LibeRe - Il Quaderno - ottobre 2012

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010 ottobre 2012 Fotografie di Mirko Silvestrini

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Numero dedicato al femminicidio

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010 ottobre 2012

Fotografie di Mirko Silvestrini

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SOMMARIO

Editoriali

Anna Serafini Libere e Liberi: da Lanzarote a Istanbul 3

Umberto Veronesi L’era delle donne 6

Focus sul femminicidio

Anna Finocchiaro Scontro epico tra primitivismo e modernità 9

Franco Monaco Non solo contrasto ma prevenzione e promozione 10

Livia Turco Una nuova grammatica dei sentimenti e delle relazioni 12

M. P. Garavaglia I tanti volti della violenza di genere 14

Emilia De Biasi La responsabilità dei media 16

Barbara Spinelli La responsabilità del Parlamento nella prevenzione e nel contrasto 18

Franca Biondelli L’escalation della violenza di genere 20

Manuela Granaiola In ricordo di Rajmonda Zefi 22

Amalia Schirru Una legge per tutelare i familiari della vittima 24

Altre voci

Marika Cirone Di Marco Dalla Sicilia: una legge per le donne 27

Piera Landoni Dalla Lombardia: quello che le cronache non dicono 29

Daniela Valentini Dal Lazio: un’associazione forte 31

Maria Rosa Ardizzone In aiuto dei ragazzi testimoni di violenze 32

Francesca Filippi Il femminicidio: l’America Latina terra di lotta 34

E. Borzacchiello V. Galanti Comunicare la violenza di genere 36

Maria Teresa Manente Criticità applicative delle norme in materia di violenza di genere 40

Silvana Claudia Mara L’incredulità e la negazione della violenza 42

Alessandra Navarri Per una “rivoluzione archetipale” 44

Elisabetta Bolondi Le violenze domestiche ne "L'amore rubato" di Dacia Maraini 46

Altre battaglie

Silvana Amati Vivisezione: no grazie 49

Maria Rita Parsi Le lacrime di coccodrillo di Valérie Trierweiler 51

Luisa Peris Le patologie alimentari, plurale femminile 52

Paola Rossi Riforma degli Ordini professionali: rinnovamento reale? 54

Daniela Sbrollini Riscriviamo la legge 40 56

Maria Grazia Serpa Il welfare al femminile 58

Ci piace / Non ci piace

Note a piè di pagina 60

Buone notizie 61 Note biografiche del fotografo Mirko Silvestrini 62

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Libere e liberi: da Lanzarote a Istanbul

di Anna Serafini presidente associazione libere

La violenza alle donne come genocidio nascosto - per dirla come Amartya Sen - è un residuo del passato? La risposta a questa domanda è molto importante, perché attiene alla definizione che noi diamo oggi della natura della violenza. La violenza oggi non è solo residuale. È piuttosto una nuova risposta a cambiamenti introdotti dalle donne. La violenza maschile sulle donne è la prima causa di morte delle donne in tutta Europa e nel mondo e in Italia più che altrove, come ha rilevato recentemente il Rapporto ONU. Pertanto, il punto che dobbiamo mettere al centro dell'attenzione è che la violenza non è residuale e non va assolutamente sottovalutata. Dietro il femminicidio, introdotto nel dibattito nazionale ed internazionale, c'è non solo l'omicidio di donne - in questo caso si parla di femmicidio, che è concetto diverso - ma la continua erosione della loro dignità, il tentativo di negare la piena espressione della loro personalità. La violenza sulle donne non è solo il frutto di un'aggressione individuale. Esiste una dimensione sociale della violenza e il fatto che gran parte della violenza si svolga in famiglia significa che la dimensione sociale include i rapporti coniugali e genitoriali. Se solo un'infinitesima parte degli aggressori è affetta da alterazioni più o meno momentanee (alcolisti, tossicodipendenti, persone con problemi mentali), perché cittadini ritenuti assolutamente normali, di ogni professione e livello culturale, provano ad attaccare l'identità delle loro mogli o compagne? Perché provano, e spesso riescono, ad umiliarle e distruggerle? Molti studi dicono che la violenza sulle donne non è mai reazione ad un torto e neanche e soltanto lo sfogo maschile a proprie insoddisfazioni o frustrazioni. E’ molto di più. Richiama un livello qualitativamente diverso. Attiene a profonde motivazioni culturali, ai modelli del rapporto tra i generi, tra le persone. Per questo la violenza oggi non è purtroppo frutto di arcaismi. La violenza in tutte le sue forme è piuttosto un modo per riappropriarsi di un ruolo gerarchicamente dominante a cui sono connessi privilegi. Ma soprattutto è crisi d'identità. Il punto vero è la crisi di identità nelle relazioni tra uomini e donne, nel campo più intimo della relazione, nella relazione amorosa. Occorre una nuova stagione delle relazioni. C'è una crisi di identità nella relazione. A fronte di una nuova identità femminile stenta ad affermarsi una nuova identità maschile in grado di porvisi in relazione. La radice della moderna violenza sta nella fragilità dei ruoli e nella fragilità della relazione. Ancora non abbiamo conseguito una forma di relazione tra soggetti autonomi che siano in grado di stare, appunto, in relazione a partire da questa autonomia. Per questo dobbiamo compiere un salto di qualità nella battaglia culturale, nell'assunzione di responsabilità dello Stato, perché la violenza ha radici moderne e non è quindi frutto di

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arcaismi. Un salto di qualità nell'azione, perché c'è un salto di qualità nella violenza, non già azione residuale di un mondo arretrato, bensì risposta nuova di una consapevolezza nuova delle donne rispetto ai loro diritti. Nella stampa è quasi un bollettino di guerra e studi accademici e autorevoli analisi dei dati raccolti da associazioni ed organizzazioni, indicano un aumento degli episodi di discriminazione e violenza di genere in Italia. I dati del Rapporto annuale Istat evidenziano una diminuzione generale degli omicidi nell’ultimo ventennio. Tuttavia, disaggregando i dati per genere, si nota che la riduzione riguarda solo i casi in cui le vittime sono uomini, mentre i dati relativi ai casi in cui le vittime sono donne restano sostanzialmente invariati. Nel 2011 sono state 137 le donne uccise in Italia, dieci in più dell’anno precedente, in questa prima parte del 2012, secondo Telefono Rosa, già più di 98 donne sono state uccise da uomini, spesso mariti, compagni o ex-partner. Ma l’uccisione della donna è solo una delle estreme conseguenze, l’espressione più drammatica della diseguaglianza esistente nella nostra società. Molte violenze non vengono neppure denunciate; è, infatti, proprio il contesto culturale ad implicare la sostanziale impunità sociale che legittima il femminicidio, soprattutto quando le istituzioni si mostrano inadeguate ad affrontarne la drammaticità e la specificità.

E un triste primato tutto italiano è quello di vedersi attribuire in un documento ufficiale delle Nazioni Unite la parola “femminicidio”. In questo l’Italia è al livello del Messico, condannato nel 2009 dalla Corte interamericana per i diritti umani per il femminicidio di Ciudad Juarez. Infatti il 25 giugno 2012 è stato presentato all’ONU il primo Rapporto tematico sul femminicidio, frutto del lavoro realizzato in Italia da Rashida Manjoo. Il Rapporto ONU rileva che in Italia gli stereotipi di genere sono profondamente radicati e predeterminano i ruoli di uomini e donne nella società. Analizzando, ad esempio, i dati relativi alla presenza nei media, il 46% delle donne appare associato a temi quali il sesso, la moda e la bellezza e solo il 2% a questioni di impegno sociale e professionale. Si tratta a tutti gli

effetti di un contesto di negazione, limitazione e violazione di quei diritti fondamentali che costituiscono la base di uno stato democratico. Se oggi l’ONU, e di conseguenza l’informazione di massa, parla senza mezzi termini di femminicidio anche in relazione all’Italia, è perché, visto l’aumento inarrestabile della

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violenza di genere, ci sono state donne che da anni hanno reclamato il riconoscimento anche per le donne, in quanto donne, di quei diritti umani affermati a livello universale, ed in particolare del diritto inalienabile alla vita e all’integrità psicofisica. Il riconoscimento e il contrasto del femminicidio in Italia è un ulteriore passo fondamentale di riconoscimento degli storici sforzi delle donne per godere dei diritti fondamentali inalienabili e universali propri di ogni individuo. Per questo abbiamo presentato nel luglio scorso, in bozza, il disegno di legge “Norme per la promozione della soggettività femminile ed il contrasto al femminicidio”, che accoglierà nella stesura definitiva gli apporti teorici e pratici frutto del lavoro e dell’esperienza di donne e gruppi di donne, associazioni e organizzazioni, che lavorano in tutti gli ambiti del contesto internazionale, nazionale e locale. L’obiettivo è predisporre uno strumento efficace che contribuisca a sradicare ogni forma di discriminazione e violenza contro la donna in quanto donna, che affronti in modo integrale un fenomeno che ostacola il raggiungimento dell’uguaglianza sostanziale della donna in tutte le dimensioni della sua vita. Intanto due buone notizie: grazie al nostro impegno in Parlamento e grazie alla lunga battaglia sul campo delle associazioni e delle organizzazioni, il 17 settembre u.s. è stata ratificata la Convenzione di Lanzarote per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale e il 27 settembre è stata finalmente firmata la Convenzione di Istanbul sul contrasto alla violenza sulle donne, L’attuale situazione politica ed economica dell’Italia non può essere utilizzata come giustificazione per la diminuzione di attenzione e risorse dedicate alla lotta contro tutte le manifestazioni della violenza su donne e bambine in questo Paese. E’ un segnale chiaro che il Parlamento deve dare; è il segnale che avverte l'allarme delle organizzazioni internazionali; è il segnale che avverte l'enorme solitudine e paura di tante donne; è il segnale che si combatte seriamente la violenza senza attendere altro tempo, perché si vuole andare avanti con i diritti delle donne e con i diritti di tutti, donne e uomini. Ne discuteremo insieme in un Seminario internazionale organizzato dall’Associazione libere (www.libereassociazione.it) che si svolgerà a Roma il prossimo 8 novembre, con il contributo di esperti nazionali e internazionali, associazioni, parlamentari e dirigenti politici, anche in vista del 25 novembre, giornata mondiale indicata dall’ONU contro la violenza sulle donne.

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L’era della donna di Umberto Veronesi direttore scientifico IEO

Ho vissuto da uomo e da medico un mondo prevalentemente femminile, e mi sono convinto che nelle donne troviamo alcune delle caratteristiche più autentiche della natura umana, anche se non sempre sono espresse a causa di vari condizionamenti culturali e sociali. L’indole non-violenta è una di queste. La donna non solo non uccide, ma non si uccide. I suicidi femminili avvengono, ma sono rarissimi. La donna rimane così della violenza, sostanzialmente, la vittima. I dati sulla violenza subita dalle donne nel nostro paese sono drammatici, e lo diventano ancor di più se si pensa che non tengono conto dell’universo sommerso di chi decide di tacere e sacrificarsi in nome di un amore estremo nei confronti dei propri figli e dei propri compagni. Spesso sono proprio loro a perpetrare l’abuso, in quasi il 50% dei casi l’autore della violenza è il partner (la maggioranza) o un ex. E’ evidente che tutto questo non si risolve con le forze dell’ordine, né tantomeno all’interno di un carcere, e indignarsi non basta. Bisogna prima di tutto capire il perché del disagio evidentemente legato al rapporto fra sessi e alla convivenza. I fattori sono molteplici. Primo, la composizione del nucleo familiare, che da rassicurante comunità patriarcale è diventata precaria micro-unità. Nelle famiglie ampie della scorsa generazione regnava l’amore e il rispetto incondizionato per le figure

genitoriali. Oggi la famiglia media è composta da una coppia e un figlio, e spesso è “allargata”, essendo il risultato dell’amalgama di unioni precedenti. Per questo i rapporti sono incerti, così come è incerto il destino stesso del nucleo, che non è strutturato per rimanere unito sempre e comunque. Secondo fattore è il ruolo della donna, che da

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conciliatrice che era, è diventata portatrice di competitività e inquietudine. Da quando la donna ha faticosamente acquisito un ruolo sociale (che si è aggiunto a quello familiare, senza togliere nulla, ed è dunque diventato un doppio peso) anche lei riversa sulla famiglia quelle stesse tensioni che un tempo smussava e quelle ansie che un tempo consolava. L’ uomo, dal canto suo, non è culturalmente preparato a gestire una figura paritaria. Qui interviene un terzo fattore importante che è quello biologico. Mentre l’uomo ha una prevalenza di ormoni che inducono all’aggressività, il corpo della donna è per lo più regolato da ormoni di segno opposto, che la rendono più amorevole e pacificatrice. Su questa predisposizione naturale, si è inserito il condizionamento sociale, che ha fatto sì che per secoli l’uomo fosse dedicato ad attività in cui la violenza è un valore positivo, come la caccia e la guerra, mentre la donna si occupava della cura della casa e dell’accudimento dei figli, dove occorreva la sua mitezza. Tuttavia nella società moderna l’aggressività non è più necessaria, anzi, è un handicap e viene troppo spesso sfogata in forme devianti. La donna è dunque l’ago della bilancia che può spostarci verso un mondo migliore, da cui la violenza è bandita. Quando ho creato il movimento Science for Peace, con la Conferenza Internazionale di Milano di novembre 2009, ho pensato soprattutto alle donne. Le donne desiderano la pace e odiano la guerra e non solo per i motivi biologici. La guerra è disordine, uccide i figli e i compagni e sconvolge l’armonia delle cose di cui le donne sono custodi. Le donne pacifiste nel mondo sono tante e sono straordinarie. Penso all’iraniana Shrin Ebadi, Aung San Sun Kyi in Birmania, Ingrid Bètancourt in Francia, Manuela Dviri, Vitali Norsa in Israele, Rita el Kayat in Marocco, Tara Gandhi in India. Penso anche a Kathleeen Kennedy, che sviluppa il pensiero pacifista dello zio John Fitzgerald negli USA. Solo per citarne alcune, che hanno aderito a Science for peace. Il contributo femminile verso un mondo non violento è secondo me un segnale significativo del futuro avvento dell’era della donna in cui credo da sempre.

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Focus sul

FEMMINICIDIO

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Scontro epico tra primitivismo e modernità

di Anna Finocchiaro presidente gruppo PD Senato

In quello che viene definito giornalisticamente "femminicidio" convivono due aspetti tragicamente espressivi. Il primo è quello dell'esercizio della violenza sul corpo delle donne, che proviene dalla notte dei tempi e segna un primitivo scompenso nella relazione tra maschi e femmine. Lo reincontriamo sotto forme diverse, naufrago ancora superstite anche nella modernità. Ma l'altro aspetto, comune a ciascuno di quegli omicidi, sta nella incapacità di ciascuno dei mariti, fidanzati, amanti assassini di accettare la decisione delle vittime di troncare la loro relazione, esprimendo in questo ciascuna donna la libertà di scegliere rapporti amorosi, e familiari, soddisfacenti. Inaccettabile è per quegli uomini - qualunque sia la loro cultura, collocazione sociale od economica - la libertà femminile. Libertà che, nuova e moderna, risulta evidentemente terrorizzante, perché viene avvertita come esercizio di forza, oltraggiosa e intollerabile, oltraggioso e intollerabile essendo avvertito l'abbandono. Uno scontro epico (che dell'epos ha tutta la tragicità) tra primitivismo e modernità quello che si scopre ogniqualvolta si ricostruisca una vicenda di femminicidio. Ciò che pare impossibile è che questo tema, che tanto lavoro comune attenderebbe da parte di uomini e donne, sia liquidato in cronaca nera. Sempre più spesso, sempre più laconicamente.

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Non solo contrasto, ma prevenzione e promozione

di Franco Monaco senatore PD

La ricca documentazione raccolta da Anna Serafini sulla base della quale è sortita la sua proposta sul femminicidio mi ha colpito per più ragioni: la dimensione del fenomeno, il differenziale negativo italiano, la circostanza del suo carattere non arcaico e residuale. Come risulta da vari rapporti, le violenze e persino gli omicidi si consumano per lo più dentro la normalità delle famiglie e delle case e sono perpetrati dai mariti e dai compagni di tutte le estrazioni sociali. Questa è la regola. I soggetti alterati (alcolisti, tossicodipendenti, malati mentali) autori di violenza rappresentano piuttosto l'eccezione. E questo in Italia più che altrove. Di qui, se ho inteso bene, il motivato allarme che sta all'origine della proposta messa a punto da Anna Serafini. In sintesi direi così. Primo: il fenomeno non è un retaggio premoderno, ma ci accompagna ben dentro la nostra società moderna sedicente liberale ed emancipata. Semmai arcaiche sono le sue radici: dentro una concezione e una pratica del rapporto uomo-donna di stampo gerarchico-autoritario. Un rapporto che non si affranca dalla cifra del dominio e del possesso. L'uomo resiste, a dispetto delle apparenze e della retorica pubblica, alla rivoluzione culturale (qualche analista sostiene che sia stata la sola rivoluzione riuscita tra le innumerevoli e puntualmente fallite rivoluzioni promesse nel novecento) che ha visto protagonista il movimento delle donne. Con le sue conquiste, quantomeno sul piano dei principi, ispirate al valore della dignità, della parità, della differenza, della reciprocità. Seconda intuizione che mi pare di scorgere al fondo della proposta: la convinzione che, trattandosi di fenomeno che affonda le sue radici nella cultura e nel costume, lì si deve intervenire. Non solo sul piano della repressione e delle sanzioni. Lo si percepisce sin dalla titolazione: non il mero contrasto del femminicidio, ma anche, anzi ancor prima, la promozione della soggettività femminile. Dunque, prima e più che un intervento normativo, vi sottende il proposito di aprire una discussione e di veicolare un messaggio culturale. Esemplifico. Se il fenomeno, come risulta da tutte le indagini, è endemico e di massa, il primo dei problemi è quello di sensibilizzare le vittime delle violenze, di dare loro consapevolezza e coraggio nella denuncia. Il femminicidio è solo la punta di un iceberg drammaticamente diffuso. A fronte delle centinaia di casi che finiscono nelle aule di giustizia e nelle cronache dei media, stanno infiniti casi di violenza domestica che restano nell'anonimato e che devono essere portati in superficie.

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Dunque, contrasto, ma soprattutto prevenzione e promozione della dignità e dell'autonomo protagonismo della donna. Proprio perché il cuore del problema, prima che penale, è di natura culturale e sociale, la mia attenzione è caduta su un passo del "Rapporto Ombra" sulla condizione delle donne in Italia che rimarca le grandi responsabilità dei media. Sia nell'indulgere alla spettacolarizzazione morbosa dei casi di cronaca nera di cui le donne sono vittima. Sia nella loro degenerazione voyeurista che fa della donna una merce e un prodotto di consumo. La sinistra e persino l'universo cattolico, un tempo incline a un vieto moralismo, non hanno reagito con l'energia e, certo anche, con l'intelligenza che si conviene, al dilagare di una cultura di massa che ha fatto della televisione italiana una delle tv più volgari e corrive con una cultura (si fa per dire) che umilia le donne e che corrode la qualità dei rapporti uomo-donna a tutte le età. Una cultura di massa che non è stata certo indifferente rispetto a forme di discriminazione e persino di violenza. Per troppo tempo non ci siamo fatti scrupolo nel denunciarlo animati dalla preoccupazione di non passare per moralisti e bacchettoni.

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Una nuova grammatica dei sentimenti e delle relazioni

di Livia Turco deputata PD

Leggere le vicende che colpiscono le donne violentate dai loro mariti mi provoca un sentimento di incredulità e mi pone la domanda “ma in che mondo vivo?” Noi, la generazione che si è conquistata l’emancipazione e che l’ha pratica nella sua vita, che ha voluto il lavoro, gli affetti, i figli, proprio noi che ci siamo battute per le altre forse ad un certo punto abbiamo smesso di guardare in profondità ciò che succedeva attorno a noi, convinte che ciò che ci siamo conquistate fosse di tutte. Invece non è così. C’è una debolezza sociale delle donne. Lo diciamo sempre che troppe donne non lavorano. Ma non immaginiamo cosa significhi la vita delle donne prive di un reddito proprio. Può voler dire tante cose, libertà, benessere, più tempo per i figli, ma può anche essere fragilità e dipendenza. Può voler dire essere esposte al ricatto di un uomo violento non lasciarlo e cercare compromessi anche perché non si vede la possibilità di una vita autonoma in mancanza di un reddito e di un lavoro. Anche il gioco delle relazioni amorose e familiari che noi abbiamo voluto scandire sulla grammatica della libertà non è qualcosa di lineare e solare. Al contrario, abbiamo sperimentato che non è facile costruire relazioni sentimentali paritarie anche perché i codici comunicativi e sentimentali delle donne e degli uomini restano diversi. A volte tra loro incomunicabili. Ciò che è stato rilevante e di cui non siamo stati consapevoli fino in fondo è lo scarto tra il nostro foro interiore che elaborava, certo in modo faticoso e contraddittorio una libertà intesa come esercizio della autonomia, relazione paritaria con l’uomo, nuova intensità dei sentimenti al di fuori degli stereotipi che ci erano stati imposti ed una rappresentazione pubblica della libertà femminile che si basava e si basa sull’ostentazione del corpo, sulla disponibilità a darsi e consumare (laddove prima c‘era lo stereotipo del pudore e della costrizione) come oggetto sessuale ad un uomo che rimaneva e rimane sempre il dominus ed il predatore. Questa rappresentazione ha fatto male alle donne ma, ecco ciò che non è emerso nel nostro dibattito ha fatto molto male anche agli uomini perché li ha confermati in un ruolo quello del proprietario-padrone che nella realtà dei fatti si è sgretolato. La violenza maschile virulenta credo si annidi proprio qui, nel vedersi confermato in un ruolo che non si è più nelle condizioni di esercitare e nel quale non ci si riconosce fino in fondo ma rispetto al quale non si hanno alternative. Il vuoto di identità e di rappresentazione di una nuova relazione amorosa è la radice moderna della violenza,

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l’aggrapparsi alla figura del padrone e del proprietario e sentirne al contempo la fragilità e non essere riusciti a definire una mascolinità dialogica, capace di porsi in relazione con la donna nuova: questo è il problema irrisolto che secondo me costituisce una radice delle violenze. La fragilità e l’incompiutezza della identità maschile si trova di fronte tante volte una donna che fa esercizio della sua autonomia, che cerca una nuova dialettica dei sentimenti, ma tante volte anche la donna vive una identità incompiuta. Autonoma ma ancora bisognosa di rispecchiarsi negli occhi dell’uomo che ha di fronte, dipendente dal suo giudizio e dal suo desiderio. Per superare la violenza familiare bisogna innanzitutto superare la fragilità sociale in cui si trovano tante donne, costruire una emancipazione vera, che realizzi finalmente quei traguardi come la buona e piena occupazione, una rete di servizi sociali, il riconoscimento sul piano politico e pubblico. Ma bisogna soprattutto costruire un nuovo codice delle relazioni umane, una nuova grammatica dei sentimenti. Bisogna imparare a pensarsi e a viversi, donne e uomini, come soggetti differenti, duali ed interdipendenti l’uno dall’altro. Bisogna imparare a vivere se stessi come soggetto autonomo e differente, ma parte di una relazione con l’altro/altra, perché solo in questo modo è possibile esercitare una libertà piena di umanità.

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I tanti volti della violenza di genere

di Maria Pia Garavaglia senatrice PD

Libere! È un urlo che noi donne più fortunate (solo un po' di più) vogliamo rendere così forte e disturbante che, alla fine, per non sentirlo più, viene ascoltato e raggiunge lo scopo. Libere di vivere secondo dignità in un Paese in cui è stato finalmente estirpato il germe della violenza contro le donne... Ma l'auspicio non è oggi purtroppo realtà. Nel nostro Paese constatiamo, infatti, che la donna è la vittima predestinata delle persone con cui dovrebbe sentirsi sicura: coniugi, familiari, conoscenti. Ogni tre giorni, di media, viene ammazzata una persona di sesso femminile a causa dei suoi legami. La violenza sessuale sulla donna è collegata a tanti problemi irrisolti di una certa cultura che ha come fondamento una concezione discriminante, talvolta perfino inconsapevole. Il paradosso è che i carnefici non accetterebbero mai di essere classificati maschilisti, "padri padroni", esseri superiori alle donne. In ogni caso, ovunque accada che non sia riconosciuta la autonoma, pari dignità della donna, si conferma che la si considera un oggetto, strumento di piacere o di guadagno; sottomessa e quindi inutile. Ma c'è anche un femminicidio che non si attua concretamente con l'uccisione della donna, bensì col distruggere la sua dignità e annientarla come persona. Abbiamo contato le vittime quotidiane di omicidi, ma sono assai di più nell'ordine delle centinaia, quando non delle migliaia, le "schiave" della tratta. Risale a poco tempo fa una azione di repressione sull'intero territorio nazionale - l'operazione 'terra promessa' - che ha sgominato una associazione a delinquere di nigeriani e di italiani finalizzata al traffico di esseri umani, riduzione e mantenimento in schiavitù, tratta di persone, favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione. La banda organizzava anche matrimoni combinati con italiani compiacenti, i quali dividevano col racket i guadagni delle operazioni. È un fatto di cronaca emblematico e significativo. Siamo alla compravendita delle persone più inermi sulla faccia della terra. Ci compiacciamo che le forze dell'ordine che perseguono i criminali, ma siamo tutti consapevoli che, alla punta, corrisponde un iceberg sommerso e immenso. Il nostro impegno deve promuovere un pensiero e azioni, innanzitutto, nella nostra società, senza trascurare occasioni e strumenti di promozione universale della dignità della donna. Sono note le i iniziative che a tutti i livelli si mobilitano per denunciare e vincere le pratiche, da quelle tribali a quelle culturalmente più sofisticate, che attaccano il corpo e la salute della donna. Il fenomeno delle grandi migrazioni di persone disperate rende difficile misurare la tratta, a causa della sua invisibilità e della rapidità con la quale si modifica sia a causa del contrasto che dei mutamenti del mercato. Accanto a questo, odiosissima, la vendita

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di organi che 'prevede' la cattura e l'uccisione di bambini e bambine: donne che non abiteranno più il nostro pianeta. E i volti sfigurati con l'acido? È la crudele 'punizione' di donne che non obbediscono ad usi atavici, che prevedono il dominio del maschio e la donna succube, senza diritto di scegliere per la propria vita. Ma il volto bruciato dall'acido è la fotografia di una civiltà ferita che tocca a tutti, singoli e istituzioni, riscattare. Sono molteplici (ma sempre troppo poche per l'enormità del bisogno) le attività dedicate alla assistenza e al recupero sociale delle vittime; ma quali sono le azioni che, più di altre, consentono di raggiungere questi obiettivi, con quali strategie? "Libere" può mettere in campo tante occasioni, oltre che di dibattito, di raccolta di studi, documentazione sulle buone pratiche e - perché no? - divulgazione di dati raccapriccianti, che scuotano le coscienze. Senza consenso, le scelte politiche coraggiose faticano ad affermarsi e a raggiungere i risultati.

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La responsabilità dei media

di Emilia De Biasi deputata PD

Si è scritto da più parti che i media hanno una responsabilità nel non parlare a sufficienza della violenza contro le donne. E’ vero, visto che anche di recente, a fronte di nuovi omicidi di donne per mano di uomo, come sappiamo spesso ben conosciuto dalla vittima, un giornale ha titolato “Caldo criminale”. Ma come, ora è colpa della temperatura? Non potendo più farsela col mostro, col maniaco, poiché trattasi di drammatica normalità dell’assassino, si preferisce ricorrere alla meteorologia. Purtroppo ci siamo disabituati allo sguardo critico sul giornalismo italiano, forse perché negli ultimi anni la libertà di informazione è stata così tanto messa in discussione da schiacciarci sulla difesa a oltranza, senza se e senza ma. Non vorrei che ora sull’onda dell’emergenza compissimo l’errore opposto: il fondamentalismo è sempre in agguato, e non vorrei che all’articolo 21 della Costituzione venisse messo il burka. Per questo condivido la scelta di procedere alla stesura di un codice di autoregolamentazione dei media per quel che riguarda la rappresentazione del mondo femminile, un po’ sull’esempio di quello della pubblicità. Il punto di equilibrio è delicato, perché si oscilla fra dignità delle donne e libertà di espressione: la censura è alle porte, assieme alla reificazione del corpo, e della mente, delle donne. Mi è capitato di fare trasmissioni tv su grandi casi irrisolti, tutti relativi al mondo femminile. La ricerca del sensazionale ha spesso prevalso sulla realtà dei fatti, e talvolta si sono raggiunte punte di vera aberrazione, come quando la madre della ragazza uccisa a coltellate dal fidanzato ha dichiarato che no, lui non era colpevole, perché le voleva bene…E’ così necessario dire tutto? Non sarebbe meglio porsi un limite alla cronaca, quando questa sconfina nel gossip del macabro? E ancora: siamo sicure che la rete sia completamente innocente? Vale la pena di aprire un dibattito serio e pubblico sui confini del web, oggi ritenuti dai più una riduzione di libertà. Non credo che l’umiliazione del corpo delle donne come oggetto di proprietà più che di desiderio passi solo attraverso l’esibizione televisiva di pezzi di corpo: il tema è più profondo e insidioso, perché passa dai contenuti televisivi, dal linguaggio, dai commenti, dalle forme della narrazione delle donne, eroine, puttane, dive, stereotipate se politiche, quasi mai normali, con uomini eroi, fragili ma innamorati, labili emotivamente ma mai violenti, buoni padri di famiglia, qualche volta puttanieri, se la fiction è ambientata nell’800 però. Allora una domanda finale: non sarebbe il caso di creare un movimento di opinione perchè la RAI torni ad

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essere Servizio pubblico radiotelevisivo e finalmente possa riconquistare la propria missione originaria anche schierandosi dalla parte della dignità delle donne? Ma di questo avremo tempo di parlare. Nel frattempo usiamo tutti gli strumenti che ci offre la democrazia per combattere il femminicidio: legislazione, formazione, cultura, dibattito pubblico. La violenza sulle donne fa più vittime del cancro e degli incidenti stradali, è stato detto. Chi tace oggi è connivente.

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La responsabilità del Parlamento nella prevenzione e nel contrasto al femminicidio di Barbara Spinelli avvocata

La forma più diffusa di violenza maschile sulle donne è quella perpetrata nell’ambito delle relazioni di intimità. Nonostante il calo generale degli omicidi di donne, è in aumento il numero di donne uccise per motivi di genere (femmicidi): la maggior parte aveva già subito altre forme di violenza nell’ambito della medesima relazione (femminicidi). La Piattaforma “30 anni di CEDAW: lavori in corsa” ha presentato all’ONU il primo Rapporto ombra1 sulla implementazione della CEDAW in Italia per documentare l’inadeguatezza delle azioni intraprese negli ultimi cinque anni dalle Istituzioni per prevenire e contrastare il femminicidio, a seguito del quale il Comitato CEDAW si è preoccupato per il persistere di attitudini socio-culturali che condonano la violenza domestica, nonché “per l’elevato numero di donne uccise dai propri partner o ex-partner (femminicidi), che possono indicare il fallimento delle Autorità dello Stato-membro nel proteggere adeguatamente le donne, vittime dei loro partner o ex partner”. Anche la Relatrice Speciale ONU contro la violenza sulle donne, nella presentazione del Rapporto sulla missione in Italia ha ritenuto “doverosa” una “sensibilizzazione forte” sulla violenza in famiglia “perché questa violenza non viene ancora percepita come un reato e un danno. Le donne non si sentono tutelate né all’interno delle mura domestiche né dallo Stato”. La risposta politica non può che essere una rapida attivazione nella direzione indicata dalle Nazioni Unite. Ogni singolo attore istituzionale è portatore di una responsabilità precisa di agire, nell’ambito del proprio mandato e delle proprie competenze, di concerto con gli altri attori istituzionali, al fine di assolvere all’obbligo assunto a livello costituzionale, comunitario e internazionale, di rimuovere quegli ostacoli che impediscono in concreto alle donne e bambine di vivere una vita libera dalla discriminazione e violenza di genere. Come ha ricordato Violeta Neubauer, esperta indipendente del Comitato CEDAW, nel corso dell’intervento al seminario organizzato dalla Piattaforma CEDAW alla Camera2, “i membri del Parlamento possono avere un ruolo fondamentale nell’assicurare il rispetto dei principi della Convenzione. Hanno inoltre a disposizione una serie di strumenti a loro disposizione per farlo. Per adempiere al loro tradizionale ruolo di monitorare il lavoro del Governo, il Parlamento può assicurare che lo Stato rispetti appieno le previsioni della Convenzione. I Parlamentari possono agire in prima persona, attraverso la propria 1 http://files.giuristidemocratici.it/giuristi/Zfiles/ggdd_20110708082248.pdf

2 http://lavorincorsa30annicedaw.blogspot.it/2012/01/presentazione-in-parlamento-del.html

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attività legislativa, per assicurare che le leggi nazionali, le politiche, le azioni, i programmi e gli stanziamenti finanziari riflettano questi principi e non si pongano in contrasto, ma anzi rappresentino l’adempimento, delle obbligazioni assunte dello Stato parte ai sensi della Convenzione. L’Italia è stata pertanto sollecitata a intraprendere azioni necessarie all’implementazione delle osservazioni conclusive e alla partecipazione al prossimo rapporto periodico. Secondo il Comitato il Parlamento deve adempiere a queste funzioni attraverso l’approvazione di risorse finanziarie adeguate e attraverso un monitoraggio regolare dell’impatto che le politiche e delle misure governative determinano sulla concezione del ruolo della donna e sulla condizione delle donne in ogni ambito previsto dalla Convenzione. Ci si aspetta che da subito i Parlamentari si facciano protagonisti della promozione di un fitto dialogo tra Parlamento, Governo e organizzazioni non governative, per porre al centro dell’attenzione pubblica il tema della responsabilità delle autorità italiane ai fini della effettiva implementazione delle raccomandazioni del Comitato CEDAW e della Relatrice Speciale ONU indirizzate allo Stato italiano. I partiti hanno una grande responsabilità nel portare avanti, in maniera adeguata e di concerto con la società civile, le riforme necessarie.

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L’escalation della violenza di genere

di Franca Biondelli senatrice PD

Appare alquanto singolare che un fenomeno da sempre esistito, ma non conosciuto o meglio mai reso noto od abbastanza evidenziato, abbia solo oggi una parvenza di importanza e di attenzione. Tanto che, a fronte di questo colpevole silenzio, paradossalmente ci si ritrova a confrontarsi addirittura su come debba essere denominato. Ci si dibatte tra femminicidio, femmicidio, feminicide, feminicidio. Insomma abbiamo la sensazione di essere proprio all’inizio. Un grave ritardo per dire basta ad ogni forma di discriminazione e violenza posta contro la donna “in quanto donna”. La cultura maschilista ha fatto il suo, ma non possiamo anzi non dobbiamo nascondere che le istituzioni di tutti i livelli, ed in tutto il mondo, abbiano da rimproverarsi. Il femminicidio viola i diritti umani di metà della popolazione mondiale, spesso con la connivenza delle istituzioni. Il dibattito dapprima a sfondo sociale, etico, culturale si è quindi spostato nell’aspetto giuridico e la legislazione italiana ha dato finalmente il suo contributo. Ma ciò che oggi colpisce è quanto ancora sia diffusa l’idea che “se ad una donna succede qualcosa, vedi essere ammazzata, in fondo è anche colpa sua. In effetti è l’esercizio di potere che l’uomo e la società esercitano sulla donna affinché il suo comportamento risponda alle aspettative dell’uomo e della società patriarcale, è la violenza e ogni forma di discriminazione esercitata nei confronti della donna che disattende queste aspettative. Un fenomeno diffuso, come si diceva, ma tristemente diffuso in tutte le categorie sociali ed in tutto il territorio. Anzi si assiste sempre più spesso ad episodi di violenza che sfociano anche nell’omicidio in territori ove si pensa che più sia radicata la civiltà urbana ed il senso civico. Ed ancor più nell’ambito di ceti sociali benestanti e di inserimento sociale anche di alto prestigio. Ormai è pressocchè certo che gli episodi di estrema violenza che giungono all’uccisione, sono atti preceduti da stalking, denunciato il più delle volte, ma a volte taciuto in altri casi. Questo succede anche perché la denuncia non è presentata o è tardiva. Si immagini se in una famiglia di elevato prestigio sociale, si abbia il coraggio di rendere noti i fatti di famiglia, per quanto si sia soggetti a vessazioni, violenze, ad essere perseguiti o altro. E’ quanto molte, troppe volte è successo dalle nostre parti. Nel territorio novarese, presso il Tribunale di Novara, sono sempre più numerosi e frequenti i processi per stalking o per omicidi di compagne e mogli, un fenomeno in crescita, che si può fermare solo con campagne informative, di ascolto, e di convincimento alla riconquista della propria identità femminile.

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C’è una prima cosa da fare, e far capire a tutte le donne: denunciare subito, senza esitazioni, ogni atto di violenza subito, anche minimo, perché il più delle volte è solo l’inizio di una escalation. Un banale ceffone, un pugno, uno spintone viene catalogato inizialmente addirittura come “un gesto d’amore”, senza capire che si tratta di una predominanza squisitamente maschilista. Il femminicidio attraversa ogni epoca, ogni cultura, ogni luogo. Come ha sostenuto Bordieu, il dominio maschile sulle donne è la più antica e persistente forma di oppressione esistente. I numeri poi sono impressionanti: negli ultimi anni i casi di femminicidio continuano a crescere in modo abnorme. Basti pensare che nei primi mesi di quest’anno i casi accertati sono ben 74. Sono tanti troppi, impensabili, inconcepibili. Penso sia necessario mettere in campo iniziative che educhino ad un cambiamento culturale affinchè i nostri figli possano trovarsi davanti situazioni in cui un uomo e una donna, pur con le loro naturali specificità, si percepiscano come due persone.

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In ricordo di Rajmonda Zefi

di Manuela Granaiola senatrice PD

Rajmonda Zefi era una giovane donna albanese sposata con un italiano, Francesco Quinci e madre dei loro due figli. La famiglia viveva nella loro casa di Stiava, un paesino della Versilia: terra di lavoro, cultura, turismo, di svago e mondanità. Da qualche tempo la loro relazione era divenuta problematica e per la donna risultava sempre più difficile continuare a vivere con il marito. Il 31 dicembre del 2010, al termine di una ennesima lite, il marito aggredisce barbaramente la moglie e l’uccide. Per giorni Francesco Quinci inscena la scomparsa della moglie, ostenta disperazione ed angoscia per i figli. Viene ripetutamente interrogato; la sua disperazione e le sue diverse versioni non convincono gli inquirenti. Al termine di un ennesimo, lungo interrogatorio l'uomo crolla ed ammette di aver ucciso la moglie dopo una lite e di aver gettato il corpo in un dirupo. Il cadavere di Rajmonda viene rinvenuto dei carabinieri di Viareggio in un bosco presso Stazzema a circa 20 km di distanza dalla propria abitazione. La donna è stata uccisa per strangolamento; il suo corpo è martoriato, sul viso, sul collo e sull'addome porta i segni di un brutale pestaggio. La sentenza del giudice non riconosce l'aggravante della brutalità ed il Quinci “se la cava” con una condanna a soli 18 anni di carcere. “Un omicidio è sempre un atto drammatico e brutale; ma quando è commesso dal marito nei confronti della madre dei propri figli e soprattutto con le modalità che sono emerse dalla narrazione dei fatti mi sembra molto difficile non poter parlare di brutalità”. Così scrissi per solidarietà e con rammarico ai genitori della giovane donna dopo aver conosciuto i termini della condanna. Per chi ha cara la libertà 18 anni da scontare in carcere non sono pochi; ma quello che ferisce è la sentenza che ha esplicitamente escluso l’aggravante della crudeltà. Se non è crudeltà picchiare brutalmente una donna, strozzarla, gettare il corpo in un dirupo, occultarlo sotto il terriccio ed il fogliame ed inscenarne la scomparsa che cosa altro occorre per veder riconosciuto tale aggravante? In Italia ogni anno viene accertato che più di 100 donne sono uccise in quanto donne: perché mogli, amanti, madri, casalinghe o lavoratrici; perché vogliono bene ad un uomo o perché se ne vogliono separare. Ma quanti altri casi di piccole e grandi violenze fisiche o psicologiche subiti dalle donne, perché donne, rimangono negati tra le mura di casa, nei luoghi di lavoro o nelle vie delle nostre città? Si tratta quasi sempre di una violenza vigliacca, egoistica, in parte atavica, emblema di una sottocultura sempre difficile da estirpare. Si tratta della stessa violenza (e profonda grettezza) che anima l’omofobia, che si nutre della paura della diversità ed alimenta il razzismo; violenza, comportamenti e pensieri (spesso nascosti) che trovano ancora troppe complicità – magari inconsapevoli – nei mille rivoli della vita quotidiana.

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Finalmente è stato elaborato un disegno di legge che riconosce, sanziona e contrasta questi comportamenti. Qualcuno afferma ancora che questi elementi di inciviltà non si risolvono “per legge”, oppure che ci sono altre priorità da affrontare. In parte può essere anche vero ma, in buona sostanza, riproporre queste obiezioni è un modo come un altro per non far niente, per continuare a coprire, negare e nascondere. Sono certa che i tempi per una buona legge per la promozione della soggettività femminile e per il contrasto al femminicidio siano maturi ed improrogabili. Una legge che individui il fenomeno in tutta la sua complessità ed in tutte le sue diverse articolazioni, che lo porti alla luce del sole, che lo sanzioni come atto contro la comunità prima ancora che contro le donne e che si proponga di dar vita a percorsi formativi di contrasto, credo sia uno strumento utile e necessario: semplicemente un segno di civiltà.

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Una legge per tutelare i familiari della vittima

di Amalia Schirru deputata PD

Quando si parla di violenza sulle donne, quando si leggono le statistiche, i “casi” sulla stampa, diviene evidente come il fenomeno esuli dalla cronaca e dalla mera episodicità: i dati sono allarmanti e le azioni intraprese paiono non essere mai sufficienti. Occorre perciò intervenire su più fronti, gli strumenti che chiediamo e proponiamo come Gruppo PD sono ben definiti e devono agire in integrazione a quelli legislativi già presenti. La concreta attuazione di un Piano Nazionale Antiviolenza, misure tese a istituire nei servizi ospedalieri di ginecologia e pronto soccorso la corretta accoglienza, l’informazione e sostegno alle vittime, reti di collaborazione tra questura, servizi territoriali sanitari (SERT, igiene mentale), consultori e centri antiviolenza. Affiancati, sempre, a misure più profonde che entrano nel campo della prevenzione e della cultura, della scuola, capaci di modificare gli schemi mentali distorti che ancora esistono nel paese nei confronti delle donne per affermare, invece, i valori fondamentali del rispetto della persona, l’esigenza di riconoscimento negli affetti e nelle relazioni di amicizia e amore. Gli strumenti legislativi esistono, e molti sono noti. La legge sullo stalking del 2010, che ha permesso a molte donne di uscire dal silenzio e trovare protezione, è un esempio. Ma abbiamo anche leggi meno ‘evidenti’, che agiscono quando la tragedia purtroppo si compie e che si occupano di tutelare chi rimane solo a sopportare il carico del dolore. La L. n125/2011 (Esclusione dei familiari superstiti condannati per omicidio del pensionato

o dell'iscritto a un ente di previdenza dal diritto alla pensione di reversibilità o

indiretta) è una di queste. Una norma cresciuta in seno al PD con un consenso bipartisan, scaturita da una proposta di cui sono stata prima firmataria alla Camera (A.C. 3311.), esclude i familiari superstiti condannati per omicidio dal diritto alla pensione di reversibilità, nell'interesse dei familiari, molto spesso i figli, che assistono da vittime a queste sciagure. Una norma che non contempla solo i casi di uxoricidio, ma tutte le ipotesi in cui venga provocata la morte del familiare da parte di chi poi ottiene in via di reversibilità la pensione e che colma un precedente e grave vuoto legislativo in materia. Lo spunto è arrivato dalla vicenda della giovane nuorese Vanessa Mele che ha lottato strenuamente affinché suo padre non potesse più ricevere la pensione della madre, assassinata quando lei era ancora una bambina.

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Di fronte all'uxoricidio, vera e propria frattura della solidarietà familiare, l'omicida non era escluso dal trattamento pensionistico, diritto basato sul medesimo e fondamentale principio, ossia la funzione solidaristica. Per legge infatti al coniuge spetta il 60%, l'80% al coniuge con figli, e al figlio - quasi sempre minorenne o studente - solo il 20%. Situazioni che vedevamo ripetersi da decenni ma di cui si è sempre parlato troppo poco. È indiscutibile che crimini come questi, oltre a rappresentare un reato gravissimo, costituiscano una profonda ferita per l'intera società, in virtù dell'interesse dei figli, i quali subiscono le conseguenze peggiori di tali drammi famigliari, soprattutto in termini psicologici, ritrovandosi all'improvviso doppiamente orfani. Con la legge 125/2011 abbiamo cercato di portare finalmente giustizia, ristabilendo un valore di etica morale indiscusso e interrompendo una situazione insostenibile, contro la quale tutti i percorsi intrapresi dai legali, a tutela dei minori, si erano dovuti interrompere.

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Altre voci

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Dalla Sicilia: una legge per le donne

di Marika Cirone Di Marco dirigente regionale PD

L’ampiezza del fenomeno della violenza di genere e dei femminicidi ha raggiunto livelli di emergenza sociale, che allarmano. Il Paese ne è attraversato in lungo e in largo al punto da imporre alla politica una pronta e approfondita riflessione nel merito. La Sicilia si è dotata in questo 2012 di una legge apposita, che sta andando in progressiva applicazione, ricevendo la massima attenzione dall’associazionismo, dal terzo settore, dagli enti locali. La Legge, come insegna la migliore legislazione che riguarda le donne, è frutto di un lungo lavorio di confronto e mobilitazione, che ha impegnato gruppi di donne impegnate nel vivace associazionismo di scopo, nella politica, nelle istituzioni locali e all‘Assemblea Regionale con la presenza sparuta, ma fondamentale, delle uniche tre deputate. Una cordata femminile ha vinto resistenze e sottovalutazioni, accantonato perplessità, acquisito alleanze, tra cui fondamentali, ma non solo, quelle dei deputati democratici. Il risultato è una buona legge, di cui potremo verificare e apprezzare man mano gli step attuativi, e che comunque sin da ora merita l’appellativo di legge ”buona” perché, prendendo in carico la pesante condizione di vite maltrattate, aggredite nella loro integrità, ci restituisce l’idea di una politica utile. La legge ha un forte impianto partecipativo, che si estrinseca attraverso la previsione di un Forum permanente contro le molestie e la violenza e un Osservatorio di rilevazione sul fenomeno e il suo andamento. Al Forum è affidato il compito di tracciare le linee programmatiche e di indirizzo progettuale, all’Osservatorio la raccolta e l’analisi dei dati. Entrambi i due organismi devono avvalersi della Rete di relazioni istituita con le strutture scolastiche, sanitarie, giudiziarie, religiose, con le organizzazioni sindacali, datoriali, e amministrative, le quali, tutte, vengono investite in modo formale di precise responsabilità da condividere, sottraendole alla tendenza o a far da sé o a non far nulla. Ruolo centrale assumono i Centri Antiviolenza, ai quali vengono affidati compiti precisi con la definizione di standards, cui uniformarsi, e le Case di Accoglienza, previste nel numero di almeno una ogni 200 mila abitanti, certamente una per provincia. Un’attenzione specifica la Legge riserva con l’art. 9 al reinserimento nella vita lavorativa, prevedendo borse di lavoro utilizzabili per un periodo non inferiore a un anno, incentivi alle assunzioni, corsi di formazione professionale. Le esperienze maturate nella regione e raccolte attraverso il prezioso contributo di tante volontarie,

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che negli anni hanno lavorato con dedizione e gratuità nei Centri Antiviolenza di Palermo, Catania, Siracusa, Messina e altri, hanno segnalato che il ritorno alla ”normalità” e il recupero di una dignità calpestata non può prescindere dalla costruzione o ricostruzione di una autonoma prospettiva economica. La compiutezza del disegno legislativo impone un surplus di vigilanza sulla sua attuazione. Sbaglierebbe chi pensasse che il più è fatto. Non è così. Il più è da farsi. Bisogna preoccuparsi che i processi partecipativi, che sono l’ossatura portante della legge, funzionino e siano scevri da condizionamenti, capaci di incrinare la credibilità degli interventi. Bisogna vincere una cultura burocratica impastata di autoreferenzialità. Bisogna favorire e alimentare processi di rete tra le donne, capaci di andare oltre gli attuali steccati politici. Bisogna, soprattutto, dare fiato e gambe all’insieme dei temi che riguardano la cittadinanza di genere, per riallineare il Paese alle più avanzate conquiste europee e a una cultura politica, nella quale donne e uomini possano riconoscersi.

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Dalla Lombardia: quello che le cronache non dicono

di Piera Landoni responsabile Democratiche Area metropolitana di Milano

Con l’approvazione, lo scorso 26 giugno, della legge contro la violenza sulle donne, la regione Lombardia ha colmato un vuoto legislativo e culturale che perdurava da qualche anno, anche alla luce del bollettino di guerra che ogni giorno riporta di donne uccise per mano di uomini che, per senso di possesso e incapacità a reggere il ruolo e la raggiunta libertà delle donne, infieriscono sul loro corpo e finiscono per togliere loro la vita. Anche nella Lombardia “dell’eccellenza”, come nel resto del Paese, almeno una donna su 5 è vittima di violenza, ma meno del 10% di loro trova il coraggio di denunciare. In 9 casi su 10, la violenza si consuma all’interno dei rapporti di coppia o delle mura domestiche. A farsi carico del soccorso, della cura e della tutela psicologica e legale di queste donne e dei loro bambini hanno provveduto per anni le tante volontarie che operano nei centri antiviolenza, nella case delle donne maltrattate, ma ora, a causa dei continui tagli al sistema sociale e agli Enti Locali, i centri rischiano di chiudere. Per questo è necessario che il milione di euro stanziato dalla nuova legge per il 2012 venga immediatamente reso disponibile e finalizzato, oltre che agli interventi antiviolenza, a diffondere una cultura del rispetto delle differenze fin dalla scuola primaria. La legge approvata ha dovuto superare molti ostacoli, anche di carattere ideologico e non avrebbe visto la luce senza la determinazione delle tante donne che hanno condotto una battaglia di civiltà per portare la Lombardia un passo dentro quell’Europa dalla quale dipende il nostro cammino comune. Proprio pochi giorni fa, durante la ventesima sessione del Consiglio delle Nazioni Unite per i diritti umani, Rachida Manjoo, nel suo rapporto sulla situazione italiana, ha definito il nostro “un Paese decisamente troppo malato di patriarcato, dove la violenza domestica non viene sempre percepita come un crimine, tanto che persiste la percezione che le risposte dello stato non siano appropriate e sufficienti a proteggere le donne sopravvissute alla violenza nelle relazioni d’intimità” attribuendo alle nostre stesse istituzioni una precisa responsabilità, non solo nella scarsa efficacia della lotta per la tutela dei diritti fondamentali e della libertà delle donne, ma addirittura nel costituire da freno alla crescita e allo sviluppo del Paese. A tale proposito, non dimentichiamoci che la composizione della Giunta della Regione, considerata la più avanzata del Paese è stata dichiarata più volte illegittima dal

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Consiglio di Stato, in quanto con tre sole donne su 16 assessori viola lo stesso Statuto che il Presidente e la sua assemblea si sono dati e che indica il principio della Democrazia Paritaria come obiettivo primario da realizzare. Ma quello relativo alla sottorappresentanza politica e istituzionale delle donne, sebbene sia il più vistoso, non è il solo dato in controtendenza rispetto al quadro internazionale. Non ci sono donne ai vertici della Magistratura, né donne rettore, direttori di quotidiani, direttori di TG. Persino nel mondo della scuola, dove più dell’80% della forza lavoro è costituita da donne. Il femminicidio, la violenza, sono il fenomeno più vistoso di una cultura di cui è intriso il nostro Paese, segno evidente di un ritardo dovuto all’esclusione delle donne nella costruzione delle decisioni, delle istituzioni, della politica, in definitiva, dello spazio pubblico definito e regolato su pensieri e parametri maschili. Una condizione di arretratezza che non consente più molti spazi di manovra. La crisi dell’economia e della politica ci pone davanti a un crinale: ricostruire uno spazio pubblico condiviso quale punto d’avvio per la democratizzazione e la crescita o limitarsi ad occupare l’angolo privato di una narrazione tutta maschile.

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Dal Lazio: un’associazione forte

di Daniela Valentini consigliera regionale PD

Ho aderito con grande fiducia e passione alla Associazione “LibeRe”, perché ritengo che mai come nella fase che stiamo vivendo l’esigenza di essere e aggregare donne libere, sia più che mai necessaria. Libere e autonome in ogni luogo e ruolo che ricopriamo, dai più umili fino a quelli di potere, o considerati tali. Infatti dobbiamo essere libere a casa, al lavoro, nelle professioni, nella politica e nei partiti, anche nel nostro. Ma per fare, o meglio essere questo, occorre una grande unità delle donne, perché per assumere responsabilità in piena autonomia bisogna essere forti e supportate da tutte le altre. La lotta al femminicidio, quale priorità dell’associazione, mi sembra non solo opportuna, ma urgente, perché è sotto gli occhi di tutti quello che sta accadendo, una vera e propria strage. Occorre una mobilitazione reale che cambi la cultura maschile del possesso, altrimenti anche le conquiste che abbiamo fatto perdono di valore. E a proposito delle conquiste, io sono convinta che nelle sedi decisionali le donne ancora non contano, o comunque contano sempre meno. Nei partiti, nelle Istituzioni, nella politica, l’agenda viene sempre dettata da altri e i nostri problemi non sono mai prioritari. Da questo ne deduco che se formalmente abbiamo acquisito la parità e le pari opportunità, la verità è che nella sostanza i nostri compagni di vita, di lavoro, di partito non sono nostri alleati. In sintesi le conquiste ottenute oggi sono solo formali e non sostanziali. Per concludere, avvicinandosi le elezioni, penso sia importante ampliare lo spazio d’intervento e di dibattito dell’associazione LibeRe anche a Roma e nel Lazio, perché c’è bisogno di un governo e di amministrazioni con una rappresentanza femminile numerosa e qualificata.

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In aiuto dei ragazzi testimoni di violenze

di Maria Rosa Ardizzone docente MIUR

“Siamo una cosa sola tu e io, lo sai? Tu mi ami e io ti amo. Nessuno può dividerci […]sei l’unica persona al mondo che abbia mostrato dell’affetto per me. Lo sai che ho perso mia madre a sette anni. Uccisa da mio padre, lo sai, te l’ho raccontato tante volte. Davanti ai miei occhi […] “ così Dacia Maraini nel suo L’amore rubato, uscito ad agosto, racconta la storia di Marina che aveva la sfortuna di cadere per le scale, come sosteneva il suo uomo, per i frequenti attacchi di epilessia. La cronaca è piena di storie come questa. Una recente ricerca promossa dall’Unesco, ha studiato i danni sui minori che assistono alle violenze verso le loro madri. Si è trattato di uno studio intrapreso dall’UNESCO Chair on Gender Equality and Women's, con sede presso l’University of Cyprus, (http://www.ucy.ac.cy/goto/unesco/en-US/Home.aspx). L’indagine, coordinata in Italia dalla docente Sandra Chistolini dell’Università Roma TRE, ha portato allo scoperto i diversi aspetti del problema, assumendo come dato di partenza gli esiti di un’indagine dell’ISTAT e del Dipartimento per le pari opportunità presso la Presidenza del Consiglio. Il 62% delle donne, vittime di violenza fisica o sessuale, dichiara che i figli hanno assistito alla violenza. Il sondaggio evidenzia la stretta correlazione tra l’essere stato testimone di violenza da bambino e la propensione, da adulto, ad assumere questi stessi comportamenti. Il danno “indiretto” è stato affrontato, partendo dalla prospettiva esperienziale dei figli, attraverso i racconti delle madri. Sono stati studiati gli effetti

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sulla costruzione dell’auto-immagine e della concezione del sé, sulla correlazione tra essere stato spettatore e poi attore, sul rendimento scolastico, sullo screditamento del ruolo educativo della madre.

Gli esiti della ricerca hanno offerto un contributo significativo alla dimensione pedagogica del problema, offrendo riflessioni e materiali a supporto dei genitori e dei docenti. Le donne hanno ritrovato occhi nuovi per “guardare” i propri figli. La ricerca ha tutte le caratteristiche per guidare e supportare il lavoro di molti operatori. I docenti sono tra questi. Quando un insegnante si accorge che un allievo o allieva ha una attenzione molto limitata, è sempre distratta/o, è molto inquieta/o, si isola, non riesce a giocare con i compagni, è aggressiva/a senza ragioni evidenti, ha qualche attacco di panico, si rivolge con aggressività ai compagni, si pone qualche domanda. Va, allora, alla ricerca di luoghi e persone per capire. Il primo contatto viene stabilito con i genitori. L’insuccesso è quasi scontato. La “verità” non viene mai rivelata. È negata, nascosta nel profondo dei cuori, custodita gelosamente da chi subisce violenza, da chi la esercita e da chi ne è spettatore involontario. Ma il docente non getta via subito la spugna. Continua a cercare la “verità”. Entrare in contatto con situazioni così dolorose, procura molta inquietudine. Ma chi riesce a scoprire la “verità”, ad aprire un varco all’interno delle mura domestiche, ha qualche chance in più per cambiare il destino del minore, per convincerlo a intraprendere un percorso di “salvezza”. La sofferenza e la vergogna di chi subisce o assiste ad atti di violenza soffocano il bisogno e il diritto di “verità”. Il 93% delle donne non denuncia la violenza domestica subita dal partner (dati ISTAT). La capacità delle donne di parlare della violenza è minore quando questa è prodotta da un marito o da un convivente (37,9%). L’attenzione per il danno subito dai minori è senza dubbio una strada che può invertire questi dati, rompendo una spirale dalla quale, con il crescere dell’età, è sempre più difficile uscire. Insomma, dobbiamo, come scrive Dacia Maraini affidare al merlo il compito di convincere Ale a denunciare la violenza subita?

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Il femminicidio: l'America Latina terra di lotta

di Francesca Filippi giurista internazionale

Storicamente il termine femminicidio, quale forma estrema di violenza di genere, è stato usato per la prima volta da Diana Russell, nel 1976, nella campagna per la costruzione di un Tribunale Internazionale sui crimini contro le donne, che si concluse a Bruxelles con un convegno per la denuncia di tutte le forme di violenza e discriminazione subite da tutte le donne del mondo. La Russell riprende il concetto da una scrittrice americana Carol Orlock autrice nel 1974 di un'antologia di femminicidi che non ha mai visto pubblicazione. Questo termine, nato così come descritto, si lega ormai culturalmente alla vita e alla storia di un'importante città Ciudad Juarez, in Messico, per i crimini li avvenuti a partire dal 1993. Ciudad Juarez è una realtà ad altissima concentrazione di fabbriche che impiega quasi il 90% di manodopera femminile, in un contesto di forte trasformazione economica e sociale, intensificato dalla firma del Trattato di Libero Commercio del 1994. E' una città di frontiera che vive un traffico di merci e di persone con un connesso sfruttamento feroce del corpo delle donne attraverso la prostituzione. I crimini di Ciudad Juarez, l'uccisione di massa delle donne, sono state il drammatico fattore di spinta per l'ideazione e la costruzione di azioni importanti per tutta l'America Latina, trasformando così la tragedia di Ciudad Juarez, e i crimini sessisti e di genere in essa perpetrati, come realtà non solo messicana ma mondiale, trasversale, un fenomeno del nostro secolo, del nostro mondo.

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In Messico, grazie all'iniziativa delle attiviste, e a tutte quelle del Sudamerica si è avuta la forza di pretendere e ottenere che i governi istituissero strumenti ufficiali per analizzare e verificare l'uccisione delle donne, tenendo presente l'ottica di genere. Ad oggi il Messico è il paese che più è in grado di dimostrare, con dati precisi, l'atrocità del femminicidio. Alcune cifre: tra il 1993 e il 2005, a Ciudad Juarez, sono state assassinate 442 donne, con 4500 desapariciones. Negli altri stati del sud america: in Colombia, gennaio 2002 - giugno 2006, in soli 9 departamentos sono state assassinate 853 donne e 24 sono desaparecidas, in El Salvador, 2001 – 2005, sono state registrate 1186 uccisione di donne. In Argentina, si è dimostrato che il 72% dei casi di omicidio di donne, commessi tra il 1997 e il 2003 sono stati commessi da parenti maschi delle vittime. Sempre in Argentina, nel solo anno 2002 sono stati commessi 393 omicidi di donne, di questi 300 sono femminicidi accertati. In Costa Rica sono state assassinate 315 donne. I Paesi dell'America Latina hanno continuato ad evolversi, introducendo nelle loro legislazioni la figura del femminicidio. E' avvenuto in Costa Rica, in Guatemala e così anche in Messico. In Italia, il dibattito e l'attenzione sul femminicidio è dell'ultima ora, ancora debole l'impegno istituzionale. E' necessario costruire un processo di reale e profonda sensibilizzazione sul tema della tutela dei diritti delle donne sul piano culturale. Il diritto a tutela delle donne evolve su spinta delle donne, dei movimenti femministi e delle organizzazioni internazionali che al loro fianco si muovono e lottano. Le donne vengono uccise in quanto donne. Quest'uccisione di massa, questo genocidio, necessita di una specificità normativa, unica cornice possibile di lotta contro questa tragedia di violazione costante dei diritti. L'impegno istituzionale diventa essenziale per costruire l'argine normativo necessario a fermare il femminicidio, più le istituzioni condannano in maniera chiara e netta questi omicidi, minore ne sarà la diffusione.

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Comunicare la violenza di genere

di Emanuela Borzacchiello e Valeria Galanti dottorande

Il ruolo contraddittorio dei media

Fonti d’informazione, notizie, commenti, si moltiplicano costantemente, eppure non forniscono elementi sufficienti per una rielaborazione critica di fatti, contesti e implicazioni. Per gestire la complessità sociale e politica, il linguaggio dell’informazione si fa superficiale e semplicistico, abusa di sillogismi e stereotipi. Nel caso della violenza di genere, l’informazione contribuisce a normalizzare il fenomeno e deresponsabilizzare individui e collettività, suggerendo moventi “passionali”, raptus, disperazione e disagio. Il discorso dei media contribuisce così all’impunità sociale del fenomeno, fornendo giustificazioni preconfezionate che finiscono per legittimarlo. La violenza di genere non è che cronaca nera, riportata con uno stile più affine al linguaggio delle soap opera che del giornalismo. Eppure in contesti in cui, come in Italia, non esistono dati ufficiali che forniscano le dimensioni e le caratteristiche del fenomeno, i media svolgono almeno il ruolo di segnalare gli abusi, seppur come casi isolati, mai analizzati nella loro continuità e complessità. Allo stesso tempo, la frequenza di notizie di donne assassinate, stuprate o brutalmente maltrattate paradossalmente neutralizza la gravità e la complessità del fenomeno. Si relega la violenza allo spazio privato dell’uomo e della donna che la subisce, ragioni e cause sono da cercare nel loro rapporto, non c’è altro da capire,

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quell’abuso è di per se stesso legittimato. “È importante”, come scrive l’antropologa Lea Melandri, “che si dica che la violabilità del corpo femminile non appartiene all’ordine delle pulsioni «naturali», ai raptus momentanei di follia, o all’arretratezza di costumi «barbari», stranieri, ma che sta dentro la nostra storia”. Mai s’indaga quella che Pierre Bourdieu chiama la violenza simbolica, l’interiorizzazione di modelli che passano attraverso il corpo, il sentire profondo di ogni individuo, la memoria inconsapevole che si sedimenta fin dall’infanzia attraverso i rapporti familiari e sociali. Il corpo non è neutro. Proprio sulla diversità biologica è stato costruito il più duraturo dei rapporti di potere: la divisione dei ruoli sessuali, la subordinazione della donna. I media alimentano le basi sociali e culturali di tale rapporto di dominio presentando immagini di donne con ruoli stereotipati o anche degradanti. Il termine femminicidio, nato dalla collaborazione fra accademia, movimenti di donne ed ong, si fa strada nel linguaggio dell’informazione, seppur con un’accezione incompleta rispetto al concetto che rappresenta. Femminicidio nasce, infatti, non per indicare solo l’uccisione di una donna, ma ogni forma di violenza o minaccia esercitata nei confronti di una donna in quanto donna, in ambito pubblico o privato, che provochi o possa provocare danni o sofferenze, fisici o psicologici. E’ quindi un potente strumento concettuale e d’analisi, per comunicare la violenza e promuovere un cambiamento nell’immaginario collettivo, esplicitando le tensioni distruttive esistenti in contesti in cui l’uguaglianza fra generi è formale più che sostanziale. I media devono essere uno degli agenti del cambiamento, rispetto all’immagine della donna che veicolano e trattando la violenza di genere come un’urgenza sociale, politica e culturale, un’intollerabile aberrazione che impedisce alle donne di godere di quei diritti fondamentali propri di ogni persona come il diritto a una vita libera dalla violenza e il diritto alla non discriminazione. L’Italia può avvalersi degli strumenti indicati da Unione Europea ed istituzioni internazionali per qualificare il ruolo dei media nella lotta contro il femminicidio e le sue cause culturali. La Commissione nazionale per le pari opportunità aveva, ad esempio, assunto come proprio il percorso indicato dalla Conferenza di Pechino del 1995. Gli strumenti esistono, ora bisogna utilizzarli.

La denuncia nel teatro e nell’ arte visiva

Anche l’arte visiva e il teatro possono costituire un potente mezzo per denunciare la forma più estrema di violenza di genere, il femminicidio.

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“Donne di Sabbia” (“Mujeres de Arena”) racconta il femminicidio a Ciudad Juárez, Chihuahua. Un pezzo scritto a più mani, gli autori sono Antonio Cerezo Contreras, Denise Dresser, Malú García Andrade, María Hope, Eugenia Muñoz, Marisela Ortiz e Juan Ríos, mentre Humberto Robles ne ha fatto un’opera di teatro civile. Rappresentata da più di 50 gruppi teatrali nel mondo, in Italia grazie ad un gruppo di donne di Torino. Autori e regista hanno scelto di registrarla con Copyleft, un implicito regalo a tutti coloro che vogliano e possano utilizzarla come strumento di denuncia del fenomeno.

Sin dalle prime battute la forza comunicativa è tesa a collettivizzare l’esperienza della violenza di genere, a spiegare che cos’è il femminicidio, trasportando nel quotidiano di spettatrici e spettatori l’esperienza di un’ingiustizia. Cita statistiche, fondamentali per comunicare la dimensione del fenomeno, ma restituisce un’identità alle vittime, portando in primo piano le loro storie.

Un esempio dal testo:

Quattro attrici e un attore-

musicista, seduti. Cinque

candele accese.

INVITATO: Dal 1993, secondo i

dati riportati, sono più di 901

le donne assassinate (qui il dato

viene costantemente aggiornato) e

più quelle scomparse in

Ciudad Juárez, Chihuahua. Il clima di violenza e impunità

continua a crescere senza che

fino ad ora siano stati presi

dei provvedimenti concreti

per finire con questo “femminicidio”. Erano donne giovani, migranti, impiegate delle fabbriche

di subappalto con manodopera a buon mercato, caratteristiche della zona. Le morte di Juárez

sono più di una statistica. Hanno nomi, facce e storie che il più delle volte non vengono prese

neanche in considerazione.

DONNA 1: E se sua figlia, sua madre o sua sorella sparisse un giorno qualsiasi? E se passassero

settimane, mesi senza che si venga a sapere niente di loro?

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DONNA 2: E se lei si trovasse a dovere sistemare fotografie, descrizioni e petizioni d’aiuto in

luoghi pubblici?

DONNA 3: E se dopo trovassero il suo corpo abbandonato in un terreno abbandonato?

DONNA 4: E se fosse evidente che è stata violenta, morsa fino a strapparle pezzi del suo corpo,

strangolata e mutilata?

DONNA 1: E se l’avessero accoltellata 20 volte? E se le consegnassero i suoi resti in una busta di

plastica?

DONNA 2: E se le autorità non le dessero importanza?

DONNA 3: E se il governo affermasse che non può intervenire perché "è un affare statale?"

DONNA 4: E se, anche raccontando il suo caso centinaia di volte, prevalesse il silenzio?

DONNA 1: Molte domande, poche risposte. Molte morti, pochi colpevoli.

Corpi che parlano, corpi che trasmettono la memoria. Corpi narranti che pongono domande su se stessi, aprendo a riflessioni e nuove prospettive di ricerca. Corpi collettivi che comunicano storie di altre donne. Il corpo si fa opera, materia viva di espressione e comunicazione, anche nel progetto artistico ‘400 Women’ dell’artista britannica Tamsyn Challenger. Per realizzarlo la Challenger ha raccolto 200 foto di donne assassinate o scomparse a Ciudad Juárez, poi ha chiesto ad altrettante artiste internazionali di realizzare per ciascuna un ritratto. Challenger racconta di aver avuto l’idea in Messico, incontrando una madre che distribuiva in strada fotografie di sua figlia di 17 anni, scomparsa nel 2001. L’arte ha sempre costituito un fondamentale strumento di denuncia e critica, una delle leve del cambiamento sociale. Anche in questo caso, nuovi modi di comunicare la violenza di genere su scala internazionale aprono nuove prospettive di conoscenza e comprensione di una delle dimensioni inaccettabili del nostro presente, contribuendo a creare le basi di quel cambiamento sociale e culturale necessario perché i diritti fondamentali siano di ogni persona, non solo diritti dell’uomo.

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Criticità applicative delle norme in materia di violenza alle donne

di Teresa Manente Responsabile Ufficio Legale “Differenza Donna”

L’alto numero di donne uccise dai propri partner ed ex partner impone una riflessione sulle criticità applicative delle norme già esistenti nel nostro ordinamento, dal momento che la maggior parte delle donne uccise avevano in precedenza già denunciato violenze e persecuzioni da parte dell’omicida. Ritengo, in considerazione della mia esperienza come avvocata a difesa delle donne che si rivolgono ai centri antiviolenza, che ciò sia indice di deleterie prassi applicative, di seguito illustrate, che sottendono la sottovalutazione della gravità e della pericolosità di determinati comportamenti, ancora interpretati come manifestazione, seppure maldestra, di attenzione, di amore non compreso dell’uomo nei confronti della donna. Ancora accade che in sede di denuncia le forze dell’ordine tentano di dissuadere le donne dal denunciare il partner, perché padre dei figli, giungendo addirittura ad avvertire il denunciato per tentare una conciliazione. Le forze dell’ordine, inoltre, verbalizzano sommariamente i fatti riferiti, spesso solo relativi all’ultimo episodio a cui segue la richiesta di aiuto senza far emergere l’abitualità della condotta violenta con la conseguente apertura di plurimi procedimenti per reati di competenza del giudice di pace. In caso di intervento a seguito di richiesta di aiuto per maltrattamenti risulta, inoltre, che le forze dell’ordine ignorano la possibilità dell’arresto in flagranza dell’uomo maltrattante e solo raramente redigono una dettagliata relazione sull’intervento

espletato. In materia di atti persecutori, nonostante il riconoscimento della loro rilevanza penale (art. 612 bis c.p.p.), dalla prassi applicativa emerge che, se compiuti da ex partner, sono ancora confusi con forme di corteggiamento o di riconquista della partner. Si rileva inoltre una scarsa applicazione della misura cautelare

specifica del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, così come dell’ordine di allontanamento in caso di maltrattamenti (artt. 282 bis e 282 ter

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c.p.p.): paradossalmente nella prassi prevale l’applicazione della misura della custodia cautelare in carcere, ciò a conferma del fatto che l’intervento di protezione si adotta solo quando la situazione è di tale gravità da richiedere la misura più afflittiva. Si trascura, inoltre, che le donne dopo la denuncia sono esposte a rischio concreto di subire ulteriori e più gravi violenze e minacce da parte del partner, ragione per cui sarebbe auspicabile un maggiore ricorso all’anticipazione dell’esame della persona offesa, resa possibile dall’espressa previsione legislativa dell’incidente probatorio per le p.o. vittime di maltrattamenti. Si segnala sul punto un difetto di coordinamento dell’art. 392 c.p.p. con l’art. 398 comma 5 bis c.p.p. che lascia i minorenni vittime di maltrattamenti privi di modalità protette durante l’esame testimoniale. Ancora assente è la previsione di modalità di audizione protetta per la persona offesa maggiorenne, non tenendo conto del trauma che comporta il dover riferire quanto subito alla presenza dell’imputato. Ultimo punto su cui ritengo opportuno richiamare l’attenzione è la gravità dei danni alla salute che la violenza domestica cagiona alle donne ed ai loro figli costretti ad assistervi. In sede penale è ancora raro ottenere la liquidazione in via definitiva dei danni patiti. Ciò comporta per la donna l’ulteriore costo materiale ed emotivo di iniziare un’azione civile e ciò nonostante l’accertamento in sede penale delle gravi lesioni conseguenti ai maltrattamenti di diritti inviolabili della persona. Si segnala infine l’inefficacia dei meccanismi risarcitori attualmente esistenti: anche in caso di determinazione dei danni cagionati, infatti raramente le donne riescono ad ottenere materialmente il quantum stabilito dall’autorità giudiziaria.

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L’incredulità e la negazione della violenza

di Silvana Claudia Mara psicoterapeuta

Il significato che porta in sé l’espressione “pedagogia nera”, è a mio parere illuminante per le situazioni su cui ci imbattiamo tutti giorni. Qualche anno fa mi ero imbattuta nella storia di una paziente che portava con sé problematiche molto gravi. Già nella fase preliminare di raccolta anamnestica si aprì in uno sfogo inarrestabile nel quale ripercorreva la sua storia di maltrattamenti e abusi sessuali subiti fin dall’infanzia. Durante la sua psicoterapia iniziò in lei un cambiamento della sua vita che fino a quel momento ancora la vedeva legata al marito maltrattante, riuscendo dunque pian piano anche a far fronte alle sue fobie. E’ utile notare come uno dei fattori che maggiormente aiutarono la paziente in questo percorso fu la presenza nel gruppo di una donna, madre di una bambina abusata dal marito: questa donna, con cui la paziente aveva cercato di confrontarsi. Tutto questo aveva creato alla paziente una notevole sofferenza dal momento che ella aveva potuto riconoscere nella madre che aveva abbandonato il gruppo lo stesso atteggiamento della propria madre, che non aveva visto e non aveva creduto all’abuso da lei patito.

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Il rapporto con questa paziente diede una svolta, anche nel modo di pormi rispetto ad aspetti tecnici quali ad esempio la neutralità del terapeuta. Questi concetti, spiega la Miller, sono profondamente radicati in noi: non solo l’ideale di neutralità del terapeuta, ma anche il concetto di fantasia inconscia, su cui lo stesso Freud impostò gran parte del suo edificio teorico a partire dal presupposto che la fantasia sessuale superasse la realtà dei fatti veramente accaduti. Le conseguenze di questo aspetto, cioè che la fantasia sessuale distorce la realtà dei fatti veramente accaduti, vengono descritte in modo chiaro nel passaggio in cui la Miller, raccontando di Virginia Woolf, riferisce di quanto ella si sentisse intrappolata in una teoria che non teneva conto della veracità della sua storia,al punto da non crederci neppure lei stessa. “Louise De Salvo racconta che Virginia Woolf, dopo aver letto le opere di Freud, cominciò a dubitare dell’autenticità dei propri ricordi, sebbene sapesse anche dalla sorella Vanessa che lei pure era stata violentata dai fratellastri.” Oggi come allora sembra più facile negare l’evidenza delle esperienze sessuali traumatiche piuttosto che andare contro un’ideologia comune secondo la quale l’uomo abusante non può certo venire riconosciuto tra coloro che rivestono un ruolo di rilievo nella società. Sicuramente in questi contesti è più facile identificarsi con la figura maschile che esercita un potere e ritenere a priori disturbata o bugiarda la donna piuttosto che prendere in considerazione la sua voce, come è avvenuto per il caso di Dora(una tra le pazienti isteriche di Freud), il cui padre veniva rappresentato come un uomo di una certa rilevanza sociale, molto ben accetto in ambienti altolocati. Ma forse per Freud è possibile rintracciare una parziale giustificazione, all’epoca non vi erano ancora le condizioni per poter approfondire le conoscenze e il trattamento del trauma. Ma ora certamente è venuto il tempo di cominciare a dare credito a cosa ci stanno chiedendo le nostre pazienti e i nostri pazienti, accettando di mettere in discussione i nostri pregiudizi. Come nel caso sopra illustrato e in altri in cui sono stata coinvolta, penso, che non si possano negare gli aspetti che portano sofferenza, cercando di capire, sviscerando le cause del male, perché comunque un danno è stato arrecato a qualcuno ed è sicuramente da lì che bisogna partire, cioè da una relazione diversa che possiamo instaurare con i nostri pazienti in quanto “testimoni consapevoli”. Costoro necessitano di qualcuno che li prenda sul serio, di una persona cui potersi affidare.

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Femminicidio, potere, cittadinanza.

Per una “rivoluzione archetipale”

di Alessandra Navarri presidente associazione “Antigone”

“On ne nait pas femme. On le devient”. Non si nasce donne lo si diventa, scriveva Simon De Beauvoir. L’essere uomo e l’essere donna sono il prodotto di un lungo processo storico, attraverso diverse culture e società, che diversamente hanno definito il maschile e il femminile, creando identità collettive ed individuali. Ed anche le disuguaglianze, la negazione dei diritti che storicamente hanno subito le donne. In questo senso l’Occidente ha un conto ancora aperto e mai saldato con se stesso. Attraverso le categorie del pensiero costruisce l’essere e il dover essere e attraverso queste due categorie fondamentali costruisce la politica, l’economia, la morale, la religione, la scienza, il diritto in sintesi la propria Weltanschauung, su cui costruisce poi l’organizzazione della società e dunque l’essere uomini e l’essere donna; il loro abitare il mondo e per questa via la loro cittadinanza. Ma soprattutto definisce la natura fondamentale del loro rapporto che è e resta storicamente un rapporto di potere. Il femminicidio nasce da questo atto fondamentale di come viene originariamente pensato il mondo. Nasce e si disloca nella storia come atto di affermazione del potere: il potere della negazione, assoluta quando si arriva a togliere una vita. “Definitions of

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femicide. The category “femicide” encompasses the relationship between the murdered

woman and her murderer, the differential status of power between them, and the

context of and motives for the crime as key factors for identifying it as such...” Così definisce il femminicidio Soledad Rojas Bravo nel suo intervento alla Conferenza“Strengthening Understanding of Femicide” tenutasi a Washington nell’Aprile del 2008. Un rapporto di potere. Ma quante forme di femminicidio si consumano e si sono consumate? Forme magari sottili, quotidiane, silenziose che maturano prima all’interno delle coscienze legittimate dalla certezza di verità di quelle categorie che hanno costruito il nostro mondo e la nostra storia? Accanto alla doverosa e necessaria battaglia giuridica, occorre quella che io definisco la battaglia per la “rivoluzione archetipale” per intervenire su quei meccanismi che non sono innati ma che si costruiscono attraverso la vita vera, vissuta quotidianamente, attraverso i comportamenti, le dinamiche silenziose. Meccanismi che per queste vie, vengono introiettati e riprodotti. Quasi fossero “normali”. Bisogna quindi fare anche un lavoro di messa in memoria e di ricostruzione, la più ampia possibile, del dipanarsi di questo rapporto di potere uomo-donna e del dipanarsi delle dinamiche che hanno prodotto una “condizione femminile”. Nel mondo. Come modalità fondante e socialmente condizionante di abitarlo. Per non cadere nell’illusione ottica per cui i diritti formalmente acquisiti in anni di battaglie, si siano tradotti in un’effettiva e reale modalità di esistenza e di possibilità pratiche anche quotidiane. Perché è proprio il tema della violenza contro le donne a dirci che non è così. Occorre verificare e verificare quanto è effettivo ed efficace il rapporto tra le politiche e le pratiche femminili e l’accesso delle donne alla sfera dei diritti e della cittadinanza. In definitiva, la storia quale quadro ci consegna? Archetipo, potere, cittadinanza. La sfida è tutta chiusa in questa dinamica. E’ l’invito a compiere un lavoro collaterale, di indagine, di supporto, di ricostruzione, di studio, di modifica. E poi c’è la solitudine della donna nel subire ogni forma di femminicidio. E’ un tema che preme e che deve essere affrontato seppur imbarazzante e per certi versi estremamente ingombrante. Ci sono forme di femminicidio da parte delle donne? In definitiva qual è il rapporto delle donne con il potere stesso e qual è il rapporto di potere fra donne? Perché anche questo deve essere sapientemente indagato nell’affrontare una “rivoluzione archetipale”.

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Le violenze domestiche ne “L’amore rubato” di Dacia Maraini

di Elisabetta Bolondi recensora1

Con la penna della grande scrittrice, nel libro pubblicato ad agosto 2012 per Rizzoli, dal titolo "L’amore rubato", Dacia Maraini si misura con un problema sociale di attualità e troppo spesso sottaciuto: le violenze domestiche sulle donne, dalle molestie ad episodi sempre più gravi e drammatici, il ferimento e la morte di compagne, mogli, amanti sempre amatissime da uomini malati, violenti, repressi, talvolta inconsapevoli, carnefici ai quali queste donne si legano, credendo che credono di poterli salvare e redimere anche contro ogni evidenza. Il femminicidio è una realtà alla quale non sembra che l’opinione pubblica, anche femminile, comprenda l’estrema drammaticità. Un recente ciclo televisivo, ricordo in particolare un bel film di Liliana Cavani, ha appena cercato di ovviare a questa lacuna informativa, ma, leggendo il libro della Maraini, si capisce che è stato fatto troppo poco e male, visto che anche i parenti, i medici, gli psicologi, gli assistenti sociali, i presidi che si trovano ad interagire con situazioni estreme di palese violenza appaiono distratti, increduli, incapaci di mettere insieme dati allarmanti e spesso solo quando la tragedia è stata consumata vanno a ritroso e capiscono di non aver saputo comprendere segni inequivocabili e segnali muti da parte di donne torturate, umiliate, prigioniere di sindromi di masochismo che sono una vera e propria malattia da curare. Marina, Angela, Anna, Franci, Carmelina, Giusi e Rosaria, Venezia, Giorgia, Ale sono

donne e bambine, adolescenti e mature, vittime di stupri e torture, incubi e violenze, fisiche e morali che la Maraini ci sa raccontare senza enfasi o tanto meno retorica, ma

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con la consapevolezza che una testimonianza del genere non può non coinvolgere donne e uomini indifferenti. Terribili, infatti, anche i ritratti degli uomini che si rendono protagonisti di simili efferatezze: c’è il bel marito della diciassettenne Marina, segregata in casa e selvaggiamente percossa, che riesce con il suo sguardo affettuoso e il bell’aspetto a rassicurare l’assistente sociale venuta a casa, su segnalazione della polizia, perché sua moglie si è ripetutamente presentata al pronto soccorso dolorante e ferita ma decisa a non denunciare l’uomo, di cui crede di essere innamorata. E ancora i genitori della piccola e desiderata Venezia, una bambina trasformata in una divetta della moda da un padre padrone incosciente, fotografata e pagata a soli nove anni come un’adulta, che sparisce da casa, vittima di un bruto che la tiene prigioniera a lungo per poi ucciderla e seppellirla in giardino. Il racconto più atroce è l’ultimo degli otto che compongono il libro, dal titolo “Anna e il Moro”. Il narratore è il padre dell’aspirante attrice Anna, che si innamora di un cantante di successo, più vecchio di venti anni, col quale va a vivere, malgrado il dissenso del padre, che nutre per l’uomo un’istintiva repulsione. La storia ha una fine tragica, come si può immaginare, ma la cosa interessante è l’analisi a posteriori che compie il padre della vittima: come non capire, come non denunciare, come non sottrarre una giovane donna ad un carnefice i cui gesti appaiono inequivocabili, denunciati e sottolineati anche dallo psichiatra interpellato? La scrittrice sembra voler denunciare l’inerzia causata spesso dalla paura di interferire, di entrare nelle vite altrui che il culto di una privacy spesso sopravvalutata hanno trasmesso attraverso i media. La conseguenza è la solitudine di troppe donne, consapevoli, colte, evolute, che una volta prigioniere di uomini amati ma violenti non riescono a sottrarsi alla brutalità che deriva spesso da turbe psichiatriche mai ammesse né denunciate. Tutte le donne e anche moltissimi uomini dovrebbero leggere questo libro per affrontare con coraggio mali profondi che serpeggiano in troppi ambiti famigliari a noi vicini, per riconoscerli ed affrontarli prima che sia troppo tardi.

(1) http://www.sololibri.net

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Altre battaglie

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Vivisezione: no grazie.

di Silvana Amati senatrice PD

In questi ultimi mesi sembra si sia squarciato il velo di disinformazione e quindi di disinteresse che ha fin d'ora coperto gli orrori della vivisezione. Sempre più persone stanno gridando la loro indignazione e ormai è chiaro che la stragrande maggioranza degli italiani è fortemente ostile all'uso degli animali in ambito sperimentale. Il 2012 è peraltro un anno decisivo perché il cambiamento culturale, così evidente, si concretizzi in ambito legislativo. Infatti dopo l'arresto immotivato dell'iter in Commissione Sanità al Senato di diversi Disegni di Legge che proponevano organici passi in avanti nella limitazione della sperimentazione animale, oggi si sta cogliendo il percorso del recepimento della nuova direttiva europea 2010/63 UE all'interno della legge Comunitaria 2011. Mi riferisco all'art. 14 della norma, così come già approvato alla Camera dei deputati con il voto della stragrande maggioranza dei colleghi e con una positiva valutazione sia del Ministro per le Politiche Europee Moavero che del Ministro alla Salute Balduzzi. Non è l'esclusione di ogni pratica vivisettoria, ma un passo avanti netto, nella riduzione al ricorso al modello animale. Viene finalmente esclusa del tutto la sperimentazione senza anestesia. Finalmente chiusi gli allevamenti della morte. Mi riferisco ai luoghi come Green Hill, dove i cani sono allevati appunto per la vivisezione. Green Hill si è dimostrato poi essere un lager vero, come testimonia il recente sequestro della struttura operato dalle autorità competenti. Abbiamo letto che a Green Hill sono stati ritrovati molti cani non cippati, numerose carcasse di animali morti anch'essi non cippati, e beagle con le corde vocali tagliate. Voglio richiamare l'attenzione proprio sull'orrore che suscita in particolare quest'ultima pratica. E' evidente che il taglio delle corde vocali serve a far sì che i lamenti degli animali "usati" non possano disturbare i vivisettori all'opera. E' altrettanto evidente che nessuna ricerca scientifica può essere considerata degna se basata sulla totale mancanza di rispetto delle sofferenze degli animali utilizzati. Con questa consapevolezza lavoro con determinazione perché venga finalmente approvato l'articolo 14 della Legge Comunitaria, perché così finalmente si chiuda in Italia la possibilità di allevare animali a scopo vivisettorio incentivando così lo studio di metodi alternativi per la ricerca. L'intenzione è quella di ridurre al massimo i casi in cui gli esseri senzienti continuino ad essere considerati "res", oggetti di utilità pubblica, spesso come tali perfino maltrattati.

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E' vero che esistono norme precise contro i maltrattamenti animali, ma è altrettanto vero che quando si considera legittima una pratica il limite delle azioni da compiere diventa più labile e comunque soggetto alla cultura e alla sensibilità delle persone coinvolte. La violenza infatti può nascondersi nei volti di attori diversi. Gli animali, come a volte succede anche per le donne e gli uomini, troppo spesso risultano essere vittime innocenti di chi non crede affatto di essere carnefice, ma lo è.

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Le lacrime di coccodrillo di Valérie Trierweiler

di Maria Rita Parsi presidente Fondazione Movimento Bambino

Nel numero zero dei Quaderni di Libere si parlava della gaffe di Valérie Trierweiler. Sono arrivate troppo tardi le scuse dell’attuale compagna attuale del Presidente Francese Holland. Sono, infatti, “lacrime di coccodrillo”, incapaci di sanare un danno che la “premier gaffe” francese, come l’hanno ribattezzata nel suo Paese, ha già fatto a se stessa, al Presidente Holland e, soprattutto, alla sua ex moglie Ségolène Royal, madre dei quattro figli di Holland. Che le donne, come Valérie, giunte al potere “per interposta persona”, si possano permettere di usarlo per aggredire un’altra donna, Ségolène Royal, forte, agguerrita, lottatrice, madre e, al contempo, impegnata nella lotta politica in modo costante, dignitoso, grintoso, rappresenta un’espressione di quella misoginia al femminile della quale molte donne di valore sono vittime. Misoginia che impedisce alle migliori di emergere senza suscitare l’astio, la negazione quando non la derisione, di quelle che le invidiano. Le donne contro le donne è un tale disvalore da essere alla base delle tante situazioni di disagio ed emarginazione che, sia nelle condizioni di notorietà, fama, esercizio del potere sia in quella assolutamente modesta del vivere quotidiano, patiscono le donne. Le donne non fanno lega tra loro a differenza di come recita una famosissima canzone popolare: “E se ben che siamo donne / paura non abbiamo/. E se ben che siamo donne/ in lega ci mettiamo!”. Naturalmente, niente a che vedere con la Lega partito ma tutto a che vedere con l’unione, il rispetto, la solidarietà, la spinta positiva che le donne debbono a ciascuna delle altre donne. Essere dalla parte delle donne essendo donna è, purtroppo da molte, un valore non riconosciuto. E tale assenza non consente di tutelare le più fragili e di sostenere quelle che al Governo o nelle realtà istituzionali, possono favorire la tutela della Cultura delle donne, della Cultura dell’ Infanzia che, dalla Cultura delle donne e dai movimenti di emancipazione e di liberazione femminili, ha preso il via e la vita. E gioca, invece, a favore di un vuoto di “donne in piedi” e non più “in ginocchio” che bisogna al più presto riempire perchè il mondo possa cambiare alle radici. Così, Valérie non è né perdonabile poiché mostra di sostenere una divisione tra donne che giova ad “un potere negativo” al maschile così come lo individua e lo definisce il Prof. Fabrizio Di Giulio nel suo libro “Nell’Oceano dell’anima” di prossima pubblicazione. E, comunque, in ritardo sono arrivate le bacchettate di Holland alla compagna. Ritardo sospetto se si pensa che arriva ben dopo il danno, umano e politico, fatto alla sua ex moglie. In Finlandia non sarebbe potuto accadere perché, come scrive Salvatore Giannella nel suo libro: “Voglia di cambiare” (Chiarelettere 2008) in quel paese, a livello sociale e governativo, sono le donne con la loro presenza ad aver fatto cambiare il governo: l’impegno, gli investimenti, la tutela dei bambini e delle donne, la Sanità, la Scuola.

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Le patologie alimentari, plurale femminile

di Luisa Peris direttrice Centro formazione, ricerca, educazione al gusto

Ho iniziato ad occuparmi di alimentazione e del rapporto che le nuove generazioni hanno con il cibo, circa venti anni fa, spinta dal desiderio e dalla necessità di capire perché i miei piccoli alunni rifiutassero alcuni cibi durante la mensa scolastica. Le esortazioni ad assaggiare “almeno un boccone” o il farli riflettere sul fatto che mentre loro rifiutavano il cibo altri non avevano nulla da mangiare non ottenevano nessun esito! Ricordo una mia collega che spesso a mensa, davanti ai piatti rimasti pieni, assumeva una faccia seria, un’espressione fra il disgusto e la deplorazione, e guardando i bambini e i loro piatti, muoveva ritmicamente la testa in segno di disapprovazione e con voce solenne diceva: “Vergogna! Pensate a quanti bambini muoiono di fame, anche in questo momento, e voi invece buttate il mangiare; è davvero un’ingiustizia!”.

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Il risultato era sempre un grande silenzio, pochi minuti in cui i visi dei miei piccoli alunni si oscuravano, sentendosi in colpa, ma i loro stomaci rimanevano chiusi! Un giorno fu un bambino che con molta semplicità ruppe il silenzio dicendo: “Maestra ma perché non impacchettiamo bene il mangiare che avanza e lo mandiamo a quei bambini che muoiono di fame?”. La tensione si allentò, ci furono due reazioni, una di condivisione e di apprezzamento della proposta da parte dei compagni, l’altra di ilarità da parte degli adulti presenti. A quel punto capii che non esistevano scorciatoie. Se volevo aiutare i miei alunni dovevamo insieme iniziare un viaggio che ci portasse a capire i loro rifiuti le loro preferenze e ci introducesse in modo piacevole e consapevole nel magico e ricco mondo del cibo, della sua produzione, della preparazione e del suo consumo. Molti sono stati i risultati di questo viaggio, tra questi: dodicimila insegnanti formati in Italia; trecento a Tokio; la creazione di un Centro di formazione, sperimentazione, ricerca, di Educazione alimentare sensoriale e del gusto, accreditato dal MIUR. Fra i compagni di viaggio molti gli uomini e tantissime le donne, impegnati a garantire la giustizia, l’equità e la qualità del cibo, la difesa del suolo e dell’acqua. Diceva Virginia Wolf:” Un uomo non può pensare bene, amare bene, dormire bene se non ha mangiato bene”. Il cibo si trova al centro di relazioni e comunicazioni affettive che ci accompagnano per tutta la vita. Ma parlare di benessere legato all’alimentazione, di piacere del cibo significa riflettere con una attenzione nuova ai fattori emotivi e relazionali che influiscono sui comportamenti alimentari. I dati sugli stili di vita alimentari delle famiglie in nostro possesso, i quesiti e le inquietudini nei confronti del cibo da parte dei docenti, sono una testimonianza della difficoltà degli adulti nell’insegnare ai figli e agli alunni a gestire i bisogni legati al cibo. Le patologie alimentari sono in aumento e su dieci ammalati nove sono donne. Se molto è stato fatto molto ancora rimane da fare, tenendo presente i complessi valori culturali che influiscono sul nostro rapporto con il cibo ai quali si assommano le consuetudini della propria famiglia d’origine e la carica emotiva che ne deriva. In questo contesto la scuola può giocare un ruolo importante, aiutando i genitori a prendere consapevolezza dell’importanza e delle valenze del cibo per il proprio benessere e per quello dei loro figli. Inoltre, in sinergia con le Amministrazioni Pubbliche locali, intervenendo sulla ristorazione scolastica e sulla sua qualità si può offrire un contesto educativo unico dove la convivialità, la consapevolezza del cibo, la territorialità, la tipicità, trovano un loro significato e diventano anche volano importante per lo sviluppo di una micro economia locale, come abbiamo potuto constatare in alcuni progetti che come Centro stiamo realizzando in Toscana da alcuni anni.

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Riforma degli Ordini professionali: rinnovamento reale?

di Paola Rossi assistente sociale specialista

Di Ordini professionali si parla molto in questi ultimi tempi e spesso per additarli come causa di gravi patologie che impediscono lo sviluppo della società: dalla difficoltà di accesso al lavoro dei giovani e del loro sfruttamento negli studi professionali, ai guadagni enormi di professioni privilegiate, dalle esose parcelle delle evasioni, alla capacità di influenzare il Parlamento, inducendo in ogni provvedimento norme che li favoriscano e ne promuovano i privilegi e gli interessi. Si è varata una legge che introduce qualche modifica soprattutto liberalizzando le parcelle e garantendo una maggior democraticità della vita degli Ordini e della loro capacità di amministrare la giustizia domestica, attraverso il controllo di condotte e prestazioni professionali conformi alla deontologia. Non poca cosa, certo, ma sicuramente misure che il cittadino non apprezzerà fino in fondo e tanto meno sono apprezzate da coloro che avrebbero voluto tout court l’abolizione degli ordini. L’aspetto più positivo della legge varata risiede a mio avviso nell’obbligo della formazione permanente che gli Ordini devono organizzare e sostenere, certificare.

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Sono stata promotrice della nascita dell’Ordine degli assistenti sociali, che ho governato per nove anni, dandogli una struttura organizzativa, ma soprattutto una vita democratica e partecipata tra organi centrali e periferici, varando da subito un codice deontologico che ha costituito un punto di riferimento per altre professioni in via di rinnovamento, per cui mi sento in obbligo di riferire alcuni aspetti di un’esperienza che mi ha molto coinvolta. Per comprendere la funzione e la collocazione della professione il riferimento più appropriato mi sembra quello della professione medica; per ambedue, infatti, esiste una doppia committenza, nelle pubbliche istituzioni e nel privato cittadino, e una convergenza nella tutela della salute pubblica. Le relazioni professionali non hanno strumenti di verifica se non il codice deontologico sulla cui osservanza vegliano gli Ordini professionali che possono comminare al professionista sanzioni più o meno gravi, fino alla cancellazione dall’albo. Oggi interviene sempre più spesso la magistratura, in assenza di un impegno adeguato di molti ordini sul fronte della tutela del cittadino: si tende a trasferire sul piano giudiziario ciò che dovrebbe costituire argomento di consapevolizzazione, responsabilità collettiva e crescita etica delle professioni. Nel momento in cui ho assunto la presidenza del Consiglio del mio Ordine, sono andata alla ricerca di strumenti di miglior conoscenza e orientamento per esercitare al meglio la mia funzione. I classici della materia, Weber e Adam Smith, non mi offrivano spazi utili per affrontare il mio specifico problema. Spazi che invece mi ha offerto Eliot Freidson, con la sua teoria del professionalismo. Contro la logica del mercato e della managerialità burocratica, ambedue sicuramente estranei alla professione, la valorizzazione dell’etica e dell’autonomia etica della professione, mi sono sembrate e mi sembrano un fondamentale punto di riferimento, una chiave di lettura valida. Si adattano perfettamente a una professione che nel suo dna ha la lettura complessa e prospettica, politica, dei problemi sociali e tende ad esplorarne e affrontarne le cause in termini di sistema; che sa di dover rispondere alla persona e al gruppo sociale di cui si occupa, ma anche alle istituzioni che la chiamano a risolvere situazioni particolarmente problematiche, alla società nel suo complesso, perché appunto di problemi sociali si occupa e non può ricondurre tutto all’individuo. Certamente le tendenze degli Ordini a costituirsi in lobbies e svolgere prevalentemente funzione di difesa degli iscritti sono all’origine di molte critiche, ma questo si lega a un generale decadimento dell’etica pubblica e va recuperato anche in termini di democrazia e ricambio interno di questi organi e di partecipazione degli iscritti alla vita degli Ordini.

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Riscriviamo la legge 40

di Daniela Sbrollini deputata PD

La recente sentenza della Corte europea dei diritti umani, che boccia la legge 40 nella misura in cui vieta la diagnosi pre-impianto, riaccende il dibattito sul tema eticamente sensibile della fecondazione medicalmente assistita. L’occasione è stata creata da Rosetta Costa e Walter Pavan, coppia fertile ma portatrice sana di fibrosi cistica, cui è stata negata la possibilità di accedere alla diagnosi pre-impianto che avrebbe permesso loro di verificare anticipatamente che gli embrioni destinati ad essere impiantati nell’utero non fossero affetti dalla malattia. I due hanno presentato ricorso alla Corte di Strasburgo, la quale ha sancito che, così com'è formulata, la legge 40 viola il diritto al rispetto della vita privata e familiare della coppia e cade nell'incoerenza, poiché se da una parte nega ai richiedenti la possibilità di diagnosi genetica pre-impianto, permette agli stessi di scegliere l’interruzione di gravidanza nel caso in cui il feto risulti affetto dalla stessa malattia.

Una lettura responsabile della questione, impone una riflessione tempestiva, seria e democratica, che metta un freno all’intollerabile ingerenza della Chiesa senza inciampare nel cliché di una guerra tra credenti e non. Quando i valori in gioco sono la

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libertà di scelta e il rispetto della vita privata e familiare in un paese laico quale è l’Italia, il terreno è, e deve rimanere, quello dei diritti, fondati su importanti strumenti fra cui la nostra Carta Costituzionale e la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. La difficile materia ora trattata in modo inadeguato dalla legge 40, deve essere regolamentata in modo da fornire strumenti che permettano ai cittadini una scelta informata in linea con la morale civile e religiosa di ognuno, nel pieno rispetto della pluralità. L’intervento di un governo tecnico che, tramite il Ministro della Salute Balduzzi, ha annunciato di essere orientato al ricorso contro la sentenza della Corte EDU per un chiarimento giurisprudenziale, appare del tutto fuori luogo. In quanto tecnico, il governo dovrebbe evitare di intervenire su una materia importante ed eticamente sensibile come questa, e impegnarsi, invece, a rispettare una sentenza che dà ragione a tante famiglie e a noi donne, che abbiamo arduamente combattuto perché il referendum abolisse la legge 40. Un atto responsabile è quello di dare valore all’Europa, non solo in riferimento a questioni di carattere economico e commerciale, ma guardando anche al tema dei diritti. Appoggiare la sentenza della Corte, significa intraprendere un percorso di educazione culturale finalizzato a valorizzare la legittimità degli strumenti internazionali che tutelano i diritti dell’uomo. Oggi il diritto non è più frutto del solo approccio nazionale, ma si plasma attraverso il contributo di una pluralità di orientamenti giuridici: l’Europa viene ad essere, così, una terra di scambio e confronto, punto di riferimento sempre più forte e riconosciuto, fonte di arricchimento culturale e normativo, nonché avamposto privilegiato da cui dare il via ad una riflessione seria finalizzata all’abolizione della legge 40, crudele e offensiva, per la produzione di una nuova legislazione che liberi l’Italia dall’oscurantismo che la caratterizza.

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Il welfare al femminile

di Maria Grazia Serpa consulente per il diritto allo studio

Andiamo a Roma (..ma potete scegliere anche un'altra città) tra le 16 e le 16 e 30 davanti ad un Asilo Nido o una Scuola dell'Infanzia, e osservate chi si occupa dei bambini dentro e fuori: le donne. Prima siete andate all'uscita della Scuola Elementare e/o Scuola Media in orario diverso, perchè il tempo pieno non c'è più e le Scuole si arrangiano come possono per assicurare un orario lungo, spesso a pagamento. Trovate sempre, affannate, mamme e nonne oppure donne straniere. Uomini pochi, alcuni nonni. E pensavate che il mondo fosse cambiato, certo in peggio. Le donne, le più fortunate, lavorano ma l'aggravio delle responsabilità giornaliere è pesante. Spesso, se non hanno una famiglia loro pensano ai genitori anziani, se sono separate o divorziate, per la maggior parte, l'impegno della crescita ed educazione dei figli è loro. Servizi giornalistici sul dramma dei padri separati e dell'assegnazione dei figli e del loro stato finanziario corroso dalle richieste delle madri affidatarie, hanno fatto molto successo ed audience. Ma l'altra parte di quel mondo? Quali sono i numeri, le percentuali di donne in disagio economico e sociale per lo stato di capofamiglia. Abbiamo sì i numeri, ma dei delitti contro madri e compagne che si sono permesse di rompere il legame familiare.

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L'impegno in politica e nelle Amministrazioni Locali a fornire servizi a protezione di categorie sociali deboli, è andata di anno in anno diminuendo con gravi responsabilità. L'impegno ad operare in modo costruttivo sul territorio, da parte degli Enti Locali, si era reso visibile dal 1993, anno dell'elezione diretta del Sindaco e del Presidente della Provincia e nel 2000 del Presidente della Regione Lazio. I risultati positivi erano le risposte date alle esigenze evidenziate dai cittadini. Tra le prime la richiesta di una Scuola efficiente, dalle strutture d'accoglienza all'organizzazione educativa, a cominciare dall'Infanzia per tutto l'arco dell'obbligo. Oggi la scure dei tagli per l'adeguamento di spesa è, sicuramente pesante, ma questo non può giustificare la superficialità e l'inefficienza nell'applicazione di Leggi, come la Regionale n. 29 del 1992, che stabilisce le norme per l'attuazione al Diritto allo Studio. Una buona Legge affermata sul territorio del Comune di Roma ed attuata nel tempo con modifiche ed adeguamenti in itinere. Gli obiettivi stabiliti dalla Legge sono stati, in questi ultimi anni, svuotati di contenuto, senza che questa azione abbia avuto visibilità per la ricaduta negativa soprattutto e non solo sulle famiglie con bambini e ragazzi disabili o/e in gravi situazioni sociali su territori cosiddetti" a rischio”. L'abbandono scolastico, nella fascia dell'obbligo, è una delle maggiori piaghe della nostra scuola e della Società in generale, perchè la ricaduta è, appunto, drammatica. L'abbassamento dei livelli d'istruzione, maschile e femminile, porta disgregazione sociale, disoccupazione, rabbia violenta di chi vede la compagine sociale nemica. Nel lavoro per l'applicazione della Legge 29/92 negli scorsi anni il Dipartimento per le politiche educative del Comune di Roma, ha continuato la fruttuosa collaborazione delle ASL, nelle persone di medici, psicologi, assistenti sociali, soprattutto a sostegno delle madri di bambini disabili o con gravi problemi psicologici. Attualmente, per quanto riguarda l'infanzia, completamente inadeguata è la rete delle Scuole Materne Comunali e Statali, tanto che centinaia di bambini ne sono rimasti fuori. Migliore la capienza dei nidi per l'adeguamento alle esigenze, avvenuto negli anni passati. Nei Municipi sarebbe necessario attuare una proiezione di continuità tra Nidi ed Infanzia, perchè mai come oggi è necessario un piano educativo di prevenzione. "Trasformare i sudditi in cittadini è un miracolo che solo la scuola può compiere "Piero Calamandrei.

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Note a piè di pagina

Meglio di niente

Mentre in Europa si discute sulla volontà della commissaria alla Giustizia Viviane Reding di introdurre quote di genere del 40% nelle società quotate e pubbliche di tutto il Continente, con la Gran Bretagna alla testa dei contrari, in Italia si vedono i primi effetti della legge 120 che ha introdotto in Italia le quote di genere nei consigli di amministrazione e nei collegi sindacali (da un quinto a un terzo gradualmente). Nelle società che compongono l'intero listino di Borsa è stata superata la barriera del 10%. Eravamo sotto al 7. Anche se la normativa è diventata operativa soltanto lo scorso 12 agosto, le aziende si sono mosse in anticipo.

Cosi’ diverse, così uguali

Analizzando quella che è stata definita la Spoon River delle donne, a guardare bene le vittime di femminicidio, a riconoscere ogni singola storia, si scopre quanto fossero diverse tra loro le donne che ne sono state vittime, mentre ci si accorge che gli autori uomini, i più differenti per età, condizione sociale, provenienza di luogo, in quel punto finiscono per assomigliarsi in un modo umiliante e drammatico.

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Buone notizie

Minori: Serafini (PD), "Finalmente la Convenzione di Lanzarote e' legge".

19 settembre

"Con il voto di oggi al Senato finalmente la Convenzione di Lanzarote è legge. L'Italia in questi ultimi due decenni è stata all'avanguardia nella legislazione contro la pedofilia e la prostituzione minorile. Il voto unanime del Senato conferma il cambiamento culturale nella tutela delle persone minori di età. L'umanità ha compiuto un grande progresso riconoscendo la stagione dell'infanzia. Il primo passo di questo riconoscimento è proteggere i bambini dalla violenza in tutte le sue forme. Con Lanzarote questo passo ora è più sicuro". Lo afferma la senatrice Anna Serafini,vice presidente della commissione parlamentare dell'Infanzia e dell'adolescenza e Presidente Forum infanzia e adolescenza

Violenza sulle donne: Serafini (PD), "Bene la firma alla Convenzione di Istanbul. Subito la ratifica".

27 settembre

"Esprimo profonda soddisfazione per la firma della Convenzione di Istanbul sul contrasto alla violenza sulle donne e la violenza domestica apposta oggi dal Ministro Elsa Fornero a Strasburgo. E' la giusta vittoria di una lunga battaglia portata avanti da tutte le donne". Così la senatrice del PD Anna Serafini, prima firmataria disegno di legge "Promozione della soggettività femminile e contrasto al femminicidio " commenta la notizia della firma del Ministro Fornero "Un sincero apprezzamento - continua Anna Serafini - va all'operato del Ministro Fornero che la scorsa settimana aveva preso un impegno in tal senso al Senato e che l'ha mantenuto, impegnandosi anche a 'tornare in breve con la ratifica in mano'. E' necessario quindi che il disegno di legge di ratifica venga ora approvato al più presto dal Parlamento".

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Note biografiche

Mirko Silvestrini nasce nel 1973 a Senigallia (An) in una famiglia di operai che, per motivi di lavoro, emigra in una zona industriale di Reggio Emilia, dove trascorre l’infanzia. Tornato a Senigallia intraprende lo studio del pianoforte jazz, consegue una laurea in Filosofia e, successivamente, in Psicologia Clinica. E' iscritto all'ordine professionale degli Psicologi ed attualmente conduce un dottorato di ricerca sulla relazione tra dolore cronico e stili di personalità.

Si avvicina alla fotografia a seguito di un paio di viaggi in bici lungo la costa pacifica californiana. Le geometrie e gli intensi colori delle città della west coast divengono ben presto uno strumento di “significazione” col quale re-interpretare le personali incertezze ed inquietudini di una quotidianità italiana pervasa dall'attuale crisi di identità e culturale prima ancora che socio-economica.

Mirko Silvestrini - Tel: 333-2466761 - Email: [email protected]

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