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1 LEZIONE DEL 26/02/2009 1. LE AZIONI ESERCITABILI DURANTE LA PROCEDURA CONCORSUALE. La tematica delle azioni esercitabili dal curatore nel corso dell’intera procedura fallimentare apre alla trattazione di tematiche varie ed ampie, sulle quali lo stesso legislatore è intervenuto più volte (è soprattutto il caso dell’azione revocatoria fallimentare). Quanto, invece, alle ordinarie azioni di inefficacia esercitabili dallo stesso organo fallimentare, ebbene, esse non hanno subito alcuna modifica di rilievo. È opportuno, ad ogni modo, procedere con una disamina dei presupposti e delle condizioni che la legge postula per ottenere la declaratoria di inefficacia di atti posti in essere dal fallito. La prima norma che si incontra nella Sezione III del Capo III del Titolo II della l.f., intitolato Degli effetti del fallimento sugli atti pregiudizievoli ai creditori”, è quella dell’art. 64: essa dispone che “sono privi di effetto rispetto ai creditori, se compiuti dal fallito nei due anni anteriori alla dichiarazione di fallimento, gli atti a titolo gratuito, esclusi i regali d’uso e gli atti compiuti in adempimento di un dovere morale o a scopo di pubblica utilità, in quanto la liberalità sia proporzionata al patrimonio del donante”. L’esercizio di una simile azione da parte del curatore è finalizzato alla apprensione del maggior numero di beni all’attivo fallimentare, onde consentire un adeguato soddisfacimento a favore di tutti i creditori partecipanti al concorso mediante la liquidazione degli stessi. È importante precisare che, in una simile fattispecie, la inefficacia degli atti compiuti dal fallito nell’arco temporale indicato dalla norma ha carattere oggettivo, nel senso che essa interviene per il solo fatto che l’atto de quo sia qualificabile come atto a titolo gratuito e che esso sia stato posto in essere nel cd periodo sospetto. Non ha alcun rilievo, invece, la qualità di imprenditore del soggetto lo ha posto in essere, nel senso che è soggetto alla declaratoria di inefficacia anche quell’atto che il debitore abbia posto in essere quando non era ancora un imprenditore 1 ; lo stesso discorso si fa per il requisito dell’insolvenza,, nel senso che l’inefficacia dell’atto non è subordinata alla circostanza che esso sia stato stipulato quando l’imprenditore era già insolvente. Elementi che contraddistingue una simile azione rispetto a quella ex art. 67 l.f. si rinvengono nella irrilevanza della scientia decoctionis da parte del terzo e nella imprescrittibilità dell’azione stessa dal momento che essa ha natura di azione dichiarativa (e non costitutiva) tendente ad ottenere l’accertamento negativo dell’esplicazione degli effetti dell’atto nei confronti della curatela. 1 Vedi R. Vivaldi, sub art. 64 l.f., in Codice commentato del fallimento, diretto da G. Lo Cascio, Ipsoa 2008.

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LEZIONE DEL 26/02/2009 1. LE AZIONI ESERCITABILI DURANTE LA PROCEDURA CONCORSUALE. La tematica delle azioni esercitabili dal curatore nel corso dell’intera procedura fallimentare apre

alla trattazione di tematiche varie ed ampie, sulle quali lo stesso legislatore è intervenuto più volte

(è soprattutto il caso dell’azione revocatoria fallimentare).

Quanto, invece, alle ordinarie azioni di inefficacia esercitabili dallo stesso organo fallimentare,

ebbene, esse non hanno subito alcuna modifica di rilievo.

È opportuno, ad ogni modo, procedere con una disamina dei presupposti e delle condizioni che la

legge postula per ottenere la declaratoria di inefficacia di atti posti in essere dal fallito.

La prima norma che si incontra nella Sezione III del Capo III del Titolo II della l.f., intitolato

“Degli effetti del fallimento sugli atti pregiudizievoli ai creditori”, è quella dell’art. 64: essa

dispone che “sono privi di effetto rispetto ai creditori, se compiuti dal fallito nei due anni anteriori

alla dichiarazione di fallimento, gli atti a titolo gratuito, esclusi i regali d’uso e gli atti compiuti in

adempimento di un dovere morale o a scopo di pubblica utilità, in quanto la liberalità sia

proporzionata al patrimonio del donante”.

L’esercizio di una simile azione da parte del curatore è finalizzato alla apprensione del maggior

numero di beni all’attivo fallimentare, onde consentire un adeguato soddisfacimento a favore di tutti

i creditori partecipanti al concorso mediante la liquidazione degli stessi.

È importante precisare che, in una simile fattispecie, la inefficacia degli atti compiuti dal fallito

nell’arco temporale indicato dalla norma ha carattere oggettivo, nel senso che essa interviene per

il solo fatto che l’atto de quo sia qualificabile come atto a titolo gratuito e che esso sia stato

posto in essere nel cd periodo sospetto.

Non ha alcun rilievo, invece, la qualità di imprenditore del soggetto lo ha posto in essere, nel

senso che è soggetto alla declaratoria di inefficacia anche quell’atto che il debitore abbia posto in

essere quando non era ancora un imprenditore1; lo stesso discorso si fa per il requisito

dell’insolvenza,, nel senso che l’inefficacia dell’atto non è subordinata alla circostanza che esso sia

stato stipulato quando l’imprenditore era già insolvente.

Elementi che contraddistingue una simile azione rispetto a quella ex art. 67 l.f. si rinvengono nella

irrilevanza della scientia decoctionis da parte del terzo e nella imprescrittibilità dell’azione

stessa dal momento che essa ha natura di azione dichiarativa (e non costitutiva) tendente ad ottenere

l’accertamento negativo dell’esplicazione degli effetti dell’atto nei confronti della curatela.

1 Vedi R. Vivaldi, sub art. 64 l.f., in Codice commentato del fallimento, diretto da G. Lo Cascio, Ipsoa 2008.

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La disposizione in parola è applicabile per i soli atti a titolo gratuito, dovendo intendersi per essi

solamente quelli che non prevedono alcun corrispettivo a fronte della prestazione ricevuta, nei

quali, come da tempo la giurisprudenza di legittimità sostiene, si possa ravvisare un elemento di

“relatività” che non assurge a controprestazione2.

Il concetto di corrispettivo o di controprestazione va tuttavia assunto in senso ampio, includendovi

sia un corrispettivo diretto sia un corrispettivo mediato e/o indiretto che sia cioè atto a soddisfare un

interesse proprio del dante causa.

Spetta al curatore l’onere di fornire la prova della gratuità dell’atto per la cui dichiarazione di

inefficacia si agisce nonché del suo compimento entro il periodo sospetto dei due anni anteriori alla

dichiarazione di fallimento3: le ipotesi più frequenti e studiate di atti contestabili ex art. 64 l.f. sono

due: 1) l’adempimento per debito altrui e 2) la garanzia prestata per debito altrui.

Non v’è dubbio che le azioni di spettanza del curatore che maggiormente rilevano in ambito

fallimentare siano l’azione revocatoria ordinaria esercitata in sede fallimentare ex art. 66, e l’azione

revocatoria fallimentare ex art. 67, che risulta completamente stravolta nel suo contenuto a seguito

delle riforme intercorse negli anni 2006-2007.

Ai sensi dell’art. 66 l.f., “il curatore può domandare che siano dichiarati inefficaci gli atti

compiuti dal debitore in pregiudizio dei creditori, secondo le norme del codice civile”; l’azione va

proposta dinanzi al tribunale fallimentare, che giudica in composizione monocratica4, sia in

confronto del contraente immediato, sia in confronto dei suoi aventi causa, laddove possibile.

2 La Suprema Corte, nella sentenza n°11093 dell’11/06/2004, precisa che la distinzione fra atti a titolo oneroso ed atti a titolo gratuito riguarda la causa del negozio e non i motivi che hanno determinato le parti alla relativa stipulazione. Il motivo viene in rilievo per la diversa categoria degli atti di liberalità, primo fra tutti il contratto di donazione, per il quale è lo stesso codice civile a prevedere che a mezzo dello stesso il donante intenda favorire il donatario senza nulla ricevere in cambio. Lo spirito di liberalità consiste in uno spostamento di assets patrimoniali dall’originario proprietario ad un altro, senza che il primo ottenga nulla in cambio; in altre parole i motivi per i quali si può disporre con liberalità sono tanti, quella che deve rimanere invariata è proprio al causa sottostante il negozio che si conclude. 3 Si può osservare come l’onere probatorio imposto al curatore in questa sede sia più agevole da assolvere non solo rispetto a quello di cui all’art. 67 l.f., ma altresì rispetto a quello ex art. 66 l.f., laddove, vertendosi pur sempre in tema di azione revocatoria, il curatore è pur sempre tenuto a dimostrare la conoscenza dell’insolvenza da parte del creditore. Inoltre, mentre l’azione ex art. 64 l.f., tendendo ad una declaratoria di inefficacia implica l’applicabilità di una presunzione iuris et de iure circa il pregiudizio arrecato alla massa di creditori, nel caso della revocatoria ordinaria ex art. 66 l.f., il curatore dovrà provare che quello specifico atto contestato abbia effettivamente diminuito la capienza del patrimonio dell’imprenditore in danno della massa di creditori. 4 Sul punto si è oramai consolidato anche l’orientamento della giurisprudenza che fa leva sul disposto dell’art. 48 dell’ordinamento giudiziario ex r.d. n°12/1941, come modificato dall’art. 88 della l. 353/1990, letto in combinato disposto con l’art. 50 bis c.p.c., anch’esso modificato dal d.lgs. n°51/1998. In particolare, siffatte disposizioni non includono i giudizi per revocatoria, ordinaria o fallimentare, fra quelli la cui decisione è affidata al tribunale in composizione collegiale; tra l’altro, l’elencazione citata ha carattere tassativo non potendo simili giudizi esser sussunti nell’alveo delle “azioni di revocazione” ivi menzionate, in quanto queste ultime riguardano esclusivamente le azioni aventi ad oggetto la revocatoria di crediti ammessi al passivo per dolo o errore essenziale (art. 50 bis c.p.c.).

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Come chiaramente detto nel testo normativo, questa azione va esperita seguendo le regole dettate

dall’art. 2901 c.c. in tema di revocatoria ordinaria; una simile azione presenta elementi di affinità e

di distinzione rispetto alla corrispondente azione esercitabile ex art. 67.

La natura delle due azioni non risulta dissimile essendo entrambe finalizzate a consentire da parte

del curatore l’acquisizione al patrimonio fallimentare di un ulteriore bene da porre a

soddisfacimento della massa di creditori; la ratio di quest’azione, come anche di quella

propriamente fallimentare, si ricollega direttamente all’art. 2740 c.c. che pone a garanzia

dell’adempimento delle obbligazione contratte da un debitore, l’intero suo patrimonio.

Mediante l’azione revocatoria il curatore può tentare la ricostruzione dell’intero patrimonio del

fallito facendovi rientrare nuovamente quei beni e/o cespiti che allo stesso erano stati sottratti in

modo illecito; in definitiva, si può parlare di una simile azione come di un mezzo per neutralizzare

gli effetti che un’ingiusta attribuzione patrimoniale disposta a favore di un singolo creditore abbia

potuto arrecare all’intera schiera di creditori, in violazione del principio della par condicio

creditorum.

Quanto ai caratteri precipui di una simile azione, essa può essere esercitata esclusivamente dal

curatore ed ha carattere dichiarativo: la prima differenza che si può segnalare rispetto alla vicina

azione ex art. 67 l.f. riguarda il dies a quo da cui far decorrere il termine di prescrizione della stessa

che è sì di cinque anni, non decorrenti però dalla sentenza dichiarativa di fallimento bensì dalla data

dell’atto da revocare, in ottemperanza al disposto dell’art. 2903 c.c.5.

Requisiti indefettibili perchè il curatore possa proporre l’azione de qua sono la sussistenza

dell’eventus damni e della scientia damni o consilium fraudis nell’atto di disposizione; sulla stessa

nozione di atto di disposizione si sono posti dei dubbi circa le ipotesi della sua configurazione,

benché si possa affermare che certamente è atto dispositivo rilevante ai fini dell’art. 66 l.f. quello

consistente in “un qualunque trasferimento di un diritto patrimoniale del debitore in favore di un

altro soggetto, o l’assunzione di una nuova obbligazione, oppure la costituzione di un diritto reale

di proprietà o di garanzia a favore di un terzo”6.

Quanto all’eventus damni, il pregiudizio rilevante non si individua solamente nell’impossibilità di

soddisfare le altre pretese creditorie ma anche nella mera difficoltà di soddisfacimento,

5 Su questo tema sono sorte non poche dispute in quanto il d.lgs. n°5/2006 ha introdotto l’art. 69 bis l.f. che così recita: “Le azioni revocatorie disciplinate nella presente sezione non possono essere promosse decorsi tre anni dalla dichiarazione di fallimento e comunque decorsi cinque anni dal compimento dell’atto”; onde era sorto il quesito se siffatta azione fosse sottoposta ad un termine di prescrizione e ad un termine di decadenza, entrambi di durata quinquennale. La risposta deve, tuttavia, essere negativa considerato che la presente azione risulta disciplinata non dalla legge fallimentare bensì dal codice civile (vedi R. Vivaldi, sub art. 66 l.f., in Codice commentato del fallimento, a cura di G. Lo Cascio, Ipsoa, Milano, 2008). 6 Vedi R. Vivaldi, op. cit..

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nell’aggravamento dell’insufficienza patrimoniale del debitore, ovvero in una incertezza nelle

probabilità di vedere realizzati gli altri crediti7.

Entrambi tali requisiti devono essere provati dal curatore; quanto, però, al requisito soggettivo

della scientia fraudis, laddove il curatore agisca per revocare un atto a titolo gratuito, egli dovrà

provare la conoscenza del pregiudizio che in tal modo si arrecava agli altri creditori solamente da

parte del debitore, laddove, al contrario, in ipotesi di revocatoria di atti a titolo oneroso, il curatore

sarà onerato di fornire la prova anche della conoscenza del medesimo pregiudizio da parte del

terzo8.

Avendo già precisato che unico legittimato a proporre l’azione in parola sia il curatore

fallimentare, quand’anche questi intervenga in un giudizio ordinario già iniziato da un singolo

creditore, possiamo aggiungere che quest’ultimo perde la propria legittimazione attiva a stare in

giudizio dal momento che in quanto carente di alcun interesse ad agire, stante il divieto posto

dall’art. 51 l.f..

È importante, però, riferire di una recente ordinanza della Suprema Corte di Cassazione, n°4717

del 25/02/2008, che ha rimesso al Primo Presidente una questione molto delicata sulla

legittimazione ad agire del curatore, se si possa, cioè, individuare anche un’ipotesi di legittimazione

concorrente dello stesso con uno dei creditori: il Collegio rimettente ha rilevato tuttora l’esistenza di

un contrasto nella giurisprudenza delle sezioni semplici sulla possibilità per il solo creditore che

abbia già iniziato un’azione revocatoria ordinaria prima del fallimento del proprio debitore, con il

curatore, con eventuale possibilità di raccordo fra le due azioni.

Non v’è dubbio, tuttavia, che l’intervento legislativo che ha letteralmente catturato l’attenzione

dei giuristi-fallimentaristi è stato quello riguardante l’art. 67: la nuova azione revocatoria

fallimentare, infatti, ha visto mutare completamente i propri caratteri e da “azione regina del

fallimento” ha finito per essere quasi completamente privata del proprio contenuto.

A differenza dell’azione revocatoria esercitata ex art. 66 l.f., la revocatoria fallimentare persegue

anch’essa l’obiettivo di far rientrare un certo bene nel patrimonio del fallito, ma perseguendo quale

fine primario quello della sua liquidazione nelle forme di cui agli artt. 105 e ss l.f.9: come

autorevolmente sostenuto, “la finalità dell’azione, recuperatoria in senso ampio (…), appare

coerente con una funzione, tanto ripristinatoria del patrimonio del debitore sulla base di un

7 Vedi Cass. n°15257 del 06/08/2004. 8 Sul punto vedi G. Lo Cascio, Il fallimento e le altre procedure concorsuali. Aggiornamento al d.lgs. n°169/2007, Milano, 2008. 9 Per una chiara ricostruzione della natura e della funzione che con l’azione revocatoria fallimentare si intende perseguire, vedi M. Fabiani, Il sequestro giudiziario nell’azione revocatoria promossa dal curatore fallimentare, in FI 1998, in giurisprudenza vedi ex multis Cass. n°10072 del 25/06/2003 e Cass. n°3757 del 22/06/1985.

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effettivo e concreto pregiudizio dei creditori, tanto redistributiva della perdita da insolvenza tra

tutti i creditori per la lesione della par condicio creditorum”10.

In definitiva il bene giuridico che una simile azione intende tutelare non è la posizione del singolo

creditore, come accade nell’azione ex art. 66 l.f., bensì il principio della par condicio creditorum,

nella prospettiva, però,del soddisfacimento più alto possibile a seguito della liquidazione dei beni

appresi al fallimento11.

Sul piano più strettamente processuale, siffatta azione si connota per il proprio carattere

costitutivo in quanto la sentenza che accolga la domanda di revocatoria produce effetti modificativi

solo ex post rispetto ad una situazione che si era già cristallizzata e definita; da ciò consegue che a)

dalla data della sentenza decorrono gli interessi sulla domanda12 e b) l’obbligazione restitutoria che

ne deriva assume i caratteri di un debito di valuta13.

Una precisazione importante riguarda gli effetti che un pronuncia di accoglimento di siffatta

domanda possa far discendere: la giurisprudenza di legittimità, in una recente sentenza, ha statuito

che, dovendo considerare come oggetto della revocatoria fallimentare non il bene in sé quanto

piuttosto la reintegrazione della generica garanzia patrimoniale del debitore ex art. 2740 c.c.,

laddove non fosse possibile provvedere materialmente alla restituzione del bene revocato, il giudice

può legittimamente sostituire quest’obbligo con al corresponsione della corrispondente somma di

denaro14.

Prima di esaminare più nel dettaglio i risultati che l’intervento legislativo ha determinato,

dobbiamo aggiungere un’ulteriore riflessione sul perché della scelta di ridurre, anzi dimezzare,

l’ampiezza del cd periodo sospetto: l’azione revocatoria fallimentare costituisce senza dubbio uno

strumento in bilico tra le esigenze di tutela del ceto creditorio, da una parte, e quelle di tutela del

sistema economico e creditizio nazionale dall’altra.

Il legislatore ha dovuto operare una scelta fra tali due istanze parimenti meritevoli di tutela; la

riduzione alla metà del periodo sospetto entro il quale far rientrare gli atti di disposizione lesivi dei

diritti della massa dei creditori privilegia la “tutela del credito” al fine di garanzie certezza e

stabilità nei rapporti giuridici.

In seguito all’intervento riformatore del 2007, dunque, il testo dell’art.67 risulta così formulato:

“Sono revocati, salvo che l'altra parte provi che non conosceva lo stato d'insolvenza del debitore: 10 Vedi P. Liccardo, sub art. 67 l.f., in Codice commentato del fallimento, a cura di G. Lo Cascio, Ipsoa Milano, 2008. 11 Questo concetto è bene affermato nella sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n°7028 del 28/03/2006, in cui si afferma che “l'eventus damni è in re ipsa e consiste nel fatto stesso della lesione della par condicio creditorum, ricollegabile, per presunzione legale assoluta, all'uscita del bene dalla massa conseguente all'atto di disposizione”. 12 Vedi Cass. 18/01/2006 n°887. 13 Vedi Cass. 22/03/2007 n°6991. 14 Cass. n°2883 del 09/02/2007 e, in dottrina, vedi G. Lo Cascio, Il fallimento e le altre procedure concorsuali, Milano 2007.

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1) gli atti a titolo oneroso compiuti nell'anno anteriore alla dichiarazione di fallimento, in cui le

prestazioni eseguite o le obbligazioni assunte dal fallito sorpassano di oltre un quarto ciò che a lui

è stato dato o promesso;

2) gli atti estintivi di debiti pecuniari scaduti ed esigibili non effettuati con danaro o con altri mezzi

normali di pagamento, se compiuti nell'anno anteriore alla dichiarazione di fallimento;

3) i pegni, le anticresi e le ipoteche volontarie costituiti nell'anno anteriore alla dichiarazione di

fallimento per debiti preesistenti non scaduti;

4) i pegni, le anticresi e le ipoteche giudiziali o volontarie costituiti entro sei mesi anteriori alla

dichiarazione di fallimento per debiti scaduti.

Sono altresì revocati, se il curatore prova che l'altra parte conosceva lo stato d'insolvenza del

debitore, i pagamenti di debiti liquidi ed esigibili, gli atti a titolo oneroso e quelli costitutivi di un

diritto di prelazione per debiti, anche di terzi, contestualmente creati, se compiuti entro sei mesi

anteriori alla dichiarazione di fallimento”.

I primi due commi della disposizione sono stati solo in minima parte modificati: un primo

intervento ha riguardato il n°1 del comma 1 laddove la misura della sproporzione rilevanti ai fini

della revocabilità di un atto a titolo oneroso è passata da “notevole” a “oltre un quarto”, fissando

per legge quella soglia che la giurisprudenza aveva provveduto ad individuare per valutare il grado

di lesione che l’atto aveva cagionato alla par condicio creditorum.

È chiaro come, ad ogni modo, l’ampiezza della sproporzione rilevata vada valutata caso per caso

dal curatore che è facultato altresì al ricorso alle presunzioni15.

A questo punto, occorre soffermarsi, brevemente sulla prova che il curatore è tenuto a fornire

della conoscenza dello stato di decozione da parte del beneficiario dell’atto da revocare: dare una

definizione compiuta di scientia fraudis non è affatto agevole, potendo essa attenere sia a

condizioni di oggettiva conoscenza o conoscibilità della situazione di difficoltà dell’imprenditore,

sia ad una conoscenza o conoscibilità solamente astratta o potenziale della stessa.

Da ciò discende la difficoltà di individuare un parametro unico di diligenza in relazione la quale

valutare la condotta dei terzi; certamente dalla lettura della disposizione normativa si evince come il

legislatore faccia riferimento ad una conoscenza effettiva e non meramente potenziale da parte del

terzo contraente della situazione dell’imprenditore, pur assumendo peculiare rilievo la condizione

psicologica della parte al momento della stipula dell’atto16.

L’impianto dell’art. 67 l.f. è strutturato in maniera tale che il curatore sia onerato di fornire la

prova della conoscenza delle difficoltà dell’imprenditore nell’accipiens; al contrario quest’ultimo è

15 Vedi Cass. n°11430 del 23/07/2003. 16 Sul punto e in maniera più dettagliata, vedi Cass. 12/09/2003 n°13430.

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tenuto a fornire la prova della propria inscientia decoctionis ai sensi del primo comma della

disposizione.

Ciò comporta che mentre il curatore potrà anche fare ricorso alle presunzioni supportate da

elementi che si connotano per i caratteri della gravità, precisione e concordanza per dimostrare che

il terzo, usando la comune diligenza, avrebbe ben potuto conoscere la condizione in cui si trovava

l’imprenditore, per contro ai fini della prova da parte dell’accipiens è stata ritenuta sufficiente

l’insussistenza al momento del compimento dell’atto di indici rivelatori di uno stato di insolvenza

ovvero di circostanze tali da indurre una persona di normale diligenza e prudenza a ritenere

l’imprenditore ancora solvente.

Sugli elementi cui il curatore può fare ricorso ai fini di fornire la prova presuntiva della scientia

decoctionis, molto si è scritto e molte indicazioni sono state fornite altresì dalla giurisprudenza di

legittimità: la prova per presunzioni si basa su di un giudizio di fatto che tende a ricostruire, in

contraddittorio fra le parti, la fattispecie concretamente verificatasi utilizzando come parametri di

giudizio le massime tratte dalla comune esperienza17.

In quest’ottica si attribuisce rilievo, ad esempio, all’esistenza di protesti a carico dell’imprenditore

fallito, alla pendenza nei suoi confronti di procedimenti esecutivi immobiliari, in ragione delle

particolari forme di pubblicità prescritte dalla legge, alla continuità e importanza del rapporto

commerciale instaurato, alla natura dell’atto ovvero all’attività professionale esercitata

dall’accipiens18.

La Suprema Corte, infine, ha ritenuto di poter attribuire rilevanza anche agli aspetti interni della

vicenda, a quelle situazioni che siano in grado di rivelare la condizione psicologica delle parti

contraenti e del terzo in primis.

Quanto alle ipotesi di cui al comma 2, invece, a parte la riduzione del periodo sospetto a soli 6

mesi, il che rende molto difficile immaginare che sia possibile riuscire a recuperare le somme in tal

modo erogate, possiamo segnalare l’inserimento dell’ inciso “anche a terzi” che, prima facie,

lascerebbe pensare all’inserimento anche in questo contesto della presunzione di onerosità sancita

dall’art. 2901 comma 2 c.c.19.

Già i primi due commi della nuova disposizione fanno segnalare non poche differenze con la

precedente formulazione: tuttavia, l’attenzione dell’operatore viene naturalmente catturata dal

nuovo e più ampio novero di atti esenti da revocatoria fallimentare di cui al comma 3 dell’art. 67.

La norma, nella sua attuale formulazione, stabilisce che “non sono soggetti all'azione

revocatoria: 17 Vedi Cass.n°19894 del 13/10/2005. 18 Quest’ultimo requisito rileva in particolare nelle ipotesi di revocatoria di contratti o rapporti bancari. 19 In tal senso vedi G. Lo Cascio, op. cit., e Cass. n°14376 del 08/07/2005.

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a) i pagamenti di beni e servizi effettuati nell'esercizio dell'attività d'impresa nei termini d'uso;

b) le rimesse effettuate su un conto corrente bancario, purché non abbiano ridotto in maniera

consistente e durevole l'esposizione debitoria del fallito nei confronti della banca;

c) le vendite e i preliminari di vendita trascritti ai sensi dell’art. 2645-bis del codice civile, i cui

effetti non siano cessati ai sensi del comma terzo della suddetta disposizione, conclusi a giusto

prezzo ed aventi ad oggetto immobili ad uso abitativo, destinati a costituire l'abitazione principale

dell'acquirente o di suoi parenti e affini entro il terzo grado;

d) gli atti, i pagamenti e le garanzie concesse su beni del debitore purché posti in essere in

esecuzione di un piano che appaia idoneo a consentire il risanamento della esposizione debitoria

dell'impresa e ad assicurare il riequilibrio della sua situazione finanziaria e la cui ragionevolezza

sia attestata da un professionista iscritto nel registro dei revisori contabili e che abbia i requisiti

previsti dall’art. 28, lettere a) e b) ai sensi dell'articolo 2501-bis, quarto comma, del codice civile;

e) gli atti, i pagamenti e le garanzie posti in essere in esecuzione del concordato preventivo,

nonché dell'accordo omologato ai sensi dell'articolo 182-bis;

f) i pagamenti dei corrispettivi per prestazioni di lavoro effettuate da dipendenti ed altri

collaboratori, anche non subordinati, del fallito;

g) i pagamenti di debiti liquidi ed esigibili eseguiti alla scadenza per ottenere la prestazione di

servizi strumentali all'accesso alle procedure concorsuali e di concordato preventivo”.

L’area delle esenzioni è stata del tutto ridefinita senza, almeno apparentemente, la possibilità di

individuare un minimo comune denominatore fra le tipologie di atti esenti; v’è chi ha proposto una

tripartizione degli stessi distinguendo la categoria delle operazioni creditizie, delle alienazioni

immobiliari e, infine, degli atti e garanzie in esecuzione di accordi per la regolazione della crisi”20.

Nella prima categoria possiamo senza dubbio far rientrare le ipotesi previste alle lett. a)e b) del

terzo comma della disposizione fra le quali è bene però distinguere: la prima ipotesi rappresenta una

novità e riguarda solamente i pagamenti che vengano effettuati nell’esercizio dell’attività

imprenditoriale “nei termini d’uso”, dovendo poi chiarire cosa una simile locuzione voglia indicare.

Senza indugiare troppo sul concetto di attività d’impresa che si dilata parallelamente

all’evoluzione della nozione stessa di impresa, sarà bene soffermarsi sugli ulteriori requisiti da

riscontrare per far rientrare siffatti atti di disposizione patrimoniale nell’area delle esenzioni.

La prima annotazione concerne l’applicazione della disposizione de qua ai soli pagamenti posti

in essere dal fallito nell’esercizio della propria impresa, il che implica la generale revocabilità dei

contratti o atti a titolo oneroso conclusi dallo stesso.

20 Vedi L. Guglielmucci, Le azioni di ricostituzione del patrimonio, in Il Fallimento, 2007.

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I pagamenti, inoltre, per sfuggire alla revocatoria, devono inerire a beni o servizi effettuati

nell’esercizio dell’impresa: sul punto si è sostenuto, quanto alla nozione di “servizi”, che per

quanto ampi possano essere i confini di siffatta nozione, dalla stessa vanno esclusi i contratti di

finanziamento e i rapporti finanziari in genere21.

Quanto all’inerenza, invece, dei pagamenti non revocabili all’esercizio dell’impresa, un simile

nesso va inteso in senso ampio e in un’accezione “funzionale” così da escludere, da una parte, i

pagamenti relativi ad atti che non rispondono alle finalità dell’impresa e, dall’altra, tutte le

operazioni che esulino dall’attività di ordinaria amministrazione dell’impresa22.

Siffatti pagamenti devono essere effettuati, poi, “nei termini d’uso” individuati dalla parti stesse

ovvero alle scadenze che sono state prestabilite, ma è ragionevole ritenere altresì che la locuzione si

riferisca anche la rispetto delle modalità previste per il pagamento.

Più delicato il discorso riguardante la nuova revocatoria delle rimesse sul conto corrente bancario,

la quale costituisce anche la novità di maggior rilievo nel corpo dell’art. 67 l.f.: attualmente,

dunque, la non revocabilità delle rimesse effettuate su conto corrente bancario costituisce la

regola, alla quale ci si sottrae solamente quando ricorrano i nuovi requisiti indicati dalla

disposizione.

Il dettato normativo appare chiaro e lineare nella sua formulazione postulando, ai fini della

revocabilità delle rimesse, che esse abbiano provocato una riduzione consistente e durevole

dell’esposizione debitoria del fallito.

Si ritiene che la norma abbia accolto quell’orientamento giurisprudenziale oramai fortemente

consolidato per il quale bisognava preliminarmente individuare la iniziale disponibilità finanziaria

dell’imprenditore, successivamente valutare ogni singola rimessa cosicchè laddove essa avesse

assunto carattere “ripristinatorio della provvista accordata dalla banca” non sarebbe stata oggetto

di revocatoria; al contrario, laddove essa avesse presentato “natura solutoria”, alla stregua di un

pagamento di uno scoperto, in questo caso poteva essere dichiarata inefficace nei confronti della

massa di creditori.

Quel che appare inconfutabile è “il definitivo superamento di una valutazione atomistica di ogni

rimessa, isolatamente considerata, in favore di una considerazione complessiva, o di durata,

dell’andamento del rapporto nel periodo monitorato per l’esercizio della revocatoria, comportato

dall’apprezzamento di una riduzione dell’esposizione debitoria”23.

21 Vedi G. Terranova, La nuova disciplina delle revocatorie, in Il Fallimento, 2005. 22 Vedi amplius G. Tarzia, Le esenzioni (vecchie e nuove) dall’azione revocatoria fallimentare nella recente riforma, in Il Fallimento 2005. 23 Vedi P. Liccardo, sub art. 67 l.f., in Codice commentato del fallimento, a cura di G: Lo Cascio, Ipsoa, Milano,2008.

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È necessario che la riduzione sia durevole e non transitoria, il che ha fatto subito affermare che

questa precisazione sia sintomatica della volontà di sottrarre all’area della revocabilità le cd “partite

bilanciate”: è bene precisare ancora, tuttavia, che il carattere durevole dell’esposizione va collegato

alla natura della “orientata” della rimessa, nel senso che essa non debba risultare conforme ad

alcuna intenzione delle parti.

Quanto alla categoria, invece, delle alienazioni immobiliari, essa si riferisce alla sola lett. c)

dell’art. 67 ove si esclude la revocabilità dei contratti (anche preliminari) di vendita di un immobile

da adibire a “prima casa”, purchè essi siano stati trascritti a norma dell’art. 2645 bis c.c.

Simili immobili devono risultare destinati a fungere da abitazione primaria dell’acquirente, dei

suoi parenti e/o affini entro il III grado, non anche del coniuge che non assume tale qualità; la

finalità sembrerebbe quella di assicurare stabilità agli acquisti di immobili che debbano essere

utilizzati come casa di prima abitazione.

La differenza con al precedente disposizione sta nell’ampliamento degli atti immuni da

revocatoria, considerato che in passato l’esenzione si limitava ai soli atti di vendita e non anche ai

relativi contratti preliminari.

Qualche Autore24 ha, sul punto, fatto notare come questa disposizione mal si raccordi con quella

del comma 1 n°1 che riguarda pur sempre la figura del contratto preliminare in quanto atto a titolo

oneroso quando eccede di un quarto il valore dell’obbligazione inizialmente contratta.

Quanto alle altre ipotesi previste nel terzo comma della disposizione, certamente esse hanno una

ratio comune che sottende al tentativo da parte del legislatore di favorire le procedure alternative al

fallimento.

In particolare quanto alla lett. e), occorre precisare che la irrevocabilità di atti, pagamenti e

garanzie posti in essere in esecuzione del concordato preventivo ovvero dell’accordo ex art. 182 bis

è opponibile ai soli creditori che abbiano aderito all’accordo non anche di quelli estranei, i quali

potranno comunque contare sulla relazione dell’esperto che ha garantito il loro integrale

soddisfacimento.

Inoltre, questa immunità concerne solamente gli atti che siano direttamente esecutivi degli accordi

fissati nel concordato preventivo ovvero nell’accordo di ristrutturazione dei debiti.

La lett. g) assolve alla stessa finalità, perché riguarda i pagamenti di quei debiti, liquidi ed

esigibili, che servono ad ottenere l’ammissione al concordato preventivo, con chiara finalità

promozionale in tal senso.

24 In particolare vedi G. Terranova, op. cit., e L. Gualandi, Le “esenzioni” dalla revocatoria: l’art. 67 comma 3 lett. c), i “fallimenti immobiliari” e le operazioni di credito speciale, in Il diritto fallimentare e delle società commerciali, 2006.

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2. LE SOLUZIONI CONCORDATE DELLA CRISI D’IMPRESA.

Con le modifiche apportate negli ultimi anni alla disciplina del diritto fallimentare e delle

procedure concorsuali, originariamente contenuta nel r.d. n. 267/1942, si è impresso un nuovo volto

alla disciplina della “crisi dell’impresa” dal momento che il legislatore ha inteso porre in risalto

aspetti e procedure che la prassi aveva contribuito ad obliare.

In particolare, già con il d.lgs. n. 5/2006, e in maniera ancor più vigorosa con il recentissimo d.lgs.

n. 169/2007, il legislatore ha riscritto la disciplina di alcuni istituti di diritto fallimentare che non

avevano trovato ampio impiego nella prassi a causa di una loro disciplina troppo restrittiva e

sfavorevole per gli imprenditori: il concordato preventivo (artt. 160-186 l.f.) e il concordato

fallimentare (artt. 124- 141 l.f.).

Entrambi questi istituti vanno opportunamente collocati nell’ambito delle cosiddette fattispecie di

“soluzioni concordate” tra imprenditore, che versi in stato di “crisi” ovvero di “insolvenza”, e suoi

creditori al fine di evitare le più gravose conseguenze che una dichiarazione di fallimento potrebbe

comportare.

Nonostante la diversità di fini che le due procedure perseguono, la regolamentazione data loro è

molto simile sia riguardo ai profili “sostanziali” che riguardo ai profili meramente processuali: in

particolare, a conferma del favor che il legislatore ha inteso esprimere, possiamo rilevare come la

disciplina legislativa concernente l’accertamento, amministrazione, liquidazione e ripartizione del

patrimonio di un imprenditore “in difficoltà” assuma carattere del tutto residuale rispetto ad una

successiva regolamentazione, appunto concordata, fra imprenditore e creditori.

La finalità specifica dei concordati è quella di introdurre un’autodisciplina, da parte

dell’imprenditore, dei rapporti con i propri creditori che, quindi, trae la propria fonte nella volontà

e nel consenso reciprocamente espresso dalle parti (debitore e creditore/i), avente ad oggetto un

vero e proprio “piano” di riorganizzazione dell’impresa che non può prescindere dal garantire il

soddisfacimento, anche non pieno, di tutte le pretese creditorie.

L’elemento di comunanza che, invece, si evince dalle rispettive regolamentazioni consiste

nell’importanza centrale assunta in tali procedure proprio da quel piano detto “industriale-

economico-finanziario”, nel quale prende forma la proposta di concordato e che si propone di

estinguere le passività esistenti in capo all’imprenditore, favorendo pertanto il risanamento

dell’impresa, ovvero, laddove ciò non risulti possibile o meglio il piano non risulti fattibile, di

procedere alla dismissione della compagine imprenditoriale.

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La domanda di ammissione alla procedura concordataria va proposta con ricorso al tribunale del

luogo in cui l’impresa ha la sua sede principale; l’art. 160 l.f. chiarisce quale possa essere il

contenuto della proposta di concordato preventivo precisando al contempo una serie di concetti:

1) il concordato preventivo può essere richiesto solo dall’imprenditore che versi in uno “stato

di crisi”25;

2) può avere ad oggetto la ristrutturazione dei debiti mediante una serie di ipotesi che non sono

elencate in forma tassativa, ma piuttosto esemplificate, e che contemplano la possibilità che

un soggetto si accolli l’intera debitoria dell’imprenditore (assuntore);

3) il concordato può non solo prevedere la suddivisione di tutti i creditori in classi ma altresì la

legittima previsione di trattamenti satisfattivi differenziati per le diverse classi di creditori.

In particolare, l’assuntore è colui che assume su di sé i debiti dell’imprenditore, con l’effetto di

liberarlo nei confronti dei creditori, acquistando in cambio i beni o le attività che ne deriveranno a

seguito dell’omologazione del concordato: è, tuttavia, doveroso fare una distinzione a seconda che

la proposta di concordato provenga dal debitore insieme con l’assuntore ovvero dal solo assuntore,

in quanto nel primo caso si configurerà un’ipotesi di accollo privativo, mentre nel secondo

saremmo dinanzi all’ipotesi di una espromissione del debitore.

La disposizione maggiormente innovativa, tuttavia, è quella avente ad oggetto la suddivisione in

classi dei creditori e la possibilità, per il proponente, di proporre per queste dei trattamenti

differenziati, volti ovviamente a garantire maggiormente il loro soddisfacimento.

Un primo problema però si impone, quello relativo al criterio di riunione dei vari creditori in

classi: la legge recita che le classi sono formate “secondo posizione giuridica e interessi economici

omogenei”, ma sul significato di tale espressione non si registra concordanza di opinioni.

Autorevole dottrina ritiene che la suddivisone in classi risponda all’esigenza di superare

l’eventuale “resistenza “strategica” di taluni creditori che potrebbero strumentalizzare il proprio

potere di “veto” al fine di ottenere vantaggi ingiusti e privati”26: questa disposizione, in ogni caso,

preclude la piena applicabilità del principio della par condicio creditorum, che ha sempre

rappresentato un punto fermo per il legislatore nella regolamentazione delle procedure concorsuali,

in quanto consente di trattare in maniera differenziata i creditori a seconda della classe nella quale

sono collocati.

Se è vero che al proponente spetta una certa discrezionalità nella individuazione dei criteri per la

formazione delle classi, dal momento che il legislatore ne ha tracciato una disciplina generica, tale

discrezionalità trova un contrappeso in quel potere di controllo che spetta al tribunale, prima

25 Il nuovo ultimo comma della disposizione, tuttavia, chiarisce che per stato di crisi dobbiamo intendere anche lo stato di insolvenza, con ciò fornendo all’imprenditore un’opportunità per evitare il proprio fallimento. 26 Vedi D. Galletti “La formazione delle classi nel concordato preventivo:ipotesi applicative” in www.ilcaso.it.

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dell’ammissione al concordato, sul corretto impiego dei criteri di formazione delle classi prescritti

dalla legge.

L’art. 125, comma 3, dettato a proposito del concordato fallimentare, prevede che qualora la

proposta contempli trattamenti differenziati per le diverse classi di creditori, il tribunale debba

esprimere un giudizio circa la correttezza della loro formazione prima che essa sia comunicata ai

creditori; le norme in tema di concordato preventivo, invece, non sono altrettanto chiare ma

un’interpretazione in tal senso si ricava dalla lettura combinata degli artt. 162, commi 1 e 2, e 163

comma 1.

Nella fattispecie, l’art. 163 consente al tribunale di aprire la procedura di concordato solamente

qualora esso non abbia provveduto ai sensi dell’art. 162 commi 1 e 2, in quanto la proposta di

concordato non risulta mancante dei requisiti previsti dalla legge.

Riguardo alla formazione delle classi, ci si è interrogati circa il carattere obbligatorio ovvero

facoltativo che una tale disposizione assume per il proponente: la soluzione per la quale si propende

in dottrina è quella di una relativa facoltatività della scelta, considerato che essa va giustificata

sulla base dell’esistenza di oggettive ragioni di diversità che concernono la natura dei crediti vantati

nei confronti dell’imprenditore27. Se sussiste eterogeneità dei crediti, infatti, non si può non

predisporre una proposta di concordato che contempli la presenza di più classi di creditori dal

momento che essa finirebbe per realizzare un appiattimento delle singole posizioni creditorie; in

caso contrario, il tribunale potrebbe non ritenere corretti né la proposta né il piano allegato alla

stessa.

L’omogeneità di cui parla la norma dell’art. 160, comma 1 lett. c), deve risultare, in definitiva,

dalle caratteristiche giuridiche ed economiche del creditore e può anche rispecchiare la sua più o

meno ampia propensione ad accettare o rifiutare il concordato.

Esiste, poi, per espressa previsione di legge, una classe predefinita che è quella dei creditori

privilegiati ai quali la legge riserva una disciplina peculiare: il principio generale è quello che priva

del diritto di voto i creditori privilegiati allorquando il piano oggetto del concordato ne preveda la

soddisfazione in misura integrale, fatta salva una loro rinuncia alla prelazione.

Tuttavia, in entrambe le proposte concordatarie, è possibile che anche i creditori prelatizi siano

soddisfatti parzialmente a condizione che essi vengano comunque soddisfatti in misura mai

inferiore a quella che spetterebbe loro in caso di liquidazione dell’impresa e successiva vendita dei

suoi cespiti.

27 Vedi Galletti, op. cit..

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La legge impedisce che la previsione di un trattamento differenziato dei creditori alteri l’ordine

delle cause legittime di prelazione che è imposto dalla legge, non potendosi dunque allo stesso

derogare dall’autonomia privata.

L’art. 127 regola, nel concordato fallimentare, le modalità di esercizio del diritto di voto da parte

dei creditori nelle classi; dopo aver posto il generale divieto di voto ai creditori privilegiati, enuncia

una deroga stabilendo che se essi rinunciano, anche solo in parte, alla prelazione sono equiparati ai

creditori chirografari per la parte di credito non coperta da garanzia onde potranno legittimamente

votare nella rispettiva classe di creditori chirografari: la medesima previsione è riprodotta in ogni

sua parte dall’art. 177 l.f., per il concordato preventivo.

Una rilevante modifica apportata all’art. 124 l.f. dal d.lgs. n. 5/2006 ha ampliato il novero dei

soggetti legittimati alla presentazione dell’istanza: non più il solo fallito, la cui legittimazione risulta

del tutto residuale, ma soprattutto uno o più creditori dello stesso ovvero un terzo: un’altra

importantissima innovazione in materia è costituita dalla possibilità, accordata solamente al

creditore o al terzo, di poter presentare la proposta anche prima che intervenga il decreto di

esecutività dello stato passivo purché “sia stata tenuta la contabilità e i dati risultanti da essa e le

altre notizie disponibili consentano al curatore di predisporre un elenco dei creditori del fallito da

sottoporre all’approvazione del giudice delegato”28.

La disposizione mira a favorire la formazione di un elenco dei creditori che, nonostante la sua

provvisorietà, risulti comunque indicativo dei soggetti che avrebbero titolo a partecipare alla

procedura e, quindi, al concorso senza che, tuttavia, al creditore sia data la facoltà di opporsi

all’eventuale mancato riconoscimento, totale o parziale, del proprio credito.

Tornando alla legittimazione riconosciuta al fallito, occorre sottolineare come la novella del 2007

abbia limitato nel tempo le sue possibilità di intervento prevedendo diversi dies a quo e diversi dies

ad quem: il debitore può avanzare una simile proposta non prima che sia decorso un anno dalla

dichiarazione di fallimento ma comunque prima che decorrano due anni dal decreto che rende

esecutivo lo stato passivo.

Siffatti interventi lasciano intendere che oggi il concordato fallimentare è concepito nei confronti

del fallito come un rimedio estremo, come una extrema ratio che gli si prospetta per favorire una

composizione conciliata della crisi.

A differenza del concordato fallimentare, la proposta di concordato preventivo può provenire dal

solo imprenditore che versi in uno stato di crisi: l’art. 160, nella sua nuova formulazione, parla

genericamente di imprenditore ma è legittimo ritenere, in analogia con quanto disposto dall’art. 1

l.f., che tale legittimazione investa un imprenditore che sia commerciale e che sia non piccolo dal

28 Vedi art. 124 co.1 l.f..

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momento che tale forma di accordo mira a scongiurare che si pervenga ad una dichiarazione di

fallimento: ciò detto, la legittimazione del debitore assume carattere esclusivo, nonostante la

proposta possa essere presentata insieme con un soggetto terzo, detto anche in questo caso

assuntore.

Quanto alla procedura vera e propria, la norma dell’art. 160 l.f. prevede che la proposta di

concordato preventivo debba consistere in un piano di carattere industriale-economico-

finanziario che illustri l’intero progetto che lo sorregge; il legislatore impone che il ricorso sia

accompagnato da una documentazione idonea a comprovarne la fattibilità, idoneità e convenienza

nonché tale da consentire un effettivo controllo sui presupposti economici del piano.

L’indicazione dell’intera documentazione da produrre è tassativamente indicata nell’art. 161 che

parla di:

1. una aggiornata relazione sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria dell’impresa;

2. uno stato analitico ed estimativo delle attività e l’elenco dei creditori, con l’indicazione dei

rispettivi crediti e delle cause legittime di prelazione;

3. l’elenco dei titolari di diritti reali o personali su beni di proprietà o in possesso del debitore;

4. il valore dei beni e i creditori particolari degli eventuali soci illimitatamente responsabili.

È inoltre previsto che un professionista, in possesso dei requisiti di cui all’art. 67 comma 3 lett d)

l.f., nonché dei requisiti di indipendenza e professionalità, rediga una relazione attestante la

veridicità dei dati aziendali forniti nonché la fattibilità stessa del piano; tale relazione presenta un

duplice carattere, da una lato, tecnico per il tipo di indagine che il professioniste svolge sulla tenuta

della contabilità, sul modo come è stata tenuta la gestione dell’impresa, sulla corrispondenza del

bilancio alle scritture contabili ed agli accertamenti eventualmente eseguiti, dall’altro, prognostica

circa le reali possibilità di attuazione del piano, motivandola per relationem con gli elementi desunti

dalle scritture contabili29.

La valutazione cui è chiamato il professionista entra anche nel merito della proposta di concordato

ed è l’unica che può orientare sia il parere dei creditori che il giudice, dal momento che alcun

controllo di merito è riconosciuto al tribunale.

Questo è stato privato di ogni sindacato di merito sul contenuto della proposta ovvero sulla sua

ragionevolezza potendo intervenire solo al momento dell’emissione del decreto di approvazione del

concordato che comunque trova il suo fondamento nella documentazione allegata dal professionista

ed eventualmente integrata, in un momento successivo, dal debitore stesso.

29 Sul problema della fattibilità del piano vedi S. Ambrosini “Il problema della fattibilità del piano nel concordato preventivo” in www.ilcaso.it.

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La ratio di questa limitazione di poteri a carico del tribunale sta proprio nella considerazione che

il suo giudizio non può né deve basarsi su dati diversi da quelli forniti dal proponente né su

valutazioni diverse da quelle fornite dal professionista incaricato di attestare il piano stesso.

Il tribunale acquista autonomi poteri solamente dopo che si sia pronunciato anche il commissario

giudiziale ovvero quando pronuncia il decreto che apre la procedura di concordato preventivo.

Il commissario giudiziale è definito “pubblico ufficiale” dall’art. 165 l.f. in riferimento

all’esercizio delle sue funzioni ed ha il compito di vigilare sull’esercizio dell’impresa e sulla

gestione dei beni, che comunque resta affidata al debitore durante l’intero corso della procedura, per

conto dell’autorità giudiziaria la quale detiene un ruolo marginale rispetto a quello degli altri

protagonisti della vicenda, potendo intervenire solo qualora la prima fase, si è oramai conclusa.

Egli, perciò, segue tutte le attività dell’imprenditore fino alla emissione del decreto di

omologazione e dovrà riferire al giudice delegato di eventuali atti non autorizzati ex art. 167,

compiuti dal debitore e diretti a frodare i creditori: in tale ipotesi, l’art. 173 l.f. contempla ipotesi

tipizzate in presenza delle quali il commissario deve riferire al giudice sulla condotta negativa e

fraudolenta del debitore al fine di attivare il procedimento di revoca della proposta, essendo

demandata al commissario un’attività di sorveglianza nei confronti del debitore per supplire alla

carenza di potere dell’organo giudiziario.

Nonostante le disposizioni di legge non siano chiare sul punto, con riferimento al concordato

fallimentare, anche il disposto dell’art. 124, comma 3 l.f. fa menzione di un piano, onde si desume

una similarità oggettiva con la disposizione sul concordato preventivo: dalla lettura della norma,

risulta che il piano debba avere addirittura un carattere più incisivo sulla procedura rispetto a quello

che accompagna il concordato ex art.160, dal momento che esso, inserendosi in una diversa

procedura concorsuale già aperta, può provvedere non alla semplice liquidazione dei beni del

fallito, ma altresì alla soddisfazione dei creditori nonché al risanamento dei debiti.

Sulla natura di siffatto documento l’unico punto fermo è che esso, in quanto innestato nel corso di

una procedura concorsuale già aperta, presenta natura liquidatoria dei beni del fallito: a tal

riguardo, potrebbero suscitare qualche riflessione eventuali pronunce giurisprudenziali che

sanciscano quale sia l’orientamento dei giudici in materia, punto di vista dal quale non si può

prescindere visto che il loro coinvolgimento nella procedura si esprime proprio nel controllo sulla

disamina del piano collegato alla proposta di concordato.

Venendo alle differenze fra le due forme di concordato, ebbene esse si rinvengono proprio con

riferimento all’iter procedurale da seguire fino alla sua approvazione, prima, e omologazione, poi.

Cominciando dal concordato preventivo, l’art. 162, rubricato “Inammissibilità della proposta”, fa

subito l’ipotesi in cui il giudice non riscontri i presupposti di cui agli artt. 160, commi 1 e 2, e 161

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l.f. e pertanto dichiara inammissibile la proposta di cordato con un decreto non soggetto a

reclamo: in questa fase, l’intervento del tribunale verte esclusivamente sulla sussistenza di tutti i

presupposti richiesti dalla legge quanto alla legittimazione ad agire nonchè al contenuto della

proposta e del piano, onde se ne parla in termini di controllo di “conformità estrinseca”.

L’inammissibilità della proposta, tuttavia, non comporta più, oggi, l’automatica e successiva

dichiarazione di fallimento atteso che il nuovo art. 6 l.f. non legittima più il tribunale a dichiarare il

fallimento d’ufficio.

Se, al contrario, il tribunale “non provvede ai sensi dell’art. 162 commi primo e secondo”, sempre

con decreto non soggetto a reclamo, dichiara aperta la procedura di concordato preventivo (art.

163) e:

a) delega un giudice alla procedura;

b) ordina la convocazione dei creditori entro trenta giorni;

c) nomina il commissario giudiziale;

d) stabilisce un termine per il deposito, da parte del ricorrente, di una somma commisurata al

presumibile ammontare delle spese processuali (dal 20 al 50%).

L’inosservanza di tale ultima disposizione può comportare la revoca del concordato e la

dichiarazione di fallimento nel corso della procedura su istanza del pubblico ministero cui viene

data comunicazione del provvedimento di revoca adottato (art. 173 l.f.).

L’art. 168 disciplina gli effetti della presentazione del ricorso di concordato preventivo: i

creditori, infatti, non potranno iniziare alcuna azione esecutiva contro il debitore fino al momento in

cui sarà pronunciato il decreto di omologazione e, inoltre, si determina la sospensione di ogni

termine di prescrizione nè si produce alcuna decadenza; i creditori, infine, non potranno ricevere

alcun pagamento per debiti scaduti prima o nel giorno della presentazione della domanda.

Con riguardo, invece, ai contratti stipulati dall’imprenditore e pendenti alla data della

proposizione della domanda, essi proseguono nei riguardi dell’imprenditore ammesso al

concordato, salva sempre la tutela del contraente in buona fede.

Il momento determinante per il prosieguo della procedura è però quello in cui sono chiamati ad

intervenire i creditori: il commissario giudiziale, infatti, ai sensi dell’art. 161, deve dare

comunicazione a tutti i creditori, personalmente, dell’avviso relativo alla proposta, contenente

l’indicazione della data e della proposta del debitore, in modo da consentire una loro informata

partecipazione all’adunanza fissata ex art. 174 l.f..

Proprio la relazione del commissario giudiziale, che si affianca a quella del professionista,

costituisce il documento informativo sul quale i creditori si baseranno nel momento del voto e per

questa ragione essa va depositata prima dell’adunanza.

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18

Le operazioni di voto possono proseguire anche per più giorni e le relative dichiarazioni di voto

potranno pervenire entro i venti giorni successivi alla chiusura del verbale, anche a mezzo telefax,

lettera o posta elettronica, di cui il cancelliere è tenuto a prendere nota in calce al verbale dovendo

queste computate ai fini della determinazione delle maggioranze.

Per l’approvazione della proposta, la legge, all’art. 177 comma primo, dispone che sia

necessario il voto favorevole della maggioranza dei crediti ammessi al voto e che, laddove il

concordato preveda la suddivisione dei creditori in classi, è necessario il voto favorevole della

maggioranza conseguita nel maggior numero di classi (si tratta della cosiddetta regola della

“maggioranza capitalistica” in quanto si tiene conto del solo valore nominale dei crediti).

A proposito dei creditori privilegiati, invece, abbiamo già accennato alla loro esclusione dal voto

allorquando la proposta ne preveda la integrale soddisfazione ed anche in ipotesi di contestazione

della garanzia: l’unico caso nel quale essi potranno esercitare il voto è rappresentato dall’eventualità

che intervenga una loro rinuncia, totale od anche parziale, e con effetti limitati ai fini del

concordato, alla prelazione con l’intento di agevolarne la conclusione, con l’effetto che essi sono

equiparati ai chirografari per la parte di credito cui hanno rinunciato.

L’esclusione dalle operazioni di voto dei creditori privilegiati si spiega, in sostanza, con la totale

indifferenza dei risultati del concordato rispetto a costoro, il che rende del tutto priva di rilievo (per

tali creditori) una loro partecipazione attiva all’approvazione della proposta.

La situazione sarebbe del tutto diversa allorquando essi rinuncino ad una parte o all’intera

garanzia, perché, così facendo, sarebbero esposti ai rischi di un mancato soddisfacimento delle

proprie pretese, potendo addirittura essere pregiudicati dalle soluzioni previste nel concordato.

Del tutto peculiare è l’ipotesi descritta dall’art. 180 l.f. che ricorre quando una classe di creditori

esprime voto sfavorevole alla proposta: solo in questo caso è riconosciuto al tribunale un ruolo

attivo dal momento che gli è attribuito un potere, detto di cram down, che ha ad oggetto l’esercizio

di un sindacato di merito sul piano allegato alla proposta, visto che il tribunale sarà chiamato ad

accertare in un secondo momento se i crediti della classe dissenziente possano essere soddisfatti

adeguatamente dalla proposta di concordato rispetto alle possibilità di soddisfazione alternativa.

Come lucidamente osserva il Galletti “il legislatore rimette al giudice il potere di stabilire se il

dissenso espresso da una o più classi sia determinato da ragioni economiche serie, oppure se esso

nasconda semplicemente la volontà di ottenere vantaggi occulti dal debitore, o da altri creditori, al

fine di comprare l’assenso al piano”30.

Tale previsione non raccoglie sufficienti consensi in dottrina, la si accusa di celare una violazione

dell’art. 3 Cost., perché, qualora la proposta di concordato non prevedesse la formazione di classi, i

30 Vedi Galletti, op. cit., nota 26.

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creditori minoritari non avrebbero alcuna chance per far valere il loro dissenso, non potendo

azionare il giudizio di cram down del tribunale.

Il concordato fallimentare, al contrario, è soggetto ad una procedura parzialmente diversa in

quanto si riferisce ad una proposta innestata in un’altra procedura concorsuale in corso, onde al

curatore fallimentare è stato attribuito un ruolo importante, non essendo possibile la nomina di

alcun commissario.

L’art. 125, non a caso, prescrive non solo che la domanda sia presentata al giudice delegato con

ricorso, ma anche che questi debba chiedere il parere del curatore: una volta acquisito tale parere, il

giudice deve interpellare il comitato dei creditori.

Laddove la proposta dovesse contenere condizioni differenziate per le singole classi create, il

tribunale deve operare un controllo sulla validità dei criteri utilizzati dal debitore per la loro

formazione.

Una volta acquisito il parere del curatore, il parere favorevole del comitato dei creditori e dopo

aver valutato la “ritualità della proposta”, il giudice delegato ne ordina la comunicazione a ciascun

creditore unitamente al parere del curatore ed a quello del comitato dei creditori, fissando

contestualmente un termine non inferiore a venti giorni né superiore a trenta giorni entro il quale

ogni creditore potrà far pervenire il proprio dissenso. La mancata risposta entro tale termine sarà,

invece, considerata come voto favorevole.

In questa procedura il ruolo dei creditori è un ruolo centrale in quanto la legge conferisce al

comitato quasi un “diritto di veto” sulla proposta, non importa da chi sia stata presentata, che è in

grado di determinare l’arresto della procedura de qua.

L’approvazione della proposta avviene anche qui secondo la regola maggioritaria, sia nel caso in

cui non si sia provveduto alla formazione di classi sia nel caso in cui, al contrario, le classi siano

state formate: l’art. 128, infatti, precisa che in ogni caso la proposta di concordato deve ricevere il

voto favorevole non solo della maggioranza dei creditori nel maggior numero di classi, ma, al

contempo, anche il voto favorevole della maggioranza di tutti i crediti ammessi al passivo.

Dall’esame delle disposizioni in parola si evince come anche in questo contesto all’autorità

giudiziaria sia stato attribuito un ruolo del tutto marginale, a differenza ad esempio della stessa

curatela, la quale partecipa alla dialettica tra debitore fallito e suoi creditori: la ragione di una simile

scelta siffatta sta nel fatto che i creditori sono i principali interessati ad una proficua soluzione della

crisi che porti ad una ristrutturazione del passivo con contestuale risanamento dei debiti.

La fase dell’approvazione vera e propria della proposta è, invece, regolata, diversamente in questa

procedura rispetto a quanto previsto per il concordato preventivo perché manca un momento

riservato alla dimensione collegiale, non essendo previsto lo svolgimento di alcuna adunanza. Sono

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gli artt. 127-129 l.f. che si occupano specificamente delle operazioni di voto: il diritto di voto è

attribuito a tutti i creditori chirografari indicati nello stato passivo reso esecutivo mentre, nel caso in

cui la proposta sia presentata prima del decreto che rende esecutivo lo stato passivo, il voto spetta a

tutti i creditori inseriti dal curatore nell’elenco provvisorio: per espressa previsione di legge

valgono, anche in caso di concordato fallimentare, le norme dettate in tema di voto per il concordato

preventivo.

Tanto il concordato preventivo quanto quello fallimentare devono essere, infine, omologati dal

tribunale per produrre i loro effetti: gli artt. 135 e 184 l.f. chiaramente fanno dipendere la

produzione degli effetti del concordato, in particolare del suo effetto principale, cosiddetto

“esdebitativo” del proponente, solo dal provvedimento del tribunale che omologa la proposta: la

procedura trova, tuttavia, una diversa regolamentazione a proposito delle due figure di concordato.

Riguardo al concordato preventivo, l’art. 179 l.f. contempla l’ipotesi negativa in cui la proposta

non ottenga le maggioranze prescritte dalla legge per la sua approvazione, il che obbliga il giudice

delegato a riferire al tribunale ai fini di una successiva dichiarazione di fallimento. Se, al contrario,

la proposta ottiene i consensi richiesti, il giudice delegato sollecita il tribunale in composizione

collegiale a fissare un’udienza di comparizione delle parti (debitore, eventuale co-proponente e

creditori dissenzienti) nonché del commissario giudiziale, ordinando altresì la pubblicazione del

provvedimento nelle forme prescritte dall’art. 17 l.f., ed anche la sua comunicazione al debitore, al

commissario e ai creditori dissenzienti, invitandoli a costituirsi almeno dieci giorni prima

dell’udienza e, sempre nel medesimo termine, il commissario giudiziale deve depositare anche il

proprio parere.

L’omologazione è pronunciata con decreto motivato non soggetto a gravame entro sei mesi

dalla proposizione della domanda, termine prorogabile una sola volta e per non più di sessanta

giorni (art. 181 l.f.), se non sono state proposte opposizioni; in caso contrario, il giudizio di

omologazione deve rispettare il contraddittorio tra le parti, pertanto non sarà celebrato in camera di

consiglio ma con un’adeguata istruttoria, dato che l’art. 180 comma 4, consente al tribunale di

assumere, anche d’ufficio, tutte le informazioni e tutti i mezzi di prova delegando, se necessario, un

membro del collegio.

Le legge prevede che il tribunale possa anche omologare la proposta di concordato nonostante

l’opposizione di un creditore membro di una classe dissenziente a condizione, però, che l’accordo

ne preveda una soddisfazione in misura non inferiore a quella ricavabile dalla vendita a valore di

mercato; nel corso del giudizio di omologazione, infatti, potrebbe nuovamente emergere una

valutazione circa la fattibilità del piano che accompagna la proposta, valutazione che stavolta solo il

tribunale potrà svolgere e con pieni poteri. Nelle more fra la votazione della proposta e il giudizio di

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omologazione, infatti, potrebbero rinvenirsi elementi tali da far ritenere che i creditori non abbiano

espresso un consenso informato sulla proposta e sul relativo piano, ovvero si rinvengano dati certi

di una non fattibilità del piano de quo, nel senso che esso non risulta più idoneo al perseguimento

degli obiettivi che il debitore si era prefissato.

In una simile fattispecie, il tribunale deve rivalutare il piano sulla base, però, della

rappresentazione che ne era stata fatta ai creditori al momento del voto, al fine di comprendere se i

creditori abbiano comunque avuto modo di rendersi conto dei rischi cui il piano li esponeva e,

nonostante ciò, lo abbiano comunque approvato31: tant’è che, qualora non fosse proposta alcuna

opposizione all’omologazione, il tribunale, in applicazione dell’art. 180 l.f., è tenuto ad esprimere

un giudizio limitatamente alla regolarità della procedura e all’esito delle operazioni di voto,

essendogli preclusa qualsiasi indagine più approfondita.

Il provvedimento che omologa il concordato ha la forma del decreto motivato e comporta il

contestuale rigetto di ogni opposizione: qualora oggetto della proposta di concordato sia una

cessione dei beni a favore dei creditori, il tribunale deve altresì nominare uno o più liquidatori

determinando le modalità di esecuzione della liquidazione, nonché, ex art. 182 l.f., un comitato di

tre o cinque creditori che assista i liquidatori.

In caso di rigetto dell’omologazione del concordato, il tribunale, su istanza dei creditori ovvero

del pubblico ministero, può procedere alla dichiarazione di fallimento del debitore ovviamente con

sentenza emessa contestualmente al decreto che nega l’omologazione.

Avverso il provvedimento del tribunale si può proporre impugnazione dinanzi alla Corte

d’Appello a mezzo di reclamo, sul quale la Corte pronuncia in camera di consiglio; il reclamo può

investire, allo stesso tempo, anche la contestuale sentenza dichiarativa di fallimento (art. 183).

Il giudizio di omologazione del concordato fallimentare trova diversa disciplina in ragione del suo

carattere incidentale rispetto alla procedura fallimentare già iniziata: innanzitutto, qualora la

proposta di concordato non dovesse essere approvata, si farà seguito, regolarmente alla

dichiarazione di fallimento con tutte le conseguenze che ne derivano.

In caso di approvazione della proposta, invece, il giudice delegato ne ordina la immediata

comunicazione al proponente, al fallito e ai creditori dissenzienti, a cura del curatore, onde

consentire loro di richiedere l’omologazione del concordato.

31 Vedi Ambrosini il quale afferma che: “L’accertamento in ordine alla fattibilità del piano ed alla possibile incidenza di sopravvenienze passive e fatti nuovi, deve essere condotto tenuto conto delle due situazioni ampiamente e dettagliatamente rappresentate ed illustrate dal commissario ai creditori in adunanza, dovendosi ritenere che detti creditori, proprio perché approfonditamente informati dell’incertezza dei possibili esiti della liquidazione, ne abbiano accettato il rischio, perlomeno nei limiti tracciati dalle previsioni e valutazioni effettuate dalla società ricorrente e dal commissario giudiziale”; op. cit..

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È importante sottolineare che il giudice debba fissare un termine, non inferiore a quindici giorni e

non superiore a trenta, entro il quale sarà possibile per qualunque interessato depositare eventuali

opposizioni, oltre al parere definitivo e motivato del comitato dei creditori. Nell’ipotesi di mancato

deposito del parere da parte di questi ultimi, dovrà supplire il curatore nei successivi sette giorni.

A differenza dell’omologazione del concordato preventivo, il giudizio di omologazione, nel caso

di concordato fallimentare, va iscritto a ruolo a cura del proponente e la forma che la legge

prescrive per gli atti della procedura (per domanda ed eventuali opposizioni) è quella del ricorso.

Anche in tale ipotesi, il provvedimento del tribunale assume forma diversa a seconda che alcuna

opposizione sia stata proposta: in caso di mancata opposizione all’omologazione, il tribunale

emetterà un decreto motivato non soggetto a gravame; questa circostanza va sottolineata perché

testimonia del carattere certamente non decisorio del provvedimento e della natura non contenziosa

del giudizio.

In caso di opposizione, invece, il giudizio si svolgerà nel pieno contraddittorio delle parti, in

camera di consiglio, con la possibilità per il collegio di poter esercitare poteri istruttori d’ufficio,

con eventuale delega anche di uno dei suoi componenti. Il provvedimento avrà la forma di un

decreto motivato, anch’esso non soggetto a gravame. In questa fattispecie il giudizio ha ad

oggetto la risoluzione di un contrasto nel contraddittorio fra le parti, che è destinato ad incidere

sulle loro rispettive posizioni, non solo su quelle del fallito, onde il provvedimento così emesso è

reclamabile dinanzi alla Corte di Appello entro trenta giorni dalla sua notificazione, ex art. 131 l.f..

Anche la Corte di secondo grado decide con un decreto motivato ricorribile in Cassazione entro

i successivi trenta giorni.

L’eventuale accoglimento dell’opposizione comporterà la sospensione dell’iter del concordato

in quanto implicitamente comporta il diniego dell’omologazione, non ostando però alla

proposizione di un’ulteriore opposizione al suo accoglimento.

Veniamo, infine alla disciplina degli effetti: nel concordato preventivo, essi si produrranno

immediatamente con la pronuncia del decreto di omologazione ma acquisteranno la loro stabilità

solamente nel momento in cui esso diventa inoppugnabile: il decreto è tuttavia provvisoriamente

esecutivo, salvo che non intervenga un provvedimento del giudice di secondo grado che ne

sospenda l’esecutività.

Tra gli effetti dell’omologazione si distingue quello della cessazione degli effetti della proposta,

per cui il debitore torna nella piena disponibilità dei suoi beni e i creditori potranno tornare ad

esercitare tutti i loro diritti, e inoltre, elemento questo molto rilevante, il programma contenuto nel

concordato diviene obbligatorio per tutti i creditori anteriori all’apertura della procedura (artt. 135 e

184 l.f.).

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Solo dall’omologazione del concordato dipende, inoltre, il rilevante “effetto protettivo”

consistente nella esenzione da revocatoria degli atti, pagamenti e garanzie disposti in esecuzione del

concordato stesso nell’ipotesi in cui dovesse sopravvenire il fallimento del debitore, nonché

l’ulteriore conseguenza che tutti i debiti sorti successivamente alla proposta di concordato, in

quanto esplicitamente qualificati come “prededucibili”, devono essere soddisfatti con precedenza

rispetto ai creditori concorsuali (art. 185).

L’omologazione del concordato fallimentare è disciplinata, invece, dagli artt. 130 e seguenti l.f.:

la prima regola enunciata è che, a differenza del concordato preventivo, quello fallimentare non è

provvisoriamente esecutivo, ma produrrà i propri effetti solamente dopo che saranno inutilmente

decorsi i termini per una sua impugnazione.

A seguito dell’omologazione, tuttavia, il curatore è tenuto a depositare un rendiconto della

gestione e il tribunale deve dichiarare chiuso il fallimento: ciò comporta la cessazione di tutti gli

effetti tipici del fallimento che si producono in capo al fallito e sul suo patrimonio, determina la

cessazione degli organi della procedura fallimentare e la perdita, da parte loro, di ogni eventuale

legittimazione processuale.

Il concordato, divenuto definitivo, produce quale suo effetto primario quello di liberare il

debitore dai debiti residui a lui imputabili ed esso diventa obbligatorio e vincolante per tutti i

creditori anteriori alla dichiarazione di fallimento, quand’anche non avessero presentato domanda di

ammissione al passivo (art. 135 l.f.: effetto esdebitativo).

In caso di perfezionamento di una siffatta proposta, il giudice delegato, dopo aver accertato che il

concordato è diventato esecutivo, è tenuto ad adottare ogni misura che egli ritenga idonea a favorire

l’adempimento delle prescrizioni contenute nell’accordo.

Agli artt. 137 e 186 l.f. sono contemplate le ipotesi di risoluzione dei due tipi di concordato,

disciplinandole in maniera analoga, i cui tratti salienti sono modellati sulla disciplina prevista per la

risoluzione del contratto in generale dall’art. 1453 c.c..

La risoluzione è pronunciata con sentenza reclamabile ex art. 18 l.f., provvisoriamente esecutiva,

che può essere richiesta da ciascuno dei creditori: le suddette norme dispongono che la risoluzione

del concordato possa essere chiesta al massimo entro un anno dalla data fissata per l’ultimo

adempimento del concordato, nell’ottica tesa a favorire la stabilizzazione degli effetti dell’accordo.

Il decreto che eventualmente accolga la domanda di risoluzione provoca la caducazione degli

effetti dell’omologazione in quanto ha efficacia estintivo-costitutiva; è tuttavia prevista una norma

a tutela dei creditori che consente loro di mantenere quanto avessero già ricevuto prima della

domanda di risoluzione, unitamente alle garanzie che ancora gli siano dovute.

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Gli effetti della pronuncia di risoluzione divergono in ragione delle diverse finalità dei due istituti:

nel caso di concordato preventivo, infatti, il tribunale potrà dichiarare il fallimento su istanza dei

creditori istanti o del pubblico ministero, sempre sussistendo le condizioni di cui agli artt. 1 e 5 l.f.;

in caso di concordato fallimentare, invece, il tribunale disporrà la riapertura della sempre pendente

procedura fallimentare, con tutte le conseguenze che ne derivano per il fallito, per gli organi della

procedura e per i creditori.

In entrambi i procedimenti, la risoluzione del concordato sembra far rilievo sul parametro

dell’importanza/gravità dell’inadempimento tanto che, il secondo comma dell’art. 186, esclude la

legittimazione a richiedere tale provvedimento allorché l’inadempimento abbia scarsa rilevanza:

tuttavia, forti sono le perplessità della dottrina circa la natura di tale “scarsa rilevanza”, se essa cioè

debba essere valutata da un punto di vista soggettivo, avendo riguardo agli interessi dei creditori

istanti, o piuttosto da un punto di vista oggettivo, tenendo in considerazione l’intero programma

negoziale e la sua concreta fattibilità. La risoluzione si configurerebbe, in ogni caso, come rimedio

di natura sanzionatoria, con carattere satisfattivo per il creditore che la richieda e afflittivo, al

contrario, per il debitore che la subisce.

Il concordato, una volta omologato, può essere annullato su istanza del curatore o di qualunque

altro creditore interessato se è stato dolosamente esagerato il passivo ovvero se sia stata occultata

una parte dell’attivo, come prescritto dagli artt. 138, per il concordato fallimentare, e 186 per il

concordato preventivo: il procedimento prescritto per la pronuncia di annullamento segue le stesse

regole dettate per la risoluzione del concordato.

A proposito del dettato dell’art. 138 l.f., la legittimazione a richiedere l’annullamento del

concordato per la scoperta del comportamento dolosamente pregiudizievole tenuto dal debitore,

spetta anche al curatore fallimentare, oltre che agli altri creditori, a differenza di quanto previsto

dalla norma precedente a proposito della domanda di risoluzione. La differente previsione in tema

di legittimazione deriva dalla circostanza che la risoluzione è un rimedio contrattuale il cui utilizzo

è consentito solamente alle parti di un contratto, o di un negozio, e non anche a soggetti, quali il

curatore di una procedura fallimentare, che si distinguono dalle parti proprio per la loro terzietà ed

assenza di interessi individuali nella procedura concorsuale. L’annullamento, al contrario, è un vizio

che inficia l’atto in quanto denuncia una situazione reale diversa da quella prospettata e posta alla

base della manifestazione di volontà.

Va infine precisato che il ricorso di annullamento può essere proposto entro sei mesi dalla

scoperta del dolo, e in ogni caso non oltre il termine di due anni dalla scadenza del termine previsto

per l’ultimo adempimento della procedura.