziana devota che rispondeva alnome di donna Carmen. Donna Carmen pretendeva discrezione e cambiava lelenzuola una volta al mese, motivo per cui si consigliava ai residenti di astenersidal soccombere alle tentazio-ni dell'onanismo o dal mettersi a letto con i vestitisporchi. Non era necessario limitare la presenza di femmine nelle stanze perchénon c'era una sola donna in tutta Barcellona che avrebbe acconsentito a entrare inquel buco, nemmeno sotto minaccia di morte. Lì imparai che nella vita quasi tuttosi dimentica, a cominciare dagli odori, e che se aspiravo a qualcosa nel mondoera a non morire in un posto come quello. Nei momenti tristi, che erano lamaggioranza, mi dicevo che, se qualcosa mi avrebbe tirato fuori di lì prima chelo facesse un attacco di tubercolosi, era la letteratura, e che se a qualcunoprudevano l'anima o le vergogne, per me poteva grattarsele con un mattone.

Le domeniche all'ora della messa, quando donna Carmen partiva per il suoappuntamento settimanale con l'Altissimo, gli ospiti approfittavano per riunirsinella stanza del più veterano di tutti noi, un infelice chiamato Heliodoro che dagiovane aspirava a diventare matador, ma si era poi accon-tentato di fare lecronache delle corride e il responsabile degli orinatoi della zona dei posti al soledella plaza de toros Monumental.

—L'arte del toreo è morta— proclamava. —Ora è tutto in mano ad allevato-ri avidi e toreri senz'anima. Il pubblico non sa distinguere il toreo per la massaignorante dall'arte che solo gli intenditori sanno apprezzare.—

—Ah, se le avessero dato la possibilità, don Heliodoro, sarebbe un altro paio dimaniche.—

—È che in questo paese hanno successo solo i buoni a nulla.——Non me lo dica… —Dopo il sermone settimanale di don Heliodoro arrivavano i festeggiamenti.

Ammucchiati come salsicce davanti alla finestrella della stanza, i residentipotevano vedere e sentire attraverso il lucernario i rantoli di una vicinadell'immobile attiguo, Marujita, soprannominata Peperoncino per la parlatapiccante e la generosa anatomia a forma di peperone rosso. Marujita siguadagnava la vita facendo le pulizie in negozi di mezza tacca, ma la domenica e

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le feste comandate le riservava a un fidanzato seminarista che, in incognito,arrivava in treno da Manresa e s'impegnava con brio ed entusiasmo nellaconoscenza del peccato. I miei compagni di alloggio se ne stavano insaccati allafinestra per catturare una visione fugace delle titani-che chiappe di Marujita inuno di quegli andirivieni che le facevano lievi-tare come l'impasto del dolce diPasqua contro il vetro del lucernario, quando suonò il campanello della pensione.Di fronte alla mancanza di vo-lontari per andare ad aprire, rischiando così diperdere un posto con una buona vista sullo spettacolo, desistetti dal desiderio diunirmi al coro e mi incamminai verso la porta. Quando aprii, mi imbattei in unavisione insolita e improbabile in una cornice tanto miserabile. Don Pedro Vidal intutto il suo genio, la sua eleganza e il suo completo di seta italiana sorrideva dalpianerottolo.

—E la luce fu— disse entrando senza attendere l'invito.Si soffermò a osservare la stanza che faceva le funzioni di sala da pranzo e

agorà di quel tugurio e sospirò con disgusto.—Forse è meglio andare nella mia stanza— suggerii.Gli feci strada. Le urla e le ovazioni dei miei coinquilini in onore di Marujita e

delle sue acrobazie veneree perforavano le pareti di esultanza.—Che posto allegro— commentò Vidal.—Si degni di accomodarsi nella suite presidenziale, don Pedro— lo invitai.Entrammo e chiusi la porta. Dopo aver dato un'occhiata velocissima alla mia

stanza, si sedette sull'unica sedia e mi guardò con freddezza. Non faticavo aimmaginare l'impressione che il mio modesto domicilio doveva avergliprovocato.

—Cosa gliene sembra?——Incantevole. Quasi quasi trasloco qui anch'io.—Pedro Vidal abitava a Villa Helius, un monumentale casermone modernista di

tre piani con torrione, adagiato sulle pendici delle colline che salivano versoPedralbes, all'incrocio tra calle Abadesa Olzet e calle Panama.

La casa era un regalo che il padre gli aveva fatto dieci anni prima con lasperanza che mettesse la testa a posto e si facesse una famiglia, impresa nellaquale Vidal aveva già qualche decennio di ritardo. La vita aveva benedetto donPedro Vidal con molti talenti, fra i quali quello di deludere e offendere suo padrecon ogni gesto e ogni passo che faceva. Vederlo fraternizzare con indesiderabilicome me non aiutava. Ricordo che una volta in cui avevo fatto visita al miomentore per portargli dei documenti dal giornale mi imbattei nel patriarca delclan Vidal in una delle sale di Villa Helius. Quando mi vide, il padre di don Pedromi ordinò di andare a pren-dergli un bicchiere di gassosa e uno strofinaccio pulitoper togliergli una macchia dalla giacca.

—Credo che si confonda, signore. Non sono un servo… —Mi rivolse un sorriso che metteva in chiaro l'ordine delle cose nel mondo

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senza bisogno di parole.—Chi si confonde sei tu, ragazzo. Sei un servo, che tu lo sappia o no.Come ti chiami?——David Martín, signore.—Il patriarca assaporò il mio nome.—Segui il mio consiglio, David Martín. Vattene da questa casa e torna nel

posto a cui appartieni. Ti risparmierai molti problemi e li risparmierai a me.—Non lo confessai mai a don Pedro, ma filai subito in cucina a prendere la

gassosa e lo strofinaccio e passai un quarto d'ora a pulire la giacca delgrand'uomo. L'ombra del clan era lunga, e per quanto a don Pedro piacesseostentare una leggiadria da bohémien, tutta la sua vita era una propaggine dellarete familiare. Villa Helius era vantaggiosamente situata a cinque minuti dallagrande villa paterna che dominava il tratto superiore di avenida Pearson, unmiscuglio cattedralizio di balaustrate, scalinate e abbaini che contemplava tuttaBarcellona in lontananza come un bimbo contempla i giocattoli buttati via. Ognigiorno una spedizione di due domestici e una cuoca della casa grande, com'erachiamato il domicilio paterno nel giro dei Vidal, si recava a Villa Helius perpulire, lucidare, stirare, cucinare e rim-boccare l'esistenza del mio facoltosoprotettore in un letto di comodità e perpetuo oblio degli incresciosi fastidi dellavita quotidiana. Don Pedro Vidal si spostava per la città su una fiammanteHispano-Suiza guidata dall'autista di famiglia, Manuel Sagnier, e probabilmentenon era mai salito su un tram in tutta la sua vita. Da buona creatura di palazzo e dialto lignaggio, a Vidal sfuggiva il lugubre e macilento fascino che avevano lepensioni economiche nella Barcellona dell'epoca.

—Non si faccia scrupoli, don Pedro.——Questo posto sembra una cella— proclamò alla fine. —Non so come fai a

viverci.——Con il mio stipendio, e pure a stento.——Se è necessario, ti do io quello che manca per farti vivere in un posto che

non puzzi di zolfo e di piscio.——Non se lo sogni nemmeno.—Vidal sospirò.—Morì d'orgoglio e nell'asfissia più assoluta. Ecco un epitaffio gratis.—Per qualche istante Vidal si mise a camminare per la stanza senza aprire

bocca, fermandosi a ispezionare il mio minuscolo armadio, a guardare dallafinestra con la faccia schifata, a tastare la pittura verdastra che ricopriva i muri ea colpire leggermente con l'indice la lampadina nuda che pendeva dal soffitto,come se volesse verificare che la qualità di tutta quella roba era infima.

—Cosa la porta da queste parti, don Pedro? Troppa aria pura a Pedralbes?——Non vengo da casa. Vengo dal giornale.——E allora?—

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—Ero curioso di vedere dove abiti e poi ho qualcosa per te.—Tirò fuori dalla giacca una busta di pergamena bianca e me l'allungò.—È arrivata oggi in redazione, a nome tuo.—Presi la busta e la esaminai. Era chiusa con un sigillo di ceralacca in cui si

notava il disegno di un profilo alato. Un angelo. A parte questo, l'unica cosavisibile era il mio nome impeccabilmente scritto in una grafia scarlatta dai trattiraffinati.

—Chi la manda?— chiesi, intrigato.Vidal si strinse nelle spalle.—Qualche ammiratore. O ammiratrice. Non lo so. Aprila.—Aprii con cautela la busta e ne estrassi un foglio piegato in due sul quale, nella

stessa grafia, si leggeva:Caro amico,mi permetto di scriverle per trasmetterle la mia ammirazione e i miei

complimenti per il successo ottenuto di recente dai Misteri di Barcellona sullepagine della « Voz de la Industria» . In quanto lettore e amante della buonaletteratura, mi fa un immenso piacere incontrare una nuova voce piena di talento,gioventù e promesse.

Mi consenta, dunque, in segno di gratitudine per le belle ore che la lettura deisuoi racconti mi ha regalato, di invitarla a una piccola sorpresa che confido sia disuo gradimento a mezzanotte all'En-sueho del Raval. La aspetteranno.

AffettuosamenteA.C.Vidal, che aveva letto da dietro le mie spalle, inarcò le sopracciglia, in-

curiosito.—Interessante— mormorò.—In che senso?— domandai. —Che genere di posto è l'Ensueño?—Vidal estrasse una sigaretta dal portasigarette di platino.—Donna Carmen non lascia fumare nella pensione— lo avvertii.—Perché? Il fumo disturba la puzza di fogna?—Vidal accese la sigaretta e l'assaporò con doppio piacere, come si gode di tutto

ciò che è proibito.—Hai mai conosciuto una donna, David?——Be', certo. Un mucchio.——Intendo in senso biblico.——A messa?——No, a letto.——Ah.——Allora?—La verità è che non avevo granché da raccontare che potesse impressionare

uno come Vidal. Le mie avventure e i miei amorazzi da adolescente si erano

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caratterizzati fino a quel momento per la loro modestia e una notevole mancanzadi originalità. Nulla nel mio breve catalogo di pizzicotti, ca-rezze e baci rubati inportoni e sale cinematografiche poteva aspirare a meritare la considerazione delmaestro consacrato nelle arti e nelle scienze dei giochi d'alcova della CittàComitale.

—Che c'entra questo?— protestai.Vidal adottò un atteggiamento professorale e sciorinò uno dei suoi discorsi.—Nella mia gioventù, la cosa normale, almeno per i signorini come me, era

venire iniziati a queste battaglie per mano di una professionista. Quando avevo latua età, mio padre, che era ed è ancora un habitué dei locali più raffinati dellacittà, mi portò in un posto chiamato l'Ensueño, a pochi metri da quel palazzomacabro che il nostro caro conte Güell volle far costruire da Gaudí sulleRamblas. Non dirmi che non ne hai mai sentito parlare.—

—Del conte o del bordello?——Molto divertente. L'Ensueño era un locale elegante per una clientela se-

lezionata avveduta. A dire il vero pensavo avesse chiuso da anni, ma immaginoche non debba essere così. A differenza della letteratura, certi affari sono semprein attivo.—

—Capisco. È sua l'idea? Una specie di scherzo?—Vidal negò.—Di qualche cretino della redazione, allora?——Rilevo una certa ostilità nelle tue parole, ma dubito che qualcuno dedi-to al

nobile mestiere della stampa in qualità di soldato semplice possa permettersi glionorari di un posto come l'Ensueño, se è quello che ricordo.—

Sbuffai.—Fa lo stesso, tanto non penso di andarci.—Vidal inarcò le sopracciglia.—Non venirtene fuori adesso con la storia che non sei un miscredente come

me e che vuoi arrivare puro di cuore e di parti basse al talamo nuziale, che seiun'anima immacolata desiderosa di attendere il momento magico in cui il veroamore ti porterà a scoprire l'estasi della carne e dell'anima in un unisonobenedetto dallo Spirito Santo, per popolare il mondo di creature che abbiano il tuocognome e gli occhi della madre, quella santa donna scrigno di virtù e onestà,tenendo la cui mano varcherai le porte del cielo sotto il benevolo e compiaciutosguardo del Bambin Gesù.—

—Non volevo dire questo.——Ne sono contento, perché è possibile, e sottolineo possibile, che quel

momento non arrivi mai, che non ti innamori, che tu non voglia né possa affidarela tua vita a qualcuno e che, come me, tu compia un giorno quarantacinque annie ti accorga che non sei più giovane e che non c'era per te un coro di cupidi conle lire, né un letto di rose bianche adagiato verso l'altare, e che l'unica vendetta

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che ti resta è rubare alla vita il piacere di quella carne soda e ardente cheevapora più in fretta delle buone intenzioni, la co-sa più simile al cielo chetroverai in questo porco mondo dove tutto marci-sce, a cominciare dalla bellezzaper finire con la memoria.—

Lasciai fluttuare una pausa solenne a mo' di silenziosa ovazione. Vidal era unappassionato d'opera e aveva finito per acquisire il ritmo e l'oratoria delle grandiarie. Non mancava mai al suo appuntamento con Puccini dal palco di famiglia alLiceo. Era uno dei pochi, senza contare i poveracci ammucchiati in piccionaia,che andavano lì ad ascoltare la musica che tanto amava e che tanto tendeva ainfluenzare i discorsi sul divino e l'umano con cui a volte, come quel giorno,omaggiava le mie orecchie.

—Cosa c'è?— chiese Vidal, con aria di sfida.—Quell'ultimo paragrafo mi ricorda qualcosa.—Sorpreso con le mani nel sacco, sospirò e annuì.—È di Assassinio al Circolo del Liceo— ammise Vidal. —La scena finale in

cui Miranda LaFleur spara all'iniquo marchese che le ha spezzato il cuoretradendola in una notte di passione nella suite nuziale dell'hotel Colón fra lebraccia della spia dello zar Svetlana Ivanova.—

—Mi sembrava. Non avrebbe potuto scegliere meglio. È il suo capolavoro,don Pedro.—

Vidal mi sorrise per l'elogio e valutò se accendere un'altra sigaretta.—Il che non toglie che ci sia della verità in tutto questo— concluse.Vidal si sedette sul davanzale, non senza averci prima messo sopra un

fazzoletto per non macchiarsi i pantaloni d'alta classe. Vidi la Hispano-Suizaparcheggiata sotto, all'angolo di calle Princesa. L'autista, Manuel, lustrava lecromature con un panno come se si trattasse di una scultura di Rodin. Manuel miaveva sempre ricordato mio padre, uomini della stessa generazione che avevanoattraversato troppi giorni di sventura e che avevano la propria memoria incisasulla faccia. Avevo sentito dire da qualcuno dei domestici di Villa Helius cheManuel Sagnier aveva trascorso un lungo periodo in carcere e che quand'erauscito aveva patito anni di stenti perché nessuno gli dava lavoro se non comescaricatore di sacchi e casse sui moli, un mestiere per il quale non aveva più l'etàné la salute. Manuel, rischiando la vita, aveva salvato Vidal dal finire sotto untram. Per ricono-scenza Pedro Vidal, venuto a sapere della penosa situazione delpover'uomo, aveva deciso di offrirgli un lavoro e la possibilità di trasferirsi con lamoglie e la figlia nel piccolo appartamento sopra i garage di Villa Helius.

Gli aveva assicurato che la piccola Cristina avrebbe studiato con gli stessitutori che ogni giorno si recavano alla casa paterna nell'avenida Pearson perimpartire lezioni ai rampolli della dinastia Vidal, e che sua moglie avrebbe potutosvolgere il suo mestiere di sarta per la famiglia. Lui stava pensando di acquistareuna delle prime automobili che si vendevano a Barcellona e, se Manuel avesse

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appreso l'arte della guida motorizzata lasciandosi alle spalle la carrozza e ilcalesse, Vidal avrebbe avuto bisogno di un autista, perché in quell'epoca isignorini non mettevano le mani sui motori a scoppio né sui congegni conscappamento a gas. Manuel, naturalmente, aveva accettato. Dopo questo riscattodalla miseria, la versione ufficiale assicurava che Manuel Sagnier e famigliaprovavano una devozione cieca nei confronti di Vidal, eterno paladino deidiseredati. Io non sapevo se credere a quella storia o se attribuirla alla sfilza dileggende fio-rite intorno al carattere da aristocratico benevolo che coltivavaVidal, al quale a volte sembrava che mancasse solo di apparire a qualchepastorella orfana avvolto in un alone di luce.

—Ti è venuta la faccia da mascalzone di quando ti lasci andare a pensierimaliziosi— rilevò Vidal. —Cosa stai tramando?—

—Niente. Pensavo a quanto è buono lei, don Pedro.——Alla tua età e con la tua posizione, il cinismo non apre nessuna porta.——Questo spiega tutto.——Su, saluta quel brav'uomo di Manuel, che chiede sempre di te.—Mi affacciai alla finestra. Quando mi vide, l'autista, che mi trattava sempre

come un signorino e non come lo zotico che ero, mi salutò da lontano.Ricambiai il saluto. Seduta in macchina c'era sua figlia Cristina, una creatura

dalla pelle candida e le labbra pennellate, più grande di me di un paio d'anni, chemi aveva tolto il fiato quando l'avevo vista la prima volta che Vidal mi avevainvitato a Villa Helius.

—Non guardarla troppo, altrimenti la rompi— mormorò Vidal alle mie spalle.Mi girai e mi trovai di fronte all'espressione machiavellica che Vidal

riservava agli affari di cuore e di altri organi nobili.—Non so di cosa parla.——Che gran verità— replicò Vidal. —Allora, cos'hai deciso per stanotte?—Rilessi il biglietto ed esitai.—Lei frequenta questo tipo di locali, don Pedro?——Non pago per una donna da quando avevo quindici anni e anche allora,

tecnicamente, ha pagato mio padre— rispose Vidal senza nessuna spocchia.—Ma a caval donato… ——Non lo so, don Pedro… ——Certo che lo sai.—Vidal mi batté sulla spalla mentre andava verso la porta.—Ti restano sette ore fino a mezzanotte— disse. —Lo dico nel caso volessi

schiacciare un pisolino per accumulare forze.—Mi affacciai alla finestra e lo vidi allontanarsi verso la macchina. Manuel gli

aprì la portiera e Vidal si lasciò cadere per inerzia sul sedile posteriore. Sentii ilmotore della Hispano-Suiza dispiegare la sua sinfonia di pi-stoni e stantuffi. Inquell'istante la figlia dell'autista, Cristina, alzò gli occhi e guardò verso la mia

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finestra. Le sorrisi, ma mi resi conto che lei non si ricordava di me. Un attimodopo distolse lo sguardo e la grande vettura di Vidal si allontanò per far ritorno alsuo mondo.

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3

A quell'epoca calle Nou de la Rambla stendeva un corridoio di lampioni e insegneluminose fra le tenebre del Raval. Cabaret, sale da ballo e locali difficili daclassificare sgomitavano su entrambi i marciapiedi con case specializzate inmalattie veneree, preservativi e lavande che rimanevano aperte fino all'albamentre gente di ogni risma, dai signorini di una certa distinzione ai membri degliequipaggi di navi ancorate nel porto, si mescolava con stravaganti personaggi chevivevano dal tramonto in poi. Su entrambi i lati della strada si aprivano vicoliangusti e sepolti nella bruma che ospitavano una litania di postriboli daldecrescente cachet.

L'Ensueño occupava la parte superiore di un edificio che a piano terraospitava un music-hall e che annunciava con grandi locandine lo spettacolo di unaballerina inguainata in una diafana e succinta toga che non faceva mistero deisuoi incanti mentre teneva tra le braccia un serpente nero, la cui lingua bifidasembrava baciarla sulle labbra.

« Eva Montenegro e il tango della morte" recitava la locandina a carattericubitali. "La regina della notte in sei serate esclusive e imperdibili. Con lapartecipazione straordinaria di Mesmero, il lettore di menti che svelerà i vostri piùintimi segreti» .

Accanto all'ingresso del locale c'era una porta stretta oltre la quale si aprivauna lunga scalinata con le pareti dipinte di rosso. Salii le scale e mi piazzai davantia una grande porta di rovere intagliato, il cui batacchio aveva la forma di unaninfa forgiata in bronzo con un pudico trifoglio sul pube. Bussai un paio di volte easpettai, rifuggendo dal mio riflesso sul grande specchio fumé che occupavabuona parte della parete. Stavo considerando la possibilità di squagliarmela intutta fretta quando la porta si aprì e una donna di mezza età dai capellicompletamente bianchi e impeccabilmente acconciati a crocchia mi sorriseserena.

—Lei dev'essere il signor David Martín.—Nessuno mi aveva mai chiamato signore, e la cerimoniosità mi colse di

sorpresa.—In persona.——Se vuole avere la cortesia di entrare e di seguirmi… —Le andai dietro lungo un breve corridoio che conduceva a un'ampia sala

circolare dalle pareti rivestite di velluto rosso e con lampade dalla luce soffusa. Ilsoffitto formava una cupola di vetro smaltato da cui pendeva un lampadario dicristallo sotto il quale una tavola di mogano sosteneva un enorme grammofonoche esalava un'aria d'opera.

—Gradisce qualcosa da bere?——Se avesse un bicchier d'acqua, gliene sarei grato.—

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La signora dai capelli bianchi sorrise senza battere ciglio, imperturbabile nelsuo atteggiamento cortese e rilassato.

—Forse il signore preferisce una coppa di champagne o un liquore. O forseun bianco secco di Jerez.—

Il mio palato non andava oltre le diverse vendemmie di acqua del rubinetto,perciò mi strinsi nelle spalle.

—Faccia lei.—La signora assentì senza perdere il sorriso e indicò una delle sontuose poltrone

sparse nella sala.—Se il signore vuole accomodarsi, Chloé verrà subito da lei.—Credetti di soffocare.—Chloé?—Indifferente alla mia perplessità, la signora dai capelli bianchi sparì attraverso

una porta che s'intravedeva dietro una tenda di perline nere e mi lasciò da solocon il mio nervosismo e i miei inconfessabili desideri.

Camminai per la stanza per scacciare la tremarella che si stava imposses-sando di me. Eccezion fatta per la musica soffusa e il battito del cuore alletempie, quel posto era una tomba. Sei corridoi partivano dalla sala, fian-cheggiatida aperture ricoperte da tendaggi azzurri che conducevano a sei porte bianche adoppia anta, tutte chiuse. Mi lasciai cadere su una poltrona, uno di quegli oggetticoncepiti per coccolare le chiappe di principi reggenti e generalissimi con undebole per i colpi di Stato. Dopo un po' la dama bianca ritornò con una coppa dichampagne su un vassoio d'argento. L'accettai e la vidi scomparire di nuovo dallastessa porta. Bevvi lo champagne d'un sorso e mi slacciai il colletto della camicia.Cominciavo a sospettare che fosse tutto uno scherzo ordito a mie spese da Vidal.In quel momento mi accorsi di una figura che avanzava verso di me da uno deicorridoi.

Sembrava una bambina, e lo era. Camminava a testa bassa, senza che riu-scissi a vederle gli occhi. Mi alzai in piedi.

La bambina s'inchinò in una riverente genuflessione e mi fece cenno diseguirla. Solo allora mi resi conto che una delle sue mani era posticcia, comequella di un manichino. La bambina mi condusse alla fine del corridoio e con unachiave che portava appesa al collo aprì la porta e si fece da parte. La stanza eraquasi al buio. Mi ci addentrai per qualche passo, cercando di aguzzare la vista. Aquel punto sentii che la porta si chiudeva alle mie spalle e, quando mi voltai, labambina era sparita. Sentii scattare il meccanismo della serratura e seppi diessere chiuso dentro. Per un minuto rimasi lì, immobile. Lentamente gli occhi siabituarono alla penombra e i contorni della stanza si materializzarono intorno ame. Le pareti erano ricoperte di tela nera dal pavimento al soffitto. Su un lato siindovinava una serie di strani aggeggi che non avevo mai visto e che non fui ingrado di decidere se mi paressero sinistri o tentatori. Un ampio letto circolare

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giaceva sotto una testiera simile a una grande ragnatela da cui pendevano duecandelieri nei quali due ceri neri ardevano sprigionando quel profumo di cera chesi annida nelle cappelle e nelle camere ardenti. Accanto al letto c'era una gratadal disegno sinuoso. Rabbrividii. Quel posto era identico al-la camera da letto cheavevo creato nella finzione per la mia ineffabile vampira Chloé e le sueavventure nei Misteri di Barcellona. C'era puzza di bruciato. Mi preparavo acercare di forzare la porta quando mi accorsi di non essere solo. Mi fermai,raggelato. Un profilo sì disegnava dietro la grata. Due occhi brillanti miosservavano e riuscii a distinguere le dita bianche e affusolate, con lunghe unghiesmaltate di nero, che spuntavano dai fori della grata. Deglutii.

—Chloé?— mormorai.Era lei. La mia Chloé. L'operistica e insuperabile femme fatale dei miei

racconti, in carne e lingerie. Aveva la pelle più candida che avessi mai visto, e icapelli neri e lucidi tagliati ad angolo retto le incorniciavano il viso.

Le labbra sembravano dipinte di sangue fresco e nere aure d'ombra lecircondavano gli occhi verdi. Aveva movenze feline, come se quel corpo at-tillatoin un corsetto rilucente come squame fosse d'acqua e avesse imparato aprendersi gioco della gravità. La gola slanciata e interminabile era circondata daun nastro di velluto scarlatto dal quale pendeva un crocifisso rovesciato. Laosservai avvicinarsi lentamente, incapace perfino di respirare, gli occhi inchiodatia quelle gambe disegnate con tratto impossibile dentro calze di seta cheprobabilmente costavano più di quanto io guada-gnassi in un anno e sostenute dascarpe a punta annodate alle caviglie con nastri di seta. In vita mia non avevo maivisto niente di così bello, né di co-sì terribile.

Mi lasciai condurre da quella creatura fino al letto, dove caddi, letteralmente,di culo. La luce delle candele accarezzava il profilo del suo corpo.

Il mio volto e le mie labbra rimasero all'altezza del suo ventre nudo e senzanemmeno rendermi conto di quello che stavo facendo la baciai sotto l'om-belicoe le sfiorai la pelle con la guancia. A quel punto mi ero dimenticato chi ero e dovemi trovavo. Lei si inginocchiò di fronte a me e mi prese la mano destra.Languida, come un gatto, mi leccò le dita a una a una, poi mi fissò e cominciò aspogliarmi. Volevo aiutarla, ma sorrise e allontanò le mie mani.

—Shhhh.—Quando ebbe finito, si accostò al mio viso e mi leccò le labbra.—Adesso tu. Spogliami. Piano. Molto piano.—Seppi allora di essere sopravvissuto a un'infanzia malaticcia e spiacevole solo

per vivere quei secondi. La spogliai lentamente, sfogliandole la pelle finché lerestarono solo il nastro di velluto attorno alla gola e quelle calze nere del cuiricordo tanti poveracci come me avrebbero potuto vivere cent'anni.

—Accarezzami— mi sussurrò all'orecchio. —Gioca con me.—Accarezzai e baciai ogni centimetro della sua pelle come se volessi me-

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morizzarlo per tutta la vita. Chloé non aveva fretta e rispondeva al tocco delle miemani e delle mie labbra con leggeri gemiti che mi guidavano. Poi mi fecestendere sul letto e mi ricoprì con il suo corpo finché sentii bruciare ogni poro. Leposai le mani sulla schiena e percorsi la linea miracolosa che segnava la suacolonna vertebrale. Il suo sguardo impenetrabile osservava il mio viso da pochicentimetri di distanza. Sentii che dovevo dirle qualcosa.

—Mi chiamo… ——Shhhhh.—Prima che potessi dire qualche altra stupidaggine, Chloé appoggiò le sue

labbra sulle mie e, per un'ora, mi fece scomparire dal mondo. Consapevole dellamia goffaggine, ma lasciandomi credere che non la notava, Chloé an-ticipavaogni mio movimento e guidava le mie mani lungo il suo corpo senza fretta népudore. Non c'era fastidio né assenza nei suoi occhi. Si lasciava toccare eassaporare con infinita pazienza e con una tenerezza che mi fece dimenticarecom'ero giunto fin lì. Quella notte, per il breve spazio di un'ora, imparai ognipiega della sua pelle come altri imparano le preghiere o le maledizioni. Più tardi,quando quasi non mi restava più fiato, Chloé mi lasciò appoggiare la testa sui suoiseni e mi accarezzò i capelli durante un lungo silenzio, fino a quando miaddormentai tra le sue braccia con la mano tra le sue cosce.

Quando mi svegliai, la stanza era in penombra e Chloé se n'era andata.La sua pelle non era più tra le mie mani. Al suo posto c'era un biglietto da

visita stampato sulla stessa pergamena bianca della busta che conteneva l'invito esul quale, sotto l'emblema dell'angelo, si leggeva: ANDREAS CORELLI

ÉditeurÉditions de la LumièreBoulevard St.—Germain, 69. ParisSul retro c'era un'annotazione a mano:Caro David,la vita è fatta di grandi speranze. Quando sarà pronto per trasformare le sue in

realtà, si metta in contatto con me. La aspetterò.Il suo amico e lettoreA.C.Raccolsi gli indumenti da terra e mi vestii. La porta della camera non era più

chiusa a chiave. Percorsi il corridoio fino al salone, dove il grammofono si erazittito. Non c'era traccia né della bambina né della donna dai capelli bianchi chemi aveva aperto. Il silenzio era assoluto. Mentre mi dirigevo all'uscita ebbil'impressione che le luci alle mie spalle svanissero e che corridoi e stanze sioscurassero lentamente. Uscii sul ballatoio e scesi di malavoglia le scale di ritornoal mondo. Una volta in strada mi incamminai verso le Ramblas, lasciandomidietro la folla e la confusione dei locali notturni. Una nebbia tenue e calda salivadal porto e il luccichio dei finestroni dell'hotel Oriente la tingeva di un giallo

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sporco e polveroso in cui i passanti svanivano come volute di vapore. Mi misi acamminare mentre il profumo di Chloé iniziava a svanire dai miei pensieri e midomandai se le labbra di Cristina Sagnier, la figlia dell'autista di Vidal, avessero lostesso sapore.

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4

Uno non sa cosa sia la sete fin quando non beve per la prima volta. Tre giornidopo la mia visita all'Ensueño, il ricordo della pelle di Chloé mi bruciava perfino ipensieri. Senza dire nulla a nessuno — men che meno a Vidal — decisi di mettereinsieme i pochi risparmi che mi rimanevano e di ritornarci quella sera stessa,nella speranza che bastassero per comprare anche solo un istante tra le suebraccia. Era mezzanotte quando giunsi alla scalinata dalle pareti rosse cheportava all'Ensueño. La luce era spenta e salii lentamente, lasciandomi alle spallela rumorosa cittadella di cabaret, bar, music-hall e locali di difficile definizioneche gli anni della Grande guerra in Europa avevano disseminato in calle Nou dela Rambla. La luce tremula che filtrava dal portone disegnava i gradini al miopassaggio. Arrivato sul pianerottolo, mi fermai e cercai con le mani il batacchio.Le mie dita sfiorarono il pesante picchiotto di metallo. Quando lo sollevai, la portacedette di qualche centimetro e capii che era aperta. La spinsi leggermente.

Un silenzio assoluto mi accarezzò il volto. Di fronte a me si apriva unapenombra azzurrata. Feci qualche passo, sconcertato. L'eco delle luci della stradapalpitava nell'aria, svelando visioni fugaci delle pareti nude e del pavimento dilegno sfasciato. Arrivai alla sala che ricordavo decorata di velluti e mobiliopulenti. Era vuota. Il manto di polvere che ricopriva il pavimento brillava comesabbia al luccichio delle insegne luminose della strada. Avanzai lasciando una sciadi impronte sulla polvere. Non c'erano tracce né del grammofono, né dellepoltrone, né dei quadri. Il soffitto era crepato e s'intravedevano travi di legnoannerito. La pittura delle pareti pendeva a brandelli simili a pelli di serpente. Midiressi verso il corridoio che portava alla stanza dove avevo incontrato Chloé.Attraversai quel tunnel di oscurità fino ad arrivare alla porta a doppia anta, chenon era più bianca. Non c'era il pomello, solo un buco nel legno, come se lamaniglia fosse stata strappata di colpo. Aprii ed entrai.

La stanza di Chloé era una cella di nerume. Le pareti erano carbonizzate egran parte del soffitto era crollata. Potevo scorgere la muraglia di nuvole nereche attraversavano il cielo e la luna che proiettava un alone argentato sulloscheletro metallico di quello che era stato il letto. Fu allora che sentii il pavimentoscricchiolare alle mie spalle e mi voltai di scatto, accorgen-domi di non esseresolo. Una sagoma scura e affilata, maschile, si stagliava sull'ingresso. Non potevodistinguerne il volto, ma avevo la certezza che mi stesse osservando. Rimase lì,immobile come un ragno, per qualche secondo, il tempo che impiegai a reagire ea fare un passo verso di lui. In un attimo la figura scomparve nell'ombra equando arrivai nel salone non c'era più nessuno. Un alito di luce proveniente daun'insegna luminosa sull'altro lato della strada inondò la sala per un secondo,svelando un mucchietto di detriti vicino al muro. Qualcosa emergeva dalla pila.Dita. Scostai la cenere che le ricopriva e lentamente affiorò il contorno di una

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mano. La presi e, tirandola, vidi che era segata all'altezza del polso. La riconobbiall'istante e capii che la mano di quella bambina, che avevo creduto di legno, eradi porcellana. La lasciai cadere e mi allontanai.

Mi chiesi se non mi fossi immaginato quell'intruso, perché non c'erano ormedi passi sulla polvere. Scesi di nuovo in strada e rimasi a contemplare dalmarciapiede le finestre del primo piano, in preda alla confusione. La gente mipassava accanto ridendo, incurante della mia presenza. Cercai di ritrovare ilprofilo dell'intruso tra la folla. Sapevo che era lì, forse a pochi metri, e che miosservava. Dopo un po' attraversai la strada ed entrai in un piccolo caffè zeppo digente. Riuscii a ritagliarmi un po' di spazio al bancone e feci un cenno alcameriere.

—Dica.—Avevo la bocca secca e sabbiosa.—Una birra— improvvisai.Mentre il cameriere me la versava, mi chinai verso di lui.—Scusi, sa se il locale di fronte, L'Ensueño, ha chiuso?—Il cameriere lasciò il bicchiere sul bancone e mi guardò come se fossi scemo.—È chiuso da quindici anni— disse.—Ne è sicuro?——Certo. Dopo l'incendio non ha più riaperto. Altro?—Feci segno di no.—Sono quattro centesimi.—Pagai la consumazione e me ne andai senza toccare il bicchiere.Il giorno dopo arrivai in anticipo in redazione e andai dritto agli archivi del

piano interrato. Con l'aiuto di Matias, il responsabile, e facendomi guidare daquanto mi aveva detto il cameriere, iniziai a consultare le prime pagine della« Voz de la Industria» di quindici anni prima. Ci misi una qua-rantina di minuti atrovare la vicenda, appena un trafiletto. L'incendio era scoppiato all'alba delCorpus Domini del 1903. Sei persone erano morte tra le fiamme: un cliente,quattro delle ragazze in organico e una ragazzina che lavorava lì. La polizia e ipompieri avevano individuato la causa della tragedia nel guasto di una lampada,ma il patronato di una parrocchia vicina citava la giustizia divina e l'interventodello Spirito Santo come fattori determinanti.

Tornato alla pensione, mi stesi a letto e cercai inutilmente di conciliare ilsonno. Tirai fuori dalla tasca il biglietto da visita di quello strano benefattore chemi ero ritrovato fra le mani risvegliandomi nel letto di Chloé e rilessi nellapenombra le parole scritte sul retro. « Grandi speranze» .

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5

Nel mio mondo le speranze, grandi e piccole, raramente diventavano realtà. Finoa pochi mesi prima il mio unico desiderio ogni sera quando andavo a dormire eradi trovare un giorno abbastanza coraggio da rivolgere la parola alla figliadell'autista del mio mentore, Cristina, e che passassero in fretta le ore che miseparavano dall'alba per poter tornare alla redazione della « Voz de la Industria» .Adesso, perfino quel rifugio stava per sfuggir-mi di mano. Forse, se qualcuno deimiei tentativi fosse fallito miseramente, avrei riconquistato l'affetto dei mieicolleghi, mi dicevo. Forse, se avessi scritto qualcosa di tanto mediocre e abiettoda non consentire a nessun lettore di superare il primo paragrafo, i miei peccati digioventù sarebbero stati perdonati. Forse non sarebbe stato un prezzo troppo altoper potermi sentire di nuovo a casa. Forse.

Ero arrivato alla « Voz de la Industria» molti anni prima accompagnato damio padre, un uomo tormentato e senza fortuna che al ritorno dalla guerra delleFilippine aveva trovato una città che preferiva non riconoscerlo e una moglie chel'aveva già dimenticato e che due anni dopo aveva deciso di abbandonarlo. Gliaveva lasciato il cuore infranto e un figlio mai desiderato con cui non sapeva chefare. Mio padre, che a stento era capace di leggere e scrivere il suo nome, nonaveva arte né parte. Quello che aveva imparato in guerra era uccidere altriuomini come lui prima che fossero loro a ucciderlo, sempre in nome di causegrandiose e vuote che si rivelavano tanto più assurde e meschine quanto più ci siavvicinava alla battaglia.

Al ritorno dalla guerra mio padre, che sembrava vent'anni più vecchio diquando era partito, cercò impiego in varie industrie del Pueblo Nuevo e delquartiere di Sant Marti. I lavori gli duravano appena qualche giorno, e prima o poime lo vedevo tornare a casa con lo sguardo avvilito dal risentimento. Col tempo,e in mancanza di alternative, accettò un posto da sorvegliante notturno alla « Vozde la Industria» . La paga era modesta, però i mesi passavano, e per la primavolta dal ritorno dalla guerra sembrava non mettersi nei guai. La pace fu breve.Ben presto alcuni vecchi compagni d'armi, cadaveri viventi che erano tornatimutilati nel corpo e nell'anima per constatare che chi li aveva mandati a morirein nome di Dio e della patria adesso sputava loro in faccia, lo coinvolsero in affaritorbidi troppo grandi per lui e che non riuscì mai a capire davvero.

Spesso mio padre spariva per un paio di giorni e, quando tornava, le ma-ni e ivestiti gli puzzavano di polvere da sparo e le tasche di soldi. Allora si rifugiavanella sua stanza e, credendo che io non me ne accorgessi, s'iniettava quel poco oquel tanto che era riuscito a trovare. All'inizio non chiudeva mai la porta, però ungiorno mi sorprese a spiarlo e mi diede uno schiaffone che mi spaccò le labbra.Poi mi abbracciò fin quando la forza nelle braccia non lo abbandonò e restòdisteso a terra, l'ago ancora conficcato nella pelle. Glielo sfilai e lo coprii con uno

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scialle. Dopo quell'incidente cominciò a chiudersi a chiave.Abitavamo in una piccola soffitta sospesa sul cantiere del nuovo auditorium

del Palau de la Música de l'Orfeó Català. Era un posto freddo e angusto in cui ilvento e l'umidità sembravano prendersi gioco dei muri. Io mi sedevo sul piccolobalcone con le gambe penzoloni a vedere la gente che passava e a contemplarequella scogliera di sculture e colonne impossibili che cresceva dall'altra partedella strada e che a volte mi sembrava quasi di poter toccare con le dita, mentrealtre, la maggioranza, mi parevano lontane come la luna. Sono stato un bambinodebole e malaticcio, incline a febbri e infezioni che mi trascinavano al limitaredella tomba, ma che, all'ultimo momento, si pentivano sempre e partivano allaricerca di una preda più importante. Quando mi ammalavo, mio padre finiva perperdere la pazienza e dopo la seconda notte di veglia mi lasciava alle cure di unavicina e spariva di casa per qualche giorno. Col tempo cominciai a sospettare chesperasse di trovarmi morto al suo ritorno per liberarsi del peso di quel figlio dallasalute di carta che non gli serviva a nulla.

Più di una volta desiderai che accadesse, ma mio padre tornava e mi trovavasempre vivo, scodinzolante e un po' più alto. Madre Natura non aveva pudore neldeliziarmi con il suo esteso codice penale di germi e miserie, ma non trovò mai ilmodo di applicarmi del tutto la legge di gravità. Contro ogni pronostico,sopravvissi a quei primi anni sul filo del rasoio di un'infanzia precedente allapenicillina. A quell'epoca, la morte non viveva ancora nell'anonimato e la sipoteva vedere e annusare dappertutto mentre divorava anime che ancora nonavevano avuto nemmeno il tempo di pec-care.

Già a quei tempi i miei unici amici erano fatti di carta e inchiostro. A scuolaavevo imparato a leggere e a scrivere molto prima degli altri bambini delquartiere. Dove i miei amici vedevano tracce d'inchiostro su pagineincomprensibili, io vedevo luce, strade, persone. Le parole e il mistero della loroscienza occulta mi affascinavano e mi sembravano una chiave con cui aprire unmondo infinito e al riparo da quella casa, quelle strade e quei giorni torbidi in cuiperfino io potevo intuire che mi attendeva scarsa fortuna. A mio padre nonpiaceva vedere libri per casa. C'era qualcosa in loro, a parte le lettere che nonsapeva decifrare, che l'offendeva. Mi diceva che appena avessi avuto dieci annimi avrebbe messo a lavorare e che era meglio se mi toglievo tutti quei grilli dallatesta perché altrimenti sarei diventato un disgraziato e un morto di fame. Ionascondevo i libri sotto il materasso e aspettavo che lui uscisse o si addormentasseper poter leggere.

Una volta mi sorprese di notte e montò in collera. Mi strappò il libro di mano elo buttò dalla finestra.

—Se ti trovo ancora a sprecare luce leggendo quelle stupidaggini, te nepentirai.—

Mio padre non era un taccagno e, nonostante le ristrettezze che pativa-mo,

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quando poteva mi mollava qualche moneta perché mi ci comprassi dei dolciumicome gli altri bambini del quartiere. Era convinto che le spendes-si in bastoncinidi liquirizia, arachidi o caramelle, ma io le conservavo in un barattolo di caffèsotto il letto e, quando avevo messo insieme quattro o cinque reales, correvo acomprarmi un libro senza che lui lo sapesse.

Il mio posto preferito in tutta la città era la libreria di Sempere e Figli in calleSanta Ana. Quel posto che odorava di carta vecchia e di polvere era il miosantuario e il mio rifugio. Il libraio mi lasciava sedere su una sedia in un angolo eleggere a mio piacimento qualunque libro volessi. Quasi mai Sempere mi facevapagare i libri che mi metteva in mano, ma quando non se ne accorgeva iolasciavo sul banco, prima di andarmene, le monete che avevo risparmiato. Eranosolo spiccioli, e se avessi dovuto comprare qualche libro con quella miserial'unico che mi sarei sicuramente potuto permettere sarebbe stato uno di queilibriccini di cartine per sigarette. Quando era ora di andar via, lo facevostrascicando i piedi e l'anima, perché se fosse di peso da me sarei rimasto avivere lì.

Un Natale, Sempere mi fece il più bel regalo che abbia mai ricevuto in vitamia. Era un tomo vecchio, letto e vissuto a fondo.

— Grandi speranze, di Carlos Dickens…— lessi sulla copertina.Mi risultava che Sempere conoscesse alcuni scrittori che frequentavano il suo

negozio e, per l'affetto con cui maneggiava quel volume, pensai che forse queldon Carlos era uno di loro.

—Un amico suo?——Di tutta la vita. E da oggi anche tuo.—Quella sera, nascosto sotto i vestiti perché mio padre non lo vedesse, mi portai

a casa il mio nuovo amico. Fu un autunno di piogge e giorni plum-bei durante ilquale lessi Grandi speranze nove volte di fila, in parte perché non avevo altro daleggere a portata di mano e in parte perché non pensavo che potesse esistere unlibro migliore e iniziavo a sospettare che don Carlos l'avesse scritto solo per me.Ben presto ebbi la ferma convinzione che non desideravo altro nella vita se nonimparare a fare quello che faceva quel tal signor Dickens.

Una notte mi svegliai di colpo per gli scossoni di mio padre, tornato dal lavoroprima del tempo. Aveva gli occhi iniettati di sangue e l'alito gli puzzava di alcol.Lo guardai terrorizzato, e lui tastò con le dita la lampadina nuda appesa a un filo.

—È calda.—Mi fissò e scagliò con rabbia la lampadina contro il muro. Esplose in mille

pezzi di vetro che mi caddero sulla faccia, ma non osai togliermeli.—Dov'è?— chiese mio padre, la voce fredda e serena.Scossi la testa, tremando.—Dov'è quel libro di merda?—Scossi di nuovo la testa. Nella penombra, quasi non vidi arrivare il colpo.

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Sentii che mi si annebbiava la vista e che cadevo dal letto, con la boccasanguinante e un intenso dolore come fuoco bianco che mi bruciava dietro lelabbra. Nel girare la testa vidi quelli che mi sembrarono i pezzi di un pa-io di dentirotti sul pavimento. La mano di mio padre mi afferrò per il collo e mi sollevò.

—Dov'è?——Papà, per favore… —Con tutte le forze mi sbatté la faccia contro il muro e il colpo mi fece perdere

l'equilibrio e crollare come un sacco d'ossa. Mi trascinai in un angolo e me nestetti lì, raggomitolato, guardando mio padre che apriva l'armadio, prendeva lequattro cose che avevo e le buttava a terra. Perquisì cassetti e bauli senza trovareil libro finché, esausto, tornò a occuparsi di me. Chiusi gli occhi e mi addossai almuro, aspettando altre botte che non arrivarono mai. Li riaprii e vidi mio padreseduto sul letto, che piangeva soffocando per la mancanza di fiato e la vergogna.Quando si accorse che lo guardavo, si precipitò giù per le scale. Ascoltai l'eco deisuoi passi allontanarsi nel silenzio dell'alba e solo quando fui sicuro che fosselontano mi trascinai fino al letto e presi il libro dal nascondiglio sotto il materasso.

Mi vestii e uscii con il romanzo sotto il braccio.Un sudario di bruma calava su calle Santa Ana quando arrivai all'ingresso

della libreria. Il libraio e suo figlio vivevano al primo piano dello stesso edificio.Sapevo che le sei del mattino non è ora per bussare a casa di nessuno, ma il miounico pensiero in quel momento era salvare il libro. Avevo la certezza che, se miopadre l'avesse trovato rientrando a casa, l'avrebbe fatto a pezzi con tutta la rabbiache aveva in corpo. Suonai al campanello e aspettai. Dovetti insistere due o trevolte, finché sentii aprirsi la finestra del balcone e vidi il vecchio Sempere, investaglia e pantofole, che si affacciava e mi guardava attonito. Un minuto doposcese ad aprirmi e appena mi vide in faccia qualsiasi accenno di rabbia svanì. Siaccovacciò davanti a me e mi sostenne per le braccia.

—Santo Dio. Stai bene? Chi ti ha fatto una cosa del genere?——Nessuno. Sono caduto.—Gli tesi il libro.—Sono venuto a restituirglielo, perché non voglio che gli succeda niente… —Sempere mi guardò senza parlare. Mi prese in braccio e mi portò a casa.Suo figlio, un ragazzino di dodici anni tanto timido che non ricordavo di aver

mai sentito la sua voce, si era svegliato sentendo suo padre uscire e aspettava sulpianerottolo. Vedendo il sangue sulla mia faccia, guardò spaventato il padre.

—Chiama il dottor Campos.—Il ragazzo annuì e corse al telefono. Lo sentii parlare e verificai che non era

muto. Insieme mi fecero accomodare su una poltrona della sala da pranzo e mipulirono il sangue delle ferite in attesa che arrivasse il dottore.

—Non vuoi dirmi chi te l'ha fatto?—Non aprii bocca. Sempere non sapeva dove abitavo e non volevo fargli venire

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in mente certe idee.—È stato tuo padre?—Distolsi lo sguardo.—No. Sono caduto.—Il dottor Campos, che abitava a quattro o cinque portoni di distanza, arrivò in

cinque minuti. Mi esaminò dalla testa ai piedi, palpando i lividi e curando i taglicon tutta la delicatezza possibile. Era chiaro che gli bruciavano gli occhi perl'indignazione, ma non disse nulla.

—Non ci sono fratture, ma qualche contusione che ti farà male per un po'di giorni. Questi due denti bisognerà toglierli. Sono rovinati e c'è rischio

d'infezione.—Quando il dottore se ne andò, Sempere mi preparò un bicchiere di latte tiepido

con il cacao e osservò sorridendo come lo bevevo.—Tutto questo per salvare Grandi speranze, eh?—Mi strinsi nelle spalle. Padre e figlio si scambiarono un sorriso complice.—La prossima volta che vuoi salvare un libro, salvarlo davvero, non rischiare

la vita. Me lo dici e ti porto in un posto segreto dove i libri non muoiono mai edove nessuno può distruggerli.—

Li guardai entrambi, intrigato.—E che posto è?—Sempere mi strizzò l'occhio e mi rivolse quel sorriso misterioso che sembrava

rubato da un feuilleton di Alexandre Dumas e che, dicevano, era un marchio difamiglia.

—Ogni cosa a suo tempo, amico mio. Ogni cosa a suo tempo.—Mio padre passò tutta quella settimana con gli occhi fissi a terra, roso dal

rimorso. Comprò una lampadina nuova e arrivò a dirmi che, se volevo ac-cenderla, lo facessi pure, ma non troppo a lungo, perché l'elettricità era ca-rissima. Io preferii non scherzare con il fuoco. Il sabato di quella settimana vollecomprarmi un libro e andò in una libreria, la prima e l'ultima in cui entrava, incalle de la Palla, di fronte alle vecchie mura romane; ma non sapeva leggere ititoli sulle coste delle centinaia di libri esposti, e uscì a mani vuote. Poi mi diededei soldi, più del solito, e mi disse di comprarci quello che volevo. Mi sembrò ilmomento opportuno per tirare fuori un argomento per il quale da tempo nontrovavo l'occasione propizia.

—Donna Mariana, la maestra, mi ha chiesto di dirle se può passare da scuolaper parlare con lei— lasciai cadere.

—Parlare di che? Cos'hai combinato?——Niente, papà… Vorrebbe parlare con lei della mia futura educazione.Dice che ho delle possibilità e che crede di potermi aiutare a ottenere una

borsa di studio per entrare dagli Esculapi… ——Chi si crede di essere quella donna per riempirti la testa di grilli e per dirti

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che ti farà entrare in un collegio di figli di papà? Tu conosci quella gentaglia? Saicome ti guarderanno e come ti tratteranno quando sapranno da dove vieni?—

Abbassai gli occhi—Donna Mariana vuole solo darmi una mano, papà. Nient'altro. Non si

inquieti. Le dirò che non si può fare e basta.—Mio padre mi guardò con rabbia, ma si trattenne e respirò a fondo varie volte

con gli occhi chiusi prima di aggiungere:—Ce la faremo, d'accordo? Tu e io. Senza l'elemosina di tutti quei figli di

puttana. E a testa alta.——Sì, papà.—Mi mise una mano sulla spalla e mi guardò come se, per un breve istante che

non sarebbe tornato mai più, fosse orgoglioso di me, anche se eravamo tantodiversi, anche se a me piacevano i libri che lui non sapeva leggere, perfino se leici aveva messo l'uno contro l'altro. In quell'istante credetti che mio padre eral'uomo più buono del mondo e che tutti se ne sarebbero resi conto se la vita, peruna volta, si fosse degnata di dargli una buona mano di carte.

—Tutto il male che uno fa nella vita ritorna, David. E io ne ho fatto tanto.Tanto. Ma ho pagato il prezzo. E la nostra sorte cambierà. Vedrai. Vedrai.—Nonostante le insistenze di donna Mariana, che era più furba della fame e già

immaginava come stavano andando le cose, non parlai più con mio padre dellamia educazione. Quando la maestra capì che non c'erano speranze, mi disse cheogni giorno, alla fine delle lezioni, mi avrebbe dedicato un'ora in più per parlarmidi libri, di storia e di tutte quelle cose che tanto spaventavano mio padre.

—Sarà il nostro segreto— disse la maestra.Già allora avevo cominciato a capire che mio padre si vergognava che la

gente pensasse che era un ignorante, un relitto di una guerra che, come quasi tuttele guerre, veniva combattuta in nome di Dio e della patria per rendere più potentiuomini che già lo erano troppo prima di provocarla. In quel periodo, qualchenotte cominciai ad accompagnare mio padre al lavoro. Prendevamo un tram incalle Trafalgar che ci lasciava alle porte del cimitero. Io restavo nella sua garitta,a leggere vecchie copie del giornale, e ogni tanto cercavo di fare conversazionecon lui, impresa ardua. Mio padre quasi non parlava più, né della guerra nellecolonie né della donna che l'aveva abbandonato. Una volta gli chiesi perché miamadre ci aveva lasciato.

Sospettavo che fosse stato per colpa mia, per qualcosa di male che avevofatto, magari solo per essere nato.

—Tua madre mi aveva abbandonato già prima che mi mandassero al fronte.Lo stupido sono stato io, che non me ne sono accorto finché non sono tornato. Lavita è così, David. Prima o poi, tutto e tutti ti abbandonano.—

—Io non l'abbandonerò mai, papà.—Mi sembrò che stesse per scoppiare a piangere e l'abbracciai per non

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guardarlo in faccia.Il giorno dopo, senza preavviso, mi portò ai magazzini tessili El Indio in calle

del Carmen. Non entrammo, ma dalle vetrate dell'ingresso mi indicò una donnagiovane e sorridente che serviva i clienti e mostrava loro stoffe e tessuti pregiati.

—Quella è tua madre— mi disse. —Un giorno di questi torno qui el'ammazzo.—

—Non dica così, papà.—Mi guardò con gli occhi arrossati e seppi che l'amava ancora e che io non

l'avrei mai perdonata. Ricordo che la osservai di nascosto, senza che lei sapesseche eravamo lì, e che la riconobbi solo grazie al ritratto che mio padreconservava a casa in un cassetto, accanto alla sua pistola dell'esercito che ogninotte, quando credeva che io dormissi, tirava fuori e contemplava come sepossedesse tutte le risposte, o almeno quelle che servivano a lui.

Per anni sarei tornato davanti alle porte di quel negozio per spiarla di nascosto.Non ebbi mai il coraggio di entrare né di parlarle quando la vedevo uscire eallontanarsi giù per le Ramblas verso una vita che mi ero immaginato per lei, conuna famiglia che la rendeva felice e un figlio che meritava più di me il suoaffetto e il contatto della sua pelle. Mio padre non seppe mai che a volte scappavoper vederla, o che c'erano giorni in cui la seguivo da vicino, sempre sul punto diprenderle la mano e di camminare accanto a lei, sempre fuggendo all'ultimomomento. Nel mio mondo, le grandi speranze vivevano soltanto fra le pagine diun libro.

La buona sorte che mio padre tanto desiderava non arrivò mai. L'unicacortesia che la vita gli riservò fu di non farlo attendere troppo. Una notte, mentrearrivavamo alle porte del giornale per iniziare il turno di lavoro, tre pistolerisbucarono dall'ombra e lo crivellarono di colpi sotto i miei occhi.

Ricordo l'odore di zolfo e l'alone fumante che saliva dai fori bruciacchiatiaperti dalle pallottole nel suo cappotto. Uno dei pistoleri si preparava a dargli ilcolpo di grazia quando mi gettai su mio padre e un altro degli assassini lo fermò.Ricordo gli occhi del pistolero fissi nei miei, mentre si chiedeva se dovesseuccidere anche me. All'improvviso, si allontanarono a passo svelto e sparirononei vicoli stretti tra gli edifici del Pueblo Nuevo.

Quella notte i suoi assassini lasciarono mio padre a dissanguarsi fra le miebraccia, e me solo al mondo. Passai quasi due settimane dormendo nellatipografia del giornale, nascosto tra linotype che sembravano gigan-teschi ragnid'acciaio, cercando di zittire quel sibilo esasperante che mi perforava i timpani altramonto. Quando mi scoprirono, avevo ancora le mani e i vestiti macchiati disangue secco. All'inizio nessuno sapeva chi fossi, perché non parlai per quasi unasettimana e quando lo feci fu per urlare il nome di mio padre fino a perdere lavoce. Quando mi chiesero di mia madre, dissi che era morta e che non avevonessuno al mondo. La mia storia arrivò alle orecchie di Pedro Vidal, la star del

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giornale e amico intimo dell'editore, che dietro sua richiesta ordinò di darmi unlavoro da fatto-rino e di permettermi di vivere fino a nuovo avviso nelle modestestanze del portiere al piano interrato.

Erano anni in cui il sangue e la violenza per le strade di Barcellonacominciavano a essere pane quotidiano. Giorni di volantini e bombe chelasciavano resti di corpi tremanti e fumanti per le strade del Raval, giorni dibande di figure nere che vagavano nella notte spargendo sangue, di proces-sioni esfilate di santi e generali che puzzavano di morte e di inganni, di discorsiincendiari in cui tutti mentivano e tutti avevano ragione. La rabbia e l'odio cheanni dopo avrebbero portato gli uni e gli altri ad ammazzarsi in nome di sloganmagniloquenti e di stracci colorati cominciavano già ad as-saporarsi nell'ariaavvelenata. La bruma perpetua delle fabbriche strisciava sulla città e velava isuoi viali lastricati e solcati da tram e carrozze. La notte apparteneva alla luce agas, alle ombre dei vicoli spezzate dai baglio-ri degli spari e dai lampi azzurratidella polvere bruciata. Erano anni in cui si cresceva in fretta, e quando l'infanziasi sbriciolava tra le loro mani molti bambini avevano già lo sguardo da vecchi.

Senza altra famiglia se non quella tenebrosa Barcellona, il giornale diventò ilmio rifugio e il mio mondo finché il mio stipendio mi permise di affittare quellastanza nella pensione di donna Carmen. Abitavo lì da appena una settimanaquando un giorno la padrona venne nella mia camera e mi informò che unsignore alla porta chiedeva di me. Sul pianerottolo trovai un uomo vestito digrigio, dallo sguardo grigio e dalla voce grigia che mi domandò se ero DavidMartín e, al mio assenso, mi allungò un pacchetto avvolto in carta da pacchi e siperse giù per le scale lasciando la sua grigia assenza a impestare quel mondo dimiserie di cui ero entrato a far parte. Mi portai il pacchetto in camera e chiusi laporta. Nessuno, a eccezione di due o tre persone del giornale, sapeva che vivevolì. Disfeci l'involto, intrigato. Era il primo pacchetto che ricevevo in vita mia.All'interno trovai un astuccio di legno stagionato dall'aspetto vagamentefamiliare. L'appoggiai sulla branda e lo aprii. Conteneva la vecchia pistola di miopadre, l'arma ricevuta dall'esercito e con cui era tornato dalle Filippine perprocu-rarsi una morte precoce e miserabile. Accanto all'arma c'era unascatoletta di cartone con qualche pallottola. Presi la pistola e la soppesai. Puzzavadi polvere da sparo e d'olio. Mi chiesi quanti uomini avesse ucciso mio padre conquell'arma, con cui aveva certamente sperato di mettere fine alla propria vitafinché non l'avevano preceduto. Riposi l'arma nell'astuccio e lo richiusi. Il mioprimo impulso fu di buttarla nella spazzatura, ma mi resi conto che quella pistolaera tutto ciò che mi restava di mio padre. Immaginai che l'usuraio di turno chealla morte di mio padre aveva confiscato il poco che avevamo in quel vecchioappartamento di fronte al tetto del Palau de la Música, a compensazione deipropri crediti, avesse deciso di mandarmi allora quel macabro promemoria persalutare il mio ingresso nell'età adulta. Nascosi l'astuccio sopra l'armadio, contro

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il muro su cui si accumu-lava il sudiciume e dove donna Carmen non arrivavanemmeno con i trampoli, e non lo toccai più per anni.

Quella sera stessa tornai alla libreria di Sempere e Figli e, sentendomi ormaiuomo di mondo e dotato di mezzi, manifestai al libraio la mia intenzione diacquistare quel vecchio esemplare di Grandi speranze che mi ero visto costretto arestituirgli anni prima.

—Mi faccia il prezzo che vuole— gli dissi. —Mi faccia il prezzo di tutti i libriche non le ho pagato negli ultimi dieci anni.—

Ricordo che Sempere sorrise con tristezza e mi posò la mano sulla spalla.—L'ho venduto stamattina— mi confessò abbattuto.

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6

Trecentosessantacinque giorni dopo aver scritto il mio primo racconto per « LaVoz de la Industria» arrivai, come d'abitudine, in redazione e la trovai quasideserta. C'era solo un gruppo di redattori che mesi prima mi avevano dedicatosoprannomi affettuosi e parole di sostegno e che quel giorno, vedendomi entrare,ignorarono il mio saluto e si chiusero in un capannello di mormorii. In meno di unminuto avevano preso i cappotti ed erano spariti come se temessero qualche tipodi contagio. Rimasi seduto, da solo, in quella sala insondabile, a contemplare lostrano spettacolo di decine di scrivanie vuote. Passi lenti e contundenti alle miespalle annun-ciarono l'approssimarsi di don Basilio.

—Buona sera, don Basilio. Cosa succede oggi che se ne sono andati tutti?—Don Basilio mi guardò con tristezza e si sedette alla scrivania vicina.—C'è una cena di Natale di tutta la redazione. Al Set Portes— disse con voce

tranquilla. —Immagino che non le abbiano detto nulla.—Finsi un sorriso noncurante e feci cenno di no.—Lei non va?— chiesi.Don Basilio scosse la testa.—Non ne ho più voglia.—Ci guardammo in silenzio.—E se la invito io?— proposi. —Dove vuole. Al Can Solé, se le va. Lei e io,

per festeggiare il successo dei Misteri di Barcellona. —Don Basilio sorrise, annuendo lentamente.—Martín— disse alla fine. —Non so come dirglielo.——Dirmi cosa?—Don Basilio si schiarì la voce.—Non le posso più pubblicare altre puntate dei Misteri di Barcellona. —Lo guardai senza comprendere. Don Basilio distolse lo sguardo.—Vuole che scriva un'altra cosa? Qualcosa di più galdosiano?——Martín, lei sa com'è la gente. Ci sono state lamentele. Io ho cercato di

sistemare la questione, però il direttore è un uomo debole e non gli piacciono iconflitti non necessari.—

—Non la capisco, don Basilio.——Martín, hanno chiesto a me di dirglielo.—Finalmente mi guardò e si strinse nelle spalle.—Sono licenziato— mormorai.Don Basilio annuì.Sentii che, mio malgrado, gli occhi mi si riempivano di lacrime.—Adesso le sembra la fine del mondo, ma mi creda se le dico che in fondo è

la cosa migliore che poteva capitarle. Questo non è un posto per lei.——E qual è il posto per me?— domandai.

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—Mi dispiace, Martín. Mi creda, mi dispiace.—Don Basilio si alzò e mi mise la mano sulla spalla con affetto.—Buon Natale, Martín.—Quella sera stessa svuotai la mia scrivania e lasciai per sempre quella che era

stata la mia casa per perdermi nelle vie buie e solitarie della città.Sulla strada per la pensione passai dalle parti del ristorante Set Portes sotto gli

archi di casa Xifré. Rimasi fuori, guardando i miei colleghi ridere e brindaredietro i vetri. Sperai che la mia assenza li rendesse felici o almeno gli facessedimenticare che non lo erano e non lo sarebbero mai stati.

Passai il resto di quella settimana alla deriva, rifugiandomi ogni giorno nellabiblioteca dell'Ateneo convinto che, di ritorno alla pensione, avrei trovato unbiglietto del direttore del giornale che mi pregava di rientrare in redazione.Nascosto in una delle sale di lettura, tiravo fuori quel biglietto da visita che mi eroritrovato tra le mani al risveglio nell'Ensueño e iniziavo a scrivere una letteraall'anonimo benefattore, Andreas Corelli, che fini-vo sempre per strappare e perricominciare a scrivere il giorno dopo. Il settimo giorno, stanco di compatirmi,decisi di compiere l'inevitabile pellegrinaggio a casa del mio creatore.

In calle Pelai presi il treno per Sarrià, che allora circolava ancora insuperficie, e mi sedetti in testa al vagone a contemplare la città e le strade che sifacevano più ampie e signorili a mano a mano che ci si allontanava dal centro.Scesi alla stazione di Sarrià e presi un tram che portava all'ingresso del monasterodi Pedralbes. Era una giornata di caldo insolito per quella stagione e potevosentire nella brezza il profumo dei pini e delle gi-nestre che punteggiavano ifianchi della montagna. Imboccai avenida Pearson, dove si iniziava già aedificare, e ben presto scorsi l'inconfondibile profilo di Villa Helius. Mentre salivoe mi avvicinavo, riuscii a scorgere Vidal che assaporava una sigaretta seduto allafinestra del suo torrione in maniche di camicia. Si sentiva una musica chefluttuava nell'aria e ricordai che Vidal era uno dei pochi privilegiati chepossedevano un apparecchio radiofonico. Come doveva apparire bella la vita dalassù, e che poca cosa dovevo sembrare io.

Lo salutai con la mano e lui ricambiò il saluto. Arrivato alla villa mi imbatteinell'autista, Manuel, che andava verso i garage con un mucchio di stracci e unsecchio d'acqua fumante.

—È un piacere vederla da queste parti, Martín— disse. —Come va la vita?Sempre sulla cresta dell'onda?——Si fa quel che si può— risposi.—Non sia modesto, perfino mia figlia si legge quelle avventure che pubblica

sul giornale.—Deglutii, sorpreso dal fatto che la figlia dell'autista non solo sapeva della mia

esistenza, ma aveva addirittura letto qualcuna delle sciocchezze che scrivevo.—Cristina?—

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—Non ne ho altre— replicò don Manuel. —Il signore è nel suo studio, se vuolsalire.—

Ringraziai annuendo e m'infilai in casa. Salii fino al torrione del terzo pianoche s'innalzava sul tetto ondulato di tegole policrome. Vidal era lì, in quello studioda cui si vedevano la città e il mare in lontananza. Spense la radio, un arnese delledimensioni di un piccolo meteorite che aveva comprato mesi prima, quandoerano state annunciate le prime trasmissioni di Radio Barcellona dagli studicamuffati sotto la cupola dell'hotel Colón.

—Mi è costata quattrocento pesetas e adesso scopro che dice solosciocchezze.—

Ci sedemmo uno di fronte all'altro, con tutte le finestre aperte a quella brezzache per me, abitante della città vecchia e tenebrosa, sapeva di un altro mondo. Sisentivano gli insetti svolazzare in giardino e le foglie degli alberi frusciare alvento.

—Sembra di essere in piena estate— azzardai.—Non svicoli parlando del tempo. Mi hanno già detto quello che è successo—

disse Vidal.Mi strinsi nelle spalle e diedi un'occhiata alla sua scrivania. Sapevo che erano

mesi, se non anni, che il mio mentore cercava di scrivere quello che chiamavaun romanzo « serio» , distante dalle trame leggere delle sue storie poliziesche, perinscrivere il suo nome nelle sezioni più stantie delle biblioteche. Non si vedevanomolti fogli.

—Come va il capolavoro?—Vidal gettò il mozzicone dalla finestra e guardò lontano.—Non ho più niente da dire, David.——Sciocchezze.——Sono tutte sciocchezze in questa vita. È semplicemente una questione di

prospettiva.——Dovrebbe metterci questo, nel libro. Il nichilista sulla collina. Un successo

sicuro.——Chi avrà presto bisogno di un successo sei tu, perché se non mi sbaglio

cominciano a scarseggiarti i fondi.——Posso sempre accettare la sua carità.——C'è una prima volta per tutto. Adesso ti sembra la fine del mondo, pe-rò…

——Ben presto mi renderò conto che è la cosa migliore che poteva succedermi

— completai. —Non mi dica che ora è don Basilio a scriverle i discorsi.—Vidal rise.—Cosa pensi di fare?——Non ha bisogno di un segretario?——Ho già la migliore segretaria che potrei avere. È più intelligente di me,

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infinitamente più lavoratrice e quando sorride mi sembra perfino che questoschifo di mondo abbia un po' di futuro.—

—E chi è questa meraviglia?——La figlia di Manuel.——Cristina?——Finalmente ti sento pronunciare il suo nome.——Ha scelto una brutta settimana per ridere di me, don Pedro.——Non guardarmi con quella faccia da agnello sgozzato. Credi che Pedro

Vidal avrebbe permesso a quel branco di mediocri spilorci e invidiosi di buttarti inmezzo alla strada senza far nulla?—

—Una sua parola al direttore avrebbe certamente cambiato le cose.——Lo so. Perciò sono stato io a suggerirgli di licenziarti— disse Vidal.Fu come se mi avesse appena dato uno schiaffo.—Grazie per l'aiuto— improvvisai.—Gli ho detto di licenziarti perché ho qualcosa di molto meglio per te.——Chiedere l'elemosina?——Uomo di poca fede. Proprio ieri ho parlato di te con un paio di soci che

hanno appena aperto una nuova casa editrice e cercano sangue fresco daspremere e sfruttare.—

—Sembra una meraviglia.——Sanno già dei Misteri di Barcellona e sono pronti a farti un'offerta che ti

renderà un uomo fatto e finito.——Parla sul serio?——Certo che parlo sul serio. Vogliono che tu scriva una serie di romanzi nella

più barocca, sanguinosa e delirante tradizione del Grand Guignol che stracci Imisteri di Barcellona. Credo sia l'opportunità che stavi aspettando.

Ho detto che andrai a trovarli e che sei pronto a iniziare a lavorareimmediatamente.—

Respirai a fondo. Vidal mi fece l'occhiolino e mi abbracciò.

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7

Fu così che, pochi mesi prima di compiere vent'anni, ricevetti e accettaiun'offerta per scrivere romanzi un tanto a pagina con lo pseudonimo di IgnatiusB. Samson. Il mio contratto mi impegnava a consegnare ogni mese duecentopagine dattiloscritte intessute di intrighi, omicidi nell'alta società, orrori senza finenei bassifondi, amori illeciti tra crudeli possidenti dalla mascella volitiva edamigelle dagli inconfessabili desideri, nonché ogni ti-po di contorte saghefamiliari con retroscena più sporchi e torbidi delle acque del porto. La serie, chedecisi di battezzare La città dei maledetti, sarebbe apparsa in una pubblicazionemensile in edizione rilegata con copertina a colori. In cambio avrei ricevuto piùsoldi di quanti avessi mai pensato si potessero guadagnare facendo qualcosadegno di rispetto. Non avrei avuto censure salvo quella imposta dall'interesse deilettori che avrei saputo conquistare. I termini dell'offerta mi obbligavano ascrivere nell'anonimato di uno stravagante pseudonimo, ma in quel momento miparve un prezzo molto basso da pagare per potermi guadagnare da vivere con ilmestiere che avevo sempre sognato di fare. Avrei rinunciato alla vanità di vedereil mio nome stampato sulla mia opera, ma non a me stesso né a quello che ero.

I miei editori erano una coppia di pittoreschi signori chiamati Barrido edEscobillas. Barrido, minuto, tarchiato e sempre armato di un sorriso untuoso esibillino, era il cervello dell'operazione. Veniva dall'industria degli insaccati, esebbene non avesse letto più di tre libri in vita sua, compresi il catechismo el'elenco telefonico, era posseduto da un'audacia proverbiale per cucinarsi i libricontabili: li falsificava per gli investitori con sfoggi di immaginazione chesarebbero stati volentieri emulati dagli autori che la casa editrice, come avevapredetto Vidal, truffava, sfruttava e infine gettava a mare quando i ventisoffiavano in direzione contraria, cosa che prima o poi accadeva sempre.

Escobillas svolgeva un ruolo complementare. Alto, allampanato e con l'ariavagamente minacciosa, si era formato nel ramo delle pompe funebri e da sotto lasoffocante acqua di colonia con cui irrorava le vergogne sembrava trapelare unvago fetore di formalina che faceva drizzare i capelli. Il suo compito eraessenzialmente quello di sinistro sorvegliante, frusta in mano e pronto a fare illavoro sporco per il quale Barrido, a causa del temperamento più allegro edell'aspetto non tanto atletico, era meno portato. Il ménage-à-trois era completatodalla loro segretaria, Herminia, che li seguiva dovunque come un cane fedele eche tutti chiamavano Veleno perché, nonostante l'apparenza da gatta morta, ci sipoteva fidare di lei come di un serpente a sonagli in calore.

Formalità a parte, io cercavo di vederli il meno possibile. Il nostro era unrapporto esclusivamente mercantile e nessuna delle parti aveva un gran desideriodi alterare il protocollo stabilito. Mi ero ripromesso di approfittare di quellaopportunità e di lavorare a fondo per dimostrare a Vidal, e a me stesso, che

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lottavo per meritare il suo aiuto e la sua fiducia. Con un po' di soldi freschi inmano, decisi di lasciare la pensione di donna Carmen in cerca di orizzonti piùcomodi. Da tempo avevo messo gli occhi su una grande casa dall'ariamonumentale al 30 di calle Flassaders, a un tiro di schioppo dal paseo del Born: ciero passato davanti per anni quando andavo e venivo dal giornale alla pensione.La proprietà, completata da un torrione che sorgeva da una facciata lavorata arilievi e gargolle, era chiusa da anni, il portone sprangato con catene e catenaccipicchiettati di ruggine.

Nonostante l'aspetto funebre e smisurato, o forse proprio per questo, l'idea diandarci ad abitare risvegliava in me la lussuria delle intenzioni sconsi-gliabili. Inaltre circostanze avrei ammesso che un posto simile andava ben oltre le miescarse possibilità, ma i lunghi anni di abbandono e di oblio ai quali sembravacondannato mi fecero albergare la speranza che, se nessun altro lo voleva, forse iproprietari avrebbero accettato la mia offerta.

Chiedendo nel quartiere, venni a sapere che la casa era disabitata da moltianni e che la proprietà l'aveva affidata a un amministratore chiamato Vicenç,Clavé, con gli uffici in calle Comercio, di fronte al mercato. Clavé era ungentiluomo all'antica a cui piaceva vestire come le statue dei sindaci e dei padridella patria che si trovavano agli ingressi del Parque de la Ciudadela e che allaminima occasione si lanciava in voli retorici che non ri-sparmiavano nessuno.

—Così, lei è scrittore. Guardi, io potrei raccontarle storie da scriverci ottimilibri.—

—Ne sono certo. Perché non comincia con quella della casa al 30 diFlassaders?—

Clavé adottò un'espressione da maschera greca.—La casa della torre?——Esatto.——Mi dia retta, giovanotto, non vada a vivere lì.——Perché no?—Clavé abbassò la voce e, mormorando come se temesse che i muri ci a-

scoltassero, lasciò cadere una frase in tono funebre.—Quella casa è iellata. Io l'ho vista quando siamo andati con il notaio a

mettere i sigilli e posso assicurarle che la parte vecchia del cimitero di Montjuïc èpiù allegra. Da allora è rimasta vuota. Custodisce brutti ricordi.

Nessuno la vuole.——I suoi ricordi non possono essere peggiori dei miei, e comunque aiute-ranno

sicuramente ad abbassare il prezzo che chiedono.——A volte ci sono prezzi che non si possono pagare col denaro.——Posso vederla?—Visitai per la prima volta la casa della torre una mattina di marzo in

compagnia dell'amministratore, del suo segretario e di un funzionario di banca

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che ostentava il titolo di proprietà. A quanto pareva, la casa era stata per anniavviluppata in un fitto labirinto di contese legali prima di tornare all'istituto dicredito che aveva garantito per il suo ultimo proprietario. Se Clavé non mentiva,nessuno ci era più entrato da almeno vent'anni.

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8

Anni dopo, leggendo il resoconto di alcuni esploratori britannici che si eranoaddentrati nelle tenebre di un millenario sepolcro egiziano con an-nessi labirinti emaledizioni, avrei ricordato quella prima visita alla casa della torre di calleFlassaders. Il segretario era equipaggiato con una lampada a olio perché non siera mai arrivati a installare l'elettricità. Il funzionario aveva un mazzo di quindicichiavi con cui aprire gli innumerevoli lucchetti che assicuravano le catene. Unavolta aperto il portone, la casa esalò un alito putrido, che sapeva di tomba e diumidità. Il funzionario eb-be un attacco di tosse e l'amministratore, che avevaportato con sé la sua migliore espressione di scetticismo e censura, si mise unfazzoletto sulla bocca.

—Prima lei— invitò.L'androne era una specie di cortile interno, alla moda degli antichi palazzi

della zona, con un lastricato a grandi piastrelle e una scalinata di pietra che salivaalla porta principale della casa. In alto, tremolava un lucernario di vetrocompletamente sepolto da escrementi di piccioni e gabbiani.

—Non ci sono topi— annunciai penetrando nell'edificio.—Qualcuno doveva pure avere un po' di buon gusto e di senso comune—disse l'amministratore alle mie spalle.Procedemmo su per le scale fino al pianerottolo d'ingresso all'appartamento

principale, dove il funzionario ebbe bisogno di dieci minuti per trovare la chiavegiusta. Il meccanismo cedette con un gemito che non sembrava di benvenuto. Laporta si aprì per svelare un infinito corridoio zeppo di ragnatele che ondeggiavanonelle tenebre.

—Madre di Dio— mormorò l'amministratore.Nessuno osò fare il primo passo, perciò ancora una volta fui io a guidare la

spedizione. Il segretario teneva la lampada in alto, osservando tutto con ariacompunta.

L'amministratore e il funzionario si scambiarono uno sguardo indecifra-bile.Quando videro che li stavo osservando, il funzionario di banca sorriseplacidamente.

—Si toglie la polvere e con due ritocchi diventa un palazzo— disse.—Il palazzo di Barbablù— commentò l'amministratore.—Cerchiamo di essere positivi— rettificò il funzionario. —La casa è

disabitata da un certo tempo e questo comporta sempre piccoli problemi.—Io a stento gli prestavo attenzione. Avevo sognato tante volte quel posto

passandoci davanti che quasi non mi accorgevo dell'aura funebre e oscura che lopossedeva. Avanzai lungo il corridoio principale, esplorando stanze in cui i vecchimobili giacevano abbandonati sotto una spessa cappa di polvere. Su un tavoloc'erano ancora una tovaglia sfilacciata, un servizio di piatti e un vassoio con frutta

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e fiori pietrificati. I bicchieri e le posate erano ancora lì, come se gli abitanti dellacasa si fossero alzati a metà della cena.

Gli armadi erano ricolmi di vestiti logori, capi scoloriti e scarpe. C'erano intericassetti zeppi di fotografie, occhiali, penne e orologi. Ritratti velati di polvere ciosservavano dai comò. I letti erano rifatti e coperti da un velo bianco che brillavanella penombra. Un grammofono monumentale giaceva su un tavolo di mogano.Sopra c'era un disco e la puntina era scivolata fino alla fine. Soffiai via lo strato dipolvere che lo ricopriva e apparvero il titolo e l'incisione, il Lacrimosa di Mozart.

—L'orchestra sinfonica in casa— disse il funzionario. —Cosa si può chiederedi più? Lei qui starà come un pascià.—

L'amministratore gli lanciò uno sguardo assassino, scuotendo la testa disoppiatto. Attraversammo l'appartamento fino al salotto in fondo, dove un servizioda caffè giaceva sul tavolino e un libro aperto continuava ad attendere chequalcuno ne sfogliasse le pagine seduto in poltrona.

—Sembra che se ne siano andati all'improvviso, senza il tempo di portarsi vianiente— dissi.

Il funzionario tossicchiò.—Forse il signore vuol vedere lo studio?—Lo studio si trovava in cima a una sottile torre, una peculiare struttura che

aveva per anima una scala a chiocciola alla quale si accedeva dal corridoioprincipale e sulla cui facciata esterna si potevano leggere le tracce di tutte legenerazioni che la città ricordava. La torre disegnava un belvedere sospeso suitetti del quartiere della Ribera, completato da uno stretto tamburo di metallo evetro dipinto che svolgeva la funzione di lanterna della cupola e da cui sporgevauna rosa dei venti a forma di drago.

Salimmo la scala ed entrammo nella stanza, dove il funzionario si affrettò adaprire le finestre per far entrare l'aria e la luce. Era una camera rettangolare daisoffitti alti e i pavimenti di legno scuro. Dai quattro finestroni ad arco aperti suiquattro lati potevo contemplare la basilica di Santa Maria del Mar a sud, il grandemercato del Born a nord, la vecchia stazione Francia a est e verso ovest illabirinto infinito di strade e viali schiaccia-ti gli uni sugli altri verso la collina delTibidabo.

—Cosa mi dice? Una meraviglia— sostenne il funzionario con entusiasmo.L'amministratore esaminava tutto con perplessità e fastidio. Il segretario

teneva in alto la lampada, sebbene non ce ne fosse più nessun bisogno. Miavvicinai a uno dei finestroni e mi affacciai a guardare il cielo, estasiato.

Tutta Barcellona si stendeva ai miei piedi e volli credere che, nell'aprire lemie nuove finestre, le sue strade mi avrebbero sussurrato storie al crepuscolo esegreti all'orecchio perché io li catturassi sulla carta e li raccontassi a chi volesseascoltarli. Vidal aveva la sua esuberante e signorile torre d'avorio nella parte piùelevata ed elegante di Pedralbes, circondata da colline, alberi e cieli da sogno. Io

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avrei avuto il mio sinistro torrione innalzato sulle strade più antiche e tenebrosedella città, circondato dai miasmi e dalle tenebre di quella necropoli che i poeti egli assassini avevano chiamato la « Rosa di Fuoco» .

A convincermi a prendere la decisione fu la scrivania che dominava il centrodello studio. Su di essa, come una grande scultura di metallo e di luce, giacevaun'impressionante macchina per scrivere Underwood che per me valeva da solail costo dell'affitto. Mi sedetti sulla poltrona da generale davanti alla scrivania eaccarezzai la tastiera, sorridendo.

—La prendo— dissi.Il funzionario sospirò di sollievo e l'amministratore, sbarrando gli occhi, si

fece il segno della croce. Quel pomeriggio stesso firmai un contratto d'affitto perdieci anni. Mentre gli operai della compagnia elettrica instal-lavano la luce, midedicai a pulire, mettere in ordine e sistemare la casa con il contributo di treaiutanti mandati in truppa da Vidal senza chiedermi prima se volessi assistenza ono. Ben presto scoprii che il modus operandi di quel commando di esperticonsisteva prima nel trapanare a destra e a manca e poi nel chiedere. Dopo tregiorni dal loro sbarco, la casa non aveva una sola lampadina in attività, machiunque avrebbe detto che era infestata da tarli divoratori di gesso e mineralinobili.

—Vuol dire che non c'era altro modo di risolvere il problema?— chiedevo alcapo del battaglione che sistemava tutto a martellate.

Otilio, così si chiamava quel talento, mi mostrava le piantine chel'amministratore mi aveva consegnato insieme alle chiavi e argomentava che lacolpa era della casa, mal costruita.

—Guardi qui— diceva. —Quando le cose sono fatte male, sono fatte male.Ecco. Qui dice che lei ha una cisterna sulla terrazza. E invece no. Ce l'ha nel

cortile sul retro.——E cosa importa? A lei la cisterna non compete, Otilio. Si concentri sul

problema elettricità. Luce. Né rubinetti né tubature. Luce. Ho bisogno di luce.——Ma è tutto connesso. Cosa mi dice del salotto?——Che non c'è la luce.——Secondo la piantina, questo dovrebbe essere un muro maestro. Be', qui il

mio collega Remigio ha dato un colpetto e ci è crollata mezza parete. Enon le dico le stanze. Sempre secondo la pianta, la sala in fondo al corridoio è

di quasi quaranta metri quadri. Neanche da lontano. Se arriva a venti, mi ritengosoddisfatto. C'è un muro dove non ci dovrebbe essere. E dei tu-bi di scarico, be',meglio non parlare. Non ce n'è uno dove si pensa che dovrebbe essere.—

—È sicuro di saper leggere le piantine?——Senta, io sono un professionista. Mi dia retta, questa casa è un rompicapo.

Qui ci ha messo le mani chiunque.——Be', si dovrà arrangiare con quello che c'è. Faccia miracoli o quello che

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vuole, ma per venerdì voglio i muri intonacati e imbiancati e la luce che funziona.—

—Non mi metta fretta, questo è un lavoro di precisione. Bisogna agire conuna certa strategia.—

—E cosa pensate di fare?——Per il momento, di andare a mangiare.——Ma se siete arrivati mezz'ora fa.——Signor Martín, con questo atteggiamento non andiamo da nessuna parte.—La via crucis di lavori e lavoretti si prolungò una settimana più del previsto,

ma con buona pace di Otilio e del suo squadrone di portenti, che facevano buchidove non dovevano e colazioni di due ore e mezzo, l'illusione di poter finalmenteabitare quella casa sognata per tanto tempo mi avrebbe permesso di viverci peranni con candele e lampade a olio, se necessario. Per fortuna il quartiere dellaRibera era una riserva spirituale e materiale di artigiani di ogni tipo e a due passidal mio nuovo domicilio trovai chi mi avrebbe installato nuove serrature che nonsembrassero rubate dalla Bastiglia e lampadari e rubinetteria all'uso del XXsecolo. L'idea di disporre di una linea telefonica non mi persuadeva e, stando aquanto avevo potuto sentire alla radio di Vidal, quelli che la stampa dell'epocachiamava i nuovi mezzi di comunicazione di massa non mi avevano preso inconsiderazione al momento di cercare un pubblico. Decisi che la mia sarebbestata un'esistenza di libri e di silenzio. Portai con me dalla pensione solo uncambio di vestiti e l'astuccio che conteneva la pistola di mio padre, il suo unicoricordo. Divisi il resto degli indumenti e degli effetti personali fra gli altrisubaffittuari. Se mi fossi potuto lasciare alle spalle la pelle e la memoria, avreifatto anche quello.

Passai la prima notte ufficiale ed elettrificata nella casa della torre il giorno incui apparve la puntata inaugurale della Città dei maledetti. Avevo incentrato latrama del romanzo sull'incendio dell'Ensueño nel 1903 e su una creatura spettraleche da allora stregava le strade del Raval. Prima che l'inchiostro della primaedizione si asciugasse, già avevo iniziato a lavorare al secondo romanzo dellaserie. Secondo i miei calcoli, e partendo dalla base di trenta giorni di lavoroininterrotto al mese, Ignatius B. Samson doveva produrre una media di 6,66pagine di dattiloscritto utili al giorno per rispettare i termini del contratto, il cheera una follia, ma aveva il vantaggio di non lasciarmi molto tempo libero perrendermene conto.

Quasi non mi accorgevo che, con il passare dei giorni, avevo cominciato aconsumare più caffè e sigarette che ossigeno. Amano a mano che lo av-velenavo, avevo l'impressione che il mio cervello si stesse trasformando in unamacchina a vapore che non si raffreddava mai. Ignatius B. Samson era giovane eaveva resistenza. Lavorava tutta la notte e crollava esausto all'alba, in balìa distrani sogni in cui le lettere sul foglio nel rullo della macchina per scrivere si

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staccavano dalla carta e, come ragni d'inchiostro, si trascinavano sulle sue mani esulla sua faccia, attraversandogli la pelle e annidandosi nelle vene fino aricoprirgli il cuore di nero e ad annebbiargli le pupille in pozzanghere di oscurità.Passavo intere settimane senza uscire di casa e dimenticavo che giorno dellasettimana o che mese dell'anno fosse.

Non prestavo attenzione ai ricorrenti mal di testa che a volte mi assali-vanoall'improvviso, come se un punteruolo di metallo mi trapanasse il cranio,bruciandomi la vista in un'esplosione di luce bianca. Mi ero abituato a vivere connelle orecchie un sibilo costante che solo il sussurro del vento o la pioggiariuscivano a mascherare. A volte, quando quel sudore freddo mi ricopriva il voltoe sentivo che le mani mi tremavano sulla tastiera dell'Underwood, dicevo a mestesso che il giorno dopo sarei andato dal dottore. Ma poi quel giorno c'eraun'altra scena e un'altra storia da raccontare.

Si compiva il primo anno di vita di Ignatius B. Samson quando, perfesteggiare, decisi di prendermi una giornata libera e di ritrovare il sole, la brezzae le strade di una città che avevo smesso di percorrere per limitarmi aimmaginarla. Mi feci la barba, mi lavai e indossai il mio vestito migliore e piùpresentabile. Lasciai aperte le finestre dello studio e del salotto per far prenderearia alla casa e per lasciar spargere ai quattro venti quella nebbia spessa che eradiventata il suo profumo caratteristico. Scendendo in strada, trovai una grandebusta nella fessura della cassetta delle lettere.

Dentro c'era una pergamena, sigillata con la ceralacca con l'immaginedell'angelo e vergata in quella raffinata grafia, su cui si leggeva: Caro David,

volevo essere il primo a farle i complimenti per questa nuovatappa della sua carriera. Ho apprezzato enormemente le primepuntate della Città dei maledetti. Spero che questo piccolo omaggio sia di suo

gradimento.Le rinnovo la mia ammirazione e la mia volontà che i nostri de-stini un giorno

s'incrocino. Sicuro che così sarà, la saluta con affetto il suo amico e lettoreAndreas CorelliL'omaggio era lo stesso esemplare di Grandi speranze che il signor Sempere

mi aveva regalato da bambino, lo stesso che avevo restituito prima che mio padrepotesse trovarlo e lo stesso che, quando anni dopo avevo voluto recuperarlo aqualunque prezzo, era sparito il giorno precedente tra le mani di uno sconosciuto.Contemplai quell'ammasso di carta che un giorno non troppo lontano mi erasembrato contenere tutta la magia e la luce del mondo. Sulla copertina sipotevano ancora vedere le tracce delle mie dita di bambino macchiate di sangue.

—Grazie— mormorai.

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9

Il signor Sempere inforcò gli occhiali di precisione per esaminare il libro. Losistemò su un panno steso sulla scrivania nel retrobottega e abbassò la lampadaaffinché il fascio di luce fosse concentrato sul volume. La sua perizia durò diversiminuti, durante i quali rimasi in religioso silenzio.

Lo osservai sfogliare le pagine, odorarle, accarezzare la carta e il dorso,soppesare il libro con una mano e poi con l'altra e alla fine chiuderlo edesaminare con la lente le tracce di sangue secco che le mie dita vi avevanolasciato dodici o tredici anni prima.

—Incredibile— sussurrò, togliendosi gli occhiali. —È lo stesso libro. Come hadetto di averlo recuperato?—

—Non lo so nemmeno io. Signor Sempere, cosa ne sa di un editore francesechiamato Andreas Corelli?—

—A prima vista, suona più italiano che francese, anche se l'Andreas sembragreco… —

—La casa editrice è a Parigi. Éditions de la Lumière.—Sempere restò pensieroso per qualche istante, incerto.—Temo che non mi risulti familiare. Chiederò a Barceló, che sa tutto, e

vediamo cosa mi dice.—Gustavo Barceló era uno dei decani dei librai antiquari di Barcellona e la sua

erudizione enciclopedica era leggendaria quanto il suo umore vagamenteabrasivo e pedante. Nel mestiere, il detto consigliava, di fronte a qualunquedubbio, di chiedere a Barceló. In quel momento si affacciò il figlio di Sempereche, sebbene fosse due o tre anni più anziano di me, era così timido che a voltediventava invisibile, e fece un cenno a suo padre.

—Papà, vengono a ritirare un ordinativo che credo abbia preso lei.—Il libraio annuì e mi tese un volume spesso e reduce da molte battaglie.—Questo è l'ultimo catalogo degli editori europei. Se vuole, veda un po'se trova qualcosa mentre servo il cliente— suggerì.Rimasi da solo nel retrobottega, cercando invano Éditions de la Lumière

mentre Sempere tornava al bancone. Sfogliando il catalogo, lo sentii con-versarecon una voce femminile che mi risultò familiare. Sentii che men-zionavanoPedro Vidal e, intrigato, mi affacciai a curiosare.

Cristina Sagnier, figlia dell'autista e segretaria del mio mentore, control-lavauna pila di libri che Sempere andava annotando sul registro delle vendite.Vedendomi, sorrise con cortesia, ma ebbi la certezza che non mi avevariconosciuto. Sempere alzò gli occhi e notando il mio sguardo da allocco fece unarapida radiografia della situazione.

—Voi due già vi conoscete, vero?— disse.Cristina sollevò le sopracciglia, sorpresa, e mi fissò di nuovo, incapace di

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situarmi.—David Martín, amico di don Pedro— le venni in soccorso.—Ah, certo— disse. —Buongiorno.——Come sta suo padre?— improvvisai.—Bene, bene. Mi aspetta in macchina all'angolo.—Sempere, che non ne lasciava passare una, intervenne.—La signorina Sagnier è venuta a ritirare dei libri ordinati da Vidal. Sono così

pesanti che forse lei può essere tanto gentile da aiutarla a portarli in macchina…—

—Non vi preoccupate…— protestò Cristina.—Ci mancherebbe altro— mi lanciai io, lesto a sollevare la pila di libri che

risultò pesare come l'edizione di lusso dell'Enciclopedia Britannica, ap-pendiciincluse.

Sentii uno scricchiolio alla schiena e Cristina mi guardò allarmata.—Sta bene?——Non abbia paura, signorina. L'amico Martín qui presente, sebbene sia un

letterato, è un toro— disse Sempere. —Vero, Martín?—Cristina mi osservava poco convinta. Proposi il mio sorriso da maschio

invincibile.—Tutti muscoli— dissi. —Questo è solo riscaldamento.—Sempere figlio stava per offrirsi di portare la metà dei libri, ma suo padre, in

uno slancio di diplomazia, lo trattenne per il braccio. Cristina mi aprì la porta e miavventurai a percorrere i quindici o venti metri che mi separavano dall'Hispano-Suiza parcheggiata all'angolo con Portal de l'Ángel. Ci arrivai a stento, con lebraccia sul punto di prendere fuoco. Manuel, l'autista, mi aiutò a scaricare i libri emi salutò calorosamente.

—Che combinazione vederla qui, signor Martín.——Piccolo, il mondo.—Cristina mi offrì un blando sorriso di ringraziamento e salì in macchina.—Mi dispiace per i libri.——Non è niente. Un po' di esercizio solleva il morale— dissi, ignorando il

groppo che mi si era formato alla schiena. —Saluti a don Pedro.—Li vidi partire verso plaza de Catalunya e quando mi voltai avvistai Sempere

sulla porta della libreria che mi guardava con un sorriso gattesco e mi faceva deicenni perché mi pulissi la bava. Avvicinandomi a lui, non potei fare a meno diridere di me stesso.

—Ora conosco il suo segreto, Martín. La facevo più esperto in questebattaglie.—

—Tutto si arrugginisce.——A chi lo dice. Posso tenermi il libro per qualche giorno?—Annuii.

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—Me lo tratti bene.—

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10

La rividi mesi dopo, in compagnia di Pedro Vidal, al tavolo che teneva sempreprenotato alla Maison Dorée. Vidal mi invitò a unirmi a loro, ma mi bastòscambiare uno sguardo con lei per capire che dovevo declinare l'offerta.

—Come va il romanzo, don Pedro?——Con il vento in poppa.——Ne sono contento. Buon appetito.—I nostri incontri erano fortuiti. A volte la vedevo nella libreria di Sempere e

Figli, dove andava spesso a cercare libri per don Pedro. Sempere, se ci riusciva,mi lasciava solo con lei, ma ben presto Cristina scoprì il trucco e mandava unodei garzoni di Villa Helius a ritirare le ordinazioni.

—Lo so che non sono affari miei— diceva Sempere. —Ma forse dovrebbetogliersela dalla testa.—

—Non so di cosa stia parlando, signor Sempere.——Martín, ci conosciamo da così tanto tempo… —I mesi passavano in controluce senza che me ne accorgessi. Vivevo di notte,

scrivendo dal tramonto all'alba e dormendo durante il giorno. Barrido edEscobillas non smettevano di congratularsi con me per il successo della Città deimaledetti e quando mi vedevano sull'orlo del collasso mi assicuravano che dopoun altro paio di romanzi mi avrebbero concesso un anno sabbatico per riposare oper scrivere un'opera personale che avrebbero pubblicato con grande strepito econ il mio vero nome in copertina a lettere cubitali. Mancavano sempre un altropaio di romanzi. Le fitte, le nausee e i mal di testa si facevano sempre piùfrequenti e più intensi, ma io li attribuivo alla fatica e li soffocavo con nuoveiniezioni di caffeina, sigarette e pastiglie di codeina e diosacché che mi fornivasottobanco un farmacista di calle Argenteria e che sapevano di polvere da sparo.Don Basilio, con il quale pranzavo un giovedì sì e uno no in un ristorante dellaBarceloneta, mi incitava ad andare da un medico. Io dicevo sempre di sì, e cheavevo un appuntamento per quella settimana stessa.

A parte il mio ex capo e i Sempere, non avevo troppo tempo per vedere altrepersone se non Vidal, e quando succedeva era perché lui veniva a trovarmi piùche per mia iniziativa. Non gli piaceva la casa della torre e insisteva sempreperché andassimo a fare una passeggiata fino al bar Almirall in calle JoaquimCosta, dove aveva il conto aperto e un circolo letterario il venerdì sera, al qualenon mi invitava perché sapeva che tutti i partecipanti, poetastri frustrati eleccaculo che lo compiacevano nella speranza di un'elemosina, unaraccomandazione per qualche editore o una parola d'elogio con cui curare leferite della vanità, mi detestavano con una convinzione, un vigore e un impegnodi cui erano prive le loro imprese artistiche che il pubblico ignorante e fedifragoinsisteva a ignorare. Lì, a furia d'as-senzio e di sigari caraibici, mi parlava del suo

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romanzo, che non finiva mai, dei progetti di ritirarsi dalla sua vita ritirata e daisuoi amoreggiamenti e dalle sue conquiste, che erano sempre più giovani e nubiliquanto più lui diventava anziano.

—Non mi chiedi di Cristina— diceva, a volte, malizioso.—Cosa vuole che le chieda?——Se lei mi chiede di te.——Le chiede di me, don Pedro?——No.——Appunto.——A dire il vero l'altro giorno ti ha nominato.—Lo guardai negli occhi per vedere se mi stesse prendendo in giro.—E cos'ha detto?——Non ti piacerà.——Spari… ——Non ha usato queste parole, ma mi è sembrato di intendere che non ca-piva

come fai a prostituirti scrivendo feuilleton di mezza tacca per quella coppia diladri, e che stai gettando a mare il tuo talento e la tua gioventù.—

Fu come se Vidal mi avesse infilato un pugnale gelido nello stomaco.—È così che la pensa?—Vidal fece spallucce.—Allora per me può andarsene al diavolo.—Lavoravo tutti i giorni eccetto le domeniche, che passavo in giro per le strade

e concludevo quasi sempre in qualche cantina del Paralelo, dove non era difficiletrovare compagnia e affetto passeggero tra le braccia di un'anima solitaria e inattesa come la mia. Fino al mattino successivo, quando mi risvegliavo accanto alei e scoprivo un'estranea, non mi rendevo conto che le assomigliavano tutte, nelcolore dei capelli, nel modo di camminare, in un gesto o in uno sguardo. Prima opoi, per soffocare il silenzio tagliente degli addii, quelle signore di una notte michiedevano co-me mi guadagnavo da vivere, e quando la vanità mi tradiva edicevo di essere uno scrittore mi prendevano per bugiardo, perché nessuno avevasentito parlare di David Martín, anche se qualcuna, sì, sapeva chi era Ignatius B.Samson e conosceva per sentito dire La città dei maledetti. Col tempo cominciai adire che lavoravo nel palazzo della Dogana portuale delle Ata-razanas o che eroun praticante nello studio legale Say rach, Muntaner e Cruells.

Ricordo un pomeriggio in cui ero seduto al caffè dell'Ópera in compagnia diuna maestra di musica di nome Alicia che, sospettavo, stavo aiu-tando adimenticare qualcuno che non si lasciava dimenticare. Stavo per baciarla quandonotai il volto di Cristina dietro il vetro. Quando uscii in strada, si era già perduta trala folla delle Ramblas. Due settimane dopo, Vidal insistette a invitarmi alla primadella Madame Butterfly al Liceo. La famiglia Vidal era proprietaria di un palco alprimo piano e a Vidal piaceva andarci per tutta la stagione con periodicità

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settimanale. Incontrandolo nella hall, scoprii che aveva portato anche Cristina.Lei mi salutò con un sorriso glaciale e non mi rivolse più la parola né lo sguardo,finché Vidal, a metà del secondo atto, decise di scendere al circolo per salutareuno dei suoi cugini e ci lasciò soli nel palco, l'uno contro l'altra, senza altro scudose non Puccini e centinaia di volti nella penombra del teatro. Resistetti una decinadi minuti prima di girarmi a guardarla negli occhi.

—Ho fatto qualcosa che l'ha offesa?— domandai.—No.——Allora possiamo fingere di essere amici, almeno in occasioni come questa?

——Io non voglio essere amica sua, David.——Perché no?——Perché neanche lei vuole essere mio amico.—Aveva ragione, non volevo essere suo amico.—È vero che pensa che mi prostituisco?——Quello che penso io non conta. L'importante è quello che pensa lei.—Rimasi lì altri cinque minuti e poi mi alzai e me ne andai senza una parola.

Arrivato alla grande scalinata del Liceo, già mi ero ripromesso di non dedicarlemai più un pensiero, uno sguardo o una parola gentile.

Il giorno dopo la incontrai di fronte alla cattedrale e quando feci per evi-tarlami salutò con la mano e mi sorrise. Restai immobile, vedendola avvicinarsi.

—Non mi invita a bere qualcosa?——Sto battendo e non mi libero prima di due ore.——Allora lasci che la inviti io. Quanto prende per accompagnare una signora

per un'ora?—La seguii di malavoglia fino a una cioccolateria di calle Petritxol. Ordi-

nammo un paio di tazze di cioccolata calda e ci sedemmo uno di fronte all'altra inattesa di vedere chi avrebbe aperto bocca per primo. Per una volta, vinsi io.

—Ieri non volevo offenderla, David. Non so cosa le ha raccontato don Pedro,ma io non ho mai detto quelle cose.—

—Forse le pensa soltanto, per questo don Pedro me le dice.——Lei non ha idea di quello che penso— replicò con asprezza. —E nemmeno

don Pedro.—Mi strinsi nelle spalle.—D'accordo.——Ho detto qualcosa di molto diverso. Ho detto che lei non faceva quello che

sentiva.—Sorrisi, annuendo. L'unica cosa che sentivo in quel momento era il desiderio

di baciarla. Cristina sostenne il mio sguardo, con aria di sfida. Non allontanò ilviso quando allungai la mano e le accarezzai le labbra, facendo scivolare le ditalungo il mento e il collo.

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—Così no— disse alla fine.Quando il cameriere ci portò le due tazze fumanti, se n'era già andata.Passarono mesi senza che sentissi di nuovo il suo nome.Un giorno di fine settembre in cui avevo appena terminato una nuova puntata

della Città dei maledetti, decisi di prendermi la serata libera. Intuivo che siavvicinava una di quelle tormente di nausee e pugnalate di fuoco nel cervello.Inghiottii una manciata di pastiglie di codeina e mi stesi sul letto al buio in attesache passassero quel sudore freddo e quel tremito alle mani. Stavo peraddormentarmi quando sentii suonare alla porta. Mi trascinai all'ingresso e aprii.Vidal, in uno dei suoi impeccabili completi di se-ta italiana, accendeva unasigaretta sotto un fascio di luce che Vermeer in persona sembrava aver dipintoper lui.

—Sei vivo o parlo con un fantasma?— domandò—Non mi dica che è venuto fin qui da Villa Helius per dirmi questo.——No. Sono venuto perché da mesi non so niente di te e sono preoccupato.

Perché non fai mettere il telefono in questo mausoleo, come le persone normali?—

—Non mi piacciono i telefoni. Mi piace vedere la faccia delle personequando mi parlano, e che loro vedano la mia.—

—Nel tuo caso non so se questa è una buona idea. Ultimamente ti sei guardatoallo specchio?—

—Questa è la sua specialità, don Pedro.——C'è gente all'obitorio del Clinic con un colore migliore in faccia. Su, vestiti.

——Perché?——Perché lo dico io. Facciamo una passeggiata.—Vidal non accettò rifiuti né proteste. Mi trascinò fino alla macchina che

aspettava sul paseo del Born e fece cenno a Manuel di partire.—Dove andiamo?— chiesi.—Sorpresa.—Attraversammo tutta Barcellona fino all'avenida Pedralbes e iniziammo a

salire lungo il fianco della collina. Qualche minuto dopo avvistammo Villa Helius,con tutti i finestroni accesi che proiettavano una bolla d'oro rovente sulcrepuscolo. Vidal non si sbottonava e mi sorrideva misterioso.

Arrivati a casa, mi fece cenno di seguirlo e mi condusse nel salone. Ungruppo di persone era in attesa e, quando mi vide, applaudì. Riconobbi donBasilio, Cristina, Sempere padre e figlio, la mia ex maestra donna Mariana,alcuni autori che pubblicavano con me da Barrido ed Escobillas e con cui avevofatto amicizia, Manuel, che si era unito al gruppo, e qualcuna delle conquiste diVidal. Don Pedro mi tese una coppa di champagne e sorrise.

—Auguri per il tuo ventottesimo compleanno, David.—

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Non me ne ero ricordato.Al termine della cena mi scusai per uscire un istante in giardino a prendere

aria. Un cielo stellato stendeva un velo d'argento sugli alberi. Era trascorsoappena un minuto quando sentii dei passi che si avvicinavano e mi girai pertrovarmi di fronte l'ultima persona che mi aspettavo di vedere in quel momento,Cristina Sagnier. Mi sorrise, quasi a scusarsi per l'intrusio-ne.

—Pedro non sa che sono uscita per parlare con lei— disse.Notai che non usava più il « don» , ma feci finta di nulla.—Mi piacerebbe parlare con lei, David— disse. —Ma non ora, non qui.—Nemmeno la penombra del giardino riuscì a nascondere il mio sconcerto.—Possiamo vederci domani, da qualche parte?— domandò. —Le prometto di

non rubarle troppo tempo.——A una condizione— dissi. —Che non mi dia più del lei. I compleanni già

invecchiano abbastanza.—Cristina sorrise.—D'accordo. Le do del tu se lo fa anche lei.——Dare del tu è una delle mie specialità. Dove vuoi che ci vediamo?——Possiamo fare a casa tua? Non voglio che nessuno ci veda né che Pedro

sappia che ho parlato con te.——Come vuoi… —Cristina sorrise, sollevata.—Grazie. Allora a domani? Nel pomeriggio?——Quando vuoi. Sai dove abito?——Mio padre lo sa.—Si chinò lievemente e mi baciò sulla guancia.—Buon compleanno, David.—Prima che potessi dire una parola, era svanita nel giardino. Quando tornai nel

salone, se n'era già andata. Vidal mi lanciò uno sguardo freddo dall'estremitàdella stanza e solo dopo essersi accorto che l'avevo visto sorrise.

Un'ora dopo Manuel, con il beneplacito di Vidal, insistette peraccompagnarmi a casa con l'Hispano-Suiza. Mi sedetti al suo fianco, comesempre quando viaggiavo da solo con lui, e l'autista ne approfittava per spiegarmitrucchi di guida e, senza che Vidal lo sapesse, lasciava perfino che mi mettessi unpo' al volante. Quella sera l'autista era più taciturno del solito e non aprì boccafino a quando non arrivammo in centro. Era più magro dell'ultima volta chel'avevo visto e mi parve che l'età iniziasse a chiedergli il conto.

—Succede qualcosa, Manuel?— domandai.L'autista fece spallucce.—Niente d'importante, signor Martín.——Se qualcosa la preoccupa… ——Sciocchezze di salute. Alla mia età, sono tutte piccole preoccupazioni, lo sa.

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Ma ormai non hanno più importanza. L'importante è mia figlia.—Non seppi bene cosa rispondere e mi limitai ad annuire.—So che le è affezionato, signor Martín. Alla mia Cristina. Un padre le vede,

queste cose.—Annuii di nuovo, in silenzio. Non scambiammo più parola fin quando Manuel

fermò la macchina in calle Flassaders, mi strinse la mano e mi augurò di nuovobuon compleanno.

—Se dovesse succedermi qualcosa— disse allora —lei l'aiuterebbe, verosignor Martín? Farebbe questo per me?—

—Certo, Manuel. Ma cosa dovrebbe succederle?—L'autista sorrise e mi salutò. Lo vidi salire in macchina e allontanarsi

lentamente. Non ne ebbi la certezza assoluta, ma avrei giurato che, dopo tuttaquella strada quasi senza aprire bocca, ora stesse parlando da solo.

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11

Passai tutta la mattina aggirandomi per la casa, sistemando e mettendo in ordine,arieggiando e pulendo oggetti e angoli che non ricordavo nemmeno cheesistessero. Scesi di corsa da una fioraia del mercato e quando tornai carico dimazzi di fiori mi accorsi che non ricordavo dove avevo nascosto i vasi in cuimetterli. Mi vestii come se dovessi uscire in cerca di lavoro.

Provai parole e saluti che mi suonavano ridicoli. Mi guardai allo specchio evidi che Vidal aveva ragione, sembravo un vampiro. Alla fine mi sedetti su unapoltrona in salotto ad aspettare con un libro in mano. In due ore, non andai oltre laprima pagina. Finalmente, alle quattro in punto, sentii i passi di Cristina sulle scalee mi alzai di scatto. Quando suonò alla porta, ero già lì da un'eternità.

—Ciao, David. È un brutto momento?——No, no. Al contrario. Prego, entra.—Cristina sorrise cortese e si addentrò nel corridoio. La guidai fino all'angolo di

lettura del salotto e la invitai a sedersi. Il suo sguardo esaminava tutto conattenzione.

—È un posto molto particolare— disse. —Pedro me l'aveva detto che aveviuna casa gentilizia.—

—Lui preferisce il termine « tetra» , ma suppongo sia questione di sfumatu-re.—

—Posso chiederti perché sei venuto ad abitare qui? È una casa un po'grande per uno che vive da solo.—Uno che vive da solo, pensai. Si finisce per diventare ciò che si vede negli

occhi di quelli che si desiderano.—La verità?— chiesi. —Sono venuto a vivere qui perché per molti anni ho

visto questa casa tutti i giorni mentre andavo e venivo dal giornale. Era semprechiusa e alla fine ho cominciato a pensare che aspettasse proprio me. Ho finitoletteralmente per sognare che un giorno ci sarei venuto ad abitare. E così è stato.—

—Tutti i tuoi sogni diventano realtà, David?—Quel tono ironico mi ricordava troppo Vidal.—No— risposi. —Questo è l'unico. Ma tu volevi parlarmi di qualcosa e io ti

sto intrattenendo con storie che sicuramente non ti interessano.—Il mio tono suonò più sulla difensiva di quanto avessi desiderato. Con il

desiderio, mi capitava come con i fiori: una volta che l'avevo tra le mani, nonsapevo dove metterlo.

—Volevo parlarti di Pedro— iniziò Cristina.—Ah.——Tu sei il suo migliore amico. Lo conosci. Parla di te come di un figlio.Ti vuole bene come a nessuno. Lo sai.—

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—Don Pedro mi ha trattato come un figlio— dissi. —Se non fosse stato per luie per il signor Sempere non so cosa ne sarebbe stato di me.—

—Il motivo per cui volevo parlarti è che sono molto preoccupata per lui.——Perché?——Sai che da qualche anno ho cominciato a lavorare per lui come segretaria.

La verità è che Pedro è un uomo generoso e abbiamo finito per diventare buoniamici. Si è comportato molto bene con mio padre e con me.

Perciò mi fa male vederlo così.——Così come?——È quel maledetto libro, il romanzo che vuole scrivere.——Sono anni che ci lavora.——Sono anni che lo distrugge. Io correggo e batto a macchina tutte le sue

pagine. Negli anni in cui sono stata la sua segretaria ne ha distrutte non meno diduemila. Dice che non ha talento. Che è un buffone. Beve in con-tinuazione. Avolte lo trovo nel suo ufficio, là in alto, ubriaco, che piange come un bambino…—

Deglutii.—Dice che ti invidia, che vorrebbe essere come te, che la gente mente e lo

elogia perché vuole qualcosa da lui, soldi, aiuto, ma lui sa che la sua opera non haalcun valore. Con gli altri mantiene la facciata, i vestiti e tutto il resto, ma io lovedo ogni giorno e si sta spegnendo. A volte ho paura che faccia una stupidaggine.È così già da molto. Non ho detto nulla perché non sapevo con chi parlarne. Soche se lui scoprisse che sono venuta da te si arrabbierebbe. Mi dice sempre: nonscocciare David con le mie cose.

Lui ha la vita davanti e io non sono più nulla. Dice sempre cose del genere.Scusa se ti racconto tutto questo, ma non sapevo a chi rivolgermi… —Sprofondammo in un lungo silenzio. Sentii che mi invadeva un freddo intenso,

la certezza che mentre l'uomo al quale dovevo la vita era immerso nelladisperazione, io, rinchiuso nel mio mondo, non mi ero fermato nemmeno unattimo per accorgermene.

—Forse non sarei dovuta venire.——No— dissi. —Hai fatto bene.—Cristina mi guardò con un sorriso mite e, per la prima volta, ebbi

l'impressione di non essere un estraneo per lei.—Cosa facciamo?— chiese.—Lo aiutiamo— dissi.—E se non vuole?——Allora lo faremo senza che se ne accorga.—

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12

Non saprò mai se lo feci per aiutare Vidal, come ripetevo a me stesso, osemplicemente al fine di avere una scusa per passare del tempo accanto aCristina. Ci incontravamo quasi tutti i pomeriggi nella casa della torre.

Cristina portava le cartelle che Vidal aveva scritto a mano il giorno prima,sempre zeppe di cancellature, interi paragrafi eliminati, annotazioni dappertutto emille e uno tentativi di salvare l'insalvabile. Salivamo in studio e ci sedevamo aterra. Cristina le leggeva una prima volta a voce alta e poi ne discutevamo alungo. Il mio mentore stava cercando di scrivere una sorta di saga epica cheabbracciava tre generazioni di una dinastia barcellonese non molto diversa daiVidal. L'azione prendeva le mosse qualche anno prima della rivoluzioneindustriale con l'arrivo di due fratelli orfani in città ed evolveva in una specie diparabola biblica tipo Caino e Abele. Uno dei due fratelli finiva per diventare il piùricco e potente magnate dell'epoca e l'altro si dedicava alla Chiesa e alle operecaritatevoli, per poi finire tragi-camente i suoi giorni in un episodio che alludevaalle disavventure del sacerdote e poeta don Jacint Verdaguer. Nel corso delle lorovite, i fratelli si scontravano e un'interminabile galleria di personaggi sfilava pertorridi melodrammi, scandali, assassinii, amori illeciti, tragedie e altri requisiti delgenere, il tutto ambientato sullo sfondo della nascita della metropoli mo-derna edel mondo industriale e finanziario. La voce narrante del romanzo era un nipotedi uno dei due fratelli, che ricostruiva la storia mentre contemplava la città infiamme da un palazzo di Pedralbes nei giorni della Settimana Tragica del 1909.

La prima cosa che mi sorprese fu che quella trama l'avevo abbozzata io aVidal un paio di anni prima, a mo' di suggerimento affinché iniziasse il suopresunto romanzo serio, quello che diceva sempre di voler scrivere un giorno. Laseconda fu che non mi avesse mai detto di aver deciso di utiliz-zarla né di avercigià investito due anni, e non per mancanza di occasioni.

La terza fu che il romanzo, così com'era, era un completo e monumentalefiasco in cui non funzionava nulla, a cominciare dai personaggi e dalla struttura,passando per l'ambientazione e i dialoghi per finire con un linguaggio e uno stileche facevano pensare agli sforzi di un dilettante con tante pretese e un mucchio ditempo libero.

—Cosa te ne pare?— chiedeva Cristina. —Credi che si possa sistemare?—Preferii non dirle che Vidal aveva preso in prestito da me i presupposti del

romanzo e, con l'intenzione di non farla preoccupare più di quanto già non fosse,sorrisi e annuii.

—Bisogna lavorarci un po'. Tutto qui.—Quando iniziava ad annottare, Cristina si sedeva alla macchina e insieme

riscrivevamo il libro di Vidal lettera per lettera, rigo per rigo, scena per scena.La trama elaborata da Vidal era così vaga e insulsa che scelsi di recuperare

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quella che avevo improvvisato nel suggerirgli l'idea. Lentamente iniziammo aresuscitare i personaggi reinventandoli dall'interno e rifacendoli dalla testa aipiedi. Non una sola scena, momento, frase o parola sopravviveva a quelprocedimento e tuttavia, a mano a mano che avanzavamo, avevo l'impressione direndere giustizia al romanzo che Vidal aveva in animo e che si era ripromesso discrivere, ma senza sapere come.

Cristina mi diceva che, a volte, Vidal, settimane dopo aver creduto di averescritto una scena, la rileggeva nella versione finale dattiloscritta e si sorprendevadel proprio raffinato mestiere e della pienezza di un talento nel quale avevasmesso di credere. Cristina temeva che scoprisse quello che stavamo facendo ediceva che dovevamo essere più fedeli all'originale.

—Non sottovalutare mai la vanità di uno scrittore, specie di uno scrittoremediocre— replicavo.

—Non mi piace sentirti parlare così di Pedro.——Nemmeno a me. Scusa.——Forse dovresti rallentare un po' il ritmo. Non hai un bell'aspetto. Non mi

preoccupa più Pedro, adesso sei tu a preoccuparmi.——Da tutto questo, qualcosa di buono doveva pur venire.—Col tempo mi abituai a vivere per assaporare quegli istanti che condivi-devo

con lei. Il mio lavoro non tardò a risentirne. Trovavo il tempo per lavorare allaCittà dei maledetti dove non c'era, dormendo a stento tre ore al giorno espingendo al massimo per rispettare le scadenze del mio contratto.

Barrido ed Escobillas avevano per norma di non leggere nessun libro, néquelli pubblicati da loro né quelli della concorrenza, ma la Veleno sì che lileggeva e ben presto cominciò a sospettare che mi stesse succedendo qualcosa distrano.

—Questo non sei tu— diceva a volte.—Certo che non sono io, cara Herminia. È Ignatius B. Samson.—Ero consapevole del rischio che mi ero assunto, ma non m'importava.Non m'importava svegliarmi ogni giorno madido di sudore con il cuore che

batteva come se mi stesse per spezzare le costole. Avrei pagato quel prezzo emolto di più per non rinunciare a quel contatto lento e segreto che senza volerlo citrasformava in complici. Sapevo perfettamente che Cristina lo vedeva nei mieiocchi ogni volta che veniva da me, e sapevo perfettamente che non avrebbe mairisposto ai miei segnali. Non c'erano futuro né grandi speranze in quella corsaverso nessun posto, e lo sapevamo entrambi.

A volte, stanchi dei tentativi di far galleggiare quella nave che faceva acquada tutte le parti, abbandonavamo il manoscritto di Vidal e ci arri-schiavamo aparlare di qualcosa che non fosse quella prossimità che a furia di nascondersicominciava a bruciare nella coscienza. A volte mi armavo di coraggio e leprendevo la mano. Lei mi lasciava fare, ma io sapevo di metterla a disagio:

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sentiva che quello che facevamo non stava bene, che il debito di gratitudine versoVidal ci univa e ci separava allo stesso tempo.

Una sera, poco prima che se ne andasse, le presi il viso e cercai di baciarla.Rimase immobile e quando mi vidi allo specchio del suo sguardo non osai dire

nulla. Si alzò e se ne andò senza aprire bocca. Non la vidi per due settimane equando tornò mi fece promettere che non sarebbe più successo niente del genere.

—David, voglio che tu capisca che quando avremo finito di lavorare al librodi Pedro non ci vedremo più come adesso.—

—Perché no?——Lo sai, il perché.—Le mie avances non erano l'unica cosa che Cristina non vedeva di buon

occhio. Iniziavo a sospettare che Vidal avesse ragione quando mi aveva ri-feritoche non le piacevano i libri che scrivevo per Barrido ed Escobillas, anche se nonlo diceva. Non faticavo a immaginarla mentre pensava che il mio era unimpegno mercenario e senz'anima, che stavo vendendo la mia integrità incambio di un'elemosina per arricchire quella coppia di topi di fogna perché nonavevo il coraggio di scrivere con il cuore, con il mio nome e i miei verisentimenti. Quello che più mi faceva male era che, in fondo, aveva ragione.Fantasticavo sull'idea di disdire il contratto, di scrivere un libro solo per lei con cuiguadagnarmi il suo rispetto. Se nell'unica cosa che sapevo fare non eroabbastanza bravo per lei, forse era meglio tornare ai giorni grigi e miserabili delgiornale. Avrei sempre potuto vivere della carità e dei favori di Vidal.

Ero uscito a passeggiare dopo una lunga notte di lavoro, incapace di prenderesonno. Senza meta prefissata, i miei passi mi guidarono fin su al cantiere deltempio della Sagrada Familia. Da piccolo, mio padre a volte mi ci aveva portatoper contemplare quella babele di sculture e porticati che non riusciva mai aspiccare il volo, come se fosse maledetta. Mi piaceva tornare a vederla everificare che non era cambiata: la città non smetteva di crescerle attorno, ma laSagrada Familia rimaneva in rovina fin dal primo giorno.

Quando arrivai, spuntava un'alba azzurra falciata da luci rosse che profilavale torri della facciata della Nativitat. Un vento dall'est trascinava la polvere dellestrade non selciate e l'odore acido delle fabbriche che punteggiavano la frontieradel quartiere di Sant Marti. Stavo attraversando calle Mallorca quando vidi le lucidi un tram che si avvicinava nella nebbiolina dell'alba. Sentii lo sferragliare delleruote sui binari e il rintocco della campana che il conducente faceva suonare peravvisare del suo passaggio tra le ombre. Cercai di correre, ma non ci riuscii.Rimasi piantato lì, immobile tra i binari a guardare le luci del tram che silanciavano su di me.

Sentii le urla del conducente e vidi la scia di scintille sprigionate dalle ruotequando si bloccarono i freni. E perfino allora, con la morte a pochi metri, nonriuscii a muovere un muscolo. Sentii l'odore di elettricità che accompagnava la

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luce bianca da cui venni abbagliato finché il faro del tram non si velò. Miaccasciai a terra come un fantoccio, conservando i sensi appena per qualcheattimo, quanto bastava per vedere che la ruota del tram, fumante, si fermava auna ventina di centimetri dalla mia faccia. Poi tutto fu oscurità.

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Aprii gli occhi. Colonne di pietra spesse come alberi salivano nella penombraverso una volta spoglia. Aghi di luce polverosa cadevano in dia-gonale elasciavano intravedere file interminabili di brande. Piccole gocce d'acqua sistaccavano dall'alto come lacrime scure che esplodevano risuo-nando a terra. Lapenombra odorava di muffa e di umidità.

—Benvenuto in purgatorio.—Mi alzai e nel voltarmi scoprii un uomo vestito di stracci che leggeva un

giornale alla luce di una lanterna e brandiva un sorriso a cui mancava la metà deidenti. La prima pagina del quotidiano che stava leggendo annunciava che ilgenerale Primo de Rivera assumeva i pieni poteri e inaugurava una dittatura inguanti di velluto per salvare il paese dall'imminente eca-tombe. Quel giornaleaveva almeno sei anni.

—Dove sono?—L'uomo mi guardò da sopra il giornale, intrigato.—All'hotel Ritz. Non lo sente nell'aria?——Come sono arrivato qui?——Come un cencio. L'hanno portata stamattina in barella e da allora sta

smaltendo la sbornia.—Mi tastai la giacca e constatai che tutti i soldi che avevo erano spariti.—Come va il mondo— esclamò l'uomo leggendo le notizie del suo giornale.

—Si sa che, nelle fasi più avanzate del cretinismo, la mancanza d'idee vienecompensata dall'eccesso di ideologie.—

—Come si esce di qui?——Se ha tanta fretta… Ci sono due modi, quello permanente e quello

temporaneo. Quello permanente è dal tetto: un bel salto e si libera per sempre datutta questa schifezza. L'uscita temporanea è lì in fondo, dove c'è quelrimbambito col pugno alzato a cui cadono i pantaloni e che fa il salutorivoluzionario a chiunque passa. Ma se esce di là, prima o poi tornerà qui.—

—È stato lei a derubarmi?——Il dubbio offende. Quando l'hanno portata qui, lei era già pulito come uno

specchio e io accetto solo titoli quotati in borsa.—Lasciai quel lunatico sulla sua branda con il suo giornale in ritardo e i suoi

discorsi in anticipo. La testa mi girava ancora e a stento ero in grado di farequattro passi in linea retta, ma riuscii ad arrivare a una porta su uno dei lati dellagrande volta che dava su una scalinata. Un tenue chiarore sembrava filtrare dallasommità. Salii per quattro o cinque piani finché sentii una ventata d'aria frescache entrava da un portellone alla fine delle scale. Uscii all'esterno e finalmentecapii dove ero andato a finire.

Davanti a me si stendeva un lago sospeso sul bosco del Parque de la

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Ciudadela. Il sole stava per tramontare sulla città e le acque coperte di algheondeggiavano come vino versato. Il Depósito de las Aguas aveva l'aspetto di unrozzo castello o di una prigione. Era stato costruito per riforni-re d'acqua ipadiglioni dell'Esposizione Universale del 1888, ma col tempo il suo ventre dicattedrale laica aveva finito per servire da rifugio a mori-bondi e indigenti senzaaltri posti dove andare quando incalzavano la notte o il freddo. Il grande bacinoartificiale sul tetto si era trasformato in un la-go melmoso e torbido che sidissanguava lentamente attraverso le crepe dell'edificio.

Fu allora che notai la figura appostata a una delle estremità della terrazza.Come se il semplice sfioramento del mio sguardo l'avesse allertato, si giròbruscamente e mi fissò. Mi sentivo ancora un po' stordito e avevo la vistaannebbiata, ma mi parve di vedere che la figura si stava avvicinando.

Lo faceva troppo in fretta, come se i piedi non toccassero terra mentrecamminava e si spostasse con strattoni bruschi e troppo agili per essere colti dagliocchi. Potevo a stento scorgerne il volto in controluce, ma riuscii a vedere che sitrattava di un signore dagli occhi neri e brillanti che sembravano troppo grandiper il suo volto. Più si avvicinava, più avevo l'impressione che il suo profilo siallungasse e crescesse di statura. Mentre avanzava, provai un brivido e arretrai diqualche passo senza accorgermi che mi stavo dirigendo verso il bordo del lago.Sentii i piedi perdere la presa e stavo già per cadere di spalle nelle acque scurequando lo sconosciuto mi sostenne per il braccio. Mi tirò con delicatezza e miguidò verso un terreno sicuro. Mi sedetti su una delle panchine che circondavanola cisterna e respirai a fondo. Alzai lo sguardo e lo vidi chiaramente per la primavolta. Gli occhi erano di dimensioni normali, la statura uguale alla mia, i passi e igesti quelli di un signore come chiunque altro. Aveva un'espressione cortese etranquillizzante.

—Grazie— dissi.—Sta bene?——Sì. È solo un giramento di testa.—Lo sconosciuto si sedette accanto a me. Indossava un vestito scuro a tre pezzi

di fattura raffinata e adornato da una piccola spilla d'argento sul risvolto dellagiacca, un angelo ad ali spiegate che mi risultò stranamente familiare. Mi vennein mente che la presenza di un gentiluomo dall'abbigliamento impeccabile su queltetto era un po' inusuale. Come se potesse leggermi nel pensiero, lo sconosciutomi sorrise.

—Spero di non averla allarmata— disse. —Immagino che non si aspettasse ditrovare qualcuno qui su.—

Lo guardai, perplesso. Vidi il riflesso del mio viso nelle sue pupille nere, che sidilatavano come una macchia d'inchiostro sulla carta.

—Posso chiederle cosa l'ha portata qui?——La stessa cosa che ha portato lei: grandi speranze.—

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—Andreas Corelli— mormorai.Gli s'illuminò il viso.—Che gran piacere poterla salutare finalmente di persona, amico mio.—Parlava con un leggero accento che non seppi individuare. Il mio istinto mi

diceva di alzarmi e andarmene in tutta fretta prima che lo sconosciutopronunciasse ancora una sola parola, ma c'era qualcosa nella sua voce, nel suosguardo, che trasmetteva serenità e fiducia. Preferii non chiedermi co-me avevafatto a sapere che mi avrebbe trovato lì se nemmeno io sapevo dov'ero. Miconfortavano il suono delle sue parole e la luce dei suoi occhi.

Mi tese la mano e gliela strinsi. Il suo sorriso prometteva un paradiso perduto.—Immagino di doverla ringraziare per tutte le gentilezze che ha avuto nei

miei riguardi nel corso degli anni, signor Corelli. Temo di essere in debito con lei.—

—Assolutamente no. Sono io a essere in debito, amico mio, e a dovermiscusare per averla abbordata in questo modo, in un luogo e in un momento cosìsconvenienti, ma confesso che da tempo volevo parlarle e non trovavol'occasione.—

—Mi dica, allora. Cosa posso fare per lei?— domandai.—Voglio che lavori per me.——Prego?——Voglio che scriva per me.——Certo. Dimenticavo che lei è un editore.—L'uomo rise. Aveva una risata dolce, da bambino che non ha mai rotto un

piatto.—Il migliore. L'editore che lei aspettava da una vita. L'editore che la renderà

immortale.—Mi tese uno dei suoi biglietti da visita, identico a quello che ancora conservavo

e che mi ero ritrovato fra le mani al risveglio dal mio sogno con Chloé.ANDREAS CORELLIÉditeurÉditions de la LumièreBoulevard St.—Germain, 69. Paris—Mi sento lusingato, signor Corelli, ma temo di non poter accettare il suo

invito. Ho un contratto con… ——Barrido ed Escobillas, lo so. Gentaglia con cui, senza offesa, non dovrebbe

avere alcun rapporto.——È un'opinione condivisa da altre persone.——La signorina Sagnier, forse?——La conosce?——Di nome. Sembra il tipo di donna per il cui rispetto e la cui ammirazione si

farebbe qualunque cosa, non è vero? E la signorina non la spinge a lasciare quella

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coppia di parassiti e a essere fedele a se stesso?——Non è così semplice. Ho un contratto che mi lega in esclusiva a loro per

altri sei anni.——Lo so, ma non dovrebbe preoccuparsene. I miei avvocati stanno studiando

la questione e le assicuro che ci sono diverse formule per scioglieredefinitivamente qualsiasi vincolo legale, nel caso lei volesse accettare la miaproposta.—

—E la sua proposta è?—Corelli sorrise con aria allegra e maliziosa, come un ragazzino che gode a

svelare un segreto.—Che mi dedichi un anno in esclusiva per lavorare a un libro su

commissione, un libro la cui tematica discuteremmo lei e io alla firma delcontratto e per il quale le pagherei, in anticipo, la somma di centomila franchi.—

Lo guardai, attonito.—Se questa somma non le sembra adeguata sono pronto a considerare quella

che riterrà opportuna. Sarò sincero, signor Martín: non litigherò con lei per ildenaro. E, in confidenza, credo che nemmeno lei vorrà farlo, perché so chequando le spiegherò il tipo di libro che vorrei scrivesse per me, il prezzo sarà lacosa meno importante.—

Sospirai e risi tra me e me.—Vedo che non mi crede.——Signor Corelli, sono un autore di romanzi d'avventura che non firmo

nemmeno con il mio nome. I miei editori, che a quanto pare lei conosce, sonouna coppia di truffatori di mezza tacca che non valgono il loro peso in sterco, e imiei lettori non sanno neppure che esisto. Sono anni che mi guadagno la vita conquesto mestiere e ancora non ho scritto una pagina di cui mi senta soddisfatto. Ladonna che amo crede che sto sprecando la vita e ha ragione. Crede anche chenon ho il diritto di desiderarla, che siamo una coppia di anime insignificanti la cuiunica ragion d'essere è il debito di gratitudine verso un uomo che ci ha toltientrambi dalla miseria, e forse ha ragione anche su questo. Poco importa.Quando meno me l'aspetto compi-rò trent'anni e mi accorgerò che ogni giornoche passa assomiglio meno al-la persona che volevo essere quando ne avevoquindici. Se ci arrivo, perché la mia salute ultimamente è buona quasi quanto ilmio lavoro. Oggi come oggi, se sono in grado di mettere insieme due o tre frasileggibili all'ora mi ritengo soddisfatto. Questa è la specie di autore e di uomo chesono. Non di quelli che ricevono visite da editori parigini con assegni in bianco perscrivere il libro che cambierà la loro vita e trasformerà in realtà tutte le lorosperanze.—

Corelli mi osservò con aria grave, soppesando le mie parole.—Credo che lei sia un giudice troppo severo con se stesso, e questa è sempre

una qualità che distingue le persone di valore. Mi creda se le dico che nella mia

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carriera ho avuto a che fare con un'infinità di personaggi che non valevano unsuo sputo ma avevano un'altissima considerazione di se stessi. Voglio che sappia,anche se non mi crede, che so esattamente che tipo di autore e di uomo è lei.Sono anni che la seguo, lo sa. Ho letto dal primo racconto che ha scritto per « LaVoz de la Industria» alla serie dei Misteri di Barcellona e adesso tutte le puntatedella serie di Ignatius B.

Samson. Oserei dire che la conosco meglio di quanto si conosca lei. Perquesto so che, alla fine, accetterà la mia offerta.—

—Cos'altro sa?——So che abbiamo qualcosa, o molto, in comune. So che ha perso suo padre, e

anch'io. So cosa significa perdere un padre quando ancora se ne ha bisogno. Ilsuo le è stato strappato in circostanze tragiche. Il mio, per motivi che non è il casodi approfondire, mi ha ripudiato e cacciato di casa.

Direi quasi che questo può essere più doloroso. So che si sente solo, e micreda se le dico che anche questo è un sentimento che conosco in profondità. Soche alberga nel cuore grandi speranze, ma che nessuna di esse si è realizzata, e soche questo, senza che lei se ne renda conto, la sta ucciden-do un po' ogni giornoche passa.—

Alle sue parole seguì un lungo silenzio.—Lei sa molte cose, signor Corelli.——Abbastanza per pensare che mi piacerebbe conoscerla meglio ed essere

suo amico. E credo che lei non abbia molti amici. Io nemmeno. Non mi fi-dodella gente convinta di avere molti amici. È segno che non conosce gli altri.—

—Ma lei non cerca un amico, cerca un dipendente.——Cerco un socio temporaneo. Cerco lei.——È molto sicuro di sé— azzardai.—È un difetto congenito— replicò Corelli, alzandosi. —Un altro è la pre-

veggenza. Per questo capisco che forse è troppo presto per lei e che non le bastaascoltare la verità dalle mie labbra. Ha bisogno di vederla con i suoi occhi. Disentirla nella sua carne. E, mi creda, la sentirà.—

Mi tese la mano e non la ritrasse finché non gliela strinsi.—Posso almeno restare con la tranquillità di sapere che penserà a quello che

le ho detto e che ne riparleremo?— chiese.—Non so cosa dire, signor Corelli.——Non dica niente, adesso. Le prometto che la prossima volta che ci

incontreremo vedrà le cose molto più chiare.—Con queste parole mi sorrise cordialmente e si allontanò verso le scale.—Ci sarà una prossima volta?— domandai.Corelli si fermò e si voltò.—C'è sempre.——Dove?—

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Le ultime luci del giorno cadevano sulla città e i suoi occhi brillavano comebraci.

Lo vidi scomparire dalla porta delle scale. Solo allora mi resi conto che, pertutta la conversazione, non l'avevo visto nemmeno una volta sbattere le palpebre.

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Lo studio medico si trovava a un piano alto dal quale si vedevano il ma-re cheluccicava in lontananza e la discesa di calle Muntaner punteggiata di tram chescivolavano fino all'Ensanche tra grandi ville e palazzi signorili.

L'ambulatorio odorava di pulito. Le stanze erano decorate con gusto raffinato.I quadri erano tranquillizzanti e pieni di paesaggi di speranza e di pa-ce. Gliscaffali erano zeppi di libri imponenti che trasudavano autorità. Le infermiere simuovevano come ballerine e sorridevano quando passavano.

Era un purgatorio per tasche benestanti.—Il dottore riceve subito, signor Martín.—Il dottor Trias era un uomo dall'aria patrizia e dall'aspetto impeccabile che

trasmetteva serenità e fiducia con ogni gesto. Occhi grigi e penetranti dietroocchiali senza montatura. Sorriso cordiale e affabile, mai frivolo. Il dottor Triasera un uomo abituato a combattere con la morte, e più sorrideva, più facevapaura. Dal modo in cui mi fece entrare e sedere ebbi l'impressione che, sebbenequalche giorno prima, quando avevo iniziato a sot-topormi alle analisi, mi avesseparlato di recenti progressi scientifici e medici che permettevano di coltivaresperanze nella lotta contro i sintomi che gli avevo descritto, per quanto loriguardava non c'erano dubbi.

—Come sta?— domandò, esitante se guardare me o la cartellina sullascrivania.

—Me lo dica lei.—Mi rivolse un sorriso lieve, da buon giocatore.—Mi dice l'infermiera che lei è uno scrittore, anche se vedo qui che,

riempiendo il questionario d'ingresso, ha scritto di essere mercenario.——Nel mio caso non c'è nessuna differenza.——Credo che qualcuno dei miei pazienti sia un suo lettore.——Spero che il danno neurologico provocato non sia permanente.—Il dottore sorrise come se il mio commento gli sembrasse spiritoso e adottò un

atteggiamento più diretto che lasciava intendere che i cortesi e banaliprolegomeni della conversazione erano terminati.

—Signor Martín, vedo che è venuto da solo. Non ha parenti prossimi?Moglie? Fratelli? Genitori ancora in vita?——Questo suona un po' funebre— azzardai.—Signor Martín, non le dirò bugie. I risultati delle prime analisi non sono

incoraggianti quanto ci aspettavamo.—Lo guardai in silenzio. Non provavo paura né inquietudine. Non provavo nulla.—Tutto fa pensare che lei abbia un'escrescenza localizzata nel lobo sinistro

del cervello. I risultati confermano ciò che i sintomi che mi aveva descrittofacevano temere, e tutto sembra indicare che potrebbe trattarsi di un carcinoma.

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—Per qualche secondo fui incapace di dire alcunché. Non riuscii nemmeno a

fingere sorpresa.—Da quanto ce l'ho?——È impossibile saperlo con certezza, anche se mi spingerei a supporre che il

tumore si stia sviluppando da parecchio tempo, il che spiegherebbe i sintomi chemi ha descritto e le difficoltà incontrate ultimamente nel lavoro.—

Respirai a fondo, annuendo. Il dottore mi osservava con aria paziente ebenevola, lasciandomi prendere tempo. Cercai di iniziare varie frasi che nonriuscirono ad affiorarmi alle labbra. Alla fine i nostri sguardi si incontrarono.

—Suppongo di essere nelle sue mani, dottore. Mi dirà lei che cura devo fare.—

Vidi che gli occhi gli s'inondavano di sconforto: in quel momento si rendevaconto che non avevo voluto capire quello che mi stava dicendo. Annuii di nuovo,combattendo contro la nausea che iniziava ad assalirmi alla gola. Il dottore miversò un bicchiere d'acqua da una caraffa e me lo tese.

Lo svuotai in un sorso.—Non c'è cura— dissi.—C'è. Ci sono molte cose che possiamo fare per alleviare il dolore e per

garantirle la massima comodità e tranquillità… ——Ma morirò.——Sì.——Presto.——Probabilmente.—Sorrisi tra me. Perfino le peggiori notizie sono un sollievo quando non fanno

altro che confermare ciò che si sa già senza volerlo sapere.—Ho ventotto anni— dissi, senza sapere bene perché.—Mi dispiace, signor Martín. Vorrei poterle dare altre notizie.—Sentii che era come se alla fine avesse confessato una bugia o un peccato

veniale e che si era liberato d'un colpo del peso del rimorso.—Quanto tempo mi resta?——È difficile determinarlo con esattezza. Direi un anno, un anno e mezzo al

massimo.—Il tono faceva capire che si trattava di una prognosi più che ottimista.—E in quest'anno, o quello che sarà, quanto tempo crede che potrò

conservare la capacità di lavorare e badare a me stesso?——Lei è uno scrittore e lavora con il cervello. Purtroppo, però, è proprio lì che

è localizzato il problema ed è lì che cominceremo a trovarci di fronte a dellelimitazioni.—

—Limitazioni non è un termine medico, dottore.——Di solito, via via che la malattia avanza, i sintomi già sperimentati si

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manifesteranno con maggior intensità e frequenza. A partire da un determinatomomento, dovrà essere ricoverato in ospedale affinché possiamo prenderci curadi lei.—

—Non potrò scrivere.——Non potrà nemmeno pensarci, a scrivere.——Quanto tempo?——Non lo so. Nove o dieci mesi. Forse più, forse meno. Mi dispiace molto,

signor Martín.—Annuii e mi alzai. Mi tremavano le mani e mi mancava l'aria.—Signor Martín, capisco che ha bisogno di tempo per pensare a tutto quello

che le ho detto, ma è importante prendere provvedimenti prima possibile… ——Non posso morire, dottore. Non ancora. Ho delle cose da fare. Poi avrò

tutta la vita per morire.—

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Quella notte stessa salii allo studio nella torre e mi sedetti davanti alla macchinaper scrivere pur sapendo che l'ispirazione era esaurita. Le finestre eranospalancate, ma Barcellona non voleva raccontarmi più nulla e non fui in grado dicompletare una sola pagina. Quello che ero capace di evocare mi sembravabanale e vuoto. Mi bastava rileggerle per capire che le mie parole valevano astento l'inchiostro con cui erano scritte. Non riuscivo più a sentire la musicasprigionata da un brano di prosa decente. A poco a poco, come un veleno lento epiacevole, le parole di Andreas Corelli iniziarono a sgocciolare nei miei pensieri.

Mi restavano almeno cento pagine per terminare l'ennesima puntata dellerocambolesche avventure che tanto avevano gonfiato le tasche di Barrido edEscobillas, ma in quello stesso istante seppi che non l'avrei finita.

Ignatius B. Samson era rimasto steso sui binari davanti a quel tram, esausto,l'anima dissanguata in troppe pagine che non avrebbero mai dovuto vedere laluce. Tuttavia, prima di andarsene mi aveva lasciato le sue ultime volontà.Dovevo seppellirlo senza troppe cerimonie e, per una volta nella vita, dovevoavere il coraggio di usare la mia voce. Mi lasciava in eredità il suo considerevolearsenale di fumo e di specchi. E mi chiedeva di lasciarlo andare, perché lui eranato per essere dimenticato.

Presi le pagine già scritte del suo ultimo romanzo e diedi loro fuoco, sentendoche una specie di lapide mi si sollevava di dosso a ogni pagina che consegnavoalle fiamme. Una brezza calda e umida soffiava quella se-ra sui tetti: quandoentrò dalle finestre, si portò via le ceneri di Ignatius B.

Samson e le sparse nei vicoli della città vecchia da dove, per quanto le sueparole si fossero perdute per sempre e il suo nome fosse scivolato via dallamemoria dei suoi più devoti lettori, non si sarebbe mai più allontanato.

Il giorno dopo mi presentai nella sede di Barrido ed Escobillas. La segretariaall'ingresso era nuova, quasi una ragazzina, e non mi riconobbe.

—Il suo nome?——Hugo, Víctor.—La ragazza sorrise e inserì lo spinotto nel centralino per avvisare Herminia.—Donna Herminia, c'è qui don Hugo Víctor per il signor Barrido.—La vidi annuire e scollegare il centralino.—Dice che viene subito.——È da molto che lavori qui?——Una settimana— rispose sollecita la ragazza.Se i miei calcoli non erano errati, quella era l'ottava segretaria di Barrido ed

Escobillas dall'inizio dell'anno. Gli impiegati che dipendevano direttamentedall'astuta Herminia duravano poco perché la Veleno, quando scopriva chequalcuno aveva un po' più di cervello di lei e temeva che potesse farle ombra,

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cosa che accadeva nove volte su dieci, lo accusava di furto, rapina o di qualcheerrore assurdo e metteva su un rosario finché Escobillas lo cacciava in strada eminacciava di mandargli qualche sicario se per caso gli si scioglieva troppo lalingua.

—Sono contenta di vederti, David— disse la Veleno. —Ti trovo più bello.Hai un aspetto stupendo.——È che sono finito sotto a un tram. C'è Barrido?——Ma cosa dici? Per te c'è sempre. Sarà contentissimo quando gli dico che sei

venuto a trovarci.——Non ne hai idea.—La Veleno mi condusse nell'ufficio di Barrido, addobbato come la stanza di un

ministro da operetta, con profusione di tappeti, busti di imperatori, nature morte evolumi rilegati in pelle acquistati a peso le cui pagine, a quanto potevoimmaginare, dovevano essere completamente bianche. Barrido mi rivolse il piùuntuoso dei suoi sorrisi e mi strinse la mano.

—Siamo tutti impazienti di ricevere la nuova puntata. Sappia che stiamoripubblicando le ultime due e che ce le strappano di mano. Altre cinquemilacopie. Cosa gliene sembra?—

Mi sembrava che dovessero essere almeno cinquantamila, ma mi limitai adannuire senza entusiasmo. Barrido ed Escobillas avevano raffinato, al punto dafarne una composizione floreale, quella che fra gli editori barcellonesi era notacome doppia tiratura. Di ogni titolo si stampava un'edizione ufficiale dichiarandopoche migliaia di copie, per le quali veniva pagata una ridicola percentualeall'autore. Poi, se il libro funzionava, c'erano una o più edizioni reali e sotterraneedi decine di migliaia di copie che non venivano mai dichiarate e per le qualil'autore non vedeva nemmeno una peseta. Queste copie si distinguevano dalleprime perché Barrido le faceva stampare sottobanco in una vecchia fabbrica diinsaccati di Santa Perpètua de Mogoda e, se uno le sfogliava, sprigionavanoancora l'inconfondibile profumo del salame ben stagionato.

—Temo di avere brutte notizie.—Barrido e la Veleno si scambiarono un'occhiata senza smorzare il sorriso. In

quel momento, Escobillas si materializzò sulla porta e mi guardò con quell'ariadura e sgradevole con cui sembrava prenderti a occhio le misure per la bara.

—Guarda chi è venuto a trovarci. Che bella sorpresa, vero?— chiese Barridoal socio, che si limitò ad annuire.

—Quali brutte notizie?— domandò Escobillas.—Ha un po' di ritardo, amico Martín?— aggiunse Barrido amichevolmente.

—Sono sicuro che troveremo una soluzione… ——No. Niente ritardi. Semplicemente, non ci sarà il libro.—Escobillas fece un passo avanti e inarcò le sopracciglia. Barrido si lasciò

sfuggire una risatina.

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—Come sarebbe che non ci sarà il libro?— chiese Escobillas.—Ieri gli ho dato fuoco e non resta più nemmeno una pagina del manoscritto.

—Cadde un pesante silenzio. Barrido fece un gesto conciliante e indicò quella

che era nota come la poltrona dei visitatori, un trono nerastro e in-fossato in cuivenivano confinati autori e fornitori in modo che si trovasse-ro all'altezza dellosguardo di Barrido.

—Martín, si sieda e mi racconti. Qualcosa la preoccupa, si vede. Con noi puòaprirsi, è in famiglia.—

La Veleno ed Escobillas annuirono con convinzione, mostrando la portata delloro apprezzamento con uno sguardo di estatica devozione. Preferii restare inpiedi. Fecero tutti lo stesso e mi contemplarono come se fossi una statua di saleche da un momento all'altro si sarebbe messa a parlare. A Barrido facevanomale le mascelle a furia di sorridere.

—Allora?——Ignatius B. Samson si è suicidato. Ha lasciato un racconto inedito di venti

pagine in cui muore accanto a Chloé Permany er, abbracciati dopo aver ingeritoun veleno.—

—L'autore muore in uno dei suoi romanzi?— chiese Herminia, confusa.—È il suo addio d' avant-garde al mondo del romanzo a puntate. Un dettaglio

che ero sicuro vi sarebbe piaciuto moltissimo.——E non potrebbe esserci un antidoto o…?— domandò la Veleno.—Martín, non c'è bisogno che le ricordi che è lei, e non il presuntamente

defunto Ignatius, ad aver sottoscritto un contratto…— disse Escobillas.Barrido sollevò la mano per zittire il collega.—Credo di sapere cosa le succede, Martín. Lei è esaurito. Da anni si spreme

senza tregua le meningi, cosa che questa casa editrice apprezza e per cui le ègrata, e ha bisogno di un po' di respiro. Lo capiamo, vero?—

Barrido guardò Escobillas e la Veleno, che si affrettarono ad annuire confacce di circostanza.

—Lei è un artista e vuol fare arte, alta letteratura, qualcosa che le sgorghi dalcuore e inscriva il suo nome a lettere d'oro sui gradini della storia universale.—

—Come lo spiega lei, suona ridicolo— dissi.—Perché lo è— sostenne Escobillas.—No, non lo è— troncò Barrido. —È umano. E noi siamo umani. Io, il mio

socio e Herminia, che essendo donna e creatura dalla sensibilità delicata è la piùumana di tutti; non è così, Herminia?—

—Umanissima— convenne la Veleno.—E dato che siamo umani, la comprendiamo e vogliamo sostenerla. Perché

siamo orgogliosi di lei e convinti che i suoi successi saranno i nostri e perché inquesta casa editrice, dopo tutto, a contare sono le persone e non i numeri.—

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Alla fine del discorso, Barrido fece una pausa teatrale. Forse sperava che mimettessi ad applaudire, ma quando vide che restavo fermo proseguì senza esitarenella sua esposizione.

—Perciò, ecco cosa le propongo: si prenda sei mesi, nove se ce n'è bisogno,perché un parto è un parto, e si chiuda nel suo studio a scrivere il grande romanzodella sua vita. Quando l'ha finito, ce lo porta e noi lo pub-blichiamo con il suonome, mettendo tutta la carne al fuoco e scommetten-do il tutto per tutto. Perchésiamo dalla sua parte.—

Guardai Barrido e poi Escobillas. La Veleno era sul punto di scoppiare apiangere per l'emozione.

—Naturalmente, senza anticipo— puntualizzò Escobillas.Barrido agitò euforicamente la mano in aria.—Cosa ne dice?—Iniziai a lavorare quel giorno stesso. Il mio piano era tanto semplice quanto

folle. Di giorno avrei riscritto il libro di Vidal e di notte avrei lavorato al mio. Sareiricorso a tutti i trucchi che mi aveva insegnato Ignatius B. Samson e li avrei messial servizio di quel po' di dignità e di decenza, se c'era, che mi restava nel cuore.Avrei scritto per gratitudine, per disperazione e per vanità. Avrei scritto soprattuttoper Cristina, per dimostrarle che anch'io ero capace di pagare il mio debito conVidal e che David Martín, seppure in punto di morte, si era guadagnato il diritto diguardarla negli occhi senza vergognarsi delle sue ridicole speranze.

Non tornai all'ambulatorio del dottor Trias. Non ne vedevo la necessità.Il giorno in cui non avrei più potuto scrivere una parola, né immaginarla, sarei

stato il primo ad accorgermene. Il mio poco scrupoloso farmacista di fiducia miforniva senza fare domande tutte le pastiglie di codeina che gli chiedevo e, avolte, qualche altra delizia che dava fuoco alle vene e faceva esplodere il doloree la coscienza. Non parlai con nessuno della mia visita medica né dei risultatidelle analisi.

Le mie necessità essenziali erano soddisfatte da una fornitura settimanale chemi facevo arrivare da Can Gispert, un formidabile negozio di articoli coloniali incalle Mirallers, dietro la cattedrale di Santa Maria del Mar.

L'ordinazione era sempre la stessa. Di solito me la portava la figlia deiproprietari, una ragazza che restava a guardarmi come un cerbiatto spaventatoquando la invitavo a entrare e ad aspettare nell'ingresso mentre andavo aprendere i soldi per pagarla.

—Questo è per tuo padre, e questo è per te.—Le davo sempre dieci centesimi di mancia, che accettava in silenzio.Ogni settimana la ragazza bussava di nuovo alla porta con l'ordinazione, e ogni

settimana pagavo e le davo dieci centesimi di mancia. Per nove mesi e un giorno,il tempo che avrei impiegato a scrivere l'unico romanzo che sarebbe apparso conla mia firma, quella ragazza, di cui ignoravo il nome e il cui volto dimenticavo

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ogni settimana fin quando la ritrovavo sulla soglia di casa, fu la persona che vidipiù spesso.

Cristina smise di venire senza preavviso ai nostri appuntamenti pomeri-diani.Cominciavo a temere che Vidal avesse scoperto il nostro stratagemma quando,un pomeriggio in cui la stavo aspettando dopo quasi una settimana di assenza,aprii la porta credendo che fosse lei e mi trovai davanti Pep, uno dei domestici diVilla Helius. Mi portava da parte di Cristina un pacchetto gelosamente sigillatoche conteneva l'intero manoscritto di Vidal. Pep mi spiegò che il padre di Cristinaaveva avuto un aneurisma che l'aveva lasciato praticamente invalido, e che leil'aveva portato in una clinica sui Pirenei, a Puigcerdà, dove, a quanto pareva,c'era un giovane dottore specializzato nella cura di quelle malattie.

—Il signor Vidal si è fatto carico di tutto— aggiunse Pep. —Senza badare aspese.—

Vidal non dimenticava mai i suoi servitori, pensai, non senza una certaamarezza.

—Mi ha chiesto di darle questo di persona. E di non dire niente a nessuno.—Il domestico mi consegnò il pacchetto, sollevato per essersi liberato di quel

misterioso oggetto.—Ti ha lasciato qualche indicazione su dove trovarla in caso di necessità?——No, signor Martín. Tutto quello che so è che il padre della signorina Cristina

è ricoverato in un posto che si chiama Villa San Antonio.—Giorni dopo Vidal mi fece una delle sue visite improvvise e rimase da me

tutto il pomeriggio, bevendo il mio anice, fumando le mie sigarette e parlandodella disgrazia accaduta al suo autista.

—Sembra impossibile. Un uomo forte come una quercia che, di botto, crollaa terra e non sa più chi è.—

—Come sta Cristina?——Puoi immaginartelo. Sua madre è morta anni fa e Manuel è l'unico

familiare che le resta. Ha portato con sé un album di fotografie e lo mostra tutti igiorni a quel poveretto per vedere se ricorda qualcosa.—

Mentre Vidal parlava, il suo romanzo — o dovrei dire il mio — giaceva in unapila di fogli a faccia in giù sul tavolo del salotto, a mezzo metro dalle sue mani. Miraccontò che, in assenza di Manuel, aveva sollecitato Pep —

che a quanto pare era un buon cavaliere — a impadronirsi dell'arte dellaguida, ma il ragazzo per il momento era un disastro.

—Ci vuole tempo. Un'automobile non è un cavallo. Il segreto è la pratica.——Ora che lo dici, Manuel ti ha insegnato a guidare, vero?——Un poco— ammisi. —E non è facile come sembra.——Se questo romanzo a cui stai lavorando non si vende, puoi sempre diventare

il mio autista.——Non seppelliamo il povero Manuel prima del tempo, don Pedro.—

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—Un commento di cattivo gusto— ammise Vidal. —Mi dispiace.——E il suo romanzo, don Pedro?——Sulla buona strada. Cristina si è portata a Puigcerdà il manoscritto finale per

rivederlo e metterlo in bella copia mentre sta vicino al padre.——Sono contento di vederla allegro.—Vidal sorrise, trionfante.—Credo che sarà qualcosa di grande— disse. —Dopo tanti mesi che credevo

persi, ho riletto le prime cinquanta pagine messe in bella da Cristina e mi sonosorpreso di me stesso. Credo che sorprenderà anche te. Finirà che sarò ancora ioa doverti insegnare certi trucchi.—

—Non ne ho mai dubitato, don Pedro.—Quel pomeriggio Vidal stava bevendo più del solito. Gli anni mi avevano

insegnato a leggere la sua gamma di inquietudini e di dubbi, e immaginai chequella non fosse una semplice visita di cortesia. Quando ebbe li-quidato le mieriserve di anice, gli versai una generosa coppa di brandy e aspettai.

—David, ci sono cose di cui tu e io non abbiamo mai parlato… ——Di calcio, per esempio.——Parlo sul serio.——Allora dica, don Pedro.—Mi guardò a lungo, esitante.—Ho sempre cercato di essere un buon amico per te, David. Lo sai, ve-ro?——Lei è stato molto più di questo, don Pedro. Lo so io e lo sa lei.——A volte mi domando se non sarei dovuto essere più onesto con te.——Riguardo a cosa?—Vidal annegò lo sguardo nella coppa di brandy.—Ci sono cose che non ti ho mai raccontato, David. Cose di cui forse avrei

dovuto parlarti anni fa… —Lasciai passare un istante che diventò eterno. Qualunque cosa Vidal avesse

voluto raccontarmi, era chiaro che nemmeno tutto il brandy del mondo sarebberiuscito a tirargliela fuori.

—Non si preoccupi, don Pedro. Se hanno aspettato per anni, potranno certoaspettare fino a domani.—

—Domani forse non avrò il coraggio di dirtele.—Mi resi conto di non averlo mai visto così spaventato. Qualcosa gli si era

conficcato nel cuore, e iniziava a mettermi a disagio vederlo in quella situazione.—Facciamo una cosa, don Pedro. Quando verranno pubblicati il suo libro e il

mio, ci vediamo per brindare e mi racconta quello che deve raccontarmi. Miinvita lei in uno di quei posti cari e raffinati dove non mi lasciano entrare se nonsono con lei e mi fa tutte le confidenze che vuole. Le sta be-ne?—

All'imbrunire lo accompagnai fino al paseo del Born dove Pep aspettavaaccanto all'Hispano-Suiza vestito con l'uniforme di Manuel, che gli stava cinque

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taglie più grande, proprio come l'automobile. La carrozzeria era fragrante digraffi e ammaccature che sembravano recenti e facevano male agli occhi.

—Al piccolo trotto, eh, Pep?— consigliai. —Niente galoppo. Lento ma sicuro,come se fosse un asino.—

—Sì, signor Martín. Lento ma sicuro.—Per salutarmi, Vidal mi abbracciò con forza e quando salì in macchina mi

parve che portasse il peso del mondo intero sulle spalle.

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16

Pochi giorni dopo che avevo messo il punto finale ai due romanzi, quello di Vidale il mio, Pep si presentò a casa senza preavviso. Era insaccato nell'uniformeereditata da Manuel, che gli conferiva l'aspetto di un bambino travestito dagenerale. All'inizio pensai che portasse qualche messaggio di Vidal, o forse diCristina, ma la sua faccia scura tradiva un'inquietudine che mi fece scartarequella possibilità al primo sguardo che ci scambiammo.

—Brutte notizie, signor Martín.——Cos'è successo?——Il signor Manuel.—Mentre mi spiegava l'accaduto gli si spezzò la voce e quando gli chiesi se

voleva un bicchier d'acqua scoppiò a piangere. Manuel Sagnier era morto tregiorni prima nella clinica di Puigcerdà dopo una lunga agonia. Per decisione dellafiglia, l'avevano seppellito il giorno prima in un piccolo cimitero ai piedi deiPirenei.

—Dio santo— mormorai.Invece dell'acqua, servii a Pep una coppa di brandy bella piena e lo par-

cheggiai su una poltrona in salotto. Quando fu più calmo, Pep mi spiegò che Vidall'aveva mandato a prendere Cristina, che tornava quel pomeriggio con il trenodelle cinque.

—S'immagini come starà la signorina Cristina…— mormorò, angosciato allaprospettiva di dover essere lui ad accoglierla e a consolarla sulla strada verso ilpiccolo appartamento sopra i garage di Villa Helius dove aveva vissuto con ilpadre da quando era bambina.

—Pep, non credo sia una buona idea che tu vada a prendere la signorinaSagnier.—

—Ordini di don Pedro.——Di' a don Pedro che mi assumo io la responsabilità.—A forza di alcol e di retorica lo convinsi ad andarsene e a lasciare la cosa nelle

mie mani. Sarei andato io stesso a prenderla e l'avrei accompagnata a VillaHelius in taxi.

—La ringrazio, signor Martín. Lei è uomo di lettere e saprà meglio di me cosadire a quella poverina.—

Alle cinque meno un quarto m'incamminai verso la stazione Francia, da pocoinaugurata. L'Esposizione Universale di quell'anno aveva disseminato prodigi incittà, ma, fra tutti, quella volta di acciaio e vetro dall'aspetto di cattedrale era lamia preferita, magari solo perché era vicina a casa mia e potevo vederla dallostudio della torre. Quel pomeriggio il cielo era punteggiato di nuvole nere chearrivavano cavalcando dal mare e si intreccia-vano sopra la città. L'eco deilampi all'orizzonte e un vento caldo che sapeva di polvere e di elettricità facevano

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presagire che si avvicinava un temporale estivo di notevole intensità. Quandoarrivai in stazione si iniziavano a vedere le prime gocce, lucide e pesanti comemonete cadute dal cielo.

Mentre avanzavo lungo la banchina per aspettare l'arrivo del treno, la pioggiabatteva già con forza sulla volta della stazione e la notte sembrò precipitare dicolpo, appena interrotta dalle fiammate di luce che esplodevano sulla città elasciavano una scia di frastuono e di furia.

Il treno arrivò con quasi un'ora di ritardo, un serpente a vapore che sitrascinava sotto il temporale. Aspettai ai piedi del locomotore di veder comparireCristina tra i viaggiatori che scendevano dai vagoni. Dieci minuti dopo erano scesitutti e di lei non c'era ancora traccia. Stavo per tornare a casa, credendo che allafine Cristina non avesse preso quel treno, quando decisi di dare un'ultima occhiatae di percorrere tutta la banchina fino alla fine con lo sguardo attento ai finestrinidegli scompartimenti. La trovai nel penultimo vagone, seduta con la testaappoggiata al vetro e lo sguardo perso. Salii e mi fermai sulla soglia delloscompartimento. Sentendo i miei passi, si girò e mi guardò senza stupirsi,sorridendo debolmente. Si alzò e mi abbracciò in silenzio.

—Benvenuta— dissi.Cristina aveva per bagaglio solo una piccola valigia. Le offrii la mano e

scendemmo sulla banchina, ormai deserta. Percorremmo il tragitto finoall'ingresso della stazione senza aprire bocca. All'uscita ci fermammo.

L'acquazzone cadeva con violenza e la fila di taxi che c'era davantiall'ingresso al mio arrivo era svanita.

—Non voglio tornare a Villa Helius stanotte, David. Non ancora.——Puoi stare da me, se vuoi, o possiamo cercarti una stanza in albergo.——Non voglio stare sola.——Andiamo a casa. Se ho qualcosa in abbondanza, sono le stanze.—Avvistai uno dei facchini che si era affacciato a guardare il temporale e che

reggeva un enorme ombrello. Mi avvicinai a lui e mi offrii di com-prarglielo peruna somma cinque volte superiore al suo prezzo. Me lo consegnò avvolto in unservizievole sorriso.

Al riparo di quell'ombrello ci avventurammo sotto il diluvio verso la ca-sadella torre, dove, grazie alle raffiche di vento e alle pozzanghere, arrivammodieci minuti più tardi completamente zuppi. Il temporale aveva fatto spegnere ilampioni, e le strade erano immerse in una liquida oscurità, punteggiata appena dilampade a olio o di candele accese proiettate da finestre e portoni. Non ebbidubbi che il formidabile impianto elettrico di casa mia fosse stato uno dei primi asoccombere. Fummo costretti a salire le scale a tentoni e, quando aprimmo laporta principale dell'appartamento, l'alito dei lampi ne disseppellì l'aspetto piùfunebre e inospitale.

—Se hai cambiato idea e preferisci cercare un albergo… —

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—No, va bene. Non preoccuparti.—Lasciai la valigia di Cristina nell'ingresso e andai in cucina a cercare una

scatola di candele e di ceri che conservavo nella credenza. Iniziai ad ac-cenderlitutti, uno per uno, fissandoli su piatti e bicchieri. Cristina mi osservava dalla porta.

—Questione di un minuto— assicurai. —Ormai sono esperto.—Cominciai a distribuire candele nelle stanze, in corridoio e in ogni angolo

finché tutta la casa fu immersa in una tenue tenebra dorata.—Sembra una cattedrale— disse Cristina.L'accompagnai in una delle camere da letto che non usavo mai, ma che

tenevo sempre pulita e in ordine da quando Vidal, una volta, troppo ubriaco pertornare al suo palazzo, si era fermato a dormire da me.

—Ti porto subito gli asciugamani puliti. Se non hai da cambiarti, posso offrirtiil vario e sinistro abbigliamento stile Belle Époque che i vecchi proprietari hannolasciato negli armadi.—

I miei goffi tentativi di fare lo spiritoso riuscivano a stento a strapparle unsorriso e si limitò ad annuire. La lasciai seduta sul letto mentre correvo a cercaregli asciugamani. Quando tornai era ancora lì, immobile. Misi gli asciugamani sulletto, accanto a lei, e le avvicinai un paio di candele che avevo sistematoall'ingresso perché avesse un po' più di luce.

—Grazie— mormorò.—Mentre ti cambi, vado a prepararti un brodo caldo.——Non ho appetito.——Ti farà bene lo stesso. Se hai bisogno di qualunque cosa, chiamami.—La lasciai sola e andai nella mia stanza per sbarazzarmi delle scarpe bagnate.

Misi a riscaldare dell'acqua e mi sedetti in salotto ad aspettare. La pioggiacontinuava a cadere con forza, mitragliando rabbiosamente le finestre eformando rigagnoli, negli scarichi della torre e nelle grondaie, che ri-suonavanocome passi sul tetto. Più in là, il quartiere della Ribera era immerso in un'oscuritàquasi assoluta.

Dopo un po' sentii la porta della stanza di Cristina che si apriva e i suoi passiche si avvicinavano. Aveva indossato una vestaglia bianca e si era gettata sullespalle uno scialle di lana che non le si intonava.

—Ho preso in prestito questo da uno degli armadi— disse. —Spero che non tidispiaccia.—

—Puoi tenerlo, se vuoi.—Si sedette su una delle poltrone e portò a spasso gli occhi per la stanza,

soffermandosi sulla pila di fogli sul tavolo. Mi guardò e annuii.—L'ho finito da qualche giorno— dissi.—E il tuo?—A dire il vero sentivo miei entrambi i manoscritti, ma mi limitai ad annuire.—Posso?— chiese, prendendo una pagina e avvicinandola alla candela.

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—Certo.—La vidi leggere in silenzio, con un tiepido sorriso sulle labbra.—Pedro non crederà mai di averlo scritto— disse.—Abbi fiducia in me— replicai.Cristina rimise il foglio sulla pila e mi guardò a lungo.—Mi sei mancato— disse. —Non avrei voluto, ma è stato così.——Anche tu.——C'erano giorni che, prima di andare in clinica, passavo dalla stazione e mi

sedevo sulla banchina ad aspettare il treno che arrivava da Barcellona, pensandoche forse ti avrei visto.—

Deglutii.—Pensavo che non volessi vedermi— dissi.—Anch'io lo pensavo. Mio padre chiedeva spesso tue notizie, sai? Mi ha

chiesto di prendermi cura di te.——Tuo padre era un brav'uomo— dissi. —Un buon amico.—Cristina annuì con un sorriso, ma vidi che gli occhi le si riempivano di

lacrime.—Alla fine non ricordava più niente. C'erano giorni in cui mi confondeva con

mia madre e mi chiedeva di perdonarlo per gli anni che aveva trascorso incarcere. Poi passavano settimane in cui a stento si rendeva conto che ero lì. Coltempo, la solitudine ti si intrufola dentro e non se ne va più.—

—Mi dispiace, Cristina.——Gli ultimi giorni ho creduto che stesse meglio. Cominciava a ricordare

qualcosa. Mi ero portata un album di fotografie che aveva a casa e glielemostravo ogni volta dicendogli chi erano quelle persone. C'era una foto di tantianni fa, a Villa Helius, in cui ci siete tu e lui in macchina. Tu sei al volante e miopadre ti sta insegnando a guidare. E tutti e due state ridendo.

Vuoi vederla?—Esitai, ma non osai rovinare quell'istante.—Certo… —Cristina andò a prendere l'album dalla valigia e tornò con un piccolo volume

rilegato in pelle. Si sedette al mio fianco e cominciò a sfogliare le pagine piene divecchi ritratti, ritagli e cartoline. Manuel, come mio padre, aveva a stentoimparato a leggere e scrivere, e i suoi ricordi erano fatti di immagini.

—Guarda, eccovi qui.—Esaminai la fotografia e ricordai esattamente il giorno d'estate in cui Manuel

mi aveva fatto salire sulla prima automobile comprata da Vidal per insegnarmi irudimenti della guida. Poi avevamo portato l'auto fino in calle Panamá e, a unavelocità di cinque chilometri all'ora che a me sembrò ver-tiginosa, eravamoandati fino all'avenida Pearson ed eravamo tornati con me ai comandi.

« Lei è diventato un asso del volante» aveva sentenziato Manuel. « Se un

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giorno non le andasse bene con i racconti, pensi a un futuro nelle corse au-tomobilistiche» .

Sorrisi, ricordando quel momento che avevo creduto perduto. Cristina mi tesel'album.

—Tienilo. A mio padre sarebbe piaciuto che l'avessi tu.——È tuo, Cristina. Non posso accettarlo.——Anch'io preferisco che lo conservi tu.——Rimane in deposito, allora, finché non vuoi riprendertelo.—Iniziai a sfogliarlo, rivisitando volti che ricordavo e altri mai visti. C'era la foto

delle nozze di Manuel Sagnier e di sua moglie Marta, a cui tanto assomigliavaCristina, ritratti in studio dei suoi zii e nonni, di una strada del Raval dove passavauna processione e dei bagni di San Sebastián sulla spiaggia della Barceloneta.Manuel aveva collezionato vecchie cartoline e ritagli di giornale, con immagini diun Vidal giovanissimo in posa all'ingresso dell'hotel Florida in cima al Tibidabo, eun'altra al braccio di una bellezza da infarto nei saloni del casinò dellaArrabassada.

—Tuo padre venerava don Pedro.——Mi ha sempre detto che gli dovevamo tutto— rispose Cristina.Continuai a viaggiare nella memoria del povero Manuel fino a imbattermi in

una pagina con una fotografia che non sembrava legare con il resto: una bambinadi otto o nove anni camminava su un piccolo molo di legno sporgente su unalastra luminosa di mare. Era per mano a un adulto, un uomo con un abito biancotagliato fuori dall'inquadratura. In fondo al molo si potevano notare una piccolabarca a vela e un orizzonte infinito dove tramontava il sole. La bambina, di spalle,era Cristina.

—Questa è la mia preferita— mormorò Cristina.—Dove è stata scattata?——Non lo so. Non ricordo né il posto né il giorno. Non sono nemmeno sicura

che quell'uomo sia mio padre. È come se quel momento non fosse mai esistito.L'ho trovata anni fa nell'album di mio padre e non ho mai saputo cosa significhi.È come se volesse dirmi qualcosa.—

Sfogliai le pagine. Cristina mi spiegava chi erano quelle persone.—Guarda, questa sono io a quattordici anni.——Lo so.—Cristina mi guardò con tristezza.—Io non me ne accorgevo, vero?— domandò.Mi strinsi nelle spalle.—Non mi perdonerai mai.—Preferii sfogliare le pagine piuttosto che guardarla negli occhi.—Non ho niente da perdonare.——Guardami, David.—

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Chiusi l'album e feci quello che mi chiedeva.—Non è vero— disse. —Me ne accorgevo, invece. Me ne accorgevo ogni

giorno, ma credevo di non averne diritto.——Perché?——Perché le nostre vite non ci appartengono. Né la mia, né quella di mio

padre, né la tua… ——Tutto appartiene a Vidal— dissi con amarezza.Lentamente mi prese la mano e se la portò alle labbra.—Oggi no— mormorò.Sapevo che l'avrei persa non appena quella notte fosse trascorsa e il dolore e

la solitudine che la consumavano si fossero azzittiti. Sapevo che aveva ragione,non perché fosse vero quello che aveva detto, ma perché in fondo lo credevamoentrambi e sarebbe sempre stato così. Ci nascondem-mo come due ladri in unadelle stanze senza osare accendere una candela, senza osare nemmeno parlare.La spogliai lentamente, percorrendole la pelle con le labbra, consapevole che nonl'avrei mai più rifatto. Cristina si diede con rabbia e abbandono, e quando lastanchezza ci vinse si addormentò tra le mie braccia senza bisogno di dire nulla.Resistetti al sonno, assaporando il calore del suo corpo e pensando che se il giornodopo la morte avesse voluto venirmi incontro l'avrei accolta in pace. AccarezzaiCristina nella penombra, sentendo oltre le pareti il temporale che si allontanavadalla città, sapendo che l'avrei persa ma che, per qualche minuto, eravamoappartenuti l'uno all'altra, e a nessun altro.

Quando il primo alito dell'alba sfiorò le finestre, aprii gli occhi e trovai il lettovuoto. Uscii in corridoio e andai verso il salotto. Cristina aveva lasciato l'album esi era portata via il romanzo di Vidal. Percorsi la casa, che già odorava della suaassenza, e spensi a una a una le candele che avevo acceso la notte prima.

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17

Nove settimane più tardi mi trovavo davanti al numero 17 di plaza de Cataluny a,dove la libreria Catalonia aveva aperto due anni prima, a guardare imbambolatouna vetrina che mi sembrò infinita e zeppa di copie di un romanzo intitolato Lacasa delle ceneri di Pedro Vidal. Sorrisi tra me. Il mio mentore aveva usatoperfino il titolo che gli avevo suggerito tempo prima, quando gli avevo spiegato lepremesse della storia. Mi decisi a entrare e chiesi una copia. L'aprii a caso ecominciai a rileggere passi che conoscevo a memoria e che avevo finito dilimare da appena un paio di mesi.

Non trovai in tutto il libro una sola parola che non ci avessi messo io, eccettola dedica: « A Cristina Sagnier, senza la quale…» .

Quando gli restituii il libro, il commesso mi disse di non pensarci su.—È arrivato un paio di giorni fa e l'ho già letto tutto— aggiunse. —Un grande

romanzo. Mi dia retta, lo prenda. So che tutti i giornali lo stanno incensando, e chequesto è quasi sempre brutto segno, ma stavolta l'eccezione conferma la regola.Se non le piace, me lo riporta e le restituisco i soldi.—

—Grazie— risposi, per il consiglio e soprattutto per il resto. —Ma l'ho già lettoanch'io.—

—Allora potrebbe interessarle qualcos'altro?——Ha un romanzo intitolato I passi del cielo?—Il libraio rifletté un istante.—È di Martín, vero, quello della Città…?—Annuii.—L'avevo ordinato, ma la casa editrice non me l'ha mandato. Mi lasci

controllare.—Lo seguii verso un bancone dove si consultò con un collega, che scosse la

testa.—Doveva arrivare ieri, ma l'editore dice di non avere più copie. Mi dispiace.

Se vuole, glielo metto da parte quando arriva… ——Non si preoccupi. Ripasserò. E molte grazie.——Mi dispiace, signore. Non so cosa sia successo, perché, come le ho detto,

avrei già dovuto riceverlo… —Uscendo dalla libreria mi avvicinai a un'edicola all'imbocco delle Ramblas.

Comprai quasi tutti i quotidiani, da « La Vanguardia» a « La Voz de la Industria» .Mi sedetti al caffè Canaletes e cominciai a sfogliarli. La recensione del romanzoche avevo scritto per Vidal era dovunque, a tutta pagina, con grandi titoli e unafoto di don Pedro in cui appariva meditabondo e misterioso, sfoggiando un vestitonuovo e assaporando una pipa con studiata noncuranza. Cominciai a leggere ititoli e il primo e l'ultimo paragrafo delle recensioni.

Il primo apriva così: " La casa delle ceneri è un'opera matura, ricca e di

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grande livello che ci riconcilia con il meglio che ha da offrire la letteraturacontemporanea". Un altro quotidiano del mattino spiegava al lettore che

« in Spagna nessuno scrive meglio di Pedro Vidal, il nostro più stimato ecelebre romanziere» , e un terzo sentenziava che si trattava di « un romanzofondamentale, di fattura magistrale e di qualità eccellente» . Un quarto quotidianochiosava il grande successo internazionale di Vidal e della sua opera: « L'Europasi arrende al maestro» (anche se il libro era uscito solo da due giorni in Spagna ele eventuali traduzioni non sarebbero state pubbli-cate prima di un anno).L'articolo si dilungava in un prolisso commento sul grande riconoscimentointernazionale e sull'enorme rispetto che il nome di Vidal suscitava tra « i piùquotati esperti internazionali» , sebbene, che io sapessi, nessuno dei suoi libri fossemai stato tradotto in nessuna lingua, salvo un romanzo la cui traduzione franceseera stata finanziata dallo stesso don Pedro e della quale si erano vendute 126copie. Miracoli a parte, la stampa conveniva sul fatto che fosse « nato unclassico» e che il romanzo segnasse « il ritorno di uno dei grandi, la migliorepenna dei nostri tempi: Vidal, maestro indiscutibile» .

Sulla pagina a fronte di qualcuno di quei giornali, con un rilievo più modesto, auna o a due colonne, trovai anche qualche recensione del romanzo di un certoDavid Martín. La più favorevole iniziava così: « Opera prima dallo stile pedestre,I passi del cielo, del debuttante David Martín, evidenzia fin dalla prima pagina lamancanza di risorse e di talento del suo autore» . Per la seconda « il principianteMartín si sforza di imitare il maestro Pedro Vidal senza riuscirci» . L'ultima cheriuscii a leggere, pubblicata dalla « Voz de la Industria» , apriva in manieralapidaria con un sommario in neretto: « David Martín, un completo sconosciuto eredattore di annunci a pagamento, ci sorprende con quello che è forse il peggioredebutto letterario dell'anno» .

Lasciai sul tavolino i giornali e il caffè che avevo ordinato e m'incamminaigiù per le Ramblas verso gli uffici di Barrido ed Escobillas. Lungo la strada passaidavanti a quattro o cinque librerie, tutte addobbate con innumerevoli copie delromanzo di Vidal. In nessuna trovai una sola copia del mio. In tutte si ripeteva lostesso episodio che avevo vissuto alla Catalonia.

—Guardi, non so cosa sarà successo, doveva arrivarmi l'altro ieri, peròl'editore dice di aver esaurito le scorte e di non sapere quando lo ristamperà. Sevuole lasciarmi il nome e il telefono, posso avvisarla se mi arriva…

Ha chiesto alla Catalonia? Se non ce l'hanno loro… —I due soci mi accolsero con aria funebre e ostile. Barrido, dietro la sua

scrivania, accarezzava una stilografica, ed Escobillas, in piedi alle sue spalle, mitrapanava con lo sguardo. La Veleno si squagliava per l'aspetta-tiva seduta su unasedia accanto a me.

—Non sa quanto mi dispiace, Martín, amico mio— spiegò Barrido. —Ilproblema è il seguente: i librai fanno le ordinazioni basandosi sulle recensioni dei

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giornali, non mi chieda il perché. Se va nel magazzino qui di fianco, troveràtremila copie del suo romanzo abbandonate e indignate.—

—Con i costi e le perdite che ne conseguono— completò Escobillas con untono chiaramente ostile.

—Sono passato in magazzino prima di venire qui e ho verificato che c'eranotrecento copie. Il capo mi ha detto che non ne sono state stampate altre.—

—È una bugia— proclamò Escobillas.Barrido l'interruppe, conciliante.—Scusi il mio socio, Martín. Capisca che siamo indignati quanto o più di lei

per il vergognoso trattamento riservato dalla stampa locale a un libro di cui tutti inquesta casa editrice siamo profondamente innamorati, ma la prego dicomprendere che, nonostante la nostra fede entusiastica nel suo talento, in questocaso siamo legati mani e piedi dalla confusione creata da quegli articoli maliziosi.Però non si scoraggi, Roma non è stata fatta in un giorno. Stiamo combattendocon tutte le nostre forze per dare alla sua opera la risonanza che il suo livelloletterario, altissimo, merita… —

—Con un'edizione di trecento copie.—Barrido sospirò, addolorato dalla mia mancanza di fede.—La tiratura è di cinquecento— precisò Escobillas. —Le altre duecento copie

sono venuti a prenderle ieri Barceló e Sempere di persona. Il resto partirà con laprossima spedizione perché non è entrato in questa a causa di un accumulo dinovità. Se lei si prendesse la briga di comprendere i nostri problemi e non fossecosì egoista, lo capirebbe perfettamente.—

Guardai tutti e tre, incredulo.—Non mi dica che non farete nient'altro.—Barrido mi fissò, desolato.—E cosa vuole che facciamo, amico mio? Stiamo dando il massimo. Ci aiuti

un po' anche lei.——Se almeno avesse scritto un libro come quello del suo amico Vidal—disse Escobillas.—Quello sì che è un gran romanzo— confermò Barrido. —Lo dice perfino« La Voz de la Industria» .——Sapevo che sarebbe andata così— proseguì Escobillas. —Lei è un ingrato.

—Accanto a me, la Veleno mi guardava con aria compunta. Mi sembrò che

fosse sul punto di prendermi la mano per consolarmi e la scostai rapidamente.Barrido mi rivolse un sorriso untuoso.

—Forse non tutti i mali vengono per nuocere, Martín. Forse questo è un segnodi Nostro Signore, che nella sua infinita saggezza vuole mostrarle il cammino delritorno al lavoro che tanta felicità ha portato ai lettori della Città dei maledetti. —

Scoppiai a ridere. Barrido si unì a me e, a un suo cenno, fecero altrettanto

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Escobillas e la Veleno. Contemplai quel coro di iene e mi dissi che, in altrecircostanze, quel momento mi sarebbe sembrato di una raffinata ironia.

—Così mi piace, che la prenda positivamente— proclamò Barrido. —Cosa midice? Quando avremo la prossima puntata di Ignatius B. Samson?—

Mi guardarono tutti e tre solleciti e in attesa. Mi schiarii la voce per vo-calizzare con precisione e sorrisi.

—Andate tutti affanculo.—

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Uscii e vagabondai per ore per le strade di Barcellona, senza meta. Mi costavafatica respirare e sentii che qualcosa mi premeva sul petto. Un sudore freddo miricopriva la fronte e le mani. Verso sera, non sapendo più dove nascondermi,intrapresi il cammino di ritorno a casa. Passando davanti alla libreria di Semperee Figli, notai che il libraio aveva riempito la vetrina di copie del mio romanzo. Eragià tardi e il negozio era chiuso, ma c'era ancora luce all'interno e quando volliaffrettare il passo vidi che Sempere si era accorto della mia presenza e misorrideva con una tristezza che non gli avevo mai visto da quando lo conoscevo. Siavvicinò alla porta e aprì.

—Entri un momento, Martín.——Un altro giorno, signor Sempere.——Lo faccia per me.—Mi prese per il braccio e mi trascinò dentro la libreria. Lo seguii nel

retrobottega e lì mi offrì una sedia. Servì un paio di bicchieri di qualcosa che misembrò più denso del catrame e mi fece cenno di berlo d'un sorso. Lui fece lastessa cosa.

—Ho sfogliato il libro di Vidal— disse.—Il successo della stagione— suggerii.—Lui sa che l'ha scritto lei?—Mi strinsi nelle spalle.—Che importa?—Sempere mi rivolse lo stesso sguardo con cui aveva accolto quel ragazzino di

otto anni un lontano giorno in cui gli si era presentato a casa pesto e con i dentirotti.

—Sta bene, Martín?——Perfettamente.—Sempere scosse la testa di soppiatto e si alzò per prendere qualcosa da uno

scaffale. Vidi che si trattava di una copia del mio romanzo. Me la tese insieme auna penna e sorrise.

—Sia così gentile da dedicarmelo.—Una volta che gli ebbi scritto la dedica, Sempere mi prese il libro dalle mani e

lo consacrò alla vetrina d'onore dietro il bancone dove conservava prime edizioniche non erano in vendita. Era il suo santuario privato.

—Non ce n'è bisogno, signor Sempere— mormorai.—Lo faccio perché mi va e perché l'occasione lo merita. Questo libro è un

pezzo del suo cuore, Martín. E, per la parte che mi riguarda, anche del mio.Lo metto tra Papà Goriot e L'educazione sentimentale. ——Questo è un sacrilegio.——Stupidaggini. È uno dei migliori libri che ho venduto negli ultimi dieci anni,

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e ne ho venduti tanti— mi disse il vecchio Sempere.Le amabili parole del libraio riuscirono a stento a scalfire quella calma fredda

e impenetrabile che iniziava a invadermi. Tornai a casa passeggian-do, senzafretta. Quando arrivai, mi versai un bicchiere d'acqua e, mentre lo bevevo incucina, al buio, scoppiai a ridere.

Il mattino dopo ricevetti due visite di cortesia. La prima era di Pep, il nuovoautista di Vidal. Portava un messaggio del suo padrone che mi invitava a pranzoalla Maison Dorée, senza dubbio per i festeggiamenti che mi aveva promessotempo prima. Pep sembrava teso e ansioso di andarsene prima possibile. L'ariacomplice che di solito aveva con me era svanita.

Non volle entrare e preferì aspettare sul pianerottolo. Mi tese il messaggioscritto da Vidal quasi senza guardarmi negli occhi e appena gli dissi che sareiandato all'appuntamento se la filò senza salutare.

La seconda visita, mezz'ora più tardi, condusse alla mia porta i miei dueeditori accompagnati da un signore dal portamento austero e dallo sguardopenetrante che si presentò come il loro avvocato. Il formidabile trio esibivaun'espressione fra il lutto e la belligeranza che non lasciava adito a dubbi sullanatura dei motivi che li avevano spinti fin là. Li invitai ad accomodarsi in salotto,dove si sedettero sul sofà allineati da sinistra a destra in ordine decrescente dialtezza.

—Posso offrirvi qualcosa? Un bicchierino di cianuro?— Non mi aspettavo unsorriso e non l'ottenni. Dopo una breve introduzione di Barrido sulle terribiliperdite che la débâcle provocata dal fiasco dei Passi del cielo avrebbe causatoalla casa editrice, l'avvocato procedette a un'esposizione sommaria per dirmipapale papale che se non tornavo al lavoro nella mia incarnazione di Ignatius B.Samson e non consegnavo un manoscritto della Città dei maledetti entro un mesee mezzo avrebbero proceduto a farmi causa per inadempienza contrattuale, dannie altri cinque o sei capi d'accusa che mi sfuggirono perché a quel punto non stavogià più prestando attenzione. Non erano tutte cattive notizie. Nonostante i dissaporicausati dal mio comportamento, Barrido ed Escobillas avevano trovato nei lorocuori una perla di generosità con cui limare asprezze e sedimentare una nuovaalleanza in nome dell'amicizia e del profitto.

—Se vuole, può acquistare a un prezzo di favore, con lo sconto del settanta percento, tutte le copie non distribuite dei Passi del cielo, giacché abbiamo constatatoche il titolo non viene richiesto e non potremo includerlo nella prossimadistribuzione— spiegò Escobillas.

—Perché non mi restituite i diritti? Dopo tutto, non mi avete pagato un soldo enon intendete venderne nemmeno una copia.—

—Non possiamo farlo, amico mio— precisò Barrido. —Anche se non le so-no stati corrisposti anticipi, l'edizione ha comportato un cospicuo investi-mentoper la casa editrice, e il contratto che lei ha firmato ha una durata di vent'anni,

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automaticamente rinnovabile negli stessi termini nel caso che la casa editricedecida di esercitare i suoi legittimi diritti. Cerchi di capire che anche noi abbiamotitolo a ricevere qualcosa. Non può andare tutto all'autore.—

Al termine del suo discorso, invitai i tre signori ad accomodarsi all'uscita con ipropri piedi oppure a calci, a loro scelta. Prima che sbattessi loro la porta infaccia, Escobillas volle lanciarmi una delle sue occhiate di malau-gurio.

—Esigiamo una risposta entro una settimana, o lei è finito— borbottò.—Tra una settimana lei e quell'imbecille del suo socio sarete morti— replicai

con calma, senza sapere bene perché pronunciavo quelle parole.Passai il resto della mattinata a contemplare i muri, finché le campane di

Santa Maria mi ricordarono che si avvicinava l'ora dell'appuntamento con donPedro Vidal.

Mi aspettava al tavolo migliore della sala, giocherellando con un bicchiere divino bianco tra le mani e ascoltando il pianista che accarezzava un brano diEnrique Granados con dita di velluto. Quando mi vide, si alzò e mi tese la mano.

—Congratulazioni— dissi.Vidal sorrise imperturbabile e aspettò che mi fossi seduto per fare altrettanto.

Lasciammo passare un minuto di silenzio al riparo della musica e degli sguardidella gente bene che salutava Vidal da lontano o che si avvicinava al tavolo perfargli i complimenti per il successo, sulla bocca di tutta la città.

—David, non sai quanto mi dispiace per quello che è accaduto— cominciò.—Non se ne dispiaccia, se lo goda.——Credi che questo significhi qualcosa per me? L'adulazione di quattro

disgraziati? La mia speranza più grande era di vederti avere successo.——Mi dispiace averla delusa di nuovo, don Pedro.—Vidal sospirò.—David, non è colpa mia se ce l'hanno con te. La colpa è tua. Lo stavi

chiedendo a gran voce. Sei abbastanza grande per sapere come funzionanoqueste cose.—

—Me lo dica lei.—Vidal fece schioccare la lingua, come se la mia ingenuità l'offendesse.—Cosa ti aspettavi? Non sei uno di loro. Non lo sarai mai. Non hai voluto

esserlo, e credi che te lo perdoneranno. Ti chiudi nel tuo palazzo convinto di potersopravvivere senza unirti al coro di chierichetti e metterti l'uniforme. Be', tisbagli, David. Ti sei sempre sbagliato. Il gioco non funziona così. Se vuoi giocareda solo, fai le valigie e vattene in qualche posto dove puoi essere padrone del tuodestino, se pure esiste. Ma se rimani qui ti conviene iscriverti a qualcheparrocchia, una qualunque. È semplicissimo.—

—È questo che fa lei, don Pedro? Iscriversi alla parrocchia?——Io non ne ho bisogno, David. Io gli do da mangiare. Nemmeno questo hai

mai capito.—

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—La sorprenderebbe sapere quanto rapidamente mi sto aggiornando. Ma nonsi preoccupi, la cosa meno importante sono quelle recensioni. Nel be-ne o nelmale, domani nessuno se ne ricorderà, né delle mie né delle sue.—

—Qual è il problema, allora?——Lasci perdere.——Sono quei due figli di puttana? Barrido e il ladro di cadaveri?——Lasci stare, don Pedro. Come dice lei, la colpa è mia. Di nessun altro.—Il maître si avvicinò con aria inquisitoria. Non avevo guardato il menu né

pensavo di farlo.—Il solito, per tutti e due— disse don Pedro.Il maître si allontanò con un inchino. Vidal mi osservava come se fossi un

animale pericoloso rinchiuso in una gabbia.—Cristina non è potuta venire— disse. —Ho portato questo, così le scrivi una

dedica.—Posò sul tavolo una copia dei Passi del cielo avvolta in carta porpora con il

timbro della libreria Sempere e Figli e la spinse verso di me. Non fe-ci il gesto diprenderlo. Vidal era impallidito. La veemenza del discorso e il tono difensivobattevano in ritirata. Adesso viene la stoccata, pensai.

—Mi dica una buona volta quello che ha da dirmi, don Pedro. Non la mordo.—

Vidal finì il vino d'un sorso.—Sono due le cose che volevo dirti. Non ti piaceranno.——Comincio ad abituarmi.——Una ha a che fare con tuo padre.—Sentii che quel sorriso avvelenato mi si scioglieva sulle labbra.—Avrei voluto dirtelo da anni, ma pensavo che non ti avrebbe fatto bene.Crederai che non te l'ho detto per vigliaccheria, ma te lo giuro, te lo giuro su

quello che vuoi che… ——Allora?— lo interruppi.Vidal sospirò.—La sera che tuo padre è morto… ——Che l'hanno assassinato— lo corressi in tono glaciale.—È stato uno sbaglio. La morte di tuo padre è stata uno sbaglio.—Lo guardai senza capire.—Quegli uomini non cercavano lui. Si sono sbagliati.—Ricordai lo sguardo dei tre pistoleri nella nebbia, l'odore di polvere da sparo e

il sangue di mio padre che sgorgava nero fra le mie mani.—Volevano ammazzare me— disse Vidal con un filo di voce. —Un ex socio

di mio padre aveva scoperto che sua moglie e io… —Chiusi gli occhi e ascoltai una risata oscura salirmi da dentro. Mio padre era

morto crivellato per una questione di gonne del grande Pedro Vidal.

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—Di' qualcosa, per favore— supplicò Vidal.Aprii gli occhi.—Qual è la seconda cosa che doveva dire?—Non avevo mai visto Vidal spaventato. Gli donava.—Ho chiesto a Cristina di sposarmi.—Un lungo silenzio.—Ha detto di sì.—Vidal abbassò lo sguardo. Uno dei camerieri si avvicinò con gli antipasti. Li

depositò sul tavolo augurando — Bon appétit Vidal non osò guardarmi di nuovo.Gli antipasti si raffreddavano nei piatti. Dopo un po' presi la copia dei Passi delcielo e me ne andai.

Quel pomeriggio, uscendo dalla Maison Dorée, mi sorpresi a camminare giùper le Ramblas con quella copia dei Passi del cielo. Via via che mi avvicinavoall'angolo da dove partiva calle del Carmen iniziarono a tremarmi le mani. Mifermai davanti alla vetrina della gioielleria Bagués, fingendo di guardaremedaglioni d'oro a forma di fata e fiori spruzzati di rubini. La facciata barocca edesuberante dei magazzini El Indio era a pochi metri e chiunque avrebbe credutoche si trattasse di un gran bazar di prodigi e meraviglie insospettate invece che diun negozio di tele e tessuti. Mi avvicinai lentamente e avanzai nel vestibolo checonduceva alla porta. Sapevo che lei non avrebbe potuto riconoscermi, che forsenemmeno io avrei potuto più riconoscerla, ma rimasi lo stesso lì per quasi cinqueminuti prima di azzardarmi a entrare. Quando lo feci, il cuore mi batteva forte esentii che mi sudavano le mani.

Le pareti erano coperte di scaffali pieni di grandi bobine con ogni tipo ditessuto e sui tavoli i commessi, armati di metri a nastro e di forbici speciali legatealla vita, mostravano a signore di alto lignaggio accompagnate da domestiche esarte le stoffe pregiate, come se si trattasse di materiale prezioso.

—Posso aiutarla, signore?—Era un uomo corpulento e dalla voce stridula, con un vestito di flanella che

sembrava sul punto di scoppiare da un momento all'altro e di seminare il negoziodi brandelli di stoffa fluttuanti. Mi osservava con aria condiscendente e un sorrisoforzato e ostile.

—No— mormorai.Allora la vidi. Mia madre scendeva da una scala con un mucchio di scampoli

in mano. Indossava una blusa bianca e la riconobbi all'istante. Si era un po'riempita e il viso, più indistinto, mostrava la lieve sconfitta della routine e deldisinganno. Il commesso, irato, continuava a parlarmi ma io quasi non sentivo lasua voce. Vedevo solo lei che si avvicinava e mi passava davanti. Per un secondomi guardò, e vedendo che la stavo osservando mi sorrise docilmente, come sisorride a un cliente o a un padrone, e poi proseguì nel suo lavoro. Mi si formò untale nodo alla gola che a stento riuscii a spiccicare qualche parola per zittire il

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commesso, e mi ci volle del tempo per dirigermi all'uscita con le lacrime agliocchi. Una volta in strada, l'attraversai ed entrai in un caffè. Mi sedetti a untavolino accanto alla finestra da cui si vedeva la porta di El Indio e aspettai.

Era passata quasi un'ora e mezza quando vidi il commesso che mi avevaaccolto che abbassava la serranda dell'ingresso. Dopo un po' cominciarono aspegnersi le luci e uscirono alcuni dei commessi che lavoravano lì. Mi alzai e miaffacciai in strada. Un ragazzino di una decina d'anni era seduto sulla soglia delportone di fianco e mi guardava. Gli feci cenno di avvicinarsi e gli mostrai unamoneta. Sorrise da orecchio a orecchio e vidi che gli mancavano diversi denti.

—Vedi questo pacchetto? Devi darlo a una signora che sta per uscire. Le diciche te l'ha dato un signore per lei, ma non dirle che sono stato io. Hai capito?—

Il ragazzino annuì. Gli diedi la moneta e il libro.—Adesso, aspettiamo.—Non ci fu da attendere molto. Tre minuti dopo la vidi uscire. Camminava

verso le Ramblas.—È quella signora. La vedi?—Mia madre si fermò un attimo davanti al portico della chiesa di Betlem e feci

un cenno al ragazzo, che corse verso di lei. Assistetti alla scena da lontano, senzapoter sentire le loro parole. Il bambino le tese il pacchetto e lei lo guardò stranita,incerta se accettarlo o no. Lui insistette e alla fine lei prese il pacchetto e guardò ilbambino che si metteva a correre. Sconcerta-ta, si voltò da una parte e dall'altra,cercando con gli occhi. Soppesò il pacchetto, esaminando la carta porpora in cuiera avvolto. Alla fine fu vinta dalla curiosità e l'aprì.

La vidi tirare fuori il libro. Lo tenne con le due mani, guardando la copertina epoi rigirandolo per esaminare la quarta. Sentii che mi mancava il fiato. Volevoavvicinarmi, dirle qualcosa, ma non ci riuscii. Rimasi lì, a pochi metri da miamadre, spiandola senza che si accorgesse della mia presenza fin quando riprese ilcammino con il libro in mano in direzione di Colón. Passando davanti al palazzode la Virreina si avvicinò a un cestino e lo buttò via. La vidi scendere giù per laRambla finché si perse tra la folla, come se non fosse mai stata lì.

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19

Sempere padre era solo nella sua libreria a incollare la costa di un esemplare diFortunata e Giacinta che cadeva a pezzi quando alzò gli occhi e mi vide dall'altrolato della porta. Gli bastarono un paio di secondi per notare lo stato in cui mitrovavo. Mi fece cenno di entrare. Appena fui dentro, mi offrì una sedia.

—Ha una brutta faccia, Martín. Dovrebbe andare dal medico. Se ha fifa,l'accompagno. Anche a me i dottori fanno venire i brividi, con quei camicibianchi e quelle cose appuntite in mano, ma a volte ci si è costretti.—

—È solo un mal di testa, signor Sempere. Mi sta già passando.—Sempere mi versò un bicchiere di acqua di Vichy.—Tenga. Questa cura tutto, meno la stupidità, che è un'epidemia sempre più

diffusa.—Sorrisi svogliato alla battuta di Sempere. Scolai il bicchier d'acqua e sospirai.

Sentivo la nausea salirmi alle labbra e una pressione intensa che pulsava dietrol'occhio sinistro. Per un attimo credetti di svenire e chiusi gli occhi. Respirai afondo, supplicando di non crepare lì. Il destino non poteva avere un sensodell'umorismo tanto perverso da avermi portato fino alla libreria di Sempere perlasciargli, come ringraziamento di tutto quello che aveva fatto per me, uncadavere per mancia. Sentii una mano che mi sosteneva la fronte condelicatezza. Sempere. Aprii gli occhi e trovai il libraio e suo figlio, affacciatosidentro, che mi osservavano con facce da veglia funebre.

—Avviso il dottore?— chiese Sempere figlio.—Sto già meglio, grazie. Molto meglio.——Lei ha un modo di stare meglio che fa drizzare i capelli. È grigio.——Un altro po' d'acqua?—Sempere figlio si affrettò a riempirmi di nuovo il bicchiere.—Scusate per lo spettacolo— dissi. —Vi assicuro che non era preparato.——Non dica sciocchezze.——Forse le farebbe bene mangiare qualcosa di dolce. Può essere stato un calo

di zuccheri…— propose il figlio.—Vai al forno all'angolo e porta qualche dolce— convenne il libraio.Quando restammo soli, Sempere mi fissò.—Le giuro che andrò dal medico— promisi.Un paio di minuti dopo il figlio del libraio tornò con un sacchetto di carta che

conteneva le specialità della panetteria del quartiere. Me lo tese e scelsi unabrioche che, in altre occasioni, mi avrebbe tentato come il sedere di una ballerinadi varietà.

—Morda— ordinò Sempere.Mangiai la brioche docilmente. A poco a poco mi sentii meglio.—Sembra riprendersi— osservò il figlio.

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—Quello che non curano i dolci del forno all'angolo… —In quell'istante sentimmo il campanello della porta. Un cliente era entrato

nella libreria e, a un cenno d'assenso del padre, Sempere figlio ci lasciò perservirlo. Il libraio restò accanto a me e cercò di calcolare i battiti pre-mendomi ilpolso con l'indice.

—Signor Sempere, si ricorda, tanti anni fa, quando mi disse che se un giornoavessi dovuto salvare un libro, salvarlo davvero, sarei dovuto venire da lei?—

Sempere diede un'occhiata al libro recuperato dal cestino dove l'aveva gettatomia madre e che tenevo ancora fra le mani.

—Mi dia cinque minuti.—Cominciava ad annottare quando scendemmo per le Ramblas tra la folla

uscita a passeggio in una serata calda e umida. Soffiava un accenno di brezza,balconi e finestre erano spalancati, e la gente si affacciava a guardare sfilare lesagome sotto il cielo incendiato d'ambra. Sempere camminava a passo spedito enon rallentò la marcia finché non avvistammo il portico d'ombra che si aprivaall'imbocco di calle del Arc del Teatre. Prima di attraversare, mi guardò consolennità e disse:

—Martín, quello che ora vedrà non potrà raccontarlo a nessuno, nemmeno aVidal. A nessuno—.

Annuii, intrigato dall'aria seria e misteriosa del libraio. Lo seguii lungol'angusta stradina tra edifici tetri e cadenti che sembravano chinarsi come salicidi pietra per chiudere la linea di cielo ritagliata dai tetti. Dopo un po'

arrivammo a un grande portone di legno che sembrava sigillare una vecchiabasilica che fosse rimasta cent'anni sul fondo di una palude. Sempere salì igradini fino al portone e afferrò il picchiotto di bronzo forgiato a forma didiavoletto sorridente. Bussò tre volte e scese di nuovo ad aspettare accanto a me.

—Quello che vedrà ora non potrà raccontarlo… ——… a nessuno. Nemmeno a Vidal. A nessuno.—Sempere annuì con severità. Aspettammo un paio di minuti finché si sentì un

rumore come di centinaia di serrature che scattavano simultanea-mente. Ilportone si socchiuse con un gemito profondo e si affacciò il volto di un uomo dimezz'età, dai capelli radi, l'espressione rapace e lo sguardo penetrante.

—Stavamo scarsi ed è arrivato Sempere, tanto per cambiare— buttò lì.—Cosa mi porta oggi? Un altro succhiainchiostro, uno di quelli che non si

fanno la fidanzata perché preferiscono vivere con mammà?—Sempere non fece caso alla sarcastica accoglienza.—Martín, questo è Isaac Monfort, guardiano di questo luogo e possessore di

una simpatia senza paragoni. Dia retta a tutto ciò che dirà. Isaac, questo è DavidMartín, buon amico, scrittore e persona di mia fiducia.—

Isaac mi squadrò dall'alto in basso con scarso entusiasmo e poi scambiòun'occhiata con il libraio.

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—Uno scrittore non è mai una persona di fiducia. Vediamo, Sempere le haspiegato le regole?—

—Solo che non posso parlare a nessuno di quello che vedo qui.——Questa è la prima e la più importante. Se non la rispetta, verrò di persona a

torcerle il collo. Si impregna dello spirito generale?——Al cento per cento.——Allora andiamo— disse Isaac, facendomi cenno di entrare.—Io la saluto adesso, Martín, e vi lascio. Qui sarà al sicuro.—Capii che Sempere si riferiva al libro, non a me. Mi abbracciò con forza e poi

si perse nella notte. Oltrepassai la soglia e Isaac tirò una leva sul retro del portone.Mille meccanismi intrecciati in una ragnatela di binari e pu-legge lo sigillarono.Isaac prese una lanterna da terra e la sollevò all'altezza del mio viso.

—Ha una brutta faccia— sentenziò.—Indigestione— replicai.—Di cosa?——Di realtà.——Mi venga dietro— tagliò corto.Avanzammo per un lungo corridoio ai cui fianchi velati di penombra si

indovinavano affreschi e scalinate di marmo. Ci addentrammo nel palazzo e dopoun po' s'intravide davanti a noi l'entrata di quella che pareva una grande sala.

—Che cosa porta?— domandò Isaac.— I passi del cielo. Un romanzo.——Bella stupidaggine di titolo. Magari è lei l'autore?——Temo di sì.—Isaac sospirò, scuotendo la testa di nascosto.—E cos'altro ha scritto?—— La città dei maledetti, volumi dall'uno al ventisette, tra le altre cose.—Isaac si girò e sorrise, compiaciuto.—Ignatius B. Samson?——Che riposi in pace e per servirla.—L'enigmatico guardiano si fermò e appoggiò la lampada su quella che

sembrava una balaustrata sospesa di fronte a una grande volta. Sollevai losguardo e ammutolii. Un colossale labirinto di ponti, passaggi e scaffali zeppi dicentinaia di migliaia di libri s'innalzava a formare una gigantesca biblioteca dalleprospettive impossibili. Un intrico di tunnel attraversava l'immensa struttura chesembrava ascendere a spirale verso una grande cupola di vetro da cui filtravanocortine di luce e di tenebra. Riuscii a vedere alcune figure isolate chepercorrevano passerelle e scale o esaminavano nel dettaglio gli anditi di quellacattedrale di libri e di parole. Non riuscivo a credere ai miei occhi e guardaiIsaac Monfort, attonito. Sorrideva come una vecchia volpe che assapora il suotrucco preferito.

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—Ignatius B. Samson, benvenuto nel Cimitero dei Libri Dimenticati.—

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20

Seguii il guardiano fino alla base della costruzione che ospitava il labirinto. Ilpavimento che calpestavamo era rappezzato di lastre e lapidi, con iscrizionifunerarie, croci e volti diluiti nella pietra. Il guardiano si fermò e fece scivolare amio beneficio la lampada a gas su alcune tessere di quel macabro rompicapo.

—Resti di un'antica necropoli— spiegò. —Ma che non le vengano in mentecerte idee e decida di morirmi qui.—

Proseguimmo fino a una zona di fronte alla struttura centrale che sembravasvolgere le funzioni di soglia. Isaac mi recitava a memoria le regole e i doveri,rivolgendomi di tanto in tanto uno sguardo che io cercavo di placare con un cennodi assenso mansueto.

—Articolo uno: la prima volta che qualcuno viene qui ha il diritto di scegliereun libro, quello che desidera, fra tutti quelli che ci sono. Articolo due: quando siadotta un libro, si contrae l'obbligo di proteggerlo e di fare il possibile perché nonvenga mai perso. Per tutta la vita. Qualche dubbio finora?—

Sollevai gli occhi verso l'immensità del labirinto.—Come si fa a scegliere un solo libro fra tanti?—Isaac si strinse nelle spalle.—C'è chi preferisce credere che sia il libro a scegliere lui… Il destino, per

così dire. Quella che lei vede qui è la summa di secoli di libri perduti e di-menticati, libri condannati a essere distrutti e ridotti per sempre al silenzio, libriche preservano la memoria e l'anima di epoche e prodigi che nessuno piùricorda. Nessuno di noi, nemmeno i più vecchi, sa esattamente quando è statocreato questo posto e da chi. Probabilmente è antico quanto la città stessa ed ècresciuto con lei, alla sua ombra. Sappiamo che l'edificio è stato innalzato con iresti di palazzi, chiese, prigioni e ospedali che una volta forse si trovavano inquesto luogo. L'origine della struttura principale è degli inizi del XVIII secolo e daallora non ha smesso di cambiare. In prece-denza, il Cimitero dei LibriDimenticati era nascosto sotto le gallerie della città medievale. C'è chi sostieneche ai tempi dell'Inquisizione persone colte e dalla mente libera nascondevanolibri proibiti nei sarcofaghi e li seppellivano negli ossari sparsi in tutta la città perproteggerli, sperando che le generazioni future potessero dissotterrarli. Verso lametà del secolo scorso fu trovata una lunga galleria che conduce dalle viscere dellabirinto ai sot-terranei di una vecchia biblioteca oggi chiusa e nascosta fra lerovine di un'antica sinagoga del quartiere del Call. Quando caddero le ultimemura della città, si verificò uno smottamento e la galleria venne inondata dalleacque del torrente sotterraneo che scorre da secoli sotto le odierne Ramblas.Adesso è impraticabile, ma supponiamo che per molto tempo quella galleria siastata una delle principali vie d'accesso a questo luogo. La maggior parte dellastruttura che lei può vedere è sorta durante il XIX secolo.

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Non più di cento persone in tutta la città conoscono questo luogo e spero cheSempere non abbia commesso un errore includendovi anche lei… —

Negai energicamente, ma Isaac mi osservava con scetticismo.—Articolo tre: può seppellire il suo libro dove vuole.——E se mi perdo?——Una clausola addizionale, farina del mio sacco: cerchi di non perdersi.——Si è perso qualcuno qualche volta?—Isaac si lasciò sfuggire uno sbuffo.—Quando ho iniziato qui, anni fa, raccontavano la storia di Dario Alberti de

Cymerman. Immagino che Sempere non gliene avrà parlato, naturalmente… ——Cymerman? Lo storico?——No, il domatore di scarafaggi. Quanti Dario Alberti de Cymerman

conosce? Si dà il caso che nell'inverno del 1889 Cy merman si addentrò nellabirinto e scomparve per una settimana. Lo trovarono nascosto in una dellegallerie, mezzo morto di terrore. Si era murato dietro varie file di testi sacri pernon essere visto.—

—Visto da chi?—Isaac mi fissò a lungo.—Dall'uomo vestito di nero. Sicuro che Sempere non gliel'ha raccontato?——Sicuro.—Isaac abbassò la voce e adottò un tono confidenziale.—Alcuni membri, nel corso degli anni, hanno visto a volte l'uomo vestito di

nero nelle gallerie del labirinto. Ognuno lo descrive in modo diverso.C'è perfino chi afferma di avergli parlato. C'è stato un tempo in cui si sparse

la voce che l'uomo vestito di nero fosse lo spirito di un autore maledetto tradito dauno dei membri che si era portato via un suo libro e non aveva mantenuto lapromessa. Il libro si perse per sempre e l'autore defunto vaga eternamente per icorridoi in cerca di vendetta, sa, quel tipo di cose alla Henry James che piaccionotanto alla gente.—

—Non mi dirà che lei ci crede.——Certo che no. Io ho un'altra teoria. Quella di Cymerman.——Cioè…?——L'uomo vestito di nero è il padrone di questi luoghi, il padre di ogni

conoscenza segreta e proibita, del sapere e della memoria, portatore della luce diromanzieri e scrittori da tempo immemorabile… È il nostro angelo custode,l'angelo delle menzogne e della notte.—

—Mi sta prendendo in giro.——Ogni labirinto ha il suo minotauro— commentò il guardiano.Isaac sorrise enigmaticamente e indicò l'ingresso del labirinto.—È tutto suo.—Imboccai una passerella che conduceva a una delle entrate e avanzai

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lentamente per un lungo corridoio di libri che descriveva una curva ascenden-te.Alla fine della curva, la galleria si ramificava in quattro bracci e formava unpiccolo cerchio dal quale partiva una scala a chiocciola che si perdeva in alto.Salii i gradini finché trovai un pianerottolo da cui si diramavano tre gallerie. Nescelsi una, quella che credevo portasse al cuore della struttura, e mi ci avventurai.Passando, sfioravo con le dita i dorsi di centinaia di libri. Mi lasciai impregnaredall'odore, dalla luce che riusciva a filtrare dalle fessure e dalle lanterne di vetroincastonate nella struttura di legno e che fluttuava negli specchi e nella penombra.Camminai senza meta per quasi trenta minuti finché giunsi in una specie dicamera chiusa dove c'erano un tavolo e una sedia. Le pareti erano fatte di libri edavano l'impressione di essere solide, a eccezione di uno spiraglio da cuisembrava che qualcuno avesse portato via un volume. Decisi che quella sarebbestata la nuova casa dei Passi del cielo. Guardai la copertina per l'ultima volta erilessi il primo paragrafo, immaginando l'istante in cui, se la fortuna l'avessevoluto, e molti anni dopo che io fossi morto e dimenticato, qualcuno avrebbepercorso lo stesso cammino e sarebbe arrivato in quella sala per trovare un librosconosciuto nel quale avevo messo tutto ciò che avevo da offrire. Lo lasciai lì,con la sensazione di essere io a restare sullo scaffale.

Fu allora che sentii la presenza alle mie spalle, e mi girai per imbatterminell'uomo vestito di nero che mi fissava negli occhi.

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21

All'inizio non riconobbi il mio stesso sguardo nello specchio, uno dei tanti cheformavano una catena di luce tenue lungo i corridoi del labirinto.

Quelli che vedevo riflessi erano il mio volto e la mia pelle, ma gli occhiappartenevano a un estraneo. Torbidi e scuri e pieni di malizia. Distolsi lo sguardoe sentii che mi prendeva di nuovo la nausea. Mi sedetti sulla sedia accanto altavolo e respirai a fondo. Immaginai che perfino il dottor Trias si sarebbedivertito all'idea che l'inquilino del mio cervello, l'escrescenza tumorale, come alui piaceva chiamarla, avesse pensato di darmi il colpo di grazia proprio in quelposto e di concedermi l'onore di essere il primo cittadino permanente delCimitero dei Romanzieri Dimenticati. Seppellito in compagnia della sua ultima epenosa opera, quella che l'aveva portato alla tomba. Qualcuno mi avrebbetrovato lì dentro dopo dieci mesi o dieci anni, o forse mai. Un gran finale, degnodella Città dei maledetti.

Credo che mi salvò quella mia risata amara, che mi snebbiò la testa e mirestituì la nozione di dove mi trovassi e di cosa fossi venuto a fare. Stavo peralzarmi dalla sedia quando lo vidi. Era un volume rozzo, scuro e senza titolovisibile sulla costa. Era in cima a una pila di altri quattro libri all'estremità deltavolo. Lo presi fra le mani. Sembrava rilegato in cuoio o in qualche tipo di pelleconciata e annerita, più dal tatto che da una tintura. Le parole del titolo, incise incopertina con quello che immaginai come un qualche tipo di marchio a fuoco,erano indistinguibili, ma sulla quinta pagina si poteva leggere chiaramente lostesso titolo.

Lux AeternaDM.Supposi che le iniziali, che coincidevano con le mie, corrispondessero al nome

dell'autore, ma nel libro non c'era nessun altro indizio che lo con-fermasse.Sfogliai al volo parecchie pagine e riconobbi almeno cinque diverse lingue che sialternavano nei testo. Castigliano, tedesco, latino, francese ed ebraico. Lessi unparagrafo a caso che mi fece pensare a un'orazione che non ricordavo nellaliturgia tradizionale e mi chiesi se quel tomo non fosse una specie di messale o dicompendio di preghiere. Il testo era punteggiato di numeri e di strofe con gliincipit sottolineati che parevano indicare episodi o divisioni tematiche. Più loesaminavo, più mi rendevo conto che mi ricordava i Vangeli e i libri dicatechismo di quando andavo a scuola.

Avrei potuto uscire di lì, scegliere qualunque altro volume tra centinaia dimigliaia e abbandonare quel luogo per non tornarci mai più. Credetti quasi diaverlo fatto quando mi resi conto di ripercorrere le gallerie e i corridoi dellabirinto con il libro in mano, come se fosse un parassita appiccicato alla miapelle. Per un istante mi attraversò la mente l'idea che il libro avesse più voglia di

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me di uscire da quel posto e che, in qualche maniera, guidasse i miei passi. Dopoaver fatto qualche giro ed essere passato un pa-io di volte davanti allo stessoesemplare del quarto volume delle opere complete di LeFanu, mi ritrovai senzasapere come di fronte alla scala che scendeva a spirale, e da lì riuscii aimbroccare la strada che portava all'uscita del labirinto. Credevo che Isaac miaspettasse sulla soglia, ma non c'era traccia della sua presenza, anche se ebbi lacertezza che qualcuno mi stesse osservando dall'oscurità. La grande volta delCimitero dei Libri Dimenticati era immersa in un profondo silenzio.

—Isaac?— chiamai.L'eco della mia voce si perse nell'ombra. Attesi inutilmente qualche secondo

e m'incamminai verso l'uscita. Le tenebre azzurrate che filtravano dalla cupola apoco a poco svanirono finché l'oscurità intorno a me fu quasi assoluta. Qualchepasso più avanti scorsi una luce che palpitava all'estremità della galleria e vidiche il guardiano aveva lasciato la lanterna ai piedi del portone. Mi girai perl'ultima volta per scrutare nel buio della galleria. Tirai la leva che metteva infunzione il meccanismo di binari e pu-legge. Gli anelli del chiavistello siliberarono uno dopo l'altro e la porta cedette di qualche centimetro. La spinsi queltanto che bastava per passare e uscii all'esterno. Dopo pochi secondi la portainiziò a chiudersi di nuovo e si sigillò con un'eco profonda.

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22

Via via che mi allontanavo da quel posto, sentivo che la sua magia miabbandonava e che m'invadevano di nuovo la nausea e il dolore. Caddi bocconiun paio di volte, la prima sulle Ramblas e la seconda mentre ten-tavo diattraversare via Layetana, dove un bambino mi sollevò e mi salvò da un tramche stava per investirmi. A malapena riuscii ad arrivare alla mia porta. La casaera stata chiusa tutto il giorno e il caldo, quel caldo umido e velenoso che ognigiorno soffocava un po' di più la città, fluttuava all'interno sotto forma di lucepolverosa. Salii allo studio della torre e spalancai le finestre. C'era appena un alitodi brezza sotto un cielo lapidato di nubi nere che si muovevano lentamente incircolo sopra Barcellona. Lasciai il libro sulla scrivania e mi dissi che ci sarebbestato tempo per esaminarlo con cura. O forse no. Forse il mio tempo era giàfinito. Ormai pareva im-portare poco.

In quegli istanti mi reggevo a stento in piedi e avevo bisogno di stendermi albuio. Recuperai dal cassetto un flacone di pillole di codeina e ne inghiottii tre oquattro d'un colpo. Mi misi il flacone in tasca e scesi per le scale, non del tuttosicuro di poter arrivare intero alla camera da letto. In corridoio mi sembrò divedere un palpitio nella striscia di luce sotto la porta principale, come se ci fossequalcuno dall'altro lato. Mi avvicinai lentamente all'entrata, sostenendomi aimuri.

—Chi è?— domandai.Non ci fu risposta né alcun suono. Esitai un attimo e poi aprii e mi affacciai

sul pianerottolo. Mi sporsi a guardare giù per le scale. I gradini scendevano aspirale, sfumando nelle tenebre. Non c'era nessuno. Mi girai verso la porta e notaiche la piccola lampada che illuminava il pianerottolo palpitava. Entrai di nuovo incasa e chiusi a chiave, cosa che molte volte dimenticavo di fare. Fu allora che lavidi. Una busta color crema con il bordo sigillato. Qualcuno l'aveva fattascivolare sotto la porta. Mi accovacciai per raccoglierla. Era una carta dallagrammatura pesante, porosa.

La busta era sigillata con la ceralacca e recava il mio nome. L'emblema sullaceralacca tracciava il profilo dell'angelo ad ali spiegate.

L'aprii.Stimato signor Martín,trascorrerò qualche tempo in città e mi piacerebbe molto poter godere della

sua compagnia e magari dell'opportunità di riprendere il discorso della miaofferta. Le sarei molto grato se, non avendo impegni precedenti, volesse cenarein mia compagnia il prossimo venerdì 13 di questo mese alle 22.00 in una piccolavilla che ho affittato per la mia permanenza a Barcellona. La casa si trovaall'angolo tra calle Olot e calle San José de la Montana, accanto all'ingresso delPark Güell. Confido e mi auguro che le sarà possibile venire.

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Il suo amicoAndreas CorelliLasciai cadere il biglietto e mi trascinai in salotto. Lì mi stesi sul divano, al

riparo della penombra. Mancavano sette giorni all'appuntamento. Sorrisi tra me.Non credevo di avere altri sette giorni di vita. Chiusi gli occhi e cercai diconciliare il sonno. Quel sibilo costante nelle orecchie mi sembrava adesso piùrumoroso che mai. Stilettate di luce bianca si accendeva-no nella mia mente aogni battito del cuore.

Non potrà nemmeno pensarci, a scrivere.Riaprii gli occhi e scrutai le tenebre azzurrate che velavano il salotto.Accanto a me, sul tavolo, giaceva ancora quel vecchio album di fotografie

lasciato da Cristina. Mi era mancato il coraggio di buttarlo via, e non l'avevo quasitoccato. Allungai la mano e lo aprii. Sfogliai le pagine fino a trovare l'immagineche cercavo. La staccai per esaminarla. Cristina, da bambina, camminava permano a uno sconosciuto lungo quel molo che si addentrava nel mare. Strinsi lafoto al petto e mi abbandonai alla stanchezza. Lentamente, l'amarezza e la rabbiadi quel giorno, di quegli anni, si spensero e mi avvolse una calda oscurità piena divoci e mani che mi stavano aspettando. Desiderai perdermici come non avevomai desiderato nulla in tutta la vita, ma qualcosa mi diede uno strattone, e unapugnalata di luce e di dolore mi strappò a quel sogno piacevole che prometteva dinon avere fine.

Non ancora —sussurrò la voce — non ancora.Seppi che passavano i giorni perché a tratti mi svegliavo e mi sembrava di

vedere la luce del sole che attraversava le stecche delle imposte alle finestre. Indiverse occasioni credetti di sentire bussare alla porta e voci che pronunciavano ilmio nome e dopo un po' sparivano. Ore o giorni dopo mi alzai e mi portai le manialla faccia scoprendo del sangue sulle labbra. Non so se scesi in strada o se sognaidi farlo, ma senza sapere come ci ero arrivato mi ritrovai a imboccare il paseodel Born e a camminare verso la cattedrale di Santa Maria del Mar. Le stradeerano deserte sotto la luna di mercurio. Alzai lo sguardo e credetti di vedere lospettro di un gran temporale nero che dispiegava le sue ali sulla città. Un soffio diluce bianca squarciò il cielo e un manto intessuto di gocce di pioggia precipitòcome uno sciame di pugnali di cristallo. Un attimo prima che le gocce sfiorasse-ro il suolo, il tempo si fermò e centinaia di migliaia di lacrime di luce rimaserosospese nell'aria come pagliuzze di polvere. Seppi che qualcuno o qualcosacamminava alle mie spalle e sentii il suo alito sulla nuca, freddo e impregnato delfetore della carne putrefatta e del fuoco. Sentii che le sue dita, lunghe eaffusolate, incombevano sulla mia pelle e in quell'istante, attraversando la pioggiain sospensione, apparve quella bambina che viveva soltanto nel ritratto chestringevo al petto. Mi prese per mano e mi trascinò, guidandomi di nuovo allacasa della torre, lasciando alle spalle quella presenza gelida che strisciava dietro

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di me. Quando recuperai la coscienza, erano passati sette giorni.Era l'alba del 13 luglio, venerdì.

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23

Pedro Vidal e Cristina Sagnier si sposarono quel pomeriggio. La cerimonia ebbeluogo alle cinque nella cappella del monastero di Pedralbes e vi partecipò solouna piccola parte del clan Vidal, mentre i membri più importanti della famiglia,incluso il padre dello sposo, brillavano per la loro vergognosa assenza. Ci fossestata qualche malalingua, avrebbe detto che la trovata del prediletto di contrarrematrimonio con la figlia dell'autista era caduta come un secchio di acqua gelatasui seguaci della dinastia. Ma non c'era. In virtù di un discreto patto del silenzio, icronisti di costume e società avevano altre cose da fare quel pomeriggio e nonuna sola pubblicazione parlò della cerimonia. Nessuno era lì per raccontare chealle porte della chiesa si era riunito un gruppo di ex amanti di don Pedro, chepiangevano in silenzio come una confraternita di vedove avvizzite a cui restava daperdere soltanto l'ultima speranza. Nessuno era lì per raccontare che Cristinaaveva un mazzo di rose bianche in mano e un vestito avorio che si confondevacon la pelle e faceva pensare che la sposa arrivasse nuda all'altare, senz'altriornamenti se non il velo bianco che le copriva il volto e un cielo ambrato chesembrava raccogliersi in un mulinello di nubi sulla gu-glia del campanile.

Nessuno era lì per ricordare come scendeva dalla macchina e come, per unistante, si fermava per alzare lo sguardo sulla piazza di fronte al portale dellachiesa, finché i suoi occhi incontrarono quell'uomo moribondo a cui tremavano lemani e che mormorava, senza che nessuno potesse sentirlo, parole che avrebbeportato con sé nella tomba.

—Siate maledetti. Siate tutti e due maledetti.—Due ore dopo, seduto nella poltrona dello studio, aprii l'astuccio che anni

prima era giunto tra le mie mani e che conteneva l'unica cosa che mi restava dimio padre. Estrassi la pistola avvolta nel panno e aprii il tamburo.

Caricai sei pallottole e richiusi l'arma. Appoggiai la canna alla tempia, ar-maiil percussore e chiusi gli occhi. In quell'istante sentii quella raffica di ventosferzare all'improvviso la torre e spalancare i finestroni dello studio, chesbatterono con forza contro i muri. Una brezza gelida mi accarezzò la pelle,portando con sé il soffio perduto delle grandi speranze.

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24

Il taxi saliva lentamente fino ai confini del quartiere di Gracia verso il solitario ecupo recinto del Park Güell. La collina era punteggiata di ville che avevano vistogiorni migliori, immerse in un bosco che si agitava al vento come acqua scura.Intravidi nella parte alta del pendio la grande porta del recinto. Tre anni prima,alla morte di Gaudi, gli eredi del conte Güell avevano venduto al Comunequell'area deserta che non aveva mai avuto altro abitante se non il suo architettoal prezzo di una peseta. Dimenticato e trascurato, il giardino con le colonne e letorri faceva pensare adesso a un eden maledetto. Indicai all'autista di fermarsidavanti ai cancelli dell'ingresso e gli pagai la corsa.

—Il signore è sicuro di voler scendere qui?— domandò l'autista, dubbioso.—Se vuole, posso aspettarla qualche minuto… ——Non sarà necessario.—Il mormorio del taxi si perse giù per la collina e rimasi solo con l'eco del

vento tra gli alberi. Le foglie morte si trascinavano all'entrata del parco eformavano mulinelli ai miei piedi. Mi avvicinai al cancello, chiuso con catenecorrose dalla ruggine, e scrutai all'interno. La luce della luna lambiva il profilodel drago che presidiava la scalinata. Una forma scura scendeva i gradini moltolentamente, osservandomi con occhi che brillavano come perle nell'acqua. Eraun cane nero. L'animale si fermò ai piedi delle scale e solo allora notai che nonera solo. Altri due animali mi osservavano in silenzio. Uno si era avvicinato concautela al riparo dell'ombra proiettata dalla casa del guardiano, di fiancoall'ingresso. L'altro, il più grande dei tre, si era arrampicato in cima al muro e micontemplava dal bordo a nemmeno un paio di metri. La bruma del suo fiatostillava tra i canini scoperti. Arretrai molto lentamente, senza distogliere losguardo dai suoi occhi e senza rivolgergli le spalle. Passo dopo passo, guadagnai ilmarciapiede di fronte all'entrata. Un altro cane era salito sul muro e mi seguivacon gli occhi. Tastai il terreno in cerca di qualche bastone o di una pietra dautilizzare come arma di difesa se avessero deciso di saltarmi addosso, ma c'eranosolo foglie secche. Sapevo che, se distoglievo lo sguardo e mi mettevo a correre,gli animali mi avrebbero dato la caccia e che non avrei fatto nemmeno ventimetri prima che mi raggiungessero e mi facessero a pezzi. Il più grande avanzòqualche metro in cima al muro ed ebbi la certezza che stesse per saltare. Quelloche avevo visto all'inizio e che probabilmente faceva da esca cominciava ascalare la parte bassa del muro per unirsi agli altri due. Eccoci qua, pensai.

In quell'istante un lampo si accese e illuminò i musi da lupo dei tre animali,che si fermarono di colpo. Guardai da sopra la spalla e vidi il monti-cello ches'innalzava a una cinquantina di metri dall'ingresso del parco. Le luci della casa sierano accese, le uniche in tutta la collina. Uno degli animali emise un gemitosordo e si ritirò verso l'interno del parco. Gli altri lo seguirono un attimo dopo.

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Senza pensarci su, m'incamminai verso la casa. Come aveva indicato Corellinel suo invito, la villa s'innalzava all'angolo tra calle Olot e calle San José de laMontana. Era una struttura slanciata e spigolosa di tre piani a forma di torre,coronata da mansarde, che osservava come una sentinella la città e il parcospettrale ai suoi piedi.

La casa sorgeva alla fine di una ripida salita e di una scalinata checonducevano alla sua porta. Aloni di luce dorata trapelavano dai finestroni.

Mentre salivo le scale di pietra, mi parve di distinguere un profilo ritagliato suuna balaustrata del secondo piano, immobile come un ragno al centro della suatela. Raggiunsi l'ultimo gradino e mi fermai a riprendere fiato. La portaprincipale era socchiusa e una lama di luce si allungava fino ai miei piedi. Miavvicinai lentamente e mi arrestai sulla soglia. Dall'interno veniva un odore difiori morti. Bussai con le nocche alla porta e si socchiuse di qualche centimetro.Davanti a me c'erano un ingresso e un lungo corridoio che si addentrava nellacasa. Avvertii un suono secco e ripetitivo, come quello di un'imposta sbattuta dalvento, che proveniva da qualche luogo della casa e ricordava il battito di uncuore. Avanzai pochi passi nell'ingresso e vidi alla mia sinistra le scale chesalivano alla torre. Credetti di sentire dei passi leggeri, passi di bambino, sugliultimi gradini.

—Buona sera…— chiamai.Prima che l'eco della mia voce si perdesse lungo il corridoio, il suono

percussivo che pulsava in qualche angolo della casa si fermò. Un silenzio assolutocalò attorno a me e una corrente d'aria gelida mi accarezzò il volto.

—Signor Corelli? Sono Martín, David Martín… —Non ottenendo risposta, mi avventurai lungo il corridoio che portava nel cuore

della casa. Le pareti erano ricoperte di ritratti fotografici in cornici di diversemisure. Dalle pose e dai vestiti dei soggetti dedussi che la maggior parte risalivaalmeno a venti o trent'anni prima. Sotto ogni cornice c'era una piccola targa conil nome e l'anno in cui la foto era stata scattata. Stu-diai quei volti che miosservavano da un altro tempo. Vecchi e bambini, uomini e donne. Li univaun'ombra di tristezza nello sguardo, un appello silenzioso. Tutti guardavano inmacchina con un anelito che gelava il sangue.

—Le interessa la fotografia, Martín, amico mio?— disse la voce al miofianco.

Mi girai di soprassalto. Andreas Corelli guardava le fotografie accanto a mecon un sorriso che irradiava malinconia. Non l'avevo visto né sentito avvicinarsi equando mi sorrise provai un brivido.

—Credevo che non sarebbe venuto.——Anch'io.——Allora mi permetta di offrirle un bicchiere di vino per brindare ai nostri

errori.—

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Lo seguii fino a una grande sala con ampi finestroni orientati verso la città.Corelli mi fece cenno di accomodarmi su una poltrona e servì due bicchieri dauna bottiglia di cristallo che stava sopra un tavolo. Mi tese il bicchiere e si sedettesulla poltrona di fronte alla mia.

Assaggiai il vino. Era eccellente. Lo finii quasi d'un sorso e ben presto sentiiche il calore che mi scendeva lungo la gola mi calmava i nervi. Corelli annusavail suo bicchiere e mi osservava con un sorriso sereno e amichevole.

—Lei aveva ragione— dissi.—Di solito ce l'ho— replicò Corelli. —È un'abitudine che raramente mi dà

qualche soddisfazione. A volte penso che poche cose mi piacerebbero di più dellacertezza di essermi sbagliato.—

—Questo si risolve facilmente. Chieda a me. Io mi sbaglio sempre.——No, non si sbaglia. Mi sembra che lei veda le cose chiaramente quanto me

e che nemmeno lei ne ricavi alcuna soddisfazione.—Ascoltandolo, mi venne in mente che in quel momento l'unica cosa in grado

di darmi qualche soddisfazione sarebbe stata dare fuoco al mondo intero ebruciarci dentro anch'io. Corelli, come se mi avesse letto nel pensiero, sorrisemostrando i denti e annuì.

—Io posso aiutarla, amico mio.—Mi sorpresi a schivare il suo sguardo per concentrarmi sulla piccola spilla con

un angelo d'argento sul risvolto della sua giacca.—Carina, quella spilla— dissi, indicandola.—Un ricordo di famiglia— spiegò Corelli.Mi sembrò che ci fossimo scambiati cortesie e banalità sufficienti per tutta la

serata.—Signor Corelli, cosa ci faccio qui?—I suoi occhi brillavano dello stesso colore del vino che ondeggiava lentamente

nel suo bicchiere.—È molto semplice. Lei è qui perché ha finalmente capito che questo è il suo

posto. È qui perché un anno fa le ho fatto un'offerta. Un'offerta che in quelmomento non era pronto ad accettare, ma che non ha dimenticato. E

io sono qui perché continuo a pensare che lei sia la persona che cerco, e perquesto ho preferito aspettare dodici mesi piuttosto che soprassedere.—

—Un'offerta che non mi ha mai illustrato nei dettagli— ricordai.—In realtà, l'unica cosa che le ho fornito sono stati i dettagli.——Centomila franchi per lavorare un anno intero per lei a scrivere un libro.——Esattamente. Molti avrebbero pensato che questo era l'essenziale. Ma non

lei.——Mi disse che quando mi avrebbe spiegato che tipo di libro avrei dovuto

scrivere per lei, l'avrei fatto anche se non mi pagava.—Corelli annuì.

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—Lei ha buona memoria.——Ho una memoria eccellente, signor Corelli, tanto che non ricordo di aver

visto, letto o sentito parlare di nessun libro pubblicato da lei.——Dubita della mia solvibilità?—Negai cercando di dissimulare il desiderio e l'avidità che mi rodevano.Quanto più disinteresse mostravo, più mi sentivo tentato dalle promesse

dell'editore.—Semplicemente mi intrigano i suoi moventi— dichiarai.—Com'è giusto.——In ogni caso le ricordo che ho un contratto in esclusiva con Barrido ed

Escobillas per altri cinque anni. L'altro giorno ho ricevuto una visita moltoeloquente da parte loro in compagnia di un avvocato dall'aria sbrigativa.

Però suppongo che faccia lo stesso, perché un lustro è un periodo di tempotroppo lungo, e se sono sicuro di qualcosa è che ciò che mi manca è proprio iltempo.—

—Non si preoccupi per gli avvocati. I miei hanno un'aria infinitamente piùsbrigativa degli avvocati di quella coppia di pustole e non perdono mai una causa.Lasci a me i dettagli legali e i litigi.—

Dal modo in cui sorrise pronunciando quelle parole pensai che sarebbe statomeglio non avere mai un colloquio con i consulenti legali delle Éditions de laLumière.

—Le credo. Immagino che a questo punto resti aperta la questione degli altridettagli della sua offerta, quelli essenziali.—

—Non c'è un modo semplice di dirlo, perciò la cosa migliore sarà parlarlesenza remore.—

—La prego.—Corelli si chinò in avanti e mi fissò.—Martín, voglio che lei crei una religione per me.—All'inizio pensai di non aver sentito bene.—Come dice?—Continuò a fissarmi con quel suo sguardo senza fondo.—Ho detto che voglio che crei una religione per me.—Lo osservai per un lungo istante, muto.—Mi sta prendendo in giro.—Corelli negò, assaporando con gusto il suo vino.—Voglio che convochi tutto il suo talento e che si dedichi anima e corpo per

un anno a lavorare alla storia più grande che abbia mai creato: una religione.—Non potei far altro che scoppiare a ridere.—Lei è completamente pazzo. È questa la sua offerta? È questo il libro che

vuole che scriva?—Corelli annuì sereno.

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—Ha sbagliato scrittore. Io non so nulla di religione.——Non si preoccupi di questo. Io sì. Non cerco un teologo. Cerco un narratore.

Sa cos'è una religione, Martín, amico mio?——A stento ricordo il Padre Nostro.——Una preghiera bella e ben fatta. Poesia a parte, una religione è un codice

morale che si esprime mediante leggende, miti o qualunque tipo di arte-fattoletterario al fine di istituire un sistema di credenze, valori e norme con i qualiregolare una cultura o una società.—

—Amen— replicai.—Come per la letteratura o qualunque atto comunicativo, a conferirle ef-

ficacia è la forma e non il contenuto— continuò Corelli.—Mi sta dicendo che una dottrina in pratica è un racconto.——Tutto è racconto, Martín. Quello che crediamo, quello che conosciamo,

quello che ricordiamo e perfino quello che sogniamo. Tutto è racconto,narrazione, una sequenza di eventi e personaggi che comunicano un contenutoemotivo. Un atto di fede è un atto di accettazione, accettazione di una storia che civiene raccontata. Accettiamo come vero solo quello che può essere narrato. Nonmi dica che l'idea non la tenta.—

—No.——Non la tenta creare una storia per la quale gli uomini siano capaci di vivere

e morire, di uccidere e farsi uccidere, di sacrificarsi e di condannar-si, di offrirela propria anima? Quale sfida più grande per il suo mestiere che creare una storiatanto potente da trascendere la finzione e diventare verità rivelata?—

Ci guardammo in silenzio per diversi secondi.—Credo che conosca già la mia risposta— dissi alla fine.Corelli sorrise.—Io sì. Credo che sia lei a non conoscerla ancora.——Grazie per la compagnia, signor Corelli. E per il vino e i discorsi. Molto

stimolanti. Stia attento a chi li rivolge. Le auguro di trovare il suo uomo e che ilpamphlet sia un gran successo.—

Mi alzai e mi preparai ad andarmene.—L'aspettano da qualche parte, Martín?—Non risposi, ma mi fermai.—Non si prova rabbia quando si sa che potrebbero esserci tante cose per cui

vivere, ricchi e in salute, senza vincoli?— disse Corelli alle mie spalle.—Non si prova rabbia quando gliele strappano dalle mani?—Mi voltai lentamente.—Cos'è un anno di lavoro di fronte alla possibilità che tutto ciò che si desidera

diventi realtà? Cos'è un anno di lavoro di fronte alla promessa di una lunga epiena esistenza?—

Niente, pensai dentro di me, mio malgrado. Niente.

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—È questa la sua promessa?——Stabilisca lei il prezzo. Vuole dar fuoco al mondo e bruciarci dentro anche

lei? Facciamolo insieme. Fissi lei il prezzo. Io sono disposto a darle quello che piùdesidera.—

—Non so cos'è che desidero di più.——Io credo invece che lo sappia bene.—L'editore sorrise e mi strizzò l'occhio. Si alzò e si avvicinò a un comò sul quale

giaceva una lampada. Aprì il primo cassetto ed estrasse una busta di cartapergamena. Me la tese, ma non l'accettai. La lasciò sul tavolo e si sedette dinuovo, senza dire una parola. La busta era aperta e al suo interno si intravedevanoquelli che sembravano diversi mazzetti di banconote da cento franchi. Unafortuna.

—Lei tiene tutto questo denaro in un cassetto e non chiude nemmeno la porta?— domandai.

—Può contarlo. Se le sembra insufficiente, dica una cifra. Le ho già detto chenon avrei discusso di denaro con lei.—

Guardai quel tocco di fortuna per un lungo istante e alla fine scossi la testa.Almeno l'avevo visto. Era reale. L'offerta e la vanità che mi blandiva-no in queimomenti di miseria e disperazione erano reali.

—Non posso accettarlo— dissi.—Crede sia denaro sporco?——Tutto il denaro è sporco. Se fosse pulito, nessuno lo vorrebbe. Ma non è

questo il problema.——Allora?——Non posso accettarlo perché non posso accettare la sua offerta. Non potrei

neanche se volessi.—Corelli soppesò le mie parole.—Posso chiederle perché?——Perché sto morendo, signor Corelli. Perché mi restano solo poche

settimane di vita, forse giorni. Perché non mi rimane nulla da offrire.—Corelli abbassò lo sguardo e sprofondò in un lungo silenzio. Sentii il vento

graffiare le finestre e strisciare sopra la casa.—Non mi dica che non lo sapeva— aggiunsi.—Lo intuivo.—Rimase seduto, senza guardarmi.—Ci sono molti altri scrittori che possono scrivere quel libro per lei, signor

Corelli. Le sono riconoscente per la sua offerta. Più di quanto immagini. Buonanotte.—

M'incamminai verso l'uscita.—Diciamo che potrei aiutarla a sconfiggere la sua malattia— disse.Mi fermai a metà corridoio e mi voltai. Corelli era a due palmi da me e mi

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fissava. Mi sembrò più alto di quando l'avevo visto per la prima volta nelcorridoio e che i suoi occhi fossero più grandi e scuri. Vidi il mio riflessorimpicciolire nelle sue pupille via via che si dilatavano.

—La inquieta il mio aspetto, amico Martín?—Deglutii.—Sì— confessai.—Per favore, torni in salotto e si sieda. Mi dia l'opportunità di spiegarle

meglio. Cos'ha da perdere?——Nulla, credo.—Mi mise la mano sul braccio con delicatezza. Aveva dita lunghe e pallide.—Non ha nulla da temere da me, Martín. Sono suo amico.—Il suo tocco era confortante. Mi lasciai guidare di nuovo in salotto e mi sedetti

docilmente, come un bambino che aspetta le parole di un adulto.Corelli si accovacciò accanto alla poltrona e posò lo sguardo sul mio. Mi prese

la mano e la strinse con forza.—Lei vuole vivere?—Volevo rispondere ma non trovai le parole. Mi resi conto di avere un no-do

alla gola e gli occhi che si riempivano di lacrime. Non avevo capito fi-no adallora quanto desiderassi continuare a respirare, continuare ad aprire gli occhiogni mattina e poter uscire in strada per calpestare i ciottoli e vedere il cielo e,soprattutto, continuare a ricordare.

Annuii.—L'aiuterò, Martín, amico mio. Le chiedo solo di avere fiducia in me.Accetti la mia offerta. Lasci che l'aiuti. Lasci che le dia ciò che più desidera.

È questa la mia promessa.—Annuii di nuovo.—Accetto.—Corelli sorrise e si chinò su di me per baciarmi sulla guancia. Aveva le labbra

fredde come il ghiaccio.—Io e lei, amico mio, faremo grandi cose insieme. Vedrà— mormorò.Mi offrì un fazzoletto per asciugarmi le lacrime. Lo feci senza provare la

vergogna muta di piangere di fronte a un estraneo, cosa che non facevo daquando era morto mio padre.

—Lei è esausto, Martín. Resti qui per la notte. In questa casa le stanzeabbondano. Le assicuro che domani si sentirà meglio e vedrà le cose piùchiaramente.—

Mi strinsi nelle spalle, anche se capii che Corelli aveva ragione. A stento mireggevo in piedi e desideravo soltanto dormire profondamente. Non mi ci vedevoa sollevarmi da quella poltrona, la più comoda e accogliente di tutte le poltronenella storia universale.

—Se non le dispiace, preferisco restare qui.—

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—Certo. La lascio riposare. Presto si sentirà meglio. Le do la mia parola.—Si avvicinò al comò e spense la lampada a gas. La stanza sprofondò in una

penombra azzurrata. Mi cadevano le palpebre e una sensazione di u-briachezzami inondava la testa, ma riuscii a vedere il profilo di Corelli attraversare la stanzae svanire nell'ombra. Chiusi gli occhi e ascoltai il sussurro del vento dietro i vetri.

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25

Sognai che la casa affondava lentamente. All'inizio piccole lacrime d'acquascura iniziarono a spuntare dalle crepe delle mattonelle, dai muri, dalleincrespature del soffitto, dai globi delle lampade, dai buchi delle serrature.

Era un liquido freddo che avanzava in maniera lenta e pesante, come goccedi mercurio, e a poco a poco formava un manto che ricopriva il pavimento erisaliva lungo le pareti. Sentii che l'acqua mi copriva i piedi e saliva rapidamente.Rimasi sulla poltrona, a osservare come il livello dell'acqua mi arrivava alla golae poi in pochi secondi al soffitto. Avevo l'impressione di galleggiare e distinsi lucipallide ondeggiare dietro i finestroni. Erano figure umane sospese a loro volta inquella tenebra acquosa. Fluivano trascina-te dalla corrente e allungavano le maniverso di me, ma io non potevo aiu-tarle e l'acqua le portava via senza rimedio. Icentomila franchi di Corelli fluttuavano attorno a me, oscillando come pesci dicarta. Attraversai il salotto e mi avvicinai a una porta chiusa in fondo alla stanza.Un filo di luce trapelava dalla serratura. Aprii la porta e vidi che dava su unascalinata che portava nelle profondità della casa. Scesi.

Alla fine delle scale si apriva una sala ovale al cui centro si distingueva ungruppo di figure raccolte in circolo. Quando avvertirono la mia presenza, sigirarono e vidi che vestivano di bianco e indossavano maschere e guanti. Intenseluci bianche ardevano su quello che mi parve un lettino di sala operatoria. Unuomo il cui volto non aveva occhi né lineamenti metteva in ordine i pezzi su unvassoio di strumenti chirurgici. Una delle figure mi tese la mano, invitandomi araggiungerla. Mi avvicinai e sentii che mi prendevano la testa e il corpo e misistemavano sul lettino. Le luci mi ac-cecavano, ma riuscii a vedere che tutte lefigure erano identiche e avevano il viso del dottor Trias. Risi in silenzio. Uno deidottori aveva in mano una siringa e mi fece un'iniezione nel collo. Non sentiinessuna puntura, solo una piacevole sensazione di stordimento e di calore che misi spargeva per il corpo. Due dottori mi immobilizzarono la testa su unmarchingegno e si-stemarono la corona di viti che sosteneva una placca imbottitaall'estremità. Sentii che mi legavano mani e piedi con delle cinghie. Non fecialcun tipo di resistenza. Quando fui completamente immobilizzato, uno dei dottoritese un bisturi a un suo gemello e quest'ultimo si chinò su di me. Sentii chequalcuno mi afferrava la mano e me la teneva. Era un bambino che mi guardavacon tenerezza e con la stessa espressione che avevo avuto io il giorno in cuiavevano ucciso mio padre.

Vidi la lama del bisturi discendere nella tenebra liquida e sentii che il metallomi faceva un taglio sulla fronte. Non provai dolore. Sentii che qualcosa sisprigionava dal taglio e vidi una nube nera che sanguinava lentamente dalla feritae si spargeva nell'acqua. Il sangue saliva a volute verso la luce, come fumo, e sicontorceva in forme cangianti. Guardai il bambino, che mi sorrideva e mi teneva

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forte la mano. Lo notai allora. Qualcosa si muoveva dentro di me. Qualcosa cheappena un istante prima stringeva come una tenaglia intorno alla mia mente.Sentii che qualcosa si ritraeva, come un ago conficcato fin nel midollo che vieneestratto con le pinze.

Provai panico e cercai di alzarmi, ma ero immobilizzato. Il bambino miguardava fisso e annuiva. Credetti di essere sul punto di svenire, o di svegliarmi, eallora lo vidi. Lo vidi riflesso nelle luci sopra il lettino. Un paio di filamenti scurispuntavano dalla ferita, strisciandomi sulla pelle. Era un ragno nero dellagrandezza di un pugno. Mi corse sulla faccia e, prima che potesse saltare giù, unodei chirurghi l'infilzò con un bisturi. Lo sollevò al-la luce perché potessi vederlo. Ilragno agitava le zampe e sanguinava in controluce. Una macchia candida glicopriva il carapace e suggeriva una sagoma dalle ali spiegate. Un angelo. Dopoun po', le zampe rimasero inerti e il corpo si staccò dal bisturi. Restò a fluttuare equando il bambino alzò la mano per toccarlo si dissolse in polvere. I dottori misciolsero i legacci e allentarono il marchingegno che mi attanagliava il cranio.Con l'aiuto dei medici, mi sollevai sul lettino e mi portai la mano alla fronte. Laferita si stava richiudendo. Quando mi guardai di nuovo attorno, mi resi conto diessere solo.

Le luci della sala operatoria si spensero e la stanza rimase in penombra.Tornai verso la scalinata e salii i gradini che mi condussero di nuovo in salotto.

La luce dell'alba filtrava nell'acqua e catturava mille particelle in sospensione.Ero stanco. Più stanco di quanto fossi mai stato in tutta la vita.

Mi trascinai fino alla poltrona e mi lasciai andare. Il mio corpo caddelentamente e quando alla fine fu a riposo sulla poltrona vidi scie di piccole bolleche iniziavano a trotterellare sul soffitto. Una piccola camera d'aria si formò inalto e capii che il livello dell'acqua cominciava a calare. L'acqua, densa ebrillante come gelatina, fuoriusciva a fiotti dalle fessure delle finestre come se lacasa fosse un sommergibile in emersione. Mi rannicchiai sulla poltrona, in predaa una sensazione di leggerezza e di pace che non avrei mai più volutoabbandonare. Chiusi gli occhi e ascoltai il mormorio dell'acqua attorno a me. Liriaprii e intravidi una pioggia di gocce che cadevano molto lentamente, comelacrime che si potevano fermare al volo.

Ero stanco, molto stanco e desideravo solo dormire profondamente.Aprii gli occhi all'intenso chiarore di un caldo mezzogiorno. La luce cadeva

come polvere dai finestroni. La prima cosa che notai fu che i centomila franchierano ancora sul tavolo. Mi alzai e mi avvicinai alla finestra.

Feci scorrere le tende e un tentacolo di chiarore accecante invase la stanza.Barcellona era sempre là, ondulante come un miraggio provocato dal calore.

Fu allora che mi resi conto che il sibilo alle orecchie, di solito masche-rato dairumori del giorno, era completamente scomparso. Sentii un silenzio intenso, purocome acqua cristallina, che non ricordavo di avere mai sperimentato. Sentii me

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stesso ridere. Mi portai le mani alla testa e palpai la pelle. Non avvertivo nessunapressione. La mia visione era chiara e avevo l'impressione che i cinque sensi sifossero appena risvegliati. Potei sentire nelle narici l'odore di legno vecchio delsoffitto a cassettoni. Cercai uno specchio, ma non ce n'era uno in tutta la stanza.Uscii alla ricerca di un bagno o di un'altra stanza in cui trovare uno specchio persincerarmi che non mi ero risvegliato nel corpo di un estraneo, che quella pelleche sentivo e quelle ossa erano mie. Tutte le porte di casa erano chiuse. Percorsil'intero piano senza riuscire ad aprirne nemmeno una. Tornai in salotto e verificaiche dove avevo sognato una porta che dava in cantina c'era solo un quadro conl'immagine di un angelo raccolto su se stesso sopra uno scoglio che emergeva daun lago infinito. Mi diressi verso le scale che salivano ai piani superiori, maappena imboccai la prima rampa mi fermai.

Un'oscurità pesante e impenetrabile sembrava abitare al di là del punto in cuiil chiarore svaniva.

—Signor Corelli?— chiamai.La mia voce si perse come se si fosse scontrata con qualcosa di solido, senza

provocare echi o riflessi. Tornai in salotto e guardai il denaro sul tavolo.Centomila franchi. Li presi e li soppesai. La carta si lasciava accarezzare. Me limisi in tasca e m'incamminai di nuovo per il corridoio che portava all'esterno. Ledecine di volti dei ritratti continuavano a osservarmi con l'intensità di unapromessa. Preferii non affrontare quegli sguardi e mi diressi all'uscita, maappena prima di raggiungerla notai che tra le cornici ce n'era una vuota, senzatarghetta né fotografia. Sentii un odore dolce e come di pergamena e mi resiconto che veniva dalle mie dita. Era il profumo dei soldi. Aprii la porta principalee uscii alla luce del giorno. La porta si richiuse pesantemente alle mie spalle. Mivoltai per osservare la casa, oscura e silenziosa, estranea al raggiante chiarore diquella giornata di cieli azzurri e sole splendente. Consultai l'orologio e vidi che eral'una passata.

Avevo dormito più di dodici ore di seguito su una vecchia poltrona, e tuttavianon mi ero mai sentito meglio in tutta la vita. M'incamminai giù per la collina diritorno in città con il sorriso in volto e la certezza che, per la prima volta inmoltissimo tempo, forse per la prima volta nella mia vita, il mondo mi sorrideva.

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ATTO SECONDOLux Aeterna

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1

Festeggiai il mio ritorno nel mondo dei vivi rendendo grazie in uno dei templi piùinfluenti della città: la sede centrale del Banco Hispano Colonial in calleFontanella. Alla vista dei centomila franchi, il direttore, i funzionari e tutto unesercito di cassieri e contabili andarono in estasi e mi in-nalzarono agli altaririservati a quei clienti che ispirano una devozione e una simpatia molto prossimealla santità. Risolta l'incombenza della banca, decisi di vedermela con un altrocavallo dell'apocalisse e mi avvicinai a un'edicola di plaza Urquinaona. Aprii piùo meno alla metà una copia della

« Voz de la Industria» e cercai la sezione di cronaca che una volta era stata lamia. La mano esperta di don Basilio si scorgeva ancora nei titoli e riconobbi quasitutte le firme, come se il tempo non fosse passato. I sei anni di blanda dittatura delgenerale Primo de Rivera avevano regalato alla città una calma velenosa etorbida che non faceva buon gioco alle pagine di cronaca nera. Sui giornalicominciava appena a comparire qualche storia di bombe o di sparatorie.Barcellona, la temibile « Rosa di fuoco» , cominciava ad assomigliare più chealtro a una pentola a pressione. Stavo per chiudere il giornale e ritirare il restoquando lo vidi. Era solo un trafiletto a una colonna con quattro notizie evidenziatenell'ultima pagina di cronaca.

UN INCENDIO A MEZZANOTTE AL RAVALPROVOCA UN MORTO E DUE FERITI GRAVIJoan Marc Huguet / Redazione. BarcellonaNella notte di venerdì si è verificato un grave incendio al numero 6 di plaza

dels Angels, nella sede della casa editrice Barrido ed Escobillas, nel quale haperso la vita il direttore dell'azienda, il signor José Barrido, e sono rimastigravemente feriti il suo socio, il signor José Luis López Escobillas, e il dipendentesignor Ramón Guzmán, raggiunto dalle fiamme mentre cercava di prestare aiutoai due responsabili della ditta. I pompieri ritengono che la causa dell'incendio siada attribuirsi alla combustione di una sostanza chimica impiegata per laristrutturazione degli uffici. Non si e-scludono per il momento altre cause,giacché testimoni oculari af-fermano di aver visto un uomo uscire dai locali unistante prima dello scoppio dell'incendio. Le vittime sono state trasportateall'Hospital Clinic, dove una è giunta cadavere e le altre due sono tuttoraricoverate con prognosi riservata.

Arrivai più in fretta che potei. La puzza di bruciato si sentiva fin dalleRamblas. Un gruppo di vicini e di curiosi si era riunito sulla piazza di fronte alpalazzo. Fili di fumo bianco salivano da un mucchio di macerie accantoall'entrata. Riconobbi diversi impiegati della casa editrice che cercavano disalvare tra le rovine il poco che era rimasto. Scatoloni di libri bruciacchiati emobili morsi dalle fiamme si ammucchiavano in strada. La facciata era rimasta

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annerita, le finestre erano saltate per il fuoco. Attraversai il cerchio di guardonied entrai. Un fetore intenso mi si appiccicò alla gola. Alcuni dipendenti della casaeditrice che si davano da fare per recuperare le loro cose mi riconobbero e misalutarono a testa bassa.

—Signor Martín… che disgrazia— mormoravano.Attraversai quella che era stata la reception e mi diressi all'ufficio di Barrido.

Le fiamme avevano divorato i tappeti e ridotto i mobili a scheletri di brace. Ilsoffitto a cassettoni era crollato in un angolo, lasciando intravedere la luce cheproveniva dal cortile posteriore. Un fascio intenso di cenere fluttuanteattraversava la sala. Una sedia era sopravvissuta miracolo-samente al fuoco. Eraal centro della stanza e vi sedeva la Veleno, che piangeva con lo sguardosconsolato. Mi accovacciai davanti a lei. Mi riconobbe e sorrise tra le lacrime.

—Stai bene?— domandai.Annuì.—Mi aveva detto di andare a casa, sai?, mi aveva detto che era già tardi e che

dovevo riposare perché oggi avremmo avuto una giornata molto lunga.Stavamo chiudendo la contabilità del mese… Se fossi rimasta un altro

minuto… ——Cos'è successo, Herminia?——Abbiamo lavorato fino a tardi. Era quasi mezzanotte quando il signor

Barrido mi ha detto di andarmene a casa. Gli editori stavano aspettando unsignore che doveva incontrarli… —

—A mezzanotte? Quale signore?——Uno straniero, credo. Aveva qualcosa a che fare con un'offerta, non so.Sarei rimasta volentieri, ma era molto tardi e il signor Barrido mi ha detto…

——Herminia, quel signore, ti ricordi il nome?—La Veleno mi guardò sorpresa.—Tutto quello che ricordo l'ho già raccontato all'ispettore che è venuto

stamattina. Mi ha chiesto di te.——Un ispettore? Di me?——Stanno parlando con tutti.——È chiaro.—La Veleno mi fissava diffidente, come se cercasse di leggermi nel pensiero.—Non sanno se ne uscirà vivo— mormorò, riferendosi a Escobillas. —

Abbiamo perso tutto, gli archivi, i contratti… Tutto. È la fine della casa editrice.——Mi dispiace, Herminia.—Un sorriso contorto e malizioso le affiorò alle labbra.—Ti dispiace? Non è quello che volevi?——Come puoi pensare una cosa del genere?—La Veleno mi guardò con sospetto.

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—Adesso sei libero.—Feci il gesto di toccarle il braccio, ma Herminia si alzò e arretrò di un passo,

come se la mia presenza le facesse paura.—Herminia… ——Vattene— disse.La lasciai tra le rovine fumanti. Uscendo in strada m'imbattei in un gruppo di

ragazzini intenti a scavare tra i mucchi di macerie. Uno di loro aveva dissotterratoun libro dalle ceneri e lo esaminava con un misto di curiosità e disprezzo. Lacopertina era stata lambita dalle fiamme e il bordo delle pagine era annerito, maper il resto il libro era intatto. Riconobbi dall'incisione sul dorso che si trattava diuna delle puntate della Città dei maledetti.

—Signor Martín?—Mi voltai e mi trovai di fronte tre uomini agghindati con vestiti in saldo inadatti

al caldo umido e appiccicoso che aleggiava nell'aria. Uno di loro, che sembravail capo, avanzò di un passo e mi rivolse un sorriso cordiale, da venditore esperto.Gli altri due, che parevano avere la costituzione e il temperamento di una pressaidraulica, si limitarono a fissarmi con uno sguardo apertamente ostile.

—Signor Martín, sono l'ispettore Víctor Grandes e questi sono i miei colleghi,gli agenti Marcos e Castelo. Mi domando se può essere tanto cortese da dedicarcipochi minuti.—

—Naturalmente— risposi.Il nome di Víctor Grandes lo ricordavo dagli anni trascorsi in cronaca.Vidal gli aveva dedicato qualche articolo e me ne venne in mente in

particolare uno in cui lo definiva la rivelazione della polizia, una valida risorsa checonfermava l'arrivo nelle forze dell'ordine di una nuova generazione diprofessionisti d'élite con una formazione migliore dei loro predecessori,incorruttibili e duri come l'acciaio. Gli aggettivi e l'iperbole erano di Vidal, nonmiei. Immaginai che da allora l'ispettore Grandes non avesse fatto altro chescalare gerarchie nel comando, e che la sua presenza lì rivelava che il corpoprendeva sul serio l'incendio degli uffici di Barrido ed Escobillas.

—Se non le spiace, possiamo andare in un caffè per parlare senza essereinterrotti— disse Grandes senza ammainare di una virgola il sorriso di servizio.

—Come preferisce.—Grandes mi condusse in un piccolo bar all'angolo tra calle Doctor Dou e calle

Pintor Fortuny. Marcos e Castelo camminavano alle nostre spalle, senza togliermigli occhi di dosso. Grandes mi offrì una sigaretta, che rifiutai. Rimise via ilpacchetto. Non aprì bocca fin quando non arrivammo al caffè e i tre miscortarono fino a un tavolino sul fondo dove si appostarono intorno a me. Se miavessero portato in una cella buia e umida, l'incontro mi sarebbe sembrato piùamichevole.

—Signor Martín, credo che sia a conoscenza di quanto è accaduto questa

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notte.——So solo quello che ho letto sul giornale. E quello che mi ha raccontato la

Veleno… ——La Veleno?——Mi scusi. La signorina Herminia Duaso, la segretaria di direzione.—Marcos e Castelo si scambiarono uno sguardo impagabile. Grandes sorrise.—Interessante soprannome. Mi dica, signor Martín, dove si trovava ieri notte?

—Beata ingenuità, la domanda mi colse di sorpresa.—È una domanda di routine— chiarì Grandes. —Stiamo cercando di stabilire

gli spostamenti di tutte le persone che potrebbero avere avuto rapporti con levittime negli ultimi giorni. Impiegati, fornitori, familiari, conoscen-ti… —

—Ero con un amico.—Appena aprii bocca mi pentii della scelta delle parole. Grandes lo notò.—Un amico?——Più che di un amico, si tratta di una persona con cui ho rapporti di lavoro.

Un editore. Ieri sera avevo un appuntamento con lui.——Potrebbe dire fino a che ora è rimasto con questa persona?——Fino a tardi. In effetti, ho finito per passare la notte a casa sua.——Capisco. E la persona con cui dice di avere rapporti di lavoro si chiama?——Corelli. Andreas Corelli. Un editore francese.—Grandes annotò il nome su un piccolo quaderno.—Il cognome sembrerebbe italiano— commentò.—A dire il vero non so con esattezza quale sia la sua nazionalità.——È comprensibile. E questo signor Corelli, qualunque sia la sua cittadi-nanza,

potrebbe confermare che ieri sera si trovava con lei?—Mi strinsi nelle spalle.—Suppongo di sì.——Lo suppone?——Ne sono sicuro. Perché non dovrebbe farlo?——Non lo so, signor Martín. C'è qualche motivo per cui lei crede che non lo

farebbe?——No.——Argomento chiuso, allora.—Marcos e Castelo mi guardavano come se da quando ci eravamo seduti mi

avessero sentito pronunciare solo frottole.—Per finire, potrebbe chiarirmi la natura dell'incontro di ieri sera tra lei e

questo editore di nazionalità imprecisata?——Il signor Corelli mi aveva dato appuntamento per formularmi un'offerta.——Che genere di offerta?——Professionale.—

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—Capisco. Scrivere un libro, forse?——Esattamente.——Mi dica, è sua abitudine, dopo una riunione di lavoro, fermarsi a dormire in

casa della, diciamo, parte contraente?——No.——Però mi ha detto che è rimasto a dormire al domicilio di questo editore.——Mi sono fermato perché non mi sentivo bene e non credevo di poter

arrivare a casa.——Le ha forse fatto male la cena?——Ho avuto qualche problema di salute ultimamente.—Grandes annuì con aria costernata.—Nausee, mal di testa…— completai.—Ma è ragionevole presumere che adesso sta meglio?——Sì. Molto meglio.——Me ne rallegro. Di sicuro ha un aspetto invidiabile. Non è così?—Castelo e Marcos annuirono lentamente.—Chiunque direbbe che lei si sia tolto un gran peso di dosso— osservò

l'ispettore.—Non la seguo.——Mi riferisco alle nausee e ai disturbi.—Grandes conduceva quella farsa con un dominio del tempo esasperante.—Scusi la mia ignoranza riguardo ai dettagli del suo ambito professionale,

signor Martín, ma lei non aveva sottoscritto un contratto con i due editori chesarebbe scaduto fra sei anni?—

—Cinque.——E questo contratto non la legava in esclusiva, per così dire, alla casa editrice

di Barrido ed Escobillas?——Questi erano i termini.——Allora, per quale motivo lei avrebbe dovuto discutere un'offerta con un

concorrente se il suo contratto le impediva di accettarla?——Era una semplice conversazione. Niente di più.——Che tuttavia si è trasformata in una nottata nel domicilio di questo signore.

——Il mio contratto non mi impedisce di parlare con terzi. E nemmeno di

passare la notte fuori casa. Sono libero di dormire dove voglio e parlare di quelloche voglio con chi voglio.—

—Certamente. Non volevo insinuare il contrario, ma grazie per avermichiarito questo punto.—

—Posso chiarirle qualcos'altro?——Solo un dettaglio. Nell'ipotesi che, defunto il signor Barrido e che, Dio non

voglia, il signor Escobillas non si rimettesse dalle ferite e morisse anche lui, la

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casa editrice verrebbe sciolta e così pure il suo contratto. Mi sbaglio?——Non ne sono sicuro. Non so esattamente in che regime era costituita

l'impresa.——Ma secondo lei è probabile che andrebbe così?——È possibile. Dovrebbe chiederlo all'avvocato degli editori.——Difatti gliel'ho già chiesto. E mi ha confermato che, se accadesse quello

che nessuno vuole che accada e il signor Escobillas passasse a miglior vita,andrebbe proprio così.—

—Allora lei ha già la sua risposta.——E lei piena libertà di accettare l'offerta del signor… ——Corelli.——Mi dica, l'ha già accettata?——Posso chiederle cosa c'entra questo con le cause dell'incendio?— sbottai.—Niente. Semplice curiosità.——È tutto?— chiesi.Grandes guardò i suoi colleghi e poi me.—Per parte mia, sì.—Accennai ad alzarmi. I tre poliziotti rimasero incollati ai loro posti.—Signor Martín, prima che mi dimentichi— disse Grandes. —Può confer-

marmi se ricorda che una settimana fa i signori Barrido ed Escobillas le hannofatto visita al suo domicilio al numero 30 di calle Flassaders in compagnia delsuccitato avvocato?—

—L'hanno fatto.——Si trattava di una visita d'affari o di cortesia?——Gli editori sono venuti a esprimermi il loro desiderio che ritornassi a

lavorare a una serie di libri che avevo accantonato per dedicare qualche mese aun altro progetto.—

—Definirebbe la conversazione come cordiale e distesa?——Non ricordo che nessuno abbia alzato la voce.——E ricorda di aver risposto, cito testualmente, « tra una settimana sarete

morti» ? Senza alzare la voce, naturalmente.—Sospirai.—Sì— ammisi.—A cosa si riferiva?——Ero arrabbiato e ho detto la prima cosa che mi è passata per la testa,

ispettore. Questo non significa che parlassi sul serio. A volte si dicono cose chenon si pensano.—

—Grazie per la sua sincerità, signor Martín. Ci è stato di grande aiuto.Buona giornata.—Me ne andai con i tre sguardi conficcati come pugnali nella schiena e la

certezza che se avessi risposto a ogni domanda dell'ispettore con una men-zogna

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non mi sarei sentito così colpevole.

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2

Il cattivo sapore in bocca lasciatomi dall'incontro con Víctor Grandes e la coppiadi basilischi che si portava dietro come scorta durò soltanto per cento metri dipasseggiata al sole, mentre camminavo in un corpo che a stento riconoscevo:forte, senza dolore né nausea, senza sibili alle orecchie né fitte di agonia nelcranio, senza fatica né sudori freddi. Senza alcuna memoria della certezza di unamorte sicura che mi asfissiava appena ventiquattr'ore prima. Qualcosa mi dicevache la tragedia accaduta quella notte, inclusa la morte di Barrido e il probabiledecesso di Escobillas, avrebbe dovuto riempirmi di dispiacere e di angoscia, mané io né la mia coscienza fummo in grado di provare qualcosa che andasse oltrela più piacevole indifferenza. Quella mattina di luglio le Ramblas erano una festae io il loro principe.

Passeggiando, mi ritrovai dalle parti di calle Santa Ana, con l'idea di fare unavisita a sorpresa al signor Sempere. Quando entrai nella libreria, Sempere padreera dietro il bancone a cercare di far quadrare i conti mentre suo figlio si eraarrampicato su una scala e stava riordinando gli scaffali. Vedendomi, il libraio mirivolse un sorriso cordiale e mi resi conto che, per un istante, non mi avevariconosciuto. Un secondo dopo gli si cancellò il sorriso dalla faccia e, a boccaaperta, fece il giro del bancone per abbrac-ciarmi.

—Martín? È lei? Santa Madre di Dio… Ma è irriconoscibile! Ero preoc-cupatissimo. Siamo stati diverse volte a casa sua, ma lei non rispondeva.

Ho chiesto negli ospedali e nei commissariati.—Il figlio restò a guardarmi dall'alto della scala, incredulo. Dovetti ricor-darmi

che appena una settimana prima mi avevano visto in uno stato che non avevanulla da invidiare agli inquilini dell'obitorio del quinto distretto.

—Mi dispiace avervi fatto preoccupare. Mi sono assentato qualche giorno permotivi di lavoro.—

—Ma allora? Mi ha dato retta ed è andato dal medico, vero?—Annuii.—Alla fine era una sciocchezza. Problemi di pressione. Un ricostituente per

qualche giorno e sono tornato come nuovo.——Poi mi dice il nome del ricostituente, magari mi ci faccio una doccia…Che piacere e che sollievo vederla così!—L'euforia si esaurì rapidamente quando piombò tra di noi la notizia del giorno.—Ha sentito di Barrido ed Escobillas?— chiese il libraio.—Vengo da lì. Si fa fatica a crederci.——Chi l'avrebbe detto? Non che mi ispirassero simpatia, ma da qui a una cosa

del genere… E mi dica, tutto questo, per lei, sul piano legale, che con-seguenzeha? Scusi la brutalità della domanda.—

—A dire il vero non lo so. Credo che i due soci fossero i titolari della società.

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Ci saranno eredi, immagino, ma se entrambi vengono a mancare la società inquanto tale potrebbe essere sciolta. E anche il mio contratto con loro. Almenocredo.—

—Vale a dire che, se anche Escobillas, che Dio mi perdoni, crepa, lei è unuomo libero.—

Annuii.—Bel dilemma…— mormorò il libraio.—Sia fatta la volontà di Dio— azzardai.Sempere annuì, ma notai che qualcosa in tutta quella faccenda lo inquie-tava

e preferiva cambiare argomento.—Insomma. Comunque, mi viene a fagiolo che sia passato di qui perché

volevo chiederle un favore.——Lo consideri già fatto.——L'avverto che non le piacerà.——Se mi piacesse non sarebbe un favore, sarebbe un piacere. E se il favore è

per lei, lo sarà.——In realtà non è per me. Glielo spiego e lei decide. Senza impegno,

d'accordo?—Sempere si appoggiò sul bancone e adottò l'espressione affabulatoria che mi

rievocava tanti ricordi d'infanzia legati a quel negozio.—È per una ragazza, Isabella. Deve avere diciassette anni. Sveglia come la

fame. Viene sempre qui e le presto dei libri. Mi dice che vuole diventarescrittrice.—

—La storia non mi è nuova— dissi.—Fatto sta che una settimana fa mi ha lasciato uno dei suoi racconti, niente,

venti o trenta pagine, e mi ha chiesto un parere.——E allora?—Sempere abbassò il tono, come se mi raccontasse una confidenza vinco-lata a

un segreto istruttorio.—Magistrale. Meglio del novantanove per cento delle cose che ho visto

pubblicare negli ultimi vent'anni.——Spero che mi conti nel rimanente uno per cento o la mia vanità si sentirà

calpestata e pugnalata a tradimento.——Proprio lì andavo a parare. Isabella l'adora.——Mi adora? Me?——Sì, come se fosse la Vergine di Montserrat e il Bambin Gesù allo stesso

tempo. Si è letta La città dei maledetti dieci volte e quando le ho dato I passi delcielo mi ha detto che se lei fosse capace di scrivere un libro così potrebbe moriretranquilla.—

—Questo mi sa di trappola.——Sapevo che avrebbe svicolato.—

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—Non svicolo. Non mi ha detto in cosa consiste il favore.——Se lo può immaginare.—Sospirai. Sempere schioccò la lingua.—Le ho detto che non le sarebbe piaciuto.——Mi chieda un'altra cosa.——Deve solo parlare con lei. Darle coraggio, consigli… Ascoltarla, leggere

qualche cosa e orientarla. Non le costerà tanto. Il cervello di quella ragazza èveloce come una pallottola. Le piacerà da matti. Diventerete amici. E puòlavorare come sua assistente.—

—Non ho bisogno di un'assistente. E meno che mai sconosciuta.——Sciocchezze. E poi, conoscerla, già la conosce. O almeno, così dice lei.Sostiene di conoscerla da anni, ma che sicuramente lei non si ricorda. A

quanto pare, quei due sempliciotti dei suoi genitori sono convinti che la faccendadella letteratura la condannerà all'inferno o a una zitellaggine laica e sono indecisise mandarla in convento o farla sposare con qualche cretino che le facciascodellare otto figli e la seppellisca per sempre tra pento-le e padelle. Se lei nonfa qualcosa per salvarla, è l'equivalente di un assas-sinio.—

—Non drammatizzi, signor Sempere.——Guardi, non gliel'avrei chiesto perché so che lei è portato all'altruismo

come per ballare la sardana, però ogni volta che vedo quella ragazza entrare quie guardarmi con quegli occhietti che sprizzano intelligenza ed entusiasmo e pensoall'avvenire che l'aspetta mi si spezza il cuore. Quello che potevo insegnarlegliel'ho già insegnato. La ragazza impara in fretta, Martín. Se mi ricordaqualcuno, è lei da ragazzo.—

Sospirai.—Isabella e poi?——Gispert. Isabella Gispert.——Non la conosco. Mai sentito questo nome. Le hanno raccontato una frottola.

—Il libraio scosse la testa.—Isabella ha detto che lei avrebbe risposto esattamente così.——Piena di talento e anche indovina. E cos'altro le ha detto?——Sospetta che lei sia molto meglio come scrittore che come persona.——Un tesoro, questa Isabelita.——Posso dirle di venire a trovarla? Senza impegno?—Mi arresi e annuii. Sempere sorrise trionfante e voleva sigillare il patto con un

abbraccio, ma mi diedi alla fuga prima che il vecchio libraio potesse completarela sua missione di cercare di farmi sentire una brava persona.

—Non se ne pentirà, Martín— gli sentii dire mentre uscivo.

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3

Arrivando a casa, trovai l'ispettore Víctor Grandes seduto sulle scale nell'atrioche si gustava con calma una sigaretta. Quando mi vide, sorrise con quella graziada attore d'avanspettacolo, come se fosse un vecchio amico in visita di cortesia.Mi sedetti accanto a lui e mi offrì il portasigarette aperto. Gitanes, notai. Accettai.

—E Hansel e Gretel?——Marcos e Castelo non sono potuti venire. Abbiamo avuto una soffiata e sono

andati a prendere un vecchio conoscente al Pueblo Seco che probabilmenteaveva bisogno di un po' di persuasione per rinfrescare la memoria.—

—Povero diavolo.——Se avessi detto che venivo da lei, sarebbero corsi. La trovano simpati-

cissimo.——Un autentico colpo di fulmine, l'ho notato. Cosa posso fare per lei, ispettore?

Gradisce un caffè di sopra?——Non oserei invadere la sua intimità, signor Martín. In realtà volevo solo

darle la notizia di persona prima che la sapesse da altri.——Che notizia?——Escobillas è morto nelle prime ore di questo pomeriggio al Clinic.——Dio. Non lo sapevo— dissi.Grandes si strinse nelle spalle e continuò a fumare in silenzio.—C'era da immaginarselo. Cosa ci possiamo fare?——È riuscito ad appurare qualcosa sulle cause dell'incendio?— domandai.L'ispettore mi guardò a lungo e poi annuì.—Tutto sembra indicare che qualcuno ha versato della benzina addosso al

signor Barrido e gli ha dato fuoco. Le fiamme si sono propagate quando lui, inpreda al panico, ha cercato di fuggire dal suo ufficio. Il socio e l'altro dipendenteaccorso in suo aiuto sono stati avvolti dal fuoco.—

Deglutii. Grandes sorrise tranquillizzante.—Mi diceva poco fa l'avvocato degli editori che, visto il vincolo personale

presente nel testo sottoscritto con loro, al decesso degli editori il contratto vienesciolto, anche se gli eredi mantengono i diritti sulla sua opera già pubblicata.Suppongo che le scriverà una lettera per informarla, ma ho pensato che lesarebbe piaciuto saperlo prima, nel caso debba prendere una decisionesull'offerta di quell'editore di cui mi ha parlato.—

—Grazie.——Di nulla.—Grandes finì la sigaretta e gettò il mozzicone a terra. Mi sorrise affabil-mente

e si alzò. Mi diede una pacca sulla spalla e si allontanò in direzione di callePrincesa.

—Ispettore?— chiamai.

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Grandes si fermò e si voltò.—Lei non penserà… —L'ispettore mi rivolse un sorriso triste e stanco.—Si riguardi, Martín.—Me ne andai a dormire presto e mi svegliai di colpo credendo che fosse già il

giorno successivo, per scoprire subito dopo che era da poco passata mezzanotte.In sogno avevo visto Barrido ed Escobillas imprigionati nel loro ufficio.Le fiamme risalivano lungo i vestiti fino a ricoprire ogni centimetro dei lo-ro

corpi. Sotto gli indumenti, la pelle cadeva a brandelli e gli occhi iniettati di panicosi spaccavano a causa del fuoco. I loro corpi sussultavano in spa-smi di agonia eterrore fino ad abbattersi tra le macerie, mentre la carne si staccava dalle ossacome cera fusa e formava ai miei piedi una pozzanghera fumante, nella qualevedevo riflesso il mio stesso volto sorridente che spegneva con un soffio ilfiammifero che avevo tra le dita.

Mi alzai per bere un bicchier d'acqua e, convinto di avere ormai perso il trenodel sonno, salii nello studio e tirai fuori dal cassetto della scrivania il libro salvatodal Cimitero dei Libri Dimenticati. Accesi la lampada e ne regolai il braccio perdirigere la luce esattamente sul libro. Lo aprii alla prima pagina e iniziai aleggere.

Lux AeternaD.M.A prima vista, il libro conteneva una raccolta di testi e preghiere che non

aveva alcun senso. Si trattava di un originale, una manciata di pagine dattiloscrittee rilegate in pelle senza eccessiva cura. Continuai a leggere e dopo un po' misembrò di intuire un certo metodo nella sequenza di eventi, canti e riflessionidisseminati nel testo. Il linguaggio aveva una sua particolare cadenza, e quellache all'inizio sembrava una completa assenza di struttura o di stile a poco a pocosvelava un canto ipnotico che penetrava nel lettore immergendolo in uno stato trail sopore e l'oblio. La stessa cosa accadeva con il contenuto, il cui asse centralenon emergeva finché non ci si era ben addentrati nella prima sezione, o canto,giacché l'opera pareva strutturata alla maniera dei vecchi poemi composti inepoche in cui il tempo e lo spazio scorrevano a loro libero arbitrio. Mi resi alloraconto che quel Lux Aeterna era, in mancanza di altre parole, una specie di librodei morti.

Passate le prime trenta o quaranta pagine di inutili giri di parole ed e-nigmi, cisi addentrava in un preciso e stravagante rompicapo di orazioni e supplichesempre più inquietanti in cui la morte, descritta in versi dalla dubbia metrica avolte come un angelo bianco con gli occhi da rettile e altre come un bambinoluminoso, era presentata come una divinità unica e onnipresente che simanifestava nella natura, nel desiderio e nella fragilità dell'esistenza.

Chiunque fosse quell'enigmatico D.M., nei suoi versi la morte si dispiegava

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come una forza vorace ed eterna. Una commistione bizantina di riferimenti adistinte mitologie di paradisi e averni si disponeva qui su un unico piano. SecondoD.M. c'erano solo un principio e una fine, un solo creatore e distruttore che sipresentava con diversi nomi per confondere gli uomini e mettere alla prova laloro debolezza, un unico Dio il cui vero volto era diviso in due metà: una, dolce ecompassionevole; l'altra, crudele e demoniaca.

Questo è quanto riuscii a dedurre, perché al di là di tali princìpi l'autoresembrava aver perso il filo della sua narrazione e a stento era possibile decifrare iriferimenti e le immagini che popolavano il testo a mo' di visioni profetiche.Tempeste di sangue e di fuoco che precipitavano su città e villaggi. Eserciti dicadaveri in uniforme che percorrevano pianure infinite cancellando ogni tracciadi vita al loro passaggio. Neonati impiccati con brandelli di bandiere alle portedelle fortezze. Mari oscuri dove migliaia di anime in pena fluttuavano sospese perl'eternità in acque gelide e avvelena-te. Nubi di cenere e oceani di ossa e carne inputrefazione infestati di insetti e serpenti. La successione di immagini infernali enauseabonde continuava fino alla sazietà.

A mano a mano che sfogliavo il manoscritto, avevo la sensazione dipercorrere passo dopo passo la mappa di una mente malata e incrinata. Rigodopo rigo, l'autore di quelle pagine aveva documentato senza saperlo la suadiscesa in un abisso di follia. La terza e ultima parte del libro mi sembrò untentativo di ripercorrere il cammino all'indietro, un urlo disperato dalla cella dellasua pazzia per sfuggire al labirinto di gallerie che gli aveva sca-vato nella mente.Il testo moriva a metà frase di una supplica, una soluzione di continuitàinspiegabile.

Arrivato a quel punto, mi cadevano le palpebre dal sonno. Dalla finestra migiunse una brezza leggera che veniva dal mare e spazzava via la nebbia dai tetti.Stavo per chiudere il libro quando avvertii che qualcosa era rimasto ingorgato nelfiltro della mia mente, qualcosa che aveva a che fare con i caratteri tipografici diquelle pagine. Tornai all'inizio e cominciai a rie-saminare il testo. Trovai la primaoccorrenza al quinto rigo. A partire da lì lo stesso segno compariva ogni due o trerighi. Una delle lettere, la S ma-iuscola, era sempre leggermente inclinata versodestra. Presi un foglio bianco dal cassetto e lo infilai nel rullo della Underwoodsulla mia scrivania. Scrissi una frase a caso.

Suonano le campane di Santa Maria del Mar.Estrassi il foglio e lo esaminai bene alla luce della lampada.Suonano… di Santa MariaSospirai. Lux Aeterna era stato scritto con quella stessa macchina per scrivere

e, immaginai, probabilmente a quella stessa scrivania.

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4

Il mattino dopo scesi a far colazione in un bar di fronte alle porte di Santa Mariadel Mar. Il quartiere del Born era zeppo di carri e persone che si recavano almercato e di commercianti e venditori all'ingrosso che aprivano i negozi. Misedetti a un tavolino all'aperto e ordinai un caffellatte. Una copia della« Vanguardia» era rimasta orfana sul tavolino di fianco e la adottai. Mentre gliocchi scivolavano su titoli e sommari notai che una figura saliva la scalinata finoall'entrata della cattedrale e si sedeva sull'ultimo gradino per osservarmi senzafarsi notare. La ragazza doveva avere sedici o diciassette anni e fingeva diprendere appunti su un quaderno mentre mi lanciava occhiate furtive. Degustaicon calma il caffellatte. Dopo un po'

feci segno al cameriere di avvicinarsi.—Vede quella signorina seduta sulla porta della chiesa? Le dica di ordinare

quello che vuole, offro io.—Il cameriere annuì e si diresse verso di lei. Vedendolo avvicinarsi, la ragazza

affondò la testa nel quaderno e assunse un'espressione di assoluta concentrazioneche mi strappò un sorriso. Il cameriere le si fermò davanti e tossicchiò. Lei alzògli occhi dal quaderno e lo guardò. Il cameriere le spiegò la propria missione efinì per indicarmi. La ragazza, allarmata, mi lanciò uno sguardo. La salutai con lamano. Le si accesero le guance come braci. Si alzò e si avvicinò al tavolo a passicorti e lo sguardo fisso sui piedi.

—Isabella?— domandai.La ragazza alzò lo sguardo e sospirò, infastidita con se stessa.—Come fa a saperlo?— chiese.—Intuizione sovrannaturale— risposi.Mi diede la mano e gliela strinsi senza entusiasmo.—Posso sedermi?— domandò.Prese posto senza attendere la mia risposta. Per mezzo minuto la ragazza

cambiò posizione almeno sei volte per poi riprendere quella iniziale. Io laosservavo con calma e calcolato disinteresse.

—Non si ricorda di me, vero, signor Martín?——Dovrei?——Per anni le ho portato la spesa da Can Gispert ogni settimana.—L'immagine della bambina che per tutto quel tempo mi aveva portato la spesa

dal negozio mi tornò alla memoria e si diluì nel viso più adulto e leggermente piùspigoloso di quella Isabella, donna dalle forme morbide e dallo sguardo d'acciaio.

—La bambina delle mance— dissi, anche se della bambina restava poco onulla.

Isabella annuì.—Mi sono sempre chiesto cosa ci facevi con tutte quelle monete.—

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—Compravo libri da Sempere e Figli.——Se l'avessi saputo… ——Se la disturbo, me ne vado.——Non mi disturbi. Prendi qualcosa?—La ragazza rifiutò.—Il signor Sempere dice che hai talento.—Isabella si strinse nelle spalle e mi restituì un sorriso scettico.—Per norma generale, quanto più talento si ha, più si dubita di averlo—dissi. —E viceversa.——Allora io devo essere un prodigio— ribatté Isabella.—Benvenuta nel club. Dimmi, cosa posso fare per te?—La ragazza inspirò a fondo.—Il signor Sempere mi ha detto che forse lei poteva leggere qualcosa di mio

e darmi il suo parere e qualche consiglio.—La guardai negli occhi per alcuni secondi ma non risposi. Lei sostenne il mio

sguardo senza battere ciglio.—Questo è tutto?——No.——Mi pareva. Qual è il capitolo due?—Isabella esitò solo un istante.—Se le piace quello che legge e crede che io abbia delle possibilità, vorrei

chiederle di permettermi di essere la sua assistente.——Cosa ti fa supporre che ho bisogno di un'assistente?——Posso mettere in ordine le sue carte, battere a macchina, correggere errori

e imperfezioni… ——Errori e imperfezioni?——Non volevo insinuare che lei commetta errori… ——Cosa volevi insinuare, allora?——Niente. Però quattro occhi vedono sempre meglio di due. E poi posso

occuparmi della corrispondenza, recapitare messaggi, aiutarla a cercaredocumentazione. In più, so cucinare e posso… —

—Mi stai chiedendo un posto da assistente o da cuoca?——Le sto chiedendo un'opportunità.—Isabella abbassò lo sguardo. Non riuscii a trattenere un sorriso. Quella curiosa

creatura mi risultava simpatica, mio malgrado.—Facciamo una cosa. Portami le venti pagine migliori che hai scritto, quelle

che secondo te mostrano il meglio che sai fare. Non una di più, perché non cipenso nemmeno, a leggerla. Me le guardo con calma e, a seconda dei casi, neparliamo.—

Le s'illuminò il viso e per un istante quel velo di durezza e di tensione cheirrigidiva la sua espressione svanì.

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—Non se ne pentirà— disse.Si alzò e mi guardò nervosa.—Va bene se gliele porto a casa?——Lasciamele nella cassetta della posta. È tutto?—Annuì ripetutamente e arretrò con quei passi corti e nervosi che la

sostenevano. Quando fu sul punto di girarsi e mettersi a correre la chiamai.—Isabella?—Mi guardò sollecita, lo sguardo annuvolato da un'improvvisa inquietudine.—Perché io?— chiesi. —E non mi dire perché sono il tuo autore preferito e

tutte le lusinghe con cui Sempere ti ha consigliato di insaponarmi, altrimentiquesta sarà la nostra prima e ultima conversazione.—

Isabella esitò un istante. Mi rivolse uno sguardo nudo e rispose senza riguardi.—Perché lei è l'unico scrittore che conosco.—Mi sorrise impacciata e partì con il suo quaderno, il suo passo incerto e la sua

sincerità. La osservai girare l'angolo di calle Mirallers e perdersi dietro lacattedrale.

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5

Tornando a casa appena un'ora dopo, me la ritrovai seduta nell'atrio ad aspettarecon quello che immaginai fosse il suo racconto fra le mani.

Quando mi vide, si alzò e si sforzò di sorridere.—Ti avevo detto di lasciarmelo nella cassetta— dissi.Isabella annuì e si strinse nelle spalle.—Per ringraziarla, le ho portato un po' di caffè dal negozio dei miei. È

colombiano. Buonissimo. Non entrava nella cassetta e ho pensato che era meglioaspettarla.—

Quella scusa poteva venire in mente solo a una romanziera in erba. Sospirai eaprii la porta.

—Dentro.—Salii le scale con Isabella che mi seguiva di qualche gradino come un

cagnolino.—Ci mette sempre tanto a fare colazione? Non che mi riguardi, è chiaro, ma

visto che ero qui ad aspettare da quasi tre quarti d'ora ho cominciato apreoccuparmi, cioè, non sarà che gli è andato qualcosa di traverso, per una voltache incontro uno scrittore in carne e ossa, con la mia fortuna non sarebbe stranose un'oliva gli va di traverso, e lì finisce la mia carriera letteraria— mitragliò laragazza.

Mi fermai a metà della scala e la guardai con l'espressione più ostile cheriuscii a trovare.

—Isabella, se vogliamo far funzionare le cose tra di noi, dovremo stabilireuna serie di regole. La prima è che le domande le faccio io e tu ti limiti arispondere. Quando non ci sono domande da parte mia, da te non verranno nérisposte né discorsi spontanei. La seconda regola è che io, per fare colazione omerenda o per guardare le ragnatele, ci metto tutto il tempo che mi gira, e questonon costituisce oggetto di dibattito.—

—Non volevo offenderla. So che una digestione lenta aiuta l'ispirazione.——La terza regola è che il sarcasmo non lo tollero prima di mezzogiorno.D'accordo?——Sì, signor Martín.——La quarta è che non devi chiamarmi signor Martín nemmeno il giorno del

mio funerale. A te sembrerò un fossile, ma a me piace credere di essere ancoragiovane. Anzi, lo sono e basta.—

—Come devo chiamarla?——Per nome: David.—La ragazza annuì. Aprii la porta di casa e le feci cenno di entrare. Isabella

esitò un istante e s'infilò dentro con un saltino.—Io credo che lei abbia ancora un aspetto abbastanza giovanile per la sua età,

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David.—La guardai, attonito.—Quanti anni credi che abbia?—Isabella mi squadrò dalla testa ai piedi, valutando.—Più o meno una trentina? Ma ben portati, eh?——Fammi il favore di stare zitta e di preparare una caffettiera con quell'in-

truglio che hai portato.——Dov'è la cucina?——Cercatela.—Bevemmo quel delizioso caffè colombiano seduti in salotto. Isabella reggeva

il suo tazzone e mi guardava di sottecchi mentre leggevo le venti pagine che miaveva portato. Ogni volta che giravo una pagina e alzavo gli occhi mi imbattevonel suo sguardo pieno di aspettative.

—Se resti lì a guardarmi come una civetta, ci vorrà un sacco di tempo.——Cosa vuole che faccia?——Non volevi diventare la mia assistente? E allora assistimi. Cerca qualcosa

che ha bisogno di essere messo in ordine e mettilo in ordine, per esempio.—Isabella si guardò attorno.—È tutto in disordine.——Approfitta dell'occasione.—Annuì e partì incontro al caos e al disordine che regnavano con rigore militare

in casa mia. Sentii i suoi passi allontanarsi lungo il corridoio e continuai a leggere.Il racconto che mi aveva portato quasi non aveva trama. Narrava con unasensibilità affilata e parole ben articolate le sensazio-ni e le assenze chepassavano per la mente di una ragazza confinata in una stanza gelida in unasoffitta del quartiere della Ribera, da dove contemplava la città e le persone cheandavano e venivano per i vicoli stretti e scuri.

La ragazza del racconto passava le ore prigioniera del proprio mondo e, avolte, si metteva di fronte a uno specchio e si provocava tagli alle braccia e allecosce con un vetro rotto, lasciando cicatrici come quelle che si potevanointravedere sotto le maniche di Isabella. Stavo quasi per finire la lettura quandoavvertii che mi guardava dalla porta del salotto.

—Che c'è?——Scusi l'interruzione, ma cosa c'è nella stanza in fondo al corridoio?——Niente.——C'è uno strano odore.——Umidità.——Se vuole posso pulirla e… ——No. Quella stanza non si usa. E inoltre tu non sei la mia cameriera e non

devi pulire niente.——Voglio solo dare una mano.—

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—Dammela portandomi un'altra tazza di caffè.——Perché? Il racconto le fa venire sonno?——Che ore sono, Isabella?——Devono essere le dieci.——E questo vuol dire?——Niente sarcasmo fino a mezzogiorno— replicò lei.Sorrisi trionfante e le tesi la tazza vuota. La prese e partì verso la cucina.Quando tornò con il caffè fumante, avevo già finito l'ultima cartella. Isabella

si sedette di fronte a me. Le sorrisi e degustai con calma lo squisito caffè. Laragazza si torceva le mani e stringeva i denti, lanciando sguardi furtivi ai fogli delsuo racconto che avevo lasciato a faccia in giù sul tavolo. Resistette un paio diminuti senza aprire bocca.

—Allora?— disse alla fine.—Superbo.—Le si illuminò il viso.—Il mio racconto?——Il caffè.—Mi guardò, ferita, e si alzò per raccogliere i suoi fogli.—Lasciali dove sono— ordinai.—Perché? È chiaro che non le è piaciuto e che mi giudica una povera idiota.

——Non ho detto questo.——Non ha detto niente, che è peggio.——Isabella, se davvero vuoi scrivere, o almeno scrivere perché altri ti leg-

gano, devi abituarti al fatto che a volte ti ignorino, ti insultino, ti disprezzi-no e chequasi sempre ti dimostrino indifferenza. È uno dei vantaggi del mestiere.—

Isabella abbassò lo sguardo e respirò a fondo.—Io non so se ho talento. So solo che mi piace scrivere. O meglio, che ho

bisogno di scrivere.——Bugiarda.—Alzò gli occhi e mi guardò con durezza.—Benissimo. Ho talento. E non me ne importa un'acca se lei crede che non lo

abbia.—Sorrisi.—Questo già mi piace di più. Non potrei essere più d'accordo.—Mi guardò confusa.—Sul fatto che ho talento o sul fatto che lei crede che non lo abbia?——A te cosa sembra?——Allora, crede che abbia qualche possibilità?——Credo che tu abbia talento ed entusiasmo, Isabella. Più di quanto credi e

meno di quello che ti aspetti. Ma ci sono tante persone che hanno talento ed

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entusiasmo, e molte di loro non arrivano mai a nulla. Questo è solo l'inizio percombinare qualcosa nella vita. Il talento naturale è come la forza di un atleta. Sipuò nascere con maggiori o minori capacità, però nessuno diventa un atletaperché è nato alto o forte o veloce. A fare l'atleta, o l'artista, è il lavoro, ilmestiere e la tecnica. L'intelligenza con cui nasci è solo una dotazione dimunizioni. Per riuscire a farci qualcosa è necessario trasformare la tua mente inun'arma di precisione.—

—E questo paragone bellico?——Ogni opera d'arte è aggressiva, Isabella. E ogni vita d'artista è una piccola o

grande guerra, a cominciare da quella con se stessi e con i propri limiti. Perraggiungere qualunque obiettivo, c'è bisogno prima di tutto dell'ambizione e poidel talento, della conoscenza e, infine, dell'opportunità.—

Isabella valutò le mie parole.—Sciorina questo discorso a tutti o le è appena venuto in mente?——Non è mio. Me l'ha sciorinato, come dici tu, qualcuno a cui feci le stesse

domande che stai facendo a me. È successo molti anni fa, ma non c'è giorno incui non mi renda conto di quanto aveva ragione.—

—Allora posso essere la sua assistente?——Ci penserò.—Isabella annuì, soddisfatta. Si era seduta a un angolo del tavolo sul quale

giaceva l'album di fotografie lasciato da Cristina. Lo aprì a caso all'ultima paginae rimase a guardare un ritratto della recente signora Vidal scattato all'ingresso diVilla Helius due o tre anni prima. Deglutii. Isabella chiuse l'album e fece scorrerelo sguardo sul salotto fino a posarlo di nuovo su di me. Io l'osservavo conimpazienza. Mi sorrise impacciata, come se l'avessi sorpresa a curiosare dovenon doveva.

—Ha una fidanzata molto bella— disse.L'occhiata che le lanciai cancellò il suo sorriso di colpo.—Non è la mia fidanzata.——Ah.—Ci fu un lungo silenzio.—Immagino che la quinta regola sia non impicciarmi di cose che non mi

riguardano.—Non risposi. Isabella annuì tra sé e si alzò.—Allora, meglio che la lasci in pace e che per oggi non la disturbi più. Se le

va bene, torno domani e cominciamo.—Raccolse i suoi fogli e mi sorrise timidamente. Risposi con un cenno di

assenso.Isabella si ritirò con discrezione e sparì in corridoio. Sentii i suoi passi che si

allontanavano e poi il rumore della porta che si chiudeva. In sua assenza, notaiper la prima volta il silenzio che stregava quella casa.

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6

Forse fu l'eccesso di caffeina che mi scorreva nelle vene, o solo la mia coscienzache cercava di tornare, come la luce dopo un blackout, però passai il resto dellamattinata girando intorno a un'idea che non era affatto consolante. Era difficilepensare che non ci fosse qualche rapporto tra l'incendio a causa del quale eranodeceduti Barrido ed Escobillas, da un lato, l'offerta di Corelli, di cui non avevo piùavuto notizie, dall'altro, e lo strano manoscritto salvato dal Cimitero dei LibriDimenticati che sospettavo fosse stato scritto fra quelle quattro mura.

La prospettiva di ritornare, senza essere stato invitato, a casa di AndreasCorelli per chiedergli della coincidenza tra il nostro colloquio e l'incendio,avvenuti quasi contemporaneamente, mi risultava poco gradita. Il mio istinto midiceva che quando l'editore avesse deciso di rivedermi l'avrebbe fatto motuproprio, e che l'ultima cosa che quell'inevitabile incontro mi ispirava era propriola fretta. L'indagine sull'incendio era già nelle mani dell'ispettore Víctor Grandese dei suoi due mastini, Marcos e Castelo, nella cui lista di persone preferite miconsideravo incluso con menzione d'onore. Quanto più lontano mi tenevo da loro,tanto meglio per me. L'unica alternativa percorribile restava il manoscritto e ilsuo rapporto con la casa della torre. Dopo anni in cui mi ero ripetuto che non eraun caso se ero finito ad abitare lì, l'idea iniziava ora ad assumere un altrosignificato.

Decisi di cominciare dal posto in cui avevo confinato buona parte delle cose edegli oggetti personali lasciati dai vecchi abitanti della casa della torre. Da uncassetto della cucina dove aveva trascorso anni recuperai la chiave dell'ultimastanza del corridoio. Non ci ero più entrato da quando gli operai dell'aziendaelettrica avevano installato l'impianto. Quando introdussi la chiave nella serratura,sentii sulle dita una corrente d'aria fredda che fuoriusciva dal buco e constataiche Isabella aveva ragione; quella stanza sprigionava uno strano odore chefaceva pensare a fiori marci e terra smossa.

Aprii la porta e mi portai la mano alla faccia. La puzza era intensa. Tastai ilmuro cercando l'interruttore della luce, ma la lampadina spoglia che pendeva dalsoffitto non si accese. Il chiarore che entrava dal corridoio permetteva diintravedere i contorni della pila di scatoloni, libri e bauli che avevo confinato inquel posto anni addietro. Contemplai tutto con ripu-gnanza. La parete in fondo eracoperta da un grande armadio di rovere. Mi accovacciai davanti a una cassa checonteneva vecchie foto, occhiali, orologi e piccoli oggetti personali. Iniziai afrugare senza sapere bene cosa cercassi. Dopo un po' abbandonai l'impresa esospirai. Se speravo di scoprire qualcosa, avevo bisogno di un piano. Stavo perlasciare la stanza quando sentii un'anta dell'armadio aprirsi lentamente alle miespalle. Un alito di aria gelida e umida mi sfiorò la nuca. Mi girai piano. L'anta erasocchiusa e si potevano vedere all'interno i vecchi vestiti appesi alle grucce, rosi

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dal tempo, che ondeggiavano come alghe sott'acqua. La corrente d'aria freddache portava quella puzza veniva da lì. Mi alzai e mi avvicinai lentamenteall'armadio. Spalancai le ante e separai con le mani gli indumenti appesi. Il legnosul fondo era marcio e aveva iniziato a cadere a pezzi. Dietro, si poteva intuire unmuro di gesso in cui si era aperto un buco di un pa-io di centimetri. Mi chinai percercare di vedere cosa c'era dall'altra parte, ma il buio era quasi assoluto. Ilchiarore tenue del corridoio filtrava attraverso il buco e proiettava dall'altro latoun filamento vaporoso di luce. Si percepiva appena un'atmosfera pesante.Avvicinai l'occhio cercando di catturare qualche immagine di ciò che c'eradall'altra parte del muro, ma in quell'istante dal buco spuntò un ragno nero.Arretrai di colpo e il ragno si affrettò ad arrampicarsi all'interno dell'armadio e asparire nell'ombra.

Chiusi le ante e uscii dalla stanza. Tolsi la chiave e la misi nel primo cassettodel comò in corridoio. La puzza imprigionata in quella camera si era sparsa per ilcorridoio come un veleno. Maledissi il momento in cui mi era passato per la testadi aprire quella porta e uscii sperando di dimenticare, sia pure per qualche ora,l'oscurità che pulsava nel cuore di quella casa.

Le cattive idee vengono sempre in coppia. Per festeggiare la scoperta di unasorta di camera oscura nascosta in casa, andai alla libreria di Sempere e Figli conl'idea di invitare a pranzo il libraio alla Maison Dorée. Sempere padre stavaleggendo una preziosa edizione del Manoscritto trovato a Sa-ragozza di Potocki enon volle neanche sentirne parlare.

—Se voglio vedere snob e gonzi che si danno un tono e si congratulano avicenda non ho bisogno di pagare, Martín.—

—Non faccia il brontolone. Offro io.—Sempere scosse la testa. Suo figlio, che aveva assistito alla conversazione

dalla soglia del retrobottega, mi guardava, esitante.—E se mi porto suo figlio, che succede? Non mi rivolgerà più la parola?——Decidete voi come sprecare tempo e denaro. Io resto qui a leggere, perché

la vita è breve.—Sempere figlio era il paradigma della timidezza e della discrezione. Sebbene

ci conoscessimo fin da bambini, non ricordavo di aver avuto con lui più di tre oquattro conversazioni da soli per più di cinque minuti. Non mi risultava che avessevizi né peccatucci. Sapevo da fonte certa che tra le ragazze del quartiere eraconsiderato nientemeno che il bello per antonoma-sia e lo scapolo d'oro. Piùd'una capitava in libreria con una scusa qualsiasi e si fermava davanti al banconea sospirare, ma lui, se pure se ne accorgeva, non faceva mai un passo perincassare quelle cambiali di devozione e labbra socchiuse. Chiunque altroavrebbe fatto una carriera luminosa da li-bertino con un decimo di quel capitale.Chiunque, meno Sempere figlio, a cui a volte non si sapeva se attribuire il titolo dibeato.

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—Di questo passo, finirà per fare solamente tappezzeria— si lamentava ognitanto Sempere.

—Ha provato a mettergli un po' di peperoncino nella zuppa per stimolarel'irrigazione nei punti chiave?— domandavo io.

—Rida, rida, mascalzone, che io già vado per i settanta e non ho nemmeno unfottuto nipote.—

Ci accolse lo stesso maître che ricordavo dall'ultima visita, ma senza il sorrisoservile né il gesto di benvenuto. Quando gli comunicai che non avevo prenotato,annuì con una smorfia di disprezzo e schioccò le dita per invocare la presenza diun cameriere che ci scortò senza troppe cerimonie a quello che immaginai fosseil peggior tavolo della sala, accanto alla porta delle cucine e seppellito in unangolo buio e rumoroso. Per i successivi venticinque minuti nessuno si avvicinò altavolo, nemmeno per consegnar-ci il menu o per versarci un bicchier d'acqua. Ilpersonale andava e veniva sbattendo la porta della cucina e ignorandocompletamente la nostra presenza e i nostri cenni per reclamare attenzione.

—Vuol dire che dovremmo andarcene?— chiese alla fine Sempere figlio.—Io, con un panino in un posto qualsiasi, risolvo… —Non aveva finito di pronunciare queste parole quando li vidi comparire.Vidal e signora avanzavano verso il loro tavolo scortati dal maître e da due

camerieri che si scioglievano in felicitazioni. Dopo un paio di minuti che avevanopreso posto, iniziò la processione di baciamano con cui, uno dopo l'altro, icommensali si avvicinavano a Vidal per fargli gli auguri. Lui li accoglieva congrazia divina e li congedava poco dopo. Sempere figlio, che si era reso contodella situazione, mi osservava.

—Martín, sta bene? Perché non ce ne andiamo?—Annuii lentamente. Ci alzammo e ci dirigemmo all'uscita, costeggiando la

sala lungo l'estremità opposta a quella del tavolo di Vidal. Prima di abbandonare ilristorante, passammo davanti al maître, che non si prese nemmeno la briga diguardarci, e mentre raggiungevamo l'uscita potei vedere nello specchio sopra lacornice della porta che Vidal si chinava e ba-ciava Cristina sulle labbra. In strada,Sempere mi guardò, mortificato.

—Mi dispiace, Martín.——Non si preoccupi. Cattiva scelta. Tutto qui. Se permette, di questo, a suo

padre… ——Nemmeno una parola— assicurò.—Grazie.——Non c'è di che. Cosa ne dice se l'invito io in un posto più plebeo? C'è una

trattoria favolosa in calle del Carmen.—Mi era passato l'appetito, ma accettai volentieri.—D'accordo.—La trattoria era vicino alla biblioteca e serviva cibi caserecci a prezzo

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economico per la gente del quartiere. Assaggiai appena qualche pietanza, cheaveva un odore infinitamente migliore di qualunque cosa avessi annu-sato allaMaison Dorée da quando era aperta, però al dolce mi ero già sco-lato da solo unabottiglia e mezzo di rosso e la testa mi era entrata in orbi-ta.

—Sempere, mi dica una cosa. Cos'ha lei contro il miglioramento della razza?Come si spiega, altrimenti, che un cittadino giovane e sano, benedettodall'Altissimo con un fisico come il suo, non abbia approfittato a man bassa ditutto quel ben di dio?—

Il figlio del libraio rise.—Cosa le fa pensare che non l'abbia fatto?—Mi toccai il naso con l'indice, strizzandogli l'occhio. Sempere figlio an-nuì.—A rischio che mi prenda per un bacchettone, mi piace pensare che sto

aspettando.——Cosa? Che l'armamentario non le funzioni più?——Parla come mio padre.——Gli uomini saggi condividono pensieri e parole.——Io dico che ci sarà qualcos'altro, no?— chiese.—Qualcos'altro?—Sempere annuì.—Che ne so?— dissi.—Invece credo che lo sappia.——E allora lei sa che mi sta utilizzando.—Stavo per versarmi un altro bicchiere quando Sempere mi fermò.—Prudenza— mormorò.—Vede che è un bacchettone?——Ognuno è quello che è.——Questo si può curare. Cosa ne dice se adesso lei e io andiamo a spas-

sarcela un po'?—Sempere mi guardò con compassione.—Martín, credo sia meglio che se ne vada a casa a riposare. Domani è un

altro giorno.——Non dirà a suo padre che mi sono preso una sbronza, vero?—Sulla strada di casa mi fermai in non meno di sette bar per degustarne le

riserve ad alta gradazione finché, con una scusa o con l'altra, mi cacciava-no instrada e percorrevo altri cento o duecento metri in cerca di un nuovo porto in cuifare scalo. Non ero mai stato un bevitore di fondo e alla fine del pomeriggio erocosì ubriaco che non mi ricordavo nemmeno dove abitavo. Un paio di camerieridella locanda Ambos Mundos di plaza Real mi sollevarono ciascuno per unbraccio e mi depositarono su una panchina di fronte alla fontana, dove caddi in unsopore spesso e scuro.

Sognai di andare al funerale di don Pedro. Un cielo insanguinato attanagliava

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il labirinto di croci e angeli che circondavano il grande mausoleo dei Vidal nelcimitero di Montjuic. Una comitiva silenziosa di veli neri at-torniava l'anfiteatrodi marmo brunito che formava il porticato del mausoleo. Ogni figura portava unlungo cero bianco. La luce di cento fiammelle scolpiva il contorno di un grandeangelo di marmo sconsolato per il dolore e la perdita su un piedistallo ai cui piedigiaceva la tomba aperta del mio mentore, con all'interno un sarcofago di vetro. Ilcorpo di Vidal, vestito di bianco, era steso sotto il vetro a occhi aperti. Lacrimenere gli scendevano dalle guance. Dal gruppo si staccava il profilo della vedova,Cristina, che cadeva in ginocchio davanti al feretro inzuppata di pianto. A uno auno, i membri della comitiva sfilavano davanti al defunto e depositavano rose ne-re sulla bara di vetro fino a coprirlo tutto, a eccezione del viso. Due becchinisenza volto calavano il feretro nella fossa, il cui fondo era inondato da un liquidodenso e scuro. Il sarcofago galleggiava su quella distesa di sangue, chelentamente filtrava tra gli spiragli della chiusura. Pian piano, la bara venivainondata e il sangue ricopriva il cadavere di Vidal. Prima che il suo volto venissesommerso del tutto, il mio mentore muoveva gli occhi e mi guardava. Unostormo di uccelli neri si alzava in volo e io mi mettevo a correre, perdendomi tra isentieri dell'infinita città dei morti. Solo un pianto lontano riusciva a guidarmiverso l'uscita e mi permetteva di eludere i lamenti e le preghiere di oscure figured'ombra che mi venivano incontro e mi supplicavano di portarle con me, disalvarle dalla loro eterna oscurità.

Mi svegliarono due guardie dandomi dei colpetti sulla gamba con losfollagente. Era già buio e mi ci volle qualche secondo per capire se si trattavadella forza pubblica o di agenti della Parca in missione speciale.

—Forza, giovanotto, a smaltire la sbronza a casa, d'accordo?——Agli ordini, colonnello.——Svelto, o la sbatto in cella, e vediamo se ha ancora voglia di fare battute.—Non dovette ripetermelo due volte. Mi alzai come potei e m'incamminai

verso casa con la speranza di arrivarci prima che i miei passi mi guidassero dinuovo in qualche postaccio. Il tragitto, che in condizioni normali mi avrebberichiesto dieci o quindici minuti, si prolungò del triplo. Alla fine, quasi permiracolo, arrivai alla porta di casa dove, come se si trattasse di una maledizione,ritrovai Isabella seduta, stavolta nell'atrio interno, che mi aspettava.

—È ubriaco— disse.—Deve essere così, perché in pieno delirium tremens mi è sembrato di

trovarti a mezzanotte addormentata sotto casa mia.——Non avevo un altro posto dove andare. Ho litigato con mio padre e mi ha

cacciata di casa.—Chiusi gli occhi e sospirai. Il mio cervello intasato di alcol e amarezza non era

in grado di dare forma al torrente di rifiuti e maledizioni che si af-follavano sullemie labbra.

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—Qui non puoi restare, Isabella.——Per favore, solo per stanotte. Domani cerco una pensione. La supplico,

signor Martín.——Non guardarmi con quegli occhi da agnello sgozzato— minacciai.—E poi, se sono per strada è per colpa sua.——Per colpa mia. Questa sì che è buona. Non so se hai talento per scrivere,

ma di immaginazione febbrile ne hai a valanghe. Per quale infausto motivo, se sipuò sapere, sarebbe colpa mia se il tuo signor padre ti ha deposi-tato sulla strada?—

—Quando è ubriaco lei parla strano.——Non sono ubriaco. Non sono mai stato ubriaco in vita mia. Rispondi al-la

domanda.——Ho detto a mio padre che lei mi aveva assunto come assistente e che a

partire da adesso mi sarei dedicata alla letteratura e non avrei più potuto lavorarein negozio.—

—Cosa?——Possiamo entrare? Ho freddo e il sedere mi si è pietrificato a forza di

dormire sulle scale.—Sentii che la testa mi girava e che mi assaliva la nausea. Alzai gli occhi verso

la tenue penombra che trapelava dal lucernario in cima alle scale.—È questo il castigo che mi invia il cielo per farmi pentire della mia vita

dissoluta?—Isabella seguì il mio sguardo, intrigata.—Con chi parla?——Non parlo, monologo. Prerogativa del beone. Però domattina presto vado a

dialogare con tuo padre e mettiamo fine a questa assurdità.——Non so se è una buona idea. Ha giurato che appena la vede l'ammazza.Ha un fucile a due canne nascosto sotto il bancone. Lui è fatto così. Una volta

ci ha ammazzato un asino. Era estate, vicino ad Argentona… ——Zitta. Nemmeno una parola in più. Silenzio.—Isabella annuì e restò a guardarmi, in attesa. Ricominciai a cercare la chiave.

In quel momento non potevo mettermi a combattere con le balle di quellaloquace adolescente. Avevo bisogno di sprofondarmi a letto e perdere lacoscienza, preferibilmente in quest'ordine. Cercai per un paio di minuti, senzarisultato. Alla fine Isabella, senza dire una parola, mi si avvicinò, frugò nella tascadella giacca dove le mie mani erano passate cento volte e trovò la chiave. Me lamostrò e io annuii, sconfitto.

Isabella aprì la porta e mi aiutò a reggermi in piedi. Mi guidò fino alla stanzada letto come un invalido e mi aiutò a stendermi. Mi sistemò la testa sui cuscini emi tolse le scarpe. La guardai confuso.

—Tranquillo, i pantaloni non glieli tolgo.—

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Mi allentò i bottoni del colletto e si sedette accanto a me, osservandomi.Mi sorrise con una malinconia che i suoi anni non meritavano.—Non l'ho mai vista tanto triste, signor Martín. È per quella donna, vero?Quella della foto.—Mi prese la mano e me l'accarezzò, tranquillizzandomi.—Tutto passa, mi dia retta. Tutto passa.—Mio malgrado, mi si riempirono gli occhi di lacrime e girai la testa per non

farmi vedere in viso. Isabella spense la luce sul comodino e rimase sedutaaccanto a me, nella penombra, a sentir piangere quel miserabile ubriaco, senzafare domande né dare altro giudizio se non quello della sua compagnia e della suabontà, finché mi addormentai.

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7

Mi svegliarono l'agonia del doposbornia, una pressa che si chiudeva sulle tempiee il profumo di caffè colombiano. Isabella aveva sistemato accanto al letto untavolino con una caffettiera appena fatta e un piatto con pane, formaggio,prosciutto e una mela. La vista del cibo mi diede la nausea, ma allungai la manoverso la caffettiera. Isabella, che mi stava osservando dalla soglia senza che lonotassi, mi precedette e me ne servì una tazza, sciogliendosi in sorrisi.

—Lo prenda così, bello forte, e le farà benissimo.—Accettai la tazza e bevvi.—Che ore sono?——L'una.—Mi lasciai sfuggire uno sbuffo.—Da quante ore sei sveglia?——Più o meno sette.——E cos'hai fatto?——Ho pulito e messo in ordine, però qui c'è lavoro per diversi mesi— replicò

Isabella.Bevvi un altro lungo sorso di caffè.—Grazie— mormorai. —Per il caffè. E per aver messo in ordine e pulito, ma

non c'è motivo per cui tu debba farlo.——Non lo faccio per lei, se è questo che la preoccupa. Lo faccio per me.Se devo vivere qui, preferisco pensare che non rimarrò appiccicata a

qualcosa se per caso mi ci appoggio… ——Vivere qui? Credevo che avessimo detto… —Nell'alzare la voce, una fitta di dolore mi spezzò le parole e i pensieri.—Shhhh— sussurrò Isabella.Annuii in segno di tregua. In quel momento non potevo né volevo discutere

con lei. Più tardi ci sarebbe stato tempo per restituirla alla sua famiglia, quando ipostumi della sbronza avessero battuto in ritirata. Svuotai la tazza al terzo sorso emi alzai lentamente. Cinque o sei aculei di dolore mi si conficcarono in testa. Milasciai sfuggire un lamento. Isabella mi sosteneva per un braccio.

—Non sono invalido. Ce la faccio da solo.—Provò a lasciarmi. Feci qualche passo verso il corridoio. Lei mi seguiva da

vicino, come se temesse di vedermi crollare da un momento all'altro. Mi fermaidavanti al bagno.

—Posso orinare da solo?— domandai.—Miri bene— mormorò la ragazza. —Le lascio la colazione in salotto.——Non ho fame.——Deve mangiare qualcosa.——Sei la mia apprendista o mia madre?—

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—Glielo dico per il suo bene.—Chiusi la porta del bagno e mi ci rifugiai. Gli occhi ci misero un paio di

secondi a adattarsi a quello che vedevo. Il bagno era irriconoscibile. Pulito ebrillante. Ogni cosa al suo posto. Una saponetta nuova sul lavabo. Asciugamanipuliti che non sapevo nemmeno di avere. Odore di liscivia.

—Madonna— mormorai.Ficcai la testa sotto il rubinetto e lasciai scorrere l'acqua fredda un paio di

minuti. Uscii in corridoio e mi diressi lentamente in salotto. Se il bagno erairriconoscibile, il salotto apparteneva a un altro mondo. Isabella aveva pulito ivetri e il pavimento e spolverato mobili e poltrone. Una luce pura e chiarairrompeva dalle vetrate e l'odore di polvere era scomparso. La colazione miaspettava sul tavolo di fronte al sofà, sul quale la ragazza aveva messo una foderapulita. Gli scaffali zeppi di libri sembravano riordinati e le cristalliere avevanoritrovato la trasparenza. Isabella mi versò un secondo tazzone di caffè.

—So quello che stai facendo, e non funzionerà— dissi.—Servire una tazza di caffè?—Isabella aveva rimesso a posto i libri sparpagliati sui tavoli e negli angoli.

Aveva svuotato i portariviste strabordanti da più di un decennio. In sole sette ore,aveva spazzato via di colpo anni di penombra e tenebre con la sua lena e la suapresenza, e ancora le rimanevano tempo e voglia di sorridere.

—Mi piaceva di più com'era prima— dissi.—Certo. A lei e ai centomila scarafaggi che aveva per inquilini e che ho

scacciato con aria fresca e ammoniaca.——È questa la puzza che si sente?——La puzza è odore di pulito— protestò Isabella. —Potrebbe essere un poco

grato.——Lo sono.——Non si nota. Domani salgo nello studio e… ——Che non ti venga neanche in mente.—Isabella si strinse nelle spalle, però il suo sguardo era determinato e seppi che

entro ventiquattr'ore lo studio della torre avrebbe sofferto una tra-sformazioneirreparabile.

—Comunque, stamattina ho trovato una busta all'ingresso. Qualcuno deveaverla infilata sotto la porta stanotte.—

La guardai da sopra la tazza.—Il portone di sotto è chiuso a chiave— dissi.—Lo pensavo anch'io. A dire il vero mi è sembrato molto strano e, anche se

c'era il suo nome… ——L'hai aperta.——Temo di sì. L'ho fatto senza volere.——Isabella, aprire la corrispondenza degli altri non è segno di buona

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educazione. In qualche posto è perfino un reato punibile con il carcere.——Lo dico sempre a mia madre, che mi apre tutte le lettere. Ed è ancora in

libertà.——Dov'è la lettera?—Isabella tirò fuori una busta dalla tasca del grembiule che aveva indossato e

me la tese evitando il mio sguardo. I bordi erano seghettati e la carta spessa eporosa, color avorio, con il sigillo dell'angelo — rotto — sulla ceralacca rossa e ilmio nome scritto con inchiostro cremisi e profumato. L'aprii ed estrassi un fogliopiegato in due.

Stimato David,spero che stia bene in salute e che abbia incassato senza pro—blemi la somma concordata. Le va di vederci stasera a casa mia per

cominciare a discutere i dettagli del nostro progetto? Verrà servita una cenaleggera verso le dieci. L'aspetto.

Il suo amicoAndreas CorelliRipiegai il foglio e lo rimisi nella busta. Isabella mi osservava intrigata.—Buone notizie?——Nulla che ti riguardi.——Chi è il signor Corelli? Ha una bella calligrafia, non come lei.—La guardai con severità.—Se diventerò la sua assistente, credo che dovrò sapere con chi ha rapporti.

Se per caso devo mandarli a spasso, voglio dire.—Sospirai.—È un editore.——Dev'essere un buon editore, guardi che carta da lettera e che buste…Che libro sta scrivendo per lui?——Niente che ti riguardi.——Come faccio ad assisterla se non mi dice a che cosa sta lavorando? No,

meglio che non risponda. Sto zitta.—Per dieci miracolosi secondi, Isabella restò in silenzio.—Com'è questo signor Corelli?—La guardai freddamente.—Particolare.——Dio li fa e… non dico nient'altro.—Osservando quella ragazza dall'animo nobile mi sentii, se possibile, ancora più

meschino e capii che quanto prima l'avessi allontanata da me, anche a rischio diferirla, meglio sarebbe stato per entrambi.

—Perché mi guarda così?——Stasera esco, Isabella.——Le preparo qualcosa per cena? Torna tardi?—

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—Ceno fuori e non so quando torno, ma a qualunque ora sia, non vogliotrovarti qui. Voglio che prendi le tue cose e te ne vai. Dove, mi è indifferente. Quinon c'è posto per te. Capito?—

Il suo viso impallidì e gli occhi le si inumidirono. Si morse le labbra e misorrise con le guance solcate di lacrime.

—Sono di troppo. Capito.——E non pulire più.—Mi alzai e la lasciai sola in salotto. Mi rifugiai nello studio della torre.Aprii le finestre. Il pianto di Isabella arrivava fin dal piano di sotto.

Contemplai la città stesa al sole di mezzogiorno e rivolsi lo sguardo all'altro e-stremo, dove credetti quasi di vedere le tegole brillanti di Villa Helius e diimmaginare Cristina, la signora Vidal, in alto, alle finestre del torrione, cheguardava verso La Ribera. Qualcosa di oscuro e di torbido mi ricoprì il cuore.Dimenticai il pianto di Isabella e desiderai soltanto che arrivasse il momento diincontrare Corelli per parlare del suo maledetto libro.

Rimasi nello studio della torre fino a quando il tramonto si sparse sulla cittàcome sangue nell'acqua. Faceva caldo, più che in tutta l'estate, e i tetti dellaRibera sembravano vibrare allo sguardo come miraggi di vapore.

Scesi e mi cambiai. La casa era silenziosa, le persiane del salotto socchiuse ele vetrate imbevute di un chiarore ambrato che si diffondeva nel corridoiocentrale.

—Isabella?— chiamai.Non ottenni risposta. Mi affacciai in salotto e verificai che se n'era andata.

Prima di farlo, però, si era messa a riordinare e a pulire la collezione delle operecomplete di Ignatius B. Samson che per anni avevano accumulato polvere e oblioin una cristalliera che adesso brillava. La ragazza aveva lasciato uno dei volumiaperto su un leggio. Lessi un rigo a caso e mi sembrò di viaggiare in un tempo incui tutto sembrava semplice quanto inevitabile.

« 'La poesia si scrive con le lacrime, i romanzi con il sangue e la storia con lebolle di sapone' disse il cardinale mentre bagnava di veleno la lama del coltelloalla luce del candelabro» .

La studiata ingenuità di quelle frasi mi strappò un sorriso e mi restituì unsospetto che non mi aveva mai abbandonato: forse sarebbe stato meglio per tutti,soprattutto per me, se Ignatius B. Samson non si fosse mai suicidato e DavidMartín non avesse preso il suo posto.

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8

Si stava già facendo buio quando uscii. Il caldo e l'umidità avevano spinto moltiabitanti del quartiere a portarsi le sedie in strada in cerca di una brezza che nonarrivava. Evitai gli improvvisati capannelli davanti ai portoni e agli angoli e midiressi verso la stazione Francia, dove si potevano sempre trovare due o tre taxi inattesa. Salii sul primo della fila. Ci vollero una ventina di minuti per attraversarela città e risalire il pendio della collina su cui si trovava il bosco spettraledell'architetto Gaudí. Le luci della casa di Corelli erano visibili da lontano.

—Non sapevo che ci abitasse qualcuno— commentò l'autista.Appena ebbi pagato la corsa, mancia inclusa, non perse un secondo a

squagliarsela in tutta fretta. Attesi qualche istante prima di bussare alla porta,assaporando lo strano silenzio che regnava in quel luogo. Soltanto una foglia siagitava nel bosco che ricopriva la collina alle mie spalle. Un cielo disseminato distelle e pennellate di nubi si estendeva in ogni direzione. Potevo sentire il suonodel mio respiro, del fruscio dei miei vestiti mentre camminavo, dei miei passi chesi avvicinavano alla porta. Suonai il campanello e attesi.

La porta si aprì qualche momento dopo. Un uomo dallo sguardo e dalle spallestanchi annuì alla mia presenza e mi fece cenno di entrare. L'abbigliamentosuggeriva che si trattava di una specie di maggiordomo o di domestico. Nonemise alcun suono. Lo seguii attraverso il corridoio che ricordavo fiancheggiatoda ritratti, e mi cedette il passo nel grande salone sul fondo, dal quale si potevacontemplare tutta la città in lontananza. Con una lieve riverenza mi lasciò solo e siritirò con la stessa lentezza con cui mi aveva accompagnato. Mi avvicinai aifinestroni e guardai attraverso le ten-dine, per ammazzare il tempo in attesa diCorelli. Erano trascorsi un paio di minuti quando notai che una figura miosservava da un angolo della sa-la. Era seduto, completamente immobile, su unapoltrona, tra la penombra e la luce di una lanterna che a stento rivelava le gambee le mani appoggiate ai braccioli. Lo riconobbi dal brillio degli occhi che nonsbattevano mai le palpebre e dal riflesso della lanterna sulla spilla a forma diangelo che portava sempre sul risvolto della giacca. Appena posai lo sguardo sudi lui, si alzò e si avvicinò a passi rapidi, troppo rapidi, e con un sorriso da lupo chemi gelò il sangue.

—Buona sera, Martín.—Annuii cercando di rispondere al suo sorriso.—L'ho spaventata di nuovo— disse. —Mi dispiace. Posso offrirle qualcosa da

bere o passiamo senza preamboli alla cena?——A dire il vero, non ho appetito.——È questo caldo, senza dubbio. Se le va, possiamo andare in giardino e

chiacchierare lì.—Il silenzioso maggiordomo fece atto di presenza e procedette ad aprire le

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porte che davano in giardino, dove un sentiero di candele sistemate su piat-tini dacaffè conduceva a un tavolo di metallo bianco con due sedie messe una di fronteall'altra. La fiamma delle candele bruciava diritta, senza nessuna oscillazione. Laluna diffondeva un tenue chiarore azzurrato. Presi posto e Corelli fece lo stessomentre il maggiordomo ci riempiva due bicchieri da un recipiente, immaginaipieno di vino o di qualche liquore che non avevo intenzione di assaggiare. Allaluce di quei tre quarti di luna, Corelli mi sembrò più giovane, con i tratti del voltopiù affilati. Mi osservava con un'intensità prossima alla voracità.

—Qualcosa la preoccupa, Martín.——Immagino abbia sentito dell'incendio.——Una fine spiacevole e tuttavia poeticamente giusta.——Le sembra giusto che due uomini muoiano in quel modo?——Un modo meno cruento le sembrerebbe più accettabile? La giustizia è un

artificio della prospettiva, non un valore universale. Non fingerò unacosternazione che non provo, e credo nemmeno lei, per quanto voglia mo-strarla.Ma se preferisce osserviamo un minuto di silenzio.—

—Non sarà necessario.——Certo che no. È necessario solo quando non si ha niente di valido da di-re. Il

silenzio fa sembrare saggi perfino gli stupidi, per un minuto. Qualcos'altro che lapreoccupa, Martín?—

—La polizia sembra ritenere che io abbia qualcosa a che fare con l'accaduto.Mi hanno chiesto di lei.—

Corelli annuì con noncuranza.—La polizia deve fare il suo lavoro e noi il nostro. Cosa ne dice se diamo per

esaurito l'argomento?—Annuii lentamente. Corelli sorrise.—Poco fa, mentre l'aspettavo, mi sono reso conto che noi due abbiamo in

sospeso una piccola conversazione retorica. Prima ce ne sbarazziamo, primaarriveremo al dunque— disse. —Mi piacerebbe cominciare chiedendole cos'èper lei la fede.—

Esitai qualche istante.—Non sono mai stato una persona religiosa. Più che credere o non credere,

ho dei dubbi. Il dubbio è la mia fede.——Molto prudente e molto borghese. Ma mettendo palloni in fallo laterale non

si vince la partita. Per quale motivo, secondo lei, credenze di ogni tipo compaionoe scompaiono nel corso della storia?—

—Non lo so. Credo per fattori sociali, economici o politici. Lei parla con unoche ha smesso di andare a scuola a dieci anni. La storia non è il mio forte.—

—La storia è l'immondezzaio della biologia, Martín.——Il giorno in cui hanno spiegato questo argomento forse non ero a scuola.——Questa lezione non viene impartita nelle aule, Martín. Ce la imparti-scono

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la ragione e l'osservazione della realtà. Ma nessuno vuole impararla, perciò èquella che dobbiamo analizzare meglio per svolgere bene il nostro lavoro. Ogniopportunità di fare un affare nasce dall'incapacità degli altri di risolvere unproblema semplice e inevitabile.—

—Parliamo di religione o di economia?——Scelga lei la terminologia.——Se capisco bene, lei suggerisce che la fede, l'atto di credere in miti o

ideologie o leggende sovrannaturali, è una conseguenza della biologia.——Né più né meno.——Una visione piuttosto cinica per un editore di testi religiosi— notai.—Una visione professionale e spassionata— specificò Corelli. —L'essere

umano crede come respira, per sopravvivere.——Questa teoria è sua?——Non è una teoria, è una statistica.——Mi viene in mente che almeno tre quarti del mondo non sarebbero

d'accordo con quest'affermazione— osservai.—Naturalmente. Se fossero d'accordo, non sarebbero potenziali credenti.Nessuno può venire davvero convinto di quello in cui non ha bisogno di

credere per un imperativo biologico.——Allora secondo lei è nella nostra natura vivere nell'inganno?——Sopravvivere, è nella nostra natura. La fede è una risposta istintiva ad

aspetti dell'esistenza che non possiamo spiegare in altro modo: il vuoto moraleche percepiamo nell'universo, la certezza della morte, il mistero dell'origine dellecose o il senso della nostra vita, o la sua assenza. Sono aspetti elementari e distraordinaria semplicità, ma i nostri stessi limiti ci impediscono di rispondere inmodo univoco a queste domande e per questo motivo generiamo, come difesa,una risposta emotiva. È pura e semplice biologia.—

—Secondo lei, allora, tutte le fedi e gli ideali sarebbero solo una finzione.——Qualsiasi interpretazione o osservazione della realtà lo è. In questo ca-so, il

problema sta nel fatto che l'uomo è un animale morale abbandonato in ununiverso amorale e condannato a un'esistenza finita e senza altro significato chequello di perpetuare il ciclo naturale della specie. È impossibile sopravvivere inuno stato prolungato di realtà, almeno per un essere umano. Passiamo buonaparte della nostra vita a sognare, soprattutto quando siamo svegli. Come le dicevo,semplice biologia.—

Sospirai.—E dopo tutto questo, lei vuole che io mi inventi una favola che faccia cadere

in ginocchio gli incauti e li convinca di aver visto la luce, dell'esistenza di qualcosain cui credere, per cui vivere e per cui morire e perfino ammazzare.—

—Esatto. Non le chiedo di inventare nulla che non sia già stato inventato, inuna forma o in un'altra. Le chiedo soltanto di aiutarmi a dar da bere agli assetati.

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——Un proposito lodevole e pio— ironizzai.—No, una semplice proposta commerciale. La natura è un grande libero

mercato. La legge della domanda e dell'offerta è una questione molecola-re.——Forse dovrebbe cercarsi un intellettuale per questo lavoro. A proposito di

questioni molecolari e mercantili, le assicuro che la maggior parte di lo-ro non hamai visto centomila franchi tutti insieme e scommetto che saranno disposti avendersi l'anima, o a inventarsela, per una parte di quella somma.—

Lo scintillio metallico dei suoi occhi mi fece sospettare che Corelli stava perdedicarmi un altro dei suoi acidi sermoni tascabili. Visualizzai il saldo del mioconto al Banco Hispano Americano e mi dissi che centomila franchi valevanobene una messa o una collezione di omelie.

—Un intellettuale di solito è uno che non si distingue esattamente per il suointelletto— sentenziò Corelli. —Si attribuisce da solo quella definizione percompensare l'impotenza naturale che intuisce nelle sue capacità. È la vecchiastoria del dimmi di cosa ti vanti e ti dirò di cosa sei privo. Pane quotidiano.L'incompetente si presenta sempre come esperto, il crudele comemisericordioso, il peccatore come baciapile, l'usuraio come benefattore, ilmeschino come patriota, l'arrogante come umile, il volgare come elegante e lostupido come intellettuale. Di nuovo, tutta opera della natura, la quale, lungidall'essere la silfide cantata dai poeti, è una madre crudele e vorace che habisogno di cibarsi delle creature che partorisce per continuare a vivere.—

Corelli e la sua poetica della biologia feroce iniziavano a darmi la nausea. Laveemenza e l'ira trattenute che stillavano le parole dell'editore mi mettevano adisagio e mi domandai se ci fosse qualcosa nell'universo che non gli sembrasseripugnante e spregevole, incluso me stesso.

—Lei dovrebbe tenere conferenze di orientamento nelle scuole e nelleparrocchie la Domenica delle Palme. Avrebbe un successo impressionante—suggerii.

Corelli rise con freddezza.—Non cambi argomento. Quello che io cerco è l'opposto di un intellettuale,

vale a dire qualcuno intelligente. E l'ho trovato.——Mi lusinga.——Meglio ancora, la pago. E molto bene, che è l'unica vera lusinga in questo

mondo mercenario. Non accetti mai decorazioni che non siano stampate su unassegno. Arrecano benefici solo a chi le concede. E visto che la pago, spero chemi ascolti e segua le mie istruzioni. Mi creda se le dico che non ho alcun interessea farle perdere tempo. Finché lei è stipendiato, il suo tempo è anche il mio.—

Il tono era amabile, ma lo scintillio dei suoi occhi era d'acciaio e non lasciavaspazio a equivoci.

—Non è necessario che me lo ricordi ogni cinque minuti.—

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—Perdoni la mia insistenza, amico mio. Se le do il voltastomaco con tuttiquesti sproloqui è per sbarazzarmene quanto prima. Quello che voglio da lei è laforma, non il contenuto. Il contenuto è sempre lo stesso ed è stato inventato daquando esiste l'essere umano. È inciso nel suo cuore come un numero di serie.Quello che voglio da lei è che trovi un modo intelligente e seduttivo di risponderealle domande che tutti noi ci rivolgiamo, e che lo faccia a partire dalla suapersonale lettura dell'animo umano, mettendo in pratica la sua arte e il suomestiere. Voglio che mi porti una narrazione che risvegli l'anima.—

—Niente di meno… ——E niente di più.——Lei parla di manipolare sentimenti ed emozioni. Non sarebbe più facile

convincere la gente con un'esposizione razionale, semplice e chiara?——No. È impossibile avviare un dialogo razionale con una persona su credenze

e concetti che non ha acquisito mediante la ragione. Fa lo stesso se parliamo diDio, della razza o dell'orgoglio patriottico. Per questo mi serve qualcosa di piùpotente di una semplice esposizione retorica. Mi serve la forza dell'arte, la messain scena. Le parole delle canzoni sono ciò che crediamo di capire, ma a renderlecredibili o no è la musica.—

Cercai di inghiottire tutto quel guazzabuglio senza strozzarmi.—Tranquillo, per oggi niente più discorsi— tagliò corto Corelli. —Veniamo

alla parte pratica: lei e io ci vedremo approssimativamente ogni quindici giorni.Mi informerà sui suoi progressi e mi mostrerà il lavoro fatto. Se ho osservazioni ocambiamenti da suggerire, glielo farò presente. Il lavoro durerà dodici mesi, o lafrazione necessaria per completarlo. Al termine di questo periodo lei miconsegnerà, senza eccezioni, tutto il testo e la documentazione prodotta, chespettano all'unico proprietario e titolare dei diritti, cioè io. Il suo nome nonfigurerà come autore e lei si impegna a non ri-vendicarlo dopo la consegna e anon parlare con nessuno del lavoro realizzato, o dei termini di questo accordo, néin privato né in pubblico. In cambio, otterrà un anticipo di centomila franchi, chele è già stato versato, e al-la fine, e previa consegna del lavoro e approvazione daparte mia, un bonus addizionale di altri cinquantamila franchi.—

Deglutii. Uno non è pienamente cosciente dell'avidità che si nasconde nel suocuore fino a quando non sente il dolce tintinnio dei soldi nelle tasche.

—Non vuole formalizzare un contratto per iscritto?——Il nostro è un accordo sulla parola d'onore. La sua e la mia. Ed è già stato

siglato. Un accordo sulla parola d'onore non si può infrangere perché infrange chilo ha sottoscritto— disse Corelli con un tono che mi fece pensare che sarebbestato preferibile firmare comunque un pezzo di carta, sia pure con il sangue. —Qualche dubbio?—

—Sì. Perché?——Non la capisco, Martín.—

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—Perché vuole questo materiale, o come preferisce chiamarlo? Cosa pensadi farci?—

—Problemi di coscienza, Martín, arrivati a questo punto?——Forse lei mi prende per un individuo senza princìpi, ma se partecipo a

qualcosa come ciò che mi propone voglio sapere qual è l'obiettivo. Credo diaverne diritto.—

Corelli sorrise e posò la sua mano sulla mia. Provai un brivido al contatto dellapelle gelida e liscia come il marmo.

—Perché lei vuole vivere.——Questo suona vagamente minaccioso.——Un semplice e amichevole promemoria di ciò che già sa. Lei mi aiuterà

perché vuole vivere e perché non le importano né il prezzo né le conse-guenze.Perché non molto tempo fa sapeva di essere alle porte della morte e adesso haun'eternità davanti a sé e l'opportunità di una vita. Mi aiuterà perché è umano. Eperché, anche se non vuole ammetterlo, ha fede.—

Scostai la mano fuori dalla sua portata e l'osservai alzarsi dalla sedia edirigersi verso il fondo del giardino.

—Non si preoccupi, Martín. Andrà tutto bene. Mi dia retta— disse Corelli inun tono dolce e soporifero, quasi materno.

—Posso andare?——Certo. Non voglio trattenerla più del necessario. Mi è piaciuta la nostra

conversazione. Ora la lascerò ripensare a tutto quello di cui abbiamo discusso.Vedrà, passata l'indigestione, si renderà conto che le vere risposte verranno a lei.Non c'è nulla nel sentiero della vita che non sappiamo già prima di imboccarlo.Non si impara nulla di importante nella vita, semplicemente si ricorda.—

Corelli fece un cenno al taciturno maggiordomo che aspettava al limite delgiardino.

—Un'automobile la porterà a casa. Noi ci vediamo tra due settimane.——Qui?——Lo dirà Dio— mormorò leccandosi le labbra come se avesse detto una

battuta deliziosa.Il maggiordomo si avvicinò e mi indicò di seguirlo. Corelli annuì e si ri-

sedette, lo sguardo di nuovo perso sulla città.

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9

L'automobile, per chiamarla in qualche modo, aspettava alla porta della villa.Non era un'auto qualunque, ma un pezzo da collezione. Mi fece pensare a unacarrozza incantata, a una cattedrale semovente con cromature e curve fatte discienza pura, e il tocco finale dell'emblema di un angelo d'argento sul cofano amo' di polena. In altre parole, una Rolls-Roy ce. Il maggiordomo mi aprì laportiera e mi salutò con una riverenza. Entrai nell'abitacolo, che sembrava piùuna stanza d'albergo che la cabina di un veicolo a motore. L'auto si mise in motoappena mi appoggiai al sedile e partì giù per la collina.

—Sa l'indirizzo?— domandai.L'autista, una figura scura dall'altra parte del divisorio di vetro, fece un

leggero cenno di assenso. Attraversammo Barcellona nel silenzio narcotico diquella carrozza di metallo che sembrava sfiorare appena il suolo. Vidi sfilarestrade e palazzi dal finestrino come se si trattasse di scogliere som-merse. Era giàpassata mezzanotte quando la Rolls-Royce nera svoltò in calle Comercio eimboccò il paseo del Born. Si fermò all'inizio di calle Flassaders, troppo stretta perpermetterne il passaggio. L'autista scese e mi aprì la portiera con un inchino.Scesi e lui la richiuse, poi risalì in macchina senza dire una parola. Lo vidiallontanarsi finché la sagoma scura si dissolse in un velo di ombre. Mi chiesi cosaavevo fatto e, preferendo non trovare la risposta, mi incamminai verso casa conla sensazione che il mondo intero fosse una prigione senza possibilità di fuga.

Entrato in casa, andai direttamente nello studio. Aprii le finestre ai quattroventi e lasciai che la brezza umida e infocata penetrasse nella stanza.

Su alcuni tetti del quartiere si potevano scorgere figure stese su materassi elenzuola che cercavano di sfuggire al caldo asfissiante e di conciliare il sonno. Inlontananza, le tre grandi ciminiere del Paralelo si innalzavano come pire funebri,spargendo un manto di cenere bianca che si stendeva sopra Barcellona comepolvere di vetro. Più vicino, la statua della Mercè che spiccava il volo dallacupola della chiesa mi ricordò l'angelo della Rolls-Royce e quello che Corellisfoggiava sempre sul risvolto. Sentivo che la città, dopo molti mesi di silenzio,tornava a parlarmi e a raccontarmi i suoi segreti.

Fu allora che la vidi, accoccolata sullo scalino di una porta di quel miserabilee angusto tunnel fra vecchi palazzi chiamato calle Mosques. Isabella. Mi chiesi daquanto tempo fosse lì e mi dissi che non erano affari miei.

Stavo per chiudere la finestra e andare alla scrivania quando notai che nonera sola. Dall'estremità del vicolo, un paio di figure si avvicinavano lentamente alei, forse troppo. Sospirai, desiderando che passassero oltre. Non lo fecero. Una siappostò dall'altro lato, bloccando l'uscita della strada.

L'altra si accovacciò davanti alla ragazza, allungando il braccio verso di lei.Isabella si mosse. Qualche istante dopo le due figure si gettarono su di lei e la

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sentii gridare.Mi ci volle più o meno un minuto per arrivare fin lì. Quando lo feci, uno degli

uomini teneva stretta Isabella per le braccia e l'altro le aveva sollevato la gonna.Un'espressione di terrore attanagliava il viso della ragazza. Il secondo individuo,che si stava facendo strada fra le sue cosce tra le risate, le puntava un coltello allagola. Tre fili di sangue gocciolavano dal taglio.

Mi guardai attorno. Un paio di casse di rottami e una pila di sampietrini emateriali da costruzione abbandonati contro il muro. Afferrai quella che si rivelòuna sbarra di metallo, solida e pesante, di mezzo metro. Il primo ad accorgersidella mia presenza fu quello con il coltello. Avanzai di un passo, brandendo lasbarra di metallo. Il suo sguardo saltò dalla sbarra ai miei occhi e vidi che glimoriva il sorriso sulle labbra. L'altro si girò e mi vide avanzare verso di lui con lasbarra sollevata. Bastò che gli facessi un cenno con la testa perché lasciasseIsabella e si affrettasse a ripararsi dietro il suo compagno.

—Dài, andiamo— mormorò.L'altro ignorò le sue parole. Mi guardava fisso con il fuoco negli occhi e il

coltello in mano.—A te chi ti ha invitato, figlio di puttana?—Senza staccare gli occhi dall'uomo con l'arma, presi Isabella per un braccio e

la sollevai da terra. Cercai le chiavi in tasca e gliele passai.—Va' a casa— dissi. —Fa' come ti dico.—Lei esitò un istante, ma poi sentii i suoi passi allontanarsi nel vicolo verso calle

Flassaders. Il tipo con il coltello la vide andare via e sorrise con rabbia.—Ti faccio a fette, stronzo.—Non dubitai della sua capacità e della sua voglia di mettere in pratica la

minaccia, ma qualcosa nel suo sguardo mi faceva pensare che il mio av-versarionon era del tutto imbecille: se non l'aveva ancora fatto, era perché si stavachiedendo quanto pesasse la sbarra di metallo che avevo in mano e, soprattutto,se avrei avuto la forza, il coraggio e il tempo di usarla per fracassargli il cranioprima che lui potesse affondare la lama del suo coltello.

—Provaci— lo sfidai.Il tipo sostenne il mio sguardo per diversi secondi e poi rise. Il ragazzo che era

con lui sospirò di sollievo. L'uomo richiuse la lama e sputò ai miei piedi. Si voltò esi allontanò verso le ombre da cui era uscito, mentre il suo compagno glitrotterellava dietro come un cane fedele.

Trovai Isabella accoccolata sul pianerottolo interno della casa della torre.Tremava e teneva le chiavi con tutte e due le mani. Mi vide entrare e si alzò discatto.

—Vuoi che chiami un medico?—Scosse la testa.—Sei sicura?—

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—Non erano ancora riusciti a farmi niente— mormorò, mordendosi lelacrime.

—Non mi è sembrato.——Non mi hanno fatto niente, d'accordo?— protestò.—D'accordo— dissi.Volevo sostenerla per un braccio mentre salivamo le scale, ma lei rifiutò il

contatto.Una volta in casa, l'accompagnai in bagno e accesi la luce.—Hai un cambio di vestiti puliti da metterti?—Isabella mi mostrò la borsa che portava con sé e annuì.—Su, lavati, mentre preparo qualcosa da mangiare.——Come può avere fame adesso?——Be', ce l'ho.—Isabella si morse il labbro inferiore.—A dire il vero anch'io… ——Discussione finita, allora— dissi.Chiusi la porta del bagno e aspettai di sentir scorrere l'acqua. Tornai in cucina

e misi una pentola sul fuoco. Era rimasto un po' di riso, della pan-cetta e qualcheortaggio portato da Isabella la mattina prima. Improvvisai qualcosa con quegliavanzi e aspettai quasi mezzora che uscisse dal bagno, bevendomi quasi mezzabottiglia di vino. La sentii piangere di rabbia dall'altro lato del muro. Quandocomparve sulla porta della cucina aveva gli occhi arrossati e sembrava piùbambina che mai.

—Non so se ho ancora fame— mormorò.—Siediti e mangia.—Ci sedemmo alla piccola tavola al centro della cucina. Isabella esaminò con

un certo sospetto il piatto di riso e bocconi vari che le avevo servito.—Mangia— ordinai.Prese una cucchiaiata esplorativa e se la portò alle labbra.—È buono— disse.Le versai mezzo bicchiere di vino e riempii il resto d'acqua.—Mio padre non mi lascia bere vino.——Io non sono tuo padre.—Cenammo in silenzio, scambiandoci occhiate. Isabella svuotò il piatto e

mangiò il pezzo di pane che le avevo tagliato. Sorrideva timidamente. Non sirendeva conto che lo spavento non le era ancora piombato addosso. Poil'accompagnai alla porta della sua stanza e accesi la luce.

—Cerca di riposare un po'— le dissi. —Se hai bisogno di qualcosa dai uncolpo sul muro. Sono nella stanza accanto.—

Isabella annuì.—L'ho già sentita russare l'altra notte.—

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—Io non russo.——Saranno state le tubature. O forse qualche vicino che ha un orso.——Un'altra parola e te ne torni per strada.—Isabella sorrise e annuì.—Grazie— bisbigliò. —Non chiuda del tutto la porta, per favore. La lasci

socchiusa.——Buona notte— dissi spegnendo la luce e lasciando Isabella nella penombra.Più tardi, mentre mi spogliavo nella mia stanza, notai che avevo un segno

scuro sulla guancia, come una lacrima nera. Mi avvicinai allo specchio e lostrofinai con le dita. Era sangue secco. Solo allora mi resi conto di essere esaustoe di avere dolori dappertutto.

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10

La mattina dopo, prima che Isabella si svegliasse, andai alla drogheria che la suafamiglia gestiva in calle Mirallers. Era da poco passata l'alba e la serranda delnegozio era mezza aperta. M'infilai dentro e trovai un paio di garzoni cheaccatastavano scatole di tè e altre mercanzie sul bancone.

—È chiuso— disse uno di loro.—Non sembra. Va' a chiamare il proprietario.—Mentre aspettavo, mi misi a esaminare l'emporio familiare dell'ingrata erede

Isabella, che nella sua infinita innocenza aveva rinunciato al miele delcommercio per abbassarsi alle miserie della letteratura. Il negozio era un piccolobazar di meraviglie provenienti da tutti gli angoli del mondo.

Marmellate, dolci e tè. Caffè, spezie e conserve. Frutta e carni stagionate.Cioccolata e insaccati affumicati. Un paradiso pantagruelico per tasche ben

fornite. Don Odón, padre della creatura e responsabile della ditta, si presentòdopo un po' con un camice blu, un paio di baffi da maresciallo e un'espressionecosternata che lo situava in un'allarmante prossimità all'infarto. Decisi di saltarele formalità.

—Mi dice sua figlia che lei ha un fucile a due canne con cui ha promesso diammazzarmi— dissi, aprendo le braccia a croce. —Eccomi qui.—

—E lei chi è, svergognato?——Sono lo svergognato che ha dovuto ospitare una ragazza perché quel

calabrache di suo padre non è capace di tenerla in riga.—La rabbia gli scivolò via dalla faccia e il negoziante mostrò un sorriso

angosciato e pusillanime.—Signor Martín? Non l'avevo riconosciuta… Come sta la bambina?—Sospirai.—La bambina è sana e salva a casa mia, russando come un mastino, ma con

l'onore e la virtù intatti.—Il negoziante si fece il segno della croce due volte di seguito, sollevato.—Il Signore gliene renda merito.——E lei possa vedere quel momento, ma nel frattempo le chiedo di farmi il

favore di venirsela a riprendere entro oggi oppure le spacco la faccia, fucile o no.—

—Fucile?— mormorò il negoziante, confuso.Sua moglie, una donna minuta e dallo sguardo nervoso, ci spiava da dietro una

tenda che nascondeva il retrobottega. Qualcosa mi diceva che non ci sarebberostate sparatorie. Don Odón, sbuffando, sembrò afflosciarsi su se stesso.

—Non desidero altro, signor Martín. Però la bambina non vuole stare qua—spiegò, desolato.

Vedendo che il negoziante non era l'orco dipinto da Isabella, mi pentii del tono

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delle mie parole.—Non è stato lei a cacciarla di casa?—Don Odón spalancò gli occhi come piatti, afflitto. Sua moglie si fece avanti e

gli prese la mano.—Abbiamo avuto una discussione. Si sono dette cose che non si sarebbero

dovute dire, da entrambe le parti. Ma il fatto è che la bambina ha un carattereche tienila… Ha minacciato di andarsene dicendo che non l'avremmo rivista maipiù. Quella santa donna di sua madre per poco non ci rimane per la tachicardia.Io ho alzato la voce e ho detto che l'avrei messa in convento.—

—Un argomento infallibile per convincere una ragazza di sedici anni— notai.—È la prima cosa che mi è venuta in mente…— spiegò il negoziante.—Come avrei potuto metterla in convento?——A quanto ho visto, solo con l'aiuto di un intero reggimento della Guardia

Civil.——Non so cosa le abbia raccontato la bambina, signor Martín, ma non le

creda. Non saremo persone raffinate, ma non siamo neanche mostri. Io non sopiù come gestirla. Non sono il tipo d'uomo capace di togliersi la cinta e farlaubbidire a cinghiate. E la mia signora qui presente non alza la voce nemmeno conil gatto. Non so dove la bambina abbia preso quel carattere.

Credo a furia di leggere tanto. E guardi che le suore ci avevano avvisato.Lo diceva mio padre, che riposi in pace: il giorno in cui si permetterà alle

donne di imparare a leggere e scrivere, il mondo sarà ingovernabile.——Gran pensatore, suo padre, ma questo non risolve né il suo problema né il

mio.——E cosa possiamo fare? Isabella non vuole stare con noi, signor Martín.Dice che siamo ottusi, che non la capiamo, che vogliamo seppellirla in questo

negozio… Cos'altro potrei desiderare se non capirla? Lavoro qui da quando avevosette anni, dall'alba al tramonto, e l'unica cosa che ho capito è che il mondo è unposto repellente e senza riguardi per una ragazzina con la testa fra le nuvole—spiegò il negoziante, appoggiandosi a un barile. —La mia paura è che, se lacostringo a tornare, ci scappi davvero e finisca nelle mani di qualche… Nonvoglio nemmeno pensarci.—

—È vero— aggiunse sua moglie, che parlava con un pizzico di accentoitaliano. —Creda, la bambina ci ha spezzato il cuore, però non è la prima voltache se ne va. È venuta uguale a mia madre, che aveva un carattere napoletano…—

—Ah, la mamma— ricordò don Odón, atterrito solo all'evocare la memoriadella suocera.

—Quando ha detto che veniva ad abitare a casa sua per qualche giornomentre l'aiutava nel lavoro, ci siamo tranquillizzati un po'— continuò la madre diIsabella —perché sappiamo che lei è una brava persona e in fondo la bambina è

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qui vicino, a due strade da qui. Sappiamo che lei saprà con-vincerla a tornare.—Mi chiesi cosa avesse raccontato Isabella di me per convincerli che il

sottoscritto camminava sull'acqua.—Proprio ieri notte, a un tiro di schioppo da qui, hanno riempito di botte un

paio di operai che tornavano a casa. Mi dica lei. Pare che li abbiano colpiti con unferro fino a ridurli come stracci. Dicono che non si sa se uno sopravviverà e chel'altro rimarrà sciancato per tutta la vita— disse la madre. —In che mondoviviamo?—

Don Odón mi guardò, costernato.—Se vengo a prenderla, se ne andrà di nuovo. E stavolta non so se incontrerà

uno come lei. Sappiamo che non sta bene che una ragazzina abiti nella casa diuno scapolo, ma almeno ci risulta che lei è onesto e saprà averne cura.—

Il negoziante sembrava sul punto di scoppiare a piangere, Avrei preferito checorresse a prendere il fucile. C'era sempre la possibilità che qualche cuginonapoletano si presentasse dalle nostre parti con uno schioppo in mano persalvaguardare l'onore della bambina. Porca miseria

—Ho la sua parola che se ne prenderà cura finché recupera l'uso dellaragione e torna a casa?—

Sbuffai.—Ha la mia parola.—Tornai a calle Flassaders carico di ghiottonerie e leccornie che don Odón 1 In

italiano nel testo.2 In italiano nel testo.e sua moglie vollero affibbiarmi come omaggio della casa. Ribadii che mi

sarei occupato di Isabella per qualche giorno fin quando non avesse messogiudizio e capito che il suo posto era con la sua famiglia. I commerciantiinsistettero a pagarmi per il suo mantenimento, proposta che rifiutai. Il mio pianoera che nel giro di una settimana Isabella tornasse a dormire a casa sua, anche seper riuscirci avrei dovuto mantenere la finzione che fosse la mia assistentedurante il giorno. Erano cadute torri ben più alte.

Entrando in casa, la trovai seduta al tavolo della cucina. Aveva lavato tutti ipiatti della sera prima, aveva fatto il caffè e si era vestita e pettinata come unasanta uscita da un'immaginetta. Isabella, che non era stupida nemmeno un po',sapeva perfettamente da dove venivo e si armò del suo sguardo migliore da caneabbandonato e mi sorrise, sottomessa. Lasciai le borse con la scorta di delizie didon Odón sull'acquaio e la guardai.

—Mio padre non le ha sparato?——Aveva finito le munizioni e ha deciso di lanciarmi tutti questi vasetti di

marmellata e questi pezzi di formaggio manchego. —Isabella strinse le labbra, facendo una faccia di circostanza.—Sicché il nome Isabella è per via della nonna?—

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—La mamma— confermò. —Nel suo quartiere la chiamavano la Vesuvia.——Ci credo.——Dicono che assomiglio un poco a lei. Per l'ostinazione.—Non c'era bisogno di un notaio per attestarlo, pensai.—I tuoi genitori sono brave persone, Isabella. Non ti capiscono meno di

quanto tu capisca loro.—La ragazza non disse nulla. Mi versò una tazza di caffè e attese il verdet-to.

Avevo due possibilità: cacciarla di casa e far morire di crepacuore la coppia dinegozianti o fare di necessità virtù e armarmi di pazienza per due o tre giorni.Immaginai che quarantott'ore della mia incarnazione più cinica e sferzantesarebbero bastate a spezzare la ferrea determinazione di una ragazzina e arispedirla in ginocchio alle gonne della madre implorando perdono e alloggio apensione completa.

—Puoi restare qui per il momento… ——Grazie!——Non correre. Puoi restare a condizione che, uno, ogni giorno passi un

momento in negozio per salutare i tuoi genitori e dire che stai bene, e, due, che miobbedisca e rispetti le regole di questa casa.—

Il discorsetto suonava patriarcale, ma eccessivamente magnanimo. Man-3 Initaliano nel testo.

tenni l'espressione severa e decisi di forzare un po' i toni.—E quali sono le regole di questa casa?— domandò Isabella.—Fondamentalmente, quello che a me mi gira.——Mi sembra giusto.——Affare fatto, allora.—Isabella aggirò la tavola e mi abbracciò con gratitudine. Sentii il calore e le

forme sode del suo corpo di diciassettenne contro il mio. La scostai condelicatezza e la tenni a un metro di distanza.

—La prima regola è che questo non è Piccole donne e qui non ci abbrac-ciamo e non scoppiamo a piangere all'improvviso.—

—Come vuole lei.——Ecco il motto su cui costruiremo la nostra convivenza: come voglio i-o.—Isabella rise e partì rapida verso il corridoio.—Dove credi di andare?——A mettere in ordine il suo studio. Non vorrà lasciarlo com'è, vero?—

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11

Avevo bisogno di un posto dove pensare e sfuggire allo zelo domestico eall'ossessione per la pulizia della mia nuova assistente, così andai alla bibliotecache occupava la navata ad arcate gotiche dell'antico ospizio medievale di calledel Carmen. Passai il resto della giornata circondato da volumi che odoravano disepolcro papale, leggendo di mitologia e storia delle religioni finché gli occhi nonfurono sul punto di cadermi sulla tavola e di ruzzolare fuori dalla biblioteca. Dopoore di letture senza tregua, calcolai di avere a stento raggranellato unamilionesima parte di quello che potevo trovare sotto le arcate di quel santuario dilibri, per non parlare di tutto quello che si era scritto sull'argomento. Decisi chesarei tornato il giorno dopo, e quello dopo ancora, e che avrei dedicato almenoun'intera settimana ad alimentare la caldaia del mio pensiero con pagine e paginesu dèi, miracoli e profezie, santi e apparizioni, rivelazioni e misteri. Qualunquecosa pur di non pensare a Cristina e don Pedro e alla loro vita matrimoniale.

Visto che disponevo di un'assistente sollecita, le diedi istruzioni perché siprocurasse copie dei libri di catechismo e dei testi scolastici utilizzati in città perl'insegnamento della religione e me ne stilasse poi un riassunto.

Isabella non discusse gli ordini, ma aggrottò le sopracciglia quando liricevette.

—Voglio sapere per filo e per segno come viene insegnato ai bambini tuttol'ambaradan, dall'arca di Noè al miracolo dei pani e dei pesci— spiegai.

—E a che scopo?——Perché sono fatto così e ho un ampio ventaglio di curiosità.——Si sta documentando per una nuova versione del Dolce cuore di Gesù fa'

ch'io t'ami sempre più?——No. Ho in mente una versione romanzata delle avventure di Catalina de

Erauso, la suora soldato. Tu limitati a fare quello che ti dico e non discutere o tirispedisco al negozio dei tuoi a vendere cotognate a tutto spiano.—

—Lei è un despota.——Sono contento che a poco a poco ci conosciamo.——Ha a che fare con il libro che deve scrivere per quell'editore, Corelli?——Può darsi.——Mi sa che questo libro non ha possibilità commerciali.——E tu che ne sai?——Più di quanto lei creda. E non c'è bisogno che faccia così, perché cerco

solo di aiutarla. O ha deciso di non essere più uno scrittore professionista e ditrasformarsi in un dilettante da caffè e pasticcini?—

—Al momento sono occupato a fare la bambinaia.——Io non tirerei in ballo chi fa da bambinaia a chi, perché l'avrei vinta prima

di cominciare.—

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—E di cosa vorrebbe discutere vostra eccellenza?——L'arte commerciale contrapposta alle stupidaggini con tanto di morale.——Cara Isabella, mia piccola Vesuvia: nell'arte commerciale, e ogni arte

degna di questo nome prima o poi diventa commerciale, la stupidità sta quasisempre nello sguardo dell'osservatore.—

—Mi sta dando della stupida?——Ti sto richiamando all'ordine. Fa' quello che ti dico. E punto. Zitta.—Indicai la porta e Isabella sbarrò gli occhi, mormorando qualche impro-perio

che non riuscii a sentire mentre si allontanava lungo il corridoio.Mentre Isabella batteva scuole e librerie alla ricerca di libri di testo e di

catechismo da riassumere, io mi recavo alla biblioteca del Carmen adapprofondire la mia educazione teologica, impegno che intraprendevo constravaganti dosi di caffè e di stoicismo. I primi sette giorni di quella stranacreazione non partorirono altro che dubbi. Una delle poche certezze trovate fuche la stragrande maggioranza degli autori che si erano sentiti chiamati a scriveredi cose divine, umane e sacre dovevano essere studiosi dotti e pii al massimogrado, ma come scrittori erano una palla. Il sofferente lettore costretto ascivolare sulle loro pagine doveva mettercela tutta per non cadere in uno stato dicoma indotto dalla noia a ogni punto e a capo.

Dopo essere sopravvissuto a migliaia di pagine sull'argomento, cominciavo adavere l'impressione che le centinaia di fedi religiose catalogate nel corso dellastoria della stampa risultassero straordinariamente simili tra lo-ro. Attribuii questaprima impressione alla mia ignoranza o a una mancanza di documentazioneadeguata, ma non riuscivo a scacciare l'idea di aver passato in rassegna decine distorie poliziesche in cui l'assassino cambiava, ma la meccanica della trama eraessenzialmente sempre la stessa. Miti e leggende, sia sulle divinità sia sullaformazione e la storia di popoli e razze, cominciarono a sembrarmi immagini dirompicapo poco differenziati e costruiti sempre con le stesse tessere, anche se inun ordine diverso.

Dopo due giorni ero già diventato amico di Eulalia, la bibliotecaria, che miselezionava testi e tomi nell'oceano di carta di cui era responsabile e che di tantoin tanto veniva a trovarmi al mio tavolo d'angolo per chiedermi se avessi bisognodi qualcos'altro. Doveva avere la mia età e l'intelligenza le sprizzava dagli occhi,di solito sotto forma di frecciate acuminate e vagamente velenose.

—Sta leggendo un bel po' su santi e affini… Ha deciso di farsi chierichettoadesso, alle soglie della maturità?—

—È solo per documentazione.——Ah, dicono tutti così.—Le battute e l'ingegno della bibliotecaria offrivano un balsamo impagabile per

sopravvivere a quei testi pesanti come macigni e per proseguire nel miopellegrinaggio documentativo. Quando Eulalia aveva un po' di tempo libero

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veniva al mio tavolo e mi aiutava a mettere ordine in quel guazzabuglio. Eranopagine in cui abbondavano racconti di padri e figli, madri pure e sante, tradimentie conversioni, profezie e profeti martiri, inviati del cielo o del paradiso, neonativenuti al mondo per salvare l'universo, entità malefiche dall'aspettoraccapricciante e dalla morfologia solitamente ani-malesca, esseri eterei e daitratti razziali accettabili che erano agenti del bene ed eroi sottoposti a tremendeprove dal destino. Si percepiva sempre l'idea dell'esistenza terrena come unaspecie di stazione di passaggio, che invitava alla docilità e all'accettazione deldestino e delle norme della tribù, perché la ricompensa si trovava sempre in unaldilà che prometteva paradisi ricolmi di tutto ciò di cui si era privi nella vitamondana.

A mezzogiorno del giovedì, in una delle sue pause, Eulalia mi si avvicinò e michiese se, a parte leggere messali, di tanto in tanto mangiavo. La invitai a pranzoa Casa Leopoldo, che aveva da poco aperto lì vicino. Mentre degustavamo unosquisito stufato di coda di toro, mi raccontò che faceva quel mestiere da due annie che da altri due stava lavorando a un romanzo che non le riusciva e che avevacome scenario principale la biblioteca del Carmen, e per tema una serie dimisteriosi delitti perpetrati al suo interno.

—Mi piacerebbe scrivere qualcosa di simile a quei romanzi di qualche annofa di Ignatius B. Samson— disse. —Le dice qualcosa?—

—Vagamente— risposi.Eulalia non riusciva a elaborare la trama del suo romanzo e io le suggerii di

dare al tutto un tono leggermente sinistro e di incentrare la vicenda su un librosegreto posseduto da uno spirito tormentato, con sottotrame di apparentecontenuto sovrannaturale.

—È quello che farebbe Ignatius B. al suo posto— azzardai.—E cosa ci fa lei con tutte quelle letture su angeli e demoni? Non mi dica che

è un ex seminarista pentito.——Sto cercando di appurare cos'hanno in comune le origini di religioni e miti

diversi— spiegai.—E cos'ha imparato finora?——Quasi niente. Non la voglio annoiare con il miserere.——Non mi annoia. Racconti.—Mi strinsi nelle spalle.—Be', quello che finora ho trovato più interessante è che la maggioranza di

queste credenze nasce da un fatto o da un personaggio probabilmente storico, mapresto si evolve in movimenti sociali modellati dalle circostanze politiche,economiche e sociali del gruppo che le accetta. È ancora sveglia?—

Eulalia annuì.—Buona parte della mitologia che si sviluppa attorno a ciascuna di queste

dottrine, dalle liturgie alle norme e ai tabù, proviene dalla burocrazia che si

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genera via via che evolvono, e non dal presunto evento soprannaturale da cuihanno avuto origine. La maggioranza parte da aneddoti semplici e sicu-ri, unmisto di senso comune e di folclore, e tutta la carica bellicosa che sviluppa derivadall'interpretazione posteriore di quei princìpi, quando non tendono a snaturarsiper opera dei loro amministratori. L'aspetto ammini-strativo e gerarchico sembrala chiave della loro evoluzione. All'inizio la verità viene rivelata a tutti gli uomini,ma rapidamente compaiono indivi-dui che si attribuiscono la potestà e il dovere diinterpretare, amministrare e, nel caso, alterare quella verità in nome del benecomune. A questo scopo fondano un'istituzione potente e potenzialmenterepressiva. Questo feno-meno, tipico di tutti i gruppi di animali sociali, come ciinsegna la biologia, non tarda a trasformare la dottrina in un elemento di controlloe di battaglia politica. Prima o poi, la parola si fa sangue, e la carne sanguina.—

Mi sembrò di cominciare a parlare come Corelli e sospirai. Eulalia sorridevadebolmente e mi osservava con qualche riserva.

—È questo che cerca? Sangue?——Come si dice? Per imparare bisogna sputare sangue, non al contrario.——Io non ne sarei tanto sicura.——Intuisco che lei ha frequentato una scuola di suore.——Le dame nere. Otto anni.——È vero quello che si dice, che sono proprio le alunne delle scuole di suore a

covare i desideri più oscuri e inconfessabili?——Scommetto che le piacerebbe scoprirlo.——Punti tutte le fiches sul sì.——Cos'altro ha imparato nel suo corso accelerato di teologia per menti

fervide?——Poco altro. Le mie prime conclusioni mi hanno lasciato un retrogusto di

banalità e incongruenza. Tutto questo mi sembrava già più o meno evidente senzabisogno di divorare enciclopedie e trattati sul sesso degli angeli, forse perché nonsono in grado di superare i miei pregiudizi o perché non c'è niente da capire e ilnocciolo della questione sta semplicemente nel credere o no, senza soffermarsisul perché. Come le pare la mia retorica?

Continua a impressionarla?——Mi fa venire la pelle d'oca. Peccato non averla conosciuta quando ero una

studentessa dagli oscuri desideri.——Lei è crudele, Eulalia.—La bibliotecaria rise di gusto e mi guardò a lungo negli occhi.—Mi dica, Ignatius B., chi le ha spezzato il cuore con tanta rabbia?——Vedo che lei sa leggere anche altro, oltre ai libri.—Rimanemmo seduti ancora alcuni minuti, osservando l'andirivieni dei

camerieri nella sala di Casa Leopoldo.—Sa qual è il bello dei cuori infranti?— domandò la bibliotecaria.

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Scossi la testa.—Che possono rompersi davvero soltanto una volta. Il resto sono graffi.——Lo metta nel suo libro.—Indicai il suo anello di fidanzamento.—Non so chi sia quel citrullo, ma spero che sappia di essere l'uomo più

fortunato del mondo.—Eulalia sorrise con una certa tristezza e annuì. Tornammo in biblioteca e

ognuno riprese il proprio posto, lei alla sua scrivania e io al mio angolo.Mi accomiatai da lei il giorno dopo, quando decisi che non potevo né volevo

leggere nemmeno un altro rigo su rivelazioni e verità eterne. Sulla strada dellabiblioteca le comprai una rosa bianca da un fioraio delle Ramblas e gliela lasciaisulla scrivania. La trovai in uno dei corridoi che sistemava libri.

—Già mi abbandona, così presto?— disse quando mi vide. —Chi mi farà icomplimenti adesso?—

—Chi non glieli farà?—Mi accompagnò all'uscita e mi strinse la mano in cima alla scalinata che

portava al cortile del vecchio ospedale. M'incamminai giù per le scale. A metàstrada mi fermai e mi voltai. Era ancora lì, a osservarmi.

—Buona fortuna, Ignatius B. Spero che trovi quello che cerca.—

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12

Mentre cenavo con Isabella alla tavola del salotto, notai che la mia nuovaassistente mi guardava di sottecchi.

—Non le piace la minestra? Non l'ha toccata…— azzardò la ragazza.Guardai il piatto intatto che avevo lasciato raffreddare. Presi una cucchiaiata

e feci finta di provare lo squisito manicaretto.—Buonissima— concessi.—E non ha detto nemmeno una parola da quando è tornato dalla biblioteca—

aggiunse Isabella.—Qualche altro reclamo?—Isabella sviò lo sguardo, infastidita. Mangiai la minestra fredda senza appetito,

un pretesto per non dover fare conversazione.—Perché è così triste? È per quella donna?—Lasciai il cucchiaio nel piatto.Non risposi e continuai a rimestare nella minestra con il cucchiaio. Isabella

non mi toglieva gli occhi di dosso.—Si chiama Cristina— dissi. —E non sono triste. Sono contento per lei perché

ha sposato il mio migliore amico e sarà molto felice.——E io sono la regina di Saba.——Tu sei solo una ficcanaso.——Mi piace di più così, quando è di cattivo umore e dice la verità.——Allora vediamo se ti piace questo: smamma nella tua stanza e lasciami in

pace una buona volta.—Cercò di sorridere, ma quando allungai la mano verso di lei gli occhi le si

erano riempiti di lacrime. Prese il mio piatto e il suo e fuggì in cucina.Sentii i piatti cadere nell'acquaio e, qualche secondo dopo, la porta della sua

stanza chiudersi di botto. Sospirai e assaporai il bicchiere di vino rimasto, unvinello squisito che veniva dal negozio dei genitori di Isabella. Do-po un po' miavvicinai alla porta della sua stanza e bussai leggermente con le nocche. Nonrispose, ma potevo sentirla singhiozzare. Cercai di aprire, ma la ragazza avevachiuso dall'interno.

Salii nello studio, che dopo il passaggio di Isabella odorava di fiori freschi esembrava la cabina di una nave da crociera di lusso. Isabella aveva messo inordine i libri, spolverato e lasciato tutto brillante e irriconoscibile.

La vecchia Underwood sembrava una scultura e le lettere della tastiera sileggevano di nuovo senza difficoltà. Una pila di fogli accuratamente ordinatigiaceva sulla scrivania con i riassunti di vari testi scolastici di religione e catechesiinsieme alla corrispondenza del giorno. In un piattino da caffè c'erano un paio disigari che sprigionavano un profumo molto gradevole. Macanudos, una delledelizie cubane che un contatto nella Manifattu-ra Tabacchi passava sottobanco al

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padre di Isabella. Ne presi uno e l'accesi. Aveva un sapore intenso che lasciavaintuire nel suo respiro tiepido tutti gli aromi e i veleni che un uomo potevadesiderare per morire in pace. Mi sedetti alla scrivania ed esaminai le letteredella giornata. Le ignorai tutte meno una, di carta pergamena ocra ornata daquella calligrafia che avrei riconosciuto dovunque. La missiva del mio nuovoeditore e mecenate, Andreas Corelli, mi dava appuntamento la domenica a metàpomeriggio in cima alla torre della nuova funivia che attraversava il porto diBarcellona.

La torre di San Sebastián si innalzava a cento metri d'altezza in un ammasso dicavi e acciaio che provocava le vertigini al solo vederlo. La linea della funiviaera stata inaugurata quello stesso anno per l'Esposizione Universale che avevamesso tutto a soqquadro e costellato Barcellona di portenti. La funiviaattraversava la darsena del porto da quella prima torre a un pilastro centrale chericordava la torre Eiffel e serviva da fulcro e dal quale partivano le cabinesospese nel vuoto nella seconda parte del tragitto fino al Montjuïc, dove si trovavail cuore dell'Esposizione. Il prodigio della tecnica prometteva panorami della cittàfino a quel momento consentiti so-lo a dirigibili, uccelli di una certa grandezza echicchi di grandine. Per co-me la vedevo io, gli uomini e i gabbiani non eranostati concepiti per condividere lo stesso spazio aereo, e appena entrainell'ascensore che saliva in cima alla torre sentii lo stomaco restringersi fino adiventare una biglia.

L'ascesa mi sembrò infinita, e lo sferragliare di quella capsula di latta unautentico esercizio di nausea.

Trovai Corelli intento a guardare da uno dei finestroni affacciati sulla darsenadel porto e sulla città intera, gli occhi perduti negli acquerelli di vele e alberi chescivolavano sull'acqua. Indossava un completo di seta bianca e giocherellava conuna zolletta di zucchero che teneva fra le dita e che inghiottì con voracità da lupo.Tossicchiai e il mio principale si girò, sorridendo compiaciuto.

—Un panorama meraviglioso, non le pare?— domandò Corelli.Annuii, bianco come un foglio.—Le fa impressione l'altezza?——Sono un animale di superficie— risposi, tenendomi a una distanza

prudenziale dalla finestra.—Mi sono permesso di comprare biglietti di andata e ritorno— m'informò.—Troppo gentile.—Lo seguii fino alla passerella d'accesso alle cabine che partivano dalla torre e

rimanevano sospese nel vuoto a quasi un centinaio di metri d'altezza per un tempoche mi sembrava infinito.

—Come ha trascorso la settimana, Martín?——Leggendo.—Mi guardò brevemente.

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—Dalla sua espressione annoiata sospetto che non si trattava di AlexandreDumas.—

—Piuttosto di una collezione di forforosi accademici con la loro prosa dicemento.—

—Ah, intellettuali. E lei voleva che ne assumessi uno. Perché mai, se si hacosì poco da dire, lo si dice nella maniera più pomposa e pedante possibile?—chiese Corelli. —Sarà per ingannare gli altri o se stessi?—

—Forse tutte e due le cose.—Il principale mi consegnò i biglietti e mi fece cenno di passare per primo. Li

diedi al controllore che teneva aperta la porta della cabina. Entrai senza alcunentusiasmo. Decisi di stare al centro, il più lontano possibile dai vetri. Corellisorrideva come un bambino euforico.

—Forse parte del suo problema è che ha letto i commentatori e non icommentati. Un errore abituale, ma fatale, quando si vuole imparare qualcosa diutile— osservò Corelli.

Le porte della cabina si chiusero e un brusco scossone ci mandò in orbi-ta. Miaggrappai a una sbarra di metallo e respirai a fondo.

—Intuisco che gli studiosi e i teorici non sono santi di cui lei è devoto—dissi.—Non sono devoto di nessun santo, amico mio, e men che meno di quelli che

si canonizzano da soli o tra di loro. La teoria è la pratica degli impo-tenti. Lesuggerisco di lasciare da parte gli enciclopedisti e i loro articoli e di andaredirettamente alle fonti. Mi dica, ha letto la Bibbia?—

Esitai un istante. La cabina si affacciò nel vuoto. Guardai a terra.—Frammenti qui e là, suppongo— mormorai.—Suppone. Come quasi tutti. Grave errore. Tutti dovrebbero leggere la

Bibbia. E rileggerla. Credenti e non credenti, fa lo stesso. Io la rileggo almeno unavolta all'anno. È il mio libro preferito.—

—E lei è un credente o uno scettico?— chiesi.—Sono un professionista. E anche lei. Quello che crediamo o no è irrilevante

per portare a termine il nostro lavoro. Credere o non credere è un at-to dapusillanimi. Si sa o non si sa, punto.—

—Allora confesso che non so nulla.——Continui su questa strada e incontrerà i passi del grande filosofo. Elungo la strada legga la Bibbia dall'a alla zeta. È una delle più grandi storie

mai raccontate. Non commetta l'errore di confondere la parola di Dio conl'industria del messale che di quella vive.—

Più tempo passavo in compagnia dell'editore, meno ero convinto di capirlo.—Credo di essermi perso. Stiamo parlando di leggende e favole e lei adesso

mi dice di pensare alla Bibbia come alla parola letterale di Dio?—Un'ombra d'impazienza e irritazione gli annebbiò lo sguardo.

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—Parlo in senso figurato. Dio non è un ciarlatano. La parola è monetaumana.—

A quel punto mi sorrise come si sorride a un bambino che non è in grado dicapire le cose più elementari, per non dargli uno schiaffo. Osservandolo, mi resiconto che era impossibile sapere quando l'editore parlasse sul serio o scherzasse.Impossibile come indovinare lo scopo di quella stravagante impresa per la qualemi stava pagando uno stipendio da monarca reggente.

In più, la cabina si agitava al vento come una mela su un albero sferzato da unuragano. Non avevo mai pensato tanto a Isaac Newton in tutta la mia vita.

—Lei è un fifone, Martín. Questo marchingegno è completamente sicuro.——Ci crederò quando tocchiamo terra.—Ci stavamo avvicinando al punto mediano del tragitto, la torre di San Jaime,

che si innalzava tra i moli vicini al grande palazzo delle Dogane.—Le dispiace se scendiamo qui?— domandai.Corelli fece spallucce e annuì controvoglia. Non respirai con calma fin

quando non fui sull'ascensore della torre e lo sentii toccare terra. Uscendo suimoli trovammo una panchina che guardava le acque del porto e il Montjuic e cisedemmo a osservare la funivia sopra di noi; io con sollievo, Corelli conrimpianto.

—Mi parli delle sue prime impressioni. Di quello che le hanno suggerito questigiorni di studio e di lettura intensiva.—

Riassunsi quello che credevo di avere imparato, o disimparato, in quei giorni.L'editore ascoltava attento, annuendo e gesticolando con le mani.

Alla fine del mio rapporto tecnico su miti e credenze dell'essere umano,Corelli si pronunciò positivamente.

—Credo che lei abbia fatto un eccellente lavoro di sintesi. Non ha trovato ilproverbiale ago nel pagliaio, ma ha capito che l'unica cosa davvero interessantedel mucchio di paglia è un dannato spillo e tutto il resto è cibo per gli asini. Aproposito di asini, mi dica, le interessano le favole?—

—Da bambino, per un paio di mesi, volevo essere Esopo.——Tutti lasciamo grandi speranze lungo il cammino.——Cosa voleva essere da bambino, signor Corelli?——Dio.—Il suo sorriso da sciacallo cancellò il mio di colpo.—Martín, le favole sono probabilmente uno dei meccanismi letterari più

interessanti che siano stati inventati. Sa che cosa ci insegnano?——Lezioni morali?——No. Ci insegnano che gli esseri umani imparano e assorbono idee e concetti

attraverso narrazioni, storie, non attraverso lezioni magistrali o discorsi teorici. Lastessa cosa ci insegna qualunque grande testo religioso.

Si tratta sempre di racconti con personaggi che devono affrontare la vita e

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superare ostacoli, figure che si imbarcano in un viaggio di arricchimentospirituale attraverso peripezie e rivelazioni. Tutti i libri sacri sono, prima di tutto,grandi storie le cui trame affrontano gli aspetti fondamentali della natura umanae li collocano in un determinato contesto morale e in una cornice di dogmisovrannaturali. Ho preferito che trascorresse una settimana infelice a leggeretesi, discorsi, opinioni e commenti perché si rendesse conto da solo che da quellinon c'è niente da imparare. Di fatto sono solo esercizi di buona o cattiva volontà,normalmente falliti, per cercare di imparare a loro volta. Sono finite leconversazioni ex cathedra. A partire da oggi voglio che inizi a leggere i raccontidei fratelli Grimm, le tragedie di Eschilo, il Ramay ana o le leggende celtiche. Leistesso. Voglio che analiz-zi come funzionano quei testi, che ne distilli l'essenza e imotivi per cui provocano una reazione emotiva. Voglio che impari lagrammatica, non la morale della favola. E voglio che fra due o tre settimane miporti qualcosa di suo, l'inizio di una storia. Voglio che mi faccia credere.—

—Pensavo che eravamo professionisti e non potevamo commettere ilpeccato di credere in qualcosa.—

Corelli sorrise, mostrando i denti.—Si può convertire solo un peccatore, mai un santo.—

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13

I giorni passavano fra letture e intoppi. Abituato da anni a vivere da solo e aquello stato di metodica e sottovalutata anarchia tipico del maschio scapolo, lacostante presenza di una donna in casa, per quanto fosse un'adolescente discola edal carattere lunatico, cominciava a minare le mie abi-tudini in modo sottile masistematico. Io credevo nel disordine categoriz-zato; Isabella no. Io credevo chegli oggetti trovano il proprio posto nel ca-os di una casa; Isabella no. Io credevonella solitudine e nel silenzio; Isabella no. Nel giro di un paio di giorni scoprii chenon ero in grado di trovare alcunché nella mia stessa casa. Se cercavo untagliacarte o un bicchiere o un paio di scarpe, dovevo domandare a Isabella dovela provvidenza le aveva ispirato di nasconderli.

—Non nascondo niente. Metto le cose al loro posto, che è diverso.—Non passava giorno in cui non provassi l'impulso di strangolarla una mezza

dozzina di volte. Quando mi rifugiavo nello studio in cerca di pace e di tranquillitàper pensare, Isabella compariva dopo pochi minuti con una tazza di tè o deipasticcini, sorridente. Cominciava ad aggirarsi per lo studio, si affacciava allafinestra, iniziava a mettere in ordine il ripiano della scrivania e poi mi chiedevacosa ci facessi lassù, così silenzioso e pieno di mistero. Scoprii che le ragazze didiciassette anni possiedono una tale capacità verbale che il loro cervello le spingea esercitarla ogni venti secondi.

Il terzo giorno decisi che bisognava trovarle un fidanzato, possibilmente sordo.—Isabella, come è possibile che una ragazza carina come te non abbia

pretendenti?——Chi ha detto che non ce li ho?——Non c'è nessun ragazzo che ti piace?——I ragazzi della mia età sono noiosi. Non hanno niente da dire e la metà

sembrano scemi con la nocca.—Stavo per dirle che con l'età non miglioravano, ma non volli rovinarle la festa.—Allora di che età ti piacciono?——Anziani. Come lei.——Ti sembro anziano?——Be', non è più un pivellino.—Preferii credere che mi stesse prendendo in giro piuttosto che incassare quel

colpo basso alla mia vanità. Decisi di cavarmela con qualche goccia di sarcasmo.—La buona notizia è che alle ragazzine piacciono gli uomini anziani, e la

cattiva che agli uomini anziani, e specialmente a quelli decrepiti e bavosi,piacciono le ragazzine.—

—Lo so. Non creda che mi succhi ancora il dito.—Isabella mi osservò, macchinando qualcosa, e sorrise con malizia. Eccoci,

pensai.

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—E anche a lei piacciono le ragazzine?—Avevo la risposta sulle labbra prima che mi facesse la domanda. Adottai un

tono didattico ed equanime, da cattedratico di geografia.—Mi piacevano quando avevo la tua età. Generalmente mi piacciono le

ragazze della mia.——Alla sua età non sono più ragazze, sono signorine o, se proprio ci tiene,

signore.——Fine del dibattito. Non hai niente da fare di sotto?——No.——Allora mettiti a scrivere. Non ti tengo qui per lavare i piatti e nascondermi

le cose. Ti tengo perché mi hai detto che volevi imparare a scrivere e io sonol'unico idiota che conosci in grado di aiutarti a farlo.—

—Non c'è bisogno che si arrabbi. È che mi manca l'ispirazione.——L'ispirazione viene quando si mettono i gomiti sul tavolo, il culo sulla sedia e

si comincia a sudare. Scegli un tema, un'idea e spremiti le meningi fin quando tifanno male. Questa si chiama ispirazione.—

—Il tema ce l'ho già.——Alleluia.——Scriverò su di lei.—Un lungo silenzio di sguardi scambiati, di avversari che si fissano al di sopra

della scacchiera.—Perché?——Mi sembra interessante. E strano.——E anziano.——E suscettibile. Quasi come un ragazzo della mia età.—Mio malgrado, stavo cominciando ad abituarmi alla compagnia di Isabella,

alle sue frecciate e alla luce che aveva portato in quella casa. Se le cose fosseroandate avanti così, le mie peggiori paure si sarebbero concre-tizzate e avremmofinito per diventare amici.

—E lei ce l'ha già un tema con tutti quei libracci che sta consultando?—Decisi che meno avessi raccontato a Isabella del mio incarico, meglio

sarebbe stato.—Sono ancora nella fase della documentazione.——Documentazione? E come funziona?——Fondamentalmente, si leggono migliaia di pagine per imparare il

necessario e arrivare all'essenziale di un tema, alla sua verità emotiva, e poi sidisimpara tutto per iniziare da zero.—

Isabella sospirò.—Cos'è la verità emotiva?——È la sincerità all'interno della finzione.——Allora bisogna essere onesti e brave persone per scrivere narrativa?—

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—No. Bisogna avere mestiere. La verità emotiva non è una qualità morale, èuna tecnica.—

—Parla come uno scienziato— protestò Isabella.—La letteratura, almeno quella buona, è una scienza con sangue artistico.Come l'architettura o la musica.——Io pensavo che fosse qualcosa che sgorgava dall'artista, così,

all'improvviso.——A sgorgare così all'improvviso sono solo i peli e le verruche.—Isabella considerò quelle rivelazioni con scarso entusiasmo.—Tutto questo lo dice per scoraggiarmi e farmi tornare a casa.——Non avrò questa fortuna.——Lei è il peggior maestro del mondo.——Il maestro lo fa l'alunno, non il contrario.——Non si può discutere con lei perché sa tutti i trucchi della retorica. Non è

giusto.——Niente è giusto. Al massimo si può sperare che sia logico. La giustizia è una

malattia rara in un mondo per il resto sano come un pesce.——Amen. È questo che succede diventando grandi? Si smette di credere nelle

cose, come lei?——No. Via via che s'invecchia, la maggior parte della gente continua a

credere a sciocchezze, generalmente sempre più grandi. Io vado controcor-renteperché mi piace girarmi i pollici.—

—Non ci giuri. Io quando sarò anziana continuerò a credere nelle cose—minacciò Isabella.—Buona fortuna.——E inoltre credo in lei.—Non distolse lo sguardo quando la fissai.—Perché non mi conosci.——Questo lo crede lei. Non è così misterioso come pensa.——Non pretendo di essere misterioso.——Era un sostituto amabile di antipatico. Anch'io conosco qualche trucco

retorico.——Questa non è retorica. È ironia. Sono cose diverse.——Deve sempre averla vinta nelle discussioni?——Quando mi rendono le cose così facili, sì.——E quell'uomo, il suo principale… ——Corelli?——Corelli. Le rende le cose facili?——No. Corelli conosce molti più trucchi retorici di me.——Mi sembrava. Si fida di lui?——Perché me lo chiedi?—

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—Non so. Si fida?——Perché non dovrei fidarmi?—Isabella si strinse nelle spalle.—Cos'è concretamente che le ha commissionato? Non me lo vuole dire?——Te l'ho già detto. Vuole che scriva un libro per la sua casa editrice.——Un romanzo?——Non esattamente. Piuttosto una favola. Una leggenda.——Un libro per bambini?——Qualcosa del genere.——E lei lo farà?——Paga molto bene.—Isabella aggrottò le sopracciglia.—Per questo scrive? Perché la pagano bene?——A volte.——E stavolta?——Stavolta scriverò questo libro perché devo farlo.——È in debito con lui?——Si potrebbe dire così, suppongo.—Isabella soppesò la questione. Mi sembrò che stesse per dire qualcosa, ma ci

pensò su e si morse le labbra. Invece mi rivolse un sorriso innocente e uno deisuoi sguardi angelicali con cui era capace di cambiare argomento in un battito diciglia.

—Anche a me piacerebbe essere pagata per scrivere— disse.—A chiunque scrive piacerebbe, ma questo non significa che ci riuscirà.——E come ci si riesce?——Si comincia scendendo in salotto, prendendo un foglio… ——Mettendo i gomiti sul tavolo e spremendosi le meningi fin quando fanno

male. Già.—Mi guardò negli occhi, esitante. Era già una settimana e mezza che la tenevo

in casa e non avevo fatto cenno di rimandarla dai suoi. Immaginai che sichiedesse quando l'avrei fatto o perché non l'avessi ancora fatto.

Anch'io me lo chiedevo e non trovavo la risposta.—Mi piace essere la sua assistente, anche se lei è com'è— disse alla fine.La ragazza mi guardava come se la sua vita dipendesse da una parola gentile.

Non resistetti alla tentazione. Le buone parole sono gesti di bontà vani che nonesigono alcun sacrificio e sono più graditi di quelli pratici.

—Anche a me piace che tu sia la mia assistente, Isabella, anche se sonocome sono. E mi piacerà di più quando non ci sarà più bisogno che tu sia la miaassistente e non avrai più niente da imparare da me.—

—Crede che ho qualche possibilità?——Non ho alcun dubbio. Tra dieci anni tu sarai la maestra e io l'apprendista—

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dissi, ripetendo quelle parole che ancora mi sapevano di tradimento.—Bugiardo— disse baciandomi dolcemente sulla guancia per poi, subito

dopo, uscire di corsa giù per le scale.

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14

Nel pomeriggio lasciai Isabella alla scrivania che avevamo sistemato per lei insalotto, davanti ai fogli bianchi, e mi recai alla libreria di don Gustavo Barceló incalle Ferran con l'intenzione di procurarmi una buona e leggibile edizione dellaBibbia. L'intero set di vecchi e nuovi testamenti di cui disponevo a casa erastampato in caratteri microscopici su carta velina se-mitrasparente, e la lorolettura, più che al fervore e all'ispirazione divini, induceva all'emicrania. Barceló,che tra molte altre cose era un pertinace collezionista di libri sacri e testi apocrificristiani, aveva un séparé nel retro della libreria con un formidabile assortimentodi Vangeli, memorie di santi e beati e ogni tipo di testi religiosi.

Quando mi vide entrare in libreria, uno dei dipendenti corse ad avvisare ilproprietario nell'ufficio del retrobottega. Barceló emerse dal suo studio, euforico.

—Che bel vedere. Sempere me l'aveva detto che lei era rinato, ma così è daantologia. Al suo fianco, Rodolfo Valentino sembra appena arrivato dallacampagna. Dove si era ficcato, mascalzone?—

—Qui e là— dissi.—Dappertutto meno che al pranzo di nozze di Vidal. Ci è mancato, amico

mio.——Mi permetta di dubitarne.—Il libraio annuì, facendo intendere che veniva incontro al mio desiderio di non

approfondire l'argomento.—Gradisce una tazza di tè?——Anche due. E una Bibbia. Se possibile, maneggevole.——Non sarà un problema— disse il libraio. —Dalmau!—Un commesso accorse sollecito all'appello.—Dalmau, all'amico Martín serve un'edizione della Bibbia di carattere non

decorativo, ma leggibile. Pensavo a Torre Amat, 1825. Cosa gliene pare?—Una delle particolarità della libreria di Barceló era che vi si parlava di libri

come di vini sopraffini, catalogando bouquet, aroma, corposità e anno divendemmia.

—Scelta eccellente, signor Barceló, sebbene io propenderei per la versioneattualizzata e riveduta.—

—1860?——1893.——Naturalmente. Aggiudicata. La incarti all'amico Martín e la segni in conto

alla casa.——Assolutamente no— obiettai.—Il giorno che mi farò pagare per la Parola di Dio da un miscredente come

lei, sarà il giorno in cui una saetta distruttrice mi fulminerà, e a ragione.—Dalmau partì spedito alla ricerca della mia Bibbia e io seguii Barceló nel suo

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ufficio, dove il libraio servì due tazze di tè e mi offrì un sigaro dall'u-midificatore.Lo accettai e lo accesi alla fiamma di una candela che mi tendeva Barceló.

—Macanudo?——Vedo che si sta raffinando il palato. Un uomo deve avere qualche vizio, se

possibile di classe, altrimenti quando arriva alla vecchiaia non ha nulla da cuiredimersi. In effetti, le farò compagnia, che diamine.—

Una nube di eccellente fumo di sigaro cubano ci ricoprì come l'alta marea.—Sono stato qualche mese fa a Parigi e ho avuto l'opportunità di fare indagini

sul tema di cui ha parlato all'amico Sempere tempo addietro— spiegò Barceló.—Éditions de la Lumière.——Esatto. Mi sarebbe piaciuto scoprire qualcosa di più, ma purtroppo da

quando la casa editrice ha chiuso non sembra che qualcuno abbia acquisito ilcatalogo, ed è stato difficile tirare fuori grandi cose.—

—Dice che ha chiuso? Quando?——Millenovecentoquattordici, se la memoria non mi tradisce.——Dev'esserci un errore.——No, se parliamo delle Éditions de la Lumière, in boulevard St.—Germain.——Proprio quelle.——Guardi, in realtà mi sono annotato tutto per non dimenticarmi quando ci

saremmo visti.—Barceló cercò nel cassetto della scrivania e tirò fuori un piccolo quaderno di

appunti.—Ecco qua: « Éditions de la Lumière, casa editrice di testi religiosi con uffici

a Roma, Parigi, Londra e Berlino. Fondatore e direttore, Andreas Corelli. Anno diapertura della prima sede a Parigi, 1881» .—

—Impossibile— mormoraiBarceló si strinse nelle spalle.—Be', posso essermi sbagliato, però… ——Ha avuto modo di visitare gli uffici?——In realtà ci ho provato, perché il mio albergo era di fronte al Pantheon,

proprio lì vicino, e l'ex sede della casa editrice era sul lato sud del boulevard, frarue St.—Jacques e boulevard St.—Michel.—

—E allora?——Il palazzo era vuoto e sbarrato, e sembrava ci fosse stato un incendio o

qualcosa di simile. L'unica cosa intatta era il battente della porta, un pezzodavvero pregevole a forma di angelo. In bronzo, direi. Me lo sarei portato via senon fosse stato che un gendarme mi guardava di sottecchi e non ho avuto ilcoraggio di provocare un incidente diplomatico, non fosse mai che la Franciadecidesse di invaderci di nuovo.—

—Visto il panorama, forse ci facevano un favore.—

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—Ora che me lo dice… Ma tornando al punto, quando ho visto in quale statoera ridotto il palazzo sono andato a domandare al caffè di fianco e mi hanno dettoche era così da più di vent'anni.—

—È riuscito a sapere qualcosa dell'editore?——Corelli? A quanto ho capito, la casa editrice ha chiuso quando lui ha deciso

di ritirarsi, anche se non doveva avere nemmeno cinquant'anni.Credo si sia trasferito in una villa nel sud della Francia, nel Luberon, e che sia

morto poco tempo dopo. Morso di serpente, si è detto. Una vipera. Si ritiri inProvenza, se vuole fare la stessa fine.—

—È sicuro che sia morto?——Père Coligny, un ex concorrente, mi ha fatto vedere il suo necrologio, che

custodiva incorniciato come se fosse un trofeo. Ha detto che lo guardava ognigiorno per ricordarsi che quel maledetto bastardo era morto e sepolto. Le sueparole esatte, anche se in francese suonavano molto più belle e musicali.—

—Coligny le ha detto se Corelli aveva qualche figlio?——Ho avuto l'impressione che Corelli non fosse il suo argomento preferito e,

appena ha potuto, Coligny ha glissato. C'era stato uno scandalo, pare, quandoCorelli gli aveva rubato uno dei suoi autori, un certo Lambert.—

—Cos'era successo?——La cosa più divertente dell'affare è che Coligny non era mai nemmeno

riuscito a vedere Corelli. Tutti i loro contatti si riducevano alla corrispondenzacommerciale. Il nocciolo della questione, direi, era che, a quanto pa-re, monsieurLambert aveva firmato un contratto per scrivere un libro per le Éditions de laLumière di nascosto da Coligny, per il quale lavorava in esclusiva. Lambert eraun oppiomane terminale e aveva abbastanza debiti da lastricare rue Rivoli da uncapo all'altro. Coligny sospettava che Corelli gli avesse offerto una sommaastronomica e il poveretto, che stava morendo, aveva accettato perché volevasistemare i figli.—

—Che tipo di libro?——Qualcosa di contenuto religioso. Coligny mi ha citato il titolo, un lati-norum

alla moda che adesso non mi viene in mente. Come sa, tutti i messali hanno uncerto stile. Pax Gloria Mundi o qualcosa del genere.—

—E cosa ne è stato del libro e di Lambert?——Qui la questione si complica. A quanto pare, il povero Lambert, in un

accesso di follia, voleva bruciare il manoscritto ed è rimasto tra le fiamme contutta la casa editrice. Molti hanno pensato che l'oppio avesse finito per friggergli ilcervello, ma Coligny sospettava che fosse stato Corelli a spin-gerlo al suicidio.—

—Perché l'avrebbe fatto?——Chissà! Forse non voleva corrispondergli la somma promessa. Forse sono

fantasie di Coligny, che io definirei un appassionato di Beaujolais tutti e dodici imesi dell'anno. Senza spingersi oltre, mi ha detto che Corelli aveva cercato di

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ucciderlo per liberare Lambert dal contratto e che l'aveva lasciato in pace soloquando lui aveva deciso di rescinderlo e di lasciare libero lo scrittore.—

—Non ha detto che non l'aveva mai visto?——A maggior ragione. Io credo che Coligny delirasse. Quando sono andato a

trovarlo a casa sua, ho visto più crocifissi, madonne e immagini di santi che in unnegozio di presepi. Ho avuto l'impressione che non avesse tutte le rotelle al loroposto. Nel salutarmi, mi ha detto di stare lontano da Corelli.—

—Ma non aveva detto che era morto?——Ecco qua—Rimasi in silenzio. Barceló mi guardava, intrigato.—Ho l'impressione che i risultati delle mie ricerche non le abbiano provocato

grandi sorprese.—Abbozzai un sorriso noncurante, togliendo importanza alla questione.—Al contrario. La ringrazio per aver dedicato del tempo alle indagini.——Di nulla. Per me è un piacere andare in giro per Parigi a spettegolare, lei

mi conosce.—4 In italiano nel testo.Barceló strappò dal quadernetto la pagina con i dati che aveva annotato e me

la diede.—Per quello che può servirle. Qui c'è tutto quello che ho potuto verificare.—Mi alzai e gli strinsi la mano. Mi accompagnò all'uscita, dove Dalmau mi

aveva preparato il pacchetto.—Se vuole qualche immaginetta del Bambin Gesù che apre e chiude gli occhi

a seconda da dove si guarda, abbiamo anche quelle. E un'altra con la Verginecircondata da agnellini che, facendola girare, si trasformano in cherubini paffuti.Un prodigio della tecnologia stereoscopica.—

—Per il momento mi basta la parola rivelata.——Così sia.—Ero grato agli sforzi del libraio per darmi coraggio, ma via via che mi

allontanavo cominciò a invadermi una fredda inquietudine ed ebbi l'impressioneche le strade e il mio destino fossero lastricati sulle sabbie mobili.

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15

Sulla strada di casa mi fermai davanti alle vetrine di una cartoleria in calleArgenteria. Su un tessuto drappeggiato spiccava un astuccio che conteneva deipennini con un'impugnatura di avorio in tono con un calamaio bianco su cui eranoincise quelle che parevano muse o fate. L'insieme aveva un'aria un po'melodrammatica e sembrava rubato dalla scrivania di qualche romanziere russo,di quelli che si dissanguano con migliaia di pagine. Isabella aveva una calligrafiadanzante che le invidiavo, limpida e pura come la sua coscienza, e mi parve chequel set di pennini portasse il suo nome. Entrai e chiesi al commesso dimostrarmelo. I pennini erano placcati in oro e lo scherzetto costava una piccolafortuna, ma decisi che non sarebbe stato eccessivo contraccambiare con un gestogentile la cortesia e la pazienza che la mia giovane assistente mi dedicava. Chiesidi in-cartarlo con carta porpora brillante e con un fiocco della grandezza di unacarrozza.

Arrivato a casa mi preparai a gustare la soddisfazione egoistica di pre-sentarsicon un regalo in mano. Stavo per chiamare Isabella come se fosse una mascottefedele senza altro da fare se non attendere con devozione il ritorno del padrone,ma quello che vidi aprendo la porta mi lasciò a bocca aperta. Il corridoio era buiocome un tunnel. La porta della stanza in fondo era aperta e proiettava sulpavimento una striscia di luce giallastra e palpi-tante.

—Isabella?— chiamai, la bocca secca.—Sono qui.—La voce proveniva dall'interno della stanza. Lasciai il pacchetto sul tavolino

dell'ingresso e avanzai. Mi fermai sulla soglia e guardai dentro. Isabella eraseduta a terra. Aveva messo una candela in un lungo bicchiere e si dedicavaansiosamente alla sua seconda vocazione dopo la letteratura: mettere ordine nellecase altrui.

—Come sei entrata?—Mi guardò sorridente e si strinse nelle spalle.—Ero in salotto e ho sentito un rumore. Ho pensato che fosse lei di ritorno e

quando sono uscita in corridoio ho visto la porta della stanza aperta.Mi sembrava che avesse detto che la teneva chiusa.——Esci. Non mi piace che entri in questa stanza. È molto umida.——Bella sciocchezza. Con tutto il lavoro che c'è da fare qui. Su, guardi.Guardi cosa ho trovato.—Esitai.—Entri, forza.—Entrai nella stanza e mi accovacciai accanto a lei. Isabella aveva separa-to gli

oggetti e le casse per tipo: libri, giocattoli, fotografie, vestiti, scarpe, occhiali.Guardai tutti quegli oggetti con apprensione. Isabella sembrava incantata, come

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se avesse scoperto le miniere del re Salomone.—È tutta roba sua?—Scossi la testa.—È del vecchio proprietario.——Lo conosceva?——No. Era tutto qui da anni quando ho traslocato.—Isabella aveva fra le mani un pacchetto di lettere e me lo mostrò come se si

trattasse di una prova istruttoria.—Credo di aver scoperto come sì chiamava.——Non mi dire.—Isabella sorrise, chiaramente rapita dalle sue ambizioni da detective.—Marlasca— sentenziò. —Si chiamava Diego Marlasca. Non le sembra

curioso?——Cosa?——Che le iniziali siano le stesse delle sue: D.M.——È una semplice coincidenza. Decine di migliaia di persone in questa città

hanno le stesse iniziali.—Isabella mi strizzò l'occhio. Si divertiva come non mai.—Guardi cosa ho trovato.—Aveva recuperato una scatola di latta piena di vecchie foto. Erano immagini

d'altri tempi, cartoline dell'antica Barcellona, dei palazzi abbattuti nel Parque dela Ciudadela per l'Esposizione Universale del 1888, di grandi casermoni distrutti eviali disseminati di persone vestite alla maniera ce-rimoniosa dell'epoca, di carrie memorie che avevano il colore della mia infanzia. Volti e sguardi perduti micontemplavano da trent'anni di distanza. In parecchie di quelle fotografie misembrò di riconoscere il viso di un'attrice popolare nei miei anni di gioventù ecaduta nell'oblio da molto tempo. Isabella mi osservava, silenziosa.

—La riconosce?— domandò.—Mi sembra che si chiamasse Irene Sabino, credo. Era un'attrice di una

certa fama nei teatri del Paralelo. Tanto tempo fa. Prima che tu nascessi.——Allora guardi questa.—Isabella mi tese una fotografia in cui Irene Sabino appariva appoggiata a una

finestra che non ci misi molto a identificare come quella del mio studio in cimaalla torre.

—Interessante, vero?— chiese Isabella. —Crede che vivesse qui?—Mi strinsi nelle spalle.—Forse era l'amante di quel Diego Marlasca… ——In ogni caso, non credo che siano affari nostri.——Com'è sciocco, a volte.—Isabella rimise le foto nella scatola. Nel farlo, gliene scivolò una dalle mani. E

cadde ai miei piedi. La raccolsi e la esaminai. Irene Sabino, con uno sfolgorante

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vestito nero, posava assieme a un gruppo di persone vestite da festa in quello chemi parve di riconoscere come il grande salone del Circulo Ecuestre. Era soltantol'immagine di una festa che non avrebbe richiamato la mia attenzione se nonfosse stato perché, in secondo piano, quasi sfocato, si distingueva un signore daicapelli bianchi in cima alla scalinata: Andreas Corelli.

—È impallidito— disse Isabella.Mi prese la foto dalle mani e la esaminò senza dire nulla. Mi alzai e le feci

segno di uscire dalla stanza.—Non voglio che entri mai più qui— dissi senza forze.—Perché?—Aspettai che uscisse e chiusi la porta. Isabella mi guardava come se non fossi

del tutto in me.—Domani avvisi le sorelle della carità e dici di passare a ritirare questa roba.

Si portino via tutto, e quello che non vogliono lo buttino via.——Ma… ——Non discutere.—Non volevo affrontare il suo sguardo e mi diressi verso le scale che salivano

allo studio. Isabella mi fissava dal corridoio.—Chi è quell'uomo, signor Martín?——Nessuno— mormorai. —Nessuno.—

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16

Salii nello studio. Era notte alta, senza luna né stelle in cielo. Spalancai le finestree mi affacciai a guardare la città immersa nell'ombra. C'era appena un soffio dibrezza e il sudore mordeva la pelle. Mi sedetti sul davanzale e accesi il secondodei sigari che Isabella mi aveva lasciato sulla scrivania giorni prima, in attesa diun alito di vento fresco o di un'idea un po'

più presentabile di quella collezione di luoghi comuni con cui portare acompimento l'incarico del mio principale. Sentii allora il rumore delle impostedella camera da letto di Isabella che si aprivano al piano di sotto. Un rettangolo diluce si allargò sul cortile e vidi il suo profilo stagliarsi all'interno. Isabella siavvicinò alla finestra e scrutò nell'ombra senza avvertire la mia presenza. Laguardai spogliarsi lentamente. La vidi andare allo specchio dell'armadio edesaminare il suo corpo, accarezzarsi il ventre con i polpastrelli e percorrere i tagliche si era procurata nella parte interna delle cosce e delle braccia. Si contemplòa lungo, senza altro indumento se non uno sguardo sconfitto, e poi spense la luce.

Tornai alla scrivania e mi sedetti davanti alla pila di appunti e note che avevoraccolto per il libro del mio principale. Riesaminai quegli abbozzi di storie zeppedi rivelazioni mistiche e di profeti che sopravvivevano a prove tremende eritornavano con la verità rivelata, di neonati messianici abbandonati sulla porta difamiglie umili e pure di cuore perseguitati da imperi laici e malefici, di paradisipromessi in altre dimensioni a quanti accettas-sero sportivamente il propriodestino e le regole del gioco, e di divinità o-ziose e antropomorfe, senza nulla dimeglio da fare che mantenere una sorveglianza telepatica sulla coscienza dimilioni di fragili primati che avevano imparato a pensare giusto in tempo perscoprirsi abbandonati alla propria sorte in un angolo remoto dell'universo, e la cuivanità, o disperazione, li portava a credere a occhi chiusi che cielo e inferno nonfacessero altro che pensare ai loro volgari e meschini peccatucci.

Mi domandai se non fosse proprio quello ciò che il mio principale aveva vistoin me, una mente mercenaria e priva di scrupoli per elaborare un raccontonarcotizzante capace di mandare a letto i bambini o di convincere un poverodiavolo senza speranze ad assassinare il suo vicino in cambio della gratitudineeterna di divinità che condividevano l'etica dei pistoleri. Giorni prima era arrivataun'altra di quelle missive con cui il principale mi dava appuntamento perdiscutere sui progressi del mio lavoro. Stanco dei miei stessi scrupoli, mi dissi chemancavano solo ventiquattr'ore all'appuntamento e che, alla velocità con cuiprocedevo, mi sarei presentato a mani vuote e con la testa piena di dubbi esospetti. Non avendo alternative, feci quello che avevo fatto per tanti anni insituazioni simili. Misi un foglio nella Underwood e, con le mani sulla tastieracome un pianista in attesa dell'attacco, cominciai a spremermi le meningi, pervedere cosa ne sarebbe uscito.

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17

—Interessante— disse il principale quando finì la decima e ultima pagina.—Strano, ma interessante.—Eravamo seduti su una panchina nelle tenebre dorate del pergolato del Parque

de la Ciudadela. Una volta di foglie filtrava la luce fino a ridurla a polvere d'oro,e un orto botanico scolpiva i chiaroscuri di quella strana penombra luminosa checi circondava. Accesi una sigaretta e guardai il fumo salire dalle mie dita involute azzurrate.

—Detto da lei, strano è un aggettivo inquietante— osservai.—Mi riferivo a strano in opposizione a ordinario— precisò Corelli.—Ma?——Non ci sono ma, amico mio. Credo che lei abbia imboccato una strada

interessante e con molte possibilità.—Per un romanziere, quando gli dicono che qualcuna delle sue pagine è

interessante e ha delle possibilità è segno che le cose non vanno bene. Corellisembrò leggere la mia inquietudine.

—Lei ha girato intorno alla questione. Invece di risalire ai riferimenti mi-tologici, ha iniziato dalle fonti più prosaiche. Posso chiederle dove ha preso l'ideadi un messia guerriero invece che pacifico?—

—Lei ha citato la biologia.——Tutto ciò che abbiamo bisogno di sapere è scritto nel grande libro della

natura. Basta avere coraggio e lucidità di mente e di spirito per leggerlo—convenne Corelli.—Uno dei libri che ho consultato spiegava che nell'essere umano il maschio

raggiunge il punto critico di fertilità a diciassette anni. La donna lo raggiungedopo, e lo mantiene, e in qualche modo agisce da selettore e giudice dei geni cheaccetta di riprodurre e di quelli che rifiuta. Il maschio, invece, semplicementepropone e si consuma molto più in fretta. L'età in cui raggiunge la massimapotenza riproduttiva è quella in cui il suo spirito combattivo è al suo punto critico.Un ragazzo è il soldato perfetto. Possie-de un grande potenziale di aggressività euna scarsa o nulla capacità critica per analizzarlo e decidere come incanalarlo.Nel corso della storia, numerose società hanno trovato il modo di impiegarequesto capitale di aggressività e hanno trasformato in soldati gli adolescenti, carneda cannone con cui sottomettere i vicini o difendersi dai loro attacchi. Qualcosami diceva che il nostro protagonista era un inviato dei cieli, ma nella prima partedella sua giovinezza si sollevava in armi e liberava la verità a colpi di spada.—

—Ha deciso di mescolare la storia con la biologia, Martín?——Dalle sue parole mi era sembrato di capire che erano una cosa sola.—Corelli sorrise. Non so se ne fosse consapevole, ma quando lo faceva

sembrava un lupo affamato. Deglutii e ignorai quell'espressione che faceva

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venire la pelle d'oca.—Ci ho pensato e mi sono reso conto che la maggior parte delle grandi

religioni ha tratto origine, o ha raggiunto il proprio punto critico di espan-sione einfluenza, nei momenti storici in cui le società che le adottavano avevano unabase demografica più giovane e impoverita. Società nelle quali il settanta percento della popolazione aveva meno di diciotto anni, e la metà erano maschiadolescenti con le vene ardenti di aggressività e im-pulsi fertili, terreno propizioall'accettazione e al rigoglio della fede.—

—È una semplificazione, ma capisco dove vuole andare a parare, Martín.——Lo so. Ma tenendo conto di queste linee generali mi sono chiesto perché

non andare dritto al nocciolo della questione ed elaborare una mitologia intorno aquesto messia guerriero, di sangue e rabbia, che salva il suo popolo, i suoi geni, lesue donne e i suoi anziani, garanti del dogma politi-co e razziale, dai nemici, valea dire da tutti coloro che non accettano o non si sottomettono alla sua dottrina.—

—E gli adulti?——All'adulto arriveremo facendo appello alla sua frustrazione. A mano a

mano che la vita avanza e che bisogna rinunciare alle illusioni, ai sogni e aidesideri della gioventù, aumenta la sensazione di essere vittima del mondo e deglialtri. Troviamo sempre qualche colpevole della nostra sventura o del nostrofallimento, qualcuno che vogliamo escludere. Abbracciare una dottrina cherenda positivo questo rancore e questo vittimismo è consolante e dà forza.L'adulto si sente così parte del gruppo e sublima i propri desideri e i propri anelitiperduti attraverso la comunità.—

—Forse— concesse Corelli. —E tutta quell'iconografia della morte e dibandiere e scudi? Non le sembra controproducente?—

—No. Mi sembra essenziale. L'abito fa il monaco, ma soprattutto il fedele.——E cosa mi dice delle donne, dell'altra metà? Mi dispiace, ma faccio fatica a

immaginare che una parte sostanziale delle donne di una società creda abandierine e scudi. La psicologia del boy scout è una cosa da maschiet-ti.—

—Ogni religione organizzata, con scarse eccezioni, ha come pilastrofondamentale il soggiogamento, la repressione e l'annullamento della donna nelgruppo. La donna deve accettare il ruolo di presenza eterea, passiva e materna,mai quello di autorità o di indipendenza, oppure ne paga le con-seguenze. Puòavere un posto d'onore tra i simboli, ma non nella gerarchia.

La religione e la guerra sono affari maschili. E, comunque, la donna finisce avolte per diventare complice ed esecutrice del suo stesso soggiogamento.—

—E i vecchi?——La vecchiaia è la vaselina della credulità. Quando la morte bussa alla porta,

lo scetticismo salta dalla finestra. Una bella crisi cardiovascolare e si crede purea Cappuccetto Rosso.—

Corelli rise.

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—Attento, Martín, mi sembra che stia diventando più cinico di me.—Lo guardai come se fossi un alunno docile e ansioso di ottenere l'approvazione

di un maestro difficile ed esigente. Corelli mi batté la mano sul ginocchio,annuendo compiaciuto.

—Mi piace. Mi piace il profumo di tutto questo. Voglio che ci ragioni su e glidia una forma. Le concederò più tempo. Ci incontreremo fra due o tre settimane.L'avviserò con qualche giorno di anticipo.—

—Deve lasciare la città?——Questioni della casa editrice mi reclamano e temo di avere davanti qualche

giorno di viaggio. Ma parto contento. Ha fatto un buon lavoro.Sapevo di aver trovato il mio candidato ideale.—Il principale si alzò e mi tese la mano. Mi asciugai sui pantaloni il sudore che

mi inzuppava il palmo e gliela strinsi.—Ci mancherà— improvvisai.—Non esageri, Martín, stava andando benissimo.—Lo vidi andar via nelle tenebre del pergolato, mentre l'eco dei suoi passi

svaniva nell'ombra. Rimasi lì ancora un bel po', chiedendomi se il principaleavesse abboccato all'amo e si fosse bevuto il mucchio di menzogne che gli avevoappena rifilato. Ero sicuro di avergli raccontato esattamente quello che volevasentirsi dire. Speravo che così fosse e che quella sfilza di spropositi lo avessesoddisfatto per il momento e convinto che il sottoscritto, l'infelice romanzierefallito, si era convertito al movimento. Pensai che qualunque cosa potesse farmiguadagnare un po' di tempo per capire dove mi fossi infilato valeva il tentativo.Quando mi alzai e lasciai il pergolato, mi tremavano ancora le mani.

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18

Anni di esperienza nella scrittura di trame poliziesche forniscono una serie diprincìpi di base da cui iniziare un'indagine. Uno di questi è che quasi tutti gliintrecci abbastanza solidi, inclusi quelli passionali, nascono e muoiono in mezzoall'odore dei soldi e delle proprietà immobiliari. Uscendo dal pergolato mi diressiall'ufficio del Registro in calle del Consejo de Ciento e chiesi di consultare ivolumi in cui si faceva riferimento all'acquisto, alla vendita e alla proprietà dellamia casa. I tomi dell'ufficio del Registro contengono quasi altrettanteinformazioni sulla realtà della vita quanto le opere complete dei più prestigiosifilosofi, o forse di più.

Iniziai a consultare la sezione che conteneva la pratica di affitto a mio nomedell'immobile ubicato al numero 30 di calle Flassaders. Lì trovai le indicazioninecessarie per passare al setaccio la storia dell'edificio prima dell'acquisizionedella proprietà da parte del Banco Hispano Colonial nel 1911 nel quadro di unprocedimento di sequestro nei confronti della famiglia Marlasca, che a quantopareva aveva ereditato l'immobile alla morte del proprietario. Lì si menzionavaun avvocato chiamato S. Valera, che aveva agito come rappresentante dellafamiglia nel corso della causa. Un nuovo salto nel passato mi permise di scoprirele informazioni sull'acquisto della villa da parte di don Diego Marlasca Pongiluppinel 1902 da un certo Bernabé Massot y Caballé. Annotai su un foglio a parte tutti idati, dal no-me dell'avvocato ai partecipanti alle transazioni e alle rispettive date.Uno degli impiegati avvisò a voce alta che mancavano quindici minuti allachiusura e mi preparai ad andarmene, ma prima mi affrettai a consultare lo statodella proprietà della residenza di Andreas Corelli vicino al Park Gü—

ell. Trascorsi i quindici minuti, e senza avere avuto successo nelle miericerche, sollevai gli occhi dal volume del registro per incontrare lo sguardocinereo del segretario. Era un tipo smunto, lucido di brillantina dai capelli ai baffie stillava quell'inerzia polemica tipica di chi fa del proprio lavoro una tribuna dacui ostacolare la vita degli altri.

—Mi scusi. Non riesco a trovare una proprietà— dissi.—Sarà perché non esiste o perché non sa cercare. Per oggi abbiamo chiuso.

—Risposi a quello sfoggio di amabilità ed efficienza con il mio migliore sorriso.—Forse con l'aiuto di un esperto come lei riesco a trovarla— suggerii.Mi rivolse uno sguardo schifato e mi strappò il volume dalle mani.—Torni domani.—La mia sosta successiva fu al cerimonioso palazzo dell'ordine degli avvocati in

calle Mallorca, a poche traverse da lì. Salii le scale sorvegliate da lampadari dicristallo e da quella che mi parve una scultura della giustizia con busto eatteggiamento da diva del Paratelo. Un ometto dall'aspetto da topo mi ricevette in

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segreteria con un sorriso affabile e mi chiese in che cosa poteva aiutarmi.—Cerco un avvocato.——È capitato nel posto giusto. Qui non sappiamo più come toglierceli di dosso.

Ce ne sono ogni giorno di più. Si riproducono come conigli.——È il mondo moderno. Quello che cerco si chiama, o si chiamava, Valera, S.

Valera.—L'ometto si smarrì in un labirinto di schedari, mormorando sottovoce.Aspettai appoggiato al banco, lasciando scorrere lo sguardo su

quell'arredamento impregnato del peso contundente della legge. Cinque minutido-po, l'ometto tornò con una cartellina.

—Mi risultano dieci Valera. Due con la esse. Sebastián e Soponcio.——Soponcio?——Lei è molto giovane, ma anni fa era un nome quotato e idoneo all'esercizio

della professione legale. Poi è arrivato il charleston e ha rovinato tutto.——È vivo don Soponcio?——Secondo l'archivio e la cessazione dei pagamenti della quota dell'ordine,

Soponcio Valera y Menacho fu ricevuto nella gloria di nostro Signore nell'anno1919. Memento mori. Sebastián è il figlio.—

—In esercizio?——Costante e pieno. Intuisco che lei vorrà l'indirizzo.——Se non è troppo disturbo.—L'ometto me l'annotò su un foglietto e me lo diede.—Diagonal 422. È a un tiro di schioppo da qui, anche se sono già le due e a

quest'ora gli avvocati di grido portano a pranzo ricche eredi vedove o fabbricantidi tessuti e di esplosivi. Io aspetterei le quattro.—

Misi l'indirizzo nella tasca della giacca.—Farò così. Moltissime grazie per il suo aiuto.——Siamo qui per questo. Che Dio l'accompagni.—Mi restavano un paio d'ore da perdere prima di fare visita all'avvocato

Valera, così presi un tram fino a via Layetana e scesi all'altezza di calle Condal.La libreria di Sempere e Figli era a un passo da lì e sapevo per esperienza che ilvecchio libraio, contravvenendo alla prassi immutabile del commercio locale,non chiudeva a mezzogiorno. Lo trovai, come sempre, al bancone, a sistemarelibri e a servire un nutrito gruppo di clienti che passeggiavano fra i tavoli e gliscaffali alla caccia di qualche tesoro. Sorrise vedendomi e si avvicinò persalutarmi. Era più magro e pallido dell'ultima volta che ci eravamo visti. Dovetteleggere la preoccupazione nel mio sguardo perché si strinse nelle spalle e fece ungesto come per togliere importanza alla questione.

—Chi tanto e chi niente. Lei è diventato un figurino e io un rottame, ha visto?— disse.

—Sta bene?—

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—Io, come una rosa. È la maledetta angina. Nulla di serio. Cosa la porta daqueste parti, Martín, amico mio?—

—Pensavo di invitarla a pranzo.——La ringrazio, ma non posso lasciare il timone. Mio figlio se n'è andato a

Sarrià a valutare una collezione e gli affari non vanno tanto bene da chiuderequando ci sono clienti per la strada.—

—Non mi dica che avete problemi di soldi.——Questa è una libreria, Martín, non uno studio di notaio. Qui la scrittura dà

appena il necessario, e a volte nemmeno quello.——Se ha bisogno di aiuto… —Sempere mi fermò alzando la mano.—Se vuole aiutarmi, compri qualche libro.——Lei sa che il debito che ho nei suoi confronti non si paga con il denaro.——Ragione di più perché non le passi neanche per la testa. Non si preoccupi

per noi, Martín, da qui non ci cacceranno se non in una cassa di pino.Ma se vuole può dividere con me un succulento pranzo a base di pane con

l'uvetta e formaggio fresco di Burgos. Con questo e un Montecristo si puòsopravvivere cent'anni.—

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19

Sempere quasi non toccò cibo. Sorrideva stancamente e fingeva interesse per imiei commenti, ma si vedeva che a tratti gli costava fatica respirare.

—Mi racconti, Martín, a cosa sta lavorando?——Difficile da spiegare. Un libro su commissione.——Romanzo?——Non esattamente. Non saprei bene come definirlo.——L'importante è che stia lavorando. L'ho sempre detto che l'ozio ram-

mollisce lo spirito. Bisogna tenere il cervello occupato. E se non si ha cervello,almeno le mani.—

—Però a volte si lavora più del dovuto, signor Sempere. Non dovrebbeprendersi un po' di respiro? Da quanti anni è qui in prima linea senza fermarsimai?—

Sempere si guardò attorno.—Questo posto è la mia vita, Martín. Dove potrei andare? Su una panchina del

parco al sole a dar da mangiare ai piccioni e a lamentarmi dei reu-matismi?Morirei in dieci minuti. Il mio posto è qui. E mio figlio non è ancora pronto perprendere le redini, anche se lo pensa.—

—Ma è un buon lavoratore. E una brava persona.——Troppo una brava persona, detto tra noi. A volte lo guardo e mi domando

cosa ne sarà di lui il giorno in cui verrò a mancare. Come se la caverà… ——Tutti i padri fanno così, signor Sempere.——Anche il suo? Mi scusi, non volevo… ——Non si preoccupi. Mio padre aveva già abbastanza grattacapi per conto suo

per caricarsi addosso anche quelli che gli davo io. Suo figlio sa cavar-sela megliodi quanto lei creda.—

Sempere mi guardava, esitante.—Sa cosa credo gli manchi?——Malizia?——Una donna.——Non gli mancheranno le fidanzate, con tutte le tortorelle che si affolla-no

davanti alle vetrine per ammirarlo.——Io parlo di una donna vera, di quelle che ti fanno essere quello che devi

essere.——È ancora giovane. Lasci che si diverta qualche anno.——Questa è buona. Se almeno si divertisse. Io alla sua età, se avessi avuto quel

coro di ragazze, avrei peccato come un cardinale.——Dio dà il pane a chi non ha i denti.——Ecco cosa gli manca: denti. E voglia di mordere.—Mi sembrò che qualcosa ronzasse in testa al libraio. Mi guardava e sorrideva.

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—Forse lei può aiutarlo… ——Io?——Lei è un uomo di mondo, Martín. E non mi guardi così. Sicuro che, se si

applica, gli trova una brava ragazza, a mio figlio. Il viso carino già ce l'ha. Il restoglielo insegna lei.—

Rimasi senza parole.—Non voleva aiutarmi?— chiese il libraio. —Ecco qua.——Io parlavo di soldi.——E io parlo di mio figlio, del futuro di questa casa. Di tutta la mia vita.—Sospirai. Sempere mi prese la mano e strinse con la poca forza che gli

rimaneva.—Mi prometta che non mi lascerà andar via da questo mondo senza vedere

mio figlio sistemato con una donna di quelle per cui vale la pena morire.E che mi dia un nipote.——Se lo sapevo, mi fermavo a pranzare al caffè Novedades.—Sempere sorrise.—A volte penso che sarebbe dovuto essere lei mio figlio, Martín.—Guardai il libraio, più fragile e vecchio che mai, appena un'ombra dell'uomo

forte e imponente dei miei ricordi d'infanzia tra quei muri, e sentii il mondocrollare ai miei piedi. Mi avvicinai a lui e, prima di rendermene conto, feci quelloche non avevo mai fatto da quando lo conoscevo. Gli diedi un bacio su quellafronte punteggiata di macchie e coronata da quattro capelli grigi.

—Me lo promette?——Glielo prometto— gli dissi, avviandomi verso l'uscita.

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20

Lo studio dell'avvocato Valera occupava il piano alto di uno stravagante edificiomodernista incassato al numero 442 dell'avenida Diagonal, a un passo dall'angolocon Paseo de Gracia. La proprietà, in mancanza di migliori definizioni, sembravaun incrocio fra un gigantesco orologio a caril-lon e un vascello pirata, dotato digrandiosi finestroni e con un tetto a man-sarda verde. In qualunque altro luogodella Terra, quella struttura barocca e bizantina sarebbe stata proclamata unadelle sette meraviglie del mondo o un aborto diabolico, opera di qualche artistapazzo posseduto da spiriti dell'aldilà. Nell'Ensanche di Barcellona, dove esemplarisimili spuntavano dappertutto come trifogli dopo la pioggia, a stento riusciva a farsollevare un sopracciglio.

Avanzai nell'atrio e scoprii un ascensore che mi fece pensare a quello cheavrebbe lasciato al suo passaggio un grande ragno tessitore di cattedrali inveceche di tele. Il portiere mi aprì la cabina e m'imprigionò in quella strana capsulache iniziò a salire lungo la parte centrale della scalinata.

Una segretaria dall'aria severa mi aprì la porta di rovere intagliata e mi fe-cecenno di entrare. Le dissi il mio nome e spiegai che non avevo presoappuntamento, ma che ero lì per una questione legata alla compravendita di unimmobile del quartiere della Ribera. Qualcosa cambiò nel suo sguardoimperturbabile.

—La casa della torre?— chiese.Annuii. La segretaria mi guidò verso un ufficio deserto e mi invitò a entrare.

Intuii che non era la sala d'attesa ufficiale.—Aspetti un momento, per favore, signor Martín. Avverto l'avvocato.—Passai i successivi quarantacinque minuti in quell'ufficio, circondato da

scaffali stipati di volumi grandi come lapidi funerarie, con iscrizioni sui dorsi deltipo « 1888-1889, B.C.A. Sezione prima. Titolo secondo» che in-vitavano allalettura compulsiva. L'ufficio aveva un ampio finestrone sulla Diagonal dal qualesi poteva contemplare tutta la città. I mobili odoravano di legno pregiatostagionato e macerato nel denaro. Tappeti e poltrone di pelle suggerivanoun'atmosfera da club britannico. Cercai di sollevare una delle lampade chedominavano la scrivania e calcolai che doveva pesare non meno di trenta chili.Un grande dipinto a olio appeso sopra un camino mai acceso mostrava la tronfiaed espansiva presenza di qualcuno che non poteva essere altri che l'ineffabile donSoponcio Valera y Menacho. Il tita-nico leguleio sfoggiava favoriti e baffi cheassomigliavano alla criniera di un vecchio leone, e gli occhi, di fuoco e acciaio,dominavano dall'aldilà ogni angolo della stanza con la gravità di una sentenza dimorte.

—Non parla, ma se ci si ferma a guardare il quadro per un po' sembra sulpunto di farlo da un momento all'altro— disse la voce alle mie spalle.

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Non l'avevo sentito entrare. Sebastián Valera era un uomo dal passo discretoche sembrava aver trascorso gran parte della vita cercando di trasci-narsi fuoridall'ombra di suo padre e che adesso, a cinquant'anni e rotti, si era stancato diprovarci. Il suo sguardo intelligente e penetrante proteggeva quell'atteggiamentoraffinato che possiedono solo le principesse reali e gli avvocati davvero cari. Mitese la mano e gliela strinsi.

—Mi dispiace averla fatta attendere, ma non aspettavo la sua visita— disse,invitandomi a sedere.

—Al contrario. La ringrazio per la cortesia di ricevermi.—Valera sorrideva come può farlo soltanto chi conosce e fissa il prezzo di ogni

minuto.—La segretaria mi dice che il suo nome è David Martín. David Martín, lo

scrittore?—La mia faccia sorpresa dovette smascherarmi.—Vengo da una famiglia di grandi lettori— spiegò. —In cosa posso esserle

utile?——Vorrei informazioni sulla compravendita di una proprietà ubicata in… ——La casa della torre?— interruppe l'avvocato, cortese.—Sì.——La conosce?——Ci abito.—Valera mi guardò a lungo senza abbandonare il sorriso. Si raddrizzò sulla sedia

e adottò un atteggiamento chiuso e teso.—Lei è l'attuale proprietario?——In realtà, vi risiedo come affittuario.——E cosa vorrebbe sapere, signor Martín?——Vorrei conoscere, se possibile, i dettagli dell'acquisizione dell'immobile da

parte del Banco Hispano Colonial e procurarmi qualche informazione sul vecchioproprietario.—

—Don Diego Marlasca— mormorò l'avvocato. —Posso chiederle la naturadel suo interesse?—

—Scrupolosità. Recentemente, nel corso di una ristrutturazione della villa, hotrovato una serie di oggetti che credo gli appartengano.—

L'avvocato aggrottò le sopracciglia.—Oggetti?——Un libro. O, più propriamente, un manoscritto.——Il signor Marlasca era un grande appassionato di letteratura. In realtà, era

autore di numerosi libri di diritto e anche di storia e di altri argomenti.Un grande erudito. E un grand'uomo, anche se alla fine della sua vita ci fu chi

cercò di infangarne la reputazione.—L'avvocato notò la meraviglia sulla mia faccia.

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—Presumo che non sia al corrente delle circostanze della morte del signorMarlasca.—

—Temo di no.—Valera sospirò come se fosse incerto se continuare a parlare.—Non ne scriverà, vero? E non scriverà nemmeno di Irene Sabino?——No.——Ho la sua parola?—Annuii.Valera si strinse nelle spalle.—Del resto, non potrei nemmeno dirle cose che non siano già state dette

all'epoca— mormorò, più rivolto a se stesso che a me.L'avvocato guardò brevemente il ritratto del padre e poi posò gli occhi su di

me.—Diego Marlasca era il socio e il miglior amico di mio padre. Insieme

fondarono questo studio. Il signor Marlasca era molto brillante. Purtroppo, eraanche un uomo complesso, che soffriva di lunghi periodi di malinconia. Arrivò unmomento in cui lui e mio padre decisero di sciogliere i loro vincoli. Il signorMarlasca lasciò la professione per consacrarsi alla sua prima vocazione: lascrittura. Dicono che quasi tutti gli avvocati desiderino in segreto lasciarel'avvocatura e diventare scrittori… —

—Fin quando mettono a confronto i guadagni.——Il fatto è che don Diego aveva avviato un rapporto di amicizia con

un'attrice che godeva all'epoca di una certa popolarità, Irene Sabino, per la qualevoleva scrivere un dramma. Non c'era altro. Il signor Marlasca era ungentiluomo e non fu mai infedele alla moglie, ma lei sa com'è la gente…

Pettegolezzi. Chiacchiere e gelosie. Fatto sta che si sparse la voce che donDiego intrattenesse una relazione illecita con Irene Sabino. Sua moglie non glieloperdonò e la coppia si separò. Il signor Marlasca, distrutto, acquistò la casa dellatorre e vi si trasferì. Per disgrazia, ci viveva da nemmeno un anno quando morì inuno sfortunato incidente.—

—Che tipo di incidente?——Morì annegato. Una tragedia.—Valera aveva abbassato gli occhi e parlava in un sospiro.—E lo scandalo?——Diciamo che certe lingue viperine vollero far credere che il signor

Marlasca si fosse suicidato dopo aver sofferto una delusione amorosa con IreneSabino.—

—E andò così?—Valera si tolse gli occhiali e si sfregò gli occhi.—Se vuole che le dica la verità, non lo so. Non lo so e non m'importa. Il

passato è passato.—

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—E che ne è stato di Irene Sabino?—Valera si rimise gli occhiali.—Credevo che il suo interesse si limitasse al signor Marlasca e ai dettagli

della compravendita.——Pura curiosità. Tra i suoi effetti personali ho trovato numerose fotografie di

Irene Sabino, e lettere dell'attrice al signor Marlasca… ——Dove vuole arrivare con tutto questo?— sbottò Valera. —Vuole soldi?——No.——Ne sono contento, perché nessuno gliene darà. La questione non interessa

più. Ha capito?——Perfettamente, signor Valera. Non intendevo importunarla né fare insi-

nuazioni fuori luogo. Mi dispiace di averla offesa con le mie domande.—L'avvocato sorrise e si lasciò sfuggire un sospiro gentile, come se la

conversazione fosse ormai finita.—Non ha importanza. Mi scusi lei.—Approfittando della sua vena conciliatrice, adottai la mia espressione più

dolce.—Forse donna Alicia Marlasca, la vedova… —Valera si rannicchiò nella poltrona, visibilmente a disagio.—Signor Martín, non vorrei essere frainteso, ma rientra nei miei doveri di

avvocato della famiglia proteggerne l'intimità. Per ovvi motivi. È passato moltotempo, ma non vorrei che ora si riaprissero vecchie ferite che non portano danessuna parte.—

—Mi rendo conto.—L'avvocato mi osservava, teso.—E ha detto di aver trovato un libro?— domandò.—Sì… Un manoscritto. Probabilmente non ha importanza.——Probabilmente no. Di cosa tratta?——Teologia, direi.—Valera annuì.—La sorprende?— chiesi.—No. Al contrario. Don Diego era un'autorità in storia delle religioni. Un

saggio. Qui lo ricordiamo ancora con grande affetto. Mi dica, quali aspetticoncreti della compravendita voleva approfondire?—

—Credo che mi abbia già aiutato molto, signor Valera. Non vorrei rubarlealtro tempo.—

L'avvocato annuì, sollevato.—È la casa, vero?——È un posto strano, sì— convenni.—Ricordo di esserci stato una volta da giovane, poco dopo che l'aveva

comprata don Diego.—

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—Sa perché la comprò?——Disse che ne era affascinato fin da ragazzo e di avere sempre pensato che

gli sarebbe piaciuto viverci. Don Diego era fatto così. A volte sembrava unragazzino capace di dare tutto in cambio di una semplice illusione.—

Non dissi nulla.—Si sente bene?——Perfettamente. Sa qualcosa del proprietario da cui la comprò il signor

Marlasca? Un certo Bernabé Massot?——Un americano. Non ci ha passato nemmeno un'ora. La comprò quando

tornò da Cuba e la tenne vuota per diversi anni. Non disse mai perché.Abitava in una villa che si era fatto costruire ad Areny s de Mar. La vendet-te

per quattro soldi. Non voleva saperne più nulla.——E prima di lui?——Credo che ci vivesse un sacerdote. Un gesuita. Non ne sono sicuro. Era mio

padre a gestire gli affari di don Diego e, alla sua morte, distrusse tutti gli archivi.—

—Perché fece una cosa del genere?——Per tutto quello che le ho raccontato. Per evitare pettegolezzi e preser-vare

la memoria del suo amico, suppongo. In realtà non me l'ha mai detto.Mio padre non era abituato a fornire spiegazioni dei suoi atti. Avrà avuto i suoi

motivi. Motivi validi, senza alcun dubbio. Don Diego era stato un buon amico,oltre che socio, e quella vicenda fu molto dolorosa per mio padre.—

—Cosa ne è stato del gesuita?——Credo avesse problemi disciplinari con l'ordine. Era amico di monsi-gnor

Cinto Verdaguer e mi pare che fu implicato in qualcuno dei suoi guai, sa… ——Esorcismi?——Pettegolezzi.——Come può un gesuita espulso dall'ordine permettersi una casa del genere?

—Valera si strinse di nuovo nelle spalle e dedussi di essere arrivato al fondo del

barile.—Mi piacerebbe poterla aiutare di più, signor Martín, ma non so come.Mi creda.——Grazie per il suo tempo, signor Valera.—Annuì e premette un campanello sulla scrivania. La segretaria che mi aveva

ricevuto comparve sulla porta. Valera mi offrì la mano e gliela strinsi.—Il signor Martín va via. Accompagnalo, Margarita.—La segretaria mi fece strada. Prima di uscire mi girai per guardare

l'avvocato, accasciato sotto il ritratto del padre. Seguii Margarita fino alla porta eproprio quando stava per chiuderla le rivolsi il più innocente dei miei sorrisi.

—Mi scusi. L'avvocato Valera mi ha dato prima l'indirizzo della signora

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Marlasca, ma adesso che ci penso non sono sicuro di ricordare il numerocivico… —

Margarita sospirò, ansiosa di liberarsi di me.—È il tredici. Carretera de Vallvidrera, numero tredici.——Certo.——Arrivederci— disse Margarita.Prima che potessi rispondere al suo saluto, la porta mi si chiuse in faccia con

la solennità e la gravità di un santo sepolcro.

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21

Tornando alla casa della torre, imparai a vedere con altri occhi quello che erastato il mio focolare e il mio carcere per troppi anni. Entrai dal portone con lasensazione di attraversare le fauci di un essere di pietra e ombra. Salii le scalecome se mi addentrassi nelle sue viscere e aprii la porta di casa per ritrovarmi inquel lungo corridoio buio che si perdeva nella penombra e che, per la primavolta, mi parve l'anticamera di una mente sospettosa e avvelenata. In fondo, nelfulgore scarlatto del crepuscolo che trapelava dal salotto, si stagliava la figura diIsabella che avanzava verso di me. Chiusi la porta e accesi la luce dell'ingresso.

Isabella si era vestita come una signorina raffinata, i capelli raccolti e untrucco che la facevano sembrare una donna con dieci anni in più.

—Sei molto bella ed elegante— dissi freddamente.—Quasi come una ragazza della sua età, vero? Le piace il vestito?——Dove l'hai preso?——Era in un baule nella stanza in fondo. Credo che fosse di Irene Sabino.Come le sembra? Non mi sta d'incanto?——Ti avevo detto di avvisare perché venissero a prendere tutto.——E l'ho fatto. Stamattina sono andata in parrocchia a chiedere e mi hanno

detto che loro non possono venire a ritirare niente, ma che possiamo por-tarlo noi.—

La guardai senza dire nulla.—È la verità— disse lei.—Toglitelo e rimettilo dove l'hai trovato. E lavati la faccia. Sembri… ——Una qualunque?— terminò la frase Isabella.Scossi la testa, sospirando.—No. Tu non potresti mai sembrare una qualunque, Isabella.——Certo. Per questo le piaccio così poco— mormorò voltandosi e dirigen-dosi

verso la sua camera.—Isabella— chiamai.Mi ignorò ed entrò nella stanza.—Isabella— ripetei, alzando la voce.Mi indirizzò uno sguardo ostile e sbatté la porta. Sentii che iniziava a spostare

cose in camera da letto e mi avvicinai. Bussai. Nessuna risposta.Bussai di nuovo. Aprii e la trovai che piegava le quattro cose che aveva

portato con sé e le metteva nella sua borsa.—Cosa stai facendo?— chiesi.—Me ne vado, ecco quello che faccio. Me ne vado e la lascio in pace. Oin guerra, perché con lei non si sa mai.——Posso sapere dove vai?——E cosa gliene importa? È una domanda retorica o ironica? Per lei,

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chiaramente, fa lo stesso, ma siccome io sono un'imbecille, non so distinguere.——Isabella, aspetta un momento e… ——Non si preoccupi per il vestito, adesso me lo tolgo. E i pennini può ri-portarli

indietro, tanto non li ho usati e nemmeno mi piacciono. Sono una pacchianata dabambina dell'asilo.—

Mi avvicinai e le misi una mano sulla spalla. Si scostò d'un balzo, come sel'avesse sfiorata un serpente.

—Non mi tocchi.——Isabella, scusami. Per favore. Non volevo offenderti.—Mi guardò con le lacrime agli occhi e un sorriso amaro.—Ma se non ha fatto altro. Da quando sono qui. Non ha fatto altro che in-

sultarmi e trattarmi come se fossi una povera idiota che non capisce niente.——Scusa— ripetei. —Lascia stare quelle cose. Non te ne andare.——Perché no?——Perché te lo chiedo per favore.——Se voglio compassione e carità, posso trovarle da qualche altra parte.——Non è compassione, né carità, a meno che non le provi tu per me. Ti

chiedo di restare perché l'idiota sono io, e non voglio stare solo. Non posso staresolo.—

—Che gentile. Sempre a pensare agli altri. Si compri un cane.—Lasciò cadere la borsa sul letto e mi affrontò, asciugandosi le lacrime e

tirando fuori la rabbia che aveva accumulato. Deglutii.—Allora, visto che stiamo giocando a dire la verità, lasci che le dica che sarà

sempre solo. Sarà solo perché non sa amare né condividere. Lei è co-me questacasa, che mi fa drizzare i capelli in testa. Non mi meraviglia che la sua signorinain bianco l'abbia piantato né che lo facciano tutti. Lei non ama e non si lasciaamare.—

La guardai avvilito, come se me le avessero appena date e non sapessi dadove erano venuti i colpi. Cercai le parole e trovai soltanto dei balbettii.

—Davvero non ti piace il set di pennini?— riuscii ad articolare alla fine.Isabella alzò gli occhi al cielo, esausta.—Non faccia quell'espressione da cane bastonato, perché sarò pure idiota,

ma non fino a questo punto.—Restai in silenzio, appoggiato alla cornice della porta. Isabella mi osservava

con un'aria tra sospettosa e compassionevole.—Non volevo dire certe cose della sua amica, quella delle foto. Scusi—mormorò.—Non scusarti. È la verità.—Abbassai gli occhi e uscii dalla stanza. Mi rifugiai nello studio a contemplare

la città scura e sepolta dalla nebbiolina. Dopo un po' sentii i suoi passi sulle scale,esitanti.

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—È lì su?— chiamò.—Sì.—Isabella entrò nella stanza. Si era cambiata il vestito e si era lavata via le

lacrime dalla faccia. Mi sorrise e io feci lo stesso.—Perché è così, lei?— domandò.Mi strinsi nelle spalle. Isabella si avvicinò e si sedette sul davanzale, accanto a

me. Ci godemmo lo spettacolo di silenzi e ombre sui tetti della città vecchia senzabisogno di dire nulla. Dopo un po', mi sorrise e mi guardò.

—E se accendiamo uno di quei sigari che le regala mio padre e ce lo fu-miamo insieme?—

—Neanche a parlarne.—Isabella sprofondò in uno dei suoi lunghi silenzi. Ogni tanto mi guardava

brevemente e sorrideva. Io la osservavo di sottecchi e mi accorgevo che bastavaguardarla e diventava meno difficile credere che forse restava qualcosa di buonoe decente in questo schifo di mondo e, con un po' di fortuna, anche in me.

—Rimani?— domandai.—Mi dia un buon motivo. Un motivo sincero, cioè, nel suo caso, egoisti-co. E

meglio per lei che non sia una bugia, altrimenti me ne vado su due piedi.—Si riparò dietro uno sguardo difensivo, in attesa di qualche mia lusinga, e per

un istante mi sembrò l'unica persona al mondo a cui non volevo né potevomentire. Abbassai gli occhi e per una volta dissi la verità, fosse anche solo persentirla io stesso a voce alta.

—Perché sei l'unica amica che mi resta.—La durezza della sua espressione svanì e, prima di riconoscere la compassione

nei suoi occhi, distolsi lo sguardo.—E il signor Sempere e quell'altro tanto pedante, Barceló?——Sei l'unica che mi resti che si azzardi a dirmi la verità.——E il suo amico, il suo principale, non gliela dice?——Non mischiare la lana con la seta. Lui non è mio amico. E non credo abbia

mai detto la verità in tutta la vita.—Isabella mi guardò attentamente.—Lo vede? Sapevo che non si fidava di lui. Gliel'ho letto in faccia fin dal

primo giorno.—Cercai di recuperare un po' di dignità, ma trovai solo sarcasmo.—Hai aggiunto la lettura delle facce al tuo elenco di talenti?——Per leggere la sua non c'è bisogno di nessun talento— ribatté Isabella.—È come una favola di Pollicino.——E cos'altro leggi sul mio volto, egregia sibilla?——Paura.—Cercai di ridere senza averne voglia.—Non deve vergognarsi di avere paura. È segno di buon senso. Gli unici che

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non hanno paura di nulla sono i matti da legare. L'ho letto in un libro.——Il manuale del fifone?——Non c'è bisogno che lo ammetta, se questo mette in pericolo il suo senso di

mascolinità. So che voi uomini credete che le dimensioni della vostratestardaggine corrispondano a quelle delle vostre vergogne.—

—Anche questo l'hai letto in quel libro?——No, è farina del mio sacco.—Lasciai cadere le braccia, arrendendomi all'evidenza.—D'accordo. Sì, ammetto di sentire una vaga inquietudine.——Lei sì, che è vago. Muore dalla paura. Confessi.——Non esageriamo. Diciamo che ho qualche dubbio sul rapporto con il mio

editore, il che, data la mia esperienza, è comprensibile. A quanto ne so, Corelli èun perfetto gentiluomo e il nostro rapporto professionale sarà fruttifero e positivoper entrambe le parti.—

—Per questo le borbotta la pancia ogni volta che salta fuori il suo nome.—Sospirai, senza più fiato per discutere.—Cosa vuoi che ti dica, Isabella?——Che non lavorerà più per lui.——Questo non posso farlo.——E perché no? Non può restituirgli i soldi e mandarlo a spasso?——Non è così semplice.——Perché no? Si è ficcato in qualche guaio?——Credo di sì.——Di che tipo?——È quello che sto tentando di appurare. In ogni caso, sono l'unico

responsabile e devo risolverlo io. Niente di cui tu debba preoccuparti.—Isabella mi guardò, rassegnata per il momento, ma non convinta.—Come persona lei è un disastro completo, lo sa?——Sto abituandomi all'idea.——Se vuole che resti, le regole, qui, devono cambiare.——Sono tutt'orecchi.——È finito il dispotismo illuminato. A partire da oggi, in questa casa vige la

democrazia.——Libertà, uguaglianza e fraternità.——Stia attento alla fraternità. Ma basta « comando io e ordino io» , e niente più

sceneggiate alla mister Rochester.——Come vuole, miss Ey re.——E non si faccia illusioni, non la sposo nemmeno se rimane cieco.—Le tesi la mano per siglare il nostro patto. La strinse, esitando, e poi mi

abbracciò. Mi lasciai avvolgere dalle sue braccia e le appoggiai il viso sui capelli.Il contatto con lei era pace e accoglienza, la luce vitale di una ragazza di

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diciassette anni che volli credere simile all'abbraccio che mia madre non ebbemai il tempo di darmi.

—Amici?— mormorai.—Finché morte non ci separi.—

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22

Le nuove regole del regno di Isabella I entrarono in vigore alle ore nove delgiorno dopo, quando la mia assistente fece la sua comparsa in cucina e, senzatanti giri di parole, mi informò su come sarebbero andate le cose a partire da quelmomento.

—Ho pensato che lei ha bisogno di una routine nella sua vita. Sennò sidisorienta e agisce in maniera dissoluta.—

—Dove l'hai presa questa espressione?——Da uno dei suoi libri. D-i-s-s-o-l-u-t-a. Suona bene.——E fa rima con prosti… ——Non cambi argomento.—Durante la giornata, avremmo lavorato entrambi ai rispettivi manoscritti.Dopo aver cenato insieme, lei mi avrebbe mostrato le pagine scritte e le

avremmo discusse. Io giuravo di essere sincero e di darle le indicazioniopportune, niente zuccherini per farla contenta. Le domeniche sarebbero state divacanza e io l'avrei portata al cinematografo, a teatro o a passeggio. Lei miavrebbe aiutato a cercare documentazione nelle biblioteche e negli archivi eavrebbe fatto in modo che la dispensa fosse piena grazie al-la connessione conl'emporio di famiglia. Io avrei preparato la colazione e lei la cena. Il pranzol'avrebbe preparato chi fosse stato libero in quel momento. Ci saremmo divisi ilavori e io mi impegnavo ad accettare il fatto incontestabile che la casa dovevaessere pulita con regolarità. Io non avrei assolutamente cercato di trovarle unfidanzato e lei si sarebbe astenuta dal discutere le mie ragioni per lavorare perCorelli o dal manifestare le sue opinioni al riguardo, a meno che non fossi io achiedergliele. Per il resto, avremmo improvvisato in corso d'opera.

Sollevai la mia tazza di caffè e brindammo alla mia sconfitta e alla mia resaincondizionata.

In appena un paio di giorni mi consegnai alla pace e alla serenità del vassallo.Isabella aveva un risveglio lento e vischioso, e quando emergeva dalla sua stanzacon gli occhi semichiusi, strascicando un paio delle mie pantofole che le stavanograndi di mezzo piede, io avevo già preparato la colazione, il caffè e unquotidiano del mattino, uno diverso ogni giorno.

La routine è la governante dell'ispirazione. Non erano trascorse nemmenoquarantott'ore dall'instaurazione del nuovo regime quando scoprii che cominciavoa recuperare la disciplina dei miei anni più produttivi. Le ore di reclusione nellostudio si cristallizzarono rapidamente in pagine e pagine nelle quali, non senza unacerta inquietudine, iniziai a riconoscere che il lavoro aveva raggiunto quel puntodi consistenza in cui smette di essere un'idea e diventa una realtà.

Il testo scorreva, brillante ed elettrico. Si lasciava leggere come se si trattassedi una leggenda, una saga mitologica di prodigi e penurie popolata di personaggi e

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scenari intrecciati attorno a una profezia di speranza per la stirpe. La narrazionespianava la strada all'avvento di un salvatore guerriero che avrebbe liberato lanazione da ogni male e offesa per restituirle la gloria e l'orgoglio, usurpati dascaltri nemici che avevano cospirato da sempre e per sempre contro il popolo,quale che fosse. Il meccanismo era impeccabile e funzionava ugualmente seapplicato a qualunque credo, stirpe o tribù. Bandiere, dèi e proclami erano comejolly di un mazzo che di-stribuiva sempre le stesse carte. Vista la natura dellavoro, avevo optato per utilizzare uno degli artifici più complessi e difficili darealizzare in qualsiasi testo letterario: l'apparente assenza di artifici. Il linguaggiorisuo-nava chiaro e semplice, la voce onesta e limpida di una coscienza che nonnarra, ma semplicemente rivela. A volte mi soffermavo a rileggere quanto avevoscritto fino a quel momento ed ero invaso dalla vanità cieca di sentire che ilmacchinario che stavo montando funzionava con una precisione assoluta. Mi resiconto che, per la prima volta da molto tempo, passavo ore intere senza pensare aCristina o a Pedro Vidal. Le cose, dissi fra me, andavano per il meglio. Forse perquesto, perché mi sembrava finalmente di uscire dal tunnel, feci quello che hosempre fatto ogni volta che la mia vita si è incamminata su una buona strada:rovinare tutto.

Una mattina, dopo colazione, indossai uno dei miei vestiti da cittadinorispettabile. Passai dal salotto per salutare Isabella e la vidi china sulla scrivania arileggere pagine del giorno prima.

—Oggi non scrive?— chiese senza alzare gli occhi.—Giornata di riflessione.—Notai che aveva sistemato il set di pennini e il calamaio delle muse accanto al

suo quaderno.—Credevo che per te fosse una pacchianata— dissi.—Infatti, ma sono una ragazza di diciassette anni e ho tutti i diritti di farmi

piacere le pacchianate. Come lei con i sigari.—Il profumo di colonia la raggiunse e mi lanciò un'occhiata intrigata. Vedendo

che mi ero vestito per uscire, aggrottò le sopracciglia.—Va a fare di nuovo il detective?— domandò.—Un poco.——Non ha bisogno di un guardaspalle? Una dottoressa Watson? Qualcuno con

un po' di buonsenso?——Non imparare a cercare pretesti per non scrivere prima di imparare a

scrivere. È un privilegio dei professionisti e bisogna guadagnarselo.——Io credo che, se sono la sua assistente, devo esserlo in tutto.—Sorrisi mansueto.—Ora che me lo dici, c'è qualcosa che volevo chiederti. No, non spaven-tarti.

Ha a che fare con Sempere. Ho saputo che ha problemi di soldi e che la libreriatraballa.—

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—Non può essere.——Purtroppo è così, ma non succederà nulla perché noi non permetteremo

che le cose peggiorino.——Guardi che il signor Sempere è molto orgoglioso e non la lascerà… Ci ha

già provato, vero?—Annuii.—Perciò ho pensato che dobbiamo essere più astuti e fare ricorso all'ete-

rodossia e alle male arti.——La sua specialità.—Ignorai il tono di riprovazione e proseguii il discorso.—Ecco cosa ho pensato: come per caso, càpiti in libreria e dici a Sempere

che sono un orco, che non ne puoi più di me… ——Fin qui, verosimile al cento per cento.——Non interrompere. Poi gli dici anche che quello che ti pago per farmi da

assistente è una miseria.——Ma se non mi dà neanche un centesimo… —Sospirai, armandomi di pazienza.—Quando ti dirà che gli dispiace, perché lo dirà, fai la faccia da damigel-la in

pericolo e gli confessi, magari con qualche lacrimuccia, che tuo padre ti hadiseredato e ti vuole fare monaca e per questo hai pensato che forse potevilavorare lì qualche ora, in prova, in cambio del tre per cento di commissione suquello che vendi, per costruirti un futuro lontano dal convento come donnalibertaria e consacrata alla diffusione delle belle lettere.—

Isabella strabuzzò gli occhi.—Tre per cento? Vuole aiutare Sempere o vuole forse spennarlo?——Voglio che indossi un vestito come quello dell'altra sera, ti agghindi come

sai e vai a trovarlo quando suo figlio è in libreria, di solito nel pomeriggio.——Stiamo parlando di quello bello?——Quanti figli ha il signor Sempere?—Isabella tirò le somme e quando cominciò a capire dove andavo a parare mi

lanciò un'occhiata sulfurea.—Se mio padre sapesse che specie di mente perversa ha lei, si compre-rebbe

il fucile.——Voglio solo che il figlio ti veda. E che il padre veda come il figlio ti guarda.

——Lei è ancora peggio di quanto pensavo. Ora si dedica alla tratta delle

bianche.——È semplice carità cristiana. Inoltre, sei stata tu la prima ad ammettere che

il figlio di Sempere è di bell'aspetto.——Di bell'aspetto e un po' stupido.——Non esageriamo. Sempere junior è semplicemente un po' timido in

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presenza del genere femminile, il che gli fa onore. È un cittadino modello che,nonostante sia cosciente dell'effetto persuasivo della sua grazia e della suaprestanza, esercita autocontrollo e ascetismo per rispetto e devozione alla purezzasenza macchia della donna barcellonese. Non mi dirai che questo non gliconferisce un'aura di nobiltà e fascino che fa appello ai tuoi istinti, quello maternoe quelli periferici!—

—A volte credo di odiarla, signor Martín.——Aggrappati a questo sentimento, ma non incolpare il povero figliolo di

Sempere delle mie carenze come essere umano perché lui è, confidenzial-mente, un sant'uomo.—

—Eravamo d'accordo che non mi avrebbe cercato un fidanzato.——Nessuno ha parlato di fidanzamento. Se mi lasci finire, ti racconto il resto.

——Prosegua, Rasputin.——Quando Sempere padre dirà di sì, perché lo dirà, voglio che ogni giorno tu

stia due o tre ore al banco della libreria.——Vestita come? Da Mata Hari?——Con il decoro e il buon gusto che ti caratterizzano. Carina, invitante, ma

senza esagerare. Se occorre, prendi uno dei vestiti di Irene Sabino, però decente.—

—Ce ne sono due o tre che mi stanno da schianto— osservò Isabella, sdi-linquendosi in anticipo.

—Be', indossa quello che ti copre di più.——Lei è un reazionario. E la mia formazione letteraria?——Quale migliore aula di Sempere e Figli per ampliarla? Lì sarai circondata

da capolavori da cui imparare un sacco.——E cosa faccio? Respiro a fondo per vedere se mi resta appiccicato

qualcosa?——È solo per qualche ora al giorno. Poi puoi continuare con il tuo lavoro qui,

come finora, e ricevere i miei consigli, che non hanno prezzo e faran-no di te unanuova Jane Austen.—

—E dov'è il trucco?——Il trucco è che ogni giorno io ti darò qualche peseta e ogni volta che i clienti

ti pagano e apri la cassa ce la metti dentro con discrezione.——Così, questo è il piano… ——Come puoi vedere, non ha niente di perverso.—Isabella aggrottò le sopracciglia.—Non funzionerà. Si accorgerà che c'è qualcosa di strano. Il signor Sempere

è più sveglio della fame.——Funzionerà. E se Sempere si stupisce, gli dici che i clienti, quando vedono

una ragazza bella e simpatica dietro il bancone, aprono il portafoglio e si

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mostrano più generosi.——Questo succederà nei tuguri di bassa lega che frequenta lei, non in una

libreria.——Non sono d'accordo. Se entro in una libreria e trovo una commessa

affascinante come te sono capace di comprare perfino l'ultimo premio nazionaledi letteratura.—

—Perché la sua mente è più sporca di una gruccia da pollaio.——Ho anche, o dovrei dire abbiamo, un debito di gratitudine con Sempere.——Questo è un colpo basso.——Allora non costringermi a mirare ancora più in basso.—Ogni manovra di persuasione che si rispetti fa appello prima alla curiosità, poi

alla vanità e, per ultimo, alla bontà o al rimorso. Isabella abbassò lo sguardo eannuì lentamente.

—E quando vorrebbe mettere in pratica il suo piano della ninfa con il pa-nesottobraccio?—

—Non lasciamo per domani quello che possiamo fare oggi.——Oggi?——Questo pomeriggio.——Mi dica la verità. È uno stratagemma per lavare il denaro che le paga il suo

principale e purgare la sua coscienza o qualunque cosa abbia al suo posto?——Sai che i miei moventi sono sempre egoistici.——E cosa succede se il signor Sempere dice di no?——Tu assicurati che il figlio sia lì e vacci con il vestito della domenica, ma non

quello della messa.——È un piano degradante e offensivo.——E ti piace da matti.—Isabella alla fine sorrise, felina.—E se il figlio ha un attacco di coraggio e decide di osare più del dovuto?——Ti garantisco che l'erede non si azzarderà a metterti un dito addosso se non

in presenza di un prete e con un certificato della diocesi in mano.——Chi troppo e chi niente.——Lo farai?——Per lei?——Per la letteratura.—

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23

Uscendo in strada mi sorprese un vento freddo e tagliente che spazzava le stradecon impazienza e capii che l'autunno stava entrando in punta di piedi aBarcellona. In plaza Palacio salii su un tram che aspettava vuoto come unagrande trappola per topi di ferro battuto. Occupai un posto vicino al finestrino epagai il biglietto al controllore.

—Va a Sarrià?— domandai.—Fino alla piazza.—Appoggiai la testa contro il finestrino e dopo un po' il tram partì con uno

scossone. Chiusi gli occhi e mi abbandonai a uno di quei pisolini che ci si puògodere solo a bordo di qualche mostro meccanico, l'aspirazione dell'uomomoderno. Sognai di viaggiare in un treno fatto di ossa nere e di vagoni a forma dibara che attraversava una Barcellona deserta e disseminata di indumentiabbandonati, come se i corpi che li avevano occupati fossero evaporati. Unatundra di cappelli e vestiti, completi e scarpe ricopriva le strade stregate dalsilenzio. La locomotiva sprigionava una scia di fumo scarlatto che si spargeva incielo come pittura versata. Il principale, sorridente, viaggiava accanto a me. Eravestito di bianco e portava i guanti.

Qualcosa di scuro e gelatinoso gli gocciolava dalla punta delle dita.— Cos'è successo alla gente? —— Abbia fede, Martín. Abbia fede. —Quando mi svegliai, il tram scivolava lentamente all'ingresso della piazza di

Sarrià. Scesi prima che si fosse fermato del tutto e imboccai la salita di calleMay or de Sarrià. Quindici minuti più tardi arrivavo a destinazione.

La carretera de Vallvidrera partiva da un bosco scuro alle spalle del castellodi mattoni rossi del Colegio San Ignacio. La strada saliva verso la montagna,fiancheggiata da ville solitarie e ricoperta da un manto di foglie secche. Nubibasse scivolavano lungo il fianco della collina e si disfacevano in aliti di nebbia.Presi il marciapiede dei numeri dispari e perlustrai con lo sguardo muri e cancellicercando di leggere la numerazione. Al di là si intravedevano facciate di pietraannerita e fontane asciutte arenate tra sentieri invasi dalle erbacce. Percorsi untratto di marciapiede all'ombra di una lunga fila di cipressi e scoprii che lanumerazione saltava dall'11 al 15.

Confuso, ritornai sui miei passi cercando il numero 13. Cominciavo asospettare che la segretaria dell'avvocato Valera fosse più astuta di quantosembrava e che mi avesse dato un indirizzo falso, quando notai l'ingresso di unvialetto che partiva dal marciapiede e si prolungava per un altro centinaio dimetri fino a un cancello scuro che formava una cresta di lance.

Imboccai lo stretto vicolo lastricato e mi avvicinai all'inferriata. Un giardinofolto e non curato era strisciato verso l'esterno, e i rami di un eucalip-to

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attraversavano le lance del cancello come braccia supplicanti tra le sbarre di unacella. Scostai le foglie che ricoprivano parte del muro e scoprii le lettere e le cifreincise sulla pietra.

Casa Marlasca13Seguii la cancellata che fiancheggiava il giardino, cercando di scrutare

all'interno. A una ventina di metri trovai una porta metallica incassata nel muro dipietra. C'era un battente sulla lastra di ferro, saldato con lacrime di ruggine. Laporta era socchiusa. Spinsi con la spalla e riuscii a farla cedere abbastanza perpassare senza che gli spigoli di pietra che sporgevano dal muro mi strappassero ivestiti. Un intenso odore di terra bagnata impregnava l'aria.

Un sentiero di piastrelle di marmo si apriva tra gli alberi e conduceva a unaradura ricoperta di pietre bianche. Su un lato si potevano vedere dei garage con ilportone aperto e i resti di quella che un tempo era stata una Mercedes-Benz eadesso sembrava un carro funebre abbandonato alla sua sorte. La casa era unastruttura in stile modernista innalzata su tre piani dalle linee curve, sormontata dauna cresta di abbaini che si accalcavano sopra torrioni e archi. Finestroni stretti eacuminati come pugnali si aprivano nella facciata punteggiata di incisioni egargolle. I vetri riflettevano il passaggio silenzioso delle nuvole. Mi sembrò discorgere un viso stagliarsi dietro uno dei finestroni del primo piano.

Senza pensarci troppo, alzai la mano e abbozzai un saluto. Non volevo che miscambiassero per un ladro. La sagoma restò lì a osservarmi, immobile come unragno. Abbassai gli occhi un istante e, quando tornai a guardarla, era sparita.

—Buon giorno!— chiamai.Attesi qualche secondo e non ottenendo risposta mi avvicinai lentamente alla

casa. Una piscina ovale fiancheggiava la facciata est. Sull'altro lato si innalzavauna veranda a vetrate. Sedie di tela sfilacciata circondavano la piscina. Untrampolino aggredito dall'edera si protendeva sulla lastra di acqua scura. Miavvicinai al bordo e vidi che la vasca era disseminata di foglie morte e alghe cheondeggiavano sulla superficie. Stavo contemplando il mio riflesso nell'acqua dellapiscina quando sentii che una sagoma scura incombeva alle mie spalle.

Mi voltai bruscamente e mi imbattei in un volto affilato e cupo che miscrutava con inquietudine e sospetto.

—Chi è lei e cosa ci fa qui?——Mi chiamo David Martín e mi manda l'avvocato Valera— improvvisai.Alicia Marlasca strinse le labbra.—Lei è la signora Marlasca? Donna Alicia?——Cos'è successo a quello che viene di solito?— chiese.Capii che mi aveva scambiato per un praticante dello studio di Valera e

riteneva che portassi qualche documento da firmare o un messaggio da partedegli avvocati. Per un istante valutai la possibilità di adottare quell'identità, ma

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qualcosa nell'aspetto della donna mi disse che nella sua vita aveva già sentitoabbastanza bugie per sopportarne altre.

—Non lavoro per lo studio, signora Marlasca. Il motivo della mia visita è diindole privata. Mi chiedevo se lei avesse qualche minuto per parlare di una dellevecchie proprietà del suo defunto marito, don Diego.—

La vedova impallidì e distolse lo sguardo. Si appoggiava a un bastone e vidiche sulla porta della veranda c'era una sedia a rotelle sulla quale immaginaitrascorresse più tempo di quanto le piacesse ammettere.

—Ormai non resta più nessuna proprietà di mio marito, signor… ——Martín.——Hanno preso tutto le banche, signor Martín. Tutto meno questa casa, che

grazie ai consigli del signor Valera, il padre, fu intestata a mio nome. Il resto se losono portato via le iene… —

—Mi riferivo alla casa della torre, in calle Flassaders.—La vedova sospirò. Calcolai che doveva avere sessanta o sessantacinque anni.

L'eco di quella che doveva essere stata una bellezza sfolgorante quasi non si eraspento.

—Si scordi di quella casa. È un posto maledetto.——Purtroppo non posso farlo. Ci abito.—La signora Marlasca aggrottò le sopracciglia.—Credevo che nessuno ci potesse vivere. È rimasta vuota molti anni.——L'ho affittata già da parecchio tempo. Il motivo della mia visita è che, nel

corso di qualche lavoro di ristrutturazione, ho trovato una serie di effetti personaliche credo appartenessero al suo defunto marito e, immagino, a lei.—

—Non c'è niente di mio in quella casa. Quello che ha trovato sarà di quelladonna… —

—Irene Sabino?—Alicia Marlasca sorrise con amarezza.—Cos'è che davvero vuole sapere, signor Martín? Mi dica la verità. Lei non è

venuto fin qui per restituirmi le vecchie cose di mio marito.—Ci guardammo in silenzio e seppi che non potevo né volevo mentire a quella

donna, a nessun costo.—Sto cercando di capire cosa accadde a suo marito, signora Marlasca.——Perché?——Perché credo che a me stia succedendo la stessa cosa.—Casa Marlasca aveva quell'atmosfera da mausoleo abbandonato delle grandi

dimore che vivono dell'assenza e della mancanza. Lontana dai giorni di fortuna edi gloria, dai tempi in cui un esercito di domestici la manteneva intatta e piena displendore, la casa ora andava in rovina. La pittura delle pareti, scrostata; lepiastrelle del pavimento, dissestate; i mobili, rosi dall'umidità e dal freddo; isoffitti, caduti; e i grandi tappeti, spelacchiati e scoloriti. Aiutai la vedova a

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sistemarsi sulla sedia a rotelle e seguendo le sue indicazioni la condussi in una saladi lettura in cui quasi non restavano più né libri né quadri.

—Ho dovuto vendere gran parte delle cose per sopravvivere— spiegò.—Non fosse stato per l'avvocato Valera, che continua a mandarmi ogni me-

se una piccola pensione dello studio, non avrei saputo dove andare.——Vive sola qui?—La vedova annuì.—Questa è la mia casa. L'unico posto dove sono stata felice, anche se so-no

passati tanti anni. Ho vissuto sempre qui e morirò qui. Scusi se non le ho offertonulla. Non ricevo visite da tanto e non so più come trattare gli ospiti. Preferisce tèo caffè?—

—Sto bene così, grazie.—La signora Marlasca sorrise e indicò la poltrona su cui ero seduto.—Quella era la preferita di mio marito. Si sedeva lì a leggere fino a molto

tardi, davanti al fuoco. Io a volte mi mettevo qui, accanto a lui, e lo ascol-tavo. Alui piaceva raccontarmi cose, almeno allora. Siamo stati molto felici in questacasa… —

—Cosa accadde?—La vedova si strinse nelle spalle, lo sguardo perso nelle ceneri del camino.—È sicuro di voler sentire questa storia?——La prego.—

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24

—A dire la verità, non so bene quando fu che mio marito Diego la conobbe.Ricordo solo che una volta cominciò a parlarne, di sfuggita, e che ben presto nonci fu giorno in cui non lo sentissi pronunciare il suo nome: Irene Sabino. Mi disseche gliel'aveva presentata un certo Damián Roures, che organizzava sedutespiritiche in un appartamento di calle Elisabets.

Diego era uno studioso di religioni e mitologie, e aveva assistito a diversesedute come osservatore. A quell'epoca, Irene Sabino era una delle attrici piùpopolari del Paratelo. Era una bellezza, non lo nego. A parte ciò, non credosapesse contare più in là di dieci. Si diceva che era nata tra le baracche dellaspiaggia del Bogatell, che la madre l'aveva abbandonata nella bi-donville delSomorrostro e che era cresciuta in mezzo a mendicanti e gente che andava lì anascondersi. Iniziò a ballare nei cabaret e nei locali del Paratelo e del Raval aquattordici anni. Ballare, si fa per dire. Immagino che abbia cominciato aprostituirsi prima di imparare a leggere, se pure imparò… Per un periodo fu lastella della sala La Criolla, o così dicevano. Poi passò ad altri locali di maggiorclasse. Credo che fu all'Apolo dove conobbe un certo Juan Corbera, che tuttichiamavano Jaco. Jaco era il suo agente e probabilmente il suo amante. Fu lui ainventare il nome di Irene Sabino e la leggenda che fosse la figlia segreta di unagrande vedette di Parigi e di un principe della nobiltà europea. Non so qual era ilsuo vero nome. Non so se riuscì mai ad averne uno. Jaco la introdusse alle sedutespiritiche, credo dietro suggerimento di Roures, e i due si spartivano i proventidella vendita della sua presunta verginità a uomini ricchi e annoiati che parteci-pavano a quelle farse per vincere la monotonia. Dicevano che la sua specialitàerano le coppie.

—Quello che Jaco e il suo socio Roures non sospettavano è che Irene eraossessionata da quelle sedute e credeva davvero che durante quelle panto-mimesi potesse entrare in contatto con il mondo degli spiriti. Era convinta che suamadre le mandasse messaggi dall'altro mondo e perfino quando raggiunse lafama continuava ad andarci per entrare in contatto con lei. Lì conobbe miomarito Diego. Credo che attraversassimo un brutto periodo, come tutte le coppie.Da tempo Diego voleva abbandonare la professione e dedicarsi esclusivamentealla scrittura. Riconosco che non trovò in me l'appoggio di cui aveva bisogno. Iocredevo che se l'avesse fatto avrebbe gettato la vita alle ortiche, ma forse temevosolo di perdere tutto questo, la casa, i domestici… Persi tutto lo stesso, e anche lui.A separarci definitivamente fu la perdita di Ismael. Ismael era nostro figlio.Diego era pazzo di lui. Non ho mai visto un padre tanto attaccato al figlio. Ismael,non io, era la sua vita. Stavamo discutendo nella camera da letto al primo piano.

Avevo iniziato a recriminare sul tempo che passava a scrivere, sul fatto che ilsuo socio Valera, stanco di addossarsi il lavoro di tutti e due, gli aveva dato un

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ultimatum e meditava di sciogliere la società e mettersi per conto suo. Diegodisse che non gli importava, che era disposto a vendere la sua quota dello studioper dedicarsi alla sua vocazione. Quel pomeriggio ci ac-corgemmo dell'assenzadi Ismael. Non era in camera sua, né in giardino.

Credetti che, sentendoci litigare, si fosse spaventato e fosse uscito. Non era laprima volta che lo faceva. Mesi prima l'avevano trovato in lacrime su unapanchina di plaza Sarrià. Uscimmo a cercarlo al tramonto. Non c'era traccia dilui da nessuna parte. Andammo a casa dei vicini, negli ospedali…

Tornando, all'alba, dopo aver passato la notte a cercarlo, trovammo il suocorpo in fondo alla piscina. Era annegato la sera prima e non avevamo sentito lesue grida di aiuto perché stavamo litigando a voce alta. Aveva sette anni. Diegonon mi perdonò mai, e non perdonò nemmeno se stesso. Ben presto fummoincapaci di sopportare la presenza l'uno dell'altra. Ogni volta che ci guardavamoo ci toccavamo vedevamo il cadavere di nostro figlio in fondo a quella maledettapiscina. Un giorno mi svegliai e seppi che Diego mi aveva abbandonato. Lasciò lostudio e andò ad abitare in una grande casa del quartiere della Ribera che da annilo ossessionava. Diceva che stava scrivendo, che aveva ricevuto un incaricomolto importante da un editore di Parigi, che non dovevo preoccuparmi per isoldi. Io sapevo che stava con Irene, anche se lui non lo ammetteva. Era un uomodistrutto. Era convinto che gli restasse poco tempo da vivere. Credeva di averpreso una malattia, una specie di parassita, che lo stava divorando dal di dentro.Parlava solo della morte. Non ascoltava nessuno. Né me né Valera… Solo Irenee Roures, che gli avvelenavano il cervello con storie di spiriti e gli e-storcevanodenaro con la promessa di metterlo in contatto con Ismael. Una volta andai allacasa della torre e lo supplicai di aprirmi. Non mi fece entrare. Mi disse che eraoccupato, che stava lavorando a qualcosa che gli avrebbe permesso di salvareIsmael. A quel punto mi resi conto che cominciava a perdere la ragione. Eraconvinto che se avesse scritto quel maledetto libro per l'editore di Parigi nostrofiglio sarebbe tornato indietro dalla morte. Credo che Irene, Roures e Jaco sianoriusciti a spillargli i soldi che gli restavano, che ci restavano… Mesi dopo, quandoormai non vedeva più nessuno e passava tutto il tempo chiuso in quel postoorribile, lo trovarono morto. La polizia disse che era stato un incidente, ma io nonci ho mai creduto. Jaco era scomparso e non c'era traccia dei soldi, mentreRoures diceva di non sapere nulla. Dichiarò che da mesi non aveva contatti conDiego perché era impazzito e gli faceva paura. Disse che le ultime volte che siera presentato alle sue sedute spiritiche Diego terrorizzava i clienti con le suestorie di anime maledette e che lui gli aveva proibito di tornare. Diceva che c'eraun grande lago di sangue sotto la città. Diceva che suo figlio gli parlava in sogno,che Ismael era prigioniero di un'ombra con la pelle di serpente che si facevapassare per un bambino e giocava con lui… Nessuno si sorprese quando lotrovarono morto. Secondo Irene, Diego si era tolto la vita per colpa mia: quella

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moglie fredda e calcolatrice che aveva lasciato morire suo figlio perché nonvoleva rinunciare a una vita nel lusso lo aveva spinto verso la morte. Disse che leiera l'unica ad averlo amato davvero e che non aveva mai accettato neppure uncentesimo. E credo che, almeno su questo, dicesse la verità. Credo che Jacol'abbia usata per sedurre Diego e rubargli tutto. Poi, al momento della verità, lamollò e fuggì senza dividere un soldo con lei. Così disse la polizia, o almeno alcunipoliziotti. Mi è sempre sembrato che non volessero rimestare in quell'affare e chela versione del suicidio fosse la più conveniente per loro. Ma io non credo cheDiego si sia tolto la vita. Non l'ho creduto allora e non lo credo adesso.

Credo che l'abbiano ucciso Irene e Jaco. E non solo per denaro. C'era altro.Mi ricordo che la pensava così anche uno dei poliziotti assegnati al caso, un

uomo molto giovane, Ricardo Salvador. Disse che qualcosa non quadrava nellaversione ufficiale dei fatti e che qualcuno stava coprendo la ve-ra causa dellamorte di Diego. Salvador lottò per chiarire le cose finché lo sollevarono dal casoe, col tempo, lo espulsero dal corpo. Perfino allora continuò a indagare per contosuo. A volte veniva a trovarmi. Diventammo buoni amici… Ero una donna sola,in rovina e disperata. Valera mi suggeriva di risposarmi. Anche lui mi incolpavaper quello che era successo a mio marito e arrivò a insinuare che c'erano molticommercianti scapoli ai quali una vedova di bella presenza e dall'ariaaristocratica poteva scaldare il letto negli anni d'oro. Col tempo, anche Salvadorsmise di venirmi a trovare. Non gliene faccio una colpa. Nel suo tentativo diaiutarmi, si era rovinato la vita. A volte mi sembra che sia l'unica cosa che sonoriuscita a fa-re per gli altri in questo mondo, rovinargli la vita… Fino a oggi nonavevo raccontato a nessuno questa storia, signor Martín. Se vuole un consiglio, siscordi di quella casa, di me, di mio marito e di questa storia. Se ne vada lontano.Questa città è maledetta. Maledetta.—

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25

Lasciai Casa Marlasca con il cuore nelle calze e vagai senza meta per il labirintodi strade solitarie che portavano verso Pedralbes. Il cielo era coperto da unaragnatela di nuvole grigie che a stento permettevano al sole di filtrare. Aghi diluce perforavano quel sudario e spazzavano il fianco della collina. Seguii con losguardo quelle linee luminose e vidi come, in lontananza, accarezzavano il tettosmaltato di Villa Helius. Le finestre brillavano lontane. Trascurando il buon senso,mi incamminai in quella direzione.

Via via che mi avvicinavo, il cielo si oscurava e un vento tagliente sollevavaspirali di foglie morte al mio passaggio. Mi fermai all'inizio di calle Panama. VillaHelius si ergeva davanti a me. Non osai attraversare la strada e avvicinarmi almuro che circondava il giardino. Rimasi lì sa Dio quanto tempo, incapace difuggire o di andare alla porta e bussare. Fu allora che la vidi passare davanti auno dei finestroni del secondo piano. Sentii un freddo intenso nelle viscere. Stavoper andarmene quando si voltò e si fermò. Si avvicinò al vetro e sentii i suoi occhinei miei. Alzò la mano, come se volesse salutare, ma non arrivò a distendere ledita. Non ebbi il coraggio di sostenere il suo sguardo e mi voltai, allontanandomigiù per la strada. Mi tremavano le mani e me le misi in tasca perché non sinotasse.

Prima di girare l'angolo, mi voltai di nuovo e vidi che era ancora lì aguardarmi. Volevo odiarla, ma mi mancarono le forze.

Arrivai a casa con il freddo, o così volevo pensare, nelle ossa. Varcando ilportone, vidi una busta che spuntava dalla cassetta postale dell'androne.

Pergamena e ceralacca. Notizie del principale. L'aprii mentre mi trascinavosu per le scale. La sua calligrafia elegante mi dava appuntamento per il giornodopo. Arrivando sul pianerottolo, vidi che la porta era socchiusa e che Isabella miaspettava sorridente.

—Ero nello studio e l'ho vista arrivare— disse.Cercai di sorriderle, ma non dovetti essere molto convincente perché appena

Isabella mi guardò negli occhi assunse un'aria preoccupata.—Si sente bene?——Non è niente. Credo di avere preso un po' di freddo.——Ho un brodino sul fuoco che sarà come una mano santa. Entri.—Mi prese per il braccio e mi condusse in salotto.—Isabella, non sono un invalido.—Mi lasciò e abbassò gli occhi.—Scusi.—Non avevo forze per litigare con nessuno, e men che meno con la mia

ostinata assistente, perciò mi lasciai guidare verso una delle poltrone del salotto evi sprofondai come un sacco d'ossa. Isabella si sedette di fronte a me e mi

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guardò, allarmata.—Cos'è successo?—Le sorrisi tranquillizzante.—Niente. Non è successo niente. Non dovevi portarmi una tazza di brodo?——Subito.—Si precipitò in cucina e la sentii sfaccendare. Respirai a fondo e chiusi gli

occhi finché sentii i passi di Isabella che si avvicinavano.Mi tese un tazzone fumante di dimensioni esagerate.—Sembra un orinale— dissi.—Beva e non dica bestialità.—Annusai il brodo. Aveva un buon odore, ma non volevo fornire prove di

eccessiva docilità.—Ha uno strano odore. Cosa c'è dentro?——Odora di pollo perché c'è pollo, sale e un goccino di Jerez. Se lo beva.—Ne bevvi un sorso e le restituii il tazzone. Isabella scosse la testa.—Tutto.—Sospirai e bevvi un altro sorso. Era buono, mio malgrado.—Com'è andata la giornata, allora?— chiese Isabella.—Ha avuto i suoi momenti. E a te?——Lei ha di fronte la nuova star dei dipendenti di Sempere e Figli.——Eccellente.——Prima delle cinque avevo già venduto due copie del Ritratto di Dorian Gray

e le opere complete di Thomas Hardy a un signore molto distinto di Madrid chemi ha dato anche la mancia. Non faccia quella faccia, perché ho messo nellacassa anche quella.—

—E Sempere figlio, cos'ha detto?——Dire, non ha detto un granché. È stato tutto il tempo come un allocco a far

finta di non guardarmi, ma senza togliermi gli occhi di dosso. Non possonemmeno avvicinarmi a una sedia, tanto mi ha guardato il sedere ogni volta chesalivo sulla scala per prendere un libro.—

Sorrisi e annuii.—Grazie, Isabella.—Mi guardò fisso negli occhi.—Lo dica di nuovo.——Grazie, Isabella. Di tutto cuore.—Arrossì e distolse lo sguardo. Restammo per un po' in un placido silenzio,

godendoci quell'affiatamento che a volte non aveva bisogno nemmeno di parole.Finii il brodo, anche se non mi entrava più nemmeno una goccia, e le mostrai iltazzone vuoto. Annuì.

—È andato a trovarla, vero? Quella donna. Cristina— disse Isabella,sfuggendo il mio sguardo.

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—Isabella, la lettrice di facce… ——Mi dica la verità.——L'ho vista solo da lontano.—Isabella mi osservò con cautela, come se esitasse tra dirmi o non dirmi

qualcosa che le si era incagliato nella coscienza.—L'ama?— domandò alla fine.Ci guardammo in silenzio.—Io non so amare nessuno. Lo sai. Sono un egoista e tutto il resto. Parliamo

d'altro.—Isabella annuì, lo sguardo catturato dalla busta che mi spuntava dalla tasca.—Notizie del principale?——La convocazione mensile. L'eccellentissimo signor Andreas Corelli si

pregia di darmi appuntamento domani alle sette del mattino alle porte delcimitero del Pueblo Nuevo. Non poteva scegliere un posto diverso.—

—E pensa di andarci?——Cos'altro posso fare?——Può prendere un treno stasera stessa e scomparire per sempre.——Sei la seconda persona a propormelo oggi. Scomparire da qui.——Ci sarà un motivo.——E chi sarà la tua guida e il tuo mentore nei disastri della letteratura?——Io vengo con lei.—Sorrisi e le presi la mano.—Con te in capo al mondo, Isabella.—Ritirò la mano di scatto e mi guardò, offesa.—Lei si prende gioco di me.——Isabella, se un giorno mi venisse in mente di prendermi gioco di te, mi

sparerei un colpo.——Non dica queste cose. Non mi piace quando parla così.——Scusa.—La mia assistente tornò alla scrivania e s'immerse in uno dei suoi lunghi

silenzi. La osservai sfogliare le pagine scritte nella giornata, fare correzioni ecancellare paragrafi interi con il set di pennini che le avevo regalato.

—Se mi guarda, non riesco a concentrarmi.—Mi alzai e aggirai la scrivania.—Allora ti lascio lavorare e dopo cena mi fai vedere quello che hai scritto.——Non è pronto. Devo correggerlo tutto e riscriverlo e… ——Non è mai pronto, Isabella. Abituati. Lo leggeremo insieme dopo ce-na.——Domani.—Mi arresi.—Domani.—Annuì e mi accinsi a lasciarla sola con le sue parole. Stavo chiudendo la porta

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del salotto quando sentii la sua voce che mi chiamava.—David?—Mi fermai in silenzio dall'altro lato della porta.—Non è vero. Non è vero che lei non sa amare nessuno.—Mi rifugiai nella mia stanza e chiusi la porta. Mi stesi di fianco sul letto,

raccolto su me stesso, e chiusi gli occhi.

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26

Uscii di casa dopo l'alba. Nubi scure si trascinavano sopra i tetti e ruba-vano ilcolore alle strade. Mentre attraversavo il Parque de la Ciudadela vidi le primegocce colpire le foglie degli alberi e schioccare sul vialetto, sollevando volute dipolvere come se fossero pallottole. Dall'altro lato del parco, una foresta difabbriche e gasometri si moltiplicava verso l'orizzonte, il pulviscolo delleciminiere diluito in quella pioggia nera che precipitava dal cielo in lacrime dicatrame. Percorsi l'inospitale viale di cipressi che conduceva alle porte delcimitero dell'Est, lo stesso tragitto che tante volte avevo fatto con mio padre. Ilprincipale era già lì. Lo vidi da lontano, che aspettava imperturbabile sotto lapioggia, ai piedi di uno dei grandi angeli che sorvegliavano l'entrata principale delcamposanto. Vestiva di nero e a impedire che si confondesse con una dellecentinaia di statue oltre le can-cellate erano soltanto i suoi occhi. Non mosse unapalpebra finché non fui a pochi metri e, non sapendo cosa fare, lo salutai con lamano. Faceva freddo e il vento odorava di calce e di zolfo.

—I visitatori occasionali credono ingenuamente che ci siano sempre caldo esole in questa città— disse il principale. —Ma, come amo dire, prima o poil'anima antica, torbida e oscura di Barcellona si riflette in cielo.—

—Dovrebbe pubblicare guide turistiche invece di testi religiosi— suggerii.—Praticamente sono la stessa cosa. Come ha passato questi giorni di pace e

tranquillità? Il lavoro è andato avanti? Ha buone notizie per me?—Aprii la giacca e gli diedi un plico di fogli. Ci addentrammo nel cimitero in

cerca di un posto al riparo dalla pioggia. Il principale scelse un vecchio mausoleoche ci offriva una cupola sostenuta da colonne di marmo e circondata da angelidal volto affilato e dalle dita troppo lunghe. Ci sedemmo su una panchina di pietrafredda. Lui mi rivolse uno dei suoi sorrisi canini e mi fece l'occhiolino, mentre lesue pupille gialle e brillanti si chiudevano in un punto nero in cui potevo vedereriflesso il mio volto pallido e visibilmente inquieto.

—Si rilassi, Martín. Lei dà troppa importanza al macchinario di scena.—Iniziò a leggere con calma i fogli che gli avevo portato.—Credo che mi farò un giro mentre lei legge— dissi.Corelli annuì senza alzare gli occhi dalle pagine.—Non scappi— mormorò.Mi allontanai il più in fretta possibile senza che sembrasse evidente che lo

facevo e mi persi tra le strade e gli anfratti della necropoli. Aggirai obe-lischi esepolcri, addentrandomi nel cuore del cimitero. La lapide era ancora lì, segnalatada un vaso vuoto in cui rimaneva lo scheletro di fiori pietrificati. Vidal avevapagato le esequie e aveva perfino commissionato a uno scultore di una certareputazione nell'ambiente delle pompe funebri una Pietà che custodiva la tombaalzando gli occhi al cielo, le mani sul petto in atteggiamento di supplica. Mi

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inginocchiai davanti alla lapide e la ripulii dal muschio che aveva ricoperto lelettere incise a scalpello.

JOSÉ ANTONIO MARTÍN CLARÉS1875-1908Eroe della guerra delle Filippine.Il suo paese e i suoi amicinon lo dimenticheranno mai—Buon giorno, papà— dissi.Contemplai la pioggia nera che scivolava sul viso della Pietà, la pioggia che

batteva sulle lapidi, e sorrisi alla salute di quegli amici che non ebbe mai e delpaese che lo mandò a morire da vivo per arricchire quattro ca-poccioni che nonseppero mai nemmeno che esisteva. Mi sedetti sulla lapide e poggiai la mano sulmarmo.

—Chi gliel'avrebbe detto, vero?—Mio padre, che aveva vissuto la sua esistenza sull'orlo della miseria, ri-posava

per l'eternità in una tomba da borghese. Da bambino non avevo mai capitoperché il giornale avesse deciso di pagargli un funerale con un prete elegante e leprefiche, i fiori e un sepolcro da importatore di zucchero.

Nessuno mi disse che era stato Vidal a pagare i fasti dell'uomo morto al suoposto, anche se io l'avevo sempre sospettato, attribuendo quel gesto al-la bontà egenerosità infinite con cui il cielo aveva benedetto il mio mentore e idolo, ilgrande don Pedro Vidal.

—Devo chiederle perdono, papà. Per anni l'ho odiata per avermi lasciato qui,da solo. Mi dicevo che aveva avuto la morte che si era cercato. Per questo nonero mai venuto a trovarla. Mi perdoni.—

A mio padre non erano mai piaciute le lacrime. Credeva che un uomo nonpiangesse mai per gli altri, ma solo per se stesso. E se lo faceva era un vigliacco enon meritava nessuna pietà. Non volli piangere per lui e tradir-lo ancora unavolta.

—Mi sarebbe piaciuto che lei vedesse il mio nome su un libro, anche se nonavrebbe potuto leggerlo. Mi sarebbe piaciuto averla qui, con me, per vederecome suo figlio riusciva ad aprirsi una strada e a fare alcune delle cose che a leivennero sempre vietate. Mi sarebbe piaciuto conoscerla, pa-pà, e che leiconoscesse me. L'ho trasformata in un estraneo per dimenti-carla e adessol'estraneo sono io.—

Non lo sentii avvicinarsi, ma sollevando la testa vidi il principale che miosservava in silenzio ad appena pochi metri. Mi alzai e mi avvicinai a lui come uncane ben ammaestrato. Mi chiesi se sapesse che lì era sepolto mio padre e se miavesse dato appuntamento in quel posto proprio per quel motivo. La mia facciadoveva essere un libro aperto, perché lui scosse la testa e mi posò una mano sullaspalla.

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—Non lo sapevo, Martín. Mi dispiace.—Non ero disposto ad aprirgli la porta del cameratismo. Mi girai per libe-rarmi

dal suo gesto di affetto e commiserazione e strinsi gli occhi per trattenere lacrimedi rabbia. Mi avviai verso l'uscita, senza aspettarlo. Lui attese qualche secondo epoi decise di seguirmi. Camminò al mio fianco in silenzio fin quando arrivammoalla porta principale. Lì mi fermai e lo guardai con impazienza.

—E allora? Ha qualche commento?—Il principale ignorò il mio tono vagamente ostile e sorrise paziente.—Il lavoro è eccellente.——Ma… ——Se dovessi fare un'osservazione seria, credo che lei abbia colto nel segno

costruendo tutta la storia dal punto di vista di un testimone dei fatti che si sentevittima e parla in nome del popolo che attende questo salvatore guerriero. Voglioche continui su questa strada.—

—Non le sembra forzato, artificioso…?——Al contrario. Niente ci fa credere più della paura, della certezza di essere

minacciati. Quando ci sentiamo vittime, tutte le nostre azioni e le nostre credenzevengono legittimate, per quanto discutibili siano. I nostri opposi-tori, osemplicemente i nostri vicini, smettono di essere al nostro livello e diventanonemici. Smettiamo di essere aggressori per diventare difensori.

L'invidia, l'avidità o il risentimento che ci muovono vengono santificati,perché diciamo a noi stessi di agire in nostra difesa. Il male, la minaccia, èsempre nell'altro. Il primo passo per credere con passione è la paura. La paura diperdere la nostra identità, la nostra vita, la nostra condizione o le nostre fedi. Lapaura è la polvere da sparo e l'odio è la miccia. Il dogma, in ultima istanza, è soloun fiammifero acceso. È qui che la sua trama ha qualche lacuna, credo.—

—Mi chiarisca una cosa. Lei cerca fede o dogma?——Ci può bastare che le persone credano. Devono credere a quello che

vogliamo che credano. E non devono metterlo in discussione né ascoltare la vocedi chi lo fa. Il dogma deve far parte dell'identità stessa. Chiunque lo metta indiscussione è nostro nemico. È il male. Ed è nostro diritto, e dovere, affrontarlo edistruggerlo. È l'unico cammino di salvezza. Credere per sopravvivere.—

Sospirai e distolsi lo sguardo, annuendo di malavoglia.—Non la vedo convinto, Martín. Mi dica quello che pensa. Crede che mi

sbagli?——Non lo so. Credo che semplifichi le cose in modo pericoloso. Tutto il suo

discorso sembra un semplice meccanismo per generare e incanalare odio.——L'aggettivo che stava per usare non era pericoloso, bensì ripugnante,ma non ne terrò conto.——Perché dobbiamo ridurre la fede a un atto di rifiuto e di obbedienza cieca?

Non è possibile credere in valori di accettazione, di concordia?—

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Il principale sorrise, divertito.—È possibile credere in qualunque cosa, Martín, nel libero mercato o in

Topolino. Perfino nel fatto che non crediamo in nulla, come fa lei, che è lacredulità più grande. Ho ragione?—

—Il cliente ha sempre ragione. Qual è la lacuna che vede nella storia?——Manca il cattivo. La maggior parte di noi, ce ne rendiamo conto o no, ci

definiamo in opposizione a qualcosa o a qualcuno, più che a favore di qualcosa oqualcuno. È più facile reagire che agire, per così dire. Niente ravviva la fede e lozelo del dogma quanto un buon antagonista. Quanto più inverosimile, tantomeglio.—

—Avevo pensato che quel ruolo potesse funzionare meglio in astratto.L'antagonista sarebbe il non credente, lo straniero, colui che è fuori dal

gruppo.——Sì, però mi piacerebbe che fosse più concreto. È difficile odiare un'idea.

Richiede una certa disciplina intellettuale e uno spirito ossessivo e mal-sano, chenon abbondano. È molto più facile odiare qualcuno con un volto riconoscibile acui dare la colpa di tutto ciò che ci disturba. Non deve essere per forza unpersonaggio individuale. Può essere una nazione, una razza, un gruppo… quelloche sia.—

Il cinismo nitido e sereno del principale riusciva ad averla vinta anche conme. Sospirai, abbattuto.

—Adesso non mi faccia il cittadino modello, Martín. Per lei fa lo stesso, eabbiamo bisogno di un cattivo in questo vaudeville. Dovrebbe saperlo meglio dichiunque altro. Non c'è dramma senza conflitto.—

—Che tipo di cattivo le piacerebbe? Un tiranno invasore? Un falso profe-ta?L'uomo nero?—

—Lascio a lei la scelta dei costumi di scena. Uno qualunque degli abitualisospetti mi sta bene. Una delle funzioni del nostro cattivo dev'essere quella diconsentirci di adottare il ruolo di vittima e reclamare la nostra superiori-tàmorale. Proietteremo su di lui tutto quello che siamo incapaci di riconoscere innoi stessi e che demonizziamo in accordo con i nostri interessi personali. Èl'aritmetica di base del fariseismo. Le ho già detto di leggere la Bibbia. Tutte lerisposte che cerca sono lì.—

—Lo sto facendo.——Basta convincere il sant'uomo che è libero da ogni peccato perché inizi a

tirare pietre, o bombe, con entusiasmo. E in realtà non c'è bisogno di un grandesforzo, perché si convince con un minimo di coraggio e di alibi.

Non so se mi spiego.——Alla perfezione. I suoi argomenti hanno la sottigliezza di un crogiolo

siderurgico.——Non credo che mi piaccia tanto questo tono condiscendente, Martín. Le

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pare forse che tutto ciò non sia all'altezza della sua purezza morale o intellettuale?—

—Assolutamente— mormorai, pusillanime.—Cos'è allora che le solletica la coscienza, amico mio?——Il solito. Non sono sicuro di essere il nichilista che le serve.——Nessuno lo è. Il nichilismo è una posa, non una dottrina. Metta la fiamma di

una candela sotto i testicoli di un nichilista e constaterà come vede in fretta la lucedell'esistenza. A darle fastidio è un'altra cosa.—

Alzai lo sguardo e ripescai il tono più di sfida che ero capace di usare fissandoil principale negli occhi.

—Forse a darmi fastidio è che posso capire tutto quello che dice, ma non losento.—

—La pago per sentire?——A volte pensare e sentire sono la stessa cosa. L'idea è sua, non mia.—Il principale sorrise con una delle sue pause drammatiche, come un maestro

di scuola che prepara la stoccata letale con cui zittire un alunno discolo esvogliato.

—E lei cosa sente, Martín?—L'ironia e il disprezzo nella sua voce mi diedero coraggio e aprii il rubinetto

dell'umiliazione che avevo accumulato per mesi alla sua ombra.Rabbia e vergogna di sentirmi intimorito dalla sua presenza e di permettere i

suoi discorsi avvelenati. Rabbia e vergogna perché mi aveva dimostrato che,sebbene io preferissi credere che in me c'era disperazione, la mia anima erameschina e miserabile quanto il suo umanesimo da fogna. Rabbia e vergogna disentire, di sapere, che aveva sempre ragione, soprattutto quando faceva più maleaccettarlo.

—Le ho fatto una domanda, Martín. Cosa sente lei?——Sento che la cosa migliore sarebbe lasciare le cose come stanno e

restituirle i suoi soldi. Sento che, qualunque cosa si proponga con questa assur-daimpresa, preferisco non parteciparvi. E soprattutto sento che mi dispiace averlaconosciuta.—

Il mio principale lasciò cadere le palpebre e s'immerse in un lungo silenzio. Sivoltò e si allontanò di qualche passo in direzione delle porte della necropoli.Osservai il suo profilo scuro ritagliato sullo sfondo del giardino di marmo, e la suaombra immobile sotto la pioggia. Provai paura, un timore torbido che mi nascevadalle viscere e mi ispirava un desiderio infan-tile di chiedere scusa e di accettarequalunque punizione mi venisse imposta pur di non dover sopportare quel silenzio.E provai schifo. Della sua presenza e, specialmente, di me stesso.

Il principale si girò e si avvicinò di nuovo. Si fermò ad appena pochicentimetri e chinò il suo volto sul mio. Sentii il suo alito freddo e mi persi nei suoiocchi neri, senza fondo. Stavolta la voce e il tono erano di ghiaccio, privi di quella

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umanità pratica e studiata che sprizzavano la sua conversazione e i suoi gesti.—Glielo dirò per l'ultima volta. Lei farà la sua parte e io la mia. Questa è

l'unica cosa che può e deve sentire.—Non mi resi conto che stavo annuendo ripetutamente finché il principale non

tirò fuori il plico di pagine dalla tasca e me le tese. Le lasciò cadere prima chepotessi prenderle. Il vento le trascinò in un mulinello e le vidi spargersi versol'entrata del camposanto. Mi affrettai a cercare di salvarle dalla pioggia, maalcune erano cadute nelle pozzanghere e si dissanguava-no nell'acqua, mentre leparole si staccavano a filamenti. Le riunii tutte in un mazzo di carta bagnata.Quando alzai gli occhi e mi guardai intorno, il principale se n'era andato.

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27

Se c'era un momento in cui avevo avuto bisogno di un volto amico nel qualerifugiarmi, era quello. Il vecchio edificio della « Voz de la Industria» .

spuntava dietro i muri del cimitero. Mi diressi lì con la speranza di trovare ilmio maestro don Basilio, una di quelle rare anime immuni dalla stupidità delmondo che danno sempre buoni consigli. Entrando nella sede del giornale, scopriiche ancora riconoscevo la maggior parte del personale. Sembrava che non fossepassato neppure un minuto da quando me n'ero andato sei anni prima. Quelli chemi riconobbero, a loro volta, mi guardavano con sospetto e distoglievano losguardo per evitare di dovermi salutare. Mi infilai nella sala della redazione eandai dritto nello studio di don Basilio, in fondo. La sala era vuota.

—Chi cerca?—Mi girai e mi imbattei in Roseli, uno dei redattori che già mi sembravano

vecchi quando lavoravo lì da ragazzino e che aveva firmato la recensionevelenosa dei Passi del cielo in cui venivo definito « redattore di annunci apagamento» .

—Signor Roseli, sono Martín. David Martín. Non si ricorda di me?—Roseli dedicò vari secondi a ispezionarmi, fingendo di avere grande difficoltà

a riconoscermi, e alla fine annuì.—E don Basilio?——Se n'è andato due mesi fa. Lo troverà alla redazione della « Vanguardia» .

Se lo vede, me lo saluti.——Certamente.——Mi dispiace per la faccenda del suo libro— disse Roseli con un sorriso

compiacente.Attraversai la redazione navigando tra sguardi schivi, sorrisi sghembi e

mormorii gelidi. Il tempo cura tutto, pensai, meno la verità.Mezz'ora più tardi, un taxi mi lasciava alle porte della sede della

« Vanguardia" in calle Pelayo. A differenza della sinistra decrepitezza del miovecchio giornale, lì tutto promanava un'aria di signorilità e di opulenza. Miidentificai al banco della portineria e un ragazzo con l'aspetto da apprendista, chemi ricordò me stesso nei miei anni da Grillo Parlante, fu mandato ad avvisaredon Basilio che aveva visite. L'aspetto leonino del mio vecchio maestro non eravenuto meno con il passare degli anni. Se possibile, e con il tocco del nuovoabbigliamento in tono con l'esclusiva scenografia, don Basilio aveva un personaleformidabile come ai tempi della "Voz de la Industria» . Quando mi vide, glis'illuminarono gli occhi di allegria e, infran-gendo il suo ferreo protocollo, miaccolse con un abbraccio nel quale avrei facilmente potuto rompermi due o trecostole se non ci fosse stato del pubblico presente, per il quale, contento o no, donBasilio doveva salvare le apparenze e la reputazione.

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—Ci stiamo imborghesendo, don Basilio?—Il mio vecchio capo si strinse nelle spalle, facendo un gesto per togliere

importanza al nuovo arredamento che lo circondava.—Non si lasci impressionare.——Non sia modesto, don Basilio, qui è nel tesoro della corona. Li sta già

mettendo in riga?—Don Basilio tirò fuori la sua perenne matita rossa e me la mostrò, facendomi

l'occhiolino.—Ne consumo quattro a settimana.——Due in meno che alla « Voz» .——Mi dia tempo, qui c'è qualche genio che mette la punteggiatura a fucila-te e

crede che il sommario sia una specie di libro delle addizioni.—Malgrado le sue parole, era evidente che don Basilio si trovava a proprio agio

nella nuova casa e aveva perfino un aspetto più florido.—Non mi dica che è venuto a chiedermi lavoro perché sono capace di

darglielo— minacciò.—La ringrazio, don Basilio, ma lei sa che ho smesso la tonaca e che il

giornalismo non è cosa per me.——Allora mi dica in cosa può esserle utile questo vecchio brontolone.——Ho bisogno di informazioni su un vecchio caso per una storia a cui sto

lavorando, la morte di un avvocato di grido di nome Marlasca, Diego Marlasca.—

—Di quando stiamo parlando?——1904.—Don Basilio sospirò.—Credito a lungo termine. Ne è passata di acqua sotto i ponti.——Non abbastanza da ripulire la faccenda.—Don Basilio mi posò la mano sulla spalla e mi fece cenno di seguirlo

all'interno della redazione.—Non si preoccupi, è venuto nel posto giusto. Questa brava gente ha un

archivio da fare invidia al Vaticano. Se è uscito qualcosa sulla stampa, qui lotroviamo. E poi il capo dell'archivio è un buon amico. L'avverto che io,paragonato a luì, sono Biancaneve. Non faccia caso ai suoi modi bruschi.

In fondo, ma proprio in fondo in fondo, è un pezzo di pane.—Seguii don Basilio attraverso un ampio atrio di legni pregiati. Su un lato si

apriva una sala circolare con una grande tavola rotonda e una serie di ritratti daiquali ci osservava una pleiade di aristocratici dall'aspetto severo.

—La stanza del sabba— spiegò don Basilio. —Qui si riuniscono i capiredat-tori con il condirettore, che è il sottoscritto, e il direttore e, come i bravi cavalieridella Tavola rotonda, troviamo il santo Graal tutti i giorni alle sette di sera.—

—Impressionante.—

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—Non ha ancora visto nulla— disse don Basilio, strizzandomi l'occhio.—Guardi.—Si mise sotto uno degli augusti ritratti e spinse il pannello di legno che ricopriva

la parete. Il pannello cedette con uno scricchiolio, rivelando un corridoionascosto.

—Eh? Cosa mi dice, Martín? E questo è solo uno dei tanti passaggi segretidella casa. Nemmeno i Borgia avevano un labirinto simile.—

Lo seguii lungo il corridoio e arrivammo in una grande sala di letturacircondata da teche di vetro, sepolcro della biblioteca segreta della« Vanguardia» . In fondo alla sala, sotto il fascio di luce di una lampada dicristallo verdino, si distingueva la sagoma di un uomo di mezza età seduto a untavolo a esaminare un documento con una lente. Vedendoci entrare, alzò gli occhie ci rivolse uno sguardo che avrebbe pietrificato chiunque fosse minorenne ofacilmente impressionabile.

—Le presento don José Maria Brotons, signore dell'inframondo e capo dellecatacombe di questa santa casa— annunciò don Basilio.

Brotons, senza mollare la lente, si limitò a osservarmi con quegli occhi cheossidavano al contatto. Mi avvicinai e gli tesi la mano.

—Questo è il mio vecchio allievo, David Martín.—Brotons mi strinse la mano di malavoglia e guardò don Basilio.—Lo scrittore?——In persona.—Brotons annuì.—Ne ha di coraggio, a uscire per strada dopo le mazzate che le hanno da-to.

Cosa ci fa qui?——È venuto a supplicare il suo aiuto, benedizione e consiglio su un argomento

di alta investigazione e archeologia del documento— spiegò don Basilio.—E dov'è il sacrificio di sangue?— sbottò Brotons.Deglutii.—Sacrificio?— chiesi.Brotons mi guardò come se fossi idiota.—Una capra, un agnellino, almeno un cappone… —Rimasi di stucco. Brotons sostenne il mio sguardo senza battere ciglio per un

istante infinito. Poi, quando cominciavo a sentire il prurito del sudore sullaschiena, il capo dell'archivio e don Basilio scoppiarono a ridere. Li lasciaisghignazzare di gusto a mie spese finché restarono senza fiato e do-vetteroasciugarsi le lacrime. Chiaramente, don Basilio aveva trovato un'anima gemellanel nuovo collega.

—Venga da questa parte, giovanotto— disse Brotons, la facciata feroce inritirata. —Vediamo cosa le troviamo.—

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28

Gli archivi del giornale si trovavano in uno degli scantinati del palazzo, sotto ilpiano che ospitava il grande macchinario della rotativa, un mostro di tecnologiapostvittoriana che sembrava un incrocio tra una spaventosa locomotiva a vaporee una macchina per fabbricare fulmini.

—Le presento la rotativa, più nota come Leviatano. Faccia attenzione, diconoche si è già divorata più di un incauto— avvertì don Basilio. —È come Giona e labalena, ma con effetto trinciato.—

—A qualcosa servirà.——Uno di questi giorni potremmo buttarci dentro il borsista, quello nuovo, che

dice di essere nipote di Macià e fa tanto il furbetto— propose Brotons.—Decida giorno e ora e festeggiamo con un piatto di cap-i-pota— convenne

don Basilio.Scoppiarono a ridere come due ragazzini. Dio li fa e poi li accoppia, pensai.La sala dell'archivio era un labirinto di corridoi formati da scaffalature alte

tre metri. Un paio di creature pallide, che avevano l'aria di chi non usciva daquello scantinato da quindici anni, svolgevano le funzioni di assistenti di Brotons.Vedendolo, accorsero come cuccioli fedeli in attesa dei suoi ordini. Brotons mirivolse uno sguardo inquisitorio.

—Cosa cerchiamo?——1904. Morte di un avvocato di nome Diego Marlasca. Membro eminente

della buona società barcellonese, socio fondatore dello studio Valera, Marlasca eSentís.—

—Mese?——Novembre.—A un cenno di Brotons, i due assistenti partirono alla ricerca delle copie del

mese di novembre del 1904. A quell'epoca, la morte era tanto presente nel coloredei giorni che la maggioranza dei giornali aprivano ancora la prima pagina congrandi necrologi. C'era da supporre che un personaggio della statura di Marlascaavesse dato origine a più di un articolo sulla stampa cittadina e che il suonecrologio fosse stato materia da prima pagina. Gli assistenti tornarono conparecchi volumi e li depositarono su una grande scrivania. Ci dividemmo icompiti e insieme trovammo il necrologio di don Diego Marlasca in primapagina, come avevo immaginato. L'edizione era del 23 novembre 1904.

— Habemus cadavere— annunciò Brotons, lo scopritore.C'erano quattro necrologi dedicati a Marlasca. Uno della sua famiglia, uno

dello studio, uno dell'ordine degli avvocati di Barcellona e l'ultimodell'associazione culturale dell'Ateneo Barcelonés.

—È il bello dell'essere ricchi. Si muore cinque o sei volte— osservò donBasilio.

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I necrologi in sé non erano granché interessanti. Suppliche per l'animaimmortale del defunto, indicazioni sul fatto che il funerale sarebbe stato riservatoagli intimi, grandiosi soffietti a un grande cittadino, erudito e membroinsostituibile della società barcellonese eccetera eccetera.

—Quello che interessa a lei deve essere nelle edizioni di uno o due giorniprima o dopo— suggerì Brotons.

Sfogliammo i quotidiani della settimana della morte dell'avvocato etrovammo una serie di notizie riguardanti Marlasca. La prima annunciava che ilfamoso erudito era deceduto in un incidente. Don Basilio la lesse a voce alta.

—Questa l'ha scritta un orango— sentenziò. —Tre paragrafi ridondanti chenon dicono niente e solo alla fine si spiega che la morte è stata accidentale, masenza dire di che tipo di incidente si è trattato.—

—Qui c'è qualcosa di interessante— disse Brotons.Un articolo del giorno successivo spiegava che la polizia stava indagando sulle

circostanze dell'incidente per stabilire con precisione l'accaduto.La cosa più interessante era l'affermazione che nel rapporto del medico

legale sulla causa del decesso si diceva che Marlasca era morto annegato.—Annegato?— interruppe don Basilio. —Come? Dove?——Non lo chiarisce. Probabilmente hanno dovuto tagliare il pezzo per in-serire

questa urgente ed estesa apologia della sardana che apre a tre colonne con il titolo« Al suono della tenora: vigore e armonia» — suggerì Brotons.

—Dice chi era il responsabile delle indagini?— domandai.—Un certo Salvador. Ricardo Salvador— disse Brotons.Esaminammo il resto delle notizie relative alla morte di Marlasca, ma non

c'era nulla di interessante. I testi si riversavano gli uni negli altri, ripetendo unacantilena che suonava troppo simile alla linea ufficiale fornita dallo studio diValera e compagni.

—Puzza di insabbiamento— suggerì Brotons.Sospirai, scoraggiato. Avevo sperato di trovare qualcosa di più che semplici

ricordi mielosi e notizie vuote che non chiarivano nulla degli eventi.—Lei non aveva un buon contatto alla polizia?— chiese don Basilio.—Come si chiamava?——Víctor Grandes— disse Brotons.—Magari potrebbe metterla in contatto con quel Salvador.—Tossicchiai e i due omoni mi guardarono con le ciglia aggrottate.—Per ragioni che non c'entrano con questa faccenda, o che forse c'entrano

troppo, preferirei non coinvolgere l'ispettore Grandes— spiegai.Brotons e don Basilio si scambiarono un'occhiata.—D'accordo. Qualche altro nome da cancellare dalla lista?——Marcos e Castelo.——Vedo che non ha perso il talento di farsi amici dovunque vada— osservò

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don Basilio.Brotons si sfregò il mento.—Non ci agitiamo. Credo di poter trovare qualche altra via di accesso che

non induca sospetti.——Se mi trova Salvador, le sacrifico quello che vuole, anche un maiale.——Con questo fatto della gotta, mi hanno tolto gli insaccati, ma non direi di no

a un buon sigaro— disse Brotons.—Due— aggiunse don Basilio.Mentre correvo da un tabaccaio di calle Tallers in cerca dei due esemplari di

Cohiba più prelibati e cari del negozio, Brotons fece un paio di di-screte telefonatealla polizia e confermò che Salvador aveva lasciato il corpo, perché costretto, eaveva iniziato a lavorare come guardaspalle per gli industriali o come detectiveper diversi studi legali della città. Quando tornai in redazione per consegnare isigari ai miei benefattori, il capo dell'archivio mi allungò un appunto con unindirizzo.

Ricardo SalvadorCalle de la Lleona, 21. Ultimo piano.—Che il Signore vi ripaghi— dissi.—E che lei possa vedere quel momento.—

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29

La calle de la Lleona, più conosciuta dai locali come calle dels Tres Llits, dei TreLetti, in onore del celebre postribolo che ospitava, era un vicolo tenebroso quasiquanto la sua reputazione. Partiva dai portici all'ombra di plaza Real e si snodavalungo una fenditura umida ed estranea alla luce del sole tra vecchi palazziammucchiati gli uni sugli altri e cuciti insieme da una perpetua ragnatela di cordedi panni stesi. Dalle sue facciate decrepite si staccavano pezzi di intonaco ocra, ele lastre di pietra che ricoprivano il suolo erano state inzuppate di sangue durantegli anni del pisto-lerismo. Più di una volta l'avevo utilizzata come scenario dellemie storie della Città dei maledetti e perfino adesso, deserta e dimenticata, perme continuava ad avere l'odore degli intrighi e della polvere da sparo. Alla vistadi quel cupo scenario, tutto lasciava credere che il pensionamento forzato delcommissario Salvador dal corpo di polizia non fosse stato generoso.

Il numero 21 era un modesto immobile incassato fra due palazzi che lostringevano come una tenaglia. Il portone, aperto, non era che un pozzo d'ombrada cui partiva una scala stretta e ripida che saliva a spirale. Il pavimento erapieno di pozzanghere, e un liquido scuro e viscoso sgocciava dagli interstizi fra lemattonelle. Salii le scale alla meglio, senza mollare la ringhiera ma senzafidarmene. C'era solo una porta a ogni pianerottolo e, a giudicare dall'aspettodella proprietà, immaginai che nessuno di quegli ap-partamenti superasse iquaranta metri quadri. Un piccolo lucernario coro-nava la tromba delle scale ebagnava di un tenue chiarore i piani superiori.

La porta dell'ultimo piano era in fondo a un piccolo corridoio. Mi sorpresetrovarla aperta. Bussai con le nocche, ma non ebbi risposta. La porta dava su unastanzetta in cui si vedevano una poltrona, un tavolo e una scaffala-tura con libri escatole di latta. Una specie di cucina e di lavanderia occupavano la cameraattigua. L'unica benedizione di quella cella era un terrazzo sul lastrico. Anche laporta del terrazzo era aperta e da lì si insinuava una brezza fresca che portava consé l'odore di cibo e di bucato dei tetti della città vecchia.

—Qualcuno in casa?— chiamai.Non avendo risposta, raggiunsi la porta del terrazzo e mi affacciai fuori.La giungla di tetti, torrette, serbatoi d'acqua, parafulmini e comignoli si

estendeva in ogni direzione. Non avevo fatto nemmeno un passo quando sentii ilferro freddo sulla nuca e lo schiocco metallico di un revolver a cui veniva armatoil percussore. Non mi venne in mente altro che alzare le mani e cercare di nonmuovere nemmeno un sopracciglio.

—Mi chiamo David Martín. Alla polizia mi hanno dato il suo indirizzo.Vorrei parlare con lei di un caso di cui si è occupato quando era in servizio.——Lei entra sempre nelle case della gente senza bussare, signor David Martín?

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—La porta era aperta. Ho chiamato, ma forse non mi ha sentito. Possoabbassare le mani?—

—Non le ho detto di alzarle. Quale caso?——La morte di Diego Marlasca. Sono l'inquilino di quella che è stata la sua

ultima residenza. La casa della torre in calle Flassaders.—La voce tacque. La pressione del revolver era sempre lì, costante.—Signor Salvador?— domandai.—Sto pensando se non sarebbe meglio farle saltare subito le cervella.——Non vuole prima sentire la mia storia?—L'uomo allentò la pressione del revolver. Sentii che il percussore veniva

rilasciato e mi girai lentamente. Ricardo Salvador aveva un aspetto imponente ecupo, i capelli grigi e gli occhi azzurro chiaro penetranti come aghi. Calcolai chedoveva essere sulla cinquantina, ma sarebbe stata dura trovare uomini con lametà dei suoi anni che si azzardassero a sbarrargli la strada. Deglutii. Salvadorabbassò il revolver e mi diede le spalle, tornando all'interno dell'appartamento.

—Mi scusi per l'accoglienza— mormorò.Lo seguii fino alla piccola cucina e mi fermai sulla soglia. Salvador lasciò la

pistola sull'acquaio e accese uno dei fornelli con carta e cartone. Ti-rò fuori unbarattolo di caffè e mi guardò inquisitorio.

—No, grazie.——È l'unica cosa buona che ho, l'avverto— disse.—Allora le faccio compagnia.—Salvador introdusse un paio di generose cucchiaiate di caffè macinato nella

caffettiera, la riempì con l'acqua di una brocca e la mise sul fuoco.—Chi le ha parlato di me?——Qualche giorno fa sono andato a trovare la signora Marlasca, la vedova.È stata lei a parlarmene. Mi ha detto che lei era l'unico ad aver cercato di

scoprire la verità, e che questo fatto le era costato il posto.——È una maniera di descrivere le cose, immagino.—Notai che la menzione della vedova gli aveva intorbidito lo sguardo e mi

chiesi cosa fosse accaduto fra loro in quei giorni di sventura.—Come sta?— domandò. —La signora Marlasca.——Credo che lei le manchi— azzardai.Salvador annuì. La sua ferocia era completamente venuta meno.—È da molto che non vado a trovarla.——La signora crede che lei la incolpi di quello che le è successo. Penso che le

farebbe piacere rivederla, anche se è passato tanto tempo.——Forse ha ragione. Forse dovrei andare a trovarla… ——Può parlarmi di quello che accadde?—Salvador recuperò l'aspetto severo e annuì.—Cosa vuole sapere?—

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—La vedova Marlasca mi ha spiegato che lei non accettò mai la versionesecondo cui suo marito si sarebbe tolto la vita e che aveva dei sospetti.—

—Più che sospetti. Qualcuno le ha raccontato come morì Marlasca?——So solo che parlarono di un incidente.——Morì annegato. O almeno, così diceva il rapporto finale della polizia.——Come annegò?——C'è solo un modo di annegare, ma ci tornerò dopo. La cosa curiosa è dove.

——In mare?—Salvador sorrise. Era un sorriso nero e amaro come il caffè che iniziava a

salire. Salvador lo annusò.—È sicuro di voler sentire questa storia?——Non sono mai stato più sicuro di qualcosa in vita mia.—Mi tese una tazza e mi guardò dall'alto in basso, analizzandomi.—Presumo che lei sia già stato a trovare quel figlio di puttana di Valera.——Se si riferisce al socio di Marlasca, è morto. Ho parlato con il figlio.——Figlio di puttana pure lui, solo con meno fegato. Non so cosa le abbia

raccontato, ma di sicuro non le ha detto che fra tutti e due riuscirono a farmiespellere dal corpo e a trasformarmi in un paria a cui nessuno faceva nemmenol'elemosina.—

—Temo che si sia dimenticato di includerlo nella sua versione dei fatti—ammisi.—Non mi sorprende.——Mi stava raccontando come annegò Marlasca.——È lì che le cose si fanno interessanti— disse Salvador. —Sapeva che il

signor Marlasca, oltre che avvocato, erudito e scrittore, in gioventù era stato duevolte campione della traversata del porto a nuoto organizzata durante le festenatalizie dal Club Natación Barcelona?—

—Come può annegare un campione di nuoto?——Il problema è dove. Il cadavere del signor Marlasca fu trovato nella

cisterna sul tetto del Depósito de las Aguas del Parque de la Ciudadela. Conosce ilposto?—

Deglutii e annuii. Era lì che avevo incontrato Corelli la prima volta.—Se lo conosce saprà che, quando la cisterna è piena, ha solo un metro di

profondità ed è, essenzialmente, una tavola. Il giorno in cui l'avvocato fu trovatomorto, era mezza vuota e il livello dell'acqua non arrivava a sessanta centimetri.—

—Un campione di nuoto non annega in sessanta centimetri— osservai.—Quello che ho detto anch'io.——C'erano altre opinioni?—Salvador sorrise amaro.

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—Per cominciare, è discutibile che sia annegato. Il medico legale che praticòl'autopsia al cadavere trovò un po' d'acqua nei polmoni, ma secondo il suo refertola morte era dovuta a un arresto cardiaco.—

—Non capisco.——Quando Marlasca cadde nella cisterna, o quando qualcuno ce lo spinse, era

in fiamme. Il cadavere presentava ustioni di terzo grado sul torso, sulle braccia esul volto. Secondo il medico legale, il corpo poteva aver bruciato per quasi unminuto prima di entrare in contatto con l'acqua. Resti trovati sui vestitidell'avvocato rivelavano la presenza di qualche tipo di solvente nei tessuti.Marlasca fu bruciato vivo.—

Ci misi qualche secondo a digerire tutto.—Perché qualcuno avrebbe fatto una cosa del genere?——Regolamento di conti? Semplice crudeltà? Scelga lei. La mia opinione è che

qualcuno voleva ritardare l'identificazione del corpo di Marlasca per guadagnaretempo e confondere la polizia.—

—Chi?——Jaco Corbera.——L'agente di Irene Sabino.——Che sparì lo stesso giorno della morte di Marlasca con l'importo di un conto

corrente personale che l'avvocato aveva presso il Banco Hispano Colonial e di cuisua moglie non sapeva nulla.—

—Centomila franchi francesi— dissi.Salvador mi guardò, intrigato.—E lei come fa a saperlo?——Non ha importanza. Cosa ci faceva Marlasca sul tetto del Depósito de las

Aguas? Non è esattamente un luogo di passaggio.——Questo è un altro punto confuso. Trovammo un'agenda nel suo studio con

l'annotazione che aveva lì un appuntamento alle cinque. O così pareva.Sull'agenda figuravano solo un'ora, un luogo e un'iniziale. Una « C» .

Probabilmente, Corbera.——Cosa crede che sia accaduto, allora?— domandai.—Quello che credo, e che l'evidenza suggerisce, è che Jaco ingannò Irene

Sabino perché manipolasse Marlasca. Saprà già che l'avvocato era osses-sionatoda quelle fregature delle sedute spiritiche, specialmente dopo la morte del figlio.Jaco aveva un socio, Damián Roures, introdotto in questi ambienti. Uncommediante fatto e finito. Insieme, e con l'aiuto di Irene Sabino,infinocchiarono Marlasca, promettendogli un contatto con il bambino nel mondodegli spiriti. Marlasca era un uomo disperato e disposto a credere a qualsiasi cosa.Quel trio di vermi aveva organizzato l'affare perfetto finché Jaco non diventò piùavido del dovuto. C'è chi pensa che la Sabino non agisse in malafede, che fossedavvero innamorata di Marlasca e credesse a tutto proprio come lui. Io non ne

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sono convinto, ma agli effetti di quanto accadde è irrilevante. Jaco venne asapere che Marlasca aveva quei fondi in banca e decise di toglierlo di mezzo esparire con il denaro, lasciando una scia di confusione. L'appuntamentosull'agenda poteva essere una pista falsa lasciata dalla Sabino o da Jaco. Nonc'era nessuna prova che l'avesse annotato Marlasca.—

—E da dove provenivano i centomila franchi che l'avvocato aveva al BancoHispano Colonial?—

—Lo stesso Marlasca li aveva depositati in contanti un anno prima. Non ho laminima idea di dove avesse preso una cifra del genere. Quello che so è chequanto ne restava fu prelevato, in contanti, la mattina del giorno in cui morì. Gliavvocati dissero poi che il denaro era stato trasferito a una specie di fondo tutelatoe che non era scomparso: Marlasca aveva semplicemente deciso di riorganizzarele sue finanze. Ma a me risulta difficile credere che uno riorganizzi le sue finanzee sposti quasi centomila franchi al mattino per poi essere bruciato vivo alpomeriggio. Non credo che quel denaro sia finito in qualche fondo misterioso.Oggi come oggi nulla mi convince che non sia finito nelle mani di Jaco Corbera eIrene Sabino. Almeno all'inizio, perché dubito che lei poi abbia mai visto uncentesimo. Ja-co sparì con i soldi. Per sempre.—

—Cosa ne è stato di lei, allora?——Questo è un altro degli aspetti che mi fanno pensare che Jaco abbia in-

gannato Roures e Irene Sabino. Poco dopo la morte di Marlasca, Roures lasciò gliaffari d'oltretomba e aprì un negozio di articoli di magia in calle Princesa. Che iosappia, è ancora lì. Irene Sabino lavorò ancora per un paio di anni in cabaret elocali con ingaggi sempre più bassi. L'ultima cosa che seppi di lei fu che siprostituiva nel Raval e che viveva in miseria. Ovvia-mente non ebbe nemmenouno di quei franchi. E neppure Roures.—

—E Jaco?——La cosa più probabile è che abbia lasciato il paese sotto falso nome e che si

trovi da qualche parte vivendo comodamente di rendita.—In realtà, tutta quella storia, invece di chiarirmi qualcosa, mi spalancava altri

interrogativi. Salvador dovette interpretare il mio sguardo sconfortato e mi rivolseun sorriso di commiserazione.

—Valera e i suoi amici in Comune riuscirono a fare in modo che la stampapubblicasse la versione dell'incidente. Risolse la questione con un funerale di lussoper non intorbidare le acque degli affari dello studio, che in buona parte erano gliaffari del Comune e della Provincia, e sorvolando sullo strano comportamentodel signor Marlasca negli ultimi dodici mesi di vita, da quando aveva abbandonatola famiglia e i soci decidendo di acquistare una casa in rovina in una zona dellacittà in cui non aveva messo il suo piede ben calzato in tutta la vita per dedicarsi,secondo il suo ex socio, a scrivere.—

—Valera disse cosa voleva scrivere Marlasca?—

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—Un libro di poesia o qualcosa del genere.——E lei gli credette?——Ho visto cose ben strane nel mio lavoro, amico mio, ma avvocati pieni di

soldi che mollano tutto per ritirarsi a scrivere sonetti non fanno parte delrepertorio.—

—E allora?——Allora sarebbe stato più ragionevole dimenticarmi della questione e fa-re

quello che mi veniva detto.——Ma non fu così.——No. E non perché sia un eroe o un imbecille. Lo feci perché ogni volta che

vedevo quella povera donna, la vedova Marlasca, mi si rivoltava lo stomaco enon riuscivo più a guardarmi nello specchio senza fare quello che si suppone fossipagato per fare.—

Indicò l'ambiente misero e freddo che gli faceva da casa e rise.—Mi creda, se l'avessi saputo avrei preferito essere un vigliacco e non

mettermi in luce. Non posso dire che alla polizia non mi avessero avvertito. Mortoe sepolto l'avvocato, bisognava voltare pagina e dedicare i nostri sforzi alleindagini su anarchici morti di fame e maestri di scuola dalle idee sospette.—

—Lei dice sepolto… Dov'è la tomba di Diego Marlasca?——Credo nella cappella di famiglia del cimitero di Sant Gervasi, non molto

lontano dalla casa in cui vive la vedova. Posso chiederle il motivo del suointeresse in questa vicenda? E non mi dica che le si è risvegliata la curiosità soloperché abita nella casa della torre.—

—È difficile da spiegare.——Se vuole un consiglio da amico, guardi me e si curi. Lasci perdere.——Mi piacerebbe. Il problema è che non credo che questa storia lascerà

perdere me.—Salvador mi guardò a lungo e annuì. Prese un foglio e annotò un numero.—Questo è il telefono dei vicini di sotto. Sono brave persone e gli unici ad

averlo in tutta la scala. Può trovarmi lì o lasciare un messaggio. Chieda di Emilio.Se ha bisogno di aiuto, non esiti a chiamarmi. E stia attento. Ja-co è sparito discena da molti anni, ma c'è ancora gente a cui non interessa smuovere le acque.Centomila franchi sono una bella cifra.—

Accettai il numero e lo misi via.—La ringrazio.——Di nulla. In fin dei conti, ormai cosa possono farmi?——Non avrebbe una foto di Diego Marlasca? Non ne ho trovata nemmeno una

in tutta la casa.——Non so… Credo che qualcuna dovrei averla. Mi faccia guardare.—Salvador si diresse verso una scrivania nell'angolo della stanza e tirò fuori una

scatola di latta piena di carte.

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—Conservo ancora documenti del caso… Come vede, non imparo nemmenocon gli anni… Ecco, guardi. Questa foto me la diede la vedova.—

Mi tese un vecchio ritratto da studio in cui compariva un uomo alto e dibell'aspetto di quaranta e passa anni che sorrideva alla macchina su uno sfondo divelluto. Mi persi in quello sguardo limpido, chiedendomi come fosse possibile chedietro vi si nascondesse il mondo tenebroso che avevo incontrato nelle pagine diLux Aeterna.

—Posso tenerla?—Salvador esitò.—Credo di sì. Ma non la perda.——Le prometto che gliela restituirò.——Mi prometta di stare attento e sarò più tranquillo. E che se non lo farà e si

metterà nei guai mi chiamerà.—Gli diedi la mano e me la strinse.—Promesso.—

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30

Cominciava a tramontare il sole quando lasciai Ricardo Salvador nella sua freddasoffitta e tornai nella plaza Real inondata da una luce polverosa che dipingeva dirosso le sagome dei passanti. Mi misi a camminare e finii per rifugiarminell'unico posto di tutta la città in cui mi ero sempre sentito protetto e ben accolto.Quando arrivai in calle Santa Ana, la libreria Sempere e Figli stava per chiudere.Il crepuscolo strisciava sulla città e una breccia blu e porpora si era aperta incielo. Mi fermai davanti alla vetrina e vidi che Sempere figlio aveva appenafinito di servire un cliente che stava per andarsene. Quando mi vide, sorrise e misalutò con quella timidezza che sembrava più che altro pudore.

—Proprio a lei stavo pensando, Martín. Tutto bene?——Meglio non si potrebbe.——Glielo si legge in faccia. Su, entri, facciamo un po' di caffè.—Mi si fece incontro e mi cedette il passo. Entrai nella libreria e aspirai quel

profumo di carta e magia che inspiegabilmente a nessuno era ancora venuto inmente di imbottigliare. Sempere figlio mi fece cenno di seguirlo nel retrobottega,dove si mise a preparare una caffettiera.

—E suo padre? Come sta? L'ho visto un po' moscio l'altro giorno.—Sempere figlio annuì, come se fosse grato per la domanda. Mi resi conto che

probabilmente non aveva nessuno con cui parlarne.—Ha visto tempi migliori, è vero. Il medico dice che deve stare attento

all'angina, ma lui insiste a lavorare più di prima. A volte devo arrabbiarmi con lui,ma sembra convinto che se lascia la libreria nelle mie mani andrà tutto acatafascio. Stamattina, quando mi sono alzato, gli ho detto di farmi il favore direstare a letto e di non scendere a lavorare per tutto il giorno.

Ci crede? Tre minuti dopo me lo trovo in sala da pranzo che si mette lescarpe.—

—È un uomo dalle idee salde— convenni.—È testardo come un mulo— replicò. —Meno male che adesso abbiamo un

po' di aiuto, se no… —Sfoderai la mia espressione di sorpresa e innocenza, così sollecita e

spontanea.—La ragazza— chiarì Sempere figlio. —Isabella, la sua assistente. Per questo

stavo pensando a lei. Spero che non le dispiaccia se passa qualche ora qui. A direil vero, così come stanno le cose, il suo aiuto è prezioso, ma se lei è contrario…—

Repressi un sorriso per il modo in cui si era sdilinquito con le due elle diIsabella.

—Be', se è una cosa temporanea… Isabella è davvero una brava ragazza.Intelligente e lavoratrice— dissi. —Assolutamente di fiducia. Andiamo molto

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d'accordo.——Be', lei l'accusa di essere un despota.——Questo dice?——In realtà, ha un soprannome per lei: mister Hyde.——Che angelo. Non ci faccia caso. Sa come sono le donne.——Sì, lo so— replicò Sempere figlio, in un tono che faceva capire che sapeva

molte cose, ma di quella non aveva la minima idea.—Isabella le dice questo di me, ma non creda che a me non dica nulla di lei

— azzardai.Vidi che qualcosa gli si agitava in volto. Lasciai che le mie parole corro-

dessero lentamente gli strati della sua armatura. Mi tese una tazza di caffè con unsorriso premuroso e riprese l'argomento con una scusa che non avrebbe superatoil filtro di un'operetta da quattro soldi.

—Chissà cosa dirà di me— lasciò cadere.Lo tenni a macerare nell'incertezza qualche istante.—Le piacerebbe saperlo?— chiesi casualmente, nascondendo il sorriso dietro

la tazza.Sempere figlio si strinse nelle spalle.—Dice che lei è un uomo buono e generoso, che la gente non la capisce

perché è un po' timido e non vede quello che c'è dietro, cito testualmente, unaspetto da attore cinematografico e una personalità affascinante.—

Sempere figlio deglutì e mi guardò, attonito.—Non le dirò bugie, Sempere, amico mio. Guardi, in realtà sono contento che

abbia tirato fuori l'argomento perché a dire il vero sono giorni che volevoparlarne con lei e non sapevo come fare.—

—Parlare di cosa?—Abbassai la voce e lo fissai negli occhi.—A quattr'occhi, le dirò che Isabella vuole lavorare qui perché l'ammira e

temo sia segretamente innamorata di lei.—Sempere mi guardava al limite dello sconcerto.—Ma un amore puro, eh! Attenzione. Spirituale. Come un'eroina di Dickens,

per capirci. Niente frivolezze né bambinate. Isabella, anche se è giovane, è unadonna. Lo avrà sicuramente notato… —

—Ora che me lo dice… ——E non parlo solo della sua, se mi permette la licenza, squisitamente soffice

cornice, bensì del quadro di bontà e bellezza interiore che porta dentro di sé, inattesa del momento opportuno per emergere e fare di un fortunato l'uomo piùfelice del mondo.—

Sempere non sapeva dove nascondersi.—E inoltre ha dei talenti nascosti. Parla varie lingue. Suona il piano come gli

angeli. Ha una testa per i numeri che nemmeno Isaac Newton. E oltre-tutto

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cucina da schianto. Mi guardi. Sono ingrassato diversi chili da quando lavora perme. Delizie che neanche la Tour d'Argent… Non mi dica che non se n'eraaccorto?—

—Be', non ha detto di saper cucinare… ——Parlo del colpo di fulmine.——A dire il vero… ——Sa cos'è? La ragazza, in fondo, anche se si dà quelle arie da belvetta da

domare, è mansueta e timida fino a estremi patologici. Colpa delle monache, chele rimbambiscono con tutte quelle storie sull'inferno e quelle lezioni di taglio ecucito. Viva la scuola laica.—

—Be', io avrei giurato che mi ritenesse poco meno che stupido— assicuròSempere.

—Eccola. La prova inconfutabile. Sempere, amico mio, quando una donnatratta qualcuno da stupido significa che le si stanno aguzzando le gona-di.—

—Ne è sicuro?——Più che dell'affidabilità del Banco di Spagna. Mi dia retta, di queste co-se

un po' ne capisco.——Così dice mio padre. E cosa devo fare?——Be', dipende. A lei piace la ragazza?——Se mi piace? Non so. Come si fa a sapere se…?——È semplicissimo. Quando la guarda di nascosto le viene voglia come di

morderla?——Morderla?——Sul sedere, per esempio.——Signor Martín… ——Non mi faccia il pudico, siamo tra gentiluomini e si sa che noi maschi

siamo l'anello perduto tra il pirata e il maiale. Le piace o no?——Be', Isabella è una ragazza aggraziata.——Che altro?——Intelligente. Simpatica. Lavoratrice.——Vada avanti.——E una buona cristiana, credo. Non che io sia molto praticante, però… ——Non me ne parli. Isabella va più a messa di quanto si lavi i denti. Le

monache, gliel'ho detto.——Però di morderla, la verità, non mi era venuto in mente.——Finché non gliel'ho suggerito io.——Devo dirle che mi sembra una mancanza di rispetto parlare così di lei, o di

chiunque, e che dovrebbe vergognarsi…— protestò Sempere figlio.— Mea culpa— intonai alzando le mani in segno di resa. —Ma non importa,

perché ognuno manifesta la propria devozione a suo modo. Io sono una creaturafrivola e superficiale, e di lì il mio punto di vista lupesco, ma lei, con quella aurea

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gravitas, è un uomo dai sentimenti mistici e profondi.Quel che conta è che la ragazza l'adora e che il sentimento è reciproco.——Be'… ——Niente be' né ma. Le cose come stanno, Sempere. Lei è un uomo

rispettabile e responsabile. Se fossi io… cosa glielo dico a fare? Ma lei non èuomo che giochi con i sentimenti nobili e puri di una donna in fiore. Mi sbaglio?—

—Credo di no.——Allora è fatta.——Cosa?——Non è chiaro?——No.——È ora di farle la corte.——Prego?——Corteggiare o, in linguaggio scientifico, fare il filo. Vede, Sempere, per

qualche strano motivo, secoli di presunta civiltà ci hanno condotto in unasituazione in cui non ci si può buttare addosso alle donne agli angoli di strada, oproporre loro il matrimonio, così di colpo. Prima bisogna fare lo-ro la corte.—

—Matrimonio? È impazzito?——Quello che voglio dirle è che magari, e questa è una sua idea anche se non

se n'è ancora reso conto, oggi, domani o dopodomani, quando le sarà passata lafifa e non sembrerà che sbavi, alla fine dell'orario di Isabella in libreria, lei lainvita a prendere qualcosa in un posto magico e così vi ren-dete conto una buonavolta di essere fatti l'uno per l'altra. Facciamo a Els Quatre Gats, dove sono un po'spilorci e tengono la luce fioca per rispar-miare corrente, e questo aiuta semprein casi simili. Per la ragazza ordina un dolce di ricotta con una bella cucchiaiata dimiele, che stimola gli appe-titi, e poi, come senza volere, le rifila un paio dibicchieri di quel moscatel-lo che dà alla testa per forza e, mentre le mette lamano sul ginocchio, me la rimbambisce con quello scilinguagnolo che tiene tantoben nascosto, mascalzone.—

—Ma se non so niente di lei, né di quello che le interessa né… ——Le interessano le stesse cose che a lei. I libri, la letteratura, l'odore di questi

tesori che ha qui e la promessa di passione e avventura dei romanzi popolari. Leinteressa sconfiggere la solitudine e non perdere tempo a capire che in questoschifo di mondo niente vale un centesimo se non abbiamo qualcuno con cuicondividerlo. Già sa l'essenziale. Il resto lo impara e se lo gode strada facendo.—

Sempere restò pensieroso, alternando sguardi alla sua tazza di caffè, intatta, eal sottoscritto, che manteneva di riffa o di raffa il suo sorriso da venditore di titolidi borsa.

—Non so se ringraziarla o denunciarla alla polizia— disse alla fine.In quel momento si sentirono i passi pesanti di Sempere padre in libreria.

Pochi secondi dopo si affacciava nel retrobottega e ci guardava aggrottando le

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ciglia.—E allora? Nessuno che bada al negozio e qui in due a fare chiacchiere come

se fosse la festa del patrono? E se entra qualche cliente? O uno svergognato che siporta via tutto?—

Sempere figlio sospirò, alzando gli occhi al cielo.—Non abbia paura, signor Sempere, i libri sono l'unica cosa al mondo che

non si ruba— dissi facendogli l'occhiolino.Un sorriso complice gli illuminò il volto. Sempere figlio ne approfittò per

sfuggire alle mie grinfie e svignarsela in libreria. Suo padre si sedette accanto ame e annusò la tazza di caffè lasciata intatta dal figlio.

—Cosa dice il medico della caffeina per il cuore?— chiesi.—Quello non si trova le chiappe nemmeno con un manuale di anatomia.Cosa vuole che ne sappia del cuore?——Più di lei, sicuro— replicai, togliendogli la tazza dalle mani.—Ma se sono un toro, Martín.——Un mulo, ecco cos'è. Mi faccia il favore di rientrare in casa e di mettersi a

letto.——A letto vale la pena di stare soltanto quando si è giovani e in compagnia.——Se vuole compagnia, gliela cerco, però non credo che ci troviamo nella

congiuntura cardiaca adeguata.——Martín, alla mia età l'erotismo si riduce ad assaporare un crème caramel e

a guardare il collo alle vedove. A preoccuparmi è l'erede. Qualche pro-gresso suquesto terreno?—

—Siamo in fase di concimazione e semina. Bisogna vedere se il clima ci aiutae avremo qualcosa da raccogliere. In due o tre giorni posso farle una previsioneal rialzo con il sessanta o settanta per cento di affidabilità.—

Sempere sorrise, compiaciuto.—Colpo da maestro, quello di mandarmi Isabella come commessa— disse.—Ma non la vede un po' troppo giovane per mio figlio?——Quello che vedo un po' immaturo è lui, se devo essere sincero. O si sveglia

o Isabella se lo mangia crudo in cinque minuti. Meno male che è di buoncarattere, se no… —

—Come posso ringraziarla?——Rientrando in casa e mettendosi a letto. Se ha bisogno di compagnia

piccante, si porti Fortunata e Jacinta. ——Ha ragione. Don Benito Pérez-Galdós non tradisce mai.——Neanche volendo. Su, in branda.—Sempere si alzò. Gli costava muoversi e respirava a fatica, con un soffio

rauco che faceva drizzare i capelli in testa. Lo presi per il braccio per aiutarlo emi accorsi che la sua pelle era fredda.

—Non si spaventi, Martín. È il mio metabolismo, un po' lento.—

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—Oggi mi sembra come quello di Guerra e pace. ——Un pisolino e ritorno come nuovo.—Decisi di accompagnarlo fino all'appartamento in cui abitavano padre e figlio,

proprio sopra la libreria, e di assicurarmi che si infilasse sotto le coperte. Cimettemmo un quarto d'ora a fare le scale. Lungo il cammino in-contrammo unodei vicini, don Anacleto, un affabile professore che dava lezioni di lingua eletteratura dai gesuiti di Casp e stava ritornando a casa.

—Come va la vita oggi, Sempere, amico mio?——In salita, don Anacleto.—Con l'aiuto del professore riuscii ad arrivare al primo piano con Sempere

praticamente appeso al collo.—Con il vostro permesso, vado a riposarmi dopo una lunga giornata di

battaglia con quel branco di primati che ho come alunni— annunciò il professore.—Ve lo dico io, questo paese si disintegrerà nello spazio di una generazione. Siscanneranno gli uni con gli altri come topi.—

Sempere fece un'espressione come a dirmi di non fare troppo caso a donAnacleto.

—Brav'uomo— mormorò —ma affoga in un bicchier d'acqua.—Entrando in casa, mi assalì il ricordo di quella lontana mattina in cui ero

arrivato lì insanguinato, con una copia di Grandi speranze tra le mani, e Semperemi aveva portato in braccio fino in casa e mi aveva offerto una tazza dicioccolata calda, che avevo bevuto mentre aspettavamo il dottore e lui misussurrava parole tranquillizzanti e mi puliva il sangue con un asciugamanotiepido e una delicatezza che nessuno mi aveva mai dimostrato prima. A queitempi, Sempere era un uomo forte che mi pareva un gigante in tutti i sensi esenza il quale non credo sarei sopravvissuto a quegli anni di scarsa fortuna. Pocoo nulla restava di quella forza mentre lo soste-nevo tra le braccia per aiutarlo ainfilarsi a letto e gli mettevo addosso un paio di coperte. Mi sedetti accanto a lui egli presi la mano senza sapere cosa dire.

—Senta, se cominciamo tutti e due a piangere come Maddalene, meglio chese ne vada— disse lui.

—Si riguardi, ha capito?——Fra la bambagia, non abbia paura.—Annuii e mi diressi all'uscita.—Martín?—Mi voltai sulla soglia. Sempere mi fissava con la stessa preoccupazione con

cui mi aveva guardato quella mattina in cui avevo perso qualche dente e buonaparte dell'innocenza. Me ne andai prima che mi domandasse cosa mi stavasuccedendo.

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31

Una delle prime risorse dello scrittore professionista che Isabella aveva imparatoda me era l'arte e la pratica di procrastinare. Ogni veterano del mestiere sa chequalunque occupazione, dal temperare la matita al catalo-gare le ragnatele, ha lapriorità al momento di sedersi alla scrivania per spremersi le meningi. Isabellaaveva assorbito per osmosi questa lezione fondamentale e quando arrivai a casa,invece di trovarla allo scrittoio, la sorpresi in cucina a dare gli ultimi ritocchi auna cena che aveva un profumo e un aspetto come se la sua elaborazione avesserichiesto molte ore.

—Festeggiamo qualcosa?— chiesi.—Con la faccia che ha, non credo proprio.——Cosa c'è di buono?——Anatra caramellata con pere al forno e salsa al cioccolato. Ho trovato la

ricetta in uno dei suoi libri di cucina.——Io non ho libri di cucina.—Isabella si alzò e prese un volume rilegato in pelle che depositò sul tavolo.

Titolo: Le 101 migliori ricette della cucina francese, di Michel Aragon.—Questo lo crede lei. In seconda fila, sugli scaffali della biblioteca, ho trovato

di tutto, perfino un manuale di igiene matrimoniale del dottor Pé—rez-Aguado con illustrazioni molto esplicite e frasi del tipo « la femmina, per

disegno divino, non conosce desiderio carnale e la sua realizzazione spirituale esentimentale si sublima nell'esercizio naturale della maternità e dei lavoridomestici» . Lì ci sono le miniere del re Salomone.—

—E si può sapere cosa cercavi nella seconda fila degli scaffali?——Ispirazione. E l'ho trovata.——Però di tipo culinario. Eravamo rimasti che avresti scritto tutti i giorni, con o

senza ispirazione.——Mi sono arenata. E la colpa è sua, perché mi fa fare più lavori e mi

coinvolge nei suoi intrighi con quel santarellino di Sempere figlio.——Ti sembra bello prenderti gioco dell'uomo che è perdutamente innamorato

di te?——Cosa?——Mi hai sentito. Sempere figlio mi ha confessato che gli hai rubato il sonno.

Letteralmente. Non dorme, non mangia, non beve, non può nemmeno orinare, ilpoveretto, a furia di pensare a te tutto il giorno.—

—Lei delira.——A delirare è il povero Sempere. Avresti dovuto vederlo. Sono stato lì lì per

sparargli un colpo e liberarlo dal dolore e dalla miseria che lo ango-sciano.——Ma se non mi dà nemmeno retta— protestò Isabella.—Perché non sa come aprire il suo cuore e trovare le parole per esprimere i

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suoi sentimenti. Noi uomini siamo così. Brutali e primitivi.——Comunque ha saputo trovarle le parole per sgridarmi, quando ho sbagliato a

sistemare la collana degli Episodi nazionali. Bello scilinguagnolo.——Non è la stessa cosa. Un conto sono i rapporti amministrativi e un altro il

linguaggio della passione.——Stupidaggini.——Non c'è niente di stupido nell'amore, esimia assistente. Ma, cambiando

argomento, ceniamo o no?—Isabella aveva imbandito una tavola intonata con il banchetto che aveva

cucinato, mettendo in campo un arsenale di piatti, posate e bicchieri che nonavevo mai visto.

—Non so come mai, avendo queste cose bellissime, non le usa. Teneva tuttoin qualche cassa nella stanza accanto alla lavanderia— disse Isabella.

—È proprio un uomo… —Sollevai uno dei coltelli e lo osservai alla luce delle candele disposte da

Isabella. Capii che si trattava delle posate personali di Diego Marlasca e sentii cheperdevo completamente l'appetito.

—Cosa c'è?— domandò Isabella.Scossi la testa. La mia assistente mi servì due piatti e rimase a guardarmi, in

attesa. Provai il primo boccone e sorrisi, annuendo.—Buonissima— dissi.—Un po' gommosa, credo. La ricetta diceva che bisognava arrostirla a fuoco

lento per non so quanto tempo, ma con la sua cucina il fuoco o è i-nesistente obrucia tutto, non c'è via di mezzo.—

—È buona— ripetei, mangiando senza avere fame.Isabella mi guardava di sottecchi. Continuammo a cenare in silenzio, con il

tintinnio di piatti e posate per unica compagnia.—Diceva sul serio a proposito di Sempere figlio?—Annuii senza alzare gli occhi dal piatto.—E cos'altro le ha detto di me?——Che hai una bellezza classica, che sei intelligente, intensamente femminile,

perché lui è così, un po' vezzoso, e che sente un legame spirituale tra di voi.—Isabella mi infilzò con uno sguardo assassino.—Giuri che non se lo sta inventando— disse.Misi la mano destra sul libro di ricette e sollevai la sinistra.—Lo giuro sulle 101 migliori ricette della cucina francese— dichiarai.—Si giura con l'altra mano.—Cambiai mano e ripetei l'operazione con espressione solenne. Isabella sospirò.—E cosa devo fare?——Non lo so. Cosa fanno gli innamorati? Vanno a passeggio, a ballare… ——Ma io non sono innamorata di quel signore.—

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Continuai a degustare l'anatra caramellata, incurante delle sue occhiateinsistenti. Dopo un po', Isabella diede una manata sul tavolo.

—Mi faccia il piacere di guardarmi. La colpa è tutta sua.—Lasciai le posate con calma, mi pulii con il tovagliolo e la guardai.—Cosa devo fare?— chiese di nuovo.—Dipende. Ti piace Sempere o no?—Una nube di dubbi le attraversò il viso.—Non lo so. Per cominciare, è un po' vecchio per me.——Ha praticamente la mia età— osservai. —Al massimo, uno o due anni in

più. Forse tre.——O quattro o cinque.—Sospirai.—È nel fiore della vita. Eravamo rimasti che ti piacevano un po' maturi.——Non si prenda gioco di me.——Isabella, non sono io che posso dirti cosa devi fare… ——Questa sì che è buona.——Lasciami finire. Voglio dire che questa è una cosa fra Sempere e te. Se mi

chiedi un consiglio, ti direi di dargli una possibilità. Niente di più. Se uno di questigiorni decide di fare il primo passo e ti invita, diciamo, a prendere qualcosa,accetta. Magari cominciate a parlare e vi conoscete e finite per diventare grandiamici, o magari no. Però credo che Sempere sia un brav'uomo, il suo interesseper te è genuino e oserei dire che, se ci pensi, in fondo anche tu provi qualcosaper lui.—

—Lei è pieno di fissazioni.——Ma Sempere no. E credo che non rispettare l'affetto e l'ammirazione che

prova per te sarebbe meschino. E tu non lo sei.——Questo è un ricatto sentimentale.——No, è la vita.—Isabella mi fulminò con lo sguardo. Le sorrisi.—Almeno, mi faccia il piacere di finire la cena— ordinò.Svuotai il piatto, lo ripulii con il pane e mi lasciai sfuggire un sospiro di

soddisfazione.—Cosa c'è per dessert?—Dopo cena, lasciai un'Isabella meditabonda nella sala di lettura a macerare i

suoi dubbi e le sue inquietudini e salii allo studio della torre. Tirai fuori la foto diDiego Marlasca che mi aveva prestato Salvador e la misi ai piedi della lampada.Subito dopo diedi uno sguardo alla piccola cittadella di bloc notes, appunti e fogliche avevo via via accumulato per il principale. Con il gelo delle posate di DiegoMarlasca ancora sulle dita, non feci fatica a immaginarlo seduto lì, acontemplare lo stesso panorama sui tetti della Ribera. Presi a caso una delle miecartelle e iniziai a leggere. Riconoscevo le parole e le frasi perché le avevo scritte

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io, ma lo spirito torbido che le nutriva mi era più lontano che mai. Lasciai cadereil foglio a terra e alzai lo sguardo per trovare il mio riflesso sul vetro dellafinestra, uno sconosciuto sulle tenebre azzurrate che seppellivano la città. Capiiche quella notte non avrei potuto lavorare, che non sarei stato in grado diimbastire un solo paragrafo per il principale. Spensi la luce della scrivania erimasi seduto nella penombra, ascoltando il vento che graffiava le finestre eimmaginando Diego Marlasca che precipitava in fiamme nelle acque dellacisterna, mentre le ultime bolle d'aria gli uscivano dalle labbra e il liquido gelidogli inondava i polmoni.

Mi svegliai all'alba dolorante e incastrato nella poltrona dello studio. Mi alzai esentii scrocchiare due o tre ingranaggi della mia anatomia. Mi trascinai allafinestra e la spalancai. I tetti della città vecchia brillavano di brina e un cieloporpora si stendeva sopra Barcellona. Al suono delle campane di Santa Maria delMar, una nuvola di ali nere si alzò in volo da una piccionaia. Un vento freddo etagliente mi portò l'odore dei moli e delle ceneri di carbone che uscivano dalleciminiere del quartiere.

Scesi nell'appartamento e andai in cucina a preparare il caffè. Diediun'occhiata alla credenza e restai attonito. Da quando avevo in casa Isabella, lamia dispensa somigliava al negozio di alimentari Quilmes sulla Rambla deCatalunya. In mezzo alla sfilata di manicaretti esotici importati dal negozio delpadre di Isabella, trovai una scatola di latta di biscotti in-glesi ricoperti dicioccolato e decisi di provarli. Mezz'ora dopo, quando le vene iniziarono apompare zucchero e caffeina, il cervello si mise in moto ed ebbi la geniale ideadi iniziare la giornata complicandomi, se possibile, un po' di più la vita. Appenascoccato l'orario di apertura, avrei fatto una visita al negozio di articoli di magia eprestidigitazione di calle Princesa.

—Cosa fa sveglio a quest'ora?—La voce della mia coscienza, Isabella, mi osservava dalla soglia.—Mangio biscotti.—Isabella si sedette a tavola e si versò una tazza di caffè. Aveva l'aria di chi non

ha chiuso occhio.—Mio padre dice che è la marca preferita della regina madre.——Perciò è così bella.—Prese un biscotto e lo mordicchiò con aria assente.—Hai pensato a cosa fare? Con Sempere, intendo dire… —Isabella mi lanciò un'occhiata velenosa.—E lei cosa farà oggi? Niente di buono, sicuramente.——Un paio di commissioni.——Già.——Già, già? O già, avverbio di tempo?—Isabella posò la tazza sul tavolo e mi affrontò con la sua espressione da

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interrogatorio sommario.—Perché non parla mai di quello che sta combinando con quel tipo, il suo

principale?——Fra le altre cose, per il tuo bene.——Per il mio bene. Certo. Che stupida. A proposito, mi sono dimenticata di

dirle che ieri è passato il suo amico, l'ispettore.——Grandes? Era solo?——No. Con un paio di sgherri grandi come armadi e con la faccia da cani

paciosi.—L'idea di Marcos e Castelo alla mia porta mi fece venire un nodo allo

stomaco.—E cosa voleva Grandes?——Non l'ha detto.——E allora cos'ha detto?——Mi ha chiesto chi ero.——E tu cos'hai risposto?——Che ero la sua amante.——Davvero spiritosa.——Be', uno dei ragazzoni si è divertito molto.—Isabella prese un altro biscotto e lo divorò in due morsi. Si accorse che la

stavo guardando di sottecchi e smise subito di masticare.—Cosa ho detto?— chiese, spruzzando una nuvola di briciole di biscotto.

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32

Un dito di luce vaporosa scendeva dal manto di nuvole e accendeva la pitturarossa della facciata del negozio di articoli di magia di calle Princesa. La bottega sitrovava dietro un paravento di legno scolpito. Le vetrate della porta lasciavanointravedere a stento i contorni di un interno cupo e rivestito da tendaggi di vellutonero che avvolgevano vetrine con maschere e aggeggi di gusto vittoriano, mazzidi carte truccati e daghe con i contrap-pesi, libri di magia e boccette di vetromolato che contenevano un arcoba-leno di liquidi con le etichette in latino eprobabilmente imbottigliati ad Albacete. Il campanello dell'entrata annunciò lamia presenza. In fondo c'e-ra un bancone deserto. Attesi qualche secondo,esaminando la raccolta di curiosità del bazar. Stavo cercando il mio volto in unospecchio nel quale si rifletteva tutto il negozio tranne me, quando scorsi con lacoda dell'occhio una figura minuta che si affacciava da dietro la tenda delretrobottega.

—Un trucco interessante, vero?— disse l'ometto dai capelli bianchi e dallosguardo penetrante.

Annuii.—Come funziona?——Non lo so ancora. Mi è arrivato un paio di giorni fa da un fabbricante di

specchi truccati di Istanbul. L'autore la chiama inversione refrattaria.——Ci ricorda che niente è quello che sembra— notai.—Eccetto la magia. In cosa posso esserle utile?——Parlo con il signor Damián Roures?—L'ometto annuì lentamente, senza battere ciglio. Notai che aveva le labbra

atteggiate in una smorfia sorridente che, come il suo specchio, non era quello chesembrava. Lo sguardo era freddo e guardingo.

—Mi hanno raccomandato il suo negozio.——Posso chiedere chi è stato così gentile?——Ricardo Salvador.—Il tentativo di sorriso affabile gli si cancellò dalla faccia.—Non sapevo che fosse ancora vivo. Non lo vedo da venticinque anni.——E Irene Sabino?—Roures sospirò, scuotendo la testa. Aggirò il bancone e si avvicinò alla porta.

Appese il cartello con la scritta « Chiuso» e diede due giri di chiave.—Chi è lei?——Mi chiamo Martín. Sto cercando di chiarire le circostanze della morte del

signor Diego Marlasca, e so che lei lo conosceva.——Che io sappia, sono state chiarite molti anni fa. Il signor Marlasca si suicidò.

——Io avevo capito un'altra cosa.—

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—Non so cosa le abbia raccontato quel poliziotto. Il risentimento danneggia lamemoria, signor… Martín. Salvador ha già provato a suo tempo a vendere lastoria di un complotto di cui non aveva nessuna prova. Tutti sapevano che stavascaldando il letto alla vedova Marlasca e che voleva fare l'eroe della situazione.Come c'era da attendersi, i suoi superiori lo misero in riga e lo espulsero dalcorpo.—

—Lui crede che ci fu un tentativo di nascondere la verità.—Roures rise.—La verità… Non mi faccia ridere. Quello che si cercò di coprire fu lo

scandalo. Lo studio di Valera e Marlasca aveva le mani in pasta in quasi tutti gliaffari di questa città. A nessuno interessava che venisse fuori una storia comequella. Marlasca aveva abbandonato la sua posizione sociale, il lavoro e la moglieper chiudersi in quella casa a fare Dio sa cosa. Chiunque con un po' di sale inzucca poteva immaginare che non sarebbe andata a finire bene.—

—Questo non impedì a lei e al suo socio Jaco di mettere a frutto la pazzia diMarlasca promettendogli la possibilità di entrare in contatto con l'aldilà nellevostre sedute spiritiche… —

—Non gli ho mai promesso niente. Quelle sedute erano un semplicedivertimento. Lo sapevano tutti. Non cerchi di scaricarmi addosso il morto, io nonfacevo altro che guadagnarmi la vita onestamente.—

—E il suo socio Jaco?——Io rispondo di me. Quello che faceva Jaco non era responsabilità mia.——Dunque qualcosa fece.——Cosa vuole che le dica? Che si portò via i soldi che Salvador insisteva a dire

che erano su un conto segreto? Che ammazzò Marlasca e ci ingannò tutti?——E non andò così?—Roures mi guardò a lungo.—Non lo so. Non l'ho più visto dal giorno che morì Marlasca. Ho già detto a

Salvador e agli altri poliziotti quello che sapevo. Non ho mai mentito.Mai. Se Jaco ha fatto qualcosa, non l'ho mai saputo e non ne ho ricavato nulla.

——Cosa mi dice di Irene Sabino?——Irene amava Marlasca. Non avrebbe mai fatto niente per danneggiarlo.——Sa cosa ne è stato di lei? È ancora viva?——Credo di sì. Mi hanno detto che lavorava in una lavanderia del Raval.Irene era una brava donna. Troppo buona. È finita così. Lei credeva a quelle

cose. Ci credeva col cuore.——E Marlasca? Cosa cercava in quel mondo?——Marlasca era impelagato in qualcosa, non mi chieda cosa. Qualcosa che né

io né Jaco gli avevamo venduto né potevamo vendergli. So quello che sentii direuna volta da Irene. A quanto pareva, Marlasca aveva incontrato qualcuno,

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qualcuno che io non conoscevo, e mi creda che conoscevo e conosco tuttinell'ambiente, che gli aveva promesso che se faceva qualcosa, non so cosa,avrebbe riscattato il figlio Ismael dal regno dei morti.—

—Irene disse chi era questo qualcuno?——Lei non l'aveva mai visto. Marlasca non glielo permetteva. Ma lei sapeva

che lui aveva paura.——Paura di cosa?—Roures fece schioccare la lingua.—Credeva che fosse maledetto.——Si spieghi.——Gliel'ho già detto. Era malato. Era convinto che qualcosa gli si fosse

insinuato dentro.——Qualcosa?——Uno spirito. Un parassita. Non lo so. Vede, in questo ambiente si conosce

molta gente che non ha esattamente la testa a posto. Gli capita una tragediapersonale, perdono un amante o una fortuna e precipitano in un buco nero. Ilcervello è l'organo più fragile del corpo. Il signor Marlasca era fuori di testa, echiunque ci parlasse per cinque minuti poteva rendersene conto. Perciò venne dame.—

—E lei gli disse quello che voleva sentire.——No. Gli dissi la verità.——La sua verità?——L'unica che conosco. Mi sembrò che quell'uomo fosse seriamente squi-

librato e non volli approfittarmi di lui. Queste cose non finiscono mai be-ne. Inquesta attività c'è un limite che uno non attraversa se sa cosa gli conviene. Chiarriva in cerca di divertimento o di un po' di emozioni e di consolazionedall'aldilà, viene servito e ci si fa pagare per il lavoro prestato. Ma chi arriva giàsul punto di perdere la ragione viene rimandato a ca-sa. Si tratta di uno spettacolocome qualunque altro. Si ha bisogno di spet-tatori, non di illuminati.—

—Un'etica esemplare. Cosa disse, allora, a Marlasca?——Che erano tutte superstizioni, favole. Gli dissi che ero un commediante che

si guadagnava da vivere organizzando sedute spiritiche per poveri disgraziati cheavevano perduto i loro cari e avevano bisogno di credere che amanti, padri eamici li aspettassero nell'altro mondo. Gli dissi che non c'e-ra niente dall'altraparte, solo un grande vuoto, che questo mondo era tutto quanto avevamo. Gli dissidi scordarsi degli spiriti e di tornare dalla sua famiglia.—

—E lui le credette?——Evidentemente no. Smise di venire alle sedute e cercò aiuto altrove.——Dove?——Irene era cresciuta nelle baracche della spiaggia del Bogatell e, anche se

era diventata famosa ballando e recitando nel Paralelo, apparteneva ancora a

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quel quartiere. Mi raccontò di aver portato Marlasca da una donna chechiamavano la Strega del Somorrostro per chiedergli protezione dalla personacon cui lui era in debito.—

—Irene disse il nome di questa persona?——Se lo fece, non lo ricordo. Le ho già detto che smisero di venire alle sedute.

——Andreas Corelli?——Non l'ho mai sentito nominare.——Dove posso trovare Irene Sabino?——Le ho già detto tutto quello che so— replicò Roures, esasperato.—Un'ultima domanda e me ne vado.——Vediamo se è vero.——Ricorda se ha mai sentito Marlasca parlare di qualcosa chiamato Lux

Aeterna?—Roures aggrottò le sopracciglia, negando con la testa.—Grazie per il suo aiuto.——Di nulla. E, se possibile, non si faccia più vedere.—Annuii e mi diressi all'uscita. Roures mi seguiva con gli occhi, sospetto-so.—Aspetti— disse prima che attraversassi la soglia del retrobottega.Mi girai. L'ometto mi osservava, esitante.—Credo di ricordare che Lux Aeterna era il titolo di una specie di pamphlet

religioso che usavamo qualche volta nelle sedute dell'appartamento di calleElisabets. Faceva parte di una collana di libretti simili, probabilmente preso inprestito dalla biblioteca di superstizioni della società El Porvenir. Non so se èquello a cui lei si riferisce.—

—Ricorda di cosa trattava?——Chi lo conosceva meglio era il mio socio, Jaco, che conduceva le sedute.

Però, a quanto ricordo, Lux Aeterna era un poema sulla morte e i sette nomi delFiglio del Mattino, il Portatore della Luce.—

—Il Portatore della Luce?—Roures sorrise.—Lucifero.—

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33

Una volta in strada, mi incamminai verso casa chiedendomi cosa avrei fatto aquel punto. Ero quasi all'imbocco di calle Moncada quando lo vidi.

L'ispettore Víctor Grandes, appoggiato al muro, assaporava una sigaretta e misorrideva. Mi salutò con la mano e attraversai la strada per andargli incontro.

—Non sapevo che fosse interessato alla magia, Martín.——E io non sapevo che lei mi seguisse, ispettore.——Non la seguo. Ma lei è un uomo difficile da trovare, così ho deciso che se la

montagna non veniva da me, sarei andato io alla montagna. Ha cinque minuti perbere qualcosa? Offre il Comando di polizia.—

—In questo caso… Non si è portato gli chaperon oggi?——Marcos e Castelo sono rimasti al Comando a sbrigare pratiche, però se

avessi detto che venivo da lei si sarebbero precipitati.—Scendemmo lungo il canyon di vecchi palazzi medievali fino a El Xam-

panyet e trovammo un tavolo in fondo al locale. Un cameriere armato di unostraccio che puzzava di varechina ci guardò e Grandes ordinò un paio di birre eun piattino di formaggio. Quando arrivarono le birre e lo stuzzi-chino l'ispettoremi offrì il piatto, ma declinai l'invito.

—Le dispiace? A quest'ora ho una fame che non mi reggo in piedi.—— Bon appétit. —Grandes inghiottì un pezzo di formaggio e se lo gustò a occhi chiusi.—Non le hanno detto che ieri sono passato da casa sua?——Mi hanno avvisato tardi.——Comprensibile. Senta, che gioiellino, la bambina. Come si chiama?——Isabella.——Canaglia, che bella vita fa qualcuno. La invidio. Quanti anni ha il

bocconcino?—Gli lanciai un'occhiata velenosa. L'ispettore sorrise compiaciuto.—Mi ha detto un uccellino che lei ultimamente si è messo a fare il detective.

Non lascia niente a noi professionisti?——Come si chiama il suo uccellino?——È piuttosto un uccellaccio. Uno dei miei superiori è intimo dell'avvocato

Valera.——Anche lei nell'organico dell'avvocato?——Ancora no, amico mio. Mi conosce, ormai. Vecchia scuola. L'onore e tutte

quelle stronzate.——Peccato.——E mi dica, come sta il povero Ricardo Salvador? Sa che da una ventina

d'anni non sentivo quel nome? Lo davano tutti per morto.——Una diagnosi precipitosa.—

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—E come sta?——Solo, tradito e dimenticato.—L'ispettore annuì lentamente.—Fa pensare al futuro che riserva questo mestiere, vero?——Scommetto che nel suo caso le cose andranno diversamente e che l'ascesa

ai vertici del corpo è questione di un paio d'anni. La vedo direttore generaleprima dei quarantacinque, a baciare mani a vescovi e generali dell'esercito allasfilata del Corpus Domini.—

Grandes annuì freddamente, ignorando il tono sarcastico.—A proposito di baciamano, ha saputo del suo amico Vidal?—Grandes non iniziava mai una conversazione senza un asso nascosto nella

manica. Mi osservò sorridendo, assaporando la mia inquietudine.—Cosa?— mormorai.—Dicono che l'altra notte la moglie ha cercato di suicidarsi.——Cristina?——È vero, lei la conosce… —Non mi resi conto che mi ero alzato e che mi tremavano le mani.—Calma. La signora Vidal sta bene. Solo uno spavento. A quanto pare, le è

scappata la mano con il laudano… Mi faccia il piacere di sedersi, Martín.Per favore.—Mi sedetti. Lo stomaco mi si era aggrovigliato in un nodo di chiodi.—Quando è successo?——Due o tre giorni fa.—Mi venne alla memoria l'immagine di Cristina alla finestra di Villa Helius

giorni prima, quando mi salutava con la mano mentre io sfuggivo il suo sguardo ele davo le spalle.

—Martín?— chiese l'ispettore, passandomi la mano davanti agli occhi co-mese temesse che fossi completamente partito.

—Sì?—L'ispettore mi osservò con quella che sembrava genuina preoccupazione.—Ha qualcosa da raccontarmi? So che non mi crederà, ma mi piacerebbe

aiutarla.——Crede ancora che sia stato io a uccidere Barrido e il socio?—Grandes negò.—Non l'ho mai creduto, ma ad altri piacerebbe farlo.——Allora perché indaga su di me?——Si tranquillizzi. Non sto indagando su di lei, Martín. Non l'ho mai fatto.Il giorno che lo farò se ne accorgerà. Per il momento la osservo. Mi è

simpatico e mi preoccupo che finisca in qualche guaio. Perché non si fida di mee non mi dice cosa sta succedendo?—

I nostri sguardi si incontrarono e per un istante fui tentato di raccontargli tutto.

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L'avrei fatto, se avessi saputo da dove cominciare.—Non succede niente, ispettore.—Grandes annuì e mi guardò con compassione, o forse solo con delusione.Finì la sua birra e lasciò qualche moneta sul tavolo. Mi diede una pacca sulla

spalla e si alzò.—Si riguardi, Martín. E stia attento a dove mette i piedi. Non tutti l'ap-

prezzano come me.——Me ne ricorderò.—Era quasi mezzogiorno quando tornai a casa senza riuscire a non pensare a

quello che mi aveva raccontato l'ispettore. Salii i gradini della scalinatalentamente, come se mi pesasse finanche l'anima. Aprii la porta temendo ditrovare un'Isabella in vena di conversazione. La casa era silenziosa. Percorsi ilcorridoio fino al salotto in fondo e la trovai lì, addormentata sul divano con unlibro aperto sul petto, uno dei miei vecchi romanzi. Non potei evitare di sorridere.In quei giorni d'autunno, la temperatura in casa era scesa sensibilmente e temettiche potesse prendere freddo. A volte la vedevo girare per casa con una mantelladi lana sulle spalle. Andai un istante nella sua stanza per cercarla e metterglielaaddosso con circospezione. La porta era socchiusa e, sebbene fossi in casa mia,sta di fatto che non entravo in quella stanza da quando Isabella vi si era sistemataed ebbi qualche remora a farlo. Scorsi la mantella piegata su una sedia ed entraia prenderla. La stanza profumava dell'aroma dolce e limonoso di Isabella. Il lettoera ancora disfatto e mi chinai per aggiustare le lenzuola e le coperte, sapendoche quando mi dedicavo a qualche lavoro domestico la mia categoria moraleguadagnava punti agli occhi della mia assistente.

Fu allora che notai qualcosa tra il materasso e la rete. L'angolo di un fogliospuntava dalla rimboccatura del lenzuolo. Quando lo tirai, vidi che si trattava di unplico. Lo estrassi completamente e mi ritrovai fra le mani quelle che sembravanouna ventina di buste di carta azzurra legate da un nastro. Mi sentii invadere da unasensazione di gelo, ma negai dentro di me. Sciolsi il nodo del nastro e presi unadelle buste. C'erano il mio nome e il mio indirizzo. Il mittente dicevasemplicemente Cristina.

Mi sedetti sul letto di spalle alla porta ed esaminai i timbri postali, uno dopol'altro. Il primo era vecchio di diverse settimane, l'ultimo di tre giorni prima.Tutte le buste erano aperte. Chiusi gli occhi e sentii che le lettere mi cadevano dimano. La sentii respirare alle mie spalle, immobile sulla soglia.

—Mi perdoni— mormorò Isabella.Si avvicinò lentamente e si inginocchiò per raccogliere le lettere, a una a una.

Quando le ebbe riunite tutte, me le tese con uno sguardo ferito.—L'ho fatto per proteggerla— disse.Le si riempirono gli occhi di lacrime e mi posò la mano sulla spalla.—Vattene— dissi.

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La scostai da me e mi alzai. Isabella si lasciò cadere a terra, gemendo comese qualcosa le bruciasse dentro.

—Vattene da questa casa.—Uscii senza prendermi la briga di chiudermi la porta alle spalle. Arrivai in

strada e mi trovai di fronte un mondo di facciate e volti estranei e lontani. Mi misia camminare senza meta, indifferente al freddo e a quel vento impregnato dipioggia che cominciava a sferzare la città con il respiro di una maledizione.

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34

Il tram si fermò alle porte della torre di Bellesguard, dove la città moriva ai piedidella collina. Mi incamminai verso l'ingresso del cimitero di Sant Gervasiseguendo il sentiero di luce giallastra che i fari del tram trapana-vano nellapioggia. I muri del camposanto si innalzavano a una cinquantina di metri comeuna fortezza di marmo dalla quale emergeva un guazzabuglio di statue del coloredel temporale. All'entrata trovai una guardiola dove un custode avvolto in uncappotto si riscaldava le mani al fuoco di un braciere. Vedendomi comparire trala pioggia si alzò allarmato. Mi esaminò per qualche secondo prima di aprire laporticina. —Cerco la cappella della famiglia Marlasca.— —Farà scuro in menodi mezz'ora. Meglio che torni un'altra volta.—

—Prima mi dice dov'è, prima me ne vado.— Il custode consultò un elenco emi mostrò l'ubicazione puntando il dito su una mappa appesa al muro. Miallontanai senza ringraziarlo.

Non fu difficile trovare la cappella in mezzo alla cittadella di tombe emausolei che si assiepavano dentro le mura del camposanto. La struttura sitrovava su un basamento di marmo. In stile modernista, la cappella descrivevauna specie di arco formato da due grandi scalinate disposte a mo' di anfiteatroche ascendevano a un loggione sostenuto da colonne, al cui interno si apriva unatrio fiancheggiato da lapidi. Il loggione era coronato da una cupola sulla cuicima si innalzava una statua di marmo brunito. Il viso era nascosto da un velo, maavvicinandosi alla cappella si aveva l'impressione che quella sentinellad'oltretomba girasse la testa per seguirlo con gli occhi. Salii per una dellescalinate e, arrivato all'entrata del loggione, mi fermai a guardare indietro. Leluci della città s'intravedevano nella pioggia, lontane.

Mi addentrai nel loggione. Al centro si ergeva la statua di una figurafemminile abbracciata a un crocifisso in atteggiamento supplice. Il volto era statosfigurato con dei colpi, e qualcuno aveva dipinto di nero gli occhi e le labbra,conferendole un aspetto da lupa. Non era l'unico segno di pro-fanazione dellacappella. Le lapidi mostravano quelli che sembravano marchi o graffi realizzaticon qualche oggetto appuntito, e alcune erano state incise con disegni osceni eparole che nella penombra a stento si riuscivano a leggere. La tomba di DiegoMarlasca era in fondo. Mi ci avvicinai e misi la mano sulla lapide. Tirai fuori ilritratto di Marlasca che mi aveva dato Salvador e lo esaminai.

Fu allora che sentii i passi sulle scale che conducevano alla cappella.Misi la foto nel cappotto e mi girai verso l'ingresso del loggione. I passi si

erano fermati e si udiva soltanto la pioggia che batteva sul marmo. Mi avvicinailentamente all'ingresso e mi affacciai. La sagoma era di spalle, in-tenta aguardare la città in lontananza. Era una donna vestita di bianco con la testacoperta da uno scialle. Si girò piano e mi guardò. Sorrideva. Nonostante gli anni,

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la riconobbi all'istante. Irene Sabino. Feci un passo verso di lei e solo allora capiiche c'era qualcuno alle mie spalle. Il colpo alla nuca fece esplodere uno spasmodi luce bianca. Sentii che cadevo in ginocchio.

Un secondo dopo mi afflosciai sul marmo inzaccherato. Una sagoma scura sistagliava nella pioggia. Irene si inginocchiò accanto a me. Sentii la sua manotastarmi la testa e palpare il punto in cui avevo ricevuto il colpo. Vi-di le sue ditaritrarsi bagnate di sangue. Con quelle mi accarezzò il viso.

L'ultima cosa che scorsi prima di perdere i sensi fu Irene Sabino che estra-eva un rasoio e l'apriva lentamente, e le gocce argentee di pioggia chescivolavano sulla lama mentre l'avvicinava a me.

Aprii gli occhi al fulgore accecante della lampada a olio. Il volto del custodemi osservava senza alcuna espressione. Cercai di sbattere le palpebre mentre unavampata di dolore mi attraversava il cranio partendo dalla nu-ca.

—È vivo?— chiese il custode, senza specificare se la domanda fosse rivolta ame o puramente retorica.

—Sì— gemetti. —Non le venga in mente di mettermi in una fossa.—Il custode mi aiutò a raddrizzarmi. Ogni centimetro mi costava una fitta alla

testa.—Cos'è successo?——Se non lo sa lei… Avrei dovuto chiudere già da un'ora, ma non vedendola

sono venuto fin qui per capire cosa succedeva e l'ho trovata a smaltire la sbornia.—

—E la donna?——Quale donna?——Erano in due.——Due donne?—Sospirai, scuotendo la testa.—Può aiutarmi ad alzarmi?—Con l'aiuto del custode, riuscii a rimettermi in piedi. Fu allora che sentii il

bruciore e mi accorsi di avere la camicia aperta. Diversi tagli superficiali miattraversavano il petto.

—Senta, non è un bello spettacolo… —Mi chiusi il cappotto e, nel farlo, tastai nella tasca interna. La foto di Marlasca

era scomparsa.—Ha il telefono nella guardiola?——Sì, nella sala dei bagni turchi.——Può almeno aiutarmi a raggiungere la torre di Bellesguard così da lì posso

chiamare un taxi?—Il custode imprecò e mi afferrò sotto le ascelle.—Gliel'avevo detto di tornare un'altra volta— disse rassegnato.

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35

Mancavano solo pochi minuti a mezzanotte quando arrivai finalmente alla casadella torre. Appena aprii la porta, seppi che Isabella se n'era andata. Il suono deimiei passi nel corridoio aveva un'altra eco. Non accesi nemmeno la luce. Miaddentrai nella casa in penombra e mi affacciai in quella che era stata la suastanza. Isabella l'aveva pulita e messa in ordine.

Le lenzuola e le coperte erano accuratamente piegate su una sedia, ilmaterasso scoperto. Il suo odore ancora fluttuava nell'aria. Andai in salotto e misedetti alla scrivania utilizzata dalla mia assistente. Isabella aveva tempera-to lematite e le aveva sistemate in modo impeccabile in un bicchiere. La pila di foglibianchi era in bell'ordine sopra un vassoio. Il set di pennini che le avevo regalatogiaceva a un'estremità del tavolo. La casa non mi era mai sembrata così vuota.

In bagno mi liberai dei vestiti zuppi e mi misi una garza con dell'alcol sullanuca. Il dolore era diminuito fino a ridursi a un battito sordo e a una sensazionegenerale non molto diversa dai postumi di una monumentale sbronza. Allospecchio i tagli sul petto sembravano linee tracciate con una penna. Erano netti esuperficiali, ma bruciavano parecchio. Li pulii con l'alcol e sperai che non siinfettassero.

Mi misi a letto e mi rimboccai fino al collo due o tre coperte. Le uniche partidel corpo che non mi facevano male erano quelle che il freddo e la pioggiaavevano intirizzito fino a privarle di sensibilità. Aspettai di scal-darmi, ascoltandoquel silenzio freddo, un silenzio d'assenza e di vuoto che soffocava la casa. Primadi andarsene, Isabella aveva lasciato le buste con le lettere di Cristina sulcomodino. Allungai la mano e ne tirai fuori una a caso, datata due settimaneprima.

Caro David,i giorni passano e io continuo a scriverti lettere a cui immagino tu preferisca

non rispondere, se pure le apri. Ho iniziato a pensare che le scrivo solo per me,per sconfiggere la solitudine e credere per un istante di averti vicino. Ogni giornomi domando cosa ne sarà di te e cosa starai facendo.

A volte penso che hai lasciato Barcellona per non tornare maipiù e ti immagino da qualche parte circondato da estranei, a cominciare una

nuova vita che non conoscerò mai. Altre volte penso che mi odii ancora, chedistruggi queste lettere e che vorresti non avermi mai conosciuto. Non te nefaccio una colpa. È curioso

quanto sia facile raccontare da soli a un pezzo di carta quello che non si osadire in faccia.

Le cose per me non sono facili. Pedro non potrebbe essere piùbuono e comprensivo con me, tanto che a volte mi irritano la sua pazienza e la

sua voglia di farmi felice, che mi fanno sentire soltanto miserabile. Pedro mi ha

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mostrato che ho il cuore arido e non merito che qualcuno mi ami. Passa quasitutta la giornata con me.

Non vuole lasciarmi sola.Sorrido sempre e condivido il suo letto. Quando mi chiede se lo amo, gli dico

di sì, e quando vedo la verità riflessa nei suoi occhi vorrei morire. Non me lorimprovera mai. Parla molto di te. Gli manchi. Tanto che a volte penso che lapersona che più ama al

mondo sei tu. Lo vedo invecchiare, da solo, con la peggiore delle compagnie,la mia. Non pretendo che tu mi perdoni, ma se qualcosa desidero a questo mondoè che perdoni lui. Non vale la pena negargli la tua amicizia e la tua compagniaper me.

Ieri ho finito di leggere uno dei tuoi libri. Pedro li ha tutti e li ho letti perché èl'unico modo in cui ho l'impressione di stare con te.

Era una storia triste e strana, di due pupazzi rotti e abbandonati in un circoambulante che, per lo spazio di una notte, acquistavano vita sapendo chesarebbero morti all'alba. Leggendola, mi è sembrato che scrivessi di noi.

Qualche settimana fa ho sognato di rivederti, ci incontravamoper strada e non ti ricordavi di me. Sorridevi e mi chiedevi come mi

chiamavo. Non sapevi nulla di me. Non mi odiavi. Tutte lenotti, quando Pedro si addormenta accanto a me, chiudo gli occhi e prego il

cielo o l'inferno di permettermi di rifare quel sogno.Domani, o forse dopodomani, ti scriverò di nuovo per dirti che ti amo, anche

se questo non significa nulla per te.CristinaLasciai cadere a terra la lettera, incapace di continuare a leggere. Domani è

un altro giorno, dissi fra me. Difficilmente peggiore di oggi. Non im-maginavoche le delizie di quella giornata erano solo iniziate. Dovevo essere riuscito adormire un paio d'ore al massimo quando mi svegliai all'improvviso nel cuoredella notte. Qualcuno bussava con forza alla porta. Rimasi qualche secondostordito nell'oscurità, cercando il filo dell'interruttore della luce. Di nuovo i colpialla porta. Accesi la luce, scesi dal letto e andai all'ingresso. Aprii lo spioncino.Tre volti nella penombra del pianerottolo. L'ispettore Grandes e, dietro di lui,Marcos e Castelo. Tutti e tre a fissare lo spioncino. Respirai a fondo un paio divolte prima di aprire.

—Salve, Martín. Scusi l'ora.——E che ora sarebbe?——Ora di muovere il culo, figlio di puttana— grugnì Marcos, strappando a

Castelo un sorriso con cui avrei potuto radermi la barba.Grandes lanciò a entrambi uno sguardo di riprovazione e sospirò.—Le tre di notte passate— disse. —Posso entrare?—Sospirai infastidito, ma annuii, cedendogli il passo. L'ispettore fece cenno ai

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suoi uomini di aspettarlo sul pianerottolo. Marcos e Castelo annuirono a dentistretti e mi rivolsero uno sguardo subdolo. Gli chiusi la porta in faccia.

—Dovrebbe essere più cauto con quei due— disse Grandes mentre s'inol-trava a suo agio lungo il corridoio.

—Prego, faccia come se fosse a casa sua…— dissi.Tornai nella mia stanza e indossai a casaccio le prime cose che trovai, vestiti

sporchi ammucchiati su una sedia. Quando uscii, non c'era traccia di Grandes.Percorsi il corridoio fino in salotto e lo trovai lì, a contemplare dalla finestra le

nubi basse che strisciavano sui tetti.—E il bocconcino?— chiese.—A casa sua.—Grandes si girò sorridendo.—Uomo saggio, non le tiene a pensione completa— disse indicando una

poltrona. —Si sieda.—Mi ci lasciai cadere. Grandes rimase in piedi fissandomi.—Allora?— chiesi alla fine.—Ha una brutta faccia, Martín. S'è ficcato in qualche rissa?——Sono caduto.——Già. So che oggi è stato al negozio di articoli di magia di proprietà del signor

Damián Roures in calle Princesa.——Ma se mi ha visto uscire di lì a mezzogiorno… Cosa significa tutto questo?—Grandes mi osservava freddamente.—Prenda un cappotto e una sciarpa o quel che sia. Fa freddo. Andiamo al

commissariato.——A fare che?——Faccia come le dico.—Un'auto del Comando ci aspettava sul paseo del Born. Marcos e Castelo mi

ficcarono nell'abitacolo senza troppi riguardi e si appostarono di fianco a me,stringendomi in mezzo.

—Sta comodo il signorino?— chiese Castelo affondandomi il gomito nellecostole.

L'ispettore si sedette davanti, accanto all'autista. Nessuno di loro aprì boccanei cinque minuti che impiegammo a percorrere una via Layetana deserta esepolta in una nebbia ocra. Arrivati al commissariato, Grandes scese dall'auto edentrò senza aspettare. Marcos e Castelo mi presero ciascuno per un braccio comese volessero stritolarmi le ossa e mi trascinaro-no per un labirinto di scale,corridoi e celle fino a una stanza senza finestre che puzzava di sudore e orina. Alcentro c'erano un tavolo di legno tarlato e due sedie sgangherate. Una lampadinaspoglia pendeva dal soffitto e c'e-ra una grata di scolo in mezzo alla stanza, nelpunto in cui convergevano le due leggere pendenze che formavano il pavimento.Faceva un freddo atroce. Prima che me ne rendessi conto, la porta si chiuse con

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forza alle mie spalle. Sentii dei passi che si allontanavano. Feci dodici giri attornoa quella cella prima di abbandonarmi su una sedia traballante. Nell'orasuccessiva, a parte il mio respiro, lo scricchiolio della sedia e l'eco di un gocciolioche non riuscii a localizzare, non sentii nessun altro rumore.

Un'eternità dopo percepii l'eco di passi che si avvicinavano e dopo un po' laporta si aprì. Marcos si affacciò all'interno della cella, sorridente.

Tenne aperta la porta e cedette il passo a Grandes, che entrò senza posare gliocchi su di me e si accomodò sulla sedia dall'altra parte del tavolo. An-nuì aMarcos e lui chiuse la porta, non senza avermi prima lanciato un bacio silenziosoin aria e avermi fatto l'occhiolino. L'ispettore ci mise trenta secondi buoni primadi degnarsi di guardarmi in faccia.

—Se voleva impressionarmi, ci è riuscito, ispettore.—Grandes non fece caso alla mia ironia e mi fissò come se non mi avesse mai

visto.—Cosa sa lei di Damián Roures?— domandò.Mi strinsi nelle spalle.—Non molto. Che ha un negozio di articoli di magia. In realtà non ne sapevo

niente fino a qualche giorno fa, quando Ricardo Salvador mi ha parlato di lui.Oggi, o ieri, non so nemmeno più che ora sia, sono andato a trovarlo per avereinformazioni sull'uomo che abitava prima nella casa in cui vivo. Salvador miaveva detto che Roures e il vecchio proprietario… —

—Marlasca.——Sì, Diego Marlasca. Come dicevo, Salvador mi ha raccontato che lui e

Roures avevano avuto rapporti anni fa. Gli ho fatto qualche domanda e harisposto come ha potuto o saputo. E poco altro.—

Grandes annuì ripetutamente.—Questa è la sua versione?——Non so. Qual è la sua? Confrontiamole e forse riesco a capire che cazzo ci

faccio nel cuore della notte a congelarmi in una cantina che puzza di merda.——Non alzi la voce, Martín.——Scusi, ispettore, ma credo che potrebbe almeno degnarsi di dirmi cosa ci

faccio qui.——Glielo dirò. Circa tre ore fa, un abitante del palazzo accanto al negozio del

signor Roures tornava a casa tardi quando ha visto la porta aperta e le luci accese.Sorpreso, è entrato e, non vedendo il proprietario e non sen-tendolo risponderealle sue chiamate, si è diretto nel retrobottega dove lo ha trovato legato mani epiedi con il fil di ferro, su una sedia, in una pozza di sangue.—

Grandes fece una lunga pausa che impiegò a trapanarmi con gli occhi.Immaginai che ci fosse qualcos'altro. L'ispettore riservava sempre un colpo a

effetto per il finale.—Morto?— domandai.

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Grandes annuì.—Abbastanza. Qualcuno si è divertito a strappargli gli occhi e a mozzar-gli la

lingua con delle forbici. Il medico legale pensa che sia morto affoga-to dal suostesso sangue mezz'ora dopo.—

Mi mancava l'aria. Grandes mi camminava intorno. Si fermò alle mie spallee lo sentii accendersi una sigaretta.

—Come ha preso questo colpo? Sembra recente.——Sono scivolato nella pioggia e ho battuto la nuca.——Non mi tratti da imbecille, Martín. Non le conviene. Preferisce che la lasci

un po' con Marcos e Castelo e vediamo se le insegnano le buone maniere?——E va bene. Mi hanno colpito.——Chi?——Non lo so.——Questa conversazione comincia ad annoiarmi, Martín.——S'immagini a me.—Grandes si sedette di nuovo di fronte a me e mi rivolse un sorriso conciliante.—Non crederà che abbia qualcosa a che fare con la morte di quell'uo-mo?——No, Martín. Non lo credo. Però credo che lei non mi stia raccontando la

verità e che in qualche modo la morte di quel povero disgraziato sia in rapportocon la sua visita. Come quella di Barrido ed Escobillas.—

—Cosa glielo fa pensare?——Lo chiami un presentimento.——Le ho già detto quello che so.——L'ho già avvertita di non prendermi per imbecille, Martín. Marcos e Castelo

sono lì fuori in attesa di un'opportunità per fare quattro chiacchiere da soli con lei.È questo che vuole?—

—No.——Allora mi aiuti a tirarla fuori da questa situazione e a rispedirla a casa

prima che le si raffreddino le lenzuola.——Cosa vuole sapere?——La verità, per esempio.—Spinsi indietro la sedia e mi alzai, esasperato. Il freddo mi era penetrato fin

nelle ossa e avevo la sensazione che la testa mi scoppiasse. Cominciai acamminare in circolo attorno al tavolo, sputando fuori le parole come se fosseropietre.

—La verità? Le dirò la verità. La verità è che non so quale sia la verità.Non so cosa raccontarle. Non so perché sono andato da Roures e da Salvador.

Non so cosa sto cercando né cosa mi sta succedendo. Ecco la verità.—Grandes mi osservava stoicamente.—Smetta di girare e si sieda. Mi sta facendo venire il mal di mare.——Non ne ho voglia.—

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—Martín, tra quello che mi dice e il nulla non c'è nessuna differenza. Lechiedo soltanto di aiutarmi in modo che io possa aiutarla.—

—Lei non potrebbe aiutarmi neanche volendo.——E chi può farlo allora?—Mi abbandonai di nuovo sulla sedia.—Non lo so…— mormorai.Mi sembrò di vedere un accenno di compassione, o forse era solo stanchezza,

negli occhi dell'ispettore.—Guardi, Martín. Iniziamo da capo. Facciamolo alla sua maniera. Mi

racconti una storia. Cominci dal principio.—Lo guardai in silenzio.—Martín, non creda che, siccome mi è simpatico, io non farò il mio lavoro.——Faccia quello che deve fare. Chiami pure Hansel e Gretel, se vuole.—In quell'istante notai una punta di inquietudine sul suo viso. Si avvicinavano dei

passi nel corridoio e qualcosa mi disse che l'ispettore non li aspettava. Si sentìqualche parola e Grandes, nervoso, si avvicinò alla porta.

Bussò tre volte con le nocche e Marcos, che la sorvegliava, aprì. Un uomocon un cappotto di cammello e un vestito elegante entrò nella stanza, si guardòattorno con aria disgustata e poi mi rivolse un sorriso di infinita dolcezza mentre sitoglieva i guanti con grande flemma. L'osservai, attonito, riconoscendo l'avvocatoValera.

—Sta bene, signor Martín?— domandò.Annuii. L'avvocato condusse l'ispettore in un angolo. Li sentii mormorare.

Grandes gesticolava con furia trattenuta. Valera lo osservava freddamente escuoteva la testa. La conversazione durò quasi un minuto. Alla fi-ne Grandessospirò e lasciò cadere le braccia.

—Prenda la sciarpa, signor Martín, ce ne andiamo— disse Valera. —L'ispettore ha finito con le domande.—

Alle sue spalle, Grandes si morse le labbra, fulminando con un'occhiataMarcos, che si strinse nelle spalle. Valera, senza abbandonare il sorriso amabileed esperto, mi prese per il braccio e mi tirò fuori da quella cella.

—Spero che il trattamento ricevuto da parte di questi agenti sia stato cor-retto,signor Martín.—

—Sì— riuscii a balbettare.—Un momento— disse Grandes alle nostre spalle.Valera si fermò e, facendomi cenno di tacere, si voltò.—Per qualsiasi problema con il signor Martín può rivolgersi al nostro studio,

che se ne occuperà con molto piacere. Nel frattempo, a meno che lei non abbiaqualche motivo grave per trattenere il signor Martín in questi uffici, per oggi cene andiamo augurandole buona notte e ringraziandola per la sua cortesia, di cuivolentieri riferirò ai suoi superiori, in particolare all'ispettore capo Salgado, che

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come lei sa è un mio grande amico.—Il sergente Marcos accennò ad avvicinarsi a noi, ma l'ispettore lo trattenne.

Scambiai con lui un ultimo sguardo prima che Valera mi prendesse di nuovo peril braccio e mi tirasse via.

—Non si fermi— mormorò.Percorremmo il lungo corridoio punteggiato di luci smorte fino a una scala

che ci condusse in un altro lungo corridoio, per arrivare poi a una porticina chedava sull'atrio del piano terra e all'uscita, dove ci attendeva una Mercedes-Benzcon il motore acceso e un autista che appena vide Valera ci aprì la portiera.Entrai e mi sistemai nell'abitacolo. L'automobile era dotata di riscaldamento e isedili di pelle erano tiepidi. Valera si sedette al mio fianco e, con un colpetto sulvetro che separava l'abitacolo dall'autista, gli ordinò di partire. Quandol'automobile fu in moto e imboccò la corsia centrale di via Layetana, mi sorrisecome se niente fosse e indicò la nebbia che si apriva al nostro passaggio comeuna boscaglia.

—Una brutta nottata, vero?— chiese come per caso.—Dove andiamo?——A casa sua, naturalmente. A meno che lei preferisca andare in albergo o…

——No. Va bene.—L'automobile scendeva lentamente per la via Lay etana. Valera osservava con

indifferenza le strade deserte.—Cosa ci fa lei qui?— domandai alla fine.—Cosa le sembra che stia facendo? La rappresento e tutelo i suoi interessi.——Dica all'autista di fermarsi.—L'autista cercò lo sguardo di Valera nello specchietto retrovisore. L'avvocato

scosse la testa e gli fece cenno di proseguire.—Non dica sciocchezze, signor Martín. È tardi, fa freddo e l'accompagno a

casa.——Preferisco andare a piedi.——Sia ragionevole.——Chi l'ha mandata?—Valera sospirò e si sfregò gli occhi.—Lei ha buoni amici, Martín. Nella vita è importante avere buoni amici e

soprattutto saperseli conservare— disse. —Importante come sapere quando ci siostina a proseguire su una strada sbagliata.—

—Non sarà quella che passa da casa Marlasca, al numero 13 della carreterade Vallvidrera?—

L'avvocato sorrise paziente, come se stesse rimproverando con affetto unbambino discolo.

—Signor Martín, mi creda quando le dico che più lontano si tiene da quella

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casa e da quella faccenda, meglio sarà per lei. Mi dia retta, anche se soltanto suquesto consiglio.—

L'autista svoltò per il paseo de Colón e imboccò il paseo del Born da calleComercio. I carretti di pesce e di carne, di ghiaccio e di spezie cominciavano adaccalcarsi davanti alla grande area del mercato. Mentre passa-vamo, quattrogarzoni scaricavano la carcassa squartata di un vitello lasciando una scia disangue e vapore che impregnava l'aria.

—Un quartiere pieno di fascino e di scorci pittoreschi, il suo, signor Martín.—L'autista si fermò all'imbocco di calle Flassaders e scese dall'auto per a-prirci

la portiera. L'avvocato scese insieme a me.—L'accompagno fino al portone— disse.—Penseranno che siamo fidanzati.—Ci addentrammo nel canyon di ombre del vicolo in direzione di casa mia.

Arrivati al portone, l'avvocato mi diede la mano con cortesia professionale.—Grazie per avermi tirato fuori da quel postaccio.——Non ringrazi me— rispose Valera, estraendo una busta dalla tasca interna

del cappotto.Riconobbi il sigillo dell'angelo sulla ceralacca perfino nella penombra che

sgocciolava dal lampione appeso al muro sulle nostre teste. Valera mi tese labusta e, con un ultimo cenno di assenso, si allontanò per tornare all'automobileche lo stava aspettando. Aprii il portone e salii le scale fino al pianerottolo di casa.Entrando, andai direttamente nello studio e posai la busta sulla scrivania. L'aprii etirai fuori il foglio ripiegato sulla calligrafia del mio principale.

Amico Martín,spero e mi auguro che questo biglietto la trovi di buonumore e in salute. Si dà

il caso che sia di passaggio in città e mi piacerebbe molto poter approfittare dellasua compagnia questo venerdì alle diciannove nella sala biliardi del CirculoEcuestre per discutere dei progressi del nostro progetto.

Fino ad allora, la saluta con affetto il suo amicoAndreas CorelliRipiegai il foglio e lo rimisi con cura nella busta. Accesi un fiammifero e,

tenendola per un angolo, l'avvicinai alla fiamma. La guardai bruciare finché laceralacca prese fuoco in lacrime scarlatte che si sparsero sulla scrivania e le miedita si ricoprirono di cenere.

—Vada all'inferno— mormorai, mentre la notte, più scura che mai,sprofondava dietro i vetri.

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36

Aspettai un'alba che non arrivava seduto sulla poltrona dello studio finché mivinse la rabbia e uscii in strada disposto a sfidare l'avvertimento dell'avvocatoValera. C'era quel freddo tagliente che precede l'alba in inverno. Attraversando ilpaseo del Born, mi parve di sentire dei passi alle mie spalle. Mi voltai un istante,ma non riuscii a vedere nessuno, tranne i garzoni del mercato che scaricavano icarretti, e proseguii per la mia strada. Arrivando in plaza Palacio, avvistai le lucidel primo tram in attesa tra la nebbiolina che saliva dalle acque del porto.Serpentine di luce azzurrata scintillavano sui fili. Salii sul tram e mi sedettidavanti. Mi fece il biglietto lo stesso controllore della volta precedente. Unadecina di passeggeri arrivarono a poco a poco, tutti soli. Dopo pochi minuti il trampartì e iniziammo il tragitto mentre nel cielo si estendeva una rete di capillarirossastri tra le nuvole nere. Non c'era bisogno di essere un poeta o un saggio persapere che sarebbe stata una brutta giornata.

Quando arrivammo a Sarrià, si era fatto giorno con una luce grigia e smortache impediva di distinguere i colori. Salii per le viuzze solitarie del quartiere versole falde della collina. A tratti mi pareva di sentire dei passi dietro di me, ma ognivolta che mi fermavo per guardarmi alle spalle non c'era nessuno. Alla finearrivai all'ingresso del vialetto che portava a Casa Marlasca e mi feci stradaattraverso il manto di foglie morte che crepitava ai miei piedi. Attraversailentamente il cortile e salii gli scalini fino alla porta principale, scrutando ifinestroni della facciata. Picchiai tre volte il battente e arretrai di qualche passo.Aspettai un minuto senza ottenere risposta e bussai di nuovo. Sentii l'eco dei colpiperdersi all'interno della ca-sa.

—Buongiorno!— chiamai.Il bosco che circondava la villa sembrò assorbire l'eco della mia voce.Aggirai la casa fino al padiglione che ospitava la piscina e mi avvicinai al-la

veranda a vetrate. Le finestre erano oscurate da imposte di legno socchiuse cheimpedivano di vedere all'interno. Quella accanto alla porta a vetri che dava sullaveranda era mezza aperta. Attraverso il vetro si vedeva il saliscendi che lachiudeva. Introdussi il braccio dalla finestra socchiusa e liberai il saliscendi. Laporta cedette con un suono metallico. Mi guardai ancora una volta alle spalle,assicurandomi che non ci fosse nessuno, ed entrai.

Via via che i miei occhi si abituavano alla penombra, cominciai a indovinare icontorni della sala. Andai ai finestroni e socchiusi le imposte per avere un po' dichiarore. Una sventagliata di lame di luce attraversò le tenebre e disegnò ilprofilo della stanza.

—C'è qualcuno?— chiesi.Sentii il suono della mia voce affondare nelle viscere della casa come una

moneta che cade in un pozzo senza fondo. Andai all'estremità della stanza dove

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un arco di legno intagliato dava su un corridoio buio, fiancheggiato da quadri chea stento si vedevano sui muri di velluto. All'altro capo si apriva un grande salonecircolare con pavimenti a mosaico e una vetrata smaltata in cui si distingueva lafigura di un angelo bianco con un braccio teso e dita di fuoco. Una grandescalinata di pietra saliva in una spirale che circondava la sala. Mi fermai ai piedidei gradini e chiamai di nuovo.

—Buongiorno! Signora Marlasca?—La casa era immersa in un silenzio assoluto e l'eco smorta si portava via le

mie parole. Salii per le scale fino al primo piano e mi fermai sul pianerottolo dacui si potevano contemplare il salone e la vetrata. Da lì potei vedere le traccelasciate dai miei passi sulla pellicola di polvere che ricopriva il pavimento. Aparte le mie orme, l'unico segno di passaggio che riuscii a notare era una speciedi corridoio tracciato sulla polvere da due linee continue separate da una distanzadi due o tre palmi, con all'interno orme di scarpe. Orme grandi. Osservai quelletracce, disorientato, finché capii cosa stavo vedendo. I segni di una sedia a rotellee le orme di chi la spingeva.

Mi sembrò di sentire un rumore alle mie spalle e mi voltai. Una portasocchiusa all'estremità di un corridoio oscillava leggermente. Da lì proveniva unacorrente di aria fredda. Mi avvicinai piano. Mentre lo facevo, diedi un'occhiataalle stanze che si trovavano su entrambi i lati. Si trattava di camere da letto con imobili ricoperti da teli e lenzuola. Le finestre chiuse e una penombra fittasuggerivano che non fossero state utilizzate da molto tempo, tranne una più ampiadelle altre, una camera da letto matrimoniale.

Ci entrai e mi accorsi che odorava di quella strana miscela di profumo emalattia che accompagna le persone anziane. Immaginai che fosse la stanzadella vedova Marlasca, ma non c'era traccia della sua presenza.

Il letto era rifatto con cura. Di fronte c'era un comò con una serie di ritrattiincorniciati. In tutti, senza eccezione, appariva un bambino dai capelli chiari edall'aria allegra. Ismael Marlasca. In alcune immagini era in posa con la madreo con altri bambini. Non c'era traccia di Diego Marlasca in nessuna di quellefotografie.

Il rumore di una porta nel corridoio mi spaventò di nuovo e uscii dalla stanzalasciando le foto così come le avevo trovate. La porta all'estremità del corridoiocontinuava a oscillare. Mi diressi lì e mi fermai un istante prima di entrare.Respirai a fondo e aprii.

Era tutto bianco. I muri e il soffitto erano dipinti di un bianco immacolato.Tende di seta bianca. Un lettino coperto da teli bianchi. Un tappeto bianco.Scaffali e armadi bianchi. Dopo la penombra che regnava in tutta la casa, quelbarbaglio mi offuscò la vista per qualche secondo. La stanza pareva ricalcare unavisione onirica, una fantasia fiabesca. Sugli scaffali c'erano giocattoli e libri difavole. Un arlecchino di porcellana a grandezza naturale era seduto davanti a una

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toilette, guardandosi allo specchio. Dal soffitto pendeva un giocattolo con tantecordicelle a cui erano appesi degli uccelli bianchi. A prima vista sembrava lastanza di un bambino viziato, Ismael Marlasca, ma l'atmosfera opprimente eraquella di una camera mortuaria.

Mi sedetti sul letto e sospirai. Solo allora notai che c'era qualcosa chesembrava fuori luogo. A cominciare dall'odore. Una puzza dolciastra aleggiavanell'aria. Mi alzai e mi guardai attorno. Su una cassettiera c'era un piatto diporcellana con una candela nera, la cera sciolta in un grappolo di lacrime scure.Mi girai. L'odore sembrava provenire dalla testiera del letto.

Aprii il cassetto del comodino e trovai un crocifisso spezzato in tre parti.Sentivo la puzza più vicina. Feci un paio di giri per la stanza, ma senza trovare

la fonte di quell'odore. Fu allora che la vidi. C'era qualcosa sotto il letto. Miinginocchiai e guardai sotto la rete. Una scatola di latta, come quelle che usano ibambini per conservare i loro tesori d'infanzia. La tirai fuori e la misi sul letto. Lapuzza era adesso molto più netta e penetrante.

Ignorai la nausea e aprii la scatola. All'interno c'era una colomba bianca conil cuore attraversato da un ago. Feci un passo indietro, tappandomi la bocca e ilnaso, e poi arretrai fino in corridoio. Gli occhi dell'arlecchino, con il loro sorrisoda sciacallo, mi osservavano dallo specchio. Tornai di corsa verso le scale e lefeci a precipizio, cercando il corridoio che portava alla sala di lettura e la portache ero riuscito ad aprire in giardino. A un certo punto credetti di essermi perso eche la casa, come una creatura capace di spostare a suo piacimento saloni ecorridoi, non volesse lasciarmi fuggire. Alla fine avvistai la veranda a vetrate ecorsi verso la porta. Solo allora, mentre armeggiavo con la serratura, sentii quellarisata maligna alle mie spalle e seppi di non essere solo nella casa. Mi voltai unistante e riuscii a scorgere una sagoma scura che mi osservava dal fondo delcorridoio impugnando un oggetto rilucente. Un coltello.

La serratura cedette sotto le mie mani e aprii la porta con uno spintone.L'impeto mi fece cadere bocconi sulle piastrelle di marmo che circondavano

la piscina. La faccia si fermò ad appena un palmo dalla superficie e sentii ilfetore dell'acqua stagnante. Per un istante scrutai nelle tenebre ches'intravedevano sul fondo della piscina. Un varco si aprì fra le nubi e la lu-ce delsole scivolò attraverso l'acqua, spazzando il fondo di mosaico dis-selciato. Lavisione durò appena un istante. La sedia a rotelle era caduta in avanti, arenata sulfondo. La luce proseguì nel suo percorso verso la parte più profonda della piscinae fu lì che la trovai. Appoggiato alla parete giaceva quello che mi parve un corpoavvolto in un vestito bianco sfilacciato.

Pensai che si trattasse di un manichino, con quelle labbra scarlatte corrosedall'acqua e quegli occhi brillanti come zaffiri. I suoi capelli rossi dondo-lavanolentamente nell'acqua putrida e la pelle era blu. Era la vedova Marlasca. Unsecondo dopo, il varco in cielo si richiuse e le acque ridiventaro-no uno specchio

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scuro in cui riuscii solo a vedere il mio volto e una sagoma che si materializzavaalle mie spalle, sulla soglia della veranda, con il coltello in mano. Mi alzairapidamente e mi misi a correre verso il giardino, attraversando il bosco,graffiandomi la faccia e le mani con gli arbusti, finché raggiunsi il portonemetallico e uscii nel vialetto. Continuai a correre e non mi fermai fino a quandoarrivai alla carretera de Vallvidrera. Una volta lì, senza fiato, mi voltai e vidi cheCasa Marlasca era di nuovo nascosta oltre il vialetto, invisibile al mondo.

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37

Tornai a casa con lo stesso tram, percorrendo la città che si faceva ogni minutopiù buia sotto un vento gelido che sollevava le foglie morte per le strade.Scendendo in plaza Palacio, sentii due marinai provenienti dalle banchine parlaredi una burrasca che si avvicinava dal mare e che avrebbe colpito la città prima disera. Alzai lo sguardo e vidi che il cielo cominciava a ricoprirsi di un manto dinubi rosse che si spandevano sul mare come sangue versato. Nelle strade attornoal Born la gente si affannava ad assi-curare porte e finestre, i commerciantichiudevano i negozi prima del solito e i bambini uscivano in strada a sfidare ilvento, spalancando le braccia a croce e ridendo del rimbombo dei tuoni lontani. Ilampioni sfarfallavano e i balenii dei lampi velavano di luce bianca le facciate.Mi affrettai verso il portone della casa della torre e salii le scale in fretta e furia.Si sentiva il frastuono della burrasca avvicinarsi al di là dei muri.

In casa faceva tanto freddo che, entrando in corridoio, potevo vedere ilcontorno del mio fiato. Andai direttamente nella stanza dove c'era una vecchiastufa a carbone che avevo usato solo quattro o cinque volte da quando abitavo lì el'accesi con un fascio di giornali vecchi e asciutti. Accesi anche il camino delsalotto e mi sedetti a terra davanti alle fiamme. Mi tremavano le mani e nonsapevo se era per il freddo o per la paura. Aspettai di recuperare un po' di calorecontemplando il reticolo di luce bianca lasciato dai fulmini in cielo.

La pioggia non arrivò fino a sera e quando iniziò a cadere precipitò in cortinedi gocce furiose che in pochi minuti accecarono la notte e annega-rono tetti evicoli sotto un manto nero che colpiva con forza i vetri e i mu-ri. A poco a poco,tra la stufa a carbone e il camino, la casa si riscaldò, ma io continuavo ad averefreddo. Mi alzai e andai nella camera da letto in cerca di coperte per avvolgermi.Aprii l'armadio e cominciai a frugare nei due grandi cassetti della parte inferiore.L'astuccio era ancora lì, nascosto sul fondo. Lo presi e lo misi sul letto.

L'aprii e contemplai il vecchio revolver di mio padre, tutto ciò che mi restavadi lui. Lo presi in mano, accarezzando il grilletto con l'indice. Aprii il tamburo e viintrodussi sei pallottole della scatola di munizioni che si trovava nel doppio fondodell'astuccio. Lasciai la scatola sul comodino e mi portai il revolver e una copertain salotto. Una volta lì, mi stesi sul sofà avvolto nella coperta con il revolver sulpetto e lasciai vagare lo sguardo sul temporale dietro i finestroni. Potevo sentire ilrumore dell'orologio che stava sulla mensola del camino. Non avevo bisogno diguardarlo per sapere che mancava appena mezz'ora all'incontro con il principalenella sala biliardi del Circulo Ecuestre.

Chiusi gli occhi e lo immaginai mentre percorreva le strade della città,deserte e inondate d'acqua. Lo immaginai sul sedile posteriore della suaautomobile, con gli occhi dorati che brillavano nell'oscurità e l'angelo d'argentosul cofano della Rolls-Royce che si faceva strada in mezzo al temporale. Lo

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immaginai immobile come una statua, senza respiro né sorriso, senza nessunaespressione. Dopo un po', ascoltando il rumore della legna che bruciava e dellapioggia sui vetri, mi addormentai con l'arma tra le mani e la certezza che nonsarei andato all'appuntamento.

Poco dopo mezzanotte aprii gli occhi. Il fuoco nel camino era quasi spento e ilsalotto era immerso nella penombra ondeggiante proiettata dalle fiammeazzurrine che consumavano le ultime braci. Continuava a piovere forte. Ilrevolver era sempre tra le mie mani, tiepido. Rimasi lì, disteso, ancora qualchesecondo, senza quasi battere ciglio. Seppi che c'era qualcuno alla porta ancoraprima di sentire bussare.

Scostai la coperta e mi alzai. Sentii di nuovo i colpi. Nocche sulla porta dicasa. Mi alzai con l'arma in pugno e andai in corridoio. Altri colpi. Feci qualchepasso verso la porta e mi fermai. Lo immaginai sorridente sul pianerottolo, conl'angelo sul risvolto della giacca che brillava nell'oscurità.

Armai il percussore. Di nuovo il rumore di una mano che bussava alla porta.Cercai di accendere la luce, ma non c'era elettricità. Continuai ad avanzare finoalla porta. Stavo per aprire lo spioncino, ma non osai. Rimasi lì immobile, quasisenza respirare, tenendo l'arma puntata verso la porta.

—Se ne vada— urlai, senza forza nella voce.Sentii allora quel pianto dall'altra parte e abbassai il revolver. Aprii la porta nel

buio e la trovai lì. Aveva i vestiti bagnati e tremava. La sua pelle era gelida.Quando mi vide, fu sul punto di cadere tra le mie braccia. La sostenni e, senzatrovare le parole da dire, l'abbracciai forte. Mi sorrise debolmente e quando lemisi la mano sulla guancia la baciò chiudendo gli occhi.

—Perdonami— mormorò Cristina.Aprì gli occhi e mi rivolse quello sguardo ferito e spezzato che mi avrebbe

perseguitato fino all'inferno. Le sorrisi.—Benvenuta a casa.—

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38

La spogliai alla luce di una candela. Le tolsi le scarpe zuppe d'acqua, il vestitobagnato e le calze sfilacciate. Le asciugai il corpo e i capelli con un asciugamanopulito. Tremava ancora di freddo quando la feci sdraiare sul letto e mi stesiaccanto a lei, abbracciandola per scaldarla. Restammo così a lungo, in silenzio,ad ascoltare la pioggia. Lentamente sentii che il suo corpo s'intiepidiva sotto lemie mani e cominciava a respirare profondamente. Credevo si fosseaddormentata, quando la sentii parlare nella penombra.

—La tua amica è venuta a trovarmi.——Isabella.——Mi ha raccontato che ti aveva nascosto le mie lettere. Che non l'aveva fatto

in malafede. Credeva di farlo per il tuo bene e forse aveva ragione.—Mi chinai su di lei e cercai i suoi occhi. Le accarezzai le labbra e sorrise

debolmente.—Pensavo che ti fossi dimenticato di me— disse.—Ci ho provato.—Il suo viso era segnato dalla stanchezza. I mesi di assenza le avevano

disegnato delle linee sulla pelle e il suo sguardo aveva un'aria di sconfitta e divuoto.

—Non siamo più giovani— disse, leggendo nei miei pensieri.—Quando siamo stati giovani, tu e io?—Scostai la coperta e contemplai il suo corpo nudo steso sul lenzuolo bianco. Le

accarezzai il collo e il seno, sfiorandole appena la pelle con la punta delle dita. Ledisegnai cerchi sul ventre e tracciai il contorno delle ossa che si insinuavano sottoi fianchi. Lasciai che le mie dita giochic-chiassero sul vello quasi trasparente trale sue cosce.

Cristina mi osservava in silenzio, con il sorriso spezzato e gli occhi socchiusi.—Cosa facciamo?— chiese.Mi chinai su di lei e la baciai sulle labbra. Mi abbracciò e rimanemmo lì

distesi mentre la luce della candela si esauriva lentamente.—Qualcosa ci verrà in mente— mormorò.Poco dopo l'alba mi svegliai e scoprii di essere solo nel letto. Mi alzai di scatto,

temendo che Cristina se ne fosse andata di nuovo nel cuore della notte. Allora vidiche i suoi vestiti e le sue scarpe erano ancora sulla sedia e respirai a fondo. Latrovai in salotto, avvolta in una coperta e seduta a terra davanti al camino, doveun ciocco ridotto ormai a brace sprigionava una fiamma azzurra. Mi sedettiaccanto a lei e la baciai sul collo.

—Non riuscivo a dormire— disse, con lo sguardo fisso sul fuoco.—Potevi svegliarmi.——Non me la sono sentita. Avevi l'aria di esserti addormentato per la prima

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volta da mesi. Ho preferito esplorare la tua casa.——E allora?——Questa casa è stregata di tristezza— disse. —Perché non le dai fuoco?——E dove andremmo a vivere?——Al plurale?——Perché no?——Credevo che non scrivessi più racconti fantastici.——È come andare in bicicletta. Una volta che hai imparato… —Cristina mi guardò a lungo.—Cosa c'è nella stanza in fondo al corridoio?——Niente. Vecchie cianfrusaglie.——È chiusa a chiave.——Vuoi vederla?—Scosse la testa.—È solo una casa, Cristina. Un mucchio di pietre e ricordi. Niente di più.—Cristina annuì con scarsa convinzione.—Perché non ce ne andiamo?— domandò.—Dove?——Lontano.—Non riuscii a evitare di sorridere, ma lei non fece altrettanto.—Dove?— chiesi di nuovo.—Dove nessuno sappia chi siamo e a nessuno importi saperlo.——È questo che vuoi?——E tu no?—Esitai un istante.—E Pedro?— domandai, quasi strozzandomi con le parole.Lasciò cadere la coperta che aveva sulle spalle e mi fissò con aria di sfida.—Hai bisogno del suo permesso per venire a letto con me?—Mi morsi la lingua. Cristina mi guardava con le lacrime agli occhi.—Scusa— mormorò. —Non avevo il diritto di dirlo.—Raccolsi la coperta da terra e cercai di mettergliela addosso, ma lei si scostò e

respinse il mio gesto.—Pedro mi ha lasciato— disse con la voce rotta. —Si è trasferito ieri al Ritz

ad aspettare che me ne andassi. Mi ha detto che sapeva che non lo amo, che l'hosposato per gratitudine o per pietà. Mi ha detto che non vuole la mia compassione,che ogni giorno che trascorro accanto a lui fingendo di amarlo gli faccio delmale. Mi ha detto che, qualunque cosa avrei fatto, mi avrebbe sempre amato eche per questo non voleva più rivedermi.—

Le tremavano le mani.—Mi ha amato con tutto il cuore e io ho saputo solo renderlo infelice—mormorò.

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Chiuse gli occhi e il suo volto si contrasse in una smorfia di dolore. Un attimodopo le sfuggì un gemito profondo e iniziò a prendersi a pugni la faccia e il corpo.Mi gettai su di lei e la strinsi tra le braccia, immobiliz-zandola. Cristina sidivincolava e urlava. La premetti contro il pavimento, tenendola per le mani. Siarrese lentamente, esausta, il volto coperto di lacrime e saliva, gli occhi arrossati.Restammo così quasi mezz'ora, fin quando sentii il suo corpo rilassarsi esprofondare in un lungo silenzio. Le misi addosso la coperta e l'abbracciai dadietro, nascondendole le mie lacrime.

—Ce ne andremo lontano— le mormorai all'orecchio senza sapere se potevasentirmi o capirmi. —Ce ne andremo lontano dove nessuno sappia chi siamo e anessuno importi saperlo. Te lo prometto.—

Cristina girò la testa e mi guardò. Aveva l'aria assente, come se le avesserospezzato l'anima a martellate. L'abbracciai forte e la baciai in fronte.

La pioggia continuava a battere sui vetri. Intrappolati nella luce grigia epallida dell'alba smorta, pensai per la prima volta che stavamo affondando.

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39

Abbandonai il lavoro per il principale quel mattino stesso. Mentre Cristinadormiva, salii nello studio e misi la cartellina che conteneva pagine, note eappunti in un vecchio baule addossato a un muro. Il primo impulso era stato didarle fuoco, ma non ne ebbi il coraggio. Per tutta la vita avevo sentito che lepagine che lasciavo al mio passaggio erano parte di me. La gente normale metteal mondo dei figli; noi romanzieri dei libri. Siamo condannati a metterci la vita,anche se quasi mai ce ne sono grati. Siamo condannati a morire nelle loro paginee a volte perfino a lasciare che siano loro a toglierci la vita.

Fra tutte le strane creature di carta e inchiostro che avevo portato in questomiserabile mondo, quella, la mia offerta mercenaria alle promesse delprincipale, era senza dubbio la più grottesca. Non c'era nulla in quelle pagine chemeritasse qualcosa di diverso dal fuoco, ma era pur sempre sangue del miosangue e non avevo il coraggio di distruggerla. L'abbandonai in fondo a quelbaule e uscii dallo studio afflitto, quasi vergognandomi della mia vigliaccheria edella torbida sensazione di paternità che m'ispirava quel manoscritto tenebroso.Probabilmente il principale avrebbe saputo apprezzare l'ironia della situazione. Ame, semplicemente, dava la nausea.

Cristina dormì fino al pomeriggio inoltrato. Ne approfittai per andare acomprare un po' di latte, pane e formaggio in una bottega accanto al mercato. Lapioggia era finalmente cessata, ma le strade erano piene di pozzanghere el'umidità si palpava nell'aria come se fosse una polvere fredda che penetrava neivestiti e nelle ossa. Mentre aspettavo il mio turno nella latteria, ebbi l'impressioneche qualcuno mi stesse osservando. Uscendo di nuovo in strada e attraversando ilpaseo del Born, mi guardai alle spalle e vidi che un bambino di non più di cinqueanni mi seguiva. Mi fermai e lo guardai. Anche lui si fermò e sostenne il miosguardo.

—Non avere paura— gli dissi. —Vieni.—Il bambino si avvicinò di qualche passo e si fermò a un paio di metri da me.

Aveva la pelle pallida, quasi azzurrata, come se non avesse mai visto la luce delsole. Vestiva di nero e portava scarpe di vernice nuove e lucide.

Aveva gli occhi scuri e le pupille così grandi che a stento gli si vedeva ilbianco delle cornee.

—Come ti chiami?— domandai.Il bambino sorrise e mi indicò con il dito. Cercai di fare un passo verso di lui,

ma si mise a correre e lo vidi perdersi per il paseo del Born. Quando tornai acasa, trovai una busta infilata nella porta. Il sigillo di ceralacca rossa con l'angeloera ancora tiepido. Guardai da una parte e dall'altra della strada, ma non vidinessuno. Entrai e mi chiusi il portone alle spalle a doppia mandata. Mi fermai aipiedi delle scale e aprii la busta.

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Caro amico,mi rincresce profondamente che non sia potuto venire al nostro appuntamento

ieri notte. Spero che stia bene e che non si siano verificate emergenze ocontrattempi. Mi spiace non aver potuto godere del piacere della sua compagniain questa occasione, ma spero e mi auguro che, qualunque cosa le abbia impeditodi vedermi, la questione abbia una pronta e favorevole soluzione e che laprossima volta sia più propizia a facilitare il nostro incontro.

Devo assentarmi dalla città per qualche giorno, ma appena tornato le faròavere mie notizie. Nell'attesa di sapere di lei e dei suoi progressi nel nostrocomune progetto, la saluta come sempre con affetto il suo amico

Andreas CorelliStrinsi la lettera nel pugno e me l'infilai in tasca. Entrai in casa con cautela e

accompagnai la porta con dolcezza. Mi affacciai nella camera da letto e vidi cheCristina dormiva ancora. Andai in cucina e cominciai a preparare il caffè e unapiccola colazione. Dopo pochi minuti sentii i passi di Cristina alle mie spalle. Miosservava dalla soglia con addosso un mio vecchio pullover che le arrivava ametà coscia. Aveva i capelli in disordine e gli occhi gonfi. Sulle labbra e leguance aveva i segni scuri dei colpi, come se l'avessi presa a schiaffi con forza.Sfuggiva il mio sguardo.

—Scusa— mormorò.—Hai fame?— chiesi.Scosse la testa, ma io ignorai il suo gesto e le feci cenno di sedersi a tavola. Le

servii una tazza di caffellatte zuccherato e una fetta di pane appena sfornato conformaggio e un po' di prosciutto. Non fece nemmeno la mossa di toccare il piatto.

—Solo un boccone— suggerii.Civettò di malavoglia con il formaggio e mi sorrise debolmente.—È buono— disse.—Quando lo proverai, ti sembrerà migliore.—Mangiammo in silenzio. Cristina, con mia sorpresa, mangiò metà del suo

piatto. Poi si nascose dietro la tazza di caffè e mi guardò di sottecchi.—Se vuoi, me ne vado oggi stesso— disse alla fine. —Non preoccuparti.Pedro mi ha dato dei soldi e… ——Non voglio che te ne vada da nessuna parte. Non voglio che te ne vada mai

più. Mi hai sentito?——Non sono una buona compagnia, David.——Siamo in due.——Dicevi davvero? Di andarcene lontano?—Annuii.—Mio padre diceva che la vita non dà seconde opportunità.——Le dà solo a quelli a cui non ha mai dato nemmeno la prima. In realtà, sono

opportunità di seconda mano che qualcuno non ha saputo utilizzare, ma sono

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sempre meglio di niente.—Sorrise a stento.—Portami a fare una passeggiata— disse all'improvviso.—Dove vuoi andare?——Voglio dire addio a Barcellona.—

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40

A metà pomeriggio il sole spuntò da sotto il manto di nuvole lasciato daltemporale. Le strade lucide di pioggia si trasformarono in specchi su cuicamminavano i passanti e si rifletteva il colore ambrato del cielo. Ricordo cheandammo fino all'inizio delle Ramblas, dove la statua di Colombo spuntava dallabruma. Camminavamo in silenzio, osservando le facciate e la folla come sefossero un miraggio, come se la città fosse ormai deserta e dimenticata.Barcellona non mi sembrò mai tanto bella e tanto triste quanto quel pomeriggio.Quando iniziò a far scuro, ci dirigemmo verso la libreria di Sempere e Figli. Ciappostammo in un portone dall'altra parte della strada, dove nessuno potevavederci. La vetrina della libreria proiettava una bolla di luce sui sampietrini umidie brillanti. All'interno si riusciva a scorgere Isabella in cima a una scala chemetteva in ordine i libri dell'ultimo scaffale, mentre il figlio di Sempere facevafinta di rivedere il registro della contabilità dietro il bancone e le guardava legambe di nascosto. Seduto in un angolo, vecchio e stanco, il signor Sempere liosservava entrambi con un sorriso triste.

—Questo è il posto in cui ho trovato quasi tutte le cose buone della mia vita—dissi senza pensare. —Non voglio dirgli addio.—

Quando tornammo alla casa della torre era già buio. Entrando, ci accolse ilcalore del fuoco che avevo lasciato acceso prima di uscire. Cristina miprecedette lungo il corridoio e, senza dire una parola, si spogliò lasciando una sciadi vestiti sul pavimento. La trovai stesa sul letto, in attesa. Mi sdraiai accanto a leie lasciai che mi guidasse le mani. Mentre l'accarezzavo vidi i muscoli tendersisotto la sua pelle. Nei suoi occhi non c'era tenerezza, ma un desiderio di calore edi urgenza. Mi abbandonai nel suo corpo, penetrandola con rabbia mentre sentivole sue unghie sulla pelle. La sentii gemere di dolore e di vita, come se lemancasse l'aria. Alla fine ci abbandonammo esausti e ricoperti di sudore l'unoaccanto all'altra. Cristina mi appoggiò la testa sulla spalla e cercò il mio sguardo.

—La tua amica mi ha detto che ti sei cacciato in un guaio.——Isabella?——È molto preoccupata per te.——Isabella ha la tendenza a credere di essere mia madre.——Non penso che miri a quello.—Evitai i suoi occhi.—Mi ha raccontato che stai lavorando a un libro nuovo, su incarico di un

editore straniero. Lei lo chiama il tuo principale. Dice che ti paga una fortuna, mache tu ti senti in colpa per aver accettato i soldi. Dice che hai paura di quell'uomoe che c'è qualcosa di torbido in questo affare.—

Sospirai irritato.—C'è qualcosa che Isabella non ti abbia raccontato?—

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—Il resto sono cose tra di noi— replicò facendomi l'occhiolino. —Ha forsementito?—

—Non mentiva, faceva congetture.——E di cosa tratta il libro?——È un racconto per bambini.——Isabella mi ha avvertito che avresti risposto così.——Se Isabella ti ha già dato tutte le risposte, perché mi fai queste domande?—Cristina mi guardò con severità.—Per la tua tranquillità, e per quella di Isabella, ho abbandonato il libro.C'est fini— assicurai.—Quando?——Stamattina, mentre dormivi.—Cristina aggrottò le sopracciglia, scettica.—E quell'uomo, il tuo principale, lo sa?——Non gli ho parlato. Ma suppongo lo immagini. E se non lo immagina, lo

farà molto presto.——Dovrai restituirgli i soldi, allora?——Non credo che i soldi gli importino minimamente.—Cristina sprofondò in un lungo silenzio.—Posso leggerlo?— chiese alla fine.—No.——Perché no?——È una bozza senza capo né coda. È solo un mucchio di idee e di appunti, di

frammenti sparsi. Niente di leggibile. Ti annoierebbe.——Mi piacerebbe leggerlo lo stesso.——Perché?——Perché l'hai scritto tu. Pedro dice sempre che l'unico modo di conoscere

davvero uno scrittore è attraverso la scia di inchiostro che lascia, dice che lapersona che uno crede di vedere è solo un personaggio vuoto e che la verità sinasconde sempre nella finzione.—

—Deve averlo letto su qualche cartolina.——In realtà l'ha preso da uno dei tuoi libri. Lo so perché l'ho letto anch'i-o.——Il plagio non lo innalza dal rango di stupidaggine.——Io credo che abbia un senso.——Allora sarà vero.——Quindi posso leggerlo?——No.—Cenammo con quanto restava del pane e del formaggio della mattina, seduti

l'uno di fronte all'altra al tavolo di cucina, guardandoci di tanto in tanto. Cristinamasticava senza appetito, esaminando ogni boccone di pane alla luce dellalampada prima di portarselo alla bocca.

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—C'è un treno che parte dalla stazione Francia per Parigi domani amezzogiorno— disse. —È troppo presto?—

Non riuscivo a togliermi dalla testa l'immagine di Andreas Corelli che da unmomento all'altro saliva le scale e bussava alla mia porta.

—Immagino di no— convenni.—Conosco un alberghetto di fronte ai Jardins du Luxembourg che affitta

stanze a mese. È un po' caro, però…— aggiunse.Preferii non chiederle come mai conosceva quell'albergo.—Il prezzo non importa, però non parlo francese— sottolineai.—Io sì.—Abbassai lo sguardo.—Guardami negli occhi, David.—Alzai la testa controvoglia.—Se preferisci che me ne vada… —Negai ripetutamente. Mi afferrò la mano e se la portò alle labbra.—Andrà bene, vedrai— disse. —Lo sento. Sarà la prima cosa che mi andrà

bene nella vita.—La guardai, una donna spezzata nella penombra con le lacrime agli occhi, e

non desiderai altro al mondo che poterle restituire ciò che non aveva mai avuto.Ci sdraiammo sul divano del salotto al riparo di un paio di coperte, osservando

le braci nel camino. Mi addormentai accarezzando i capelli di Cristina e pensandoche quella sarebbe stata l'ultima notte che avrei trascorso in quella casa, laprigione in cui avevo seppellito la mia gioventù.

Sognai di correre per le strade di una Barcellona infestata di orologi le cuilancette giravano in senso inverso. Vicoli e viali si curvavano al mio passaggiocome tunnel con volontà propria, formando un labirinto vivente che si prendevagioco di tutti i miei tentativi di avanzare. Alla fine, sotto un so-le di mezzogiornoche ardeva nel cielo come una sfera di metallo incandescente, riuscivo araggiungere la stazione Francia e mi dirigevo in tutta fretta verso il binario dove iltreno cominciava a muoversi. Gli correvo dietro, ma il treno prendeva velocità enonostante i miei sforzi non riuscivo a far altro che sfiorarlo con la punta delledita. Continuavo a correre fino a perdere il fiato e quando arrivavo alla fine dellabanchina cadevo nel vuoto. Quando alzavo gli occhi, era troppo tardi. Il treno,ormai distante, si allontanava, mentre il volto di Cristina mi guardava dall'ultimofinestrino.

Aprii gli occhi e seppi che Cristina non c'era. Il fuoco si era ridotto a un pugnodi cenere che a stento scintillava. Mi alzai e guardai dal finestrone.

Accostai la faccia al vetro e notai un chiarore tremulo alle finestre dellostudio. Mi diressi verso la scala a chiocciola che saliva alla torre. Un baglioreramato si spargeva sui gradini. Salii lentamente. Arrivato in cima, mi fermai sullasoglia dello studio. Cristina era di spalle, seduta per terra.

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Il baule accanto al muro era aperto. Cristina aveva tra le mani la cartellinache conteneva il manoscritto per il principale e stava sciogliendo il nodo che lachiudeva.

Sentendo i miei passi, si fermò.—Cosa ci fai qui?— domandai cercando di nascondere l'allarme nella vo-ce.Lei si voltò e sorrise.—Curiosavo.—Seguì la linea del mio sguardo fino alla cartellina che aveva fra le mani e

adottò una smorfia maliziosa.—Cosa c'è qui dentro?——Niente. Note. Appunti. Niente di interessante… ——Bugiardo. Scommetto che è il libro a cui stavi lavorando— disse iniziando a

sciogliere il nodo. —Muoio dalla voglia di leggerlo… ——Preferirei che non lo facessi— dissi nel tono più rilassato di cui fui capace.Cristina aggrottò le sopracciglia. Ne approfittai per accovacciarmi davanti a

lei e toglierle delicatamente la cartellina dalle mani.—Cosa succede, David?——Niente, non succede niente— assicurai con un sorriso stupido stampato sulle

labbra.Riannodai di nuovo lo spago della cartellina e la rimisi nel baule.—Non lo chiudi a chiave?— chiese Cristina.Mi voltai, pronto a offrirle delle scuse, ma era sparita giù per le scale.Sospirai e chiusi il baule.La trovai giù nella camera da letto. Per un istante mi guardò come se fossi un

estraneo. Rimasi sulla porta.—Scusa— iniziai.—Non c'è motivo di farlo— replicò. —Non avrei dovuto ficcare il naso do-ve

nessuno mi aveva chiamato.——Non è questo.—Mi rivolse un sorriso sotto zero e un gesto di noncuranza che tagliavano l'aria a

fette.—Non ha importanza— disse.Annuii, rimandando il secondo assalto a un altro momento.—La biglietteria della stazione apre presto— dissi. —Ho pensato di avviar-mi

in modo da essere lì appena apre e comprare i biglietti per oggi a mezzogiorno.Poi vado in banca a ritirare i soldi.—

Cristina si limitò ad annuire.—Molto bene.——Perché nel frattempo non prepari una borsa con qualche vestito? Io torno al

massimo tra un paio d'ore.—Cristina sorrise debolmente.

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—Ti aspetto qui.—Mi avvicinai e le presi il viso tra le mani.—Domani sera saremo a Parigi— le dissi.La baciai sulla fronte e me ne andai.

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41

L'atrio della stazione Francia stendeva ai miei piedi uno specchio in cui sirifletteva il grande orologio sospeso al soffitto. Le lancette segnavano le sette etrentacinque del mattino, ma gli sportelli della biglietteria erano ancora chiusi. Uncommesso armato di spazzolone e in vena di preziosismi lustrava il pavimentofischiettando una canzone e, per quanto lo permettes-se la sua zoppia, dimenandoi fianchi con un certo garbo. In mancanza di altro da fare, mi misi a osservarlo.Era un ometto minuto che il mondo aveva fatto raggrinzire su se stesso fino atogliergli tutto tranne il sorriso e il piacere di pulire quel pavimento come se sitrattasse della Cappella Sistina.

Non c'era nessun altro, e alla fine si accorse di essere osservato. Quando ilsuo quinto passaggio trasversale lo portò davanti al mio posto di osservazione suuna delle panchine di legno disposte ai lati dell'atrio, il commesso si fermò e,appoggiandosi con tutte e due le mani sullo spazzolone, trovò il coraggio perguardarmi apertamente.

—Non aprono mai all'ora che dicono— spiegò indicando gli sportelli.—E allora perché mettono un cartello che dice che aprono alle sette?—L'ometto si strinse nelle spalle e sospirò con aria filosofica.—Be', mettono anche gli orari ai treni e in quindici anni che sono qui non ne

ho visto nemmeno uno che arrivasse o partisse all'ora prevista.—Il commesso proseguì nella sua pulizia in profondità e quindici minuti più tardi

sentii che si apriva il finestrino dello sportello. Mi avvicinai e sorrisi al bigliettaio.—Credevo che apriste alle sette— dissi.—Così dice il cartello. Cosa desidera?——Due biglietti di prima classe per Parigi sul treno di mezzogiorno.——Per oggi?——Se non è troppo disturbo.—Il rilascio dei biglietti gli portò via quasi quindici minuti. Una volta terminato il

suo capolavoro, li lasciò cadere di malavoglia sul bancone.—All'una. Binario quattro. Non faccia tardi.—Pagai e, siccome non me ne andavo, fui ossequiato da uno sguardo ostile e

inquisitorio.—Qualcos'altro?—Gli sorrisi e scossi la testa, opportunità di cui approfittò per chiudermi il

finestrino in faccia. Mi girai e attraversai l'atrio immacolato e brillante per meritodel commesso, che mi salutò da lontano e mi augurò bon voyage.

La sede centrale del Banco Hispano Colonial in calle Fontanella facevapensare a un tempio. Un grande portico dava accesso a una navata fiancheggiatada statue che si estendeva fino a una fila di sportelli disposti co-me un altare. Suentrambi i lati, a mo' di cappelle e confessionali, poltrone presidenziali e tavoli di

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quercia presidiati da un esercito di funzionari e impiegati impeccabilmente vestitie armati di sorrisi cordiali. Prelevai quattromila franchi in contanti e ricevetti leistruzioni su come ritirare fondi negli uffici della banca all'incrocio fra rue deRennes e boulevard Ra-spail a Parigi, vicino all'albergo di cui aveva parlatoCristina. Con quella piccola fortuna in tasca mi accomiatai, senza dar retta aiconsigli del funzionario su quanto fosse imprudente andarsene in giro con unasomma simile in contanti.

Il sole si stagliava sopra un cielo azzurro con il colore della buona sorte, e unabrezza tersa portava il profumo del mare. Camminavo a passo leggero, come semi fossi liberato da un tremendo peso, e iniziai a pensare che la città aveva decisodi lasciarmi andar via senza rancore. Sul paseo del Born mi fermai a compraredei fiori per Cristina, rose bianche annodate da un nastro rosso. Salii le scale dellacasa della torre a due a due, con un sorriso stampato sulle labbra e la certezza chequello sarebbe stato il primo giorno di una vita che avevo creduto ormai persa persempre. Stavo per aprire quando, introducendo la chiave nella serratura, la portacedette. Era aperta.

La spinsi e avanzai nell'ingresso. La casa era silenziosa.—Cristina?—Lasciai i fiori sulla mensola dell'anticamera e mi affacciai nella camera da

letto. Cristina non c'era. Percorsi il corridoio fino al salotto in fondo.Nessuna traccia della sua presenza. Mi avvicinai alla scala dello studio e

chiamai a voce alta.—Cristina?—L'eco mi restituì la mia voce. Mi strinsi nelle spalle e consultai l'orologio che

stava in una delle cristalliere del salotto. Erano quasi le nove. Immaginai cheCristina fosse uscita in cerca di qualcosa e che, male abituata dalla sua vita aPedralbes, dove avere a che fare con porte e serrature era una questioneriservata ai domestici, avesse lasciato la porta aperta. Mentre aspettavo, decisi distendermi sul sofà del salotto. Il sole entrava dalla vetrata, un sole invernalelimpido e brillante, e invitava a lasciarsi accarezzare.

Chiusi gli occhi e cercai di pensare a cosa avrei portato con me. Avevo vissutomezza vita circondato da tutti quegli oggetti e adesso, al momento di dire loroaddio, ero incapace di compilare una breve lista di quelli che ritenevoimprescindibili. A poco a poco, senza accorgermene, steso alla calda luce del solee di quelle tiepide speranze, mi addormentai placidamente.

Quando mi svegliai e guardai l'orologio della biblioteca era mezzogiorno emezzo. Mancava appena mezz'ora alla partenza del treno. Mi alzai di scatto ecorsi verso la camera da letto.

—Cristina?—Stavolta girai tutta la casa, stanza per stanza, finché arrivai nello studio.Non c'era nessuno, però mi parve di percepire uno strano odore nell'aria.

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Fosforo. La luce che penetrava dai finestroni catturava una tenue rete difilamenti di fumo azzurrato sospesi nell'aria. Entrai nello studio e trovai un paio dicerini bruciati sul pavimento. Sentii una fitta di inquietudine e mi inginocchiaidavanti al baule. L'aprii e sospirai, sollevato. La cartellina con il manoscritto eraancora lì. Stavo per chiudere il baule quando me ne accorsi. Il nodo dello spagorosso che chiudeva la cartellina era disfatto. La presi e l'aprii. Scorsi le pagine,ma mi parve che non mancasse nulla. Richiusi la cartellina, stavolta con undoppio nodo, e la rimisi a posto. Chiusi il baule e scesi di nuovo nell'appartamento.Mi sedetti ad aspettare su una sedia in salotto, guardando il lungo corridoio checonduceva alla porta d'ingresso. I minuti passarono con infinita crudeltà.

Lentamente la coscienza di quanto era accaduto mi crollò addosso e queldesiderio di credere e sperare si trasformò pian piano in fiele e amarezza.

Ben presto sentii le campane di Santa María suonare le due. Il treno per Parigiaveva già lasciato la stazione e Cristina non era tornata. Capii allora che se n'eraandata, che quelle brevi ore che avevamo condiviso erano state un miraggio.Guardai dietro i vetri quella giornata abbagliante che non aveva più il colore dellabuona sorte e la immaginai di ritorno a Villa Helius, a cercare protezione tra lebraccia di Pedro Vidal. Sentii che il rancore mi stava avvelenando il sangue apoco a poco e risi di me stesso e delle mie assurde speranze. Incapace di fare unsolo passo, rimasi a contemplare la città che si faceva scura con il tramonto e leombre che si allungavano sul pavimento dello studio. Mi alzai e mi avvicinai allafinestra. La spalancai e mi affacciai. Davanti a me si apriva un vuoto verticale diparecchi metri, sufficienti a fracassarmi le ossa, a trasformarle in pugnali che miavrebbero attraversato il corpo lasciando che si spegnesse in una pozza di sanguein cortile. Mi chiesi se il dolore sarebbe stato atroce quanto imma-ginavo, o se laforza dell'impatto sarebbe bastata ad addormentare i sensi e a darmi una morterapida ed efficace.

In quel momento sentii i colpi alla porta. Uno, due, tre. Bussavano coninsistenza. Mi voltai, ancora stordito da quei pensieri. Di nuovo i colpi.

C'era qualcuno da basso, alla mia porta. Ebbi un tuffo al cuore e mi preci-pitai giù per le scale, convinto che Cristina fosse tornata, che lungo la strada fossesuccesso qualcosa che l'aveva trattenuta, che i miei miserabili e spregevolisentimenti di sfiducia erano stati ingiustificati: quello era, dopo tutto, il primogiorno della nuova vita. Corsi alla porta e l'aprii. Era lì, nella penombra, vestita dibianco. Volevo abbracciarla, ma a quel punto vidi il suo volto inondato di lacrimee capii che quella donna non era Cristina.

—David— mormorò Isabella con la voce spezzata. —Il signor Sempere èmorto.—

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ATTO TERZOIl gioco dell'angelo

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1

Quando arrivammo alla libreria era già scuro. Un bagliore dorato incri-nava ilnero della notte davanti alle porte di Sempere e Figli, dove un centinaio di personesi erano riunite con delle candele in mano. Alcuni piangevano in silenzio, altri siscambiavano sguardi senza sapere cosa dire. Riconobbi qualche volto, amici eclienti di Sempere, persone a cui il vecchio aveva regalato libri e che avevainiziato alla lettura. Via via che la notizia si spargeva per il quartiere, arrivavanoaltri clienti e amici che non riuscivano a credere che il signor Sempere fossemorto.

Le luci della libreria erano accese e all'interno si poteva vedere don GustavoBarceló abbracciare con forza un uomo giovane che a stento si reggeva in piedi.Non mi resi conto che era il figlio di Sempere finché Isabella non mi prese permano e mi condusse dentro la libreria. Vedendomi entrare, Barceló alzò gli occhie mi rivolse un sorriso sconfitto. Il figlio del libraio piangeva tra le sue braccia enon ebbi il coraggio di salutarlo. Fu Isabella ad avvicinarsi a lui e a posargli lamano sulla spalla. Sempere figlio si girò e vidi il suo volto abbattuto. Isabella loguidò verso una sedia e lo aiutò a sedersi. Il figlio del libraio vi crollò sopra comeun pupazzo rotto.

Isabella si chinò accanto a lui e lo abbracciò. Non mi ero mai sentito tantoorgoglioso di qualcuno quanto lo fui in quel momento di Isabella, che non misembrava più una ragazza ma una donna, più forte e saggia di tutti noi cheeravamo lì.

Barceló si avvicinò e mi tese la mano tremante. Gliela strinsi.—È successo un paio d'ore fa— spiegò con voce rauca. —Era rimasto solo

per un momento in libreria e quando suo figlio è tornato… Dicono che stavalitigando con qualcuno… Non so. Secondo il dottore è stato il cuore.—

Deglutii.—Dov'è?—Barceló indicò con la testa la porta del retrobottega. Annuii e mi diressi lì.

Prima di entrare, respirai a fondo e strinsi i pugni. Oltrepassai la soglia e lo vidi.Era steso su un tavolo, con le mani incrociate sul ventre. Aveva la pelle biancacome la carta e i tratti del viso sembravano essersi infossati, come se fossero statidi cartone. Aveva ancora gli occhi aperti. Mi accorsi che mi mancava l'aria esentii come se qualcosa mi colpisse con enorme violenza allo stomaco. Miappoggiai al tavolo e respirai a fondo. Mi chinai su di lui e gli chiusi le palpebre.Gli accarezzai la guancia, che era gelida, e guardai attorno a me quel mondo dipagine e di sogni che lui aveva creato.

Volli credere che Sempere fosse ancora lì, fra i suoi libri e i suoi amici.Sentii dei passi alle mie spalle e mi voltai. Barceló scortava un paio di uomini

vestiti di nero dall'aspetto cupo, la cui professione non lasciava adito a dubbi.

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—Questi signori sono delle pompe funebri— disse Barceló.I due salutarono annuendo con gravità professionale e si avvicinarono a

esaminare il corpo. Uno di loro, alto e magro, fece un esame molto sommario esegnalò qualcosa al collega, che annuì e annotò le indicazioni su un bloc notes.

—In linea di principio il funerale sarà domani pomeriggio, al cimitero delEste— disse Barceló. —Ho preferito farmi carico io della questione perché ilfiglio è distrutto, l'ha visto. E in queste cose, quanto prima… —

—Grazie, don Gustavo.—Il libraio lanciò un'occhiata al suo vecchio amico e sorrise fra le lacrime.—E cosa faremo adesso che il vecchio ci ha lasciati soli?— disse.—Non lo so… —Uno degli addetti delle pompe funebri tossicchiò discretamente, facendo

intendere che aveva qualcosa da comunicare.—Se siete d'accordo, il mio collega e io andremmo adesso a prendere la

cassa e… ——Faccia quello che deve fare— lo interruppi.—Qualche preferenza riguardo al rito funebre?—Lo guardai senza capire.—Il defunto era credente?——Il signor Sempere credeva nei libri— dissi.—Capisco— disse mentre si ritirava.Guardai Barceló, che si strinse nelle spalle.—Mi faccia domandare al figlio— aggiunsi.Ritornai in libreria. Isabella mi lanciò un'occhiata inquisitoria e si alzò,

lasciandomi il posto accanto a Sempere figlio. Mi si avvicinò e le sussurrai i mieidubbi.

—Il signor Sempere era un buon amico del parroco della chiesa di Santa Ana,qui vicino. Corre voce che quelli del vescovado vogliono cacciarlo da anni perchéè ribelle e indisciplinato, ma è tanto vecchio che hanno preferito aspettare chemuoia per i fatti suoi perché con lui non riescono ad averla vinta.—

—È l'uomo di cui abbiamo bisogno— dissi.—Ci parlo io— disse Isabella.Indicai Sempere figlio.—Come sta?—Isabella mi guardò negli occhi.—E lei?——Bene— mentii. —Chi rimane con lui stanotte?——Io— disse senza esitare un istante.Annuii e la baciai sulla guancia prima di tornare nel retrobottega. Barceló si

era seduto di fronte al suo vecchio amico. Mentre i due addetti delle pompefunebri prendevano misure e chiedevano di scarpe e vestiti, versò due bicchieri di

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brandy e me ne diede uno. Mi sedetti accanto a lui.—Alla salute dell'amico Sempere, che insegnò a tutti noi a leggere, quando

non a vivere— disse.Brindammo e bevemmo in silenzio. Restammo lì finché gli addetti

dell'agenzia funeraria rientrarono con la bara e i vestiti con cui Sempere sarebbestato seppellito.

—Se siete d'accordo, ce ne occupiamo noi— suggerì quello che pareva piùsveglio. Annuii. Prima di tornare in libreria raccolsi la vecchia copia di Grandisperanze che non mi ero mai ripreso e la misi tra le mani del signor Sempere.

—Per il viaggio— dissi.Dopo un quarto d'ora gli addetti dell'agenzia sollevarono il feretro e lo

depositarono su un grande tavolo disposto al centro della libreria. Una folla dipersone si era riunita in strada e attendeva in un profondo silenzio.

Andai verso le porte della libreria e le aprii. A uno a uno, gli amici di Semperee Figli sfilarono all'interno del negozio per vedere il libraio. Più d'uno non riuscivaa trattenere le lacrime. Di fronte a quello spettacolo, Isabella prese per mano ilfiglio e se lo portò nella casa, proprio sopra la libreria, dove aveva vissuto con ilpadre per tutta la vita. Barceló e io restammo lì, a far compagnia al vecchioSempere mentre la gente veniva a salutarlo per l'ultima volta. Alcuni, i più intimi,si trattenevano. La veglia durò tutta la notte. Barceló rimase fino alle cinque delmattino e io fino a quando Isabella scese, poco dopo l'alba, e mi ordinò diandarmene a casa, almeno per lavarmi e cambiarmi.

Guardai il povero Sempere e le sorrisi. Non potevo credere che oltrepas-sando quella porta non lo avrei più trovato dietro il bancone. Ricordai la primavolta che ero stato nella libreria, quando ero solo un ragazzino, e il libraio mi erasembrato alto e forte. Indistruttibile. L'uomo più saggio del mondo.

—Se ne vada a casa, per favore— sussurrò Isabella.—A far che?——Per favore… —Mi accompagnò in strada e mi abbracciò.—So quanto lo stimava e quello che significava per lei— mi disse.Nessuno lo sapeva, pensai. Nessuno. Però annuii, e dopo averla baciata sulla

guancia cominciai a camminare senza meta, percorrendo strade che misembravano più vuote che mai, convinto che se non mi fossi fermato, se avessicontinuato a camminare, non mi sarei reso conto che il mondo che credevo diconoscere non c'era più.

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2

La folla si era riunita all'ingresso del cimitero ad aspettare l'arrivo del carrofunebre. Nessuno osava parlare. Si sentiva il rumore del mare in lontananza el'eco di un treno merci che scivolava verso la città di fabbriche che si estendevaalle spalle del camposanto. Faceva freddo e granelli di neve fluttuavano nelvento. Poco dopo le tre del pomeriggio il carro funebre, tirato da cavalli neri,imboccò un'avenida de Icària fiancheggiata da cipressi e vecchi magazzini. Ilfiglio di Sempere e Isabella viaggiavano con lui. Sei colleghi della associazionedei librai di Barcellona, tra i quali don Gustavo, sollevarono il feretro sulle spalle elo trasportarono all'interno del cimitero. La gente li seguì, formando una comitivasilenziosa che percorse le strade e i padiglioni sotto un manto di nuvole basse cheondeggiavano come una lamina di mercurio. Sentii qualcuno dire che il figlio dellibraio sembrava invecchiato di quindici anni in una sola notte. Lo chiamavano ilsignor Sempere, perché adesso era lui il responsabile della libreria, e per quattrogenerazioni quel bazar incantato di calle Santa Ana non aveva mai cambiatonome ed era sempre stato diretto da un signor Sempere. Isabella lo teneva per ilbraccio e mi parve che, se non ci fosse stata lei, sarebbe crollato come unburattino privo di fili.

Il parroco della chiesa di Santa Ana, un veterano dell'età del defunto,aspettava davanti al sepolcro, una lastra di marmo sobria e senza orpelli chepassava quasi inavvertita. I sei librai che avevano portato il feretro lodepositarono davanti alla tomba. Barceló, che mi aveva visto, mi salutò con uncenno del capo. Preferii rimanere indietro, non so se per vigliaccheria o perrispetto. Da lì potevo vedere la tomba di mio padre, a una trentina di metri. Unavolta che la folla si fu schierata attorno al feretro, il parroco al-zò gli occhi esorrise.

—Il signor Sempere e io siamo stati amici per quasi quarant'anni, e in tuttoquesto tempo abbiamo parlato di Dio e dei misteri della vita una sola volta. Quasinessuno lo sa, però il signor Sempere non era più stato in chiesa dal funerale disua moglie Diana, al cui fianco lo accompagniamo oggi affinché riposino unoaccanto all'altra per sempre. Forse per questo tutti lo prendevano per un ateo, malui era un uomo di fede. Credeva nei suoi amici, nella verità delle cose e inqualcosa a cui non osava dare un nome e un volto perché diceva che per farquesto c'eravamo noi preti. Il signor Sempere credeva che tutti facciamo parte diqualcosa, e che, lasciando questo mondo, i nostri ricordi e i nostri desideri nonvanno perduti, ma diventano i ricordi e i desideri di chi prende il nostro posto. Nonsapeva se avevamo creato Dio a nostra immagine e somiglianza, o se lui avevacreato noi senza sapere bene quello che faceva. Credeva che Dio, o chiunque ciabbia messo qui, vive in ciascuna delle nostre azioni, in ciascuna delle nostreparole, e si manifesta in tutto ciò che ci fa essere qualcosa di più che semplici

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statue di fango. Il signor Sempere credeva che Dio vivesse un po', o molto, neilibri e per questo dedicò la propria vita a condividerli, a proteggerli e adassicurarsi che le loro pagine, come i nostri ricordi e i nostri desideri, nonandassero mai perdute, perché credeva, e fece credere anche a me, che finchéfosse rimasta una sola persona al mondo capace di leggerli e di viverli, sarebberestato un frammento di Dio o di vita. So che al mio amico non sarebbe piaciutoche ci accomiatassimo da lui con orazioni e canti. So che gli sarebbe bastatosapere che i suoi amici, tanti quanti sono venuti qui oggi a salutarlo, nonl'avrebbero mai dimenticato. Non ho dubbi che il Signore, sebbene il vecchioSempere non se l'aspettasse, accoglierà accanto a sé il nostro caro amico, e soche vivrà per sempre nei cuori di tutti i presenti, di tutti coloro che un giornoscoprirono la magia dei libri grazie a lui, e di tutti coloro che, anche senzaconoscerlo, un giorno oltre-passeranno le porte della sua piccola libreria, dove,come a lui piaceva di-re, la storia è appena cominciata. Riposi in pace, Sempere,amico mio, e che Dio conceda a tutti noi l'opportunità di onorare la sua memoriae il privilegio di averla conosciuta.—

Un infinito silenzio pervase il cimitero quando il parroco finì di parlare earretrò di qualche passo, benedicendo la bara e abbassando lo sguardo. A unsegnale del capo degli addetti delle pompe funebri, i becchini si fecero avanti ecalarono il feretro lentamente con delle corde. Ricordo il rumore della bara chetoccava il fondo e i singhiozzi soffocati della gente. Ricordo che rimasi lì,incapace di fare un passo, osservando i becchini che ricoprivano la tomba con lagrande lastra di marmo su cui si leggeva solo la parola Sempere e nella quale suamoglie Diana giaceva da ventisei anni.

Lentamente, la folla si ritirò verso le porte del cimitero, dove si divise ingruppi che non sapevano dove andare, perché nessuno voleva muoversi da lì elasciare il povero signor Sempere. Barceló e Isabella, uno per lato, si portaronovia il figlio del libraio. Rimasi lì fin quando tutti si furono allon-tanati e solo alloraosai avvicinarmi alla tomba di Sempere. Mi inginocchiai e poggiai la mano sulmarmo.

—A presto— mormorai.Lo sentii avvicinarsi e seppi che era lui prima di vederlo. Mi alzai e mi voltai.

Pedro Vidal mi offrì la mano e il sorriso più triste che avessi mai visto.—Non mi stringi la mano?— domandò.Non lo feci, e qualche secondo dopo Vidal annuì tra sé e ritirò la sua.—Cosa ci fa lei qui?— sbottai.—Sempere era anche mio amico— replicò.—Già. Ed è solo?—Vidal mi guardò senza capire.—Dov'è?— chiesi.—Chi?—

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Mi lasciai sfuggire una risata amara. Barceló, che ci aveva visto, si stavaavvicinando con aria costernata.

—Cosa le ha promesso adesso per comprarla?—Lo sguardo di Vidal s'indurì.—Non sai quello che dici, David.—Avanzai fino a sentire il suo fiato sulla faccia.—Dov'è?— insistetti.—Non lo so— rispose.—Certo— dissi distogliendo lo sguardo.Mi girai, pronto a incamminarmi verso l'uscita, ma Vidal mi afferrò per il

braccio e mi fermò.—David, aspetta… —Prima che mi rendessi conto di quello che stavo facendo, mi girai e lo colpii

con tutte le mie forze. Il mio pugno si schiantò sul suo volto e lo vidi cadereall'indietro. Mi accorsi del sangue sulla mano e sentii dei passi che siavvicinavano in tutta fretta. Un paio di braccia mi afferrarono e mi sepa-raronoda Vidal.

—Per l'amor di Dio, Martín…— disse Barceló.Il libraio si accovacciò accanto a Vidal, che aveva la bocca piena di sangue e

ansimava. Gli sostenne la testa e mi lanciò un'occhiata furiosa. Me ne andai intutta fretta, incrociando lungo la strada alcuni partecipanti alla cerimonia che sierano fermati a osservare il litigio. Non ebbi il coraggio di guardarli in faccia.

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3

Passai diversi giorni senza uscire di casa, dormendo fuori orario, senza quasitoccare cibo. Di notte mi sedevo in salotto davanti al fuoco e ascol-tavo il silenzio,sperando di sentire dei passi alla porta, convinto che sarebbe arrivata Cristina, cheappena avesse saputo della morte del signor Sempere sarebbe tornata al miofianco, anche se solo per compassione, che a quel punto già mi sarebbe bastata.Quando era trascorsa quasi una settimana dalla morte del libraio e sapevo ormaiche Cristina non sarebbe venuta, cominciai a salire di nuovo nello studio.Recuperai dal baule il manoscritto per il principale e iniziai a rileggerlo,assaporando ogni frase e ogni paragrafo. La lettura mi ispirò allo stesso temponausea e un'oscura soddisfazione. Quando pensavo ai centomila franchi cheall'inizio mi erano sembrati tanti, sorridevo tra me e mi dicevo che quel figlio dicagna mi aveva comprato per pochissimo. La vanità appannava l'amarezza, e ildolore chiudeva le porte alla coscienza. In un atto di superbia, rilessi quel LuxAeterna del mio predecessore, Diego Marlasca, e poi lo consegnai alle fiammedel camino. Dove lui aveva fallito, io avrei trionfato. Dove lui si era perso lungola strada, io avrei trovato l'uscita del labirinto.

Tornai al lavoro il settimo giorno. Attesi la mezzanotte e mi sedetti allascrivania. Un foglio bianco nel tamburo della vecchia Underwood e la città scuradietro le finestre. Le parole e le immagini mi sgorgarono dalle mani come seavessero aspettato con rabbia nella prigione dell'anima. Le pagine fluivano senzacoscienza né misura, senza altra volontà se non quella di stregare e avvelenare isensi e i pensieri. Avevo smesso di pensare al principale, alla sua ricompensa oalle sue esigenze. Per la prima volta nella vita scrivevo per me e non per qualcunaltro. Scrivevo per dar fuoco al mondo e consumarmi con lui. Lavoravo tutte lenotti fino a crollare esausto. Battevo sulla tastiera della macchina fino a quando ledita mi sanguinavano e la febbre mi annebbiava la vista.

Una mattina di gennaio in cui avevo ormai perduto la nozione del tempo sentiibussare alla porta. Ero steso sul letto, lo sguardo perduto nella vecchia foto diCristina bambina che camminava per mano a uno sconosciuto su quel molo chesi addentrava in un mare di luce, in quell'immagine che ormai mi sembraval'unica cosa bella che mi restasse e la chiave di tutti i misteri. Ignorai i colpi allaporta per diversi minuti finché sentii la sua vo-ce e seppi che non si sarebbearresa.

—Apra una buona volta. So che è lì e non me ne vado fin quando non apre laporta o non la butto giù io.—

Quando aprii, Isabella fece un passo indietro e mi guardò inorridita.—Sono io, Isabella.—Mi scostò e andò dritta in salotto a spalancare le finestre. Poi si diresse in

bagno e cominciò a riempire la vasca. Mi prese per il braccio e mi trascinò fin lì.

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Mi fece sedere sul bordo e mi guardò negli occhi, sollevando-mi le palpebre conle dita e scuotendo la testa. Senza dire una parola, cominciò a togliermi lacamicia.

—Isabella, non sono dell'umore giusto.——Cosa sono questi tagli? Cosa si è fatto?——Sono solo graffi.——Voglio che la veda un dottore.——No.——A me non si azzardi a dire di no— replicò con durezza. —Adesso si ficca

nella vasca, ci dà dentro con acqua e sapone e poi si rade la barba. Ha dueopzioni: o lo fa lei o lo faccio io. Non creda che avrei degli scrupoli.—

Sorrisi.—Lo so.——Faccia come le ho detto. Io intanto vado a cercare un dottore.—Stavo per dire qualcosa, ma lei alzò la mano e mi zittì.—Non dica nemmeno una parola. Se crede di essere l'unico a soffrire, si

sbaglia. E se non le importa lasciarsi morire come un cane, almeno abbia ladecenza di ricordare che ad altri invece importa, anche se in verità non soperché.—

—Isabella… ——In acqua. E mi faccia il piacere di togliersi i pantaloni e le mutande.——Me lo so fare il bagno.——Non si direbbe.—Mentre Isabella andava a cercare un medico, mi arresi ai suoi ordini e mi

sottoposi a un battesimo di acqua fredda e sapone. Non mi facevo la barba dalfunerale e il mio aspetto nello specchio era quello di un lupo. Avevo gli occhiiniettati di sangue e la pelle di un pallore malaticcio. Indossai vestiti puliti e misedetti ad aspettare in salotto. Isabella tornò dopo venti minuti in compagnia di undottore che mi era sembrato di vedere qualche volta in giro per il quartiere.

—Questo è il paziente. Non dia retta a quello che le dirà, perché è un bugiardo— annunciò Isabella.

Il medico mi squadrò con un'occhiata, calibrando il mio grado di ostilità.—Faccia pure, dottore. Come se io non ci fossi.—Iniziò il bizantino rituale di misurazione della pressione, auscultazioni varie,

esame delle pupille e della bocca, domande di natura misteriosa e sguardi disbieco che costituiscono la base della scienza medica. Quando esaminò i tagli cheIrene Sabino mi aveva fatto sul petto con un coltello, inarcò un sopracciglio e miguardò.

—E questi?——È lungo da spiegare, dottore.——Se li è fatti lei?—

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Scossi la testa.—Le do una pomata, ma temo che le resteranno le cicatrici.——Credo che l'intenzione fosse proprio questa.—Il medico proseguì nella visita. Io mi sottomisi a tutto, docile, guardando

Isabella, che osservava ansiosa dalla soglia. Capii quanto mi era mancata equanto apprezzavo la sua compagnia.

—Bello spavento— mormorò con disapprovazione.Il dottore mi esaminò le mani e aggrottò le sopracciglia quando vide i

polpastrelli quasi in carne viva. Me li bendò a uno a uno, mormorando tra sé.—Da quant'è che non mangia?—Mi strinsi nelle spalle. Il medico scambiò un'occhiata con Isabella.—Non c'è motivo di allarmarsi, ma vorrei visitarla nel mio studio domani al

più tardi.——Temo che non sarà possibile, dottore— dissi.—Ci sarà— assicurò Isabella.—Nel frattempo le raccomando di cominciare a mangiare qualcosa di caldo,

prima brodini e poi roba solida, molta acqua, ma niente caffè o ecci-tanti, esoprattutto riposo. Prenda un po' d'aria e di sole, ma senza fare sforzi. Leipresenta un quadro classico di esaurimento e disidratazione, e un inizio di anemia.—

Isabella sospirò.—Non è niente— azzardai.Il dottore mi guardò dubbioso e si alzò.—Domani nel mio studio, alle quattro. Qui non ho gli strumenti né le

condizioni per poterla esaminare bene.—Chiuse la valigetta e mi salutò con gentilezza. Isabella lo accompagnò

all'uscita e li sentii mormorare sul pianerottolo per un paio di minuti. Mi rivestii easpettai come un bravo paziente, seduto sul letto. Sentii la porta che si chiudeva e ipassi del medico giù per le scale. Sapevo che Isabella era nell'ingresso,aspettando qualche secondo prima di entrare in camera da letto. Quando alla finelo fece, l'accolsi con un sorriso.

—Le preparo qualcosa da mangiare.——Non ho appetito.——Non me ne importa. Adesso mangia qualcosa e poi usciamo a prendere un

po' d'aria. Punto.—Mi preparò un brodo in cui, facendo uno sforzo, misi dei tozzi di pane e che

inghiottii con aria affabile anche se sapeva di pietre. Lasciai il piatto pulito e lomostrai a Isabella, che aveva montato la guardia come un sergente di fianco ame mentre mangiavo. Subito dopo mi portò in camera da letto e cercò uncappotto nell'armadio. Mi mise guanti e sciarpa e mi spinse fino alla porta.Quando uscimmo nell'androne c'era un vento freddo, però il cielo brillava con un

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sole al crepuscolo che spruzzava le strade di ambra.Mi prese per il braccio e cominciammo a camminare.—Come due fidanzati— dissi.—Molto spiritoso.—Andammo fino al Parque de la Ciudadela e ci addentrammo nei giardini che

circondavano il pergolato. Arrivati allo stagno della grande fontana ci sedemmosu una panchina.

—Grazie— mormorai.Isabella non rispose.—Non ti ho chiesto come stai— aggiunsi.—Non è una novità.——Come stai?—Isabella si strinse nelle spalle.—I miei genitori sono felicissimi da quando sono tornata. Dicono che lei ha

avuto una buona influenza. Se sapessero… Comunque, andiamo più d'accordo.Del resto, non è che li veda molto. Passo quasi tutto il tempo in libreria.—

—E Sempere? Come ha preso la morte del padre?——Non molto bene.——E con lui come va?——È un brav'uomo— disse.Isabella restò a lungo in silenzio e abbassò la testa.—Mi ha chiesto di sposarlo— disse. —Un paio di giorni fa, al Quatre Gats.—Guardai il suo profilo, sereno e già privo di quell'innocenza giovanile che

avevo voluto vedere in lei e che probabilmente non c'era mai stata.—E allora?— chiesi alla fine.—Gli ho risposto che ci avrei pensato.——E lo farai?—Gli occhi di Isabella erano persi nella fontana.—Mi ha detto che vuole costruirsi una famiglia, avere figli… Che vivre-mo

nella casa sopra la libreria, e tireremo avanti nonostante i debiti del signorSempere.—

—Be', sei ancora giovane… —Inclinò la testa e mi guardò negli occhi.—Lo ami?—Sorrise con infinita tristezza.—Che ne so? Credo di sì, anche se non tanto quanto lui crede di amare me.——A volte, in circostanze difficili, si può confondere la compassione con

l'amore— dissi.—Non si preoccupi per me.——Ti chiedo solo di prenderti un po' di tempo.—Ci guardammo, al riparo di un'infinita complicità che non aveva più bisogno

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di parole, e l'abbracciai.—Amici?——Finché morte non ci separi.—

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4

Di ritorno a casa, ci fermammo in un negozio di alimentari di calle Comercio acomprare latte e pane. Isabella mi disse che avrebbe chiesto a suo padre diportarmi un pacco di cibi raffinati e che avrei fatto meglio a man-giarli tutti.

—Come vanno le cose in libreria?— chiesi.—Le vendite sono calate moltissimo. Io credo che alla gente faccia pena

venire perché si ricorda del povero signor Sempere. E la verità è che, con questiconti, le cose non vanno per niente bene.—

—Come sono i conti?——In rosso. In queste settimane, lavorando lì, ho dato un'occhiata ai bilan-ci e

ho verificato che il signor Sempere, riposi in pace, era un disastro. Re-galava libria chi non poteva pagarli. O li prestava e non glieli restituivano.

Comprava collezioni che sapeva di non poter vendere perché i proprietariminacciavano di bruciarle o di buttarle via. Manteneva a forza di elemosi-ne unmucchio di poetastri di mezza tacca che non sapevano dove andare a sbattere. Epuò immaginarsi il resto.—

—Creditori in vista?——Un paio al giorno, senza contare le lettere e gli avvisi della banca. La buona

notizia è che non ci mancano offerte.——Di acquisto?——Un paio di salumieri di Vic sono molto interessati ai locali.——E Sempere figlio cosa dice?——Che del maiale non si butta niente. Il realismo non è il suo forte. Dice che

ce la faremo, che devo avere fede.——E non ce l'hai?——Ho fede nell'aritmetica, e quando faccio i conti mi risulta che fra due mesi

la vetrina della libreria sarà piena di salami, budella e salsicce bianche.——Troveremo una soluzione.—Isabella sorrise.—Mi aspettavo che lo dicesse. E parlando di conti in sospeso, mi dica che non

sta più lavorando per il suo principale.—Mostrai le mani pulite.—Sono di nuovo una persona libera— dissi.Mi accompagnò su per le scale, e quando stava per salutarmi la vidi esitare.—Cosa c'è?— domandai.—Avevo pensato di non dirglielo, però… Preferisco che lo sappia da me e

non da altri. Riguarda il signor Sempere.—Entrammo e ci sedemmo in salotto davanti al fuoco, che Isabella ravvivò

mettendoci un paio di ciocchi. Le ceneri del Lux Aeterna di Marlasca eranoancora lì e la mia ex assistente mi lanciò un'occhiata che avrei potuto in-

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corniciare.—Cosa mi stavi dicendo di Sempere?——L'ho saputo da don Anacleto, uno dei vicini. Mi ha raccontato che la sera in

cui il signor Sempere è morto l'ha sentito litigare con qualcuno in negozio. Luistava tornando a casa e dice che le voci si sentivano dalla strada.—

—Con chi litigava?——Una donna. Un po' anziana. Don Anacleto ha l'impressione di non averla

mai vista da quelle parti, anche se gli risultava vagamente familiare, pe-rò condon Anacleto non si sa mai, perché gli piacciono di più gli avverbi che i confetti.—

—Ha sentito su cosa litigavano?——Gli è sembrato che parlassero di lei.——Di me?—Isabella annuì.—Il figlio era uscito un momento a fare una consegna in calle Canuda. Èstato via solo dieci o quindici minuti. Tornando ha trovato suo padre a terra,

dietro il bancone. Respirava ancora, ma era freddo. Quando è arrivato il medicoera già tardi… —

Mi parve che il mondo mi crollasse addosso.—Non avrei dovuto dirglielo…— mormorò Isabella.—No. Hai fatto bene. Don Anacleto non ha detto nient'altro su quella donna?

——Solo che li ha sentiti litigare. Gli è sembrato che discutessero di un libro. Lei

voleva comprarlo e il signor Sempere non voleva venderglielo.——E perché hanno fatto il mio nome? Non capisco.——Perché il libro era suo. I passi del cielo. L'unica copia che il signor

Sempere aveva conservato nella sua collezione personale e che non era invendita… —

Mi invase un'oscura certezza.—E il libro…?— iniziai.—Non c'è più. È scomparso— completò Isabella. —Ho controllato il registro,

perché il signor Sempere segnava tutti i libri che vendeva con la data e il prezzo, enon c'era.—

—Il figlio lo sa?——No. L'ho raccontato solo a lei. Sto ancora cercando di capire cos'è successo

quella sera in libreria. E perché. Pensavo che magari lei lo sapeva… ——Quella donna ha cercato di portarsi via il libro con la forza, e durante la lite

al signor Sempere è venuto un attacco di cuore. Ecco cos'è successo—dissi. —E tutto per un maledetto libro mio.—Sentii che mi si torcevano le budella.—C'è dell'altro— disse Isabella.

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—Cosa?——Qualche giorno dopo ho incrociato don Anacleto sulle scale. Mi ha detto di

sapere chi gli ricordava quella donna. Quella sera non l'aveva capito, ma glisembrava di averla già vista, tanti anni prima, a teatro.—

—A teatro?—Isabella annuì.—Mi ha detto di essere sicuro: la donna che ha visto quella sera in libreria era

Irene Sabino.—Sprofondai in un lungo silenzio. Isabella mi osservava, inquieta.—Ora non sono tranquilla a lasciarla qui. Non avrei dovuto dirglielo.——No, hai fatto bene. Sto bene, davvero.—Isabella scosse la testa.—Stanotte resto con lei.——E la tua reputazione?——Quella che è in pericolo è la sua. Vado un attimo al negozio dei miei per

telefonare in libreria e avvisare.——Non ce n'è bisogno, Isabella.——Non ce ne sarebbe bisogno se lei avesse accettato di vivere nel XX secolo e

avesse fatto mettere il telefono in questo mausoleo. Torno fra un quarto d'ora. Eniente discussioni.—

In assenza di Isabella, la certezza che la morte del mio vecchio amicoSempere pesava sulla mia coscienza iniziò a ghermirmi. Ricordai che il vecchiolibraio diceva sempre che i libri hanno un'anima, l'anima di chi li ha scritti e dichi li ha letti e sognati. Capii allora che fino all'ultimo istante aveva lottato perproteggermi, sacrificandosi per salvare quella carta e quell'inchiostro cheriteneva custodi della mia anima scritta. Quando Isabella tornò, carica di unaborsa di manicaretti del negozio dei genitori, le bastò guardarmi per capirlo.

—Lei conosce quella donna— disse. —La donna che ha ucciso il signorSempere… —

—Credo di sì. Irene Sabino.——Non è quella delle vecchie foto che abbiamo trovato nella stanza in fondo?

L'attrice?—Annuii.—E perché voleva quel libro?——Non lo so.—Più tardi, dopo aver mangiato qualche boccone dei manicaretti di Can

Gispert, ci sedemmo sulla grande poltrona davanti al camino. Ci stavamo in due eIsabella mi appoggiò la testa sulla spalla mentre guardavamo il fuoco.

—L'altra notte ho sognato di avere avuto un figlio— disse. —Lui michiamava, ma io non potevo sentirlo né raggiungerlo perché ero prigioniera in unposto dove faceva molto freddo e non potevo muovermi. Mi chiamava e io non

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potevo correre da lui.——È solo un sogno— dissi.—Sembrava vero.——Forse dovresti scrivere questa storia— azzardai.Isabella scosse la testa.—Ci ho pensato. E ho deciso che preferisco vivere la vita, non scriverla.Non se la prenda a male.——Mi sembra una saggia decisione.——E lei? La vivrà?——Temo che la mia vita sia già abbastanza vissuta.——E quella donna? Cristina?—Respirai a fondo.—Se n'è andata. È tornata da suo marito. Un'altra saggia decisione.—Isabella si scostò da me e mi guardò aggrottando le sopracciglia.—Cosa c'è?— chiesi.—Credo che si sbagli.——Riguardo a cosa?——L'altro giorno è venuto a trovarci don Gustavo Barceló e abbiamo parlato di

lei. Mi ha detto di aver incontrato il marito di Cristina, quel… ——Pedro Vidal.——Ecco. A sentire lui, Cristina se n'era andata con lei, non l'aveva rivista e non

ne sapeva nulla da un mese o più. In effetti, mi ha sorpreso non trovarla qui conlei, ma non osavo chiedere… —

—Sei sicura di quello che ha detto Barceló?—Isabella annuì.—Cos'ho detto adesso?— chiese Isabella, allarmata.—Niente.——C'è qualcosa che non mi sta dicendo… ——Cristina non è qui. Dal giorno in cui è morto il signor Sempere.——E allora dov'è?——Non lo so.—A poco a poco restammo in silenzio, rannicchiati nella poltrona davanti al

camino, e a notte inoltrata Isabella si addormentò. La cinsi con il braccio e chiusigli occhi, pensando a tutto quello che aveva detto e cercando di trovarci qualchesignificato. Quando il chiarore dell'alba incendiò la cristalliera del salotto, aprii gliocchi e scoprii che Isabella era già sveglia e mi guardava.

—Buon giorno— dissi.—Ho riflettuto— azzardò.—E allora?——Sto pensando di accettare la proposta del figlio del signor Sempere.——Sei sicura?—

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—No— rise.—Cosa diranno i tuoi genitori?——Ne saranno contrariati, immagino, ma gli passerà. Per me preferirebbe-ro

un prospero mercante di salumi piuttosto che uno di libri, ma dovrannoaccontentarsi.—

—Poteva andare peggio— dissi.Isabella annuì.—Sì. Sarei potuta finire con uno scrittore.—Ci guardammo a lungo, finché Isabella si alzò dalla poltrona. Prese il cappotto

e se lo abbottonò dandomi le spalle.—Devo andare— disse.—Grazie della compagnia— risposi.—Non se la lasci scappare— disse Isabella. —La cerchi, dovunque sia, e le

dica che l'ama, anche se è una bugia. A noi ragazze piace sentircelo dire.—Proprio allora si voltò e si chinò per sfiorare le mie labbra con le sue. Mi

strinse forte la mano e se ne andò senza salutare.

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5

Consumai il resto di quella settimana in giro per Barcellona alla ricerca diqualcuno che ricordasse di aver visto Cristina nell'ultimo mese. Andai nei luoghiche avevo condiviso con lei e ripercorsi invano l'itinerario prediletto di Vidal percaffè, ristoranti e negozi di lusso. A chiunque incon-trassi mostravo una fotodell'album che Cristina aveva lasciato a casa mia e domandavo se l'avesse vistadi recente. Da qualche parte m'imbattei in qualcuno che la riconosceva ericordava di averla incrociata a volte in compagnia di Vidal. Qualcuno riuscivaperfino a ricordare il suo nome.

Nessuno la vedeva da settimane. Al quarto giorno di ricerche iniziai asospettare che Cristina fosse uscita dalla casa della torre la mattina in cui eroandato a comprare i biglietti del treno e fosse evaporata dalla faccia della terra.

Ricordai allora che la famiglia Vidal aveva una camera riservata all'HotelEspana di calle Sant Pau, dietro il Liceo, a disposizione dei membri della famigliache, nelle serate d'opera, ritenevano scomodo o non avevano voglia di tornare aPedralbes in piena notte. Mi risultava che, almeno nei suoi anni di gloria, lo stessoVidal e il suo signor padre l'avevano utilizzata per intrattenersi con signorine esignore la cui presenza nella residenza ufficiale di Pedralbes, sia per il basso siaper l'alto lignaggio dell'interessata, avrebbe dato adito a pettegolezzi pococonsigliabili. Più di una volta me l'aveva offerta quando ancora vivevo nellapensione di donna Carmen, nel caso, come diceva lui, mi fosse venuta voglia didenudare qualche signora in un posto che non facesse paura. Non credevo cheCristina avesse scelto quel luogo come rifugio, se pure sapeva della sua esistenza,ma era l'ultimo posto nella mia lista e non mi veniva in mente nessun'altrapossibilità. Faceva scuro quando arrivai all'Hotel España e chiesi di parlare con ildirettore sfruttando la mia amicizia con il signor Vidal. Quando gli mostrai la fo-todi Cristina, il direttore, un uomo che la discrezione rendeva di ghiaccio, mi sorrisecortese e mi disse che « altri» dipendenti del signor Vidal erano già venuti achiedere di quella persona qualche settimana prima e che aveva detto loro lestesse cose che diceva a me. Non aveva mai visto quella signora nel suo albergo.Lo ringraziai per la sua gentilezza glaciale e m'incamminai sconfitto versol'uscita.

Passando davanti alla porta a vetri che dava al ristorante, mi sembrò diregistrare un profilo familiare con la coda dell'occhio. Il principale era seduto auno dei tavoli, unico cliente in tutto il ristorante, e degustava quelle chesembravano zollette di zucchero per il caffè. Stavo per sparire in tutta frettaquando si voltò e mi salutò con la mano, sorridendo. Maledissi la mia sfortuna egli restituii il saluto. Il principale mi fece cenno di unirmi a lui. Mi trascinai finoalla porta del ristorante ed entrai.

—Che piacevole sorpresa trovarla qui, caro amico. Stavo proprio pensando a

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lei— disse Corelli.Gli strinsi la mano di malavoglia.—La credevo fuori città— osservai.—Sono tornato prima del previsto. Posso offrirle qualcosa?—Scossi la testa. Mi invitò a sedermi al suo tavolo e io obbedii. Come

d'abitudine, il principale indossava un completo con gilet di lana nero e unacravatta di seta rossa. Impeccabile com'era di rigore in lui, ma questa volta c'eraqualcosa che non quadrava. Ci misi qualche secondo a notarlo. Non aveva sulrisvolto la spilla con l'angelo. Corelli seguì il mio sguardo e an-nuì.

—Purtroppo l'ho persa, e non so dove— spiegò.—Spero che non fosse troppo preziosa.——Il suo valore era puramente sentimentale. Ma parliamo di cose più

importanti. Come sta, amico mio? Mi sono mancate molto le nostreconversazioni, nonostante i disaccordi occasionali. È difficile incontrare buoniconversatori.—

—Lei mi sopravvaluta, signor Corelli.——Al contrario.—Ci fu un breve silenzio, senza altra compagnia che quello sguardo senza fondo.

Mi dissi che lo preferivo quando si imbarcava in una conversazione banale.Quando smetteva di parlare, il suo aspetto cambiava e l'aria attorno a lui sifaceva pesante.

—Ha preso alloggio qui?— domandai per spezzare il silenzio.—No, sono sempre nella casa accanto al Park Güell. Ho dato appuntamento

qui a un amico, ma sembra sia in ritardo. La mancanza di educazione di alcunepersone è deplorevole.—

—Credo non ci siano tante persone che osino darle un bidone, signor Corelli.—

Il principale mi guardò negli occhi.—Non molte. In realtà, l'unica che mi viene in mente è lei.—Prese una zolletta di zucchero e la fece cadere nella tazza. La seguirono una

seconda e una terza. Assaggiò il caffè e ce ne mise altre quattro. Poi ne prese unaquinta e se la portò alle labbra.

—Mi fa impazzire lo zucchero— disse.—Vedo.——Non mi dice nulla del nostro progetto, amico mio?— tagliò corto.—Qualche problema?——Ho quasi finito— dissi.Il viso del principale s'illuminò di un sorriso che preferii eludere.—Questa sì che è una grande notizia. Quando potrò averlo?——Fra un paio di settimane. Devo rivederlo. Aggiustamenti e rifiniture, più che

altro.—

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—Possiamo fissare una data?——Se vuole… ——Cosa ne dice di venerdì 23? Accetterà per allora un invito a cena per

festeggiare il successo dell'impresa?—Mancavano esattamente due settimane al venerdì 23 gennaio.—D'accordo— dissi.—Allora è confermato.—Sollevò la sua tazza di caffè stracolma di zucchero come se brindasse e la

svuotò d'un sorso.—E lei?— chiese come per caso. —Cosa la porta da queste parti?——Cercavo una persona.——Qualcuno che conosco?——No.——E l'ha trovata?——No.—Il principale sorrise lentamente, assaporando il mio mutismo.—Ho l'impressione di trattenerla contro la sua volontà, amico mio.——Sono un po' stanco, nient'altro.——Allora non voglio rubarle altro tempo. A volte dimentico che, anche se mi

piace molto la sua compagnia, forse la mia non è di suo gradimento.—Sorrisi docilmente e ne approfittai per alzarmi. Mi vidi riflesso nelle sue

pupille, un fantoccio pallido imprigionato in un pozzo oscuro.—Si riguardi, Martín. Per favore.——Lo farò.—Mi accomiatai con un cenno di assenso e mi diressi all'uscita. Mentre mi

allontanavo, sentii che si metteva in bocca un'altra zolletta e la triturava con identi.

Sulla strada verso le Ramblas vidi che le pensiline del Liceo erano accese eche una lunga fila di automobili sorvegliate da un piccolo reggimento di autisti inuniforme attendeva in strada. I cartelloni annunciavano Così fan tutte e midomandai se Vidal si fosse deciso a lasciare il castello per andare al suoappuntamento. Scrutai il capannello di autisti che si era formato e non tardai adavvistare Pep. Gli feci segno di avvicinarsi.

—Cosa ci fa qui, signor Martín?——Dov'è?——Il signore è dentro, a vedere lo spettacolo.——Non dico don Pedro. Cristina. La signora Vidal. Dov'è?—Il povero Pep deglutì.—Non lo so. Non lo sa nessuno.—Mi spiegò che da settimane Vidal cercava di rintracciarla e che suo padre, il

patriarca del clan, aveva perfino assoldato diversi membri del dipartimento di

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polizia per localizzarla.—All'inizio il signore pensava che fosse con lei… ——Non ha chiamato, o mandato una lettera, un telegramma…?——No, signor Martín. Glielo giuro. Siamo tutti molto preoccupati, e il signore,

be'… Non l'ho mai visto così da quando lo conosco. Oggi è la prima sera cheesce da quando se n'è andata la signorina, la signora, voglio di-re… —

—Ricordi se Cristina ha detto qualcosa, qualunque cosa, prima di lasciareVilla Helius?—

—Be'…— disse Pep, abbassando il tono di voce fino a ridurla a un sussurro.—La sentivo litigare con il signore. La vedevo triste. Passava molto tempo dasola. Scriveva lettere e ogni giorno andava a spedirle all'ufficio postale del paseode la Reina Elisenda.—

—Hai parlato qualche volta con lei, da solo?——Un giorno, poco prima che se ne andasse, il signore mi ha chiesto di

accompagnarla in auto dal medico.——Era malata?——Non riusciva a dormire. Il dottore le ha prescritto delle gocce di laudano.——Ti ha detto qualcosa lungo la strada?—Pep si strinse nelle spalle.—Mi ha chiesto di lei, se avevo sue notizie o se l'avevo vista.——Nient'altro?——Era molto triste. Si è messa a piangere e quando le ho chiesto cosa

succedeva mi ha detto che le mancava molto suo padre, il signor Manuel… —Lo capii in quel momento e mi maledissi per non averci pensato prima.Pep mi guardò stranito e mi chiese perché sorridevo.—Lei sa dov'è?— domandò.—Credo di sì— mormorai.Mi sembrò allora di sentire una voce dall'altro lato della strada e di notare una

figura familiare che si stagliava nell'atrio del Liceo. Vidal non aveva resistitonemmeno per il primo atto. Pep si girò un secondo per rispondere al suo padronee quando stava per dirmi di nascondermi io ero già scomparso nella notte.

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6

Perfino da lontano avevano l'aspetto inconfondibile delle brutte notizie.La brace di una sigaretta nell'oscurità della notte, sagome appoggiate al ne-ro

dei muri e volute di vapore nel fiato di tre figure che sorvegliavano il portonedella casa della torre. L'ispettore Víctor Grandes in compagnia dei suoi dueagenti da presa, Marcos e Castelo, in veste di comitato d'accoglienza. Non civoleva molto a immaginare che avevano scoperto il cadavere di Alicia Marlascasul fondo della piscina della sua casa di Sarrià e che le mie quotazioni nella listanera erano salite di parecchi punti. Appena li vidi, mi fermai e mi confusi tra leombre della strada. Li osservai per qualche istante, assicurandomi che non sifossero accorti della mia presenza ad appena una cinquantina di metri. Distinsi ilprofilo di Grandes alla luce del lampione appeso alla facciata. Retrocedettilentamente al riparo dell'oscurità che inondava le strade e m'infilai nel primovicolo, perdendomi nel groviglio di passaggi e archi della Ribera.

Dieci minuti dopo ero alle porte della stazione Francia. Gli sportelli dellabiglietteria erano già chiusi, ma si potevano ancora vedere diversi treni allineatisui binari sotto la grande volta di vetro e acciaio. Consultai il ta-bellone degli orarie vidi che, come temevo, non erano previste partenze fino al giorno successivo.Non potevo rischiare di tornare a casa e di imbattermi in Grandes e compagni.Qualcosa mi diceva che stavolta la visita al commissariato sarebbe stata apensione completa e che nemmeno i buoni uffici dell'avvocato Valera sarebberoriusciti a tirarmi fuori tanto facilmente come la volta prima.

Decisi di passare la notte in un albergo di mezza tacca di fronte al palazzodella Borsa, in plaza Palacio, dove, secondo la leggenda, sopravvivevano icadaveri viventi di ex speculatori ai quali l'avidità e l'ossessione per l'aritmeticaerano esplose in faccia, a furia di aggirarsi per casa. Scelsi quell'antro perchépensai che lì non sarebbe venuta a cercarmi nemmeno la Parca. Mi registrai conil nome di Antonio Miranda e pagai in anticipo. Il portiere, un individuodall'aspetto di mollusco che sembrava incrostato nella garitta che serviva dareception, distributore di asciugamani e negozio di souvenir, mi diede la chiave,una saponetta marca El Cid Campeador che puzzava di varechina e che mi parveusata, e mi informò che se avevo voglia di compagnia femminile potevamandarmi una domestica soprannominata la Guercia, appena fosse tornata dauna visita a domicilio.

—La rimetterà a nuovo— assicurò.Declinai l'offerta con la scusa di un principio di colpo della strega e presi le

scale augurandogli la buona notte. La stanza aveva l'aspetto e le dimensioni di unsarcofago. Una semplice occhiata mi persuase a stendermi vestito sulla brandainvece di infilarmi tra le lenzuola e fraternizzare con quello che c'era dentro. Miavvolsi in una coperta sfilacciata trovata nell'armadio - e che, puzza per puzza,

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almeno puzzava di naftalina - e spensi la luce, immaginando di trovarmi nel tipodi suite che poteva permettersi qualcuno con centomila franchi in banca. A stentoriuscii a chiudere occhio.

Lasciai l'albergo a metà mattinata e andai alla stazione. Comprai un bigliettodi prima classe con la speranza di recuperare in treno tutto il sonno perso inquell'antro. Mancavano ancora venti minuti alla partenza e mi diressi alla fila dicabine dei telefoni pubblici. Dettai alla centralinista il numero che mi aveva datoRicardo Salvador, quello dei suoi vicini del piano di sotto.

—Vorrei parlare con Emilio, per favore.——Sono io.——Mi chiamo David Martín. Sono amico del signor Ricardo Salvador. Mi ha

detto che potevo chiamarlo a questo numero in caso di urgenza.——Vediamo… Può aspettare un attimo che lo avvisiamo?—Guardai l'orologio della stazione.—Sì. Aspetto. Grazie.—Trascorsero più di tre minuti, poi sentii dei passi che si avvicinavano e la voce

di Ricardo Salvador mi riempì di tranquillità.—Martín? Sta bene?——Sì.——Grazie a Dio. Ho letto sul giornale di Roures ed ero molto preoccupato.Dove si trova?——Signor Salvador, ora non ho molto tempo. Devo assentarmi dalla città.——Sicuro che sta bene?——Sì. Mi ascolti. Alicia Marlasca è morta.——La vedova? Morta?—Un lungo silenzio. Mi sembrò che Salvador singhiozzasse e mi maledissi per

avergli dato la notizia con così poca delicatezza.—È ancora lì?——Sì… ——La chiamo per avvertirla di fare molta attenzione. Irene Sabino è viva e mi

ha seguito. C'è qualcuno con lei. Credo sia Jaco.——Jaco Corbera?——Non ne sono sicuro. Credo che sappiano che sono sulle loro tracce e stanno

cercando di far tacere tutti quelli che hanno parlato con me. Mi sembra che leiavesse ragione… —

—Ma perché Jaco sarebbe tornato proprio adesso?— chiese Salvador.—Non ha senso.——Non lo so. Ora devo andare. Volevo solo avvisarla.——Non si preoccupi per me. Se quel figlio di puttana viene a trovarmi, sa-rò

preparato. Sono venticinque anni che aspetto.—Il capostazione annunciò con un fischio la partenza del treno.

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—Non si fidi di nessuno. Ha capito? Le telefono appena torno in città.——Grazie di avermi chiamato, Martín. Faccia molta attenzione.—

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7

Il treno cominciava a scivolare lungo i binari quando mi rifugiai nel mioscompartimento e mi lasciai cadere sul sedile. Mi abbandonai al tiepido respirodel riscaldamento e al dolce sferragliare del convoglio. Ci lasciammo alle spallela città attraversando la foresta di fabbriche e fumaioli che la circondava esfuggendo al sudario di luce scarlatta che la ricopriva. Lentamente il territorioabbandonato di hangar e treni fermi sui binari morti si diluì in una superficieinfinita di campi e colline coronati da cascine e bel-vederi, boschi e fiumi.Piccole stazioni passavano veloci mentre campanili e masserie disegnavanomiraggi in lontananza.

A un certo punto del viaggio mi addormentai e quando mi svegliai il pa-esaggio era completamente cambiato. Attraversavamo scoscese vallate e rupirocciose che si ergevano tra laghi e ruscelli. Il treno costeggiava grandi boschiche risalivano i fianchi di montagne che sembravano infinite.

Dopo un po' il groviglio di montagne e tunnel scavati nella pietra si sciolse inun'ampia e aperta vallata di pianure senza fine dove branchi di cavalli selvaggicorrevano sulla neve e piccoli villaggi di case di pietra si scorge-vano inlontananza. Le vette dei Pirenei si innalzavano sull'altro lato, con i versantiinnevati accesi nel crepuscolo color ambra. Davanti a me, un'ac-cozzaglia dicase e palazzi si assiepava su una collina. Il controllore si affacciò nelloscompartimento e mi sorrise.

—Prossima fermata, Puigcerdà— annunciò.Il treno si fermò esalando una tempesta di vapore che inondò la banchina.

Scesi e mi vidi avvolto in quella nebbia che odorava di elettricità. Do-po un po'sentii la campana del capostazione e il convoglio che riprendeva la marcia.Lentamente, mentre i vagoni sfilavano sui binari, il profilo della stazione emersecome un miraggio attorno a me. Una sottile cortina di ne-vischio cadeva coninfinita lentezza. Un sole rossastro si affacciava da ovest sotto la volta di nuvole etingeva la neve come piccole braci accese.

Mi avvicinai all'ufficio del capostazione. Battei sui vetri e lui alzò gli occhi.Aprì la porta e mi rivolse uno sguardo indifferente.

—Potrebbe dirmi come trovare un posto chiamato Villa San Antonio?—Il capostazione inarcò un sopracciglio.—La clinica?——Credo di sì.—Il capostazione assunse l'espressione meditabonda di chi valuta come da-re

indicazioni e indirizzi ai forestieri, poi, dopo aver passato in rassegna il propriocatalogo di gesti e smorfie, mi offrì il seguente schizzo:

—Deve attraversare il paese, oltrepassare la piazza della chiesa e arrivare allago. Sull'altro lato troverà un lungo viale fiancheggiato da ville che finisce nel

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paseo de la Rigolisa. Lì, all'angolo, c'è un grande edificio a tre piani circondato daun giardino. Quella è la clinica.—

—E conosce qualche posto dove posso affittare una stanza?——Lungo la strada, passerà davanti all'Hotel del Lago. Dica che la manda il

Sebas.——Grazie.——Buona fortuna.—Attraversai le strade solitarie del paese sotto la neve, cercando il profilo del

campanile della chiesa. Lungo il cammino incrociai alcuni abitanti del posto chemi salutarono con un cenno d'intesa e mi guardarono di sottecchi. Arrivato inpiazza, un paio di garzoni che scaricavano un carro di carbone mi indicarono lastrada che portava al lago e, qualche minuto dopo, imboccai una via checosteggiava una grande laguna ghiacciata e bianca.

Imponenti case dai torrioni acuminati e dall'aria signorile circondavano illago, e un viale punteggiato di panchine e alberi formava un nastro attorno allagrande lastra di ghiaccio in cui erano rimaste imprigionate piccole barche a remi.Mi avvicinai alla riva e mi fermai a osservare lo stagno conge-lato che sistendeva ai miei piedi. Lo strato di ghiaccio doveva essere spesso un palmo e inqualche punto riluceva come vetro opaco, lasciando trapelare la corrente diacque scure che scivolava sotto la crosta.

L'Hotel del Lago era una casona a due piani dipinta di rosso scuro sulla rivadel lago. Prima di proseguire per la mia strada, mi fermai a prenotare una stanzaper due notti e pagai in anticipo. Il portiere m'informò che l'albergo era quasivuoto e mi fece scegliere la stanza.

—La 101 ha un panorama spettacolare dell'alba sul lago— mi disse. —Ma sepreferisce la vista a nord, ho… —

—Scelga lei— tagliai corto, indifferente alla nobile bellezza di quel pae-saggiocrepuscolare.

—Allora la 101. D'estate è la preferita dalle coppie in luna di miele.—Mi tese le chiavi di quella presunta suite nuziale e m'informò degli orari della

cena. Gli dissi che sarei tornato più tardi e gli chiesi se Villa San Antonio eralontana. Il portiere assunse la stessa espressione che avevo visto nel capostazionee scosse la testa con un sorriso affabile.

—È qui vicino, a una decina di minuti. Se prende il viale alla fine di questastrada, la vedrà in fondo. La trova in un baleno.—

Dieci minuti dopo ero alle porte di un grande giardino disseminato di fogliesecche imprigionate nella neve. Più avanti, Villa San Antonio si ergeva come unacupa sentinella avvolta nell'alone di luce dorata che emanava dai suoi finestroni.Attraversai il giardino, con il cuore che batteva forte e le mani sudate nonostanteil freddo tagliente. Salii le scale che portavano all'ingresso principale. L'atrio, unasala dal pavimento a scacchi, conduceva a una scalinata sulla quale vidi una

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ragazza vestita da infermiera che teneva per mano un uomo tremante che parevaeternamente sospeso fra due gradini, come se tutta la sua esistenza fosse rimastaimprigionata in un attimo.

—Buona sera— disse una voce alla mia destra.Aveva gli occhi neri e severi, i tratti scolpiti senza accenno di simpatia e

l'espressione grave di chi ha imparato a non attendersi altro che brutte notizie.Doveva sfiorare la cinquantina e sebbene indossasse la stessa uniforme dellagiovane infermiera che accompagnava l'anziano, tutto in lei manifestava autoritàe rango.

—Buona sera. Sto cercando una persona che si chiama Cristina Sagnier.Ho motivo di credere che sia vostra ospite… —Mi osservò senza battere ciglio.—Qui non ospitiamo nessuno, signore. Questo non è un albergo né un

residence.——Mi scusi. Ho fatto un lungo viaggio per cercare questa persona… ——Non si scusi— disse l'infermiera. —Posso chiederle se è un familiare o un

amico?——Mi chiamo David Martín. Cristina Sagnier è qui? Per favore… —L'espressione dell'infermiera si addolcì. Seguirono un'insinuazione di sorriso

amabile e un cenno d'assenso. Respirai a fondo.—Sono Teresa, la capoinfermiera del turno di notte. Se è così gentile da

seguirmi, signor Martín, l'accompagnerò nell'ufficio del dottor Sanjuán.——Come sta la signorina Sagnier? Posso vederla?—Altro sorriso lieve e impenetrabile.—Da questa parte, per favore.—La stanza era un rettangolo senza finestre incassato fra quattro pareti dipinte di

azzurro e illuminato da due lampade appese al soffitto che emette-vano una lucemetallica. Gli unici tre mobili che la occupavano erano un tavolo spoglio e duesedie. L'aria odorava di disinfettante e faceva freddo.

L'infermiera l'aveva descritto come un ufficio, ma dopo dieci minuti cheaspettavo da solo, ancorato a una sedia, riuscivo a vedere solo una cella.

La porta era chiusa, ma nonostante ciò potevo sentire voci, a volte urla isolate,al di là dei muri. Iniziavo a perdere la nozione del tempo trascorso lì quando laporta si aprì ed entrò un uomo fra i trenta e i quarant'anni con un camice bianco eun sorriso gelido come l'aria che impregnava la stanza. Il dottor Sanjuán, supposi.Aggirò il tavolo e prese posto sulla sedia di fronte alla mia. Appoggiò le mani sulripiano e mi osservò con vaga curiosità per qualche secondo prima di parlare.

—Mi rendo conto che ha fatto un lungo viaggio e che sarà stanco, ma mipiacerebbe sapere perché non è qui il signor Pedro Vidal— disse alla fine.

—Non è potuto venire.—Il dottore mi osservava senza battere ciglio, in attesa. Aveva lo sguardo freddo

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e l'atteggiamento particolare di chi non sente, ma ascolta.—Posso vederla?——Non può vedere nessuno se prima non mi dice la verità e io non so cosa ci

fa qui.—Sospirai e annuii. Non avevo fatto centocinquanta chilometri per mentire.—Mi chiamo Martín, David Martín. Sono amico di Cristina Sagnier.——Qui la chiamiamo signora Vidal.——Non me ne importa di come la chiamate. Voglio vederla. Adesso.—Il dottore sospirò.—Lei è lo scrittore?—Mi alzai impaziente.—Che specie di posto è questo? Perché non posso vederla subito?——Si sieda. Per favore. La prego.—Indicò la sedia e aspettò che mi accomodassi di nuovo.—Posso chiederle quando è stata l'ultima volta che l'ha vista o che le ha

parlato?——Più di un mese fa— risposi. —Perché?——Sa se qualcuno l'ha vista o le ha parlato dopo di lei?——No. Non lo so. Cosa sta succedendo qui?—Il dottore si portò la mano destra alle labbra, calibrando le parole.—Signor Martín, temo di avere brutte notizie.—Sentii che mi si formava un nodo alla bocca dello stomaco.—Cosa le è successo?—Il dottore mi guardò senza rispondere e per la prima volta mi sembrò di

intravedere un accenno di dubbio nei suoi occhi.—Non lo so— disse.Percorremmo un corridoio fiancheggiato da porte di metallo. Il dottor

Sanjuán mi precedeva con un mazzo di chiavi in mano. Mi parve di sentire dellevoci dietro le porte che sussurravano al nostro passaggio, soffocate tra risate epianti. La stanza era alla fine del corridoio, il dottore aprì la porta e si fermò sullasoglia, fissandomi con uno sguardo privo di espressione.

—Quindici minuti— disse.Entrai e sentii il dottore chiudere la porta alle mie spalle. Davanti a me c'era

un locale dai soffitti alti e dalle pareti bianche che si riflettevano in un pavimentodi piastrelle brillanti. Su un lato c'era un letto dalla struttura metallica avvolto inuna tenda di garza, vuoto. Un ampio finestrone contemplava il giardino innevato,gli alberi e, in lontananza, il contorno del lago.

Non la notai finché non mi avvicinai di qualche passo.Era seduta su una poltrona davanti alla finestra. Indossava un camicione

bianco e portava i capelli raccolti in una treccia. Aggirai la poltrona e la guardai.I suoi occhi rimasero immobili. Quando mi accovacciai al suo fianco non batté

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ciglio. Quando posai la mano sulla sua non mosse un solo muscolo del corpo.Notai allora le bende che le ricoprivano le braccia, dal polso al gomito, e i lacciche la tenevano legata alla poltrona. Le accarezzai la guancia raccogliendo unalacrima che le scorreva sul viso.

—Cristina— mormorai.Il suo sguardo rimase imprigionato da qualche parte, indifferente alla mia

presenza. Avvicinai una sedia e mi sedetti di fronte a lei.—Sono David— mormorai.Per un quarto d'ora restammo così, in silenzio, la sua mano nella mia, il suo

sguardo smarrito e le mie parole senza risposta. A un certo punto avvertii che laporta si apriva di nuovo e sentii qualcuno stringermi il braccio con delicatezza etirarmi via. Era il dottor Sanjuán. Mi lasciai condurre in corridoio senza opporreresistenza. Il dottore chiuse la porta e mi riaccom-pagnò in quell'ufficio gelido.Mi lasciai cadere sulla sedia e lo guardai, incapace di articolare parola.

—Vuole che la lasci solo qualche minuto?— domandò.Annuii. Il dottore si ritirò e socchiuse la porta mentre usciva. Mi guardai la

mano destra, che stava tremando, e la chiusi a pugno. A stento avvertivo il freddodi quella stanza, e non riuscii a sentire le urla e le voci che trapelavano dai muri.Seppi solo che mi mancava l'aria e che dovevo andar via da quel posto.

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8

Il dottor Sanjuán mi trovò nel ristorante dell'Hotel del Lago, seduto davanti alcamino e in compagnia di un piatto che non avevo assaggiato. Non c'era nessunaltro nella sala, tranne una cameriera che girava per i tavoli deserti e lustrava conuno strofinaccio le posate sulle tovaglie. Dietro i vetri si era fatto scuro e la nevecadeva lentamente, come polvere di vetro az-zurrino. Il dottore si avvicinò al miotavolo e mi sorrise.

—Immaginavo di trovarla qui— disse. —Tutti i forestieri ci finiscono. Io ci hopassato la mia prima notte in paese quando sono arrivato, dieci anni fa.

Che stanza le hanno dato?——A quanto pare la preferita dalle coppie in luna di miele, con vista sul lago.——Non ci creda. Lo dicono di tutte le stanze.—Fuori dalla clinica e senza il camice bianco, il dottor Sanjuán si presentava più

rilassato e affabile.—Senza l'uniforme, quasi non l'avevo riconosciuta— azzardai.—La medicina è come l'esercito. Senza abito, niente monaco— replicò.—Come sta?——Bene. Ho passato giorni peggiori.——Già. Mi è mancato prima, quando sono tornato in ufficio a cercarla.——Avevo bisogno di un po' d'aria.——Capisco. Ma contavo sul fatto che fosse meno impressionabile.——Perché?——Perché ho bisogno di lei. O meglio, è Cristina ad averne bisogno.—Deglutii.—Penserà che sono un vigliacco— dissi.Il dottore scosse la testa.—Da quanto tempo sta così?——Da settimane. Praticamente da quando è arrivata. Ed è peggiorata con il

passar del tempo.——È cosciente di dove si trova?—Il dottore si strinse nelle spalle.—Difficile saperlo.——Cosa le è successo?—Il dottor Sanjuán sospirò.—Quattro settimane fa l'hanno trovata non molto lontano da qui, nel cimitero

del paese, stesa sulla lapide del padre. Soffriva di ipotermia e delirava.L'hanno portata in clinica perché una delle guardie civili l'ha riconosciuta dai

tempi in cui era stata qui per mesi l'anno scorso per accudire il padre.Molta gente del paese la conosceva. L'abbiamo ricoverata ed è rimasta sotto

osservazione un paio di giorni. Era disidratata e probabilmente non dormiva da un

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bel po'. A tratti recuperava la coscienza. Quando lo faceva, parlava di lei. Dicevache lei correva un grande pericolo. Mi ha fatto giurare di non avvisare nessuno,né suo marito né altri, finché non avesse potuto farlo lei stessa.—

—Nonostante questo, perché non ha avvertito Vidal dell'accaduto?——L'avrei fatto, però… Le sembrerà assurdo.——Cosa?——Mi sono convinto che stesse fuggendo e ho pensato fosse mio dovere

aiutarla.——Fuggendo da chi?——Non ne sono sicuro— disse con un'espressione ambigua.—Cos'è che non vuole dirmi, dottore?——Sono solo un medico. Ci sono cose che non capisco.——Quali cose?—Il dottor Sanjuán sorrise nervosamente.—Cristina crede che qualcosa, o qualcuno, sia entrato dentro di lei e voglia

distruggerla.——Chi?——So solo che secondo Cristina ha a che fare con lei ed è qualcosa o qualcuno

che le fa paura. Per questo credo che nessun altro possa aiutarla. Per questo nonho avvertito Vidal, come sarebbe stato mio dovere. Sapevo che prima o poi lei sisarebbe fatto vivo.—

Mi guardò con una strana mescola di compassione e risentimento.—Anch'io la stimo, signor Martín. Nei mesi trascorsi qui da Cristina per suo

padre… siamo diventati buoni amici. Immagino che non le abbia parlato di me, eprobabilmente non aveva motivo per farlo. È stato un periodo molto difficile perlei. Mi ha confidato parecchie cose, e anch'io a lei, cose che non ho mai detto anessuno. In realtà, le ho perfino proposto di sposarmi, perché si renda conto chequi anche noi medici siamo un po' fuori di testa. Naturalmente ha rifiutato. Nonso perché le racconto tutto questo.—

—Ma tornerà a stare bene, vero, dottore? Si rimetterà… —Il dottor Sanjuán sviò lo sguardo verso il fuoco, sorridendo con tristezza.—Lo spero— rispose.—Voglio portarmela via.—Il medico inarcò le sopracciglia.—Portarsela via? Dove?——A casa.——Signor Martín, mi permetta di parlarle con franchezza. A parte il fatto che

lei non è un familiare stretto né il marito della paziente, il che è un semplicerequisito legale, Cristina non è in condizione di andare con nessuno da nessunaparte.—

—Sta meglio qui, rinchiusa con lei in una villa, legata a una sedia e dro-gata?

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Non mi dica che le ha proposto di nuovo di sposarla!—Il dottore mi osservò a lungo, mandando giù l'offesa che chiaramente gli

avevano provocato le mie parole.—Signor Martín, sono contento che lei sia qui perché credo che, insieme,

potremo aiutare Cristina. Sono convinto che la sua presenza le permetterà diuscire dal luogo in cui si è rifugiata, perché l'unica parola che ha pronunciatonelle ultime due settimane è il suo nome. Qualunque cosa le sia successa, credoabbia a che fare con lei.—

Il medico mi guardava come se si aspettasse qualcosa da me, una risposta atutte le domande.

—Credevo mi avesse abbandonato— iniziai. —Stavamo per metterci inviaggio, per lasciare tutto. Io ero uscito un momento a comprare i biglietti deltreno e a fare una commissione. Sono stato fuori solo un'ora e mezza.

Quando sono tornato a casa, Cristina se n'era andata.——Era successo qualcosa prima? Avevate avuto una discussione?—Mi morsi le labbra.—Non la chiamerei una discussione.——Come la chiamerebbe?——L'avevo sorpresa a sbirciare in certe carte riguardanti il mio lavoro e credo

si fosse offesa per quella che deve aver interpretato come una mia mancanza difiducia nei suoi confronti.—

—Era qualcosa di importante?——No. Un semplice manoscritto, una bozza.——Posso chiedere di che tipo di manoscritto si trattava?—Esitai.—Una fiaba.——Per bambini?——Diciamo per un pubblico familiare.——Capisco.——No, non credo che capisca. Non c'è stata nessuna discussione. Cristina si

era solo un po' infastidita perché non le avevo permesso di dargli un'occhiata,nient'altro. Quando l'ho lasciata stava bene, preparava le valigie.

Quel manoscritto non ha nessuna importanza.—Il dottore fece un cenno d'assenso più per cortesia che per convinzione.—Potrebbe darsi che mentre lei era fuori qualcuno sia andato a trovarla a

casa sua?——Nessuno all'infuori di me sapeva che era lì.——Le viene in mente qualche motivo per il quale avrebbe potuto decidere di

uscire prima del suo ritorno?——No. Perché?——Sono solo domande, signor Martín. Cerco di chiarire cosa è successo tra il

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momento in cui lei l'ha vista per l'ultima volta e la sua comparsa qui.——Cristina ha detto cosa o chi le è entrato dentro?——È un modo di dire, signor Martín. Non è entrato nulla dentro Cristina.Non è raro che pazienti reduci da un'esperienza traumatica avvertano la

presenza di familiari defunti o di persone immaginarie, o che si rifugino nellapropria mente e chiudano le porte all'esterno. È una risposta emotiva, un modoper difendersi da sentimenti o emozioni inaccettabili. Questo, adesso, non devepreoccuparla. Ciò che conta e che ci può aiutare è che, se c'è qualcunoimportante ora per Cristina, quella persona è lei. Dalle cose che mi ha raccontatoa suo tempo e che sono restate fra noi, e da quanto ho osservato in queste ultimesettimane, mi risulta che Cristina l'ama, signor Martín. L'ama come non ha maiamato nessuno, e certamente come non amerà mai me. Per questo le chiedo diaiutarmi, di non lasciarsi accecare dal risentimento o dalla paura e di aiutarmi,perché tutti e due vogliamo la stessa cosa. Tutti e due vogliamo che Cristina possaandarsene da qui.—

Annuii pieno di vergogna.—Mi scusi se prima… —Il medico sollevò la mano per zittirmi. Si alzò e si mise il cappotto. Mi tese la

mano e gliela strinsi.—L'aspetto domani— disse.—Grazie, dottore.——Grazie a lei. Per essere al suo fianco.—La mattina dopo uscii dall'hotel quando il sole iniziava ad alzarsi sul la-go

gelato. Un gruppo di bambini giocava sulla riva tirando pietre e cercando dicolpire lo scafo di una barchetta imprigionata nel ghiaccio. Aveva smesso dinevicare e si potevano vedere le montagne bianche in lontananza e grandi nuvolepasseggere che scivolavano nel cielo come monumentali città di vapore. Arrivaialla clinica di Villa San Antonio poco prima delle nove. Il dottor Sanjuán miaspettava in giardino con Cristina. Erano seduti al sole e il medico le teneva lamano mentre le parlava. Lei lo guardava appena. Quando mi vide attraversare ilgiardino, il dottore mi fece cenno di avvicinarmi. Mi aveva sistemato una sedia difronte a Cristina. Mi sedetti e la guardai, i suoi occhi nei miei senza vedermi.

—Cristina, guarda chi è venuto— disse il dottore.Le presi la mano e mi avvicinai a lei.—Le parli— disse il dottore.Annuii, perso in quello sguardo assente, senza trovare le parole. Il medico si

alzò e ci lasciò soli. Lo vidi scomparire all'interno della clinica, non senza avereprima ordinato a una delle infermiere di non toglierci gli occhi di dosso. Ignorai lapresenza dell'infermiera e avvicinai la sedia a Cristina.

Le scostai i capelli dalla fronte e lei sorrise.—Ti ricordi di me?— domandai.

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Potevo vedere il mio riflesso nei suoi occhi, però non sapevo se mi vedeva ose sentiva la mia voce.

—Il dottore dice che presto ti rimetterai e potremo tornare a casa. Dovevorrai. Ho pensato di lasciare la casa della torre e di andarcene molto lontano,come volevi tu. Dove nessuno ci conosca e a nessuno importi chi siamo e da doveveniamo.—

Le avevano coperto le mani con guanti di lana per nascondere le bende sullebraccia. Era calata di peso e aveva rughe profonde sulla pelle, labbra screpolatee occhi spenti e privi di vita. Mi limitai a sorridere e ad accarez-zarle il viso e lafronte, parlando senza tregua, raccontandole quanto mi era mancata e chel'avevo cercata dappertutto. Trascorremmo così un paio d'o-re, finché il medicotornò con un'infermiera e la portarono dentro. Rimasi seduto lì in giardino, senzasapere dove andare, fino a quando vidi comparire di nuovo il dottor Sanjuán sullaporta. Si avvicinò e si sedette accanto a me.

—Non ha detto una parola— spiegai. —Non credo si sia nemmeno resa contoche ero qui… —

—Si sbaglia, amico mio— disse. —È un processo lento, ma le assicuro che lasua presenza l'aiuta, e molto.—

Annuii all'elemosina e alle bugie pietose del dottore.—Domani ci riproviamo— disse.Era appena mezzogiorno.—E cosa faccio fino a domani?— chiesi.—Non è uno scrittore? Scriva. Scriva qualcosa per lei.—

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9

Ritornai in albergo costeggiando il lago. Il portiere mi spiegò come trovare l'unicacartoleria del paese, dove riuscii a comprare dei fogli e una stilografica che era lìda tempi immemorabili. Una volta armato, mi chiusi nella stanza. Spostai il tavolodavanti alla finestra e ordinai un thermos di caffè. Passai quasi un'ora a guardareil lago e le montagne in lontananza prima di scrivere una sola parola. Ricordai lavecchia fotografia che Cristina mi aveva regalato, quell'immagine di unabambina che camminava su un molo di legno proteso nel mare il cui mistero erasempre sfuggito alla sua memoria. Immaginai di camminare su quel molo,immaginai che i miei passi mi conducevano dietro di lei, e lentamente le paroleiniziarono a flui-re e lo scheletro di una piccola storia si insinuò tra le righe. Seppiche avrei scritto la storia che Cristina non era mai riuscita a ricordare, la storiache l'aveva condotta da bambina a camminare su quelle acque rilucenti tenendoper mano uno sconosciuto. Avrei scritto la storia di quel ricordo che non era maistato tale, la memoria di una vita rubata. Le immagini e la luce che siaffacciavano nelle frasi mi riportarono nella vecchia Barcellona tenebrosa che ciaveva segnati entrambi. Scrissi fino al tramonto e fino a quando nel thermos nonrestò nemmeno una goccia di caffè, fino a quando il lago gelato si accese di unaluna azzurra e mi fecero male gli occhi e le mani. Lasciai cadere la penna escostai i fogli sul tavolo. Quando il portiere bussò alla porta per domandarmi sescendevo a cenare, non lo sentii. Mi ero addormentato profondamente, sognandoe credendo, per una volta, che le parole, perfino le mie, avessero il potere dicurare.

Passarono quattro giorni al ritmo della stessa routine. Mi svegliavo all'alba euscivo sul balcone della stanza per vedere il sole tingere di rosso il lago ai mieipiedi. Arrivavo in clinica verso le otto e mezzo e trovavo il dottor Sanjuán sedutosui gradini dell'ingresso che contemplava il giardino con una tazza di caffèfumante tra le mani.

—Non dorme mai, dottore?— gli chiedevo.—Non più di lei— rispondeva.Verso le nove, il medico mi accompagnava nella stanza di Cristina e apriva la

porta. Ci lasciava soli. La trovavo sempre seduta sulla stessa poltrona davanti allafinestra. Avvicinavo una sedia e le prendevo la mano. A stento si accorgeva dellamia presenza. Poi iniziavo a leggere le pagine che avevo scritto per lei la notteprima. Ogni giorno ricominciavo dall'inizio. A volte interrompevo la lettura ealzando gli occhi mi stupivo scoprendo un accenno di sorriso sulle sue labbra.Passavo la giornata con lei fin quando il dottore tornava al tramonto e michiedeva di andarmene. Poi mi trascinavo per le strade deserte sotto la neve erientravo in albergo, mangiavo qualcosa e salivo in camera per continuare ascrivere finché non mi vince-va la stanchezza. I giorni smisero di avere un nome.

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Il quinto giorno entrai nella stanza di Cristina come tutte le mattine, ma lapoltrona in cui mi aspettava sempre era vuota. Allarmato, mi guardai intorno e latrovai rannicchiata a terra, raggomitolata in un angolo, che si stringeva leginocchia e con il volto pieno di lacrime. Quando mi vide sorrise e capii che miaveva riconosciuto. Mi inginocchiai davanti a lei e l'abbracciai. Non credo diessere mai stato tanto felice come in quei miseri secondi in cui sentii il suo fiatosul viso e vidi che un filo di luce le era ritor-nato negli occhi.

—Dove sei stato?— domandò.Quel pomeriggio il dottor Sanjuán mi diede il permesso di portarla a

passeggio per un'ora. Camminammo fino al lago e ci sedemmo su una panchina.Iniziò a parlarmi di un sogno che aveva fatto, la storia di una bambina che vivevain una città labirintica e oscura le cui strade e i cui palazzi si nutrivano delle animedegli abitanti. Nel suo sogno, come nel racconto che le avevo letto per diversigiorni, la bambina riusciva a fuggire e arrivava a un molo proteso su un maresconfinato. Camminava tenendo per mano uno sconosciuto senza nome né voltoche l'aveva salvata e che adesso l'accompagnava verso l'estremità di quellapiattaforma di assi sporgente sulle acque dove qualcuno l'aspettava, qualcuno chenon riusciva mai a vedere, perché il suo sogno, come la storia che le avevo letto,era incompiu-to.

Cristina ricordava vagamente Villa San Antonio e il dottor Sanjuán. Arrossìraccontandomi che credeva che le avesse proposto di sposarla la settimanaprima. Il tempo e lo spazio le si confondevano negli occhi. A volte credeva chesuo padre fosse ricoverato in una delle stanze e che lei fosse venuta a trovarlo. Unistante dopo non ricordava come era arrivata fin lì e spesso nemmeno se lochiedeva. Ricordava che io ero uscito per comprare dei biglietti per un treno e, atratti, alludeva alla mattina in cui era scomparsa come se fosse successo il giornoprima. A volte mi confondeva con Vidal e mi chiedeva scusa. Altre volte la paurale oscurava il viso e si metteva a tremare.

—Si avvicina— diceva. —Devo andarmene. Prima che ti veda.—Allora sprofondava in un lungo silenzio, indifferente alla mia presenza e al

mondo, come se qualcosa l'avesse trascinata in un luogo remoto e irrag-giungibile. Trascorso qualche giorno, la certezza che Cristina avesse perso laragione cominciò a penetrarmi a fondo. La speranza dei primi momenti si tinse diamarezza e a volte, tornando di notte alla cella del mio albergo, sentivospalancarsi dentro di me quel vecchio abisso di oscurità e di odio che credevodimenticato. Il dottor Sanjuán, che mi osservava con la stessa pazienza e la stessatenacia che riservava ai suoi malati, mi aveva avvertito che sarebbe accaduto.

—Non deve perdere la speranza, amico mio— diceva. —Stiamo facendograndi progressi. Abbia fiducia.—

Io annuivo docilmente e giorno dopo giorno tornavo in clinica per portareCristina a passeggio fino al lago, per ascoltare quei ricordi sognati che mi aveva

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raccontato decine di volte ma che riscopriva di nuovo ogni giorno. Ogni giorno michiedeva dove ero stato, perché non ero tornato a prenderla, perché l'avevolasciata sola. Ogni giorno mi guardava dalla sua gabbia invisibile e mi chiedeva diabbracciarla. Ogni giorno, quando ci sepa-ravamo, mi domandava se l'amavo eio le rispondevo sempre la stessa co-sa.

—Ti amerò sempre— dicevo. —Sempre.—Una notte mi svegliai sentendo bussare alla mia stanza. Erano le tre. Mi

trascinai alla porta, intontito, e sulla soglia trovai un'infermiera della clinica.—Il dottor Sanjuán mi ha chiesto di venirla a prendere.——Cos'è successo?—Dieci minuti dopo entravo a Villa San Antonio. Le urla si sentivano fin dal

giardino. Cristina aveva bloccato dall'interno la porta della sua stanza.Il dottor Sanjuán, con l'aria di chi non dorme da una settimana, e due

infermieri stavano cercando di forzarla. Dentro si sentiva Cristina che grida-va ecolpiva le pareti, rovesciava i mobili e faceva a pezzi tutto ciò che trovava.

—Chi c'è lì dentro con lei?— chiesi, raggelato.—Nessuno— rispose il medico.—Ma sta parlando con qualcuno…— protestai.—È sola.—Un sorvegliante arrivò di corsa con una sbarra di metallo.—È tutto quello che ho trovato— disse.Il dottore annuì e il sorvegliante introdusse la sbarra nel buco della serratura

iniziando a forzarla.—Come ha fatto a chiudersi dentro?— domandai.—Non lo so… —Per la prima volta mi parve di scorgere la paura sul volto del medico, che

evitava il mio sguardo. Il sorvegliante era sul punto di forzare la serratura con lasbarra quando, all'improvviso, si fece silenzio dall'altro lato della porta.

—Cristina?— chiamò il dottore.Nessuna risposta. La porta alla fine cedette e si aprì di colpo verso l'interno.

Seguii il dottore nella stanza, immersa nella penombra. La finestra era aperta eun vento gelido inondava la camera. Le sedie, i tavoli e le poltrone eranorovesciati. Le pareti erano macchiate da quello che mi parve un tratto irregolaredi pittura nera. Era sangue. Di Cristina non c'era traccia.

Gli infermieri corsero sul balcone e scrutarono il giardino in cerca di ormesulla neve, mentre il medico guardava dappertutto. Fu allora che sentimmo unarisata che proveniva dal bagno. Mi avvicinai alla porta e l'aprii.

Il pavimento era cosparso di vetri. Cristina era seduta per terra, appoggiataalla vasca di metallo come un pupazzo rotto. Le sanguinavano le mani e i piedi,cosparsi di tagli e schegge di vetro. Il suo sangue scorreva ancora lungo leincrinature dello specchio che aveva fatto a pezzi con i pugni.

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L'abbracciai e cercai il suo sguardo. Sorrise.—Non l'ho lasciato entrare— disse.—Chi?——Voleva che dimenticassi, ma non l'ho lasciato entrare— ripeté.Il dottore si accovacciò accanto a me ed esaminò i tagli e le ferite che

ricoprivano il corpo di Cristina.—Per favore— mormorò, separandomi da lei. —Adesso no.—Uno degli infermieri era corso a prendere una barella. Li aiutai ad ada-giarvi

Cristina e le tenni la mano mentre la portavano in un ambulatorio, dove il dottorSanjuán le iniettò un calmante che in pochi secondi le rubò la coscienza. Restai alsuo fianco, guardandola negli occhi finché il suo sguardo divenne uno specchiovuoto e un'infermiera mi prese per un braccio e mi portò fuori. Rimasi lì, inmezzo a un corridoio in penombra che puzzava di disinfettante, con le mani e ivestiti macchiati di sangue. Mi appoggiai al muro e mi lasciai scivolare a terra.

Cristina si svegliò il giorno dopo per ritrovarsi legata a un letto con cinghie dicuoio, rinchiusa in una stanza senza finestre e senza altra luce se non quella di unalampadina smorta appesa al soffitto. Io avevo passato la notte su una sedia in unangolo, osservandola, senza la nozione del tempo trascorso. Aprì gli occhi dicolpo, una smorfia di dolore sul viso nel sentire le fitte delle ferite alle braccia.

—David?— chiamò.—Sono qui— risposi.Mi avvicinai al letto e mi chinai perché vedesse la faccia e il sorriso a-nemico

che avevo studiato apposta per lei.—Non riesco a muovermi.——Sei legata con delle cinghie. È per il tuo bene. Appena viene il dottore, te le

toglie.——Toglimele tu.——Non posso. Dev'essere il dottore a… ——Per favore…— supplicò.—Cristina, è meglio che… ——Per favore.—C'erano dolore e paura nel suo sguardo, ma soprattutto un chiarore e una

presenza che non avevo mai visto in quei giorni andando a trovarla. Era di nuovolei. Sciolsi le prime due cinghie che le attraversavano le spalle e i fianchi. Leaccarezzai il viso. Stava tremando.

—Hai freddo?—Scosse la testa.—Vuoi che avverta il dottore?—Scosse di nuovo la testa.—David, guardami.—Mi sedetti sul bordo del letto e la guardai negli occhi.

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—Devi distruggerlo— disse.—Non ti capisco.——Devi distruggerlo.——Cosa?——Il libro.——Cristina, sarà meglio che avverta il dottore… ——No. Ascoltami.—Mi afferrò la mano con forza.—La mattina che sei andato a prendere i biglietti, ricordi? Sono salita di nuovo

nel tuo studio e ho aperto il baule.—Sospirai.—Ho trovato il manoscritto e ho cominciato a leggerlo.——È solo una fiaba, Cristina… ——Non mentire. L'ho letto, David. Abbastanza per sapere che dovevo

distruggerlo… ——Non preoccuparti di questo, adesso. Ti ho già detto che l'ho abbandonato.——Ma lui non ha abbandonato te. Ho cercato di bruciarlo… —Per un attimo, a quelle parole, le lasciai la mano, reprimendo una rabbia

fredda al ricordo dei fiammiferi usati che avevo trovato sul pavimento dellostudio.

—Hai cercato di bruciarlo?——Ma non ci sono riuscita— mormorò. —C'era qualcun altro in casa.——Non c'era nessuno in casa, Cristina. Nessuno.——Appena ho acceso il fiammifero e l'ho avvicinato al manoscritto, l'ho

sentito dietro di me. Ho sentito un colpo alla nuca e sono caduta.——Chi ti ha colpito?——Era tutto scuro, come se la luce del giorno si fosse ritratta e non potesse

entrare. Mi sono girata, ma era molto buio. Gli ho visto solo gli occhi. Occhi dalupo.—

—Cristina… ——Mi ha tolto di mano il manoscritto e l'ha rimesso nel baule.——Cristina, non stai bene. Chiamo il dottore e… ——Non mi stai ascoltando.—Le sorrisi e la baciai sulla fronte.—Certo che ti ascolto. Però non c'era nessun altro in casa… —Socchiuse gli occhi e girò la testa, gemendo come se le mie parole fossero

pugnali che le squarciassero le viscere.—Vado a chiamare il dottore… —Mi chinai per baciarla di nuovo e mi alzai. Mi avviai verso la porta, sentendo il

suo sguardo sulla schiena.—Vigliacco— disse.

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Quando tornai con il dottor Sanjuán, Cristina aveva sciolto l'ultima cinghia ebarcollava per la stanza diretta alla porta, lasciando orme insanguinate sullepiastrelle bianche. La tenemmo ferma in due e l'adagiammo di nuovo sul letto.Cristina urlava e si divincolava con una rabbia che gelava il sangue. Il baccanomise in allerta gli infermieri. Un sorvegliante ci aiutò a tenerla mentre il dottorela legava un'altra volta con le cinghie. Quando fu immobilizzata, il dottore miguardò con severità.

—La sederò ancora. Rimanga qui e non le venga in mente di scioglierle dinuovo le cinghie.—

Restai solo con lei un minuto, cercando di calmarla. Cristina continuava alottare per liberarsi delle cinghie. Le afferrai il viso e cercai di captare il suosguardo.

—Cristina, per favore… —Mi sputò in faccia.—Vattene.—Il medico tornò in compagnia di un'infermiera che portava un vassoio di

metallo con una siringa, le garze e una boccetta contenente una soluzionegiallastra.

—Esca— mi ordinò.Arretrai fino alla soglia. L'infermiera tenne ferma Cristina sul letto e il dottore

le iniettò il calmante nel braccio. Cristina urlava con voce lacerata.Mi tappai le orecchie e uscii in corridoio.Vigliacco, mi dissi. Vigliacco.

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10

Oltre la clinica Villa San Antonio si apriva un sentiero fiancheggiato da alberi checosteggiava un canale e si allontanava dal paese. La mappa incorniciata appesanella sala da pranzo dell'Hotel del Lago lo identificava con l'appellativo mielosodi paseo de los Enamorados. Quel pomeriggio, lasciando la clinica, mi avventuraiper quel cupo sentiero che, più che amoreggiamenti, suggeriva solitudine.Camminai per quasi mezz'ora senza incontrare anima viva, lasciandomi allespalle il paese finché il profilo spigoloso di Villa San Antonio e le grandi case checircondavano il lago mi sembrarono ritagli di cartone sull'orizzonte. Mi sedetti suuna delle panchine che punteggiavano il sentiero e contemplai il sole chetramontava all'altra estremità della valle della Cerdany a. Da lì, a un duecentometri, si scorgeva il profilo di un piccolo eremo isolato al centro di un campoinnevato. Senza sapere bene perché, mi alzai e mi feci strada in mezzo alla ne-ve,diretto all'edificio. Quando ero a una dozzina di metri, notai che l'eremo nonaveva portone. La pietra era annerita dalle fiamme che avevano divorato lastruttura. Salii i gradini che conducevano a quello che era stato l'ingresso eavanzai di qualche passo. I resti delle panche incendiate e delle travi cadute dalsoffitto spuntavano dalla cenere. Le sterpaglie si erano in-trufolate all'interno e siarrampicavano su quello che era stato l'altare. La luce del crepuscolo penetravadalle anguste finestre di pietra. Mi sedetti su quanto restava di una panca di fronteall'altare e sentii il vento sussurrare tra le crepe della volta consumata dal fuoco.Alzai gli occhi e desiderai avere anche solo una briciola della fede, in Dio o neilibri, che aveva alber-gato il mio vecchio amico Sempere, per pregare Dio ol'inferno di concedermi un'altra opportunità e di lasciarmi portar via Cristina da lì.

—Per favore— mormorai, mordendomi le lacrime.Sorrisi amaramente, un uomo ormai sconfitto che supplicava meschinità a un

Dio in cui non aveva mai creduto. Mi guardai intorno e vidi quella ca-sa di Diofatta di rovina e di cenere, di vuoto e di solitudine. Allora seppi che sarei tornato aprenderla quella notte stessa, senza altro miracolo né benedizione se non la miadeterminazione di portarmela via e di strapparla dalle mani di quel dottorepusillanime e cascamorto che aveva deciso di farne la sua bella addormentata.Avrei dato fuoco alla clinica piuttosto che permettere che qualcuno le mettesse dinuovo le mani addosso. Me la sarei portata a casa per morire accanto a lei.L'odio e la rabbia avrebbero illuminato il mio cammino.

Lasciai il vecchio eremo all'imbrunire. Attraversai quel campo d'argento chebrillava alla luce della luna e ritornai al sentiero nel bosco seguendo le tracce delcanale nelle tenebre, finché avvistai in lontananza le luci di Villa San Antonio e lacittadella di torrioni e mansarde che circondavano il lago.

Arrivato in clinica, non mi presi la briga di tirare il campanello che c'era alcancello. Saltai il muro e attraversai il giardino strisciando nell'oscurità.

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Aggirai la casa e mi avvicinai a uno degli ingressi posteriori. Era chiusodall'interno, ma non esitai un istante a colpire il vetro con il gomito per romperloe raggiungere la maniglia. Mi inoltrai nel corridoio, ascoltando le voci e imormorii, sentendo nell'aria l'aroma di brodo che saliva dalle cucine. Attraversaiil piano fino ad arrivare alla stanza in fondo, dove il buon dottore aveva rinchiusoCristina, senza dubbio fantasticando di farne la sua bella addormentata, prostrataper sempre in un limbo di farmaci e cinghie.

Avevo immaginato di trovare chiusa la porta della stanza, però la maniglia micedette sotto la mano. Spinsi la porta ed entrai. La prima cosa che notai fu chepotevo vedere il mio fiato fluttuare davanti alla faccia. La seconda fu che ilpavimento a piastrelle bianche era pieno di orme insanguinate. Il finestrone chedava sul giardino era spalancato e le tende ondeggiavano al vento. Il letto eravuoto. Mi avvicinai e presi una delle cinghie di cuoio con cui il dottore e gliinfermieri avevano legato Cristina. Erano tagliate di netto, come se fossero statedi carta. Uscii in giardino e vidi una scia di orme rossastre che brillavano sullaneve e si allontanavano verso il muro. La seguii e tastai il muro di pietra checircondava il giardino. C'era del sangue. Mi arrampicai e saltai dall'altra parte.Le orme, erratiche, si allontanavano in direzione del paese. Ricordo di essermimesso a correre.

Seguii le tracce sulla neve fino al parco che circondava il lago. La luna pienaardeva sulla grande lastra di ghiaccio. Fu lì che la vidi. Avanzava lentamente,zoppicando, sul lago ghiacciato, lasciandosi alle spalle una scia di ormeinsanguinate. Il vento agitava il camicione che le avvolgeva il corpo. Quandoraggiunsi la riva, Cristina si era addentrata una trentina di metri verso il centro dellago. Gridai il suo nome e si fermò. Si voltò lentamente e la vidi sorridere mentreuna ragnatela di crepe s'intesseva ai suoi piedi. Saltai sul ghiaccio, sentendo lasuperficie rompersi al mio passaggio, e corsi verso di lei. Cristina rimaseimmobile a guardarmi. Le incrinature sotto i suoi piedi si espandevano comeun'edera di capillari neri. Il ghiaccio cedeva sotto i miei passi e caddi bocconi.

—Ti amo— la sentii dire.Mi trascinai verso di lei, ma la rete di crepe mi cresceva sotto le mani e la

circondò. Ci separavano solo pochi metri quando sentii il ghiaccio rompersi ecederle sotto i piedi. Delle fauci nere si spalancarono e la inghiotti-rono come unpozzo di catrame. Appena scomparve sotto la superficie, le lastre di ghiaccio siricomposero sigillando l'apertura nella quale Cristina era precipitata. Spinto dallacorrente, il suo corpo scivolò un paio di metri sotto la lastra di ghiaccio. Riuscii atrascinarmi fin dove era rimasta imprigionata e colpii il ghiaccio con tutte le mieforze. Cristina, gli occhi aperti e i capelli ondeggianti nella corrente, mi osservavadall'altro lato di quella lamina traslucida. Picchiai sul ghiaccio fino a ridurmiinutilmente a pezzi le mani. Cristina non staccò mai gli occhi dai miei. Appoggiòla mano sul ghiaccio e sorrise. Le ultime bolle d'aria le sfuggivano ormai dalle

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labbra e le sue pupille si dilatarono per l'ultima volta. Un secondo dopo,lentamente, cominciò ad affondare per sempre nell'oscurità.

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11

Non tornai in camera a riprendere le mie cose. Nascosto tra gli alberi checircondavano il lago, vidi il dottore e un paio di poliziotti arrivare in albergo.Attraverso le vetrate, li vidi parlare con il direttore. Al riparo di strade oscure edeserte attraversai il paese fino a raggiungere la stazione sepolta nella nebbia.Due lampioni a gas permettevano di indovinare il profilo di un treno in attesa suibinari. Il semaforo rosso acceso all'uscita della stazione tingeva il suo scheletro dimetallo scuro. La locomotiva era ferma; lacrime di ghiaccio pendevano da levee binari come gocce di gelatina. I vagoni erano al buio, i finestrini velati dallabrina. Non si vedeva nessuna luce nell'ufficio del capostazione. Mancavanoancora parecchie ore alla partenza e la stazione era deserta.

Mi avvicinai a uno dei vagoni e provai ad aprire una porta. Era chiusadall'interno. Scesi sui binari e aggirai il treno. Protetto dall'ombra, mi arrampicaisulla piattaforma di passaggio fra i due vagoni di coda e tentai la sorte con laporta che metteva in comunicazione le carrozze. Era aperta.

Mi infilai nel vagone e avanzai nella penombra fino a uno degliscompartimenti. Entrai e chiusi la serratura dall'interno. Tremante di freddo, milasciai sprofondare nel sedile. Non osavo chiudere gli occhi per timore che losguardo di Cristina mi attendesse sotto il ghiaccio. Passarono minuti, forse ore. Aun certo punto mi chiesi perché mi stessi nascondendo e perché fossi incapace diprovare qualcosa.

Mi rifugiai in quel vuoto e aspettai lì, nascosto come un fuggiasco, ascoltando imille lamenti del metallo e del legno che si contraevano per il freddo. Scrutai leombre dietro i finestrini fin quando il fascio di luce di un lampione sfiorò le paretidella carrozza e sentii delle voci sulla banchina.

Aprii con le dita uno spioncino nella pellicola di vapore che appannava i vetrie vidi il macchinista e un paio di operai che si dirigevano verso la parte anterioredel treno. A una decina di metri, il capostazione chiacchie-rava con la coppia dipoliziotti che poco prima avevo visto all'albergo insieme al dottore. Lo vidiannuire e tirare fuori un mazzo di chiavi mentre si avvicinava al treno seguito daipoliziotti. Mi ritrassi di nuovo nello scompartimento. Qualche secondo dopo sentiiil rumore delle chiavi e lo scatto della porta del vagone che si apriva. Dei passiavanzarono dall'estremità della carrozza. Sollevai il saliscendi della serratura,lasciando la porta dello scompartimento aperta, e mi stesi a terra sotto una fila disedili, appiattito contro la parete. Sentii avvicinarsi i poliziotti, vidi il fascio delletorce che tracciavano aghi di luce azzurrata scivolando sulle vetrate degliscompartimenti. Quando i passi si fermarono davanti al mio, trattenni il respiro.Le voci si erano zittite. Sentii la porta che si apriva e gli stivali che mi passavano aun paio di palmi dalla faccia. Il poliziotto restò lì qualche secondo, poi uscì erichiuse. I suoi passi si allontanarono lungo il vagone.

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Rimasi lì, immobile. Un paio di minuti dopo sentii un tramestio, e un soffiocaldo che esalava dalla grata del riscaldamento mi accarezzò il volto. Un'ora piùtardi le prime luci dell'alba sfiorarono i finestrini. Uscii dal mio nascondiglio eguardai fuori. Viaggiatori solitari o a coppie percorrevano la banchina trascinandopacchi e valigie. Sulle pareti e sul pavimento del vagone si sentiva il rumore dellalocomotiva in moto. In pochi minuti i viaggiatori cominciarono a salire sul treno eil controllore accese le luci.

Mi sedetti di nuovo sul sedile accanto al finestrino e ricambiai i saluti diqualche passeggero che passava davanti allo scompartimento. Quando il grandeorologio della stazione batté le otto, il convoglio iniziò a muoversi.

Solo allora chiusi gli occhi e sentii le campane della chiesa suonare inlontananza con l'eco di una maledizione.

Il viaggio di ritorno fu funestato dai ritardi. Parte della linea era fuori uso enon arrivammo a Barcellona fino all'imbrunire di quel venerdì 23

febbraio. La città era sepolta sotto un cielo scarlatto sul quale si stendeva unaragnatela di fumo nero. Faceva caldo, come se l'inverno si fosse ritrattod'improvviso e un fiato sporco e umido salisse dalle grate delle fognature.Aprendo il portone della casa della torre trovai una busta bianca sul pavimento.Scorsi il sigillo di ceralacca rossa e non mi preoccupai di raccoglierla perchésapevo perfettamente quello che conteneva: un promemoria dell'appuntamentocon il principale per consegnargli il manoscritto quella sera stessa nella villaaccanto al Park Güell. Salii le scale al buio e aprii la porta dell'appartamento. Nonaccesi la luce e andai direttamente nello studio. Mi avvicinai al finestrone eosservai la stanza nel chiarore infernale distillato da quel cielo in fiamme. Laimmaginai lì, come mi aveva raccontato, in ginocchio davanti al baule. Laimmaginai mentre lo apriva e tirava fuori la cartellina con il manoscritto. Mentreleggeva quelle pagine maledette con la certezza di doverle distruggere. Mentreaccendeva i fiammiferi e avvicinava la fiamma alla carta.

C'era qualcun altro in casa.Mi avvicinai al baule e mi fermai a qualche passo di distanza, come se fossi

alle sue spalle, a spiarla. Mi chinai in avanti e lo aprii. Il manoscritto era ancora lì,ad aspettarmi. Allungai la mano per sfiorare la cartellina con le dita,accarezzandolo. Fu allora che la vidi. Il profilo d'argento brillava sul fondo delbaule come una perla sul fondo di uno stagno. La presi fra le dita e l'esaminai allaluce di quel cielo insanguinato. La spilla dell'angelo.

—Figlio di puttana— mi sentii dire.Presi la scatola con il vecchio revolver di mio padre dal fondo dell'armadio.

Aprii il tamburo e verificai che era carico. Misi la scatola di munizioni nella tascasinistra del cappotto. Avvolsi l'arma in uno strofinaccio e la infilai nella tascadestra. Prima di uscire mi fermai un istante a contemplare lo sconosciuto che miosservava dallo specchio dell'ingresso. Sorrisi, con la pace dell'odio che mi

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bruciava nelle vene, e uscii nella notte.

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12

La casa di Andreas Corelli si ergeva sulla collina, stagliandosi contro un manto dinuvole rosse. Alle sue spalle ondeggiava il bosco di ombre del Park Güell. Il ventoagitava i rami e le foglie sibilavano come serpenti nel buio. Mi fermai davantiall'ingresso ed esaminai la facciata. Non c'era nemmeno una luce accesa in tuttala casa. Le imposte dei finestroni erano chiuse. Sentii alle mie spalle il respiro deicani che si aggiravano dietro i muri del parco, seguendo i miei passi. Estrassi ilrevolver dalla tasca e mi girai verso il cancello d'ingresso, dove s'intravedevano icontorni degli animali, ombre liquide che scrutavano dall'oscurità.

Mi avvicinai alla porta principale e diedi tre colpi secchi al battente. Nonaspettai la risposta. Avrei fatto saltare la serratura con il revolver, ma non ce nefu bisogno. La porta era aperta. Girai la maniglia di bronzo fino a far scattare laserratura e la porta di rovere scivolò lentamente verso l'interno per l'inerzia delsuo stesso peso. Il lungo corridoio mi si spalancava di fronte, con lo strato dipolvere sul pavimento che brillava come sabbia fi-ne. Avanzai di qualche passo emi avvicinai alla scalinata a un lato dell'ingresso che scompariva in una spirale diombre. Proseguii lungo il corridoio che portava in salotto. Decine di sguardi miseguivano dalla galleria di vecchie foto incorniciate che ricoprivano le pareti. Gliunici rumori che riuscivo a percepire erano quelli dei miei passi e del miorespiro. Raggiunsi la fine del corridoio e mi fermai. Il chiarore notturno filtravadalle imposte come lame di luce rossastra. Sollevai il revolver ed entrai in salotto.

Lasciai che i miei occhi si abituassero alle tenebre. I mobili erano dove liricordavo, ma perfino nella scarsità di luce si poteva notare che erano vecchi ericoperti di polvere. Relitti. I tendaggi pendevano sfilacciati e la pittura dei muriera ridotta a brandelli simili a squame. Mi diressi verso uno dei finestroni peraprire le imposte e far entrare un po' di luce. Ero a un pa-io di metri dal balconequando capii di non essere solo. Mi fermai, raggelato, e mi voltai piano.

La figura si distingueva chiaramente in un angolo della stanza, seduta sullasolita poltrona. La luce che sanguinava dalle imposte riusciva a sve-larne lescarpe lucide e il contorno del vestito. Il volto era completamente in ombra, masapevo che mi stava guardando. E che sorrideva. Sollevai il revolver e glielopuntai contro.

—So quello che ha fatto— dissi.Corelli non mosse nemmeno un muscolo. La sua figura restò immobile come

un ragno. Feci un passo avanti, tenendogli il volto sotto mira. Mi parve di sentireun sospiro nell'oscurità, poi, per un istante, la luce rossastra si accese nei suoiocchi ed ebbi la certezza che mi sarebbe saltato addosso. Sparai. Il rinculodell'arma mi colpì l'avambraccio come una martellata secca. Una nube di fumoazzurrato si alzò dal revolver. Una mano di Corelli scivolò giù dal bracciolo dellapoltrona oscillando, con le unghie che sfioravano il pavimento. Sparai di nuovo.

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La pallottola lo raggiunse al petto e aprì un buco fumante nel vestito. Rimasifermo, impugnando il revolver con tutte e due le mani, senza osare fare un altropasso, scrutando il suo profilo immobile sulla poltrona. Il dondolio del braccio sifermò a po-co a poco finché il corpo giacque inerte e le sue unghie, lunghe ecurate, rimasero ancorate al pavimento di rovere. Non ci fu alcun rumore né unaccenno di movimento nel corpo che aveva appena ricevuto due proiettili, uno alviso e l'altro al petto. Arretrai di qualche passo verso il finestrone e lo aprii acalci, senza staccare gli occhi dalla poltrona dove giaceva Corelli. Una colonna diluce vaporosa si fece strada dalla balaustra all'angolo della stanza, illuminando ilvolto e il corpo del principale. Cercai di deglutire, ma avevo la bocca secca. Ilprimo sparo gli aveva aperto un foro tra gli occhi. Il secondo gli aveva bucato unodei risvolti della giacca. Non c'e-ra nemmeno una goccia di sangue. Al suo postostillava una polvere sottile e brillante, come quella di una clessidra, che scivolavatra le pieghe del vestito. Gli occhi gli brillavano e aveva le labbra congelate in unsorriso sarcastico. Era un fantoccio.

Abbassai il revolver, la mano che ancora tremava, e mi avvicinai lentamente.Mi chinai su quel grottesco burattino e gli accostai piano la mano alla faccia. Perun istante temetti che da un momento all'altro quegli occhi di cristallo sisarebbero mossi e che quelle mani dalle lunghe unghie mi si sarebbero avventateal collo. Gli sfiorai la guancia con i polpastrelli. Legno smaltato. Non riuscii atrattenere una risata amara. Non potevo aspettarmi di meno dal principale.Affrontai di nuovo quella smorfia beffarda e asse-stai al fantoccio un colpo con ilcalcio del revolver che lo rovesciò su un fianco. Lo vidi cadere a terra e miaccanii a calci contro di lui. La struttura di legno cominciò a deformarsi finchébraccia e gambe si annodarono in una posizione impossibile. Arretrai di qualchepasso e mi guardai attorno.

Osservai la grande tela con la figura dell'angelo e la tirai giù con un solostrattone. Dietro il quadro scoprii la porta di accesso al sotterraneo che ricordavodalla notte in cui ero rimasto a dormire lì. Saggiai la serratura. Era aperta. Scrutaila scala che scendeva in quella cavità oscura. Andai verso il comò dovericordavo di avere visto Corelli mettere i centomila franchi durante il nostroprimo incontro in quella casa e frugai nei cassetti. In uno trovai una scatola dilatta con candele e fiammiferi. Esitai un istante, chiedendomi se il principaleavesse lasciato lì anche quelli sperando che li trovassi, così come avevo trovato ilfantoccio. Accesi una candela e attraversai il salotto diretto alla porta. Diediun'ultima occhiata al pupazzo a terra e, con la candela in alto e il revolver strettonella mano destra, mi preparai a scendere. Avanzai gradino dopo gradino,fermandomi a ogni passo per guardarmi alle spalle. Quando raggiunsi la stanzasotterranea, tenni la candela il più possibile lontana da me e descrissi unsemicerchio con il braccio. Era ancora tutto lì, il tavolo operatorio, le lampade agas e il vassoio con gli strumenti chirurgici. Tutto ricoperto da una patina di

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polvere e ragnatele. Ma c'era qualcos'altro. Si notavano altre sagome contro laparete.

Immobili come quella del principale. Lasciai la candela sul tavolo e miavvicinai a quei corpi inerti. Riconobbi il domestico che ci aveva servito una serae l'autista che mi aveva riportato a casa dopo la cena con Corelli in giardino.C'erano altre sagome che non riuscii a identificare, fra cui una rivolta contro ilmuro, con il viso nascosto. La spinsi con la punta dell'arma, facendola ruotare, eun secondo dopo mi ritrovai a guardare me stesso.

Sentii un brivido che mi invadeva. Il pupazzo che mi imitava aveva solomezza faccia. L'altra metà non aveva tratti definiti. Stavo per prendere a calciquel volto quando sentii la risata di un bambino in cima alle scale.

Trattenni il respiro e a quel punto si sentì una serie di scatti secchi. Corsi su peri gradini e quando arrivai al piano terra il fantoccio del principale non era più sulpavimento dove l'avevo lasciato. Una scia di orme si allontanava da lì in direzionedel corridoio. Armai il percussore del revolver e seguii quelle tracce. Mi fermaisulla soglia e sollevai l'arma. Le orme si in-terrompevano a metà corridoio.Cercai la figura del principale occulta nell'ombra, ma non ce n'era traccia. Infondo al corridoio, la porta principale era ancora aperta. Avanzai lentamente finoal punto in cui le orme si fermavano. Non me ne accorsi se non qualche secondodopo, quando notai che il vuoto che ricordavo fra i ritratti della parete non c'erapiù. Al suo posto c'era una cornice nuova e dentro, in una foto che pareva scattatadalla stessa macchina fotografica di quelle che formavano la macabracollezione, si vedeva Cristina vestita di bianco, lo sguardo perso nell'obiettivo.

Non era sola. Due braccia la circondavano e la sostenevano. Il loroproprietario sorrideva alla macchina. Andreas Corelli.

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13

Mi allontanai giù per la collina, diretto al groviglio di strade buie di Gracia. Trovaiun caffè aperto dove si era riunita una nutrita clientela che discutevafuriosamente di politica o di calcio: difficile stabilirlo. Schivai la folla e attraversaiuna nube di fumo e di baccano fino a raggiungere il bancone, dove il barista mirivolse lo sguardo vagamente ostile con cui immaginai accogliesse tutti glisconosciuti, che in quel caso dovevano essere tutti i residenti in qualsiasi posto apiù di un paio di isolati dal suo locale.

—Ho bisogno di usare il telefono— dissi.—È riservato ai clienti.——Mi dia un cognac. E il telefono.—Il barista prese un bicchiere e indicò un corridoio che si apriva in fondo alla

sala sotto un cartello con la scritta LATRINE. Lì trovai una specie di cabinatelefonica, proprio davanti all'entrata dei bagni, esposta a un'intensa puzza diammoniaca e al fracasso proveniente dalla sala. Sollevai la cornetta e attesi diavere la linea. Qualche secondo più tardi mi rispose una centralinista dellacompagnia telefonica.

—Devo chiamare lo studio legale Valera, al numero 442 dell'avenidaDiagonal.—

La centralinista si prese un paio di minuti per trovare il numero e mettermi incomunicazione. Aspettai lì, tenendo la cornetta con una mano e tappandomil'orecchio sinistro con l'altra. Alla fine, mi confermò che tra-sferiva la miachiamata e dopo pochi secondi riconobbi la voce della segretaria dell'avvocatoValera.

—Mi dispiace, ma l'avvocato al momento non c'è.——È importante. Gli dica che mi chiamo Martín, David Martín. È questione di

vita o di morte.——So già chi è lei, signor Martín. Mi dispiace, ma non posso passarle

l'avvocato perché non è qui. Sono le nove e mezza di sera e se n'è andato da unbel po'.—

—Allora mi dia l'indirizzo di casa.——Non posso fornirle questa informazione, signor Martín. Mi dispiace. Se

vuole, può chiamare domani mattina e… —Riagganciai e attesi di nuovo la linea. Stavolta diedi alla centralinista il numero

di Ricardo Salvador. Il suo vicino rispose e disse che sarebbe salito a vedere sel'ex poliziotto era in casa. Salvador arrivò dopo un minuto.

—Martín? Sta bene? È a Barcellona?——Sono appena arrivato.——Deve fare molta attenzione. La polizia la cerca. Sono venuti qui a fare

domande su di lei e su Alicia Marlasca.—

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—Víctor Grandes?——Credo di sì. Era con un paio di ragazzoni che non mi sono piaciuti per

niente. Mi pare che voglia affibbiare a lei le morti di Roures e di Alicia Marlasca.È meglio che tenga gli occhi ben aperti. Sicuramente la stanno sorvegliando. Sevuole può venire qui.—

—Grazie, signor Salvador. Ci penserò. Non voglio metterla in altri guai.——Qualunque cosa faccia, occhio. Credo che lei avesse ragione: Jaco è

tornato. Non so perché, ma è tornato. Ha un piano?——Ora cerco di localizzare l'avvocato Valera. Credo che al centro di tutto ci

sia l'editore per cui lavorava Marlasca e penso che Valera sia l'unico a sapere laverità.—

Salvador fece una pausa.—Vuole che venga con lei?——Non credo sia necessario. La chiamo appena avrò parlato con Valera.——Come vuole. È armato?——Sì.——Sono contento di saperlo.——Signor Salvador… Roures mi aveva parlato di una donna del Somorrostro

consultata da Marlasca. Una che aveva conosciuto attraverso Irene Sabino.——La Strega del Somorrostro?——Cosa sa di lei?——Non c'è molto da sapere. Non credo nemmeno che esista, come

quell'editore. Quelli di cui deve preoccuparsi sono Jaco e la polizia.——Ne terrò conto.——Mi chiami appena sa qualcosa, d'accordo?——Lo farò. Grazie.—Riagganciai e passando davanti al bancone lasciai qualche moneta per pagare

le telefonate e il bicchiere di cognac che era ancora lì, intatto.Venti minuti dopo ero al numero 442 dell'avenida Diagonal a guardare le luci

accese nello studio di Valera in cima al palazzo. La portineria era chiusa, mabussai finché il portiere si affacciò e si avvicinò con un'aria non moltoamichevole. Appena aprì un po' la porta per liquidarmi in malo mo-do, diedi unospintone e m'infilai nella portineria, ignorando le sue proteste. Andai drittoall'ascensore e, quando lui cercò di fermarmi trattenen-domi per il braccio, glilanciai uno sguardo avvelenato che lo dissuase dal tentativo.

Quando la segretaria di Valera aprì, la sua espressione di sorpresa sìtrasformò rapidamente in paura, in particolare quando infilai il piede nellospiraglio per evitare che mi chiudesse la porta in faccia ed entrai senza esserestato invitato.

—Avverta l'avvocato— dissi. —Subito.—La segretaria mi guardò, pallida.

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—Il signor Valera non c'è… —La presi per un braccio e la spinsi fino all'ufficio dell'avvocato. Le luci erano

accese, ma non c'era traccia di Valera. La segretaria singhiozzava, terrorizzata, emi resi conto che le stavo conficcando le dita nel braccio. La lasciai e arretrò diqualche passo. Stava tremando. Sospirai e cercai di ab-bozzare un gestotranquillizzante che servì solo a farle vedere il revolver che spuntava dalla cinturadei pantaloni.

—Per favore, signor Martín… Le giuro che il signor Valera non c'è.——Le credo. Si calmi. Voglio solo parlargli. Nient'altro.—La segretaria annuì. Le sorrisi.—Sia così gentile da prendere il telefono e chiamarlo a casa.—La segretaria sollevò la cornetta e mormorò il numero dell'avvocato alla

centralinista. Quando ebbe risposta, mi passò il telefono.—Buona sera— arrischiai.—Martín, che brutta sorpresa— disse Valera all'altro capo della linea.—Posso sapere cosa sta facendo nel mio ufficio a quest'ora di notte, a parte

terrorizzare i miei dipendenti?——Mi dispiace per il disturbo, avvocato, ma devo assolutamente localizzare il

suo cliente, il signor Andreas Corelli, e lei è l'unico in grado di aiutarmi.—Un lungo silenzio.—Temo che si sbagli, Martín. Non posso aiutarla.——Speravo di poter risolvere questa faccenda amichevolmente, signor Valera.

——Non ha capito, Martín. Io non conosco il signor Corelli.——Prego?——Non l'ho mai visto e non ci ho mai parlato, e men che meno so dove

trovarlo.——Le ricordo che lui l'ha assunta per tirarmi fuori dal commissariato.——Un paio di settimane prima avevamo ricevuto un suo assegno e una lettera

in cui spiegava che lei era un suo associato, che l'ispettore Grandes la stavatormentando e che dovevamo assumere la sua difesa in caso di necessità.Assieme alla lettera, c'era la busta che ci ha chiesto di consegnarle di persona. Iomi sono limitato a incassare l'assegno e a chiedere ai miei contatti nella polizia diavvisarmi se la portavano lì. Così è stato e, come ben ricorda, ho rispettato la miaparte del contratto e l'ho tirata fuori mi-nacciando Grandes di tempestarlo diproblemi se non avesse facilitato la sua liberazione. Non credo che lei possalamentarsi dei nostri servizi.—

Stavolta il silenzio fu mio.—Se non mi crede, chieda alla signorina Margarita di mostrarle la lettera—aggiunse Valera.—E suo padre?— domandai.

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—Mio padre?——Lui e Marlasca avevano rapporti con Corelli. Doveva sapere qualcosa… ——Le assicuro che mio padre non ha mai avuto rapporti diretti con il signor

Corelli. Tutta la sua corrispondenza, se c'era, perché negli archivi dello studio nonve n'è traccia, era gestita personalmente dal defunto signor Marlasca. In realtà,dato che me lo chiede, posso dirle che mio padre arrivò a dubitare dell'esistenzadi Corelli, soprattutto negli ultimi mesi di vita del signor Marlasca, quando iniziòad avere, per così dire, rapporti con quella donna.—

—Quale donna?——La ballerina di varietà.——Irene Sabino?—Lo sentii sospirare, irritato.—Prima di morire, il signor Marlasca lasciò un fondo sotto la tutela e

l'amministrazione dello studio per effettuare una serie di pagamenti su un contocorrente a nome di un certo Juan Corbera e di Maria Antonia Sanahuja.—

Jaco e Irene Sabino, pensai.—A quanto ammontava il fondo?——Era un deposito in divisa estera. Mi sembra di ricordare che fosse attorno ai

centomila franchi francesi.——Marlasca disse dove aveva preso quei soldi?——Siamo uno studio legale, non di detective. Lo studio si limitò a seguire le

istruzioni secondo la volontà del signor Marlasca, non a metterle in discussione.——Quali altre istruzioni aveva lasciato?——Niente di speciale. Semplici pagamenti a terzi che non avevano alcun

rapporto con lo studio né con la sua famiglia.——Ricorda qualcuno in particolare?——Mio padre si occupava di queste faccende personalmente per evitare che i

dipendenti dello studio avessero accesso a informazioni, per così di-re,compromettenti.—

—E a suo padre non sembrò strano che il suo ex socio volesse dare quei soldia degli sconosciuti?—

—Certo che gli sembrò strano. Molte cose gli sembrarono strane.——Ricorda dove si dovevano inviare quei pagamenti?——Come vuole che lo ricordi? Sono passati almeno venticinque anni.——Faccia uno sforzo— dissi. —Per la signorina Margarita.—La segretaria mi lanciò un'occhiata terrorizzata, a cui risposi strizzandole

l'occhio.—Non le venga in mente di metterle un dito addosso— minacciò Valera.—Non mi suggerisca certe idee— tagliai corto. —Come va la memoria? Si

sta rinfrescando?——Posso consultare le agende personali di mio padre. È tutto.—

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—Dove sono?——Qui, tra le sue carte. Però mi ci vorranno delle ore… —Riagganciai e osservai la segretaria di Valera, che si era messa a piangere. Le

tesi un fazzoletto e le diedi una pacca sulla spalla.—Su, non faccia così, adesso me ne vado. Ha visto che volevo solo parlargli?

—Annuì atterrita, senza staccare gli occhi dal revolver. Mi abbottonai il cappotto

e le sorrisi.—Un'ultima cosa.—Alzò lo sguardo temendo il peggio.—Mi annoti l'indirizzo dell'avvocato. E non cerchi di imbrogliarmi, perché, se

dice bugie, torno e le assicuro che lascio giù in portineria la simpatia naturale chemi caratterizza.—

Prima di uscire chiesi alla signorina Margarita di farmi vedere dov'era il cavodel telefono e lo tagliai, risparmiandole così la tentazione di avvisare Valera chestavo per fargli una visita di cortesia, o di chiamare la polizia per informarla delnostro piccolo diverbio.

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L'avvocato Valera viveva in una villa monumentale con pretese da castellonormanno incastonata all'angolo tra calle Girona e calle Ausiàs March.Immaginai che avesse ereditato dal padre quella mostruosità insieme allo studio,e che ogni pietra che la sosteneva fosse forgiata con il sangue e il sudore di interegenerazioni di barcellonesi che non avrebbero mai sognato di mettere piede in unpalazzo come quello. Dissi al portiere che avevo dei documenti dello studio perl'avvocato, da parte della signorina Margarita, e lui, dopo aver esitato un istante,mi lasciò salire. Feci le scale senza fretta sotto il suo sguardo attento. Ilpianerottolo dell'appartamento principale era più grande della maggioranza delleabitazioni che ricordavo dalla mia infanzia nel vecchio quartiere della Ribera, apochi metri da lì. Il battente della porta era un pugno di bronzo. Appena lo presi inmano per bussare mi resi conto che la porta era aperta. Spinsi leggermente e miaffacciai all'interno. L'ingresso dava su un lungo corridoio largo circa tre metri,con le pareti rivestite di velluto azzurro e ricoperte di quadri. Mi chiusi la portaalle spalle e scrutai nell'intensa penombra che si intravedeva in fondo alcorridoio. Una musica tenue fluttuava nell'aria, un lamento di pianoforte elegantee malinconico. Granados.

—Signor Valera?— chiamai. —Sono Martín.—Non avendo risposta mi avventurai lentamente per il corridoio, seguendo

quella musica triste. Avanzai fra i quadri e le nicchie che ospitavano statue dimadonne e di santi. Il corridoio era scandito da archi successivi velati da tende.Superai veli dopo veli fino a raggiungerne la fine, dove si apriva una grandestanza in penombra. Il salotto era rettangolare, con pareti ricoperte da scaffali dilibri, dal pavimento al soffitto. In fondo si distinguevano una grande portasocchiusa e più in là le tenebre palpitanti e arancioni di un camino.

—Valera?— chiamai di nuovo, alzando la voce.Una figura si profilò nel fascio di luce proiettato dal fuoco attraverso la porta

socchiusa. Due occhi brillanti mi esaminarono sospettosi. Un cane che mi parveun pastore tedesco ma con il pelo bianco si avvicinò piano.

Rimasi tranquillo, mi sbottonai lentamente il cappotto e cercai il revolver.L'animale si fermò ai miei piedi e mi guardò, lasciandosi sfuggire un

lamento. Gli accarezzai la testa e lui mi leccò le dita. Poi si voltò e si avvicinò allaporta oltre la quale brillava il chiarore del fuoco. Si arrestò sulla soglia e miguardò di nuovo. Lo seguii.

Al di là della porta trovai una sala di lettura in cui troneggiava un grandecamino. Non c'era altra luce se non quella delle fiamme, e una danza di ombrepalpitanti strisciava lungo i muri e il soffitto. Al centro della stanza c'era un tavolocon il grammofono da cui emanava quella musica. Davanti al fuoco, di spallealla porta, c'era una grande poltrona di pelle. Il cane vi si avvicinò e si voltò di

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nuovo a guardarmi. Mi avvicinai anch'io, quanto bastava per vedere la mano sulbracciolo della poltrona che reggeva una sigaretta accesa da cui esalava unpennacchio di fumo azzurro che ascendeva lentamente.

—Valera? Sono Martín. La porta era aperta… —Il cane si accucciò ai piedi della poltrona, senza smettere di fissarmi. Mi

avvicinai lentamente e feci il giro della poltrona. L'avvocato Valera era sedutodavanti al camino, con gli occhi aperti e un leggero sorriso sulle labbra. Indossavaun completo con gilet e con l'altra mano reggeva in grembo un quaderno di pelle.Mi misi di fronte a lui e lo guardai negli occhi. Non batteva ciglio. Allora notaiquella lacrima rossa, una lacrima di sangue, che gli scendeva lenta lungo laguancia. Mi inginocchiai e presi il quaderno. Il cane mi lanciò uno sguardodesolato. Gli accarezzai la testa.

—Mi dispiace— mormorai.Il quaderno era scritto a mano e sembrava una specie di agenda con

paragrafi datati e separati da una breve linea. Valera lo teneva aperto più o menoa metà. La prima annotazione della pagina a cui era rimasto indicava che risalivaal 23 novembre del 1904.

Nota di cassa (356-a/23-ll-04), 7500 pesetas dal fondo D.M.Consegna da parte di Marcel (di persona) all'indirizzo fornito da D.M. Vicolo

dietro il cimitero vecchio — laboratorio di scultura Sanabre e Figli.Rilessi quella annotazione parecchie volte, cercando di strapparle qualche

senso. Conoscevo quel vicolo dai miei anni alla redazione della « Voz de laIndustria» . Era una miserabile stradina sprofondata dietro i muri del cimitero delPueblo Nuevo dove si accalcavano laboratori di lapidi e sculture funerarie, emoriva sulle rive di uno dei ruscelli che attraversavano la spiaggia del Bogatell ela cittadella di catapecchie che si estendeva fino al mare, il Somorrostro. Perqualche motivo, Marlasca aveva lasciato istruzioni per il pagamento di unasomma considerevole a uno di quei laboratori.

Nella pagina corrispondente a quello stesso giorno, c'era un'altra annotazionelegata a Marlasca che indicava l'inizio dei pagamenti a Jaco e a Irene Sabino.

Bonifico bancario da fondo D.M. a conto Banco Hispano Colo—nial (agenzia calle Fernando) n. 008965-2564-1. Juan Corbera —Maria Antonia Sanahuja. Prima mensilità di 7000 pesetas. Stabilire

programma pagamenti.Continuai a sfogliare il quaderno. La maggior parte delle annotazioni

riguardava spese e operazioni minori relative allo studio. Dovetti scorrere moltepagine piene di criptici promemoria prima di trovarne un'altra in cui fossemenzionato Marlasca. Di nuovo, si trattava di un pagamento in contanti attraversoquel Marcel, probabilmente uno dei tirocinanti dello studio.

Nota di cassa (379-a/29-12-04). 15.000 pesetas dal fondo D.M.Consegna tramite Marcel. Spiaggia del Bogatell, vicino passaggio a livello.

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Ore 9. Il contatto si identificherà.La Strega del Somorrostro, pensai. Dopo morto, Diego Marlasca aveva

distribuito rilevanti somme di denaro attraverso il suo socio. Questo con-traddiceva i sospetti di Salvador che Jaco fosse fuggito con i soldi. Marlascaaveva ordinato i pagamenti di persona lasciando il denaro su un fondo tutelatodallo studio legale. Gli altri due pagamenti suggerivano che poco prima di morireaveva avuto rapporti con un laboratorio di sculture funerarie e con qualchetorbido personaggio del Somorrostro, rapporti che si erano tradotti in una grandequantità di denaro che cambiava di mano. Chiusi il quaderno più smarrito chemai.

Stavo per lasciare la casa quando, voltandomi, notai che una delle pareti dellasala di lettura era ricoperta da ritratti accuratamente incorniciati su uno sfondo divelluto granata. Mi avvicinai e riconobbi il volto severo e imponente del patriarcaValera, il cui ritratto a olio dominava ancora l'ufficio del figlio. L'avvocatocompariva nella maggior parte delle immagini in compagnia di una serie diuomini importanti e di nobili della città, in quelle che sembravano differentioccasioni mondane ed eventi civici. Bastava scorrere una dozzina di quei ritratti eidentificare la serie di personalità che posavano sorridenti accanto al vecchioavvocato per constatare che lo studio Valera, Marlasca e Sentis era un organovitale per il funzionamento di Barcellona. Anche il figlio di Valera, molto piùgiovane ma chiaramente riconoscibile, compariva in qualche foto, sempre insecondo piano, sempre con lo sguardo sepolto nell'ombra del patriarca.

Lo sentii prima di vederlo. In un ritratto c'erano Valera padre e figlio. La fotoera stata scattata all'ingresso del numero 442 della Diagonal, sotto lo studio.Accanto a loro c'era un signore alto e distinto. Il suo volto compariva in moltealtre foto della collezione, sempre accanto a Valera. Diego Marlasca. Miconcentrai su quello sguardo torbido, su quell'espressione tagliente e serena chemi osservava da un'istantanea scattata venticinque anni prima. Come ilprincipale, non era invecchiato di un giorno. Sorrisi amaramente quandocompresi la mia ingenuità. Quel volto non era lo stesso che compariva nella fotoche mi aveva dato il mio amico, l'ex poliziotto.

L'uomo che conoscevo come Ricardo Salvador non era altri che DiegoMarlasca.

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15

La scala era al buio quando lasciai il palazzo della famiglia Valera. Attraversail'atrio a tentoni e quando aprii la porta i lampioni della strada proiettaronoall'interno un rettangolo di chiarore azzurrato al cui termine trovai lo sguardo delportiere. Mi allontanai da lì a passo svelto verso calle Trafalgar, da dove partiva iltram notturno che lasciava alle porte del cimitero del Pueblo Nuevo, lo stesso chetante notti avevo preso con mio padre quando gli facevo compagnia nel suo turnodi sorveglianza alla « Voz de la Industria» .

Non c'erano quasi passeggeri e mi sedetti davanti. Via via che ci avvici-navamo al Pueblo Nuevo, il tram si addentrava in una rete di strade tenebrose,ricoperte da grandi pozzanghere velate dal vapore. C'erano solo rari lampioni e leluci del tram andavano svelando i contorni delle cose come torce in un tunnel.Alla fine avvistai le porte del cimitero e il profilo di croci e sculture che sistagliava sull'orizzonte sconfinato di fabbriche e fumaioli che iniettavano strie dirosso e di nero nella volta del cielo. Un branco di cani famelici si aggirava aipiedi dei due grandi angeli che sorvegliavano il recinto. Per un istante rimaseroimmobili a guardare i fari del tram, gli occhi ardenti come quelli degli sciacalli,poi si dispersero nell'ombra.

Scesi dal tram ancora in marcia e cominciai a fare il giro dei muri delcamposanto. Il tram si allontanò come una nave nella nebbia e affrettai il passo.Sentivo lo scalpiccio e l'odore dei cani che mi seguivano nell'oscurità. Quandoraggiunsi il retro del cimitero, mi fermai all'angolo di un vicolo e lanciai un sassoalla cieca. Sentii un lamento acuto e passi rapidi che si allontanavano nella notte.Imboccai il vicolo, appena un passaggio incastrato tra il muro e la fila dilaboratori di sculture funerarie che si accalcavano uno dopo l'altro. Il cartello diSanabre e Figli ondeggiava al chiarore di un lampione che proiettava una luceocra e polverosa a una trentina di metri di distanza. Mi avvicinai alla porta, solouna grata assicurata con delle catene e un catenaccio arrugginito che feci saltarecon una sola pallottola.

Il vento che soffiava dall'estremità del vicolo, impregnato del salnitro delmare che s'infrangeva ad appena un centinaio di metri, si portò via l'eco dellosparo. Aprii la grata ed entrai nel laboratorio di Sanabre e Figli. Scostai la tenda ditela scura che mascherava l'interno e lasciai che il chiarore del lampione vipenetrasse. Era una navata stretta e profonda popolata da statue di marmocongelate nelle tenebre, con i volti scolpiti a metà. Avanzai di qualche passo fravergini e madonne che reggevano bambini tra le braccia, dame bianche con inmano rose di marmo che alzavano lo sguardo al cielo e blocchi di pietra sui qualiiniziavano a disegnarsi degli sguardi.

Si avvertiva nell'aria l'odore della polvere di marmo. Non c'era nessuno lì,tranne quelle effigi senza nome. Stavo per tornare indietro quando lo vidi.

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La mano spuntava da dietro un retablo di sculture coperto da un telo in fondoal laboratorio. Mi avvicinai lentamente e il suo contorno si andò rivelandocentimetro dopo centimetro. Mi ci fermai davanti e contemplai quel grandeangelo buono, lo stesso che il principale portava sul risvolto della giacca e cheavevo trovato in fondo al baule del mio studio. Doveva essere alto due metri emezzo. Osservandone il volto, ne riconobbi i tratti e soprattutto il sorriso. Ai suoipiedi c'era una lapide. Incisa sulla pietra, si poteva leggere una scritta.

DAVID MARTÍN1900-1930Sorrisi. Se qualcosa dovevo riconoscere al mio buon amico Diego Marlasca

era il senso dell'ironia e il gusto per le sorprese. Mi dissi che non dovevo stupirmise, nel suo zelo, aveva anticipato le circostanze preparan-domi un sentitocommiato. Mi inginocchiai davanti alla lapide e accarezzai il mio nome. Passilenti e leggeri si sentivano alle mie spalle. Mi voltai e scoprii un viso familiare. Ilbambino aveva lo stesso vestito nero che indossava quando, settimane prima, miaveva seguito sul paseo del Born.

—La signora la riceverà adesso— disse.Annuii e mi alzai. Il bambino mi tese la mano e la presi.—Non abbia paura— disse guidandomi verso l'uscita.—Non ne ho— mormorai.Mi condusse fino in fondo al vicolo. Da lì si poteva intravedere la linea della

spiaggia, nascosta dietro una fila di magazzini dilapidati e resti di un treno merciabbandonato su un binario morto ricoperto dalle sterpaglie. I vagoni erano corrosidalla ruggine e la locomotiva era ridotta a uno scheletro di caldaie e ferraglia inattesa di demolizione.

In alto, la luna si affacciò dalle crepe di una volta di nuvole plumbee. Al largosi intravedevano alcune navi da carico sepolte fra le onde e, davanti alla spiaggiadel Bogatell, un ossario di vecchi scafi di pescherecci e barche di piccolocabotaggio sputati lì dalle tempeste e incagliati nella sabbia.

Dall'altra parte, come un manto di scorie disteso alle spalle della fortezza ditenebre industriali, si estendeva l'accampamento di baracche del Somorrostro. Leonde si infrangevano a pochi metri dalla prima linea di capanne di canne e legno.Pennacchi di fumo bianco strisciavano fra i tetti di quel villaggio di miseria checresceva fra la città e il mare come un infinito immondezzaio umano. Il fetoredella spazzatura bruciata aleggiava nell'aria.

Ci addentrammo nelle strade di quella città dimenticata, passaggi ricavati trastrutture messe su con mattoni rubati, fango e legna restituiti dalla marea. Ilbambino mi guidò verso l'interno, incurante degli sguardi diffidenti della gente delposto. Lavoratori giornalieri senza lavoro, zingari espulsi da altri accampamentisimili sorti sui fianchi del Montjuïc o davanti alle fosse comuni del cimitero diCan Tunis, bambini e anziani abbandonati.

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Tutti mi osservavano con sospetto. Donne dall'età indefinibile riscaldavano sulfuoco acqua o cibo in recipienti di latta davanti alle baracche. Ci fermammo difronte a una struttura di un bianco sbiadito alle cui porte c'era una bambina con lafaccia da anziana che zoppicava su una gamba colpita dalla poliomielite,trascinando un secchio in cui si agitava qualcosa di gri-giastro e viscoso. Anguille.Il bambino indicò la porta.

—È qui— disse.Diedi un'ultima occhiata al cielo. La luna si nascondeva di nuovo fra le nubi e

un velo di oscurità avanzava dal mare.Entrai.

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16

Aveva il viso disegnato dai ricordi e uno sguardo che avrebbe potuto avere dieci ocent'anni. Era seduta accanto a un piccolo fuoco e contemplava la danza dellefiamme con la stessa fascinazione con cui l'avrebbe fatto un bambino. I suoicapelli, del colore della cenere, erano annodati in una treccia. Il fisico era snelloe austero, i gesti brevi e lenti. Vestiva di bianco e portava un fazzoletto di setaannodato alla gola. Mi sorrise calorosamente e mi offrì una sedia vicino a lei. Misedetti. Restammo un paio di minuti in silenzio, ascoltando il crepitio delle braci eil rumore della marea. In sua presenza, il tempo sembrava essersi fermato el'urgenza che mi aveva condotto alla sua porta era stranamente svanita. A poco apoco l'alito del fuoco mi penetrò e il freddo che mi si era insinuato fin nelle ossasi sciolse al riparo della sua compagnia. Solo allora distolse gli occhi dal fuoco e,prendendomi la mano, aprì bocca.

—Mia madre è vissuta in questa casa per quarantacinque anni— disse.—Allora non era nemmeno una casa, ma soltanto una capanna fatta con le

canne e i relitti portati dalla marea. Perfino quando si fece una reputazione edebbe la possibilità di andarsene si rifiutò di farlo. Diceva sempre che il giorno incui avesse lasciato il Somorrostro sarebbe morta. Era nata qui, con la gente dellaspiaggia, e qui è rimasta fino all'ultimo giorno. Di lei si sono dette tante cose.Molti ne hanno parlato e pochissimi l'hanno conosciuta davvero. Molti latemevano e la odiavano. Anche dopo morta. Le racconto tutto questo perché misembra giusto farle sapere che non sono la persona che cerca. La persona checerca, o che crede di cercare, quella che molti chiamavano la Strega delSomorrostro, era mia madre.—

La guardai confuso.—Quando…?——È morta nel 1905— disse. —L'hanno ammazzata a pochi metri da qui,

vicino alla spiaggia, con una coltellata al collo.——Mi dispiace. Credevo che… ——Sono in molti a crederlo. Il desiderio di credere sconfigge persino la morte.

——Chi l'ha uccisa?——Lei lo sa.—Tardai qualche secondo a rispondere.—Diego Marlasca… —Annuì.—Perché?——Per farla tacere. E cancellare le sue tracce.——Non capisco. Sua madre l'aveva aiutato… E lui in cambio le aveva dato un

bel po' di soldi.—

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—Proprio per questo l'ha uccisa, perché si portasse il segreto nella tomba.—Mi osservò con un sorriso lieve, come se la mia confusione la divertisse e allo

stesso tempo le ispirasse compassione.—Mia madre era una donna semplice, signor Martín. Era cresciuta nella

miseria e l'unico potere che aveva era la volontà di sopravvivere. Non imparòmai a leggere e scrivere, ma sapeva vedere dentro le persone. Sentiva quello chesentivano, quello che nascondevano e quello che desideravano.

Lo leggeva nei loro sguardi, nei loro atteggiamenti, nel modo in cuicamminavano o gesticolavano. Sapeva in anticipo quello che avrebbero detto efatto. Per questo molti la chiamavano indovina, perché era capace di vedere inloro quello che essi stessi si rifiutavano di vedere. Si guadagnava da viverevendendo pozioni d'amore e incantesimi che preparava con l'acqua del ruscello,qualche erba e un po' di zucchero. Aiutava anime smarrite a credere in ciò chedesideravano credere. Quando il suo nome cominciò a diventare popolare, moltagente altolocata iniziò a farle visita e a sollecita-re i suoi favori. I ricchi volevanodiventarlo ancora di più. I potenti volevano più potere. I meschini volevanosentirsi santi, e i santi volevano essere puniti per peccati che rimpiangevano dinon aver commesso per mancanza di coraggio. Mia madre ascoltava tutti eaccettava il loro denaro.

Con quei soldi mandò me e i miei fratelli a studiare nelle scuole chefrequentavano i figli dei suoi clienti. Ci comprò un altro nome e un'altra vitalontano da questo posto. Mia madre era una brava persona, signor Martín.

Non si lasci ingannare. Non si approfittò mai di nessuno, né fece credere allepersone altro che quello in cui avevano bisogno di credere. La vita le avevainsegnato che viviamo di grandi e piccole menzogne quanto dell'aria. Diceva chese fossimo capaci di vedere senza paraocchi la realtà del mondo e di noi stessiper un solo giorno, dall'alba al tramonto, ci toglie-remmo la vita o perderemmola ragione.—

—Però… ——Se è venuto qui in cerca di magia, mi spiace deluderla. Mia madre mi ha

spiegato che non c'è magia, che non c'è altro male o bene al mondo se non quelloche immaginiamo, per avidità o ingenuità. A volte, perfino per follia.—

—Non fu questo che raccontò a Diego Marlasca quando accettò i suoi soldi—obiettai. —Settemila pesetas di quell'epoca dovevano poter comprare parecchianni di buon nome e buone scuole.—

—Diego Marlasca aveva bisogno di credere. Mia madre l'aiutò a farlo.Tutto qui.——Credere in cosa?——Nella propria salvezza. Era convinto di avere tradito se stesso e quelli che

l'amavano. Credeva di aver incamminato la sua vita su una strada di cattiveria efalsità. Mia madre pensò che questo non lo rendeva diverso dalla maggioranza

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degli uomini che si fermano in qualche momento della loro vita a guardarsi allospecchio. Sono le bestiacce meschine a conside-rarsi sempre virtuose e aguardare il resto del mondo dall'alto in basso. Ma Diego Marlasca era un uomo dicoscienza e non era soddisfatto di ciò che vedeva. Per questo venne da miamadre. Perché aveva perso la speranza e probabilmente la ragione.—

—Marlasca disse quello che aveva fatto?——Disse di aver consegnato l'anima a un'ombra.——Un'ombra?——Queste furono le sue parole. Un'ombra che lo seguiva, che aveva la sua

stessa forma, il suo stesso volto e la sua stessa voce.——Cosa significava?——La colpa e il rimorso non hanno significato. Sono sentimenti, emozioni, non

idee.—Mi venne in mente che nemmeno il principale avrebbe potuto spiegarlo con

maggiore chiarezza.—E cosa poteva fare sua madre per lui?——Niente di più che consolarlo e aiutarlo a trovare un po' di pace. Diego

Marlasca credeva nella magia e per questo motivo mia madre pensò di do-verloconvincere che il suo cammino verso la salvezza passava attraverso di lei. Gliparlò di un vecchio incantesimo, una leggenda di pescatori ascoltata da bambinafra le baracche della spiaggia. Quando un uomo perde la rotta della propria vita esente che la morte ha assegnato un prezzo alla sua anima, secondo la leggenda, setrova un'anima pura disposta a sacrificarsi per lui, occultando il suo cuore nero, lamorte, cieca, girerà al largo.—

—Un'anima pura?——Libera dal peccato.——E come si realizzava questo sacrificio?——Con dolore, naturalmente.——Che specie di dolore?——Un sacrificio di sangue. Un'anima in cambio di un'altra. Morte in cambio di

vita.—Un lungo silenzio. Il rumore del mare sulla riva e quello del vento tra le

catapecchie.—Irene si sarebbe strappata gli occhi e il cuore per Marlasca. Era la sua

unica ragione di vita. Lo amava ciecamente e, come lui, credeva che la suaunica salvezza fosse nella magia. All'inizio voleva togliersi la vita e offrir-la insacrificio, ma mia madre la dissuase. Le disse quanto già sapeva, che la sua nonera un'anima libera dal peccato e il sacrificio sarebbe stato vano.

Glielo disse per salvarla. Per salvarli entrambi.——Da chi?——Da se stessi.—

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—Ma commise un errore… ——Nemmeno mia madre poteva vedere tutto.——Che cosa fece Marlasca?——Mia madre non volle mai dirmelo, non voleva che io o i miei fratelli

fossimo coinvolti. Ci mandò lontano e ci separò in collegi diversi per farcidimenticare da dove venivamo e chi eravamo. Diceva che ora eravamo noi imaledetti. Morì poco dopo, sola. Non lo venimmo a sapere per molto tempo.Quando trovarono il suo cadavere, nessuno osò toccarlo e lasciarono che il marese lo portasse via. Nessuno si azzardava a parlare della sua morte. Ma io sapevochi l'aveva uccisa e perché. E ancora oggi credo che mia madre sapesse chesarebbe morta presto e per mano di chi. Lo sapeva e non fece nulla perché allafine anche lei ci credette. Ci credette perché non era capace di accettare ciò cheaveva fatto. Credette che, offrendo la propria anima, avrebbe salvato la nostra,quella di questo posto. Perciò non volle andarsene, perché secondo la vecchialeggenda l'anima che si offre deve restare sempre nel luogo in cui è statocommesso il tradimento, una benda sugli occhi della morte, incarcerata persempre.—

—E dov'è l'anima che salvò quella di Diego Marlasca?—La donna sorrise.—Non ci sono anime né salvezze, signor Martín. Si tratta di vecchie favole e

dicerie. Ci sono solo ceneri e ricordi. Ma se ci fossero, sarebbero nel luogo in cuiMarlasca commise il suo delitto, il segreto che ha nascosto in tutti questi anni perprendersi gioco del proprio destino.—

—La casa della torre… Ci ho abitato per quasi dieci anni e in quella casa nonc'è nulla.—

Sorrise di nuovo e, fissandomi negli occhi, si chinò verso di me e mi ba-ciòsulla guancia. Le sue labbra erano gelide, come quelle di un cadavere.

Il suo alito sapeva di fiori morti.—Forse non ha saputo guardare dove doveva— mi sussurrò all'orecchio.—Forse quell'anima imprigionata è la sua.—A quel punto si sciolse il fazzoletto che le copriva la gola e vidi che una grande

cicatrice le attraversava il collo. Stavolta il suo sorriso fu malizioso e i suoi occhibrillarono di una luce crudele e burlona.

—Presto spunterà il sole. Se ne vada finché è ancora in tempo— disse laStrega del Somorrostro, dandomi le spalle e rivolgendo lo sguardo al fuoco.

Il bambino con il vestito nero comparve sulla soglia e mi tese la mano, comea dirmi che il mio tempo era scaduto. Mi alzai e lo seguii. Mentre mi voltavo, misorprese il mio riflesso in uno specchio appeso al muro. Vi si scorgeva il profilocurvo e ricoperto di stracci di una vecchia seduta davanti al fuoco. La sua risatacupa e crudele mi accompagnò fino all'uscita.

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17

Quando arrivai alla casa della torre, iniziava ad albeggiare. La serratura dellaporta sulla strada era rotta. Spinsi con la mano ed entrai nell'atrio. Il meccanismodel chiavistello sul retro della porta sprigionava fumo e un odore intenso. Acido.Salii le scale lentamente, convinto che avrei trovato Marlasca ad aspettarminell'oscurità del pianerottolo, o che se mi fossi vol-tato l'avrei visto lì, alle miespalle, sorridente. Sull'ultimo tratto di scale notai che anche il foro della serraturadella porta dell'appartamento eviden-ziava tracce di acido. Introdussi la chiave edovetti armeggiare quasi due minuti per sbloccare la serratura, che era rimastamutilata, ma apparente-mente non aveva ceduto. Tirai fuori la chiave corrosa daquella sostanza e aprii la porta con uno spintone. Me la lasciai aperta alle spalle eavanzai lungo il corridoio senza togliermi il cappotto. Estrassi il revolver dallatasca e aprii il tamburo. Tolsi i bossoli dei colpi che avevo sparato e li sosti-tuii conpallottole nuove, come avevo visto fare tante volte a mio padre quando tornava acasa all'alba.

—Salvador?— chiamai.L'eco della mia voce si propagò per la casa. Armai il percussore. Continuai a

inoltrarmi nel corridoio fino ad arrivare alla stanza in fondo. La porta erasocchiusa.

—Salvador?— dissi di nuovo.Puntai l'arma contro la porta e l'aprii con un calcio. Non c'era traccia di

Marlasca all'interno, solo la montagna di casse e vecchi oggetti ammucchiaticontro il muro. Sentii di nuovo quell'odore che sembrava filtrare dalle pareti. Miavvicinai all'armadio che occupava la parete in fondo e spalancai le ante. Tolsi ivecchi vestiti appesi alle grucce. La corrente fredda e umida che sgorgava daquel foro nel muro mi accarezzò la faccia. Qualunque cosa Marlasca avessenascosto in quella casa, era dietro quella parete.

Rimisi l'arma nella tasca del cappotto e me lo tolsi. Introdussi il braccio nellafessura tra l'armadio e la parete. Riuscii ad afferrare la parte posteriore con lamano e tirai con forza. Il primo strattone mi permise di guadagnare un paio dicentimetri per rafforzare la presa e tirai di nuovo. L'armadio cedette di quasi unpalmo. Continuai a spingere verso l'esterno finché la parete dietro l'armadiorimase allo scoperto ed ebbi lo spazio per infilarmi-ci. Una volta lì, spinsi con laspalla e lo spostai completamente verso la parete contigua. Mi fermai ariprendere fiato ed esaminai il muro. Era dipinto di un colore ocra diverso dalresto della stanza. Sotto la pittura si indovinava una specie di impasto argilloso nonrifinito. Lo colpii con le nocche.

L'eco che ne risultò non dava adito a dubbi. Quello non era un muro maestro.C'era qualcosa dall'altra parte. Appoggiai la testa contro la parete e te-sil'orecchio. Allora sentii un rumore. Passi in corridoio che si avvicinavano…

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Arretrai lentamente e allungai la mano verso il cappotto che avevo lasciato suuna sedia per prendere il revolver. Un'ombra si stagliò sulla soglia. Trattenni ilrespiro. La figura si affacciò a poco a poco all'interno della stanza.

—Ispettore…— mormorai.Víctor Grandes mi sorrise freddamente. Immaginai che mi aspettassero da

ore nascosti in qualche portone.—Sta facendo lavori di ristrutturazione, Martín?——Metto in ordine.—L'ispettore guardò il mucchio di vestiti e scatoloni gettati a terra e l'armadio

sgangherato e si limitò ad annuire.—Ho chiesto a Marcos e Castelo di aspettare di sotto. Avrei bussato, ma lei ha

lasciato la porta aperta e mi sono preso la libertà… Mi sono detto: vuol dire chel'amico Martín mi sta aspettando.—

—Cosa posso fare per lei, ispettore?——Seguirmi al commissariato, se è così gentile.——Sono in arresto?——Temo di sì. Mi renderà le cose facili o dovremo ricorrere alle maniere

forti?——No— assicurai.—Gliene sono grato.——Posso prendere il cappotto?— chiesi.Grandes mi guardò un istante negli occhi. Poi prese il cappotto e mi aiutò a

mettermelo. Sentii il peso del revolver contro la gamba. Mi abbottonai con calma.Prima di uscire dalla stanza, l'ispettore diede un'ultima occhiata al muro rimastoscoperto. Poi mi fece cenno di uscire in corridoio. Marcos e Castelo erano salitifino al pianerottolo e aspettavano con un sorriso trionfante. Arrivato in fondo alcorridoio, mi fermai un momento per guardare l'interno della casa, chesembrava ripiegarsi in un pozzo di ombre. Mi chiesi se l'avrei mai rivista. Castelotirò fuori le manette, ma Grandes fece un cenno di diniego.

—Non sarà necessario, vero, Martín?—Scossi la testa. Grandes socchiuse la porta e mi spinse dolcemente ma con

fermezza verso le scale.

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18

Stavolta non ci furono colpi a effetto, né scenografie cupe, né echi di celle umidee buie. La stanza era ampia, luminosa e con i soffitti alti. Mi fece pensare all'auladi una scuola religiosa di lusso, crocifisso al muro incluso. Si trovava al primopiano del Comando di polizia e aveva ampi finestroni che permettevano diosservare le persone e i tram che già iniziavano la loro sfilata mattutina sulla viaLayetana. Al centro c'erano due sedie e un tavolo di metallo che, abbandonati inmezzo a tanto spazio vuoto, sembravano minuscoli. Grandes mi guidò verso iltavolo e ordinò a Marcos e Castelo di lasciarci soli. I due poliziotti si presero il lorotempo per eseguire l'ordine. La rabbia che respiravano si poteva fiutare nell'aria.Grandes attese che fossero usciti e si rilassò.

—Credevo che mi desse in pasto ai leoni— dissi.—Si sieda.—Obbedii. Non fosse stato per le occhiate di Marcos e Castelo mentre uscivano,

per la porta di metallo e le sbarre alle finestre, nessuno avrebbe detto che la miasituazione era grave. Finirono per convincermi il thermos di caffè caldo e ilpacchetto di sigarette che Grandes lasciò sul tavolo, ma soprattutto il suo sorrisosereno e affabile. Sicuro. Stavolta l'ispettore faceva sul serio.

Si sedette di fronte a me e aprì una cartellina, da cui tirò fuori delle fotografieche mise sul tavolo, una accanto all'altra. Nella prima compariva l'avvocatoValera sulla poltrona del suo salotto. Vicino c'era un'immagine del cadavere dellavedova Marlasca, o di quello che ne restava dopo averlo tirato fuori dal fondodella piscina della sua casa sulla carretera de Vallvidrera. Una terza fotografiamostrava un ometto con la gola squarciata che assomigliava a Damián Roures.La quarta immagine era di Cristina Sagnier, e mi resi conto che era stata scattatail giorno delle nozze con Pedro Vidal. Le ultime due erano ritratti da studio deimiei ex editori, Barrido ed Escobillas. Una volta che ebbe allineato in bell'ordinele sei foto, Grandes mi rivolse uno sguardo impenetrabile e lasciò trascorrere unpaio di minuti di silenzio, studiando la mia reazione alle immagini, o la suaassenza. Poi, con infinita flemma, versò due tazze di caffè e ne spinse una versodi me.

—Prima di tutto, mi piacerebbe darle l'opportunità di essere lei a raccontarmiogni cosa, Martín. A modo suo e senza fretta— disse alla fine.

—Non servirà a niente— replicai. —Non cambierà niente.——Preferisce un faccia a faccia con altri possibili implicati? Con la sua

assistente, per esempio? Come si chiama? Isabella?——La lasci in pace. Lei non sa niente.——Mi convinca.—Guardai verso la porta.—C'è solo un modo per uscire da questa stanza, Martín— disse l'ispettore

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mostrandomi una chiave.Sentii di nuovo il peso del revolver nella tasca del cappotto.—Da dove vuole che inizi?——È lei il narratore. Le chiedo solo di dirmi la verità.——Non so qual è.——La verità è quella che fa male.—Per oltre due ore, Víctor Grandes non aprì bocca nemmeno una volta.Ascoltò attentamente, annuendo ogni tanto e annotando qualche parola sul suo

quaderno di quando in quando. All'inizio lo guardavo, ma presto mi dimenticaiche era lì e scoprii che stavo raccontando la storia a me stesso.

Le parole mi fecero riandare a un tempo che credevo perduto, alla notte incui avevano assassinato mio padre davanti alla sede del giornale. Ricordai i mieigiorni alla « Voz de la Industria» , gli anni in cui avevo vissuto scrivendo raccontidel terrore e la prima lettera firmata da Andreas Corelli che mi augurava grandisperanze. Ricordai il primo incontro con il principale alla cisterna e i giorni in cuila certezza di una morte sicura era tutto l'orizzonte che mi si spalancava davanti.Gli parlai di Cristina, di Vidal e di una storia il cui finale chiunque avrebbe potutointuire eccetto me. Gli parlai dei due libri che avevo scritto, uno con il mio nomee l'altro con quello di Vidal, della perdita di quelle misere speranze, e delpomeriggio in cui vidi mia madre gettare nella spazzatura l'unica cosa buona checredevo di aver fatto nella vita. Non cercavo la comprensione né la compassionedell'ispettore. Mi bastava tracciare una mappa immaginaria degli avvenimentiche mi avevano condotto in quella stanza, a quell'istante di vuoto assoluto.

Tornai in quella casa accanto al Park Güell e alla sera in cui il principale miaveva formulato un'offerta che non potevo rifiutare, che non volevo rifiutare.Confessai i miei primi sospetti, le scoperte sulla storia della casa della torre, sullastrana morte di Diego Marlasca e sulla rete di inganni in cui ero caduto o cheavevo scelto per soddisfare la mia vanità, la mia avidità e la mia volontà di viverea qualunque costo. Vivere per raccontare quella storia.

Non tralasciai nulla. Nulla tranne la cosa più importante, quella che non osavoraccontare nemmeno a me stesso. Nel mio racconto, tornavo alla clinica di VillaSan Antonio in cerca di Cristina e trovavo solo una scia di orme che si perdevanonella neve. Forse, se me lo fossi ripetuto varie volte, perfino io sarei arrivato acredere che era andata così. La mia storia terminava quella stessa mattina, diritorno dalle catapecchie del Somorrostro, con la scoperta che Diego Marlascaaveva deciso che la foto mancan-te nella serie disposta sul tavolo dall'ispettoreera la mia.

Terminato il racconto, sprofondai in un lungo silenzio. Non mi ero mai sentitotanto stanco in vita mia. Avrei voluto andarmene a dormire e non svegliarmi maipiù. Grandes mi osservava dall'altro lato del tavolo. Mi sembrò che fosse confuso,triste, collerico e soprattutto sperduto.

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—Dica qualcosa— lo esortai.Sospirò. Si alzò dalla sedia che non aveva abbandonato durante tutta la mia

storia e si avvicinò alla finestra, dandomi le spalle. Mi vidi estrarre il revolver dalcappotto, sparargli nella nuca e uscire da lì con la chiave che si era messo intasca. In sessanta secondi sarei potuto essere in strada.

—Il motivo per cui stiamo parlando è che ieri è arrivato un telegramma dallacaserma della Guardia Civil di Puigcerdà con la notizia che Cristina Sagnier èscomparsa dalla clinica di Villa San Antonio e che lei è il principale sospettato.Secondo il medico del centro, lei aveva manifestato la sua intenzione di portarselavia e lui non glielo ha concesso. Le racconto tutto questo affinché capiscaesattamente perché siamo qui, in questa stanza, con caffè caldo e sigarette, achiacchierare come vecchi amici. Siamo qui perché la moglie di uno degliuomini più ricchi di Barcellona è scomparsa e lei è l'unico che sa dove si trova.Siamo qui perché il padre del suo amico Pedro Vidal, uno degli uomini più potentidi questa città, si è interessato al caso perché a quanto pare è un suo vecchioconoscente e ha chiesto ama-bilmente ai miei superiori di ottenere quelleinformazioni prima di torcerle un capello e di lasciare a dopo ogni altraconsiderazione. Non fosse stato per questo, e per la mia insistenza nell'avereun'opportunità per cercare di chiarire la questione a modo mio, lei adesso sitroverebbe in una cella del Campo de la Bota e invece di parlare con medovrebbe vedersela con Marcos e Castelo i quali, per sua informazione, credonoche bisognerebbe cominciare a spezzarle le ginocchia con un martello, perchétutto il resto è una perdita di tempo e mette in pericolo la vita della signora Vidal.E questa opinione a ogni minuto che passa è sempre più condivisa dai mieisuperiori, convinti che io le stia lasciando troppa briglia a causa della nostraamicizia.—

Grandes si voltò e mi guardò trattenendo l'ira.—Non mi ha ascoltato— dissi. —Non ha sentito niente di quello che le ho

detto.——L'ho ascoltata benissimo, Martín. Ho ascoltato come, moribondo e

disperato, ha formalizzato un accordo con un più che misterioso editore pa-rigino,di cui nessuno ha mai sentito parlare e che nessuno ha mai visto, per inventarsi,secondo le sue stesse parole, una nuova religione in cambio di centomila franchifrancesi, solo per scoprire che in realtà era caduto in un sinistro complotto in cuisarebbero implicati un avvocato, che ha simu-lato la propria morte venticinqueanni fa, e la sua amante, una ballerina di varietà in disgrazia, per sfuggire alproprio destino, che adesso è il suo. Ho ascoltato come questo destino l'ha fattacadere nella trappola di una casa maledetta che aveva già catturato il suopredecessore, Diego Marlasca, e dove ha trovato la prova che qualcuno laseguiva e uccideva tutti coloro che potevano svelare il segreto di un uomo che, agiudicare dalle sue parole, era pazzo quasi quanto lei. L'uomo nell'ombra, che

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avrebbe assunto l'identità di un ex poliziotto per occultare il fatto di essere vivo, hacommesso una serie di crimini con l'aiuto della sua amante, incluso quello di averprovocato la morte del signor Sempere per qualche strano motivo che nemmenolei è in grado di spiegare.—

—Irene Sabino ha ucciso Sempere per rubargli un libro. Un libro che secondolei conteneva la mia anima.—

Grandes si batté la palma della mano sulla fronte, come se avesse appenatrovato il quid della questione.

—Certo. Che stupido. Questo spiega tutto. Come quel terribile segreto che unamaga della spiaggia del Bogatell le ha svelato. La Strega del Somorrostro. Mipiace. Molto nel suo stile. Vediamo se ho capito bene. Il Marlasca tieneprigioniera un'anima per occultare la sua e sfuggire così a una specie dimaledizione. Mi dica, l'ha preso dalla Città dei maledetti o se l'è appena inventato?—

—Non mi sono inventato nulla.——Si metta al mio posto e pensi se crederebbe a qualcosa di quello che ha

detto.——Immagino di no. Ma le ho raccontato tutto quello che so.——Naturalmente. Mi ha fornito dati e prove concrete per verificare la ve-

ridicità del suo racconto, dalla visita con il dottor Trias al suo conto correntepresso il Banco Hispano Colonial, alla sua stessa lapide mortuaria che l'attende inun laboratorio del Pueblo Nuevo, e perfino a un vincolo legale tra l'uomo che leichiama il principale e lo studio Valera, nonché molti altri dettagli fattuali che nonsmentiscono la sua esperienza nella creazione di storie poliziesche. L'unica cosache non mi ha raccontato e che, francamente, per il suo bene e per il mio,speravo di sentire è dove si trova Cristina Sagnier.—

Capii che l'unico modo per salvarmi in quel momento era mentire.Dall'istante in cui avessi detto la verità su Cristina, le mie ore sarebbero state

contate.—Non lo so.——Mente.——Le ho già detto che non servirebbe a nulla raccontarle la verità— replicai.—Tranne che a farmi fare la figura dello stupido per averla voluta aiutare.——È questo che sta cercando di fare, ispettore? Aiutarmi?——Sì.——Allora verifichi tutto quello che le ho detto. Trovi Marlasca e Irene Sabino.

——I miei superiori mi hanno concesso ventiquattr'ore con lei. Se per allora non

consegno Cristina Sagnier sana e salva, o almeno viva, mi toglieranno il caso e lopasseranno a Marcos e Castelo, che da tempo aspettano l'opportunità diacquistare meriti e non la sprecheranno.—

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—Allora non perda tempo.—Grandes sbuffò ma annuì.—Spero che sappia quello che sta facendo, Martín.—

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19

Calcolai che dovevano essere le nove del mattino quando l'ispettore Grandes milasciò chiuso in quella stanza senza altra compagnia che il thermos con il caffèfreddo e il suo pacchetto di sigarette. Fece appostare uno dei suoi uomini allaporta e lo sentii ordinargli di non permettere a nessuno di entrare per nessunmotivo. Cinque minuti dopo la sua partenza, sentii qualcuno bussare e riconobbi ilviso del sergente Marcos ritagliato nel finestrino di vetro. Non potevo sentire lesue parole, ma la calligrafia delle sue labbra non lasciava spazio ai dubbi.

Comincia a prepararti, figlio di puttana.Passai il resto della mattinata seduto sul davanzale della finestra a osservare la

gente che si credeva libera camminare al di là delle sbarre, fumando emangiando zollette di zucchero con lo stesso godimento con cui lo avevo vistofare dal principale in più di un'occasione. La stanchezza, o forse solo il rinculodella disperazione, mi raggiunsero verso mezzogiorno e mi stesi a terra, la facciarivolta al muro. Mi addormentai in meno di un minuto. Quando mi svegliai, lastanza era in penombra. Si era già fatto scuro e il chiarore ocra dei lampioni divia Lay etana disegnava ombre di auto e di tram sul soffitto. Mi alzai, con ilfreddo del pavimento che m'impregnava tutti i muscoli, e mi avvicinai a unradiatore in un angolo, ma era più gelido delle mie mani.

In quell'istante sentii che la porta si apriva alle mie spalle e mi voltai, trovandol'ispettore che mi osservava dalla soglia. A un cenno di Grandes, uno dei suoiuomini accese la lampada della stanza e chiuse la porta. La luce dura e metallicami colpì gli occhi, accecandomi per qualche istante.

Quando li riaprii, vidi un ispettore con un aspetto brutto quasi quanto il mio.—Deve andare in bagno?——No. Approfittando delle circostanze, ho deciso di pisciarmi addosso e di

cominciare a fare pratica per quando mi manderà nella stanza degli orrori degliinquisitori Marcos e Castelo.—

—Sono contento che non abbia perso il senso dell'umorismo. Ne avrà bisogno.Si sieda.—

Riprendemmo le nostre postazioni di parecchie ore prima e ci guardammo insilenzio.

—Ho cercato di verificare i dettagli della sua storia.——E allora?——Da dove vuole che inizi?——Il poliziotto è lei.——La prima visita l'ho fatta allo studio del dottor Trias, in calle Muntaner.È stata breve. Il dottor Trías è morto dodici anni fa e l'ambulatorio appartiene

da otto a un dentista di nome Bernat Llofriu, che, inutile dirlo, non ha mai sentitoparlare di lei.—

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—Impossibile.——Aspetti, che il bello deve ancora venire. Uscendo da lì, sono passato dalla

sede centrale del Banco Hispano Colonial. Impressionante arredamento e unservizio impeccabile. Mi è venuta voglia di aprire un libretto di risparmio. Lì hopotuto accertare che lei non ha mai avuto nessun conto nell'istituto, che non hannomai sentito parlare di nessun Andreas Corelli e che nessun cliente in questomomento ha un conto in divisa estera per un importo di centomila franchifrancesi. Vado avanti?—

Strinsi le labbra, ma annuii.—La fermata successiva è stata nello studio del defunto avvocato Valera.Lì ho verificato che lei ha, sì, un conto corrente, ma non all'Hispano Colonial,

bensì al Banco de Sabadell, dal quale ha trasferito fondi a favore degli avvocatiper un importo di duemila pesetas sei mesi fa.—

—Non la capisco.——Semplicissimo. Lei ha ingaggiato Valera in maniera anonima, o almeno

così credeva, perché le banche hanno una memoria da poeta e una volta chehanno visto un centesimo volare non se lo scordano più. Le confesso che a quelpunto cominciavo a prenderci gusto e ho deciso di fare una visita al laboratorio disculture funerarie di Sanabre e Figli.—

—Non mi dica che non ha visto l'angelo… ——L'ho visto, l'ho visto. Impressionante. Come la lettera firmata di suo pugno

datata tre mesi fa con la quale ha commissionato il lavoro e la ricevuta delpagamento in anticipo che quel brav'uomo di Sanabre conservava nei suoiregistri. Un uomo affascinante e orgoglioso del proprio mestiere.

Mi ha detto che è il suo capolavoro, che ha avuto un'ispirazione divina.——Non gli ha chiesto del denaro ricevuto da Marlasca venticinque anni fa?——L'ho fatto. Conservava le ricevute. Riguardavano lavori di ampliamen-to,

manutenzione e ristrutturazione della cappella di famiglia.——Nella tomba di Marlasca c'è seppellito qualcuno che non è lui.——Questo lo dice lei. Ma se vuole che profani un sepolcro, capisce che dovrà

fornirmi argomenti più solidi. Ma mi permetta di proseguire nel mio ripasso dellasua storia.—

Deglutii.—Approfittando del fatto che ero lì, sono andato alla spiaggia del Bogatell,

dove per un real ho trovato almeno dieci persone disposte a rivelarmi il tremendosegreto della Strega del Somorrostro. Non gliel'ho detto stamattina quando mi hafatto il suo racconto per non rovinare il dramma, ma in realtà la donnona che sifaceva chiamare così è morta da diversi anni. La vecchia che ho incontrato nonspaventa neanche i bambini ed è prostrata su una sedia. Un dettaglio che lepiacerà moltissimo: è muta.—

—Ispettore… —

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—Non ho ancora finito. Non mi potrà dire che non prendo il mio lavoro sulserio. Abbastanza da andare da lì alla villa che lei mi ha descritto accanto al ParkGüell. È abbandonata da almeno dieci anni e mi dispiace dirle che non c'erano néfotografie né stampe né nient'altro che merda di gatto. Cosa gliene pare?—

Non risposi.—Mi dica, Martín. Si metta nei miei panni. Che avrebbe fatto lei se si fosse

trovato in questa situazione?——Avrei lasciato perdere, immagino.——Esatto. Ma io non sono lei e, come un idiota, dopo un periplo tanto fruttuoso,

ho deciso di seguire il suo consiglio e di cercare la temibile Irene Sabino.——L'ha trovata?——Un po' di fiducia nelle forze dell'ordine, Martín. Certo che l'abbiamo

trovata. Ridotta uno schifo in una misera pensione del Raval dove vive da anni.——Le ha parlato?—Grandes annuì.—A lungo.——E allora?——Non ha la minima idea di chi lei sia.——Questo è ciò che le ha detto?——Fra le altre cose.——Quali cose?——Mi ha raccontato di aver conosciuto Diego Marlasca a una seduta

organizzata da Roures in un appartamento di calle Elisabets dove si riunival'associazione spiritica El Porvenir nell'anno 1903. Mi ha raccontato di avertrovato un uomo che si rifugiò fra le sue braccia distrutto per la perdita del figlio eimprigionato in un matrimonio che non aveva più senso. Mi ha raccontato cheMarlasca era un uomo buono ma turbato, che credeva che qualcosa gli si fosseinsinuato dentro ed era convinto che sarebbe morto presto. Mi ha raccontato cheprima di morire donò un fondo affinché lei e l'uomo che aveva lasciato permettersi con Marlasca, Juan Corbera, alias Jaco, ricevessero qualcosa in suaassenza. Mi ha raccontato che Marlasca si tolse la vita perché non potevasopportare il dolore che lo consumava.

Mi ha raccontato di aver vissuto con Juan Corbera di quella carità di Marlascafinché il fondo si esaurì, e che l'uomo che lei chiama Jaco la lasciò poco dopo, edi aver saputo che era morto solo e alcolizzato mentre lavorava comesorvegliante notturno nello stabilimento di Casaramona. Mi ha raccontato di avereeffettivamente accompagnato Marlasca da quella donna che chiamavano laStrega del Somorrostro perché era convinta che lo avrebbe consolato facendoglicredere che si sarebbe ritrovato con suo figlio nell'aldilà… Vuole che vadaavanti?—

Mi aprii la camicia e gli mostrai i tagli che Irene Sabino mi aveva inciso sul

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petto la notte che lei e Marlasca mi avevano aggredito nel cimitero di SantGervasi.

—Una stella a sei punte. Non mi faccia ridere, Martín. Questi tagli puòesserseli fatti da solo. Non significano nulla. Irene Sabino è solo una povera donnache si guadagna da vivere lavorando in una lavanderia di calle Cadena, non unafattucchiera.—

—E Ricardo Salvador?——Fu espulso dal corpo di polizia nel 1906, dopo aver passato due anni a

rivangare il caso della morte di Diego Marlasca mentre intratteneva unarelazione illecita con la vedova del defunto. L'ultima cosa che si è saputa di lui èche aveva deciso di imbarcarsi e di andarsene in America per iniziare una nuovavita.—

Non potei evitare di mettermi a ridere davanti all'enormità di quell'inganno.—Non se ne rende conto, ispettore? Non si rende conto che sta cadendo

esattamente nella stessa trappola che Marlasca ha teso a me?—Grandes mi osservava con compassione.—A non rendersi conto di quello che sta succedendo è lei, Martín. L'orologio

corre e lei, invece di dirmi cosa ne ha fatto di Cristina Sagnier, si ostina a cercaredi convincermi di una storia che sembra uscita dalla Città dei maledetti. Qui c'èsolo una trappola: quella che lei ha teso a se stesso. E

ogni minuto che passa senza dire la verità mi rende più difficile tirarla fuoridai guai.—

Grandes mi passò la mano davanti agli occhi un paio di volte, come se volesseassicurarsi che avevo ancora il senso della vista.

—No? Niente? Come vuole. Mi permetta di finire di raccontarle i risultatidella giornata. Dopo la visita a Irene Sabino in verità ero stanco e sono tornato perun po' al Comando, dove ho trovato ancora il tempo e la voglia di chiamare lacaserma della Guardia Civil di Puigcerdà. Lì mi hanno confermato che lei è statovisto uscire dalle stanze dov'era ricoverata Cristina Sagnier la notte in cui èscomparsa, che non è mai tornato in albergo a prendere il suo bagaglio e chesecondo il responsabile medico della clinica è stato lei a tagliare le cinghie dicuoio che legavano la paziente. Allora ho chiamato un vecchio amico suo, PedroVidal, che ha avuto la cortesia di venire al Comando. Il pover'uomo è a pezzi. Miha raccontato che l'ultima volta che vi siete visti lei l'ha picchiato. È vero?—

Annuii.—Sappia che non gliene vuole. In realtà, ha quasi cercato di persuadermi a

lasciarla andare. Dice che deve esserci una spiegazione. Che lei ha avuto una vitadifficile. Che ha perso il padre per colpa sua. Che lui si sente responsabile. El'unica cosa che desidera è ritrovare la moglie e non ha alcuna intenzione di fareritorsioni contro di lei.—

—Ha raccontato tutto a Vidal?—

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—Non ho potuto fare altrimenti.—Mi nascosi la faccia tra le mani.—Cosa ha detto?— chiesi.Grandes si strinse nelle spalle.—Crede che lei abbia perso la ragione. La ritiene innocente e, in ogni ca-so,

non vuole che le succeda nulla. La sua famiglia è un altro paio di maniche. Mirisulta che il padre del suo amico Vidal, che non la può soffrire, come le ho detto,ha offerto in segreto una gratifica di cinquemila pesetas a Marcos e Castelo se lestrappano una confessione in meno di dodici ore.

Loro gli hanno assicurato che nel giro di una mattinata lei reciterà perfino iversi del Canigó. —

—E lei cosa crede?——La verità? Mi piacerebbe credere che Pedro Vidal sia nel giusto, che lei

abbia perso la ragione.—Non gli dissi che, in quello stesso momento, anch'io cominciavo a crederlo.

Guardai Grandes e notai qualcosa nella sua espressione che non quadrava.—C'è qualcosa che non mi ha raccontato— dissi.—Direi che le ho raccontato più che abbastanza— replicò.—Cos'è che non mi ha detto?—Grandes mi osservò attentamente e poi si lasciò sfuggire una risata trattenuta.—Stamattina, quando mi ha raccontato che la sera in cui morì il signor

Sempere qualcuno era andato in libreria e che li avevano sentiti litigare,sospettava che quella persona volesse acquistare un libro, un libro suo, e che alrifiuto di Sempere di venderglielo fosse nata una colluttazione e il libraio avesseavuto un attacco di cuore. Secondo lei era un pezzo quasi unico, di cui esistonopochissime copie. Come si intitolava il libro?—

— I passi del cielo. ——Esatto. È quello il libro che, secondo i suoi sospetti, è stato rubato la sera che

Sempere è morto?—Annuii. L'ispettore prese una sigaretta e l'accese. Assaporò un paio di boccate

e la spense.—È questo il mio dilemma, Martín. Credo che lei mi abbia venduto un

mucchio di fandonie che si è inventato prendendomi per imbecille oppure, e nonso se è peggio, ha iniziato lei stesso a crederci a forza di ripeterle.

Tutto porta a lei, e la cosa più facile per me è lavarmene le mani e lasciarlain quelle di Marcos e Castelo.—

—Ma… ——Ma… ed è un ma minuscolo, insignificante, un ma che i miei colleghi non

avrebbero alcun problema a trascurare, e invece a me disturba come se fosse unbruscolino di polvere nell'occhio e mi fa pensare se, magari, e quello che sto perdire contraddice tutto ciò che ho imparato in vent'anni di mestiere, le cose che mi

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ha raccontato non siano la verità, ma non siano nemmeno false.——Posso solo dirle che le ho raccontato ciò che ricordo, ispettore. Può

credermi oppure no. La verità è che a volte non mi credo nemmeno io. Ma èquello che ricordo.—

Grandes si alzò e iniziò a girare attorno al tavolo.—Questo pomeriggio, parlando con Maria Antonia Sanahuja, o Irene Sabino,

nella stanza della sua pensione, le ho chiesto se la conosceva. Ha detto di no. Leho spiegato che viveva nella casa della torre dove lei e Marlasca avevanotrascorso diversi mesi. Le ho chiesto di nuovo se si ricordava di lei. Mi ha rispostodi no. Poco dopo le ho detto che lei aveva visitato la cappella della famigliaMarlasca ed era sicuro di averla vista lì. Per la terza volta quella donna ha negatodi averla mai incontrata. E io le ho creduto.

Le ho creduto finché, quando stavo per andarmene, ha detto di avere un po'freddo e ha aperto l'armadio per prendere uno scialle di lana da mettersi sulle

spalle. Allora ho visto un libro su un tavolo. Ha richiamato la mia attenzioneperché era l'unico libro nella stanza. Approfittando del fatto che mi aveva dato lespalle, l'ho aperto e ho letto una dedica scritta a mano sulla prima pagina.—

—« Per il signor Sempere, il miglior amico che un libro potrebbe desiderare,per avermi aperto le porte del mondo e insegnato ad attraversarle» — ci-tai amemoria.

—« Firmato, David Martín» — completò Grandes.L'ispettore si fermò davanti alla finestra, dandomi le spalle.—Tra mezz'ora verranno a prenderla e mi toglieranno il caso— disse. —Lei

passerà in custodia al sergente Marcos. E io non potrò fare più nulla. Haqualcos'altro da dire che mi permetta di salvarle il collo?—

—No.——Allora prenda quel ridicolo revolver che tiene nascosto da ore nel cappotto

e, facendo attenzione a non spararsi a un piede, mi minacci di farmi saltare latesta se non le consegno la chiave che apre quella porta.—

Guardai verso la porta.—In cambio, le chiedo solo di dirmi dov'è Cristina Sagnier, se è ancora viva.

—Abbassai lo sguardo, incapace di trovare la mia stessa voce.—L'ha uccisa lei?—Lasciai trascorrere un lungo silenzio.—Non lo so.—Grandes si avvicinò e mi tese la chiave della porta.—Se la squagli, Martín.—Esitai un istante prima di accettarla.—Non usi la scala principale. Uscendo in corridoio, alla fine, sulla sinistra, c'è

una porta blu che si apre solo da questo lato e conduce alla scala antincendio.

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L'uscita dà nel vicolo sul retro.——Come posso ringraziarla?——Può cominciare non perdendo tempo. Ha una trentina di minuti prima che

tutto il dipartimento si metta alle sue calcagna. Cerchi di non sprecar-li— dissel'ispettore.

Presi la chiave e mi diressi alla porta. Prima di uscire, mi voltai un istante.Grandes si era seduto sul tavolo e mi osservava senza alcuna espressione.

—Quella spilla dell'angelo— disse, indicandosi il risvolto della giacca.—Sì?——Gliel'ho vista addosso da quando la conosco.—

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20

Le strade del Raval erano tunnel d'ombra punteggiati di lampioni sfarfal-lanti chea malapena riuscivano a graffiare l'oscurità. Mi ci volle qualcosa in più dei trentaminuti che mi aveva concesso l'ispettore Grandes per scoprire che c'erano duelavanderie in calle Cadena. Nella prima, quasi una grotta in fondo a scale lucidedi vapore, lavoravano solo bambini con le mani violacee di tintura e gli occhigiallastri. La seconda, una fucina di sudiciume e di puzza di liscivia da cui sifaticava a credere che potesse uscire qualcosa di pulito, era gestita da un donnoneche alla vista di qualche moneta non perse tempo ad ammettere che MariaAntonia Sanahuja lavorava lì sei pomeriggi alla settimana.

—Che ha combinato adesso?— domandò la matrona.—Ha ereditato. Mi dica dove posso trovarla e forse ci guadagna qualcosa.—La matrona rise, però gli occhi le brillarono di avidità.—Che io sappia, vive nella pensione Santa Lucia, in calle Marqués de

Barberà. Quanto ha ereditato?—Lasciai cadere qualche moneta sul bancone e uscii da quel buco immon-do

senza prendermi la briga di rispondere.La pensione in cui viveva Irene Sabino languiva in un cupo edificio che

sembrava costruito con ossa dissepolte e lapidi rubate. Le targhette delle cassettedella posta in portineria erano ricoperte di ruggine. Ai primi due piani nonfigurava nessun nominativo. Il terzo ospitava una sartoria dal nomemagniloquente, La Textil Mediterránea. Il quarto e ultimo era occupato dallapensione Santa Lucia. Una scala su cui a stento passava una persona saliva nellapenombra, mentre le esalazioni delle fognature s'infiltravano dai muri e simangiavano la pittura delle pareti come acido. Salii quattro piani fino araggiungere un pianerottolo inclinato sul quale si affacciava una sola porta. Bussaicon il pugno e dopo un po' mi aprì un uomo alto e magro come un incubo di ElGreco.

—Cerco Maria Antonia Sanahuja— dissi.—Lei è il medico?— domandò.Lo spinsi di lato ed entrai. L'appartamento non era altro che un guazzabuglio

di stanze strette e buie aggrappiate ai due lati di un corridoio che moriva in unfinestrone affacciato su un cavedio. Il fetore che usciva dalle tubature permeaval'atmosfera. L'uomo che mi aveva aperto era rimasto sulla soglia e mi guardavasconcertato. Immaginai che si trattasse di un pensionante.

—Qual è la sua stanza?— chiesi.Mi guardò in silenzio, impenetrabile. Tirai fuori il revolver e glielo mostrai.

L'uomo, senza perdere la serenità, indicò l'ultima porta del corridoio accanto allosfiatatoio del cavedio. Ci andai e quando scoprii che era chiusa cominciai adarmeggiare con la serratura. Gli altri ospiti si erano affacciati in corridoio, un

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coro di anime dimenticate che sembravano non avere sfiorato la luce del sole peranni. Ricordai i miei giorni di miseria nella pensione di donna Carmen e mi passòper la mente che il mio vecchio domicilio sembrava il nuovo Hotel Ritz aparagone di quel miserabile purgatorio, uno dei tanti nell'alveare del Raval.

—Tornate nelle vostre stanze— dissi.Nessuno diede segno di avermi sentito. Alzai la mano mostrando l'arma.Immediatamente tutti s'infilarono nelle loro stanze come roditori spaventa-ti,

eccetto il cavaliere dalla triste e slanciata figura. Concentrai di nuovo l'attenzionesulla porta.

—Ha chiuso dall'interno— spiegò il pensionante. —È lì da tutto il pomeriggio.—

Un odore che mi fece pensare alle mandorle amare filtrava da sotto la porta.La colpii con il pugno diverse volte senza ottenere risposta.

—La padrona ha un passe-partout— disse il pensionante. —Se vuoleaspettare… Non credo ci metterà molto a tornare.—

Per tutta risposta, mi allontanai di qualche passo e mi lanciai contro la porta,che cedette alla seconda carica. Appena mi ritrovai nella stanza, mi assalì quelfetore acre e nauseabondo.

—Dio mio— mormorò il pensionante alle mie spalle.La ex stella del Paratelo giaceva su una branda, pallida e ricoperta di sudore.

Aveva le labbra nere e, vedendomi, sorrise. Le sue mani stringevano con forza laboccetta di veleno. L'aveva bevuto fino all'ultima goccia. Il fetore del suo alito, disangue e di bile, riempiva la stanza. Il pensionante si tappò il naso e la bocca conla mano e arretrò in corridoio. Osservai Irene Sabino che si contorceva mentre ilveleno la corrodeva dall'interno. La morte si stava prendendo il suo tempo.

—Dov'è Marlasca?—Mi guardò attraverso lacrime di agonia.—Non aveva più bisogno di me— disse. —Non mi ha mai amato.—Aveva la voce aspra e spezzata. L'assalì una tosse secca che le strappò dal

petto un suono sdrucito, e un secondo dopo un liquido scuro le affiorò tra i denti.Irene Sabino mi osservava aggrappandosi all'ultimo soffio di vi-ta. Mi prese lamano e la strinse forte.

—Lei è maledetto, come lui.——Cosa posso fare?—Negò lentamente con la testa. Un nuovo attacco di tosse le scosse il petto. I

capillari degli occhi le si rompevano e una rete di linee sanguinanti avanzavaverso le sue pupille.

—Dov'è Ricardo Salvador? Nella tomba di Marlasca, nella cappella difamiglia?—

Irene Sabino scosse la testa. Una parola muta le si formò sulle labbra.Jaco.

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—Dov'è Salvador, allora?——Lui sa dov'è lei. La vede. Verrà a cercarla.—Mi sembrò che iniziasse a delirare. La pressione della sua mano perdeva

forza.—Io l'amavo— disse. —Era un uomo buono. Un uomo buono. Lui l'ha

cambiato. Era un uomo buono… —Un rumore di carne lacerata le uscì dalle labbra e il suo corpo si tese in uno

spasmo. Irene Sabino morì con gli occhi fissi nei miei, portandosi via per sempreil segreto di Diego Marlasca. Ora restavo solo io.

Le coprii il volto con un lenzuolo e sospirai. Sulla soglia, il pensionante si feceil segno della croce. Mi guardai attorno, cercando qualcosa che potesse aiutarmi,un indizio su quale dovesse essere il mio prossimo passo.

Irene Sabino aveva trascorso i suoi ultimi giorni in una cella di due metri perquattro. Non c'erano finestre. La branda di ferro su cui giaceva il suo cadavere,un armadio sull'altro lato e un tavolino contro il muro costituiva-no tuttol'arredamento. Una valigia spuntava da sotto la branda, accanto a un ormale e auna cappelliera. Sul tavolino c'erano un piatto con briciole di pane, una caraffad'acqua e una pila di quelle che sembravano cartoline, ma che si rivelaronoimmaginette di santi e avvisi funebri. Avvolto in un panno bianco c'era quello chepareva un libro. Lo scartocciai e trovai la copia dei Passi del cielo che avevodedicato al signor Sempere. La compassione risvegliata in me dall'agonia diquella donna svaporò all'istante.

Quella disgraziata aveva ammazzato il mio buon amico per strappargli quelmaledetto libro. Ricordai allora le parole di Sempere la prima volta che eroentrato nella sua libreria: ogni libro aveva un'anima, l'anima di chi l'aveva scrittoe l'anima di quelli che lo avevano letto e sognato. Sempere era morto credendo aquelle parole e capii che anche Irene Sabino, a suo modo, ci aveva creduto.

Sfogliai le pagine rileggendo la dedica. Trovai il primo segno a pagina sette.Un tratto marrone sgorbiava le parole, disegnando una stella a sei punte identica aquella che mi aveva inciso sul petto con la lama di un rasoio qualche settimanaprima. Capii che era tracciata con il sangue. Continuai a girare le pagine e ascoprire nuovi disegni. Delle labbra. Una mano.

Occhi. Sempere aveva sacrificato la vita per un miserabile e ridicoloincantesimo da baraccone.

Misi il libro nella tasca interna del cappotto e mi inginocchiai accanto al letto.Tirai fuori la valigia e la svuotai sul pavimento. C'erano solo vestiti e scarpevecchie. Aprii la cappelliera e trovai un astuccio di pelle che conteneva il rasoiocon cui Irene Sabino mi aveva fatto i segni sul petto. All'improvviso avvertiiun'ombra che si allungava sul pavimento e mi girai di scatto, puntando il revolver.Il pensionante dal fisico asciutto mi guardò con una certa sorpresa.

—Mi sembra che abbia compagnia— disse lapidario.

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Uscii in corridoio e andai verso l'ingresso. Mi affacciai sulle scale e sentii ipesanti passi che salivano. Un volto si profilò nella tromba delle scale.

Guardava in alto, e mi imbattei negli occhi del sergente Marcos due pianisotto di me. Si tirò indietro e i passi accelerarono. Non era solo. Chiusi e miappoggiai alla porta, sforzandomi di pensare. Il mio complice mi osservava,calmo ma in attesa.

—C'è un'altra uscita?— domandai.Scosse la testa.—Sul tetto?—Indicò la porta che avevo appena chiuso. Tre secondi più tardi sentii l'impatto

dei corpi di Marcos e Castelo che cercavano di sfondarla. Mi allontanai,retrocedendo nel corridoio con l'arma puntata verso la porta.

—Io, magari, me ne vado nella mia stanza— disse l'inquilino. —È stato unpiacere.—

—Altrettanto.—Fissai gli occhi sulla porta, che veniva scossa con forza. Il legno consumato

attorno ai cardini e alla serratura cominciò a fendersi. Andai verso il fondo delcorridoio e aprii la finestra che dava sul cavedio. Un tunnel verticaleapprossimativamente di un metro per un metro e mezzo s'inabissava nell'ombra.Il bordo del lastrico sul tetto s'intravedeva in alto, a circa tre metri dalla finestra.Dall'altra parte del cavedio c'era uno sfiatatoio attaccato al muro con gancimarci di ruggine. L'umidità suppurante ne spruzzava la superficie di lacrimenere. Il rumore dei colpi continuava a rintronare al-le mie spalle. Mi voltai e vidiche la porta era ormai praticamente scardina-ta. Calcolai che mi restavanoappena pochi secondi. Senza altra alternativa, salii sul davanzale e saltai.

Riuscii ad aggrapparmi alle tubature e a poggiare un piede su uno dei ganciche sporgeva. Sollevai la mano per afferrare la parte superiore del tubo, maappena feci forza sentii che mi si sbriciolava tra le mani e che un intero metroprecipitava lungo il cavedio. Fui sul punto di cadere anch'io, ma mi aggrappai alpezzo di metallo conficcato nel muro che sosteneva il gancio. La tubatura graziealla quale avevo sperato di salire sul tetto era adesso completamente al di fuoridella mia portata. Non c'erano che due vie d'uscita: tornare nel corridoio doveentro un paio di secondi Marcos e Castelo sarebbero riusciti a entrare, oppurescendere per quella gola oscura. Sentii la porta sbattere forte contro il murointerno della casa e mi lasciai cadere lentamente, afferrandomi come potevo altubo di scarico e la-cerandomi buona parte della pelle della mano sinistra neltentativo. Ero riuscito a scendere di un metro e mezzo quando vidi le figure deidue poliziotti ritagliate nel fascio di luce proiettato dalla finestra sull'oscurità delcavedio. Il volto di Marcos fu il primo ad affacciarsi. Sorrise e io mi domandai semi avrebbe sparato subito, senza troppi indugi. Poi, al suo fianco, comparveCastelo.

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—Tu rimani qui. Io vado al piano di sotto— ordinò Marcos.Castelo annuì senza togliermi gli occhi di dosso. Mi volevano vivo, almeno per

qualche ora. Sentii i passi di Marcos che si allontanavano di corsa. Entro pochisecondi l'avrei visto affacciarsi dalla finestra che si trovava ad appena un metrosotto di me. Guardai in basso e vidi che le finestre del secondo e del primo pianodisegnavano ritagli di luce, ma quella del terzo era al buio. Scesi lentamentefinché sentii il piede poggiare sul gancio successivo. La finestra oscura del terzopiano era di fronte a me, il corridoio vuoto con in fondo la porta a cui Marcosstava bussando. A quell'ora la sartoria aveva già chiuso e non c'era nessuno. Icolpi alla porta cessarono e capii che Marcos era sceso al secondo piano. Guardaiin alto e vidi che Castelo continuava a osservarmi, leccandosi i baffi come ungatto.

—Non cadere, così quando ti prendiamo ci divertiamo— disse.Sentii delle voci al secondo piano e capii che Marcos era riuscito a farsi

aprire. Senza pensarci due volte, mi lanciai contro la finestra del terzo piano contutta la forza che riuscii a trovare. L'attraversai coprendomi la faccia e il collocon le maniche del cappotto, e atterrai in una pozzanghera di vetri rotti. Mi rialzaia fatica e nella penombra vidi una macchia scura al-largarsi sul braccio sinistro.Una scheggia di vetro, affilata come una daga, spuntava da sopra il gomito. Lastrinsi fra le dita e tirai. Il freddo lasciò il posto a una fiammata di dolore che mifece cadere ginocchioni a terra. Da lì riuscii a vedere che Castelo aveva iniziato ascendere lungo le tubature e mi osservava dal punto dal quale ero saltato. Primache potessi estrarre l'arma, saltò verso la finestra. Vidi le sue mani afferrarsi altelaio e, in un atto irriflesso, colpii la cornice della finestra rotta con tutte le mieforze e con tutto il peso del corpo. Sentii le ossa delle sue dita rompersi con unoscatto secco e Castelo urlò di dolore. Tirai fuori il revolver e glielo puntai infaccia, ma lui aveva già iniziato a sentire che le mani stavano abbando-nando lapresa. Un secondo di terrore negli occhi e cadde giù per il cavedio, con il corpoche sbatteva sulle pareti lasciando una scia di sangue nelle macchie di lucedisegnate dalle finestre dei piani inferiori.

Mi trascinai lungo il corridoio in direzione della porta. La ferita al bracciopulsava con forza e mi accorsi di avere anche parecchi tagli alle gambe.Continuai ad avanzare. Sui due lati si aprivano stanze in penombra piene dimacchine per cucire, bobine di filo e tavoli con grandi rotoli di stoffa.

Raggiunsi la porta e appoggiai la mano sulla maniglia. Un decimo di secondodopo la sentii girare sotto le dita. La mollai. Marcos era dall'altra parte e cercavadi forzarla. Arretrai di qualche passo. Un terribile frastuono scosse la porta, eparte della serratura schizzò via proiettata in una nube di scintille e fumoazzurrato. Marcos avrebbe fatto saltare la serratura con il revolver. Mi rifugiainella prima delle stanze, piena di sagome immobili a cui mancavano le braccia ole gambe. Erano manichini da vetrina, accatastati gli uni contro gli altri. M'infilai

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tra i torsi che brillavano nella penombra. Sentii un secondo sparo. La porta sispalancò di colpo. La luce del pianerottolo, giallastra e imprigionata nell'alone dipolvere da sparo, penetrò nell'appartamento. Il corpo di Marcos disegnò unprofilo spigoloso in quel chiarore. I suoi passi pesanti si avvicinarono lungo ilcorridoio. Lo sentii socchiudere la porta. Mi appiattii al muro, nascosto dietro imanichini, con il revolver tra le mani tremanti.

—Martín, esca— disse Marcos con calma, avanzando lentamente. —Non lefarò del male. Ho ordini di Grandes di portarla al commissariato. Abbiamotrovato quell'uomo, Marlasca. Ha confessato tutto. Lei è pulito. Ora non facciasciocchezze. Esca e ne parliamo al Comando.—

Lo vidi camminare davanti alla soglia della stanza e tirare dritto.—Martín, mi ascolti. Grandes sta arrivando. Possiamo chiarire tutto senza

dover complicare ulteriormente le cose.—Armai il percussore del revolver. I passi di Marcos si fermarono. Un fruscio

sulle mattonelle. Era dall'altra parte del muro. Sapeva perfettamente che mitrovavo in quella stanza, senza altra via d'uscita che passargli davanti. Lentamentevidi il suo profilo adattarsi alle ombre dell'entrata. La sua figura sì confuse nellapenombra liquida, lo scintillio degli occhi era l'unica traccia della sua presenza.Era ad appena quattro metri da me. Mi lasciai scivolare lungo il muro fino aterra, piegando le ginocchia. Le gambe di Marcos si avvicinavano dietro quelledei manichini.

—So che è qui, Martín. La smetta con le ragazzate.—Si fermò, immobile. Lo vidi accovacciarsi e tastare con le dita le tracce di

sangue che avevo lasciato. Si portò un dito alle labbra. Immaginai che sorridesse.—Sta sanguinando molto, Martín. Ha bisogno di un medico. Esca e

l'accompagno in un ambulatorio.—Rimasi zitto. Marcos si fermò davanti a un tavolo e prese un oggetto brillante

che giaceva tra brandelli di stoffa. Grandi forbici da telaio.—A lei, Martín.—Sentii il rumore delle lame delle forbici che si aprivano e si chiudevano fra le

sue mani. Una fitta di dolore mi attanagliò il braccio e mi morsi le labbra per nongemere. Marcos girò la faccia verso il punto in cui mi trovavo.

—A proposito di sangue, le farà piacere sapere che abbiamo preso la suaputtana e prima di cominciare con il signor David Martín ce la spasseremo un po'con quella Isabella… —

Sollevai l'arma e gliela puntai alla faccia. Lo scintillio del metallo mi tradì.Marcos mi saltò addosso, travolgendo i manichini e schivando lo sparo. Sentii ilsuo peso su di me e il suo fiato sulla faccia. Le lame delle forbici si chiusero conforza a un centimetro dal mio occhio sinistro. Lo colpii sul volto con la fronte,mettendoci tutta l'energia che riuscii a trovare, e Marcos cadde a terra. Alzai ilrevolver e glielo puntai in faccia. Marcos, con un labbro spaccato, si alzò e mi

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fissò negli occhi.—Non ne hai il fegato— mormorò.Appoggiò la mano sulla canna e mi sorrise. Premetti il grilletto. La pallottola

gli spappolò la mano, proiettando il braccio all'indietro come se avesse ricevutouna martellata. Marcos cadde a terra di spalle, stringendosi il polso mutilato efumante, mentre il suo volto punteggiato di bruciature di polvere da sparo siscioglieva in una smorfia di dolore che urlava senza voce. Mi alzai e lo lasciai lì, adissanguarsi in una pozzanghera della sua stessa orina.

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21

A malapena riuscii a trascinarmi per i vicoli del Raval fino al Paralelo, dove siera formata una fila di taxi alle porte del Teatro Apolo. M'infilai nel primo chepotei. Quando sentì il rumore della portiera, l'autista si voltò e, vedendomi, feceuna smorfia dissuasiva. Mi lasciai cadere sul sedile posteriore ignorando le sueproteste.

—Senta, non mi morirà mica lì dietro?——Prima mi porta dove voglio andare, prima si libera di me.—Il conducente bestemmiò tra sé e avviò il motore.—E dove vuole andare?—Non lo so, pensai.—Lei parta e poi glielo dico.——Partire per dove?——Pedralbes.—Venti minuti più tardi avvistai le luci di Villa Helius sulla collina. Le in-dicai

all'autista, che non vedeva l'ora di sbarazzarsi di me. Mi lasciò all'ingresso dellavilla e quasi si dimenticò di farsi pagare la corsa. Mi trascinai al portone e suonaiil campanello. Mi lasciai cadere sui gradini e appoggiai la testa contro il muro.Sentii avvicinarsi dei passi e a un certo punto mi parve che la porta si aprisse euna voce pronunciasse il mio nome. Sentii una mano sulla fronte e mi sembrò diriconoscere gli occhi di Vidal.

—Mi perdoni, don Pedro— supplicai. —Non sapevo dove andare… —Lo sentii alzare la voce e dopo un po' avvertii diverse mani che mi

prendevano per le braccia e le gambe e mi tiravano su. Quando riaprii gli occhiero nella camera di don Pedro, steso sullo stesso letto che aveva diviso conCristina nei due mesi scarsi che era durato il loro matrimonio. Sospirai.

Vidal mi osservava dai piedi del letto.—Non parlare adesso— disse. —Il medico sta arrivando.——Non gli creda, don Pedro— gemetti. —Non gli creda.—Vidal annuì stringendo le labbra.—Certo che no.—Don Pedro prese una coperta e me la mise addosso.—Scendo ad aspettare il dottore— disse. —Riposati.—Dopo un po' sentii passi e voci entrare nella stanza. Sentii che mi toglievano i

vestiti e riuscii a scorgere le dozzine di tagli che mi ricoprivano il corpo comeun'edera sanguinolenta. Sentii le pinze che frugavano nelle ferite, estraendoschegge di vetro che si portavano via brandelli di pelle e di carne. Sentii il caloredei disinfettanti e le punture dell'ago con cui il dottore ricuciva le ferite. Non c'erapiù dolore, solo stanchezza. Una volta ben-dato, ricucito e rammendato come sefossi un pupazzo rotto, il medico e Vidal mi coprirono e mi fecero appoggiare la

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testa al cuscino più dolce e soffice che avessi mai conosciuto in vita mia. Aprii gliocchi e trovai il vi-so del dottore, un signore dal portamento aristocratico e dalsorriso tranquillizzante. Aveva una siringa in mano.

—Ha avuto fortuna, giovanotto— disse mentre mi affondava l'ago nelbraccio.

—Cos'è questo?— mormorai.Il viso di Vidal si affacciò accanto a quello del medico.—Ti aiuterà a riposare.—Una nube di freddo si diffuse nel braccio e mi ricoprì il petto. Caddi in un

pozzo di velluto nero mentre Vidal e il dottore mi osservavano dall'alto.Il mondo si andò richiudendo fino a ridursi a una goccia di luce che evaporò

dalle mie mani. Sprofondai in quella pace calda, chimica e infinita, dalla qualenon sarei mai voluto fuggire.

Ricordo un mondo di acque nere sotto il ghiaccio. La luce della lunaaccarezzava la volta gelata lassù in alto e si rifrangeva in mille fasci polvero-siche si agitavano nella corrente che mi trascinava. Il manto bianco chel'avvolgeva ondeggiava lentamente, il profilo del suo corpo visibile in trasparenza.Cristina allungava la mano verso di me e io lottavo contro quella corrente freddae densa. Quando restavano pochi millimetri fra la mia ma-no e la sua, una nubetenebrosa dispiegava le ali dietro di lei e l'avvolgeva come un'esplosione diinchiostro. Tentacoli di luce nera le circondavano le braccia, la gola e il viso pertrascinarla con forza verso l'oscurità.

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22

Mi svegliai al suono del mio nome sulle labbra dell'ispettore Grandes.Mi alzai di scatto, senza riconoscere il luogo in cui mi trovavo e che, se

assomigliava a qualcosa, sembrava la suite di un grand hotel. Le frustate di doloredelle dozzine di ferite che mi percorrevano il torso mi riportarono alla realtà. Eronella camera da letto di Vidal a Villa Helius. Una luce di metà pomeriggio siinsinuava fra le imposte socchiuse. C'era il fuoco acceso nel camino e facevacaldo. Le voci provenivano dal piano di sotto. Pedro Vidal e Víctor Grandes.

Ignorai gli strattoni e le trafitture che mi mordevano la pelle e scesi dal letto. Imiei vestiti sporchi e insanguinati erano gettati su una poltrona.

Cercai il cappotto. Il revolver era ancora nella tasca. Armai il percussore euscii dalla stanza, seguendo la traccia delle voci fino alle scale. Scesi qualchegradino, appiattendomi contro il muro.

—Mi dispiace molto per i suoi uomini, ispettore— sentii dire a Vidal. —Stiacerto che se David si mette in contatto con me, o se vengo a sapere dove sinasconde, glielo comunicherò immediatamente.—

—La ringrazio per la collaborazione, signor Vidal. Mi spiace doverla di-sturbare in queste circostanze, ma la situazione è di straordinaria gravità.—

—Me ne rendo conto. Grazie per la visita.—Passi verso l'ingresso e il rumore della porta. Passi in giardino che si

allontanavano. Il respiro di Vidal, pesante, ai piedi delle scale. Scesi qualche altrogradino e lo trovai con la fronte appoggiata alla porta. Quando mi sentì, aprì gliocchi e si voltò.

Non disse nulla. Si limitò a guardare il revolver che impugnavo. Lo lasciai sultavolino in fondo alle scale.

—Vieni, vediamo se troviamo qualche vestito pulito per te— disse.Lo seguii fino a un immenso guardaroba che sembrava un vero e proprio

museo degli indumenti. Tutti gli abiti eleganti che ricordavo dagli anni di gloria diVidal erano lì. Decine di cravatte, scarpe e gemelli in astucci di velluto rosso.

—Tutte cose di quando ero giovane. Ti andranno bene.—Vidal scelse per me. Mi tese una camicia che probabilmente valeva quanto un

piccolo appezzamento di terreno, un completo con gilet fatto su misura a Londrae scarpe italiane che non avrebbero sfigurato nel guardaroba del mio principale.Mi vestii in silenzio mentre Vidal mi osservava pensieroso.

—Un po' largo di spalle, ma dovrai accontentarti— disse, passandomi duegemelli di zaffiri.

—Cosa le ha raccontato l'ispettore?——Tutto.——E lei gli ha creduto?——Cosa importa quello che credo io?—

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—Importa a me.—Vidal si sedette su una panca sistemata contro una parete ricoperta di specchi

dal pavimento al soffitto.—Dice che tu sai dov'è Cristina— disse.Annuii.—È viva?—Lo guardai negli occhi e, molto lentamente, annuii. Vidal sorrise debolmente,

schivando il mio sguardo. Poi si mise a piangere, lasciandosi sfuggire un gemitoche gli sgorgava dal profondo. Mi sedetti accanto a lui e lo abbracciai.

—Mi perdoni, don Fedro, mi perdoni… —Più tardi, quando il sole iniziava a declinare sull'orizzonte, don Pedro raccolse

i miei vecchi vestiti e li buttò nel fuoco. Prima di consegnare il cappotto allefiamme tirò fuori la copia dei Passi del cielo e me la diede.

—Dei due libri che hai scritto l'anno scorso, questo è quello buono— disse.Lo osservai smuovere i miei vestiti che bruciavano nel camino.—Quando se n'è accorto?—Vidal si strinse nelle spalle.—È difficile ingannare qualcuno per sempre, David; perfino uno stupido

vanitoso.—Non riuscii a capire se nella sua voce ci fosse rancore o soltanto tristezza.—L'ho fatto perché credevo di aiutarla, don Pedro.——Lo so.—Mi sorrise senza acredine.—Mi perdoni— mormorai.—Devi andartene dalla città. C'è una nave da carico ancorata al molo di San

Sebastián che salpa a mezzanotte. È tutto organizzato. Chiedi del capitano Olmo.Ti aspetta. Prendi una delle auto dal garage. Puoi lasciarla al molo. Pep l'andrà ariprendere domani. Non parlare con nessuno. Non tornare a casa tua. Avraibisogno di denaro.—

—Ne ho abbastanza— mentii.—Non è mai abbastanza. Quando sbarchi a Marsiglia, Olmo ti accompagnerà

in banca e ti consegnerà cinquantamila franchi.——Don Pedro… ——Ascoltami. Quei due uomini che secondo Grandes hai ammazzato… ——Marcos e Castelo. Credo che lavorassero per suo padre, don Pedro.—Vidal scosse la testa.—Né mio padre né i suoi avvocati trattano con i gradi intermedi, David.Come credi che sapessero dove trovarti trenta minuti dopo essere uscito dal

commissariato?—La fredda certezza mi cadde addosso, trasparente.—Grazie al mio amico, l'ispettore Víctor Grandes.—

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Vidal annuì.—Grandes ti ha lasciato andare perché non voleva sporcarsi le mani al

commissariato. Appena sei uscito, i suoi due uomini erano sulle tue tracce.La tua era una morte telegrafata. Sospetto omicida fugge e muore mentre

cerca di sfuggire all'arresto.——Come ai vecchi tempi in cronaca— disse.—Certe cose non cambiano mai, David. Tu dovresti saperlo meglio di

chiunque altro.—Aprì l'armadio e mi allungò un cappotto nuovo, mai indossato. Lo accettai e

misi il libro nella tasca interna. Vidal mi sorrise.—Per una volta nella vita ti vedo ben vestito.——A lei stava meglio, don Pedro.——Questo è scontato.——Don Pedro, ci sono molte cose che… ——Adesso non hanno più importanza, David. Non mi devi nessuna spiegazione.

——Le devo molto di più di una spiegazione… ——Allora parlami di lei.—Vidal mi guardava con occhi disperati, supplicando che gli mentissi. Ci

sedemmo in salotto, di fronte ai finestroni da cui si dominava tutta Barcellona, egli mentii con tutto il cuore. Gli dissi che Cristina aveva affittato un piccolo atticoin rue de Soufflot sotto il nome di madame Vidal e che mi aveva promesso diaspettarmi ogni giorno a metà pomeriggio davanti alla fontana dei Jardins duLuxembourg. Gli dissi che parlava sempre di lui, che non l'avrebbe maidimenticato, e che io sapevo che, anche se avessi passato molti anni al suo fianco,non sarei mai riuscito a colmare il vuoto lasciato da lui. Don Pedro annuiva, losguardo perso lontano.

—Devi promettermi che avrai cura di lei, David. Che non l'abbandoneraimai. Qualunque cosa succeda, le starai accanto.—

—Glielo prometto, don Pedro.—Nella luce pallida del tramonto riuscii a vedere in lui solo un uomo vecchio e

sconfitto, malato di ricordi e di rimorsi, un uomo che non aveva mai creduto e alquale adesso restava soltanto il balsamo della credulità.

—Mi sarebbe piaciuto essere un amico migliore per te, David.——Lei è stato il migliore degli amici, don Pedro. E molto più di questo.—Vidal allungò il braccio e mi prese la mano. Stava tremando.—Grandes mi ha parlato di quell'uomo, quello che chiami il tuo principale…

Dice che gli devi qualcosa e che secondo te l'unico modo per pagare il tuo debitoè consegnargli un'anima pura… —

—Sono stupidaggini, don Pedro. Non ci faccia caso.——Non ti serve un'anima sporca e stanca come la mia?—

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—Non conosco davvero un'anima più pura della sua, don Pedro.—Vidal sorrise.—Se potessi fare cambio con tuo padre, non ci penserei, David.——Lo so.—Si alzò e contemplò il tramonto che precipitava sulla città.—Dovresti metterti in marcia— disse. —Va' in garage e prendi una

macchina. Quella che vuoi. Io vado a vedere se ho denaro in contanti.—Annuii e presi il cappotto. Uscii in giardino e mi diressi verso il garage di Villa

Helius. C'erano due automobili lustre come carrozze reali. Scelsi la più piccola ediscreta, una Hispano-Suiza nera che sembrava non essere uscita da lì più di dueo tre volte e odorava ancora di nuovo. Mi sedetti al volante e misi in moto. Usciidal garage e aspettai in cortile. Passò un minuto e, vedendo che don Pedro nonusciva, scesi dalla macchina lasciando il motore acceso. Rientrai in casa persalutarlo e dirgli di non preoccuparsi per i soldi, me la sarei cavata. Attraversandol'ingresso ricordai di aver lasciato lì il revolver, sul tavolino accanto alle scale.Quando andai a ripren-derlo, non c'era più.

—Don Pedro?—La porta che dava in salotto era socchiusa. Mi affacciai sulla soglia e lo vidi al

centro della stanza. Si portò al petto la pistola di mio padre e puntò la canna sulcuore. Corsi verso di lui ma il frastuono dello sparo coprì le mie urla. L'arma glicadde di mano. Il corpo s'inclinò verso il muro e scivolò lentamente sulpavimento lasciando una scia scarlatta sul marmo.

Caddi in ginocchio accanto a lui e lo sostenni tra le braccia. Lo sparo gli avevaaperto nel vestito un foro fumante, dal quale sgorgava a fiotti sangue scuro edenso. Don Pedro mi guardava fisso negli occhi mentre il suo sorriso si riempivadi sangue e il suo corpo smetteva di tremare e cadeva a terra in un odore dipolvere da sparo e di miseria.

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23

Tornai in macchina e mi sedetti, con le mani insanguinate sul volante. A stentoriuscivo a respirare. Aspettai un minuto e poi abbassai la leva del freno. Iltramonto aveva coperto il cielo con un sudario rosso, sotto il quale palpitavano leluci della città. Partii e mi lasciai alle spalle il profilo di Villa Helius in cima allacollina. Arrivato in avenida Pearson, mi fermai e guardai nello specchiettoretrovisore. Un'auto svoltò da un vicolo nascosto e si piazzò a una cinquantina dimetri da me. Non aveva acceso i fari. Víctor Grandes.

Proseguii giù per l'avenida de Pedralbes fino a superare il grande drago diferro battuto che sorvegliava il porticato della Finca Güell. L'auto dell'ispettoreGrandes era ancora lì, a un centinaio di metri. Arrivato sulla Diagonal, girai asinistra verso il centro. Circolavano pochissimi veicoli e Grandes mi seguì senzadifficoltà finché non decisi di svoltare a destra con la speranza di seminarlo nellestradine strette delle Corts. A quel punto l'ispettore si era accorto che la suapresenza non era un segreto e aveva acceso i fari, accorciando le distanze. Perventi minuti schivammo un intreccio di strade e di tram. M'infilai tra omnibus ecarri, per ritrovarmi sempre i fa-ri di Grandes alle calcagna, senza tregua. Dopoun po', mi s'innalzò davanti la collina del Montjuïc. Il grande palazzodell'Esposizione universale e i resti degli altri padiglioni erano stati chiusi appenadue settimane prima, ma già si profilavano nella bruma del crepuscolo come lerovine di una grande civiltà dimenticata. Imboccai l'ampio viale che saliva finoalla ca-scata di luci fantasma e fuochi fatui delle fontane dell'Esposizione eaccelerai fin dove ce la faceva il motore. Via via che salivamo lungo la stradache fiancheggiava la collina e serpeggiava fino allo Stadio Olimpico, Grandesguadagnava terreno, finché riuscii a distinguere chiaramente il suo viso nellospecchietto. Per un istante fui tentato di prendere la strada che saliva fino alcastello militare in cima all'altura, ma se c'era un posto senza via d'uscita eraproprio quello. La mia unica speranza era raggiungere l'altro versante dellacollina che guardava verso il mare e sparire in qualcuno dei moli del porto. Perfarlo, avevo bisogno di guadagnare un po'

di tempo. Grandes adesso era a una quindicina di metri. Le enormibalaustrate di Miramar ci si aprivano davanti con la città stesa ai nostri piedi. Tiraicon tutte le forze la leva del freno e lasciai che Grandes sbattesse control'Hispano-Suiza. L'impatto ci trascinò entrambi per una ventina di metri,sollevando una ghirlanda di scintille sulla strada. Mollai il freno e avanzai un po'.Mentre Grandes cercava di recuperare il controllo, misi la retro-marcia eaccelerai a fondo. Quando lui si rese conto di quello che stavo facendo, eratroppo tardi. Lo investii con la forza di una carrozzeria e di un motore, gentileconcessione della scuderia più prestigiosa della città, note-volmente più robusti diquelli che proteggevano lui. L'impatto lo fece sus-sultare all'interno dell'abitacolo

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e vidi la sua testa colpire il parabrezza, fa-cendolo crepare completamente. Unfumo bianco uscì dalla capote della sua macchina e i fari si spensero. Innestai lamarcia e accelerai, lasciandolo indietro e dirigendomi verso il belvedere diMiramar. Dopo pochi secondi mi accorsi che l'urto aveva schiacciato ilparafango posteriore contro la ruota, che adesso girava soffrendo l'attrito con ilmetallo. L'odore di gom-ma bruciata invase l'abitacolo. Venti metri più avanti lopneumatico scoppiò e l'auto iniziò a serpeggiare fino a fermarsi, avvolta in unanuvola di fumo nero. L'abbandonai e rivolsi lo sguardo verso il punto in cui erarimasta quella di Grandes. L'ispettore si trascinava fuori dall'abitacolo, rad-drizzandosi lentamente. Mi guardai intorno. La fermata della funivia cheattraversava il porto cittadino dalla collina del Montjuïc alla torre di San Sebastiánera a una cinquantina di metri da lì. Intravidi il profilo delle cabine sospese ai caviche scivolavano sullo sfondo scarlatto del crepuscolo e mi misi a correre in quelladirezione.

Uno degli addetti della funivia si stava preparando a chiudere le portedell'edificio quando mi vide arrivare trafelato. Mi tenne la porta aperta e indicòl'interno.

—È l'ultima corsa per oggi— avvertì. —Meglio che si sbrighi.—La biglietteria stava per chiudere quando acquistai l'ultimo biglietto della

giornata e mi affrettai a unirmi a un gruppo di quattro persone che aspettavanofuori della cabina. Non notai i loro abiti fin quando l'addetto non aprì la porta e liinvitò a entrare. Sacerdoti.

—La funivia è stata realizzata per l'Esposizione Universale ed è dotata dei piùavanzati ritrovati della tecnica. La sua sicurezza è garantita in ogni momento.Appena inizierà il percorso, questa porta di sicurezza, che può essere aperta solodall'esterno, verrà bloccata per evitare incidenti o, Dio non voglia, tentativi disuicidio. È chiaro che con voi, eminenze, non c'è pericolo di… —

—Giovanotto— lo interruppi. —Non può sveltire il cerimoniale, che qui si fanotte?—

L'addetto mi rivolse uno sguardo ostile. Uno dei sacerdoti notò le macchie disangue sulle mie mani e si fece il segno della croce. L'addetto proseguì la suatiritera.

—Viaggerete nel cielo di Barcellona a una settantina di metri d'altezza al disopra delle acque del porto, godendo del panorama più spettacolare di tutta lacittà, finora riservato a rondini, gabbiani e altre creature dotate di piumaggiodall'Altissimo. Il viaggio ha una durata di dieci minuti e fa due fermate, la primaalla torre centrale del porto o, come a me piace chiamarla, la torre Eiffel diBarcellona, o torre di San Jaime, e la seconda e ultima alla torre di San Sebastián.Senza ulteriori indugi, auguro alle vostre eminenze una buona traversata e virinnovo il desiderio della compagnia di ri-vedervi a bordo della funivia del portodi Barcellona in una prossima occasione.—

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Fui il primo a salire in cabina. L'addetto allungò la mano al passaggio deiquattro sacerdoti nella speranza di una mancia che non arrivò mai. Con visibiledelusione sbatté la porta e si voltò, pronto ad abbassare la leva. L'ispettore VíctorGrandes lo aspettava dall'altra parte, malconcio ma sorridente, con la sua tesseradella polizia in mano. L'addetto gli aprì e Grandes entrò in cabina salutando conun cenno del capo i sacerdoti e strizzandomi un occhio. Qualche secondo piùtardi, stavamo fluttuando nel vuoto.

La cabina si sollevò dal terminal verso il bordo della collina. I sacerdoti sierano ammucchiati tutti su un lato, chiaramente pronti a godersi il panorama deltramonto su Barcellona e a ignorare, qualunque essa fosse, la torbida questioneche aveva riunito me e Grandes in quella cabina. L'ispettore si avvicinòlentamente e mi mostrò l'arma che impugnava. Grandi nuvole rossastrefluttuavano sulle acque del porto. La cabina della funivia sprofondò in una di essee per un istante sembrò che ci fossimo immersi in un lago di fuoco.

—Ci era già salito qualche volta?— domandò Grandes.Annuii.—A mia figlia piace da matti. Una volta al mese mi chiede di fare il viaggio

andata e ritorno. Un po' caro, ma vale la pena.——Con quello che le paga il vecchio Vidal per vendermi di sicuro potrà

portarci sua figlia tutti i giorni, se le va. Pura curiosità. Qual è il mio prezzo?—Grandes sorrise. La cabina emerse dalla grande nube scarlatta e rimanemmo

sospesi sulla darsena del porto, mentre le luci della città si sparge-vano sulleacque scure.

—Quindicimila pesetas— rispose battendo con la palma della mano una bustabianca che gli spuntava dalla tasca del cappotto.

—Immagino che dovrei sentirmi lusingato. C'è chi ammazza per quattro soldi.E quel prezzo include anche il tradimento dei suoi due uomini?—

—Le ricordo che qui l'unico ad avere ammazzato qualcuno è lei.—A quel punto i quattro sacerdoti ci osservavano attoniti e costernati, in-

differenti al fascino della vertigine e del volo sulla città. Grandes li guardòappena.

—Quando arriviamo alla prima fermata, se non è troppo disturbo, chiede-reialle vostre eminenze di scendere e di lasciarci discutere dei nostri affari mondani.—

La torre della darsena si innalzava di fronte a noi come una cupola di acciaioe cavi strappata da una cattedrale meccanica. La cabina penetrò sotto la voltadella torre e si fermò sulla piattaforma. Quando la porta si aprì, i quattro sacerdotiuscirono in fretta e furia. Grandes, pistola in pugno, mi fece cenno di andare infondo alla cabina. Uno dei preti, mentre scendeva, mi guardò preoccupato.

—Stia tranquillo, giovanotto, avviseremo la polizia— disse prima che la portasi richiudesse.

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—Mi raccomando— replicò Grandes.Una volta che la porta fu bloccata, la cabina riprese il tragitto. Uscimmo dalla

torre della darsena e iniziammo l'ultimo tratto della traversata. Grandes siavvicinò al finestrino e contemplò il panorama della città, un miraggio di luci ebrume, cattedrali e palazzi, vicoli e grandi viali intessuti in un labirinto di ombre.

—La città dei maledetti— disse Grandes. —Più da lontano la si osserva, piùbella sembra.—

—È il mio epitaffio?——Non l'ucciderò, Martín. Io non ammazzo la gente. Me lo farà lei il favore. A

me e a se stesso. Sa che ho ragione.—Detto fatto, l'ispettore scaricò tre pallottole sul meccanismo di chiusura della

porta e l'aprì con un calcio. Lo sportello rimase a penzolare nel vuoto, mentre unaraffica di vento umido invadeva la cabina.

—Non sentirà nulla, Martín. Mi creda. L'impatto non dura nemmeno undecimo di secondo. Istantaneo. E poi, la pace.—

Guardai la porta aperta. Davanti a me, una caduta di settanta metri nel vuoto.Guardai verso la torre di San Sebastián e calcolai che ci volevano ancora alcuniminuti per arrivarci. Grandes mi lesse nel pensiero.

—Tra pochi minuti sarà tutto finito, Martín. Dovrebbe essermene grato.——Davvero crede che io abbia ucciso tutte quelle persone, ispettore?—Grandes sollevò il revolver e mirò al cuore.—Non lo so e non m'importa.——Credevo che fossimo amici.—Grandes sorrise e scosse la testa.—Lei non ha amici, Martín.—Sentii il frastuono dello sparo e un impatto al petto, come se un martello

pneumatico mi avesse colpito nelle costole. Caddi di spalle, senza fiato, mentreuno spasmo di dolore mi bruciava per tutto il corpo come benzina.

Grandes mi aveva afferrato per i piedi e mi tirava verso la porta. La cimadella torre di San Sebastián comparve tra veli di nubi. Grandes mi passò sopra e siaccovacciò dietro di me. Mi spintonò alle spalle verso la porta.

Sentii il vento umido sulle gambe. Grandes mi diede un altro spintone e notaiche il mio bacino fuoriusciva dalla piattaforma della cabina. Il risuc-chio dellagravità fu istantaneo. Stavo iniziando a cadere.

Allungai le braccia verso l'ispettore e gli conficcai le dita nel collo. Za-vorratodal peso del mio corpo, Grandes restò incastrato nel vano della porta. Strinsi contutte le mie forze, premendogli sulla trachea e schiac-ciandogli le arterie delcollo. Cercò di dimenarsi per liberarsi dalla mia presa con una mano mentre conl'altra brancolava in cerca della sua arma.

Le sue dita trovarono la culatta della pistola e scivolarono verso il grilletto.Lo sparo mi sfiorò la tempia e colpì il bordo della porta. La pallottola rim-

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balzò verso l'interno della cabina e gli attraversò in maniera netta la palma dellamano. Gli affondai le unghie nel collo, sentendo che la pelle cedeva.

Grandes emise un gemito. Tirai forte e mi arrampicai di nuovo fino a restarecon più di metà corpo dentro la cabina. Una volta che riuscii ad affer-rarmi allepareti di metallo, mollai Grandes e mi spostai di lato.

Mi palpai il petto e trovai il foro lasciato dal proiettile dell'ispettore. Misbottonai il cappotto e tirai fuori la copia dei Passi del cielo. La pallottola avevaattraversato la copertina, le quasi quattrocento pagine e sbucava co-me la puntadi un dito d'argento dalla quarta di copertina. Accanto a me, Grandes sicontorceva a terra, tenendosi disperatamente il collo. Il suo viso era livido e levene della fronte e delle tempie gli pulsavano come cavi tesi.

Mi rivolse uno sguardo di supplica. Una ragnatela di capillari rotti sidiffondeva nei suoi occhi e capii di avergli schiacciato la trachea con le mani eche stava soffocando senza rimedio.

L'osservai agitarsi a terra nella sua lenta agonia. Tirai per il bordo la bustabianca che gli spuntava dal taschino. La aprii e contai quindicimila pesetas. Ilprezzo della mia vita. Mi misi la busta in tasca. Grandes si trascinava a terra versol'arma. Mi alzai e l'allontanai con un calcio. L'ispettore mi afferrò la cavigliaimplorando misericordia.

—Dov'è Marlasca?— chiesi.La sua gola emise un gemito sordo. Posai lo sguardo sui suoi occhi e capii che

stava ridendo. La cabina era ormai entrata nella torre di San Sebastián quando lospinsi fuori dalla porta e lo vidi precipitare per quasi ottan-ta metri attraverso unlabirinto di cavi, leve, ruote dentate e sbarre d'acciaio che lo fecero a pezzi lungola caduta.

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24

La casa della torre era sepolta nell'oscurità. Salii a tentoni i gradini della scalinatadi pietra fino al pianerottolo e trovai la porta socchiusa. La spinsi con la mano erimasi sulla soglia, scrutando le ombre che invadevano il lungo corridoio. Avanzaidi qualche passo. Restai lì, immobile, in attesa.

Tastai la parete fino a trovare l'interruttore della luce. Lo feci girare quattrovolte senza nessun risultato. La prima porta sulla destra portava in cucina.

Percorsi lentamente i tre metri che me ne separavano e mi ci fermai propriodavanti. Ricordai che tenevo una lampada a olio in una delle credenze.

La trovai tra barattoli di caffè ancora da aprire provenienti dall'emporio diCan Gispert. Appoggiai la lampada sul tavolo di cucina e l'accesi. Una tenue luceambrata impregnò le pareti. Presi la lampada e uscii di nuovo in corridoio.

Avanzai lentamente, la luce che sfarfallava in alto, aspettandomi di vederequalcosa o qualcuno uscire da un momento all'altro da una delle porte chefiancheggiavano il corridoio. Sapevo di non essere solo. Lo fiutavo.

Un fetore acre, di rabbia e di odio, aleggiava nell'aria. Raggiunsi la fine delcorridoio e mi fermai davanti alla porta dell'ultima stanza. Il chiarore dellalampada accarezzò il contorno dell'armadio scostato dal muro, i vestiti gettati aterra esattamente come li avevo lasciati quando Grandes era venuto adarrestarmi due sere prima. Proseguii fino ai piedi della scala che conduceva allostudio. Salii lentamente, guardandomi alle spalle ogni due o tre passi, finchéarrivai nella stanza. Il respiro rossastro del crepuscolo penetrava dai finestroni.Andai in fretta verso il muro dove si trovava il baule e lo aprii. La cartellina con ilmanoscritto per il principale era sparita.

Tornai verso le scale. Passando davanti alla mia scrivania vidi che la tastieradella vecchia macchina per scrivere era sfasciata, come se qualcuno l'avessepresa a pugni. Scesi lentamente le scale. Imboccando di nuovo il corridoio, miaffacciai all'ingresso del salotto. Perfino nella penombra riuscii a vedere tutti imiei libri gettati a terra e la pelle delle poltrone ridotta a brandelli. Mi voltai edesaminai i venti metri di corridoio che mi separavano dalla porta. Il chiaroredella lampada mi permetteva di scorgere i contorni solo fino alla metà di quelladistanza. Più in là, le ombre si agitavano come acque scure.

Ricordavo di aver lasciato aperta la porta di casa quando ero entrato.Adesso era chiusa. Avanzai un paio di metri, ma qualcosa mi fermò mentre

ripassavo davanti all'ultima stanza del corridoio. Entrando non l'avevo no-tataperché la porta si apriva verso sinistra e passandoci davanti non mi eroaffacciato, ma adesso, avvicinandomi, la vidi chiaramente. Una colomba biancacon le ali spiegate a croce era inchiodata sulla porta. Le gocce di sanguecolavano sul legno, ancora fresche.

Entrai. Guardai dietro la porta, ma non c'era nessuno. L'armadio era ancora

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scostato di lato. La corrente fredda e umida che usciva dal foro nel muroinvadeva la stanza. Lasciai la lampada sul pavimento e appoggiai le mani sullostucco ammorbidito che circondava il buco. Iniziai a grattare con le unghie esentii che mi si sgretolava tra le dita. Cercai lì intorno e trovai un vecchiotagliacarte nel cassetto di uno dei tavolini ammucchiati nell'angolo. Infilai la lamanello stucco e cominciai a scavare. Il gesso si staccava con facilità. Lo strato nonera spesso più di tre centimetri. In fondo c'era del legno.

Una porta.Ne cercai i bordi con il tagliacarte e a poco a poco il contorno della porta si

disegnò sul muro. A quel punto avevo già dimenticato la presenza in-combenteche avvelenava la casa e restava in agguato nell'ombra. La porta non avevamaniglia, solo una serratura arrugginita che era rimasta sepolta nel gessorammollito da anni di umidità. Vi affondai la lama e cercai invano di forzarla.Cominciai a prenderla a calci finché lo stucco che sosteneva la serratura sisbriciolò lentamente. Finii di liberare il meccanismo con il tagliacarte e, subitodopo, un semplice spintone buttò giù la porta.

Una ventata di aria putrefatta esalò dall'interno, impregnandomi i vestiti e lapelle. Presi la lampada ed entrai. La stanza era un rettangolo di cinque o sei metridi profondità. I muri erano ricoperti da disegni e iscrizioni che sembravano fatticon le dita. Il tratto era di color marrone scuro. Sangue secco. Il pavimento eracosparso di ciò che all'inizio scambiai per polvere, ma quando abbassai lalampada si rivelarono frammenti di ossicini. Ossa di animali, spezzate in unamarea di cenere. Dal soffitto pendevano innumerevoli oggetti legati a cordicellenere. Riconobbi statuette religiose, immaginette di santi e madonne con il voltobruciato e gli occhi strappati via, crocifissi avvolti nel filo spinato e resti digiocattoli di latta e bambole dagli occhi di vetro. La figura era sul fondo, quasiinvisibile.

Una sedia rivolta verso l'angolo, sulla quale si distingueva un profilo.Vestiva di nero. Un uomo. Le mani erano ammanettate dietro la schiena.Uno spesso fil di ferro stringeva le sue membra alla sedia. Mi invase un

freddo come non l'avevo mai provato fino a quel momento.—Salvador?— riuscii ad articolare.Avanzai lentamente verso di lui. La figura rimase immobile. Mi fermai a un

passo da lei e allungai piano la mano. Le mie dita gli sfiorarono i capelli e siposarono sulla spalla. Cercai di far girare il corpo, ma sentii che qualcosa cedevasotto le dita. Un secondo dopo averlo toccato mi sembrò di sentire un sussurro e ilcadavere si dissolse in cenere, che si sparse tra i vestiti e i legacci di fil di ferroper poi innalzarsi in una nuvola di tenebre che restò a fluttuare fra i muri di quellaprigione che l'aveva nascosto per anni. Contemplai il velo di cenere sulle miemani e me le portai alla faccia, spargendomi sulla pelle i resti dell'anima diRicardo Salvador. Quando aprii gli occhi, vidi che Diego Marlasca, il suo

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carceriere, aspettava sulla soglia della cella con il manoscritto per il principale inmano e il fuoco negli occhi.

—L'ho letto mentre l'aspettavo, Martín— disse. —Un capolavoro. Ilprincipale saprà ricompensarmi quando glielo consegnerò a nome suo. Riconoscodi non essere stato capace di risolvere l'enigma. Mi sono fermato lungo la strada.Sono contento di vedere che il principale ha saputo trovare un successore con piùtalento di me.—

—Si sposti.——Mi dispiace, Martín. Creda, mi dispiace. Cominciavo a stimarla— disse

estraendo dalla tasca quello che sembrava un manico d'avorio. —Ma non possolasciarla uscire da questa stanza. È ora che lei prenda il posto del povero Salvador.—

Premette un bottone sul manico e una lama a doppio filo brillò nellapenombra.

Si scagliò su di me con un urlo di rabbia. La lama del coltello mi squarciò laguancia e mi avrebbe strappato l'occhio sinistro se non mi fossi spo-stato di lato.Caddi di spalle sul pavimento ricoperto di piccole ossa e di polvere. Marlascaafferrò il coltello con entrambe le mani e si lasciò cadere su di me, appoggiandotutto il suo peso sulla lama. La punta si fermò a un paio di centimetri dal miopetto, mentre con la mano destra stringevo Marlasca alla gola.

Girò la faccia per mordermi il polso e gli sferrai un pugno sul viso con lasinistra. Quasi non fece una piega. Lo muoveva una rabbia al di là della ragione edel dolore, e capii che non mi avrebbe lasciato uscire vivo da quella cella. Siscagliò su di me con una forza incredibile. Sentii la punta del coltello che miperforava la pelle. Lo colpii di nuovo con tutte le mie forze. Il mio pugno sischiantò sul suo volto e sentii rompersi il setto nasa-le. Il suo sangue m'impregnòle nocche della mano. Marlasca urlò ancora, indifferente al dolore, e mi affondòla lama di un centimetro nella carne.

Una fitta di dolore mi percorse il petto. Lo colpii un'altra volta, cercandogli leorbite degli occhi con le dita, ma lui sollevò il mento e riuscii a confic-cargli leunghie soltanto nella guancia. Stavolta sentii i suoi denti sulle di-ta.

Gli affondai il pugno nella bocca, rompendogli le labbra e strappandoglidiversi denti. Lo sentii urlare e il suo impeto si affievolì per un istante. Lo spinsi dilato e cadde a terra, il volto ridotto a una maschera di sangue tremante di dolore.Mi scostai da lui, pregando che non si rialzasse. Un secondo dopo si trascinò versoil coltello e cominciò a sollevarsi.

Lo afferrò e si gettò su di me con un urlo assordante. Stavolta non mi colse disorpresa. Riuscii ad afferrare il manico della lampada e gliela sca-gliai controcon tutte le mie forze. La lampada si schiantò sulla sua faccia e l'olio gli sirovesciò sugli occhi, le labbra, la gola e il petto. Prese fuoco all'istante. In un paiodi secondi le fiamme stesero un manto che ricoprì tutto il suo corpo. I capelli

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svaporarono in un attimo. Vidi il suo sguardo d'odio attraverso le fiamme che glidivoravano le palpebre. Presi il manoscritto e uscii. Marlasca impugnava ancorail coltello quando cercò di seguirmi fuori da quella stanza maledetta e caddebocconi sul mucchio di vestiti vecchi, che presero subito fuoco. Le fiammeraggiunsero il legno stagionato dell'armadio e i mobili accatastati contro il muro.Fuggii verso il corridoio e lo vidi avanzare ancora alle mie spalle con le bracciatese, che cercava di raggiungermi. Mi portai di corsa verso la porta, ma prima diuscire mi fermai a osservare Diego Marlasca che si consumava tra le fiammecolpendo rabbiosamente le pareti che s'incendiavano quando le toccava. Il fuocosi propagò tra i libri sparpagliati in salotto e raggiunse le tende.

Le fiamme si sparsero in serpenti di fuoco sul soffitto, lambendo le cornici diporte e finestre, strisciando per le scale dello studio. L'ultima immagine chericordo è quella di quell'uomo maledetto che cadeva ginocchioni alla fine delcorridoio, perdute ormai le vane speranze della sua follia e il corpo ridotto a unatorcia di carne e di odio che fu inghiottita dalla tormenta di fiamme che sipropagava senza rimedio per la casa della torre. Poi aprii la porta e corsi giù perle scale.

Alcuni abitanti del quartiere si erano riuniti in strada quando avevano visto leprime fiamme spuntare dalle finestre. Nessuno fece caso a me mentre miallontanavo giù per il vicolo. Dopo un po' sentii esplodere i vetri dello studio e mivoltai per vedere il fuoco ruggire e abbracciare la rosa dei venti a forma didrago. Qualche secondo dopo mi allontanai verso il paseo del Born camminandoin senso contrario a una marea di persone che accor-revano guardando in alto, gliocchi catturati dallo sfavillio del falò che s'innalzava nel cielo nero.

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25

Quella notte tornai per l'ultima volta alla libreria di Sempere e Figli. Alla portaera appeso un cartello con la scritta « Chiuso» , ma quando mi avvicinai vidi chec'era ancora luce all'interno e che Isabella era dietro al bancone, sola, lo sguardoassorto in un grosso libro contabile che, a giudicare dall'espressione del suo viso,prometteva la fine dei giorni dell'antica libreria. Vedendola mordicchiare lamatita e grattarsi la punta del naso con l'indice, seppi che finché ci fosse stata leiquel posto non sarebbe mai scomparso. La sua presenza l'avrebbe salvato, comeaveva fatto con me. Non osai rovinare quell'istante e rimasi a guardarla senzache lei mi notasse, sorridendo tra me. All'improvviso, come se mi avesse letto neipensieri, al-zò gli occhi e mi vide. La salutai con la mano e notai che, suomalgrado, gli occhi le si riempivano di lacrime. Chiuse il libro e uscì di corsa dadietro il bancone per aprirmi la porta. Mi guardava come se non riuscisse acredere che fossi lì.

—Quell'uomo mi ha detto che lei era fuggito… Che non l'avremmo mai piùrivista.—

Immaginai che Grandes le avesse fatto una visita.—Voglio che sappia che non ho creduto a una sola parola di quello che mi ha

raccontato— disse Isabella. —Mi faccia avvertire… ——Non ho molto tempo, Isabella.—Mi guardò, abbattuta.—Se ne va, vero?—Annuii. Isabella deglutì.—Le ho già detto che non mi piacciono gli addii.——A me ancora meno. Per questo non sono venuto a dirti addio. Sono venuto a

restituire un paio di cose che non mi appartengono.—Tirai fuori la copia dei Passi del cielo e gliela diedi.—Questa non sarebbe mai dovuta uscire dalla vetrina con la collezione

privata del signor Sempere.—Isabella la prese e, vedendo la pallottola ancora imprigionata fra le pagine, mi

guardò senza dire nulla. Allora tirai fuori la busta bianca con le quindicimilapesetas con cui il vecchio Vidal aveva tentato di comprare la mia morte e lalasciai sul bancone.

—E questa è per tutti i libri che Sempere mi ha regalato in questi anni.—Isabella l'aprì e contò il denaro, attonita.—Non so se posso accettarlo… ——Consideralo il mio regalo di nozze, in anticipo.——E io che avevo ancora speranze che un giorno lei mi portasse all'altare,

anche se solo come padrino.——Niente mi avrebbe fatto più piacere.—

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—Ma deve andarsene.——Sì.——Per sempre.——Per un po' di tempo.——E se vengo con lei?—La baciai sulla fronte e l'abbracciai.—Dovunque vada, tu sarai sempre con me, Isabella. Sempre.——Non penso di sentire la sua mancanza.——Lo so.——Posso almeno accompagnarla al treno o a quello che è?—Esitai troppo a lungo per rifiutare quegli ultimi minuti in sua compagnia.—Per essere sicura che se ne va davvero e che mi sono liberata di lei per

sempre— aggiunse.—Affare fatto.—Scendemmo lentamente per le Ramblas, con Isabella che mi teneva il

braccio. Arrivati in calle del Arc del Teatre, imboccammo il vicolo scuro che sifaceva strada attraverso il Raval.

—Isabella, quello che vedrai stanotte non potrai raccontarlo a nessuno.——Nemmeno al mio Sempere junior?—Sospirai.—Certo che sì. A lui puoi raccontare tutto. Con lui non abbiamo quasi segreti.

—Aprendo la porta, Isaac, il guardiano, ci sorrise e si tirò da parte.—Era ora che avessimo una visita importante— disse, facendo una riverenza

a Isabella. —Immagino che preferisca fare lei da guida, Martín.——Se non le spiace.—Isaac annuì e mi tese la mano. Gliela strinsi.—Buona fortuna— disse.Il guardiano si ritirò nell'ombra, lasciandomi solo con Isabella. La mia ex

assistente e fiammante nuova direttrice di Sempere e Figli osservava tutto conuna mescola di meraviglia e apprensione.

—Che specie di posto è questo?— domandò.La presi per mano e lentamente la guidai per il resto del tragitto fino ad

arrivare alla grande sala che ospitava l'ingresso.—Benvenuta al Cimitero dei Libri Dimenticati, Isabella.—Isabella alzò lo sguardo verso la cupola di vetro e si perse in quella visione

impossibile di fasci di luce bianca che tempestavano una babele di tunnel,passerelle e ponti tesi verso le viscere di quella cattedrale fatta di libri.

—Questo posto è un mistero. Un santuario. Ogni libro, ogni volume che vedi,ha un'anima. L'anima di chi lo ha scritto e di quelli che lo hanno letto e vissuto esognato. Ogni volta che un libro cambia di mano, ogni volta che qualcuno fa

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scorrere lo sguardo sulle sue pagine, il suo spirito cresce e si rafforza. In questoposto i libri che nessuno più ricorda, i libri che si so-no perduti nel tempo, vivonoper sempre, in attesa di arrivare tra le mani di un nuovo lettore, di un nuovospirito… —

Più tardi lasciai Isabella ad aspettare all'ingresso del labirinto e mi addentraida solo nelle gallerie con in mano quel manoscritto maledetto che non avevoavuto il coraggio di distruggere. Sperai che i miei passi mi guidassero a trovare ilposto in cui dovevo seppellirlo per sempre. Svoltai a mille angoli fino a credere diessermi perso. Poi, quando ebbi la certezza di aver già fatto quello stesso percorsodieci volte, capitai all'ingresso della stanzetta dove mi ero ritrovato di fronte almio stesso riflesso, in quel piccolo specchio in cui lo sguardo dell'uomo vestito dinero era sempre presente. Avvistai un vuoto tra due dorsi di cuoio nero e, senzapensarci, ci infilai la cartellina del principale. Stavo per andarmene quando mivoltai e mi avvicinai di nuovo allo scaffale. Presi il volume accanto al qualeavevo confinato il manoscritto e lo aprii. Mi bastò leggere un paio di frasi persentire un'altra volta quella risata cupa alle mie spalle. Lo rimisi a posto e ne presiun altro a caso, dandogli una rapida occhiata. Ne presi un altro e poi un altro, ecosì via di seguito fino a esaminare decine di volumi stipati nella stanza e averificare che tutti contenevano diverse scritte con le stesse parole, che eranooscurati dalle stesse immagini e che la stessa favola si ripeteva come un pas dedeux in un'infinita galleria di specchi. Lux Aeterna.

Uscendo dal labirinto, trovai Isabella che mi aspettava seduta su un gradinocon il libro che aveva scelto tra le mani. Mi sedetti accanto a lei e Isabella miappoggiò la testa sulla spalla.

—Grazie per avermi portato qui— disse.Capii allora che non avrei mai più rivisto quel posto, che ero condannato a

sognarlo e a scolpire il suo ricordo nella mia memoria, sapendomi fortunato peraver potuto percorrerne i corridoi e sfiorarne i misteri. Chiusi gli occhi un istantee lasciai che quell'immagine mi s'incidesse per sempre nella mente. Poi, senzaosare guardare di nuovo, presi per mano Isabella e mi diressi all'uscitalasciandomi per sempre alle spalle il Cimitero dei Libri Dimenticati.

Isabella mi accompagnò fino al molo dove mi aspettava la nave che miavrebbe portato lontano da quella città e da tutto quanto avevo conosciuto.

—Come ha detto che si chiama il capitano?— domandò Isabella.—Caronte.——Non è divertente.—L'abbracciai per l'ultima volta e la guardai negli occhi in silenzio. Lungo la

strada eravamo rimasti d'accordo che non ci sarebbero stati addii, né parolesolenni né promesse da mantenere. Quando le campane di Santa Maria del Marbatterono la mezzanotte salii a bordo. Il capitano Olmo mi diede il benvenuto e sioffrì di accompagnarmi nella mia cabina. Gli dissi che preferivo aspettare.

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L'equipaggio mollò gli ormeggi e lentamente lo scafo si separò dal molo. Miappostai a poppa, contemplando la città che si allontanava in una marea di luci.Isabella rimase lì, immobile, i suoi occhi nei miei, finché il molo si persenell'oscurità e il grande miraggio di Barcellona sprofondò nelle acque buie. A unaa una le luci della città si spensero in lontananza e capii che avevo già iniziato aricordare.

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EPILOGO1945

Sono passati quindici lunghi anni dalla notte in cui fuggii per sempre dalla città deimaledetti. Per molto tempo la mia è stata un'esistenza di assenze, senz'altro nomené presenza se non quella di un estraneo itinerante.

Ho avuto cento nomi e altrettanti mestieri: nessuno di loro era il mio.Sono scomparso in città infinite e in villaggi così piccoli che nessuno lì aveva

più passato né futuro. In nessun posto mi sono fermato più del necessario. Piùprima che poi, fuggivo di nuovo, senza avvisare, lasciando solo un paio di librivecchi e qualche vestito di seconda mano in stanze lu-gubri in cui il tempo nonaveva pietà e il ricordo bruciava. Non ho avuto altra memoria se non l'incertezza.Gli anni mi hanno insegnato a vivere nel corpo di un estraneo che non sapeva seaveva commesso quei crimini che poteva ancora fiutare sulle proprie mani, seaveva perduto la ragione ed era condannato a vagare per il mondo in fiammeche aveva sognato, in cambio di qualche moneta e della promessa di prendersigioco di una morte che adesso gli sembrava la più dolce delle ricompense. Moltevolte mi sono chiesto se la pallottola che l'ispettore Grandes mi aveva sparato alcuore non avesse attraversato le pagine del libro, se non fossi stato io a morire inquella cabina sospesa in aria.

Nei miei anni di pellegrinaggio ho visto l'inferno promesso nelle pagine scritteper il principale acquistare vita al mio passaggio. Mille volte sono fuggito dallamia stessa ombra, sempre guardandomi alle spalle, sempre aspettandomi ditrovarla girato l'angolo, dall'altra parte della strada o ai piedi del letto nelle oreinterminabili che precedevano l'alba. Non ho mai permesso a nessuno difrequentarmi abbastanza a lungo da chiedermi perché non invecchiavo, perchénon si aprivano rughe sul mio viso, perché il mio riflesso era lo stesso della nottein cui avevo lasciato Isabella sul molo di Barcellona e non era un minuto piùvecchio.

C'è stato un tempo in cui ho creduto di aver esaurito tutti i nascondigli delmondo. Ero così stanco di avere paura, di vivere e morire di ricordi, che mi sonofermato lì dove finiva la terra e iniziava un oceano che, come me, si sveglia ognigiorno uguale a quello precedente, e ci sono rimasto.

Oggi è un anno che sono arrivato qui e ho recuperato il mio nome e il miomestiere. Ho comprato questo vecchio capanno sulla spiaggia, poco più di unatettoia che divido con i libri lasciati dal vecchio proprietario e una macchina perscrivere che mi piace credere potrebbe essere la stessa con cui avevo scrittocentinaia di pagine che non saprò mai se qualcuno ricorda. Dalla mia finestravedo un piccolo molo di legno che si protende in mare e, legata alla suaestremità, la barca che era in vendita assieme alla casa, una barchetta con cui avolte esco in mare fino alla scogliera su cui le onde s'infrangono e dove la costa

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quasi scompare dalla vista.Non avevo più scritto fin quando sono arrivato qui. La prima volta che ho

infilato un foglio in macchina e ho messo le mani sulla tastiera, ho te-muto di nonessere in grado di comporre un solo rigo. Ho scritto le prime pagine di questastoria durante la mia prima notte nel capanno sulla spiaggia. Ho scritto finoall'alba, come ero solito fare anni fa, senza sapere ancora per chi la stessiscrivendo. Di giorno camminavo lungo la spiaggia o mi sedevo sul molo di legnodavanti al capanno —una passerella tra il cielo e il mare — a leggere i mucchi digiornali vecchi che avevo trovato in uno degli armadi. Nelle loro pagine c'eranostorie di guerra, del mondo in fiamme che avevo sognato per il principale.

È stato così, leggendo quegli articoli sulla guerra in Spagna e poi in Europa enel mondo, che ho deciso: non avevo più niente da perdere e l'unica cosa chedesideravo era sapere se Isabella stava bene e se magari si ricordava ancora dime. O forse volevo solo sapere se era ancora viva. Ho scritto quella letteraindirizzata all'antica libreria Sempere e Figli in calle Santa Ana di Barcellona checi avrebbe messo settimane o mesi ad arrivare, sempre che fosse arrivata, adestinazione. Come mittente ho messo Mr Rochester, sapendo che se la letterafosse finita tra le sue mani Isabella avrebbe saputo di chi si trattava e, se lodesiderava, avrebbe potuto lasciarla chiusa e dimenticarmi per sempre.

Per mesi ho continuato a scrivere questa storia. Ho rivisto il volto di mio padree mi sono aggirato di nuovo nella redazione della « Voz de la Industria» sognandodi emulare il grande Pedro Vidal. Ho rivisto per la prima volta Cristina Sagnier esono rientrato nella casa della torre per sprofondare nella follia che avevaconsumato Diego Marlasca. Scrivevo da mezzanotte all'alba senza tregua,sentendomi vivo per la prima volta da quando ero scappato dalla città.

La lettera è arrivata un giorno di giugno. Il postino aveva fatto scivolare labusta sotto la porta mentre dormivo. Era indirizzata a Mr Rochester e comemittente c'era, semplicemente, Sempere e Figli, Barcellona. Per diversi minutimi sono aggirato per il capanno, senza osare aprirla. Alla fine sono andato asedermi in riva al mare a leggerla. La lettera conteneva un foglio e una secondabusta, più piccola. Sulla seconda busta, invecchiata, c'era soltanto il mio nome,David, in una calligrafia che non avevo dimenticato nonostante tutti gli anni in cuil'avevo persa di vista.

Nella lettera, Sempere figlio mi raccontava che lui e Isabella, dopo diversianni tormentati di fidanzamento, si erano sposati il 18 gennaio 1935

nella chiesa di Santa Ana. La cerimonia, contro ogni previsione, era statacelebrata dal novantenne sacerdote che aveva pronunciato il commiato funebreai funerali del signor Sempere e che, nonostante tutti i tentativi del vescovado,recalcitrava a morire a continuava a fare le cose alla sua maniera. Un annodopo, qualche giorno prima che scoppiasse la guerra civile, Isabella aveva datoalla luce un maschietto che si sarebbe chiamato Daniel Sempere. Gli anni terribili

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della guerra avevano portato ogni specie di ristrettezze e poco dopo la fine delconflitto, in quella pace nera e maledetta che avrebbe avvelenato la terra e ilcielo per sempre, Isabella aveva preso il colera ed era morta tra le braccia delmarito nell'appartamento sopra la libreria. L'avevano seppellita al Montjuïc ilgiorno del quarto compleanno di Daniel sotto una pioggia che era durata duegiorni e due notti, e quando il piccolo aveva chiesto al padre se il cielo piangesse alui era mancata la voce per rispondergli.

La busta a mio nome conteneva una lettera che Isabella mi aveva scritto neisuoi ultimi giorni di vita. Aveva fatto giurare al marito di recapitarmela se fossevenuto a sapere dove mi trovavo.

Caro David,a volte mi sembra di avere iniziato a scriverle questa lettera tanti anni fa e di

non essere stata ancora capace di finirla. È passato molto tempo da quando l'hovista per l'ultima volta, sono successe molte cose terribili e meschine, eppure nonc'è giorno in cui non mi ricordi di lei e non mi chieda dov'è, se ha trovato pace, sesta scrivendo, se è diventato un vecchio brontolone, se è innamorato o se siricorda di noi, della piccola libreria di Sempere e Figli e della peggior assistenteche abbia mai avuto.

Temo che lei se ne sia andato senza avermi insegnato a scrivere e non sonemmeno da dove iniziare a mettere in parole tutto quello che vorrei dirle. Mipiacerebbe che sapesse che sono stata felice, che grazie a lei ho trovato un uomoche ho amato e che mi ha amato, e che insieme abbiamo avuto un figlio, Daniel,a cui parlo sempre di lei e che ha dato un senso alla mia vita che nemmeno tutti ilibri del mondo potrebbero neanche cominciare a spiegare.

Nessuno lo sa, però a volte torno ancora su quel molo dal quale l'ho vistapartire per sempre e mi siedo un po', da sola, ad aspettare, come se credessi chelei sta per tornare. Se lo facesse, vedreb-be che, nonostante tutto quello che èsuccesso, la libreria è ancora aperta, il terreno su cui sorgeva la casa della torre èancora abbandonato, tutte le menzogne dette su di lei sono state dimenticate e inqueste strade ci sono tante persone con l'anima talmente mac-chiata di sangueche non osano più ricordare e quando lo fanno mentono a se stesse, perché nonpossono nemmeno guardarsi allo specchio. In libreria continuiamo a vendere isuoi libri, ma di nascosto, perché adesso sono stati dichiarati immorali e il paese siè riempito di gente desiderosa di distruggere e bruciare libri piuttosto che dileggerli. Sono brutti tempi e spesso credo che se ne av-vicinino di peggiori.

Mio marito e i dottori credono di ingannarmi, ma io so che miresta poco tempo. So che morirò presto e che quando lei riceverà questa

lettera io non ci sarò più. Per questo volevo scriverle, per farle sapere che non hopaura, che il mio unico dispiacere è lasciare un uomo buono che mi ha dato lasua vita e il mio Daniel soli in un mondo che ogni giorno mi sembra più simile acome lei diceva che fosse, e non a come io volevo credere che potesse essere.

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Volevo scriverle perché sapesse che, nonostante tutto, ho vissu-to e sono grataper il tempo che ho trascorso qui, grata di averla conosciuta e di essere stata suaamica. Volevo scriverle perché mi piacerebbe che mi ricordasse e che, ungiorno, se lei ha qualcuno come io ho il mio piccolo Daniel, gli parlasse di me econ le sue parole mi facesse vivere per sempre.

Le vuole beneIsabellaGiorni dopo aver ricevuto quella lettera seppi di non essere solo sulla spiaggia.

Avvertii la sua presenza nella brezza dell'alba, ma non volli o non potei fuggire dinuovo. Accadde un pomeriggio, quando mi ero seduto a scrivere davanti allafinestra mentre aspettavo che il sole calasse all'orizzonte. Sentii i passi sulle tavoledi legno del molo e lo vidi.

Il principale, vestito di bianco, camminava lentamente lungo il molo e tenevaper mano una bambina di sette o otto anni. Riconobbi l'immagine all'istante,quella vecchia foto che Cristina aveva custodito per tutta la vita senza sapere dadove provenisse. Il principale si avvicinò alla fine del mo-lo e si accovacciòaccanto alla bambina. Contemplarono entrambi il sole che si spargevasull'oceano in un'infinita lamina d'oro incandescente. Uscii dal capanno e avanzailungo il molo. Quando arrivai all'estremità, il principale si voltò e mi sorrise. Sulsuo viso non c'era minaccia né rancore, appena un'ombra di malinconia.

—Mi è mancato, amico mio— disse. —Mi sono mancate le nostreconversazioni, perfino le nostre piccole controversie… —

—È venuto a regolare i conti?—Il principale sorrise e scosse lentamente la testa.—Tutti commettiamo errori, Martín. Io per primo. Le ho rubato ciò che più

amava. Non l'ho fatto per ferirla. L'ho fatto per paura. Paura che leil'allontanasse da me, dal nostro lavoro. Mi sbagliavo. Ci ho messo un po'

di tempo a riconoscerlo, ma se c'è una cosa che non mi manca è proprio iltempo.—

L'osservai con attenzione. Il principale, come me, non era invecchiato di unsolo giorno.

—Cosa è venuto a fare, allora?—Si strinse nelle spalle.—Sono venuto a dirle addio.—Il suo sguardo si concentrò sulla bambina che teneva per mano e che mi

guardava con curiosità.—Come ti chiami?— le domandai.—Cristina— disse il principale.Lo guardai negli occhi e annuì. Sentii il sangue che mi si gelava. Potevo solo

intuire i lineamenti, ma lo sguardo era inconfondibile.—Cristina, saluta il mio amico David. Da adesso vivrai con lui.—

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Scambiai uno sguardo con il principale, ma non dissi nulla. La bambina miallungò la mano, come se avesse provato quel gesto mille volte, e rise piena divergogna. Mi chinai verso di lei e gliela strinsi.

—Ciao— mormorò.—Molto bene, Cristina— approvò il principale. —E che altro?—La bambina annuì, ricordando di colpo.—Mi hanno detto che lei è un fabbricante di storie e di racconti.——Uno dei migliori— aggiunse il principale.—Ne farà uno per me?—Esitai qualche secondo. La bambina guardò il principale, inquieta.—Martín?— mormorò lui.—Certo— dissi alla fine. —Ti farò tutti i racconti che vorrai.—La bambina sorrise e, avvicinandosi, mi baciò sulla guancia.—Perché non vai in spiaggia e aspetti lì mentre saluto il mio amico, Cristina?

— domandò il principale.Cristina annuì e si allontanò lentamente, girandosi a guardare a ogni passo e

sorridendo. Al mio fianco, la voce del principale sussurrò la sua maledizioneeterna con dolcezza.

—Ho deciso di restituirle ciò che ha amato di più e che le ho rubato. Hodeciso che per una volta lei si metterà al mio posto e sentirà ciò che io sento, noninvecchierà di un solo giorno e vedrà crescere Cristina, si innamorerà di leiancora una volta, la vedrà invecchiare al suo fianco e un giorno la vedrà morirefra le sue braccia. Questa è la mia benedizione e la mia vendetta.—

Chiusi gli occhi, scuotendo la testa fra me.—Questo è impossibile. Non sarà mai la stessa.——Dipenderà solo da lei, Martín. Le consegno una pagina bianca. Questa

storia non mi appartiene più.—Sentii i suoi passi che si allontanavano e quando riaprii gli occhi il principale

non c'era più. Cristina, ai piedi del molo, mi osservava attenta. Le sorrisi e lei siavvicinò lentamente, esitante.

—Dov'è il signore?— domandò.—Se n'è andato.—Cristina si guardò intorno, l'infinita spiaggia deserta in entrambe le dire-zioni.—Per sempre?——Per sempre.—Cristina sorrise e si sedette accanto a me.—Ho sognato che eravamo amici— disse.La guardai e annuii.—E siamo amici. Lo siamo sempre stati.—Rise e mi prese la mano. Indicai, davanti a noi, il sole che sprofondava in

mare, e Cristina lo contemplò con le lacrime agli occhi.

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—Me ne ricorderò un giorno?— chiese.—Un giorno.—Allora seppi che avrei dedicato ogni minuto che ci restava da passare insieme

a renderla felice, a riparare al male che le avevo fatto e a restituirle ciò che nonavevo mai saputo darle. Queste pagine saranno la nostra memoria fino a quandoil suo ultimo respiro si spegnerà fra le mie braccia e l'accompagnerò al largo,dove s'infrangono le onde, per immergermi con lei per sempre e poterfinalmente fuggire dove né il cielo né l'inferno potranno mai trovarci.

FINE

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CARLOS RUIZ ZAFÓN (Barcellona, 25 settembre 1964) è uno scrittore disuccesso mondiale, ha iniziato la sua carriera nel 1993 con una serie di libri perbambini e ragazzi, tra cui Il principe della nebbia. Nel 2001 esordisce nellanarrativa per adulti con il suo quinto romanzo, L'ombra del vento (Planeta, 2002—Arnoldo Mondadori Editore, 2004), che, uscito in sordina in Spagna, haconquistato col passaparola il vertice delle classifiche letterarie europee,diventando un vero e proprio fenomeno letterario. Vive dal 1993 a Los Angeles,dov'è impegnato nell'attività di sceneggiatore. Collabora regolarmente con lepagine culturali di —El País— e —La Vanguardia—.

L'ombra del vento è stato un successo, con più di 8 milioni di copie vendute nelmondo, e solo in Italia, un milione e mezzo, acclamato come una delle grandirivelazioni letterarie degli ultimi anni. È stato tradotto in più di 36 lingue e haottenuto numerosi premi internazionali, tra cui Premio Barry per il migliorromanzo d'esordio nel 2005.