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SETTIMANALE LEFT AVVENIMENTI POSTE ITALIANE SPA - SPED. ABB. POST. - D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/2004 N. 46) ART. 1, COMMA 1 DCB ROMA - ANN0 XXIII - ISSN 1594-123X AVANTI A SINISTRA N. 43 | 4 novembre 2011 | supplemento gratuito al numero odierno de l’unità non cedibile separatamente da l’unità avvenimenti ESCLUSIVA Parla Agnese Borsellino INTERVISTA D’Alema: il liberismo ha fallito INCHIESTA Le zampe legate dell’Eni Le idee per fare uscire l’Europa dalla crisi

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PER CHI NON HA TROVATO LEFT: questa settimana il numero che è uscito in edicola si può scaricare gratis dal sito nuovo (e in continuo aggiornamento). Basta andare su www.left.it . In particolare questo numero tratta il tema dei conti pubblici del Comune di Reggio Calabria in un bell'articolo a firma di Rocco Vazzana a pagina 28.

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n. 43 | 4 novembre 2011 | supplemento gratuito al numero odierno de l’unità non cedibile separatamente da l’unità

avvenimenti

EsCLUsiva Parla Agnese Borsellino

intErvista D’Alema: il liberismo ha fallito

inChiEsta Le zampe legate dell’Eni

Le idee per fare uscire l’Europa dalla crisi

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leftDirettore eDitorialeilaria Bonaccorsi Gardini

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sommariola nota di ilaria Bonaccorsi Gardini

P erché oggi siamo qui, insieme a l’Unità, dobbiamo spiegarve-lo. E perché abbiamo deciso di

cambiare radicalmente il nostro gior-nale, anche questo ve lo dobbiamo spiegare.Ci sono idee che hanno una forza irresistibile. Irresistibile è l’idea di Gramsci, quella di unire gli operai del Nord con i con-tadini del Sud. Di unire l’intero popolo italiano “nella lotta contro il fascismo”. Tanto irresistibile da dare un nome alla cosa: l’Unità.Come irresistibile è stato per noi fonda-tori di left, ripartire dalle tre parole del-la Rivoluzione francese intuendo, sin dal principio, quanto sarebbe stata lun-ga e difficile la strada. Ma irresistibile era l’idea di partecipare, rivoluzionare l’informazione e il dibattito a sinistra.Ci sono idee che arrivano ovunque.La libertà è l’obbligo di essere esse-ri umani. Tutti gli esseri umani nasco-no uguali. Non tutti nascono liberi. Ma uguali sì. La realizzazione di quell’idea di uguaglianza che non parla soltanto di “uguale” soddisfazione dei bisogni, battaglia storica della sinistra, ma di “uguale” nascita per ogni essere umano porterebbe al superamento di ogni for-ma di intolleranza e razzismo. Perché scrive bene Prosperi: «Non esiste il san-gue blu della nobiltà. Non esiste la puz-za dell’ebreo. è esistita una classe di persone che si faceva vanto di non do-ver esercitare nessuna attività manuale per vivere: e l’assenza di lavoro manua-le si rivelava in una epidermide delicata che lasciava trasparire una rete venosa azzurrina, invisibile sotto la pelle callo-sa di contadini, marinai, commercian-ti...». Accoppiata storicamente perden-

te quella di libertà e di uguaglianza. La libertà ha generato disuguaglianze e l’uguaglianza ha ucciso la libertà. Oggi, nel nostro Paese, si è raggiunto il livel-lo più basso: la libertà è stata sostitui-ta dal peggiore dei neoliberismi, l’unità dal più becero dei federalismi e l’ugua-glianza ridotta a parola vuota dagli at-tuali fascismi. Il segreto allora può essere quello di avvicinare due idee: l’uguaglianza con l’unità. Non solo uguali, perché na-ti uguali. Bianchi, neri, rossi, gialli. Ma uniti. Uniti da: rivolta, ricerca, coeren-za, coraggio.«Una nuova sinistra deve camminare su due gambe: su ciò che non sappiamo dell’uomo e della donna e su ciò che già sappiamo dello sfruttamento e dell’op-pressione nella società». Lo scriveva qualche anno fa una collega. è una buona idea, sulla quale lavorare alacremente.left rilancia. E cerca l’unità.“Fatti le tue opinioni” è stata la nostra prima campagna pubblicitaria, sulla quale campeggiava lo sguardo di una bambina di pochi mesi. “Concepito a sinistra” recitava la se-conda, con l’ironica immagine di Che Guevara incinta.Oggi, con voi, vogliamo dire che “sono le idee che cambiano il mondo”. Idee dalla forza irresistibile, che arrivano ovunque: quelle di unità ed uguaglian-za, nel cui abbraccio sta una nuova idea di libertà.Nel nostro giornale troverete il rac-conto di quelle idee, dalla politica este-ra alla musica, dalla cronaca alla cultu-ra. Grazie a tutti i lettori de l’Unità che oggi ci scoprono e ai nostri che da anni ci seguono attenti.

avanti a sinistra. Sono le idee che cambiano il mondo

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primo pianogolpe a via d’amelio

Agnese Borsellino, vedova di Paolo, per la prima volta in una intervista esclusiva al nostro gior-nale racconta la sua ansia: «Via

D’Amelio ha distrutto la mia vita. Cossiga un mese prima di morire mi disse: la storia del-la strage di suo marito è da colpo di Stato».

copertinaavanti a sinistra

L’Europa al bivio, tra crollo e rina-scita. Gli errori del duo Merkel-Sarkozy. Le controproposte dei socialisti, che si candidano a governare in Francia, Germania

e Italia. Le critiche dei sindacati. L’analisi dell’economista Emiliano Brancaccio.

cilecamila, volto della rivolta

Il 13 maggio cominciava in Cile, il Paese del miracolo economico e dei Chicago Boys, la stagione dell’indignazione. A guidarla Cami-la Vallejo Dowling, 23enne leader

degli studenti cileni. Che chiedono istruzio-ne gratuita, pubblica e di qualità.

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IAnno XXIII, nuoVA SErIE n. 43 / 4 noVEMBrE 2011

Chiuso in tipografia il 30 ottobre 2011Foto di copertina: Istockphoto

sommario

la settimana03 lasettimanaccia04 lanota06 lettere07 anteprima08 immaginiprimo piano12 agneseBorsellino:cossiga parlòdicolpodistato di Giommaria Monti

copertina14 UltimotangoaBruxelles di Manuele Bonaccorsi16 tedeschiperlastabilità di c.t.17 Brancaccio:farcrescereisalari èl’unicaviaperlaUe di m.b.18 lagauchealbivio di Sarah Di Nella19 c’eravamotantoamati di Paola Mirenda20 piùlabour,menoBlair di Ivana Bartoletti22 D’alema:lapoliticaabbia “l’animograndeel’intenzionealta” di Giommaria Monti

società28 l’ottobrenerodiscopelliti di Rocco Vazzana31 all’ombradimalagrotta di Sofia Basso34 mammealtempodellacrisi di Chiara Paolin36 crocerotta di Debora Aru e Alberto Puliafito

mondo42 camila,ilvoltodellarivolta di Angelo D’Addesio44 eni,zampelegate di Cecilia Tosi47 l’appetitofrancesedi p.m.48 reportageinfernod’argilla di Jeung Keun Park

cultura e scienza56 ipionieridellaprevenzione di Federico Tulli60cantarellaraccontalavitaa pompeidi Simona Maggiorelli64Fossati:ladecadenzaè andarviadi Giommaria Monti66 l’intelligenzapoeticadiBobo di Donatella Coccoli68mercanDede,ilderviscio punkdi Don Pasta

ruBricHe39 la scuola che non c’è di Giuseppe Benedetti40 calcio mancino di Emanuele Santi52 news global a cura della redazione Esteri59 libri di Filippo La Porta67 arte di Simona Maggiorelli70 teatro di Marcantonio Lucidi71 cinema di Alessia Mazzenga72 baZar junior, scienZa, blues74 appuntamenti di P. De Lauro e P. Tosatti

idee10 taccuino di un lettore di Adriano Prosperi62 trasFormaZione di Massimo Fagioli

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lottavarimadi Francesco Burroni

Facilità di licenziamentoNon è solo l’incertezza del domanima è proprio un cambiamento epocale:saremo più “cinesi” che italiani,fare straordinari sarà normale,diventeremo tutti più ruffiani,la solidarietà sarà opzionalee smetteremo di dormire sugli alloridello Statuto dei lavoratori.

Fly left di Alessandro Ferraro

Salvate le tv locali

Come se già le cose non an-dassero abbastanza male per la stampa scritta, con pochi gruppi editoriali che detengo-no il monopolio dell’informa-zione locale e vanno avanti con una redazione di quattro gatti con contratto degno di questo nome, per lo più per-sone che hanno iniziato que-sto mestiere quando anco-ra era riconosciuto come ta-le, e con pensionati o impie-gati delle poste che scrivono in cambio di due caramelle, adesso arriva pure la mazza-ta per le televisioni locali. Il piano del governo, era molto chiaro: dimezzare il numero delle emittenti per favorire pochi colossi, che poi signi-fica accaparramento delle entrate pubblicitarie e spe-gnimento di voci che parla-no lingue diverse; se poi al progetto del principale im-prenditore televisivo del no-stro Paese ci si aggiungono gli appetiti dei monopolisti regionali e la scarsa vigilan-za da parte degli enti locali, ecco che la frittata è fatta.Dalle prime graduatorie usci-te in Toscana per l’assegna-zione delle frequenze emer-gono alcuni dati: sono state favorite le televisioni che ne-gli anni hanno investito sui mezzi e sull’espansione ter-

ritoriale, senza considera-re che in molti casi lo hanno fatto senza investire sul per-sonale e magari, nel peggio-re dei casi, limitandosi a tra-smettere a ruota televendite e accattivanti signorine, nel-le ore più tarde della notte ci mancherebbe, e nel miglio-re dei casi arruolando corri-spondenti sul territorio sen-za qualifica precisa, magari un aspirante giornalista che si improvvisa anche operatore oppure un aspirante operato-re che pur di mantenere l’in-carico si improvvisa anche giornalista.E tutto questo, ovviamente, dietro compensi vergogno-si, speculando sul fenomeno del voler apparire in tv a tutti i costi. Le emittenti che hanno invece investito sul persona-le, che hanno puntato su figu-re qualificate garantendogli tra mille difficoltà un contrat-to degno di questo nome ver-ranno penalizzate. Non solo. Le televisioni che negli anni si sono prese la briga di coprire piccoli centri per senso di re-sponsabilità, credendo che l’informazione locale sia un servizio per i cittadini, pur ri-mettendoci in termini di baci-no pubblicitario, oggi vengo-no punite.Oltre ai dipendenti ci rimet-teranno anche i comuni più piccoli e le frazioni, insom-

ma territori già di per sé pe-nalizzati, che perderanno an-che il servizio dell’informa-zione. Una tv locale dovreb-be svolgere una funzione di servizio: dall’appello del sin-daco quando c’è una cala-mità naturale al nuovo ora-rio della farmacia. E la scusa non può essere che tanto c’è internet perché i centri mino-ri, è noto, sono abitati per lo più da persone anziane che hanno poca confidenza con le nuove tecnologie. Ma c’è anche una terza categoria di vittime: sono i negozianti di paese, i piccoli imprenditori che non hanno certo né i sol-

di né l’interesse per farsi pub-blicità su scala regionale o nazionale. Il progetto del go-verno era chiaro, speriamo che gli amministratori e i po-litici toscani facciano qualco-sa per arginarlo; che non di-mostrino di interessarsi del-le tv locali solo quando c’è da fare campagna elettorale o al taglio del nastro del nuovo marciapiede. La sinistra, che già si è opposta alla propo-sta di legge per la depoliticiz-zazione della Rai, adesso ha un’altra chance per riacqui-stare un po’ di credibilità sul tema dell’informazione.

Francesca Campanelli

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left.it brevi

DOSSIER

Prigioni malateIn Italia 67.428 per-sone sono rinchiu-se all’interno di 206 istituti penitenziari. Ci sono quasi 22mi-la detenuti in più ri-

spetto alla capienza regolamentare delle prigioni. Sono solo alcuni dati diffusi da Prigioni malate, l’ottavo rapporto sulle condizioni del-la detenzione nel nostro Paese, presentato il 28 ottobre a Roma da An-tigone. Un terzo degli internati, 24.401 persone, è costituito da citta-dini stranieri, provenienti soprattutto da Marocco (20,2 per cento) e Romania (14,8). Ma tra le anomalie del sistema italiano c’è senz’altro l’altissimo numero di cittadini rinchiusi in attesa di giudizio: 14.639. Condanna definitiva solo per 37.213 persone. r.v.

Il massacro dei giornali d’ideeContinua la mobilitazione contro i tagli del governo ai giornali di idee (no profit, di partito e di cooperative). A rischio un centinaio di testate con circa 4mila dipendenti. Gli ultimi “tagli lineari” volu-ti dal governo Berlusconi devastano la già ridotta cifra di 184 mi-lioni del Fondo per l’editoria stanziati per il 2011 e il 2012. Si calco-la che ne rimarrebbero poche decine. Dopo l’appello al Presiden-te della Repubblica sottoscritto da oltre sessanta testate, a cui left aderisce, Giorgio Napolitano ha risposto dicendo di condividere «la preoccupazione per i rischi che ne potrebbero derivare di mor-tificazione del pluralismo dell’informazione», aggiungendo la vo-lontà «di manifestare questo mio punto di vista al governo». Fnsi, Mediacoop, Cgil e tutti gli altri soggetti coinvolti continueranno la battaglia affinché le richieste di questo settore vitale per l’informa-zione vengano recepite in Parlamento.

mauRIzIO SaccOnIterrorismo sul lavoro«Ho paura che la violenza politica si trasformi in omicidio». Maurizio Sacconi, l’uomo al quale Marco Biagi scrisse invano una lettera chieden-dogli un aiuto per avere una scorta adeguata, evoca il rischio terrorismo di fronte all’alzata di scudi dei sindacati sui licenziamenti facili. «Tut-te le simulazioni relative a una maggiore flessi-bilità danno più occupazione», ha dichiarato, in polemica con le stime della Cgia di Mestre, il mi-nistro approdato a Forza Italia dal Psi di De Mi-chelis e del debito pubblico. Per ora, comunque, quello accusato di violenza privata e intimidazio-ni è proprio lui, denunciato dai radicali per il ca-so Englaro: aveva minacciato di escludere dal si-stema di accreditamento le cliniche che avesse-ro interrotto l’idratazione e l’alimentazione for-zate. Nel 2009 la Procura di Roma lo ha iscritto nel registro degli indagati. Da allora il dicastero di Sacconi ha perso le competenze sulla Sanità. Gli rimangono Lavoro e Politiche sociali. Qual-cuno dovrebbe ricordarglielo. s.b.

PD In PIazzaL’appuntamento per la manifesta-zione del Pd, “Ricostruzione in no-me del popolo italiano”, è alle 14,30 del 5 novembre in piazza San Gio-vanni a Roma. «Una grande festa di piazza - ha spiegato Pier Luigi Ber-sani - per lanciare le proposte del Pd e per la ricostruzione democrati-

ca, sociale ed economica del Pae-se». Sul palco, anche il candidato alle presidenziali francesi Francois Hollande e il segretario dell’Spd te-desco, Sigmar Gabriel. Dopo le con-clusioni del segretario nazionale, il concerto di Roberto Vecchioni. Non a caso il motto lanciato su Facebo-ok è «finirà la notte».

matrimoni fugaciLuna di miele già finita tra Domenico Scilipoti e Gaetano Saya. Dopo essere stati sullo stesso palco in occasione del congresso dei Responsabili, il salva-tore di Berlusconi e il neo fascista so-no già ai ferri corti. Per uno come Sci-lipoti, che alla moralità ci tiene, esse-re accostato al nome di un nostalgico del Ventennio non è una bella cosa. So-prattutto se al leader di estrema destra sfuggono parole pesanti sul conto del presidente della Camera. E Saya, sul suo sito (gaetanosaya.org) ha rispo-sto a modo suo: «Sei un povero giulla-re, una scimmia ammaestrata, Scilipo-ti sei un bugiardo, abbiamo attaccato Fini su tuo suggerimento». r.v.

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Una bambina afgana impara a leggere il libro sacro in una scuola coranica, uno dei po-chi luoghi di tranquillità per chi è nato con la guerra in casa. Anche questa settima-na un attentato ha scosso le strade di Kabul: il 29 ottobre un’autobomba si è scaglia-ta contro un convoglio della Nato e ha fatto 17 vittime, di cui 4 afgani e 13 occidentali. E anche stavolta il presiden-te Karzai si è limitato a invia-re le sue condoglianze alle fa-miglie delle vittime, distribu-ite tra America, Gran Breta-gna, Canada e Kosovo. La ca-pitale dell’Afghanistan non è mai stata un luogo sicuro, ma negli ultimi mesi il nume-ro degli attentati è aumenta-to, come a lanciare il messag-gio che nessun gruppo tra gli insorti è autorizzato a nego-ziare col governo Karzai. So-no mesi, infatti, che gli ame-ricani sponsorizzano i tenta-tivi di dialogo tra l’esecutivo di Kabul e alcuni esponenti dei Talebani, ma per ora non si intravede nessun risultato. E la scadenza del 2014 - quan-do tutte le truppe Usa do-vranno ritirarsi - si avvicina pericolosamente.(Muheisen/Ap/Lapresse)

Avere cinque anni a Kabul

fotonotizia

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I l pentimento va in scena nell’Italia di oggi: prima vo-ci isolate, lamenti e perplessità al chiuso di palazzi e di chiese, poi un coro generale che si leva dalle prime pagine dei giornali, dalle “conventions” di industriali

e finanzieri, dalle voci di piazza di dirigenti sindacali. Chi oggi si pente ieri aveva salutato con applausi l’avvento di una forte maggioranza di centrodestra al governo del Pa-ese sotto la guida dell’“uomo nuovo” Berlusconi. Oggi si disdicono tutti, cardinali, finanzieri e industriali, segreta-ri generali di sindacati, grande stampa d’opinione. Sem-bra di essere tornati ai giorni della Liberazione, quando tutti i vecchi arnesi del regime si scoprirono antifascisti. Anche nell’Italia di oggi è una corsa a rifarsi la perduta verginità. La Chiesa cattolica che in tutte le sue voci istituzionali aveva sa-lutato entusiasticamente l’avvento al potere di Berlusconi - l’uomo, come sembra abbia detto ancora di recen-te, sospirando, un cardinale alle as-sise del clero della sua regione, che «ci ha salvato dai comunisti» - ha av-viato uno sganciamento felpato, pie-no di parole così alate e di intemerate morali così generiche da non sfiorare mai il terreno dei nudi fatti e delle re-sponsabilità con nome e cognome.

La voce della Confindustria è stata più chiara e perfino brutale. E si può capire: gli affari vanno malissimo, non c’è tempo da per-dere. Più lento il movimento delle macchine dell’opinio-ne moderata. Ma anche qui lo sganciamento di editoria-listi di fama è in atto. I direttori del quotidiano della Con-findustria e del Corrierone milanese di recente hanno accordato nello stesso giorno i loro tromboni con l’edi-toriale di Repubblica e hanno intonato la preghiera co-rale della nuova liturgia, l’implorazione all’ “unto del Si-gnore” perché faccia il famoso “passo indietro”: anche se, in un rigurgito di passate debolezze e compromissio-ni, il direttore del Corriere ha garantito a Berlusconi che la storia sarà con lui più benevola della cronaca. Curio-

so augurio, simile a quello di chi ai funerali prega per il cadavere che la terra gli sia lieve. O forse è la coscienza del fatto che il giudizio dei futuri storici colpirà non so-lo l’uomo Berlusconi ma anche un intero sistema di po-tere che ha voluto al posto di comando un uomo che tutti sapevano inadatto a quel ruolo («unfit», scrisse l’Econo-mist), ma dal quale si aspettavano la libertà di fare i lo-ro comodi: libertà di svincolarsi dalle leggi, speculare, li-cenziare, evadere le tasse, saccheggiare e spartirsi i beni comuni - acqua, terra, aria incluse.

La Chiesa, cioè l’apparato di potere che regna sul po-polo dei sempre più indocili credenti, ha pagato in be-

nedizioni i trattamenti fiscali di favo-re, le provvidenze per le scuole priva-te, le barriere alzate contro la libertà di religione e di coscienza e contro i diritti civili, si tratti di scelte all’inizio e alla fine della vita o di matrimonio, con l’effetto non solo di aprire an-che qui tra l’Italia e le democrazie del mondo un abisso sempre più gran-de ma anche di sconcertare, allon-tanare, disgustare clero e credenti e di forzare perfino quell’idea di Chiesa che fa riferimento all’unità nella co-munione eucaristica (perché, come ha notato l’attentissimo Gian Anto-nio Stella, al divorziato Berlusconi è

stato consentito di fare la comunione pubblicamente). Perfino i commercianti che dalla “liberalizzazione” del-le licenze e dalla mancata sorveglianza statale sui prez-zi dopo l’ingresso nell’euro avevano ricavato motivi per ovazioni a scena aperta all’“unto del Signore”, si stanno fortemente raggelando nei suoi confronti da quando la gelata della povertà e l’avidità del fisco hanno lambito anche i loro affari. Non parliamo dei sindacati Cisl e Uil che avevano rotto l’unità con la Cgil per marciare al se-guito del ministro del Lavoro, il catto-socialista Sacco-ni (l’uomo che sarà ricordato per aver capeggiato cam-pagne sanfediste e scatenato sopraffazioni legali con-

Molti si sganciano da Berlusconi. La realtà bussa alle porte di tutti e di ciascuno

Cardinali, finanzieri

e industriali, segretari generali

di sindacati, grande stampa: è una corsa a

rifarsi la perduta verginità

I pentiti e l’Italia nel fango di Adriano Prosperi

storico

taccuino di un lettore

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tro Beppino Englaro). Da dove è venuto il ripensamen-to? Forse si è ascoltata la voce del mondo intero, ci si è vergognati per le buffonesche prove internazionali del nostro primo ministro, per le sue amicizie impresenta-bili, da Putin a Gheddafi, per lo sfacciato spettacolo di corruzione che non ha risparmiato nessuno, dai giudi-ci alle donne dell’harem imposte in politica e premia-te con poltrone pubbliche per servizietti privati? No. Non è per questo che i “poteri forti” si stanno desolida-rizzando.

Il fatto è che oggi la realtà bussa alle porte di tutti e di ciascuno in questo nostro disgraziato e irresponsa-bile Paese. Povero Paese che dopo centocinquant’anni dalla sua liberazione dagli stranieri - scrive l’Economi-st - deve sperare l’arrivo da fuori di qualcuno che la go-verni e la protegga da se stessa. Dopo la “macchina del fango” attivata dal regime berlusconiano contro i cri-tici e gli avversari, si è mosso il fango della natura of-fesa che ha cancellato vite umane e paesaggi. La spe-culazione selvaggia, la serie di condoni e di dissennate cancellazioni di regole si ritorcono contro di noi e col-piscono tutti senza distinzione. L’infinita quantità di ca-se e appartamenti costruiti senza regole resta invendu-ta. Il Paese è a pezzi. Davanti a una minoranza di stra-ricchi, a una massa di evasori fiscali e a un ceto politico abbarbicato a privilegi assurdi, c’è la stragrande mag-gioranza di un Paese che lotta per sopravvivere. Siamo tutti più poveri, ma alcuni sono poverissimi. I giovani soprattutto: senza lavoro e senza speranza, condannati all’emigrazione o alla sopravvivenza alle spalle dei non-ni, inutilmente blanditi da un sistema che ha abbassato la qualità degli studi per regalare a tutti titoli inservibi-li. Dopo anni di guerra contro gli immigrati, oggi diven-ta sempre più difficile distinguere un disoccupato ita-liano da un lavoratore clandestino: sono tutt’e due dei fuori casta, degli “extra-comunitari”. Ma gli effetti del sisma che scuote l’assetto stesso dell’Unione europea e vanifica gli sforzi fatti dal governo Prodi e dalla presi-denza Ciampi per collocarci sotto l’ombrello dell’euro perdono efficacia e si smarriscono nel disordine litigio-so di una folla di ministri, sottosegretari e deputati im-pegnati a pensare solo a se stessi. E il discredito non ri-sparmia certo una opposizione inerte e divisa. La mag-gioranza della popolazione non ha idea di chi votare o è decisa a non votare se e quando qualcuno le restitui-rà questo diritto. è un record che in Italia non era stato mai raggiunto: avevamo in Europa il primato della par-tecipazione politica, adesso siamo finiti anche su que-sto nelle ultime posizioni. Dal disprezzo per la casta dei politici si salva per fortuna la Presidenza della Re-pubblica, per merito dell’attenta, appassionata e luci-

da vigilanza di Giorgio Napolitano. Ma se la scena pub-blica è ancora oggi ingombra dagli sproloqui e dai truc-chi fallimentari di un personaggio squalificato, se anco-ra non ci è possibile guardare in faccia seriamente i ter-ribili problemi che ci incombono è perché questo Pae-se non ha un’opposizione degna di tale nome. Bisogne-rebbe chiederci chi ha affossato il governo Prodi, chi ha voluto lasciare aperta la strada a Berlusconi evitando di approvare la legge sul conflitto di interessi: chiederci perché dallo sfascio materiale e morale del Paese non si salvino nemmeno le regioni amministrate dal centro-sinistra. Senza un esame rigoroso degli errori che sono stati compiuti, senza una rinnovata capacità di ammi-nistrare la cosa pubblica e di difendere i diritti di tutti e di ciascuno, senza insomma una vigorosa ripresa della vita politica collettiva che ci dia una classe di governo veramente al servizio del Paese e non delle proprie im-munità e privilegi, sarà difficile sgombrare le istituzioni e le vie del Paese dal fango e dall’immondizia morale e materiale che le coprono. Qualcosa abbiamo, non par-tiamo da zero: i principi e i diritti sanciti nella nostra Costituzione.

Ma l’urgenza è estrema: come ha rilevato Alain Tou-raine, l’opinione pubblica europea pone per aiuta-re l’Italia la condizione che la voce del paese «non sia più quella dell’attuale presidente del Consiglio dei mi-nistri». Ed è notizia di sabato 29 ottobre che nel rap-porto sul traffico di esseri umani nel mondo presentato da Hillary Clinton compare il nome di Berlusconi come imputato di sfruttamento sessuale di minorenne. Dob-biamo aspettarci dunque che il presidente del Consiglio dei ministri del governo italiano, dopo le risatine di di-sprezzo dei suoi pari grado europei, regali a tutti gli ita-liani l’ulteriore immensa vergogna collettiva di un man-dato d’arresto internazionale. Si deve proprio arrivare a tanto perché chi può gli imponga di rimettere immedia-tamente la sua carica come colpevole del reato di lesa maestà della nazione tutta?

Il Paese è a pezzi.Davanti a una minoranza di straricchi e a un ceto politico abbarbicato a

privilegi assurdi, c’è una stragrande maggioranza

che lotta per sopravvivere

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Sta male, Agnese Borsellino. è appena uscita dall’ospedale dove le curano una gravissima ma-lattia, una di quelle che spesso purtroppo non per-dona. Giorni interi in un ambiente asettico, senza poter comunicare se non con i figli, e uno per vol-ta. L’avevamo incontrata ad aprile nella casa dove ha vissuto con Paolo Borsellino. Lì tutto è rimasto com’era: la targa alla porta, il salotto buono, lo stu-dio del magistrato in ordine. In mezzo c’è passato un ciclone che ha distrutto tutto, a cominciare dal-le certezze che sembravano acquisite sulla strage di via D’Amelio. Oggi che il pentito Gaspare Spa-tuzza, prove alla mano, distrugge il teorema di un

altro pentito, Vincenzo Scarantino. Oggi che ven-gono scarcerati quelli che un’inchiesta sbagliata (“eclatante forzatura investigativa”, la definisco-no i pm di Caltanissetta) aveva indicato come i re-sponsabili della strage. Oggi che viene fuori che in un appunto del Sisde, il Servizio segreto civile di allora, di fatto preannuncia di due mesi la versio-ne di Scarantino e che l’ex questore di Palermo Ar-naldo La Barbera, che in quei giorni del ’92 guida-va la squadra mobile della città, un ruolo l’ha avu-to in questa falsa pista costruita per chiudere in fretta un tremendo affare di Stato. E occultare la verità. Oggi Agnese Borsellino è una donna che

Cossiga mi disse:via D’Amelio come un colpo di Stato

di Giommaria Monti

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quella verità invece la vuole. L’aspetta in silenzio da vent’anni insieme alla sua famiglia: i figli Man-fredi, Fiammetta, Lucia. Quando la incontrammo mesi fa ci salutammo con la promessa che avreb-be scritto per il ventennale della strage una lettera a Paolo. Adesso il tempo forse non c’è più. In que-sta conversazione telefonica di pochi giorni fa ci dice tutta la sua amarezza, ci racconta le parole di Cossiga nell’ultima telefonata, il bisogno di verità, che oggi più che mai è necessaria.«La storia di via D’Amelio mi ha distrutto la vi-ta. è una situazione apocalittica, mio figlio non vuole più che legga i giornali, che senta queste cose perché giustamente mi dice mamma, gli ul-timi giorni che ti restano ti avveleni la vita più di quanto te la sia avvelenata. A me resta solo pian-gere, anche dopo vent’anni. Perché per me è co-me fosse stato ieri». Ma perché hanno raccontato un’altra versione?Perché sono venduti e comprati tutti. Quando succedono queste cose sono coinvolti tutti. C’è il segreto di Stato, cose atipiche per cui trovare la verità non è facile.Ad aprile mi ha detto che per il ventennale della strage voleva scrivere una lettera aper-ta a suo marito...Sì, ma non so se ci arriverò, non so cosa succederà da qui al prossimo anno. E comunque alla fine l’ho stracciata via dalla testa perché io sono morta due volte. Sono resuscitata da poco. La prima dopo quel 19 luglio di quasi vent’an-ni fa...è una brutta pagina della storia italiana. Le dico solo che mi chiamò l’ex presidente Cossiga un me-se prima di morire. In quella telefonata mi disse «la storia di via d’Amelio è da colpo di Stato». Poi ha chiuso il telefono senza dirmi nient’altro. Ades-so il telefono lo voglio dimenticare. Non rispondo più, mi chiamano migliaia di persone e io non ho voglia di parlare, non sto bene. Sono uno straccio. Così come è volato come uno straccio mio mari-to, sto volando come uno straccio io. Via D’Amelio mi ha distrutto la vita. Che parole vuole che ci sia-no? Piango anche se di lacrime ne ho versate tan-te. Mi vergogno di essere cittadina italiana. Spero che queste notizie facciano il giro del mondo. Signora Borsellino, si è fatta un’idea di cosa possa essere accaduto?Non nell’imminenza, poi avevamo avuto dei so-

spetti che ora sono certezze.Cioè?Che vuole che le dica. Quello che scrive-te sui giornali è già parecchio. Qual è il sospetto che lei ha? No, guardi, di sospetti non se ne può par-lare. La nostra posizione è delicatissi-ma. La storia di via D’Amelio mi ha di-strutto la vita e io sono tra la vita e la morte. Questo è bene che sappiano le persone. Perché non sono una vedova come le altre, che si sono ricostruite be-ne o male una vita. Io ci soffro da venti anni e in silenzio. Io e tutta la mia fami-glia. Non posso dire nient’altro se non il grido di dolore per questo che mi ha di-strutto la vita letteralmente. La mia vi-ta è finita e lo sanno molte persone. Non devo avere emozioni e non posso pian-gere perché sono ammalata grave. E in-vece piango perché tutte queste notizie mi fanno piangere. E piango come il pri-mo giorno. Questa è la storia. E via D’Amelio non solo ha distrutto l’immagine dell’Italia. Ha distrut-to la mia vita. E questo per me è molto più impor-tante. Non mi interessa più niente. Letteralmente. Verità, non verità. Sì, va bene, per voi cittadini ita-liani è giusto che si sappia la verità. Io non ho ven-detta. Non voglio la verità per questo. Vorrei che si scoprisse la verità per gli italiani.C’è qualcuno che la può raccontare questa verità, qualcuno che la sa?Di certo non la so io. Io devo credere a quello che scrivono i giornali. Perché sarebbe la fine del mondo, altrimenti. Ci devono credere tutti, non solo io. Io e la mia famiglia non vogliamo fare com-menti. Noi vogliamo solo dare un esempio alla na-zione intera. Perché solo così qualcuno si può re-dimere. A me hanno distrutto la vita e non ho nien-te da sperare. Se non che si sappia la verità. Sarò viva o sarò morta, non lo so. Noi siamo stati sem-pre silenziosi, non abbiamo inveito contro nessu-no. Anzi abbiamo preso con le buone tutti, cristia-namente. Perché abbiamo bisogno di pace e non di guerra. Lo diciamo noi che la guerra l’abbiamo subita. Siamo stati un esempio per tutta la nazio-ne. Io sono orgogliosa che la famiglia Borsellino sia un esempio per la nazione intera. Malavitosa e non. Se scriverà questo mi farà un regalo.

Parla Agnese Borsellino. La mia vita è distrutta.

Mi vergogno di essere cittadina

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È un po’ come curare un malato di diabete a cuc-chiaiate di zucchero. L’Unione dell’asse franco-te-desco-conservatore, il Giano bifronte chiamato Merkozy, ci porta dritti verso la fine dell’Europa, il default. A colpi di austerity, scelte impopolari, riforme strutturali. Non ferma le mire degli spe-culatori e soffoca nella culla la ripresa economi-ca dopo il tonfo del 2009. Eppure, direbbe Bersa-ni-Crozza, «se piove piove per tutti». Basta legge-re lo studio della banca svizzera Ubs: la fine della moneta unica costerebbe 10mila euro a ogni cit-tadino europeo. Molto più di quei mille pro capite sufficienti a salvare la valuta unica. Senza conta-re, sostiene l’Ubs, che nessuna unione monetaria, nella storia, si è conclusa senza «forme di gover-no autoritario o militare o guerre civili». Ma non c’è alcun bisogno di ricorrere a scenari catastro-fisti: già oggi la Germania sta rivedendo al ribas-so le stime di crescita e la Francia teme che anche il suo debito venga declassato. Le banche sono in fibrillazione. La Grecia è in ginocchio, gli interes-si sui Btp salgono, la Spagna conta un disoccupa-to su cinque. Persino l’America di Obama ha pau-ra per noi. Una crisi dell’Europa trascinerebbe il mondo intero in uno scenario peggiore di quello del 2008, quando fallì la Lehman Brother.

Eppure l’asse franco-tedesco continua a ema-nare i suoi diktat. Merkozy mira, è vero, a un’Unio-ne più forte. Ma con le fattezze del poliziotto, ar-mato per intervenire sui conti pubblici dei Paesi spendaccioni. Ed è un’Europa non democratica, nella quale Commissione e Parlamento sono sem-plici esecutori delle decisioni dei governi. Finan-zieri come Soros, economisti liberal come il no-bel Krugman o liberisti come Tabellini, sono con-cordi nel chiedere un cambio di passo. Ma l’uni-co vero contraltare politico dei governi conserva-tori è il Partito socialista europeo. In Parlamento

ha portato avanti una critica dura alle decisioni del Consiglio, chiedendo la tassazione delle ren-dite finanziarie, l’esclusione delle spese per inve-stimenti dal patto di stabilità, un nuovo patto per il lavoro e la crescita. E pretende gli Eurobond, l’unico strumento che, unificando il debito euro-peo, metterebbe a bada gli speculatori. Nei pros-simi 12 mesi i cittadini saranno chiamati al voto in Germania, Spagna, Francia, forse anche in Ita-lia. L’Europa, oggi governata dalle destre, potreb-be cambiare segno. Anche perché la sinistra sta cambiando faccia. È finita l’era nella quale il new Labour di Blair rinunciava a controllare gli spiri-ti animali del mercato, limitandosi a interventi re-siduali sul welfare delle “pari opportunità”. L’era nella quale il centrosinistra italiano introduce-va la precarietà del lavoro e persino la Francia di Jospin privatizzava. Per un ventennio l’Europa di Maastricht - libera circolazione di merci e capita-li, meno welfare e lavoro flessibile - è stata anche socialista. La crisi ha determinato la fine di quel-la fase, adesso si attende un cambio di passo, una svolta a sinistra.

I documenti del Partito socialista europeo lo dicono a chiare lettere. Vedi la dichiarazione di Varsavia dello scorso dicembre: «In conseguenza della crisi finanziaria, la realtà economica, sociale e politica dell’Europa sta cambiando. Le idee ne-oliberiste hanno portato a una crisi globale sen-za precedenti. Disoccupazione e povertà cresco-no in tutta l’Ue. I conservatori hanno fatto le lo-ro proposte chiare: tagli e distruzione dello Stato sociale. Ma drastiche misure di austerità da sole non sono sufficienti a rafforzare la crescita e crea-re lavoro». I socialisti propongono «un ordine del giorno alternativo basato su equità, occupazione e crescita economica». Durante la discussione in Parlamento, questa estate, sul nuovo programma

Ultimo tango a

bruxellesAusterity, tagli, disoccupazione. Il duo Merkozy non ci salva dalla crisi. Ma il prossimo anno si vota in molti Paesi e l’Europa potrebbe cambiare di segno. I socialisti post Blair cercano una nuova unità

di Manuele Bonaccorsi

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Sul sito left.it i documenti del Partito socialista europeo

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di governance europea - il cosiddetto 6-pack - il Pse si è opposto duramen-te e ha presentato cinque contropro-poste: un patto europeo per la cresci-ta e il lavoro; un più forte e democrati-co processo decisionale europeo; l’in-troduzione degli eurobond, per sta-bilizzare i mercati e i tassi di interes-se; la tassa sulle transazioni finanzia-rie; un più ampio budget europeo».

Un programma esattamente opposto a quello di Merkozy. Resta da vedere se dalle dichiarazioni di principio si passerà ai fatti. Qualcosa lascia ben sperare, a partire dalla scelta del segretario del Pd Bersani di far salire sul suo palco, il 5 novembre a Roma, i segretari del Ps francese Francois Hollan-de e della Spd tedesca Sigmar Gabriel. D’altron-de, senza un cambiamento dell’Europa, un nuovo governo di centrosinistra avrebbe spazi strettissi-mi, dettati dalla lettera della Bce e dalle pressioni di Bruxelles. Il 25 e 26 novembre i leader socialisti europei si rivedranno in una conferenza per redi-gere una “dichiarazione di principio”, di cui abbia-mo letto una bozza preparatoria: «Persone, dena-ro, beni, informazioni e idee di viaggio senza so-sta. Ma la realtà della globalizzazione deregola-mentata è un senso più frammentato della vita. Le forze di mercato, guidate dalla finanza, servo-no solo gli interessi di pochi privilegiati». Le pro-poste: un maggior peso delle autorità pubbliche, la continuità del lavoro, la sostenibilità ambien-tale, la solidarietà. E ancora, un’equa distribuzio-ne della ricchezza, un’idea diversa di Europa: «Il nostro impegno per l’integrazione trascende dal-

la concorrenza tra i Paesi». «Ovviamente tra i par-titi socialisti europei persistono ancora differen-ze. Ma sulle questioni essenziali siamo d’accor-do», spiega Stefano Fassina, responsabile econo-mia del Pd, che durante l’ultimo vertice di Bruxel-les ha partecipato a una conference call con tut-ti i leader europei socialisti, molto dura sul risul-tato del summit. «Nei recinti nazionali abbiamo armi spuntate. Certamente è finita l’era Blair, sia-mo consapevoli che il ruolo della politica non è solo rimuovere lacci e laccioli, che non è cancel-lando la contrattazione sul lavoro che si promuo-ve lo sviluppo. Lo sostengono persino il Financial times e il Pontificio consiglio di Giustizia e pace». Certo, sulle tesi di Fassina il Pd non è esattamente compatto, e c’è chi crede che la lettera della Bce e le sue proposte di “misure impopolari” siano la strada da seguire: «Le differenze sono superabi-li. E mi pare che ci sia una maggioranza solida nel partito», chiosa Fassina.

La strada, però, è ancora lunga, come spie-ga Giuseppe Berta, autore di un recente fortuna-to libretto, dal titolo emblematico: L’eclissi della socialdemocrazia. «Una rinascita del centrosini-stra è ancora lontana, cova nelle riflessioni inter-ne, ma non è chiaramente emersa. Neppure nel-le primarie francesi». Su che basi va ricostruita la socialdemocrazia europea? «Keynes sta tornan-do di moda: ci dice che l’economia non è autosuf-ficiente, che il vero obiettivo è la piena occupazio-ne». D’altronde se questa è la peggiore crisi dopo quella del ’29 a oggi, a essa potrebbe seguire una nuova età dell’oro.

Eurobond, tassa sulla finanza,

investimenti per crescita e lavoro. Le parole d’ordine

dei socialisti

Stabilità über alles

Ci vuole più Europa. I tedeschi non vogliono sba-razzarsi della Ue, la vogliono cambiare. Cdu e Spd sono allineati nel chiedere riforme, ma se le intenzioni della Cancelliera appaiono abbastan-za chiare, quelle dell’opposizione sono meno definite. La Cdu lavora per un’unione fiscale, un governo economico che punisca i grandi debitori. Obiettivo da realizzare cambiando i trattati. L’Spd non si discosta di molto. La sua battaglia in Parla-mento è finalizzata a garantire un “controllo de-

mocratico” dei trasferimenti diretti al Fondo salva Stati. A differenza della Merkel i socialdemocratici sono favorevoli agli Eurobond, ma solo se «se non accumuliamo debiti senza controllo», come affer-ma il deputato Spd Thomas Oppermann. Mentre il leader Sigmar Gabriel (nella foto) propone «un piano Marshall per il sud Europa». «È un momento “creativo” per la politica tedesca», ironizza Ulrike Guerot, a capo dell’ufficio di Berlino dell’Europe-an council on foreign relations. «Tra tante idee sul piatto l’Spd ha individuato due linee: la stabiliz-zazione dell’euro tramite la soluzione “assicura-tiva”». Tesi secondo la quale il Fondo salva Stati

rimborsa la perdita di valore dei bond più rischiosi fino al 20 per cento, per convincere i mercati ad acquistare titoli di stato anche a interessi bassi. La seconda è il “cambiamento di linguaggio”: «Non

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S iamo a un passo dal baratro: la recessione, la fine dell’euro e forse persino il default dell’Italia. Eppure in Europa prevale la po-

sizione di chi, alla vista del burrone, ha deciso di accelerare l’andatura. Secondo Emiliano Bran-caccio, docente di Economia politica all’universi-tà del Sannio, tra i più noti esponenti del pensiero economico “critico”, bisognerà capire se in Ger-mania i favorevoli all’euro prevarranno su chi vor-rebbe sbarazzarsi della moneta unica. E bisogna pure valutare il ruolo dei partiti socialisti europei, i quali hanno avanzato proposte che vanno nella giusta direzione. Ma il rischio è che si stiano muo-vendo in ritardo.Berlusconi risponde alle sollecitazioni dell’Ue sostenendo che la libertà di licenzia-mento è una via per la crescita. È vero?No. Le ricerche dell’ultimo decennio ci dicono che la precarizzazione del lavoro non riduce la disoc-cupazione e non fa crescere la produttività. Inol-tre, agevolando i licenziamenti nei periodi di crisi, tende ad aggravare le recessioni. È vero peraltro che rendere i contratti ancora più flessibili inde-bolisce i lavoratori e può favorire la riduzione dei

salari. Secondo alcuni economisti questo potreb-be accrescere la competitività dell’Italia. Il proble-ma è che questa strada l’abbiamo già praticata, da-gli anni ’90, provocando una compressione sala-riale senza precedenti. Nonostante ciò la nostra posizione competitiva non è migliorata, anzi il di-savanzo commerciale si è accentuato. È una poli-tica fallimentare. Che non risolve le contraddizio-ni alla base della crisi, ma le amplia.Per quale motivo?Perché lo stesso fenomeno è avvenuto in tut-ta Europa. In particolare in Germania, dove nell’ultimo decennio i salari reali non sono cre-sciuti, nonostante un aumento della produttivi-tà molto alta. Se il Paese leader dell’Ue insi-ste con una politica restrittiva e di com-petizione salariale, gli squilibri struttu-rali della zona euro sono destinati ad ac-centuarsi. In questo modo, infatti, la Ger-mania accresce le esportazioni e aumen-ta il suo surplus verso l’estero. Di conse-guenza, l’Italia, la Grecia, la Spagna, il Por-togallo e la stessa Francia aumentano i loro deficit verso l’estero. La politica restrittiva e

Parla l’economista Emiliano Brancaccio: il futuro dell’Europa dipende dagli interessi che prevaranno in Germania. Ma solo la domanda interna può far ripartire la crescita

Aumentare i salari è questa l’unica via

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Sul sito left.it l’intervista integrale

vogliono che la Germania appaia come Paese dominante e chiedono istituzioni europee in gra-do di fare da cane da guardia». Un’Europa che faccia la parte del cattivo al posto loro, questo vogliono i tedeschi. Il problema è come riuscirsi. La Cdu vuole rafforzare il potere degli esecutivi nazionali rispetto alle istituzioni comunitarie. La Merkel propone addirittura l’«elezione diretta della Commissione», che vorrebbe dire candida-ti di maggioranza che vanno a Bruxelles per fare le veci della propria nazione, e non per tutelare gli interessi generali. Anche nel campo cristiano-democratico imperversa la confusione, perché

l’unione fiscale chiesta a gran voce si può fare solo tra i Paesi dell’Eurozona, perché non tutti i 27 membri della Ue fanno la spesa con l’Euro. E i 17 che pagano con la stessa valuta hanno a disposizione solo l’Eurogruppo, un’organizza-zione informale presieduta da un capo di Stato, Junker, che non ha niente a che fare con i leader della Ue - Van Rompuy e Barroso -. L’architettura da ridisegnare a Bruxelles è un labirinto nel qua-le Spd e Cdu si sono persi insieme. Forse i socialdemocratici si esporranno di più quando avranno deciso l’alleanza per le pros-sime politiche. Dopo le elezioni di Berlino, ad

esempio, si è parlato di coalizione “del pepe” tra Spd (rossi), Grune (verdi) e Pirati (arancio-ni). Questi ultimi, “grillini” alla tedesca, hanno raccolto il 9 per cento nella capitale ereditando il ruolo di alfieri dell’antipolitica dai Verdi. «Ma anche gli ambientalisti crescono e non solo sull’onda del post Fukushima», spiega Guerot, «i Verdi rappresentano la nuova socialdemocrazia progressista, sono i più favorevoli alla soluzione federale. Ma non hanno un interlocutore a Pa-rigi». Sarà per questo che nessuno si oppone realmente a Merkozy.

Cecilia Tosi

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competitiva del Paese leader genera dunque uno squilibrio insostenibile. È questo il tallone d’Achil-le dell’Europa, ben più dei debiti pubblici. Si dice anche che la crescita economica in Italia potrebbe derivare dalla privatizzazio-ne di aziende pubbliche. Che ne pensa?Ricordiamoci che negli anni 90 l’Italia ha realizza-to il record mondiale delle privatizzazioni, dopo il Regno Unito. Oggi sappiamo che le privatizzazio-ni non sempre determinano un incremento di effi-cienza, e spesso producono un aumento dei prez-zi. L’azienda privatizzata licenzia per aumentare la produttività, ma tiene alti i prezzi per garantire il

profitto agli azionisti. Inoltre, im-maginare di privatizzare oggi, con valori del capitale così bassi, signi-fica soltanto fare un favore a una cricca di speculatori.Insomma, le cosiddette rifor-me strutturali, le scelte impo-polari richieste dell’Europa, non aiuteranno la crescita.La lettera di Berlusconi è confor-

me all’indirizzo restrittivo che si è imposto in Euro-pa e che ci fa piombare in una tipica “deflazione da debiti”: cioè, i Paesi debitori sono indotti a ridurre le spese per tentare di rimborsare i loro debiti, ma così facendo riducono la domanda complessiva, la produzione, l’occupazione e i redditi. Quindi le en-trate fiscali scendono, e diventa ancor più difficile rimborsare i debiti. Ciò alimenta a sua volta la spe-culazione. Il caso greco è emblematico e noi ci stia-mo incamminando nella stessa direzione.Il Fondo salva Stati, strutturato nel recente vertice di Bruxelles, può rappresentare una riposta?Il Fondo salva Stati è macchinoso e ha poche mu-nizioni. Non è in grado di contrastare la specula-zione. La salvezza per ora può giungere solo dal-la Bce, la quale può creare la massa monetaria che vuole e fermare la speculazione.Chi si oppone a interventi più forti della Bce?

La Germania in Europa ha l’ultima parola sulla Bce. Ma Berlino non ha ancora deciso se difende-re la zona euro o farla deflagrare. Da un lato, i de-fault e le svalutazioni che seguirebbero alla fine dell’euro procurerebbero problemi alle banche e alle imprese tedesche. Dall’altro lato, la conse-guente svalutazione delle monete nei Paesi peri-ferici ridurrebbe anche il valore dei capitali di quei Paesi. Ciò consentirebbe alle imprese tedesche di acquisire a buon mercato aziende private e pezzi di patrimonio pubblico in Grecia, Italia, Spagna, Portogallo. Come già accaduto nel 1992, dopo la svalutazione della lira. Forse, per convincere i te-deschi, bisognerebbe chiarire che se salta in aria la moneta unica, salterà pure il mercato unico: i Paesi periferici potrebbero limitare la libera cir-colazione di capitali e merci. Questa in effetti sa-rebbe una grave minaccia per la Germania e po-trebbe smuoverla dal suo dilemma.La Germania dice di essere disposta a fare la sua parte. A conto però che gli altri, l’Italia in primis, riducano il loro debito pubblico.È uno scaricabarile. Dobbiamo metterci in testa che l’unico modo per uscire dalla crisi dell’euro è attivare un “motore interno”. Serve una politica economica coordinata a livello europeo per svi-luppare la domanda. Inoltre abbiamo bisogno di meccanismi di riequilibrio, che impongano ai Pae-si in surplus verso l’estero di aumentare la spesa e le importazioni. Le soluzioni sono numerose. Per-sonalmente ho suggerito uno “standard retributi-vo europeo”, che impedirebbe alla Germania di in-sistere con la competizione salariale al ribasso. La proposta è stata inserita nel programma di rifor-me del Pd, pubblicato ad aprile. È già qualcosa.Come giudica le controproposte dei socia-listi europei sulla crisi? Dopo anni di ubria-catura neoliberista, stanno facendosi spazio posizioni molto diverse. Sia pure con estrema lentezza, i partiti eredi del mo-vimento operaio stanno rivedendo in chiave criti-ca le posizioni del passato. In Italia, l’attuale segre-

Più si prova a ridurre i debiti, più

crescono a causa della recessione

prodotta dall’austerity

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La Gauche e Moody’s

Nella Francia della crisi, si aggira lo spettro dell’agenzia di rating Moody’s che potrebbe levare a Parigi la famigerata tripla A. Un invitato imbarazzante che spariglia le carte nella corsa all’Eliseo appena iniziata. Il duello tra il presidente Nicolas Sarkozy e François Hollande (nella foto), il vincitore delle primarie del partito socialista, è già cominciato. Sullo sfondo, il futuro dell’Europa. Per il deputato del Partito socialista (Ps) Michel Sapin responsabile nazionale all’economia del

Ps, «non siamo alla crisi dell’euro ma alla cri-si dell’Europa. Abbiamo una moneta unica ma le politiche monetarie, fiscali e industriali sono spesso contrastanti. Reggeva quando tutto an-dava bene. Oggi l’Eurozona deve camminare su due gambe. Quella monetaria - che funziona - e quella del governo economico - che non funzio-na -. Era previsto dal Trattato di Maastricht ed è stato dimenticato, credendo che se ne potesse fare a meno. Bisogna fare un deciso passo in avanti, un “salto federale”, e per questo ser-vono nuovi trattati», afferma Michel Sapin. La proposta del Fronte di sinistra, che riunisce i

comunisti e i socialisti usciti da sinistra dal Ps, è più drastica. «Hollande pensa che sia importante mantenere la tripla A della Francia, accettando di piegarsi alle esigenze dei mercati finanziari. Inve-

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teria del Pd è impegnata nel tentativo di costruire una nuova piattaforma, condivisa tra i socialisti eu-ropei. È la strada giusta. Purtroppo i tedeschi della Spd non hanno ancora espresso una posizione netta sul futuro dell’Europa. Anche se la base di consen-so della Spd potrebbe avere più di un motivo per so-stenere uno “standard retributivo” che rilanci i sa-lari tedeschi. La salvezza dell’euro e la tutela del la-voro sono obiettivi non contrastanti ma coincidenti. Intorno a questa consapevolezza è possibile creare un blocco sociale ampio, che spinga nella direzione delle buone riforme. Manuele Bonaccorsi Bruxelles, la sede del Gruppo socialista

C’eravamo tanto amati

«Progressisti nel sociale, conservatori in eco-nomia». È il centrosinistra visto da Javier Doz, sindacalista delle Comisiones Obreras spa-gnole - uno dei più potenti sindacati iberi-ci - e non è soltanto un’opinione personale. A meno di un mese dalle elezioni in Spagna, il Psoe non promette più miracoli in economia per vincere, e ci mancherebbe altro. «Gli effetti del-la politica finanziaria del premier uscente li scon-teremo ancora per molto», dice Doz. «Zapate-ro si illudeva di risolvere i problemi sopprimen-do la tassa patrimoniale e diminuendo la pres-sione fiscale, due misure che hanno mostrato la mancanza di un obiettivo strategico del Partito socialista. Non si affida il ministero dell’Econo-mia a un neoliberista convinto come Pedro Sol-ves, non era questa la strada per uscire dalla crisi. Ma in Spagna come negli altri Paesi europei dove

governa, la sinistra ha mostrato che in economia, le sue sono politiche di destra». Che pochi giorni fa la patrimoniale sia stata reintrodotta, in un ul-timo disperato tentativo di non annegare nei de-biti, non basterà a ricomporre l’idillio tra il Psoe e il sindacato. «Prima della crisi potevamo condi-videre con il centrosinistra le politiche di amplia-mento delle libertà, dei diritti individuali, l’atten-zione al sociale. Ma già nei primi quattro anni di governo socialista una cosa era chiara: l’inconsi-stenza delle politiche economiche. Zapatero va bene quando si deve opporre alla Chiesa, non al mercato». Il Partito socialista spagnolo deve spe-rare di trovarne altri come Doz, che nonostante tutto, ammette, tornerà a votare il partito, 20 no-vembre. Al centrosinistra portoghese, per esem-pio, non ha portato bene aver dato ascolto più ai palazzi di Bruxelles che alle strade di Lisbona:

«Perché i socialisti, quando sono al governo, fanno politiche di destra?». L’allarme dei sindacati europei: «Serve una svolta a sinistra» di Paola Mirenda

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ce i grandi Paesi come la Germania, la Francia o l’Italia hanno i mezzi per finanziarsi, senza dipen-dere dai mercati mondiali», sottolinea Jacques Généreux, responsabile nazionale economia del Partito di sinistra, che candiderà Jean-Luc Mé-lenchon alle presidenziali. «Bisogna emettere i nostri titoli di debito pubblico soltanto sul merca-to europeo, in euro. Obbligando le banche, i fondi di investimento e le grandi imprese a detenerne una parte. Inoltre la Bce e le Banche nazionali devono poter prestare agli Stati, a tassi bassi». Secondo Généreux, «senza avere alcuna autorità per dare istruzioni politiche a governi nazionali, la

Bce ha scritto il programma economico dell’Ita-lia. E questo è molto inquietante. Una posizione troppo netta per i socialisti, che non intendono disobbedire alle disposizioni dei Trattati europei. Secondo il Ps, nel contesto attuale il margine di manovra c’è, quello che manca è la volontà politica. Nel mirino, c’è la po-litica sarkozysta. «La legge finanziaria in esame al parlamento francese prevede un deficit di 80 miliardi di euro per il 2012 - spiega Michel Sa-pin - oltre la metà è dovuta alle scelte di Sarkozy, a partire dalla diminuzione ingiusta delle tasse negli ultimi anni. Se la Francia non fosse così de-

bole, potrebbe pesare di più in Europa. La social-democrazia consiste nella volontà di costruire dei poteri pubblici, strumenti di intervento. I disordini che abbiamo davanti sono dovuti all’assenza di volontà politica nella costruzione dell’Europa». Se tutti applaudono alla riduzione del debito greco, i socialisti francesi chiedono a gran voce gli Euro-bond. Mentre il Fronte di sinistra si spinge oltre e invita i governi a disobbedire ai diktat della Banca centrale europea. Nel frattempo, e con il bene-stare dei governi, Moody’s continua a fungere da ministro dell’economia dell’eurozona.

Sarah Di Nella

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Socrates ha perso, e al governo lusitano adesso c’è il conservatore Pedro Passos Coelho . «Ma il pericolo che vinca la destra non può essere un ricatto», dice Jacques Delallé, responsabile Eu-ropa della francese Confédération générale du travail (Cgt). «Il problema è un altro: ci sono go-verni che sono votati al suicidio, come quello di Socrates. Perché la gente dovrebbe votare una sinistra che fa le stesse politiche della destra?». Può succedere anche che al voto alla fine non ci si vada più. «C’è bisogno di sapere che tra i due schieramenti c’è una differenza politica», spiega Elena Crasta, dirigente europea del Trade Union Congress (Tuc), il sindacato inglese che nell’Ot-tocento ha dato vita al Labour party. «Blair fu eletto perché promise alle imprese di non tor-nare al clima di relazioni industriali che domina-va negli anni Settanta, quando i sindacati erano molto forti. Per conquistare i moderati ha dovu-to mitigare molto le sue politiche di sinistra. Si può condividere o meno la scelta, ma per arriva-re al centro ci si aliena la base. Non c’è la somma di due elementi, quello che si guadagna da una parte lo si perde dall’altra. Così c’è sempre meno gente che partecipa, un sintomo che pervade tut-ta l’Europa». Si vota di meno, ci si iscrive di me-no ai partiti e ai sindacati. Il tasso di sindacalizza-zione in Europa va dal 74 per cento della Finlan-dia al 7,7 per cento della Francia. Però nei Paesi

scandinavi la tessera del sindacato la danno in-sieme al contratto, in nome della cogestione del rapporto di lavoro.

Il legame privilegiato tra partiti di sinistra e rappresentanze dei lavoratori è decisamente in-crinato. «Il sindacato è strutturalmente di sini-stra perché difende i salariati», dice Doz. Ma nel-la crisi le soluzioni proposte dai sindacati, sia a li-vello nazionale che europeo, non sono state pre-se troppo in considerazione dai partiti. Piccole modifiche, ma non grandi riforme. L’esempio del sindacato spagnolo non è unico.

«Noi siamo indipendenti, al contrario degli inglesi», spiega la francese Delallè, «ma voglia-mo lavorare insieme alla sinistra. I nostri iscritti votano tutti a sinistra, lo sappiamo. Non sceglia-mo questo o quell’altro partito politico, ricordia-mo semplicemente quali sono le nostre esigenze di salariati. Non accettiamo una politica che ri-sponde solo “austerità, austerità, austerità” alla crisi. Noi dei punti li abbiamo messi nero su bian-co, vediamo che ne faranno». Si vota l’anno pros-simo, Sarkozy è travolto dagli scandali e Hollan-de ancora non convince. Però, da parte del sinda-cato, «nessun giudizio preventivo, vediamo quel-lo che farà se arriva al governo». Nel programma del Partito socialista qualcosa c’è delle richieste del sindacato. «Bisogna riconoscere», dice Lu-ca Visentini, segretario confederale della Ces, la Confederazione europea dei sindacati, «che do-ve i partiti di centro sinistra sono all’opposizione, in particolare in Germania e in Francia, sono sta-

La Trade Union: «C’è bisogno di sapere che tra gli schieramenti c’è differenza»

Più Labour che Blair

Il Partito Laburista inglese è stato per molti anni una fonte di ispirazione per il centrosinistra europeo. La sua icona era Tony Blair, un leader capace di vince-re tre mandati, con un programma semplice: un ca-pitalismo “dolce” che lasciava fare ai mercati e alla concorrenza, mitigato da iniziative statali per ga-rantire la pari opportunità di accesso, a partire dalla formazione. Poi la scelta di partecipare guerra ira-chena ha alienato molti elettori del partito laburista; infine l’ampia fiducia di Blair nei mercati finanziari

ha esposto la Gran Bretagna alla bolla speculativa americana. I risultati sono stati drammatici.Le elezioni del 2010 hanno visto l’affermarsi di una coalizione tra LibDem e i Conservatori, e i laburisti, dopo la sconfitta, hanno scelto il quarantenne Ed Miliband (nella foto) come nuovo leader. Le politiche di tagli del governo conservatore hanno aumenta-to il deficit di 46 miliardi di sterline: conseguenza prevedibile dei licenziamenti in massa, che fanno lievitare la spesa per i sussidi di disoccupazione. Il ministro ombra per l’Economia Ed Balls, parlando a Liverpool alla conferenza dei Labour, ha indicato le mosse più urgenti: prorogare la tassazione ag-

giuntiva dei bonus ai super manager, investendo il ricavato nella costruzione di 25mila case di edilizia popolare, e creando posti di lavoro per 100mila giovani; anticipare gli investimenti di lungo termine

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ti capaci di sviluppare un’analisi diversa e di pro-porre buone cose, come il documento congiunto firmato quest’estate da Spd tedesca e Partito so-cialista francese. Un documento che delinea una strategia economica e una alternativa molto si-mili a quella che anche il sindacato europeo sta proponendo. È quando i socialisti governano che non ci si intende più».

Beata opposizione, che può permettersi di sognare? «Certo, resistere alle pressioni della Bce quando si è al governo è più difficile», am-mette Visentini. «Ma ora anche da Bruxelles si comincia a dire che la politica dell’austeri-tà non paga, non favorisce la crescita di cui ab-biamo bisogno adesso. Noi proponiamo di agi-re su due versanti. Semplificando: debito in co-mune presso la Banca centrale, da finanziare con gli eurobond; utilizzo delle risorse rispar-miate per gli investimenti e una politica fiscale coordinata che concorra al finanziamento del-la crescita. Non ci si salva senza una strategia

europea di ristrutturazione del debito». Misure da prendere a livello dell’Unione, ma un Parti-to socialista europeo forte, che possa farne un pilastro della propria politica ancora non c’è. Esiste, ma non è ancora in grado di esprime-re una politica davvero comune, di fare pesa-re sulle scelte. I tre premier europei socialisti, Socrates, Zapatero e Papandreu non hanno sa-puto fare fronte comune a Bruxelles. E l’Italia? «Da soli si fa poco, serve l’intervento di una po-litica europea reale», sostiene Visentini. «Ber-sani ha detto cose molto interessanti sul fronte degli investimenti, ma non si vede ancora una strategia organica per uscire dall’indebitamen-to. Se il centro sinistra fosse chiamato a gover-nare, non so se saprebbe mettere sul tavolo una strategia economica alternativa veramen-te solida. Anche perché purtroppo devo dire che in passato, quando il centrosinistra ha go-vernato, si è affidato quasi sempre ad economi-sti di destra. Come Padoa Schioppa». Che non era esattamente un keynesiano.

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su scuole, strade e trasporti; sospendere l’aumento dell’Iva decisa lo scorso gennaio; introdurre un an-no di esenzioni fiscali per le piccole imprese. E poi investimenti pubblici sul manifatturiero, incluse le imprese ecologicamente sostenibili.Sul piano delle idee, il Labour party è molto cambia-to dai tempi di Blair. È in corso un grosso dibattito sul ruolo dello Stato, soprattutto nei think tank (da quello storico socialista, come la Fabian Society, fi-no a Progress, più liberal). Ci si interroga sul perché gli investimenti nel welfare non abbiano permesso il raggiungimento dell’uguaglianza di accesso alle opportunità. Un movimento del partito, guidato da

Lord Glasman, si propone di recuperare lo spirito originario del Laburismo, legato al lavoro e alla forza propulsiva delle relazioni che permettono di resiste-re alle derive del capitalismo.Attraverso il dibattito avviene la metamorfosi di un partito che per molti anni ha avuto un rapporto molto stretti con la finanza e che adesso è convinto della necessità di dare valore etico al capitalismo. Il Labour vuole un nuovo patto tra i cittadini e lo Stato, fondato sulla responsabilità individuale nella co-struzione di un comune destino.Questo fecondo dibattito politico si traduce nella necessità di una nuova forma organizzativa del

partito, più aperta e popolare, e nella ricerca di nuovi leader. Come dice lo stesso Ed Miliband, arriva un momento in cui una generazione sa che è l’ora di cambiare «the way we do things». Nella sua squadra, accanto a figure storiche come Ed Balls, ministro ombra per l’Economia, e Harriet Harman, leader indiscussa sui temi dell’uguaglianza, ci sono trentaduenni come Rachel Reeves e Chuka Umunna. E Miliband ha lanciato la selezione di futuri candidati tra chi ha avuto ruoli di leadership sul territorio. È in arrivo il New new Labour.

Ivana Bartoletti-Fabian society

In alto, manifestazione

dei sindacati a Budapest

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La politica abbia “l’animo grande e l’intenzione alta”

Il populismo di Berlusconi ha responsabilità immense.

L’Unione si è sviluppata solo nel nome del neoliberismo.

C’è troppa poca Europa, e troppo spazio

ai nazionalismi. L’antipolitica nasce

quando i partiti sono deboli e incapaci

di decidere. Parla Massimo D’Alema

di Giommaria Monti

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Nel cuore della crisi che sta attraversando l’Italia e le altre Nazioni dell’euro, la politica in Europa de-ve avere un peso più autorevole e guidare l’eco-nomia con scelte forti e condivise. L’Italia deve ri-prendere il ruolo che ha perduto per responsabili-tà di Berlusconi, che anche per questo deve dimet-tersi. In questa intervista al nostro giornale, Mas-simo D’Alema ragiona sugli scenari che si stanno aprendo nel vecchio continente. Dopo il successo della coalizione rosso-verde in Danimarca, infatti, si voterà in Francia e in Germania, dove i sondag-gi danno vincenti le coalizioni progressiste. Anche l’Italia potrebbe andare alle urne la prossima pri-mavera. E si preannuncia l’apertura di una nuova stagione politica. Presidente, Berlusconi è messo sotto la len-te dell’Ue per quello che non fa e che peren-toriamente gli chiedono di fare: una riforma delle pensioni, un pacchetto di proposte cre-dibili, un piano per lo sviluppo. Trattati come scolari svogliati… Il governo ha responsabilità immense, prima tra tutte quella di aver fatto finta che non ci fosse la crisi. Il populismo e la demagogia hanno toccato, con Berlusconi, livelli mai raggiunti. Basti pensa-re all’ostinazione con cui, unico al mondo, ha na-scosto l’evidenza della crisi economica e socia-le, che, alla fine, è piombata addosso al Paese co-stringendo il governo a una drammatica rincorsa affannosa e confusa. Ma l’Italia è ancor più pena-lizzata, perché, con un premier senza alcuna cre-dibilità internazionale, la rincorsa diventa anco-ra più difficile. Ci hanno detto non solo cosa fare, ma anche come farlo. Non è un po’ eccessivo?È esattamente il prezzo che paghiamo alla man-canza di credibilità a cui ho appena accennato. Tanto è vero che l’Europa non si comporta con gli altri come fa con noi. Nessun Paese è stato oggetto di precetti, neppure la Grecia, nonostante la situa-zione drammatica in cui versa. E questo perché Pa-pandreu gode di credibilità. È evidente, quindi, che la precettistica europea nasce da una sfiducia ver-so il governo italiano. Per questo siamo diventati un sorvegliato speciale. All’Europa erano stati pro-messi un decreto per lo sviluppo e una nuova rifor-ma delle pensioni. Hanno dovuto accontentarsi di una lettera nella quale c’è un lungo elenco in parte di cose già fatte, in parte di impegni di improbabile

realizzazione, in parte di misure ingiuste e inaccet-tabili contro i lavoratori. Non crede che questa durezza dell’Europa nasca anche dalla predominanza dell’asse franco-tedesco?Anche in altri momenti della nostra storia l’Italia è stata in difficoltà. Ma quelle situazioni trovavano rimedio in una sorta di vincolo europeo, una spe-cie di armatura esterna che ci aiutava in qualche modo a riparare le fratture interne al Paese. È sta-to così negli anni 90, quando il rapporto con l’Euro-pa ha rappresentato senza dubbio uno stimolo per salvare l’Italia e rimetterla in cammino. Quello che oggi aggrava ancora di più la situazione è che la cri-si italiana si sviluppa nel contesto di una crisi eu-ropea più ampia. Soffriamo la mancanza di una Ue forte e autorevole, e la debolezza della governan-ce europea rende l’Italia ancora più debole. Insom-ma, c’è troppa poca Europa, che paga il prezzo di scelte nazionalistiche da parte dei governi di centrodestra, a comincia-re da Francia e Germania. Ma l’Europa oggi è la Bce, non la po-litica. La costruzione europea, negli ultimi vent’anni, ha pagato un prezzo alto al do-minio ideologico neoliberista, che ha ca-ratterizzato il mondo globalizzato. Intan-to non dobbiamo scordare la lunga fa-se in cui dicevano che mercato unico e moneta unica sarebbero stati sufficienti a definire l’Europa. Ma era evidente che proprio l’esistenza di un mercato unico e di una moneta unica avreb-bero richiesto un governo politico dell’Unione, un salto di qualità delle istituzioni politiche euro-pee. Inoltre, la globalizzazione si è sviluppata nel segno del neoliberismo antipolitico. Attenzione, non dobbiamo confonderlo con il liberismo clas-sico che, viceversa, una dimensione politica l’ave-va. Il neoliberismo di cui parlo, che ha occupato la scena politica mondiale dalla caduta del muro di Berlino a oggi, è radicalmente antipolitico: è nato dall’idea che, con la fine del comunismo e la fine delle ideologie, si dovesse ridimensionare drasti-camente la politica e il ruolo della dimensione pub-blica con i partiti e le istituzioni democratiche. Perché le istituzioni politiche europee, a co-minciare dalla Commissione, sono di fatto svuotate?

Con un premier senza credibilità internazionale,

la rincorsa diventa ancora

più difficile

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I governi di destra hanno ridimensionato le istitu-zioni europee, convinti che sarebbe stato il mer-cato a risolvere tutto. Si è vissuta la politica come una inutile complicazione. L’ultraliberismo ha pre-dicato una concezione della politica ridotta ad an-cella dell’economia, senza alcun compito se non quello di rimuovere gli ostacoli che si frappongono al pieno dispiegarsi delle virtù benefiche del mer-cato. L’Europa è cresciuta, in un momento delica-to della sua storia, sotto l’impronta di questa visio-ne. Da questo punto di vista sarebbe utile una se-ria riflessione anche sulle scelte della sinistra eu-ropea in quella fase.Veramente il centrosinistra era al governo nei principali Paesi europei, in quel momen-to. Una parte si è accodato a una impostazio-ne neoliberista… È vero, il blairismo si è lasciato affascinare da quest’idea, illudendosi di poter cavalcare la glo-balizzazione. Altri, invece, come i socialisti fran-cesi, si sono affidati all’idea che lo Stato nazionale avrebbe fatto da riparo. Ma la risposta non era ne-anche questa: andava ricercata in chiave europei-sta. Resta il fatto che la sinistra non ha saputo da-re risposte concrete, neanche di fronte a una cri-si che ha determinato un grande senso di smarri-mento. Da questo punto di vista, invece, la destra al governo ha avuto una torsione populista e, in-capace di fornire soluzioni efficaci, si è limitata a dare risposte difensive, basate su certezze antiche, con richiami alla terra, all’identità, al sangue, alla religione… La sinistra si è divisa sulla lettera della Bce. Una parte dice: «È il nostro programma»; un’altra dice: «No, bisogna andare nella di-rezione contraria». Così non disorientate gli elettori?La lettera della Bce non è un programma di go-verno e non bisogna prenderla come tale. Ha da-to delle indicazioni, degli obiettivi da raggiunge-re. È poi il governo a decidere le misure da intra-prendere per realizzarli. Certo, questo governo è andato avanti con la politica degli annunci, e og-gi è evidente il suo fallimento. Prendiamo il tema della spesa pubblica: quella globale, con i gover-

ni di centrosinistra, era arrivata al 46,5 per cento del Pil. Bene, Berlusconi è riuscito nel “miracolo” di aumentarla, portandola fino al 53 per cento, no-nostante tagli indiscriminati e sciagurati alla spe-sa per scuola, università, ricerca. Vogliamo parla-re dell’andamento del debito pubblico? Uno stu-dio di Bloomberg evidenzia che gli unici due pe-riodi in cui il debito pro capite degli italiani è dimi-nuito (1,1 per cento), sono stati quello del governo da me presieduto e quello del governo Prodi. Con Berlusconi, invece, è sempre aumentato. Noi ave-vamo impostato una linea progressiva di riduzione del debito, che infatti è passato dal 120 per cento al 109 del Pil, con un avanzo primario del 3,8 per cen-to. Tutto questo è stato consumato, cancellato dai governi Berlusconi. Lo dico perché loro raccontano di una sinistra del-la spesa, ma è una favola. Noi abbiamo la coscien-za tranquilla verso le generazioni future. Ma quella lettera chiede interventi drastici. Lei che ne pensa?La lettera della Bce contiene anche considerazioni interessanti. Ad esempio, sollecita la costruzione di un sistema di protezione per il lavoro flessibile, sul modello danese. Ma pochi sanno in cosa con-siste questo modello, che io applicherei subito… Prendiamo il caso di un disabile mentale: mentre in Italia riceve 250 euro al mese, in Danimarca ne riceve 1.500. Questo per dire che è falsa l’afferma-zione secondo la quale soffriamo di una eccessi-va generosità nel nostro sistema di welfare. Tolta la spesa previdenziale, che è al di sopra della me-dia europea, infatti, il nostro welfare non è al livel-lo degli altri Paesi europei più avanzati. Il sistema di protezione del lavoro flessibile che c’è nei Paesi dell’Europa del Nord da noi non esiste. Fino ad ora lei ha criticato il modello iperli-berista, l’ideologismo della destra, Berlusco-ni. Eppure lo spazio critico sembra tutto oc-cupato da alcuni giornali e movimenti, come i grillini. E il Pd?Il Pd nelle ultime elezioni è risultato essere il pri-mo partito del Paese. I sondaggi, inoltre, danno il centrosinistra in vantaggio sul centrodestra di 10 punti. Ma la vera questione è un’altra: l’Italia ha bi-sogno di profondi cambiamenti per recuperare un decennio perduto. Questo richiede una maggio-ranza ampia, in Parlamento come nel Paese. I son-daggi dicono che quella che oggi in Parlamento è

Il blairismo si è lasciato affascinare dall’illusione di cavalcare la globalizzazione

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minoranza, ormai è maggioranza nel Paese: par-liamo del 60 per cento. Ora si tratta di trasformare questo ampio consenso alle opposizioni nel soste-gno a un governo di legislatura che abbia un pro-gramma di ricostruzione del Paese: riforma delle istituzioni, rilancio dell’economia, centralità del lavoro, riduzione delle diseguaglianze sociali, que-stione fiscale, sicurezza. Ecco perché il Partito de-mocratico sta lavorando per unire le forze che so-no all’opposizione. Lei recentemente ha accennato al fatto che c’è qualcuno che pensa a un “cavaliere bian-co”, un Berlusconi buono che possa andare al governo del Paese. Cosa intendeva?Volevo dire che forse qualcuno si illude che possa continuare un berlusconismo senza Berlusconi. È l’idea che il capitalismo possa governarsi da solo, senza bisogno dei partiti e delle istituzioni demo-cratiche. Forse qualcuno ritiene che effettivamen-te si debba cercare una via d’uscita da questa sta-gione e che, però, ciò sia possibile farlo continuan-do a escludere o a tenere ai margini la sinistra. Ma si tratta di un’illusione e di un errore. Detto que-sto, noi sappiamo che la sinistra da sola non basta e puntiamo ad una alleanza più larga.

Forze diverse come la sinistra e i cattolici pensa si possano mettere insieme? Su molte questioni, a partire dalla bioetica, la distan-za è grande.Sono convinto che sia possibile costruire un pro-gramma di legislatura, che unisca un arco di forze diverse. Naturalmente la prospettiva politica di un partito come l’Udc è diversa da quella di Sel, ma ri-tengo che si possa trovare un accordo per gover-nare insieme su questioni urgenti che affrontino la crisi. Pensiamo al fisco: è possibile convergere su misure che spostino il peso della fiscalità sulla rendita liberando il lavoro e le imprese. È urgen-te attuare riforme di tipo liberale per rimuovere gli ostacoli corporativi al dinamismo sociale e alla sua mobilità. Bisogna rimettere in ordine le istitu-zioni democratiche, ridurre il peso della pubblica amministrazione, i costi della politica. Sto indican-do grandi questioni su cui si può trovare un’intesa. Poi, è ovvio che vi siano altre grandi questioni che investono, per loro natura, la formazione culturale e la coscienza di ciascuno, sensibilità diverse che attraversano gli stessi singoli partiti. Temi su cui vi sono profonde differenze, come quelli eticamente sensibili. Ma per affrontarli, il terreno di confronto

Una seduta del Parlamento europeo

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è quello parlamentare. L’intero continente è stato attra-versato quindici giorni fa da un mo-vimento di persone che chiedevano risposte. La politica non è troppo distante dalla società?Oggi il difetto della politica è quello di non avere l’autorevolezza e la forza di dare risposte. Una mancanza anche nei confronti dei movimenti, che chiedono alla politica la capacità di riprendere le

redini e correggere le storture, le disuguaglianze, le ingiustizie, la drammatica esclusione sociale di una generazione che è il prodotto di uno svilup-po capitalistico senza regole. A questo proposito, vorrei citare un pensiero di Mario Tronti: «Non è vero, come recita la vulgata corrente, che la crisi della politica deriva dal suo distacco dalla so-cietà civile. Al contrario, la politica entra in cri-si perché somiglia troppo alla società civile. Ne ha assunto i peggiori vizi ed è diventato l’hege-liano regno dei bisogni». Una frase scultorea, una descrizione esatta, a mio parere, della re-altà: la crisi della politica deriva proprio dalla sua perdita di forza. La politica allora cosa deve fare? «Deve riguadagnare l’animo grande e l’intenzio-ne alta», come ha scritto Machiavelli. La vera ri-sposta della politica è in termini di autorevolez-za, di capacità di riguadagnare le leve del potere. La politica perde prestigio perché si separa dal-la forza, e così facendo diventa predicazione. A settembre ho parlato con il presidente Clinton, secondo il quale il dramma che stiamo vivendo è che l’antipolitica produce leader capaci di rac-contare belle storie, ma incapaci di decidere. Ec-co, la crisi della politica è lì: quando non è capace di incidere sulla realtà. Come affrontare, concretamente, questa fa-

se così complessa e cruciale?La politica deve tornare a governare i grandi pro-cessi e raccogliere la sfida dell’economia globale. Questo si può fare soltanto con istituzioni forti, che, per quanto ci riguarda, sono quelle dell’Unio-ne europea. I movimenti progressisti non posso-no che essere europeisti e avranno l’occasione di dimostrarlo alle prossime importanti elezio-ni politiche che interesseranno Francia, Germa-nia e, speriamo, Italia. Parliamo di tre Paesi fon-datori, di 200 milioni di cittadini europei. È mol-to importante che i progressisti vadano al gover-no sulla base di idee condivise, che individuino grandi obiettivi comuni: l’Europa non può ridur-si a tagli e austerità. Occorre una strategia euro-pea di rilancio della crescita, attraverso un gran-de piano di investimenti in infrastrutture, ricerca, innovazione, energia verde. Per affrontare la que-stione del debito è necessario mettere in campo una strategia solidale, dotare l’Europa di propri strumenti, come gli eurobond, la financial tran-saction tax, un’agenzia indipendente per il debi-to. È necessario un salto di qualità nella coesio-ne politica della Ue che non può essere affidata al tandem Merkel-Sarkozy. Oggi le istituzioni euro-pee sono indebolite, sostituite da pochi governi nazionali, prigionieri dei loro problemi interni, in-capaci di assicurare un governo politico dell’Eu-ropa. I progressisti, futura classe dirigente euro-pea, devono dire “no”. Noi faremo diversamente, riprendendo in mano il processo di integrazione.D’Alema avrà un ruolo in Italia, in una nuo-va stagione?Un ruolo io ce l’ho. Sono presidente della Feps e della Fondazione Italianieuropei, ho un compi-to istituzionale importante per l’opposizione. So-prattutto, lavoro per proporre analisi e idee che continuino a suscitare interesse nel dibattito po-litico italiano.

BloombergVariazione del debito pubblico italiano con gli ultimi 8 governi

L’antipolitica produce leader

capaci di raccontare belle storie ma incapaci di decidere

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Malagrotta 34Mamme in tempo di crisi

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Indagato per falso in bi-lancio, indicato come po-litico di riferimento da al-cuni pentiti, turbato dalle inchieste della Direzione distrettuale antimafia di Genova su un assessore della sua Giunta.

Non deve essere un periodo sereno per Giu-seppe Scopelliti, presidente della Regione Ca-labria e uomo di peso del partito di Berlusconi. Nel mese di ottobre, il suo regno è finito sotto la lente d’ingrandimento della magistratura. Per i pm l’attuale governatore avrebbe gestito con ec-cessiva disinvoltura le casse del Comune di Reg-gio quando vestiva i panni del sindaco. L’inchie-sta mira a chiarire come si sia creato un buco da almeno 170 milioni di euro nel bilancio comuna-le, un rosso che per la Procura di Reggio è tipico di «un ente in dissesto finanziario». La cosa pub-blica sarebbe stata amministrata come una co-sa privata, un affare di cui non rendere conto a nessuno. Voci di bilancio sballate, spesa corren-te finanziata con fondi vincolati, dirigenti che si autoliquidavano compensi milionari, dipendenti mai pagati, consulenze affidate a parenti e ami-ci. È la sintesi del “modello Reggio”, fiore all’oc-chiello dell’attuale governatore, fondato sul-la rincorsa al turismo e al divertimento. Un mo-dello fatto di compensi esorbitanti offerti al net-work Rtl in cambio della diretta estiva dal lungo-mare, di vip strapagati per passeggiare in centro,

di feste ed eventi mondani per tutti. Ma in mezzo a questo “scialo” c’è scappato anche un morto. Anzi, una morta, che ha fatto scattare gli accer-tamenti sugli uffici dell’amministrazione reggi-na. Orsola Fallara era la dirigente comunale del settore Finanze e Tributi nominata da Scopelli-ti. È morta nel dicembre del 2010, ingerendo aci-do muriatico, dopo essere finita sotto inchiesta per aver versato sul suo conto e su quello di ami-ci più di 3 milioni di euro sottratti ai fondi comu-nali. Un caso archiviato come suicidio, anche se sul suo cadavere non è mai stata disposta l’au-topsia. Misteri a parte, resta da capire se Orsola Fallara abbia commesso reati a titolo personale o col tacito assenso della politica. Subito dopo la sua uscita di scena, è partita la gara a infanga-re il suo nome, un modo poco elegante per disso-ciarsi da una figura diventata scomoda solo per-ché colta con le mani nello stesso sacco da cui tanti attingevano. Ma la dirigente, oltre a riceve-re un lauto stipendio, era titolare di incarichi ex-tra, assegnati dall’allora sindaco Scopelliti. Co-me il compito di difendere l’ente di fronte alla commissione Tributaria. «Gli incarichi conferiti alla dottoressa Fallara Orsola appaiono del tutto identici a quelli conferiti a professionisti esterni all’ente», scrivono nella loro relazione gli ispet-tori nominati dalla Procura, «non tenendo in al-cun conto che la stessa era una dirigente dell’en-te». Orsola Fallara, in altri termini, per legge non poteva essere messa sullo stesso piano di un consulente esterno e nessun compenso aggiun-tivo poteva esserle riconosciuto. Ma così non è stato. Si è trattato di uno dei tanti illeciti che han-no creato una voragine nel bilancio comunale. Scopelliti ora dovrà chiarire la sua posizione da-vanti ai magistrati, perché è difficile credere che un buco da 170 milioni di euro si accumuli sen-za che il sindaco si accorga di nulla. E non sono stati solo i soldi prelevati dalla Fallara a crearlo.

L’ottobre nero di Scopelliti

di Rocco Vazzana

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Secondo Demetrio Naccari Carlizzi (Pd), sinda-co facente funzioni dal dicembre 2001 al maggio 2002 e consigliere comunale fino al 2007, Sco-pelliti non poteva non sapere. «Già nel 2003 de-nunciammo una situazione che avrebbe porta-to il Comune al dissesto», dice. «Scopelliti ave-va impostato un meccanismo in base al quale il bilancio diventava la cassa per acquistare con-senso». Un consenso di carta, secondo l’ex con-sigliere comunale, frutto solo dell’autopromo-zione. «Spendere 1 milione di euro per la diret-ta di Rtl vuol dire farsi una pubblicità incredibi-le, ma è la pubblicità del “cacao Meravigliao”: il prodotto non esiste», ironizza Naccari Carliz-

zi. «In più è stata elargita una quantità incredi-bile di contributi senza avvisi pubblici e proce-dura di evidenza». Fino ad arrivare alla situazio-ne attuale di dissesto. «Nel biennio 2009/2010 il confronto è diventato molto aspro perché Sco-pelliti è arrivato a blindare le informazioni fino a non consegnare il bilancio analitico ai consi-glieri», continua l’esponente del Pd. «La discus-sione politica amministrativa era finita. Per noi, Scopelliti aveva falsificato tutto, per questo pre-sentammo esposti alla magistratura». Ma il “mo-dello Reggio”, secondo Naccari Carlizzi, si è tra-sferito anche in Regione. «Alcuni ex dirigenti del Comune, indicati dall’inchiesta come bene-

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ficiari di compensi non dovuti, adesso siedono accanto a Scopelliti nell’amministrazione regio-nale». Squadra che vince non si cambia. E il go-vernatore non è abituato a perdere. Giovanissi-mo, è stato il sindaco più amato d’Italia, eletto al primo turno col 70 per cento dei consensi. E ha stracciato l’uscente Agazio Loiero (Pd) alle ulti-me elezioni regionali. Ma nel frattempo troppi soldi sono stati elargiti in maniera sospetta. An-che se i calabresi sono abituati a veder passare sotto il loro naso grandi flussi di denaro destina-ti a risollevare, almeno sulla carta, una delle aree economicamente più depresse d’Europa. Di svi-

luppo finora se ne è visto poco e le risorse sono finite nelle tasche dei soliti noti. Dal 1989 l’accapar-ramento è diventato ancora più facile grazie al “decreto Reggio”, un unicum giuridico che preve-deva la creazione di un fondo di 600 miliardi di vecchie lire «per interventi di risanamento socia-le, ambientale e culturale e di svi-luppo della città». Ancora oggi è la madre di tutte le mammelle statali, la “minna”, come direbbe-ro i reggini, da cui succhiare fin-ché dà latte. È lo strumento idea-le per creare clientele, visto che a gestire parte dei soldi viene dele-gato il sindaco della città dal mi-nistero delle Infrastrutture e dei Trasporti. E una volta eletto go-vernatore, nel marzo 2010, «Sco-pelliti ha fatto di tutto», sostiene Naccari Carlizzi, «pur di non la-sciare quella delega nelle mani di Giuseppe Raffa, il vicesindaco

diventato primo cittadino facente funzioni». Ma il progetto non è andato in porto.

Il falso in bilancio non è l’unica gatta da pe-lare per il governatore della Calabria. Il 20 otto-bre, durante l’udienza del processo “Testamen-to”, il collaboratore di giustizia Roberto Mo-io, ex uomo di fiducia del boss Giovanni Tega-no, ha parlato del ruolo della ’ndrangheta nelle consultazioni elettorali: «I voti si compravano. Ho raccolto voti per un sacco di gente (...). I Te-gano avevano rapporti ottimi con l’amministra-

zione, hanno sempre candidato qualcuno (…). Abbiamo appoggiato Scopelliti». Parole gravis-sime che potrebbero essere frutto della fanta-sia di un millantatore, anche se non è la prima volta che il governatore viene tirato in ballo dai pentiti. Nel novembre del 2009 Nino Fiume, ex killer della potentissima cosca De Stefano, di-chiarò ai magistrati: «Conosco Giuseppe Sco-pelliti, in quanto ho appoggiato politicamente lo stesso». Un’affermazione secca a cui il go-vernatore replicò senza scomporsi: «Conosco Fiume. Come tutti i ragazzi di questa città, ne-gli anni Ottanta frequentavo l’unica discoteca che c’era a Reggio, il Papirus. Ci si conosceva un po’ tutti (…). Mai parlato di politica con Fiu-me. Ho appreso dai giornali che faceva campa-gna elettorale per me». E in passato, nel febbra-io del 2007, qualcuno - senza sapere di essere ascoltato - ha chiamato in causa anche i fami-liari del presidente. In un’intercettazione tele-fonica due imprenditori parlavano del sistema degli appalti. Franco Labate si lamentava con Domenico Barbieri (arrestato nell’abito dell’in-chiesta “Meta”): «Stanno dando i lavori solo do-ve vogliono (…). C’è una ditta che sta facen-do man bassa». Dall’altro lato della cornetta il suo interlocutore rispondeva: «Vuoi sapere co-me ha fatto a entrare? Con il fratello del sinda-co (Scopelliti, ndr), i soldi se li sta prendendo lui, quello che si è riempito la mazzetta, la pila (i soldi, ndr) se l’è presa lui». Ma la loro potreb-be essere una semplice congettura, visto che la magistratura non ha accertato illeciti.

L’ultima tegola che si è abbattuta sulla testa del governatore viene da Genova, dove la Dda ha presentato una relazione alla Commissio-ne parlamentare Antimafia per documentare «l’alacre attività di sostegno svolta, nell’ultimo voto regionale, da esponenti della cosca (la Ra-so-Gullace di Cittanova, Reggio Calabria, mol-to attiva nel territorio ligure, ndr) anche con palesi intimidazioni, a favore del candidato An-tonio Stefano Caridi». Ovvero il primo degli eletti del Pdl nella provincia di Reggio, attuale assessore alle Attività produttive della giunta Scopelliti. Anche in questo caso, però, l’accu-sa è tutta da dimostrare. L’unica certezza è che per il governatore della Calabria ottobre è un mese da dimenticare.

Naccari (Pd): «Il bilancio era

diventato la cassa per acquistare

consensi»

Demetrio Naccari Carlizzi

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All’ombra diMALAGROTTA

Mentre a Roma infuria la battaglia sui nuovi siti per i rifiuti della Capitale, l’avvocato che ha fatto aprire un’indagine per omicidio colposo contro la megadiscarica rilancia: «La Thyssen ci ha ricordato che l’accettazione del rischio si paga»

left.it

Malagrotta come la Thyssen? A paragonare la megadiscarica della Capitale alla multinaziona-le tedesca condannata in primo grado per il ro-go dell’acciaieria di Torino è Francesca Roma-na Fragale, l’avvocato che ha appena fatto aprire l’inchiesta della Procura di Roma sui quattro abi-tanti dell’area di Malagrotta morti di tumore tra il 2008 e il 2010. Dopo aver presentato un esposto per omicidio colposo e disastro ambientale con-tro la discarica, il legale di parte civile annuncia a left che intende rincarare la dose: «La Thyssen ci ha ricordato che esiste anche il dolo eventuale, cioè l’accettazione del rischio che l’evento si veri-fichi. Farò presente agli organi competenti che an-che in questo caso potrebbe essere astrattamente configurabile la stessa ipotesi, che è uno scalino superiore rispetto alla mera colpa per negligenza,

di Sofia Basso

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imprudenza e imperizia». Le tragedie, insomma, possono essere impreviste o messe in conto. E se qualcuno è davvero morto per l’invaso più con-troverso d’Europa, non si può dire che gli allarmi non ci siano stati. Di certo sono state molte le ri-chieste, da Roma e da Bruxelles, perché l’impian-to sulla Aurelia si mettesse in regola con le norme ambientali e l’area venisse bonificata. Fino all’or-dine perentorio di chiusura. Tante volte annuncia-to, il pensionamento della discarica viene riman-dato di anno in anno dal 2007. L’ultima proroga

scade il 31 dicembre, ma il sindaco di Roma già parla di uno slittamento a fi-ne marzo 2012. «Credo che in Procura stiano disponendo un’indagine epide-miologica - spiega il legale che sostiene le famiglie delle vittime - per verificare se sussiste o meno il nesso di causalità tra le emissioni nocive provenienti dal-la discarica e gli eventi lesivi».

I nomi degli indagati di questo enne-simo procedimento a carico della di-

scarica gestita dalla Giovi, società del gruppo Co-lari di Manlio Cerroni, il monopolista dello smal-timento dei rifiuti in Lazio, sono ancora secretati. L’imprenditore, intanto, smentisce qualsiasi lega-me tra i suoi impianti e le patologie sviluppate da-gli abitanti cresciuti all’ombra del più grande im-mondezzaio d’Europa. L’indiscusso re dei rifiuti, che ha collezionato procedure di infrazione per-

ché non trattava la spazzatura prima di interrar-la, questa volta ha dalla sua una sentenza del Tar che ha annullato l’ordinanza del Campidoglio che sollecitava una messa in sicurezza dell’area. A far scattare la richiesta del Comune erano stati gli al-larmanti risultati di uno studio Ispra, confermato quest’estate dall’Arpa, che rilevava «uno stato di contaminazione diffuso delle acque sotterranee per metalli e inquinanti organici». Accanto ad ar-senico, nichel, alluminio, piombo e benzene, con valori superiori ai limiti di legge sino a 200 volte, nei pozzi interni ed esterni dell’invaso era stato trovato anche N-burtilbenzenesolfinammide, una sostanza cancerogena indicata in letteratura «co-me possibile marker di contaminazione da disca-rica di rifiuti solidi urbani». Data la presenza di al-tri impianti potenzialmente inquinanti, secondo il Tar, è difficile quantificare l’eventuale «effetto in-dotto dalla discarica». A negare quello che nem-meno il Tribunale amministrativo esclude è Cer-roni: «Malagrotta è una grande vasca isolata senza collegamento alcuno con l’esterno».

Mentre l’imprenditore e le istituzioni litigano sull’interpretazione dei dati, gli abitanti del cir-condario si ammalano. E alcuni muoiono. Come Gerardo Ferrante, promotore del comitato Pisa-na 64, ucciso in pochi mesi da una rara forma di tu-more al cervello. Fino all’ultimo, con un filo di vo-ce, dava consigli agli amici su come proseguire la battaglia. Due settimane fa, l’avvocato Fragale ha

Se la chiusura dell’impianto non sarà fatta

secondo le norme, l’inquinamento

continuerà per decenni

Manlio Cerroni, presidente del Colari e monopolista dello smaltimento dei rifiuti in Lazio Roma, una protesta contro la megadiscarica di Malagrotta

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presentato alla Procura di Roma 12 nuove cartelle cliniche per ampliare il dossier della class action contro quei 240 ettari di rifiuti per 47 metri d’altez-za, l’ottavo colle di Roma, come l’ha soprannomi-nato qualcuno. Quartieri interi, da Massimina a Ponte Galeria, trattengono il respiro quando tira vento, a seconda che soffi il maestrale o la tramon-tana. «I rifiuti andrebbero coperti con almeno 20 cm di terra - denuncia Salvatore Damante, ricerca-tore ambientale per i comitati - ma spesso non vie-ne fatto, così l’acido solfidrico si sparge nell’aria, superando i limiti olfattivi anche di 10 volte». L’11 novembre Francesco Rando, amministratore uni-co della Giovi, dovrà tornare in aula dopo tre con-danne penali, per difendersi nuovamente da accu-se di malagestione e danni ambientali.

Intanto la discarica cresce in altezza, inghiot-tendo ogni giorno 5mila tonnellate di rifiuti. E al-la sua ombra, Cerroni scava. Da settimane le sue ruspe sono al lavoro pochi chilometri più in là, a Monti dell’Ortaccio, allarmando i residenti che te-mono che il presidente del gruppo Colari stia pre-parando l’alternativa a Malagrotta ancora una volta sotto le loro finestre. Il timore, insomma, è che Cerroni voglia giocare d’anticipo sulle au-torità della Capitale che vorrebbero costruire le nuove discariche a Riano e a Corcolle ma devo-no fare i conti con l’opposizione dei cittadini che il 5 novembre si sono dati di nuovo appuntamen-to in piazza. Mister rifiuti scava anche a Testa di Cane, subito dietro l’invaso storico, e c’è chi ipo-tizza che Cerroni stia preparando la pattumiera per le scorie del suo gassificatore. Perché se la di-scarica deve chiudere, la centrale avviata tre an-ni fa per bruciare il combustibile da rifiuti dovreb-be invece espandersi, attivando le seconde e ter-ze linee. «Quando il Colari decise di collocare il gassificatore a ridosso della discarica - raccon-ta Maurizio Melandri, presidente dell’Osserva-torio ambientale della Valle Galeria -, il Comune di Roma chiese uno studio di sicurezza integrato per timore dell’effetto domino, perché in questa area ci sono altri cinque impianti a rischio di in-cidente rilevante». Cerroni è riuscito a fare a me-no dello studio e ha costruito la sua centrale con i finanziamenti Cip6, quelli per le energie pulite. Oltre a non funzionare a pieno regime (in questi giorni sarebbe addirittura fermo), il gassificatore

«non chiude affatto il ciclo perché espelle nell’at-mosfera la materia rifiuto e produce nuovi scarti da trattare e da smaltire per migliaia di tonnella-te/anno», denuncia un documento dell’Osserva-torio. «Durante l’accensione - rincara Damante - c’è il rischio che si producano diossine». Tutto at-torno, oltre alle zone abitate, ci sono fattorie e pa-scoli. Così, se l’inquinamento dovesse filtrare nel terreno, nell’aria o nelle falde come sostengono da tempo i comitati, finirebbe immancabilmente sulla tavola degli italiani.

Il signore della spazzatura nega tutto e ha tap-pezzato i cancelli della discarica con nuovi car-telli che pubblicizzano il suo Progetto di ripristi-no ambientale con l’immagine di una grande area verde. «Nell’arco di 4-5 anni, Malagrotta divente-rà un Parco naturale con oltre 340mila piante», scrive Cerroni, che non ha risposto alle richieste di intervista di left ma ver-ga molti comunicati stam-pa. «Vuol fare concorren-za al Central park - chiosa ironico Sergio Apollonio, instancabile presidente del Comitato Malagrotta -, purtroppo questa disca-rica inquinerà ancora per decenni». Da qui la richie-sta che vengano rispetta-te le norme per la gestione post operativa tren-tennale dell’impianto, con «controlli costanti del-la captazione del biogas e dell’estrazione del per-colato», il liquido che si forma con la putrefazio-ne dei rifiuti. «Se non si faranno i lavori - avverte Damante -, il percolato continuerà a uscire, come effetto delle piogge e del cedimento del terreno. Purtroppo bisogna ricordarsi che i metalli pesan-ti nelle falde danno patologie dopo molti anni». Così, alla vigilia dell’agognata chiusura della me-gadiscarica, la strada per gli abitanti della zona, stanchi e intontiti dopo trent’anni di battaglie, è ancora in salita. E alle loro preoccupazioni, si ag-giungono quelle dei residenti di Riano e di Corcol-le, pronti alle barricate contro il progetto di due nuove discariche sul loro territorio. Perché se Ro-ma non può finire come Napoli, loro non vogliono finire come Malagrotta.

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La buona notizia arriva già la mattina presto: «In seguito alla manovra correttiva del governo Ber-lusconi - dice impeccabile la conduttrice delle news antelucane -, tutte le donne italiane andran-no in pensione più tardi, oltre i 65 anni, ma guada-gneranno meno dei loro mariti o compagni. Que-sto a causa delle retribuzioni più basse ottenute dalle lavoratrici, compensi mediamente inferio-ri del 20 per cento a parità di titolo di studio e an-zianità, con punte che arrivano però oltre l’80 per cento considerata la prestigiosa posizione pro-fessionale conquistata più spesso dagli uomini ri-spetto alle donne. Le quali, se restano casalinghe, rischiano di soffrire una vera e propria condizione di povertà».

Ascoltando le - poco sorprendenti - novità, l’ita-liana media ha già preparato il caffè, redarguito al-meno un figlio circa lo stato pietoso dei jeans in-dossati e chiesto alla figlia di uscire dal bagno più o meno tre volte. Il marito, se c´è, sta facendo la barba, o la prima telefonata urgente. Forse darà uno strappo ai ragazzi verso scuola, ma di certo avrà già in testa il piano della giornata: lavoro, un salto dal commercialista o dall’elettrauto, maga-ri un salutino alla mamma e poi addirittura un cal-cetto serale, una corsa in palestra, una partita in ti-vù con gli amici.

Pure lei, la moglie, avrebbe in mente una sera-

Mamme al tempo della crisi

I prezzi che aumentano, le battaglie a scuola. Viaggio tra le donne che vanno in pensione più tardi e guadagnano meno degli uomini

di Chiara Paolin©

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ta al cinema con la collega simpatica o l’amica di scuola che non vede da un anno. Ma di solito fi-nisce sempre che, verso sera, deve rinunciare al-la sua ora d’aria: il tempo non basta mai, gli sfor-zi per rispondere a tutte le richieste sono erculei, i calcoli per far rientrare nel budget quotidiano gli imprevisti rasentano il premio Nobel per la mate-matica creativa. Basta leggere il contenuto della prima mail cliccata in ufficio togliendo la giacca. È la coordinatrice di classe che striglia i colleghi ge-nitori: «Quest’anno (ma pure l’anno scorso) le ma-estre hanno chiesto di comprare ai bambini l’eser-ciziario di italiano e matematica (costo totale eu-ro 13). In regalo la Casa editrice ha fornito l’eser-ciziario di storia e geografia. Ho provveduto come ogni anno a fare le provviste di scottex, etc. Poi vi sarà l’uscita al frantoio (costo euro 23 circa). In previsione delle spese da sostenere abbiamo deci-so di corrispondere un fondo spese in acconto di euro 50 cadauno. Vi prego di non ritardare oltre i contributi».

In scadenza c’è anche la rata della pallavolo, e quelle scarpe per la danza classica che costano un occhio della testa. Squilla il telefono, parte la gio-stra del lavoro (tutti arrabbiati, tutti in cerca della gratificazione che non arriva mai), e senza quasi respirare si trotta fino al tardo pomeriggio. O più tardi, perché all’orario di lavoro ordinario, le ca-noniche otto ore ormai diventate per tutti alme-no dieci (includendo spostamenti ed extra vari), la donna italica somma una quantità record di im-pegni familiari. Tutte le ricerche nazionali ed eu-ropee confermano: ogni signora perbene, oltre a svolgere la sua professione, deve tenere in ordine la casa, fare la spesa, passare dal dottore per le ri-cette, pensare alla cena e a quella camicia da stira-re prima di andare a letto.

Quadretto fantozziano o realistico ritratto del-le donne italiane d’oggi? Il sito www.ingenere.it della Fondazione Brodolini riflette efficacemen-te sul tema tentando un raffronto con altre real-tà europee. Per esempio: visto che le manovre de-gli ultimi anni tendono a punire l’impiego pubbli-co (luogo privilegiato di occupazione femminile) tagliando sul sociale (leggi nido, asili e assisten-za agli anziani), non sarà che alla fine anche que-sta benedetta crisi globale resterà appiccicata sul-

le spalle delle donne? Roberta Carlini, direttrice in ingenere.it, pensa di sì: «Il caso dell’Irlanda, che ha preceduto tutti nell’ado-zione di misure draconiane (au-mento delle imposte, tagli fino al 20 per cento dei salari dei la-voratori pubblici, inclusa sanità e scuola) è agghiacciante: a due anni di distanza, queste politi-che non hanno impedito la cadu-ta del Pil del 7,1 per cento e l’au-mento della disoccupazione al 13 per cento». Un tracollo che ha inciso pesantemente sulle op-portunità di riequilibrio in un Pa-ese assai cattolico e tradizionali-sta, proprio come l´Italia.

«Crisi o non crisi, le donne hanno sempre dovuto rimboc-carsi le maniche tra impegni di lavoro, cuore di mamma e slan-cio sociale. Certo la recessione non ha aiutato, ma le armi per uscirne a testa alta ci sono, ba-sta conoscerle». Così tentano di reagire le autrici di Donne sull’orlo della crisi economica (Rizzoli), Monica D’Ascenzo e Giada Vercelli: le italiane devo-no farsi finalmente rispettare, a casa e fuori. «Il primo passo è imparare a non delegare ad altri le proprie scelte nel lavoro, nella gestione del budget familiare e degli inve-stimenti» suggeriscono le esperte. Ma chi glielo va a dire al capo che quegli apprezzamenti sul look non sono piacevoli se poi si passa imme-diatamente per isteriche iperfemministe (men-tre ai colleghi che strizzano l’occhio capita stra-namente di far carriera più in fretta)?

Non c’è tempo per meditare sulla soluzione, domani sarà un altro giorno di ordinario delirio, e intanto bisogna infilare nel forno le polpette con-gelate nel weekend (metà pane metà carne, che si risparmia e sono più leggere) inventandosi una scusa buona per rinviare al 27 lo shopping con la figlia, per quelle famose scarpette. Rosa, morbide, flessuose, nonostante tutto.

A Milano consiglieri-madri in rivolta A Milano la settimana scorsa i consi-glieri comunali del Pd Marilisa D’Ami-co e Marianna De Censi, sette figli in tutto, hanno formalizzato una proposta molto particolare alla commissione Af-fari istituzionali di palazzo Marino. La D’Amico, mamma tre volte e presiden-te della commissione, ha annunciato una proposta di modifica del Regola-mento di organizzazione del consiglio comunale: si richiede che nella norma riguardante la programmazione dei lavori d’aula si tenga conto delle «esi-genze di conciliazione dei tempi» fra politica e famiglia nel fissare sedute e orari. Inoltre, si chiede di prevedere un termine di chiusura massimo delle sedute, per quelle che si protraggono alla sera o di notte, così da evitare sfo-ramenti dannosi per chi ha famiglia. Il collega consigliere Pdl Marco Osnato si è detto d’accordo sulla proposta, ma ha aggiunto però che sarà difficile attuarla, «quando si parla di ostruzio-nismo e di migliaia di emendamenti» che richiedono giorni e notti in aula.

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La Croce rossa italiana va verso la privatizzazio-ne. E si occuperà dei Cie. Con tanti saluti al prin-cipio di “Umanità” che la Cri giura di rispettare. I centri di identificazione ed espulsione per mi-granti “clandestini”, voluti dal ministro Maroni, sono le strutture italiane più criticate a livello in-ternazionale (dall’European migration network e da Amnesty international, per esempio) per la loro palese mancanza di rispetto dei diritti uma-ni. Nonostante ciò, nella bozza di decreto legi-slativo di riordino della Cri, ancora senza nume-

ro, che abbiamo avuto modo di leggere in antepri-ma, si aggiunge ai compiti dell’ente quello di «ge-stire centri per l’identificazione e l’espulsione di immigrati stranieri e centri per l’accoglienza dei richiedenti asilo». E, come si cercò di fare con la Protezione civile, si tenta di nuovo di privatizzare un ente preposto ad “aiutare” e “fare del bene”. Il parallelismo non è casuale: le modalità della pri-vatizzazione sono molto simili a quanto stava ac-cadendo al Dipartimento allora diretto da Guido Bertolaso, che alla fine del 2009 stava per diven-tare una Spa.Negli ultimi 30 anni, la Cri ha avuto più commis-sari straordinari che presidenti eletti. Attualmen-te il commissario è Francesco Rocca, uomo vici-no a Gianni Letta e alla destra di Gianni Aleman-no. «Al suo fianco», lo ammette lui stesso, lavora anche «un ex terrorista dei Nar», Paolo Pizzonia. Il commissario dovrebbe riorganizzare l’ente e

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risanare il bilancio, gravemente in rosso. Nessu-no dei due compiti è stato portato a termine ma questo non ha impedito la proroga dell’incarico.

La privatizzazione e gli appaltiDopo che la privatizzazione era già stata paven-tata e poi ritirata nella scorsa finanziaria, ora ri-compare nel silenzio più profondo. L’ultima boz-za datata 27 ottobre 2011, prevede che il Comita-to centrale e quelli regionali della Cri rimangano pubblici, mentre comitati locali e provinciali di-verrebbero enti di diritto privato. Con la possi-bilità di mantenere o stipulare convenzioni con enti pubblici. Così si ottiene il doppio risultato di mantenere il controllo statale, e la garanzia di fi-nanziamenti provenienti da ben quattro ministe-ri per il Comitato centrale (parliamo di 160-180 milioni di euro all’anno). Mentre le strutture lo-cali potranno accedere al 5 per 1000. In pratica spesa pubblica e guadagni privati.Inoltre, da Roma, l’ente potrà avvalersi dei “ser-vigi” dei comitati locali “privatizzati” per lo svol-gimento dei compiti previsti e per convenzioni varie. Come dire che ci sarà una struttura cen-trale che agirà da general contractor e che le strutture locali diventeranno soggetti attuatori.La conseguenza? Molti appalti, magari sen-za gara. Vestiario e vitto per quelli che nei Cie vengono chiamati «ospiti» e che, invece, so-no a tutti gli effetti dei reclusi. Ma anche appal-ti edili. Non è solo un’ipotesi. Un anno fa, due consiglieri comunali di Torino (Marco Grimal-di e Maria Teresa Silvestrini), dopo una visita al Cie di corso Brunelleschi scrivevano in una nota: «Il modello di gestione affidato alla Croce rossa militare, vincitrice di una gara anche per il raddoppio del centro (da 90 a 180 posti) che sarà operativo da settembre (3 milioni di euro in 3 anni), appare quello tipico della “multiuti-lity Spa”, la quale gestisce tutti i servizi, dall’ac-coglienza e refezione all’assistenza legale, sani-taria, psicologica». Il tutto senza alcun rispetto per i principi di «indipendenza» e «neutralità» propri della Croce rossa, visto che i Cie sono strutture governative.

Guerra e propagandaScorrendo la bozza del decreto si trovano, fra i nuovi compiti di Croce rossa, anche l’«advoca-

cy» e la «diplomazia umanitaria». Sulla prima c’è poco da dire: letteralmente, significa «pub-blicità di sostegno». È una forma di pubblicità no profit per promuovere consenso su determi-nate tematiche, una specie di attività lobbying. Da svolgere principalmente in teatri di guerra o crisi internazionali.Quanto alla «diplomazia umanitaria», qualcu-no forse ricorderà il ruolo ambiguo di Maurizio Scelli, allora commissario straordinario di Cro-ce rossa e oggi deputato del Pdl, dopo un tenta-tivo andato a monte di organizzare la gioventù berlusconiana. In Iraq, con grande disappunto dei nostri servizi segreti, Scelli tentò di mediare con i rapitori di Enzo Baldoni, Giuliana Sgrena, Simona Pari e Simona Torretta. È questa la tipologia di missioni umanitarie che la Cri vuole gestire? Dietro i fini umanitari, sem-bra nascondersi l’obiettivo di sostenere il Go-verno nelle missioni di “ricostruzione”. Forse già in Libia, dove gli interessi dell’Eni sono cosa nota. L’ipotesi non è affatto remota: in Iraq, l’in-tervento della Cri era stigmatizzato anche dal-la Croce rossa internazionale centrale di Gine-vra poiché si accompagnava alle forze armate («le attuali attività della vostra società naziona-le in Iraq danneggiano la credibilità del Movi-mento», scrivevano da Ginevra) e dall’Organiz-zazione mondiale della sanità, che non condivi-deva l’idea di Scelli di costruire nuovi ospeda-li in Iraq invece di supportare le strutture pree-sistenti. E anche lì il Governo italiano aveva ed ha tutt’ora interessi non solo nella ricostruzio-ne ma anche, ovviamente, nel ramo petrolifero.

Mai sentiti i sindacatiTornando in casa nostra, ci sono altre due que-stioni contenute nella bozza di decreto di rior-dino che appaiono particolarmente importan-ti. La prima riguarda i dipendenti (2.365 in tutta Italia) ed ha scatenato la dura reazione dei sin-dacati. Tutte le sigle sindacali, unite, hanno or-ganizzato una mobilitazione e rilevato le critici-tà della bozza. Con la privatizzazione dei comi-tati provinciali e locali i dipendenti a tempo in-determinato passerebbero ad un contratto pri-vato oppure ad altre amministrazioni. «Con il rischio però, in caso di mancato ricollocamen-to, di finire dritti nelle liste di mobilità». E i pre-

CroCe rotta

Sul sito left.it il documento riservato sulla privatizzazione della Croce Rossa

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cari? Secondo i sindacati dal riordino derive-rebbe «il sostanziale licenziamento di tutti i la-voratori precari alla scadenza del loro contrat-to di lavoro». Quella bozza, ci raccontano i sin-dacati, è stata scritta senza che loro potessero intervenire, nonostante contenga la premessa: «Sentite le organizzazioni sindacali maggior-mente rappresentative».Solo dopo l’uscita delle prima indiscrezioni, il 20 ottobre, il commissario Rocca indice un in-contro proprio nel giorno dell’alluvione che ha paralizzato Roma. I rappresentanti sindacali, con un telegramma, chiedono il rinvio. Ma tut-to si svolge come programmato. La bozza viene redatta e i sindacati diffidano, attraverso un av-vocato, il commissario Rocca per aver fatto tut-to senza consultarli.

Immobiliare Croce rossaPoi c’è il nodo, mai risolto, del patrimonio im-mobiliare della Cri. Immenso, stimabile in al-meno un migliaio di proprietà e mai inventa-riato (l’inventario dovrebbe essere redatto entro 180 giorni dall’approvazione del decre-to, come scritto nella bozza).Inoltre, il comma 1 dell’articolo 5 dice che «il patrimonio immobiliare della Cri è destina-to «al perseguimento dei fini statutari [...] an-che mediante utilizzo in comodato d’uso gra-tuito da parte dei Comitati locali e provincia-li affiliati». Come dire che la Cri pubblica, tra-sformandosi in una specie di gigantesca agen-zia immobiliare, cede alla Cri privatizzata - cui spettano solo «oneri indiretti e costi di manutenzione» - immobili che sono patrimo-nio pubblico. Con molti vantaggi per i comi-tati locali, senza dubbio. Pensiamo a un ban-do di gara: la Cri che ha ricevuto in comodato la sua sede, per esempio, ha un vantaggio ri-spetto alle croci private che devono sopporta-re costi di gestione più alti, quindi non posso-no competere.Ma non basta: come da tradizione di tutti gli organismi che hanno a che vedere con i go-verni Berlusconi, il patrimonio immobiliare diventa anche risorsa da dismettere per risa-nare le casse. Lo prevede il comma 2 dell’art. 5 della bozza. Come verranno venduti questi immobili? A chi e a che prezzo? E lo spirito

di chi li ha donati alla Croce rossa perché li utilizzasse per i suoi scopi associativi - non certo per risanare un debito - non verrà for-se tradito?

Il lato oscuro della virtù“Non si spara sulla Croce rossa”. È un modo di dire che nasconde qualcosa di più: un mo-do di dire che rende molto complicato qual-siasi tentativo di critica nei confronti dell’en-te benefico più famoso del mondo. Un ente che vuole mantenere il suo volto buono ma lava i panni spor-chi a casa sua. Al punto che nel nuo-vo Codice etico si legge: «È vietato all’appartenente alla Cri il rilascio di interviste a soggetti terzi». Le poche voci di dis-senso vengono isolate: è il caso, per esempio, dei tre “testimoni” di una recente in-chiesta di Report sull’ente, il Ma-resciallo Vincen-zo Lo Zito che da anni combatte la sua battaglia con-tro quella che ri-tiene una mala ge-stione del Comita-to regionale Abruzzo, presieduto da Maria Te-resa Letta (sorella di Gianni); Anna Montanile che ha sollevato legittimi dubbi sul patrimo-nio immobiliare che avrebbe dovuto inventa-riare; Daniele Tosoni, volontario di Cri sospe-so dal servizio per aver osato criticare l’ope-rato dell’ente. Tutti e tre hanno subito prov-vedimenti disciplinari. Tutto, all’esterno, de-ve apparire perfetto e sotto controllo da par-te del commissario Rocca. Che la bozza di de-creto lascia al suo posto per un altro anno. Ep-pure, anche nella Croce rossa italiana è ben presente il lato oscuro della virtù.

I comitati della Cri diventano privati. Potranno partecipare

ad appalti e vendere i propri immobili

Il commissario della Cri Francesco Rocca con Gianni Letta

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Perché all’estero non dovrebbero ride-re di noi, quando possono constatare, tra le altre cose, che investiamo larga-mente in parole su meritocrazia ed ec-cellenza, ma poi, nella realtà dei fatti, non riusciamo neanche a custodire i no-stri gioielli? Poche settimane fa a Reg-gio Emilia è stato avviato un azionaria-to popolare per salvare gli asili nati ne-gli anni settanta sul progetto del peda-gogista Loris Malaguzzi, quelle struttu-re formative destinate ai più piccoli che sono state studiate e imitate dappertut-to e che nel 1991 Newsweek collocò tra le scuole più belle del mondo. Si tratta di un’ottantina di scuole frequentate da circa 7mila bambini. La drastica ridu-zione di fondi per la scuola ha falcidiato anche queste strutture d’eccellenza. So-lo per le spese di manutenzione in 4 an-ni si è passati da 800mila a 130mila euro. Reggio Emilia ha anticipato gli obiettivi di Lisbona 2000 per quel che riguarda la scolarizzazione dei più piccoli: è la cit-tà italiana con la più alta percentuale di bambini tra 0 e 6 anni che frequentano un’istituzione scolastica (e nella fascia fra 0 e 3 anni il dato di Reggio è più del doppio della media nazionale). In que-sti asili, se sopravviveranno ai tagli, i bambini hanno a disposizione spazi am-pi e pieni di luce. Qui trovano, oltre al-le maestre, l’“atelierista”, con cui fanno esperienze artistiche, scoprendo mate-riali e giocando con strutture interatti-ve. Nelle mense i bambini partecipano alla preparazione dei pasti, provando i diversi sapori. E nel mentre ci si riem-pie la bocca di valorizzazione del meri-to e delle buone pratiche, se non si pro-caccerà risorse alternative, la rete degli asili di Reggio sarà costretta a dimezza-re il servizio. Ma questo è uno strano Pa-ese, anche perché succede che chi per professione si occupa dei sistemi di istruzione svaluta la formazione liceale, accusandola di essere eccessivamente teorica e non in sintonia con il nostro

tempo, dominato dall’economia, men-tre gli economisti sostengono l’impor-tanza di una formazione di qualità, che ancora è garantita proprio dal percor-so liceale. Per esempio, Ignazio Visco, neogovernatore della Banca d’Italia, ha dichiarato che l’economia italiana per-de quota nel mondo perché i giovani so-no poco istruiti e che un anno di studio in più per ciascuno potrebbe aumenta-re del 5 per cento il prodotto pro-capite. E il neopresidente della Bce Mario Dra-ghi, nei giorni della protesta dei giova-ni “indignati”, ha ricordato che il grado d’istruzione della forza lavoro e in par-ticolare dei giovani è un fattore fonda-mentale di crescita in un’economia ba-sata sulla conoscenza. Invece accade che anche su un percorso di qualità, co-me quello liceale, si abbattano le conse-guenze di politiche miopi e antitetiche alla valorizzazione del merito e dell’ec-cellenza. A parte i tagli che hanno colpi-

to indiscriminatamente tutti i percorsi di istruzione secondaria, nello specifi-co del liceo classico, con una nota mini-steriale di qualche mese fa sul riordino dell’assegnazione degli insegnamenti in base ai titoli conseguiti, si è nei fat-ti indebolita la figura di riferimento del docente di lingue classiche, destinato, se le regole non cambieranno, ad inse-gnare solo lingua e letteratura greca. Infatti sarà travolto dall’esercito dei colleghi rimasti senza cattedra a cau-sa dei tagli all’orario che gli toglieran-no gli insegnamenti delle altre mate-rie letterarie. Questo è un Paese dav-vero strano, anche perché per un ma-linteso principio egualitario si tende a deprimere ciò che funziona piutto-sto che migliorare i settori che non ri-spondono alle attese. Così le consta-tazioni di fatto, come ad esempio il semplice riscontro che i licei fornisco-no una preparazione culturale di qua-lità mentre gli istituti professionali, in alcune aree del Paese, sono in dif-ficoltà, sollevano polveroni sotto for-ma di dispute ideologiche, queste sì te-oriche e non in sintonia con i tempi. [email protected]

L’Italia chiede asiloDalle strutture per l’infanzia emiliane al liceo classico, continua l’attacco allo studio

Gli economisti concordi:occorre più qualitànella formazione

la scuola che non c’è

di Giuseppe Benedetti

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Quando, nel ’58, sbarcò ad Oporto, parlava il portoghese troppo bene per averlo imparato soltanto l’anno prima a San Paolo dove era rimasto per non rientrare con la sua Honved nell’Ungheria del dopo Imre Nagy. Per questo motivo qualcuno ritiene che si fosse rifugiato in Brasile già durante l’occupazione nazista men-tre altri lo volevano nascosto tra Parigi e la Svizzera. Egli stesso non ha mai chiarito il dubbio dicendo di essere scampato alla deportazione «grazie a Dio», lo stesso dio che non era riuscito a salvare suo fratello. Bela Guttmann nasce a Budapest nel 1899 da mamma Eszter e papà Abraham, entrambi ballerini del Te-atro dell’Opera. A sedici anni è già istruttore di danza classica ma, col benestare del rabbino, preferisce dedicarsi al calcio, sempre più po-polare nei caffè e nei salotti borghe-si dell’Impero austro-ungarico. Do-po la gavetta nel Torekves passa al Mtk, club dell’aristocrazia e della ricca comunità ebraica. Vince tre titoli nazionali e si sposta a Vien-na nell’Hakoah, polisportiva di so-li atleti ebrei la cui sezione di calcio vantava tra i tifosi un certo Franz Kafka da Praga. Con la squadra dai colori sionisti, bianco e celeste, il centromediano ungherese arriva secondo nel ’22 e vince il campiona-to austriaco nel ’25. L’anno seguen-te, naviga fino a New York dove il fo-otball era uno sport completamen-te diverso e il soccer non garantiva

lo stesso tenore di vita. Per arroton-dare, apre una scuola di danza per i lavoratori del porto, gli stessi in-sospettabili che venticinque anni dopo ispireranno ad Elia Kazan un celebre film con Marlon Brando. Il crollo di Wall street del ’29 costa a Guttmann parecchi dollari investi-ti in Borsa e lo costringe a tornare presto all’Hakoah. Grazie ad Hu-go Meisl, allenatore della Naziona-le austriaca e vecchio amico del pa-dre, inizia la carriera di allenatore ad Enschede in Olanda con ottimi risultati. Dopo il rientro a Vienna per allenare proprio l’Hakoah, vie-ne sorpreso nel ’38 dall’annessione al Reich che significa scioglimen-to del club e pronta fuga verso Bu-dapest dove guida l’Ujpest Dozsa a vincere campionato e coppa Mi-tropa. Nel ’45, riappare misteriosa-mente vivo in Romania sulla pan-china del Ciocanul, l’antico Macca-bi di Bucarest. Torna in Ungheria, va a Padova e poi a Trieste. Nel ’52, allena la Nazionale magiara, poi vo-la a Cipro, due anni a Milano, uno a Vicenza e uno alla Honved. Terribi-le la sua sfuriata quando viene eso-nerato dal Milan: «Non sono né un criminale, né un omosessuale». In Brasile importa il modulo 4-2-4 e in Portogallo ottiene i trionfi migliori. Con il Benfica vince campionato e due Coppe dei Campioni consecuti-ve: nel ’61 contro il Barcellona e, nel ’62, contro il Real Madrid. Nel ’63, la società di Lisbona non gli rinno-

va il contratto e lui esclama: «Per cento anni non sarete più campio-ni d’Europa», famosa maledizione confermata da cinque finali perse fino ad oggi. Bela Guttmann è sta-to il prototipo del sergente di ferro. Elegante, severo, esaltato, ipnotiz-zatore e camaleontico, con le sue assurde fissazioni e manie. Su tutte l’angoscia del sesso. Era fortemen-te convinto che i calciatori dovesse-ro astenersi da rapporti sessuali nei giorni precedenti la partita. Per sua stessa ammissione tutto ciò gli cau-sava vere e proprie ossessioni e in-cubi notturni. E pensare che duran-te il periodo viennese, dal ’21 al ’26, si era anche laureato in psicologia.

[email protected]

Le ombre di Bela Guttmann

Uno dei più carismatici allenatori del dopoguerra. Dai molti lati oscuri

Ha guidato il Benficasul tetto d’Europa

contro il Real Madrid

calcio mancino

di Emanuele Santi

L’allenatore ungherese Bela Guttmann

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48 Inferno d’argilla

42 Cile, il volto della rivolta 44Eni, zampe

legate

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Era il 13 maggio quando la stagione dell’indignazione nasceva in Cile,

il Paese del miracolo economico e dei Chicago Boys. A guidarla Camila Vallejo

Dowling, 23enne leader degli studenti cileni. Che chiedono istruzione

gratuita, pubblica e di qualità

Camila, come è nata la protesta degli stu-denti cileni, e come si è trasformata in un partecipato movimento sociale unitario?Bisogna distinguere vari livelli di mobilitazio-ne e di organizzazione dei movimenti sociali, per avere un chiaro panorama della portata po-litica che oggi ha e che in un futuro potrà ave-re il movimento studentesco. La nostra priori-tà è una riforma strutturale del sistema educa-tivo cileno e quindi il recupero dell’educazione pubblica, la sua qualità, l’accesso ugualitario, la gratuità, la fine delle logiche di lucro. A que-ste richieste presentate al governo si è associa-ta la gran parte della popolazione, marciando o organizzandosi con noi come un attore in più in questa lotta. In questo senso potremmo dire che c’è un grande blocco sociale che appoggia il movimento e che lo allarga al di là degli stu-denti. Questo è un aspetto molto positivo.Quali sono i punti in comune con i movimen-ti sociali e politici mondiali come gli indi-gnados europei o americani? Il nostro movimento è anche il riflesso di in-quietudini politiche presenti per molti anni nel-le vite dei cileni, ma che per paura o per rasse-gnazione non sono state esternate in modo for-te come ora. Questo malessere è legato all’esi-stenza di una élite politica che lavora costante-mente alle spalle della gente, non risponde al-le sue necessità, crea falsi consensi per appro-vare leggi che favoriscono solo pochi. Inoltre mantiene intatto l’attuale establishment poli-tico del Paese, ristretto e poco partecipativo. Pertanto abbiamo avanzato le proposte come lo svolgimento di plebisciti popolari su questio-ni di rilevanza nazionale o, più drasticamente, la formazione di un’Assemblea costituente che crei una nuova Carta fondamentale per il Ci-le, più democratica e inclusiva. Ma queste so-no parole d’ordine che vanno oltre il movimen-to studentesco e rappresentano l’anticamera di un movimento cittadino molto più ampio, che

di Angelo D’Addesio

il volto della rivolta©

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I governi di centrosinistrahanno fatto alcune riforme, ma senza toccare i problemi

strutturali della scuola

speriamo possa saldarsi in tempi veloci, per-ché il nostro Paese deve superare serie lacune democratiche.Cosa manca alla scuola cilena per essere in linea con quelle mondiali?Ci sono molte cose del sistema educativo cile-no da modificare totalmente. In primo luogo deve essere sradicato dalla legislazione il prin-cipio dell’educazione come servizio o bene di consumo individuale: vogliamo che sia consi-derata come diritto umano e mezzo di sviluppo sociale. Bisogna eliminare la logica del profitto nell’istruzione che crea incentivi perversi. Esi-giamo che lo Stato assicuri un sistema di edu-cazione pubblica, gratuita e di qualità in tutti i livelli, finanziando direttamente le istituzio-ni educative e non solo attraverso contributi e borse di studio. Favorendo così la riduzione delle tasse e evitando l’indebitamento di stu-denti e famiglie. Qual è la differenza fra questo e i preceden-ti governi nelle relazioni con il mondo del-la scuola?Durante i governi della Concertaciòn di cen-tro-sinistra, che pure hanno perseguito il mo-dello neoliberale ideato dalla dittatura, sono stati fatti alcuni passi in avanti come l’aumen-to della copertura del sistema pre scolare, il di-vieto di discriminazione di studentesse madri o incinte e l’implementazione di piani sociali a beneficio dei più poveri. Ma non c’è stato alcun cambiamento strutturale del sistema politico ed educativo. Ora con il governo di Piñera la si-tuazione è più tesa. Prima ci ha offerto un tavo-lo di dialogo, promettendo di non dettare con-dizioni, ma subito dopo ci ha imposto di inizia-re le attività accademiche del secondo seme-stre. Noi, pur con molte riserve, abbiamo tenu-to due riunioni col governo. Nell’ultima, poi-ché il governo ha ripresentato la stessa propo-sta di inizio anno, abbiamo deciso di ritirarci e proseguire la nostra mobilitazione.Come giudica il livello di preparazione del-le scuole e delle università cilene rispetto al mercato del lavoro?Oggi esiste una profonda disuguaglianza poi-ché gli studenti vengono valutati secondo la lo-ro università di provenienza. Molte università

private hanno il solo obiettivo di ottenere pro-fitti attraverso l’educazione più che consegna-re ai propri studenti un processo formativo di qualità, e lo Stato non interviene. D’altra parte, c’è una totale deregolamentazione dell’apertu-ra di corsi e quote: in quasi la metà dei casi, i laureati non lavorano nel settore per cui hanno studiato. A giudizio di molti, questi sono dati sufficienti a giustificare un’urgente riforma del sistema educativo cileno. È diventata un personaggio rilevante a li-vello internazionale. Cosa vede nel suo fu-turo professionale e politico? Molte volte mi descrivono come un simbolo della nostra lotta, ma è una semplificazione dei mass-media per “personificare” il movimen-to. In realtà ciascu-no ha un suo ruolo e a me è toccato quel-lo di essere la por-tavoce delle propo-ste presentate dal-la maggioranza del-la società cilena. In questa stessa linea, come militante del Partito comunista e come parte di questo movimento sociale, sono di-sposta a svolgere ogni ruolo necessario per av-viare un nuovo progetto politico e sociale op-posto a questo sfrenato modello neoliberale. Ma è qualcosa che verrà dopo aver raggiunto gli obiettivi dell’attuale mobilitazione. Ora mi interessa soltanto la mia formazione profes-sionale. E alle giovani generazioni, in questa situa-zione di crisi globale e sfiducia per la politi-ca, che messaggio volete lanciare?Abbiamo un punto di incontro comune, il mo-dello economico neoliberale che ha genera-to ovunque crisi simili. Viviamo in realtà mol-to differenti ma ci scontriamo con problemi strutturali uguali. Di fronte a tutto ciò, è neces-sario organizzare nuove alternative politiche. Magari non avranno nell’immediato risultati positivi, ma sono un primo passo indispensa-bile per avviare un nuovo modello che capo-volga questa situazione di disuguaglianza che ci angoscia.

il volto della rivolta

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L’Italia è una macchina a gas e Berlusconi vuole gui-darla per forza. Che Bru-xelles non gradisca l’osti-nazione del Cavaliere è scontato. Che anche Mo-sca sbuffi, meno.

Stiamo parlando del settore industriale, dove l’Eni si conferma prima azienda italiana per fattu-rato e utili, proprio mentre si affanna a recupera-re posizioni in Libia in uno sforzo congiunto con Palazzo Chigi. Gas e petrolio, è ovvio, sono in ci-ma all’agenda di ogni governo, ma non tutti gli Sta-ti gestiscono il settore dell’energia nello stesso modo. C’è chi opta per il controllo diretto e tota-le, come fa il Cremlino con Gazprom (gas) e Ro-sneft (petrolio); e c’è chi si affida completamente al mercato, come fa la Casa Bianca. Poi c’è l’Ita-lia, dove alla regola si è sempre sostituita la prassi e l’Eni - pur essendo controllata dal ministero del Tesoro - non ha mai rinunciato a una sua persona-lissima politica estera. Almeno fino ad ora.

C’era un tempo in cui il cane a sei zampe si spin-geva lontano senza padroni e Enrico Mattei istitu-iva una Direzione esteri per non obbligare i suoi rappresentanti a transitare per le ambasciate. Oggi, invece, il governo italiano non molla la sua compagnie preferita neanche un secondo. Basti guardare cosa succede in Libia: dal 23 settembre il cacciatorpediniere San Marco è stato impegna-to nella riattivazione dei pozzi di petrolio e gas che alimentano il gasdotto Eni Greenstream, con l’aiu-to di elicotteri della marina e tiratori scelti. A strut-ture ripristinate, il San Marco è servito al trasporto dei tecnici della compagnia petrolifera. Un mese prima, l’amministratore delegato Scaroni era an-dato a trovare il presidente della compagnia pe-trolifera libica Nuri Ben Ruwin offrendo al Con-siglio transitorio (Cnt) aiuti umanitari e materiale medico. Contemporaneamente, Frattini lo auto-rizzava a fornire 150 milioni di euro di petrolio raf-

eni zampe legate

di Cecilia Tosi

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Impianto di Gazprom in siberia

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finato al Cnt. Oggi Farnesina e Eni sono unite dal comune interesse a ripristinare gli approvvigio-namenti energetici, ma stanno dalla stessa parte anche in una battaglia politica, quella tra Francia e Italia. Due Paesi ansiosi di guadagnare il primo posto nel cuore libico, tanto da offrire la propria disponibilità a partecipare a una missione di pea-ce keeping che prenda il posto di quella della Na-to. Mandare i soldati in un nuovo teatro non è pro-prio il miglior modo di affrontare la crisi economi-ca, ma Berlusconi è così, preferisce andare sul ter-reno, pur di mettere una buona parola con i padro-ni del carburante. E vuole diventare protagonista in Libia così come in Russia, dove si reca spesso e volentieri. E anche se ad attrarlo a San Pietrobur-go è il compleanno del suo amico Putin che spe-gne le candeline, il premier garantisce alle agenzie di stampa che tagliare la torta è solo un’occasio-ne per parlare di gasdotti. Peccato che bisboccia-re insieme ai potenti non sia sempre la soluzione a tutti i problemi.

«Negli ultimi tempi si avverte una tensione tra Gazprom e Eni», ci racconta una fonte anonima. «Pare che Alexey Miller, amministratore delega-to del gigante russo, non consideri la compagnia italiana affidabile come un tempo». E perchè mai? Eni e Gazprom hanno deciso di essere “strategic partner” fino al 2012, una relazione speciale con-fermata dalla recente decisione dei russi di dare il via ai lavori di South stream, il gasdotto che do-vrebbe portare il petrolio del Caspio direttamen-te nei Balcani e poi in Italia. Un progetto bello da vedere sul powerpoint, ma che resta in sospeso da anni. Il guaio è, secondo gli analisti del setto-re, che l’Europa in preda alla crisi non registra au-menti nel consumo di gas e nuovi corridoi sono

poco utili. Lo sanno bene gli ingegneri del gasdot-to che dovremmo costruire con l’Algeria (Galsi), in attesa di mettersi a lavoro da tempo immemo-re. Di promesse, nel mondo dell’energia, se ne fan-no tante. Soprattutto se si tiene al proprio partner, come Gazprom tiene all’Eni. Le due compagnie hanno celebrato la propria unione nel 2007, quan-do gli italiani si sono aggiudicati ricchi giacimen-ti in Siberia grazie al fatto che Gazprom non pote-va acquisire le azioni della Yukos di Khodorkhov-sky senza incorrere nelle sanzioni degli Stati Uni-ti. L’amico più fidato per custodire quegli asset era l’Eni, che in cambio di questo legame indissolubi-

le ha portato la sua dote: l’ingresso del gas russo direttamente nel territorio italiano. Da quel mo-mento le società italiane, come le municipalizza-te di Milano e Brescia, hanno potuto comprare le partite di gas direttamente dal produttore, mentre l’advisor per i contratti con le italiane è diventa-to Intesa San Paolo, un gruppo che gode della be-nedizione di Romano Prodi. Il centrosinistra, pe-rò, cade dopo un anno e nel 2008 arriva Berlusco-ni e ricominciano i viaggi a Mosca. Il neopremier vuole occuparsi direttamente di politica energeti-ca, ma i debiti di Eni con Gazprom sembrano sali-re, invece che scendere. Nel 2011 la lista delle ces-sioni della compagnia italiana a quella russa com-prende il 50 per cento di Elephant, l’enorme gia-cimento petrolifero situato nei mari della Libia, e forse Promgas, la joint venture di intermediazio-ne che ha un solo cliente, Edison, e che secondo Reuters passerà completamente nelle mani della compagnia russa tra breve. Eni ha anche conces-so a francesi e tedeschi di entrare in South stream,

vendendo parte delle sue azioni e Edf e Winter-shell, mentre Gazprom guardava dall’alto del

suo 50 per cento.

Ma il gigante russo non sembra mai contento. Gazprom sente di non esse-re stata del tutto ripagata per i giaci-menti in Siberia. Alle promesse non hanno ancora fatto seguito i fatti e ha paura che Eni meni il can per l’aia. Ai russi non è piaciuto come la compa-gnia di Scaroni abbia cercato di sca-

La compagnia petrolifera ha sempre goduto di grande autonomia. Adesso il suo

legame con la politica è più forte. Ma i partner russi potrebbero non gradire

© Nikolsky/ ap/lapresse

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valcarli affidandosi alla politica per rinegoziare i prezzi. In Italia non c’era mai stato un legame tanto stretto tra governo e azienda, che oggi celebra-no incontri periodici alla Farnesina, un’abitudine che sarebbe stata im-pensabile fino a qualche anno fa.

Prima, infatti, il settore dell’ener-gia godeva di una certa autonomia, grazie alla scarsa incisività dell’in-dustria petrolifera sull’occupazio-

ne: basti pensare che 79mila dipendenti - di cui solo una parte minoritaria è impiegata nella ri-cerca e produzione petrolifera - sono sufficienti all’Eni per un utile da 6.318 miliardi di euro, men-tre un’azienda come la Fiat ne impiega 137mila per un utile da 179 milioni. Oggi, invece, la politi-ca sembra preferire un allineamento perfetto tra gli interessi della compagnia energetica e quelli dell’esecutivo, un atteggiamento da sempre invi-so ai mercati. Un’azienda che cambia strategia a seconda dei governi, infatti, significa instabilità, una parola che in Russia - dove Putin resterà al potere fino al 2024 - non è ammessa.

Ma Berlusconi non può rinunciare alle sue trasferte a Mosca. Le sue manifestazioni d’affet-to verso l’amico del Cremlino vengono spesso prese in giro, senza coglierne le serissime con-seguenze. Appoggiare un leader che limita la li-bertà della sua popolazione - Gheddafi docet - non sempre porta buoni frutti. Se Putin resta al potere è perché gode di sostegno, sì, ma an-che perché buona parte dei russi a votare non ci va nemmeno, convinta com’è che il risultato sia già scritto, magari con un aiutino da parte de-gli scrutatori elettorali. La corruzione e le attivi-tà illecite, in Russia, sono diventato l’unico mez-zo di sostentamento per la maggior parte dei la-voratori, che certo non possono campare soltan-to con uno stipendio medio di 250 euro al mese.

E se gli idrocarburi sono la fonte di un pote-re che non può permettersi incrinature, è meglio che chi li gestisce possa andare sul sicuro. Quan-do si tratta di profitto, non c’è legame di amici-zia che tenga. E se, ad esempio, la Francia doves-se guadagnare fette di mercato in Libia, Mosca e Parigi potrebbero anche stringere i loro rappor-ti, specie ora che i transalpini hanno il controllo di Edison, potenziale cliente privilegiata dei russi.

E perché lasciar fuori britannici e americani? Rosneft, il gigante petrolifero russo che affianca Gazprom, ha trattato per la cessione dei ricchis-simi giacimenti dell’Artico con Bp e poi ha deci-so di firmare con Exxon. Eni, invece, non è sta-ta invitata, e l’esclusione potrebbe scottare mol-to a chi si considera un alleato privilegiato di Mo-sca. Ma gli italiani non si scompongono. La com-pagnia che fu di Mattei ha appena scoperto il più grande giacimento della sua storia in Mozambi-co e ha avuto una certa fortuna anche in Iraq. I profitti salgono e i dirigenti si fregano le mani, anche se devono difendersi dalle proteste dei la-voratori in Italia e all’estero: in Tunisia gli abitan-ti di un intero villaggio hanno occupato il cantie-re di Tazarka per protestare contro i danni am-bientali procurati dall’impianto italiano, men-tre a Venezia solo due settimane fa trecento la-voratori hanno mandato in tilt il traffico cittadi-no chiedendo all’azienda di ritirare la previsio-ne di chiusura definitiva della raffineria. L’Eni, però, sfoggia un evidente ottimismo: la pazien-za dei popoli si sarà pure esaurita, i giacimenti petroliferi no.

La prima azienda italiana continua

a crescere: ha appena trovato

un enorme giacimento

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l’amministratore delegato di eni paolo scaroni

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Di italiano resterà giusto il cognome di origine del suo nuovo patron, Henri Proglio, presidente di Edf, Electricité de France. Edison - la società che fornisce l’elettricità a 1 milione di famiglie italia-ne - non parlerà più la lingua di Dante non appena la società d’Oltralpe formalizzerà l’accordo con A2A. Incruenta ma decisa, la scalata della società francese era nell’aria da tempo, ben prima dell’of-fensiva alla Parmalat, conquistata l’estate scorsa da Lactalis. Quella di Edf è una strategia che non ha come unico obiettivo l’Italia. Se la Germania non è più un cliente - Berlino ha scelto di rompere con il nucleare francese dopo il disastro di Fuku-shima - la società di Proglio ha subito recuperato firmando nuovi contratti in Serbia, dove assicure-rà la totalità dell’energia elettrica. E in Belgio de-tiene il 51 per cento della Spe, la seconda società di produzione di elettricità del Paese. Un lavorìo senza sosta per Henri Proglio, classico self-made-man partito dal nulla che in trent’anni ha fatto car-riera nella stessa azienda: la Compagnie générale des eaux, poi diventata Vivendi environnement e infine Veolia. A volerlo alla guida di Edf nel 2009 è Nicolas Sarkozy, amico e sodale politico. Espo-nente della destra nazionalista, vicino negli anni Sessanta all’estrema destra, Proglio ha sempre mantenuto un basso profilo in pubblico, evitando di esporsi all’attenzione dei media.

Nel privato però il suo è uno dei nomi che con-tano. Lo sa bene Anne Lauvergeon, per 12 anni al-la guida di Areva e dallo scorso luglio baby pen-sionata del gruppo leader nel campo atomico. Si dice che Sarkozy l’abbia fatta fuori proprio per accontentare Proglio, che per lei non aveva mai avuto simpatia. Areva, partecipata al 90 per cen-to dallo Stato, è stata sempre fiera della sua indi-pendenza rispetto agli altri gruppi energetici del Paese. Proglio invece cercava una sinergia nel set-tore, che consentisse di giocare a livello interna-zionale su più piani, quello politico e quello fi-nanziario. Una sorta di cordata, di cui Edf dove-va tirare le fila. La Lauvergeon ha pagato con la perdita del posto (Hollande aveva definito la sua cacciata un “segnale increscioso”) la sua scelta di non aver voluto Proglio come capo. Eliminata

Lauvergeon, tra Areva e Edf è scoppiato di nuo-vo l’amore, testimoniato dai tre contratti firmati sotto gli occhi di Eric Besson, che chiudono an-ni di guerra fratricida tra i due gruppi. Persino Gdf-Suez (diretta concorrente di Edf) è stata ri-chiamata all’ordine e invitata a non contrastare troppo gli interessi di Proglio.

La defenestrazione di Lauvergeon è avvenuta a luglio, quando la guerra in Libia sembrava pros-sima alla fine e la collaborazione tra Cnt ed Eliseo iniziava a trasformarsi in contratti vantaggiosi per le industrie francesi. La politica estera di Parigi passa oggi per i grandi gruppi guidati da amici per-sonali del presidente come Proglio (energia e nu-cleare), Bolloré (trasporti e logistica), Bouygues (costruzioni), Dassault (aviazione). Secondo Jac-ques Dupuydauby, patron del gruppo franco-spa-gnolo Progosa, l’Eliseo esercita indebite pressioni per far ottenere alle “sue” industrie contratti van-taggiosi, come la gestione dei porti africani per Bolloré, compreso quello di Misurata. Sarkozy, già pressato da scandali ben maggiori, smentisce scocciato. Intanto però le industrie francesi ma-cinano commesse su commesse. E dopo la Libia, le truppe dell’Eliseo si apprestano a intervenire in Somalia, a fianco del Kenya. Un’altra ottima occa-sione per fare affari.

L’appetito franceseDietro l’acquisto di Edison da parte di Edf c’è la strategia di Henri Proglio, patron del gruppo d’Oltralpe. La stessa di Nicolas Sarkozy: conquistare tutto

di Paola Mirenda

Il patron di Edf Henri Proglio

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foto di Jeung Keun Park(LaPresse)

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Per cinque mesi all’anno la capitale del Bangladesh diventa il regno dei mattoni. Ottomila persone costruiscono con le loro mani milioni di laterizi e con il loro lavoro contribuiscono alla ricchezza nazionale per l’1 per cento del Pil. Sono intere famiglie a dedicarsi ai mattoni, che purtroppo sono prodotti anche con derivati del carbone e provocano agli operai

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problemi respiratori e artriti precoci. Ma a Dakka, una delle capitali più popolose - 15 milioni di abitanti - e più povere del mondo, la salute dei lavoratori non è al primo posto. Figuriamoci l’ambiente: impensabile depurare le emissioni della combustione prodotta dalla benzina. Minime le speranze di riscatto per i bambini: per trasportare mattoni pesanti 2 chili, nessuno di loro va a scuola.

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Sudafrica

Julius Malema, leader giovanile dell’Anc (il partito fondato da Mande-la), non perde occasione di manife-stare il suo dissenso verso il leader del suo partito Jacob Zuma, attuale pre-sidente del Sudafrica. L’ultima inizia-tiva di Malema è stata una protesta (il 27 ottobre) contro la disoccupazione tra gli under 25, un corteo lungo 15 chilometri per chiedere posti di lavo-ro e una migliore ripartizione delle ric-chezze. Fonti dell’Anc ammettono che la marcia aveva un significato politico, ma si sussurra anche che i giovani del partito siano stati minacciati: «Se an-date, siete espulsi».

latino america

Su 14 Paesi classificati come i più violenti al mondo, sei sono sudamericani. Il non invidiabile primato è stato reso noto dal-la Geneve declaration, l’iniziativa nata nel 2006 dai governi di 42 Paesi e che opera nell’ambito del Programma delle Nazio-ni unite per lo sviluppo (Pnud). Il primato spetta a El Salva-dor, con più di 60 morti ogni 100mila abitanti: in rapporto alla popolazione, tra il 2004 e il 2009 sono morte più persone nel piccole Paese centroameri-cano che in Iraq. L’ex Paese di Saddam Hussein arriva comunque secondo, seguito al terzo posto dalla Giamaica. La patria di Bob Marley si rivela lea-der non solo nella musica reggae ma anche negli omicidi legati soprattutto a due fattori, traffico di droga e prostituzione.

uSa

Come molti marines, aveva messo in conto di poter essere colpito an-che dal fuoco amico. Ma si aspetta-va che questo accadesse nei suoi due anni trascorsi in Iraq, e non certo a Oakland, California. Curioso destino per Scott Olsen, ventiquattrenne ve-terano di guerra, che si è ritrova-to con un lacrimogeno in testa ed è dovuto ricorrere alle cure mediche. Il suo errore, aver scelto di aderire alle proteste della branca locale del mo-vimento “Occupy Wall street”.

india

È la capitale indiana dell’informatica, ma anche quella dei sui-cidi. Bangalore, la cit-

tà asiatica conosciuta per le sue in-dustrie hi-tech e per i suoi campus all’avanguardia ha registrato, secon-do i dati del National crime records bureau, 2.167 casi di morte volontaria nel 2009 contro i 1.212 di Nuova Delhi. I dati, resi noti questa settimana, con-fermano il trend negativo che va avanti da oltre 10 anni.

thailandia

Quattro mesi di pioggia per un tracollo finanziario pari al 2 per cento del Pil. Le alluvioni che stanno colpendo la Thailandia hanno spinto la Banca centrale di Bangkok a ridurre le stime di crescita per il 2011, dal 4.1 al 2.6 per cento, e purtroppo non si tratta di una stima definitiva. Il fiume Chao Praya ha raggiunto livelli mai visti, spingendo i cittadini della capitale a fuggire nelle campagne e mettendo a repentaglio i celebri monumenti del centro storico.

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left.it mondo

il libro

La guerra in Afghanistan non ha annullato la storia e la cultura di un popolo, ma i resoconti giornalisti-ci sì. Fernando Gentilini, ex inviato della Nato a Ka-bul, prova a rimediare con Libero a Kabul (Editori

internazionali riuniti, 313 pp., 19.50 euro), in cui racconta una so-cietà e le sue divisioni interne, le lotte per il potere e le tradizioni millenarie. E la vita quotidiana di chi sopravvive all’Afghanistan.

Senegal

Il biofuel? Può anche uccidere, co-me è successo in Senegal, dove il 27 ot-tobre una persona è morta durante le proteste contro la vendita di 20mila et-tari di terra agli imprenditori italiani e senegalesi della joint venture Senetha-nol. La compagnia, specializzata nella produzione di carburanti alternativi, ha ottenuto la concessione senza con-sultare la popolazione. Gli abitanti hanno accusato il presidente della comu-nità rurale, Karrasse Kane, di aver ceduto ai privati un terzo di tutte le terre coltivabili della zona, «una percentuale insostenibile» secondo gli agricoltori. La rivolta, scoppiata ai primi di ottobre a Fanaye, è cresciuta di intensità fino a coinvolgere altre regioni del Paese. Il 27 ottobre l’incontro chiarificatore pres-so la sede della comunità rurale si è trasformato in violenta battaglia tra soste-nitori e accusatori di Kane, causando un morto e 14 feriti gravi. Il governo ha temporaneamente sospeso il progetto.

caucaSo

L’Abkazia spera nell’effetto domino. La regione che ha dichiarato l’indipen-denza dalla Georgia nel 2008 - insieme all’Ossezia del Sud - è in cerca di rico-noscimenti internazionali. Per ora ha incassato solo quelli di Russia, Nicara-gua, Venezuela e degli arcipelaghi di Va-nuatu, Tuvalu e Nauru (uno in più della vicina Ossezia), ma adesso ha una nuo-va freccia al suo arco: i campionati mondiali di domino. Giocatori di tut-to il mondo si sono ritrovate nella “capi-tale” Sukhumi per sfidarsi a colpi di tes-sere. La manifestazione è stata domina-ta dagli americani, che hanno vinto in tutte le categorie, ma i più contenti di tutti erano gli abkazi. Delegazioni pro-venienti da più di 20 Paesi hanno cono-sciuto il loro Paese e d’ora in poi non lo dimenticheranno. Specie dopo l’ecce-zionale spettacolo pirotecnico offerto ai campioni, insieme a visite turistiche e pranzi luculliani. Per una spesa totale di 650mila dollari.

marocco

Pena di morte per il principale ac-cusato dell’attentato a Marrakech dell’aprile scorso. Adil al-Atma-ni è stato condannato alla pena ca-pitale dal tribunale antiterrorista di Salé, mentre Hakim Dah, considera-to il suo principale complice, dovrà scontare l’ergastolo. Molto più mite la sentenza per altre sette accusati, quattro dei quali so-no stati condannati a 4 anni di pri-gione e i restanti 3 a 2 anni. Proteste da parte dei familiari delle vittime, molte delle quali francesi. «Non ab-biamo più fiducia nella giustizia marocchina», hanno dichiarato al-la stampa.

15i partiti che hanno

ottenuto un unico seggio alla Costituente tunisina

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cultura

Artissima sulle rotte in-ternazionali della creati-vità. Dal 4 al 6 novembre al Lingotto torna la più grande mostra mercato dell’arte contemporanea in Italia. Con centinaia di galleristi e artisti da ogni parte del mondo. A cominciare dal fotografo angolano Kiluanji Kia Henda, del quale propo-niamo qui una brillante reinterpretazione de Il mercante di Venezia.

56 Adolescenti e depressione 60 Il tesoro

di Pompei 64 Ivano Fossati si racconta

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56 4 novembre 2011  left

left.itscienza

Togliersi la vita a 11 an-ni. Un evento purtrop-po non così raro se in Ita-lia sono stati ben 374 i bambini di età compresa tra 10 e 14 anni che, tra il 1980 e il 2007, si sono suicidati.

Un fenomeno preoccupante, drammati-co, che raramente trova adeguata copertura sui media nazionali troppo concentrati sul fat-to di cronaca più che sulle dinamiche che lo hanno originato. Ma che è solo la punta di un iceberg sotto il quale si cela un mondo, quello

del disagio adolescenziale, ancora non del tut-to indagato dal punto di vista medico-scienti-fico e soprattutto scarsamente monitorato dal sistema sanitario nazionale. A lanciare l’allar-me, evidenziando la «necessità di sensibilizza-re le istituzioni a investire di più, presto e bene nella prevenzione, per intercettare le situazio-ni problematiche prima che si cronicizzino» fi-no a sfociare nel Trattamento sanitario obbli-gatorio (Tso) o, peggio, nell’atto estremo, è un antesignano nel campo della tutela della salu-te mentale degli under 18, lo psicoterapeuta Emilio Bonaccorsi, direttore dell’Unità opera-tiva complessa (Uoc) per la Tutela dell’adole-scenza presso la Asl Roma E. Un servizio, rac-conta Bonaccorsi a left, che dal 1992 «si occupa di prevenzione, cura e riabilitazione delle pato-logie psichiatriche in età giovanile, arrivando oggi a operare capillarmente con un’équipe di circa 30 esperti su un territorio abitato da ol-tre 500mila persone». Tutto è cominciato nel centro di Roma, quartiere Prati, con un picco-

di Federico Tulli

I pIonIerI della prevenzione

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left.it scienza

lo presidio territoriale utilizzato come rampa di lancio dai medici verso le circa venti scuo-le presenti nell’area coperta dalla odierna Asl Roma E, con l’obiettivo primario di informare i giovani dell’esistenza di un servizio a loro di-sposizione anche solo per ascoltare problema-tiche non direttamente riconducibili a uno sta-to patologico più o meno grave. «Col tempo - racconta Bonaccorsi - siamo diventati un pun-to di riferimento oltre che per i ragazzi, anche per i loro genitori e soprattutto gli insegnanti, con molti dei quali c’è una proficua collabora-zione nell’opera di intercettazione delle situa-zioni a rischio». In concreto questo si è tradotto nell’arco dei venti anni nella cura di quasi 5mila giovani e nel “contatto” degli esperti con oltre 100mila persone. Man mano è stato possibile integrare al meglio l’azione “mobile” sul campo con delle strutture fisse «come il centro diurno terapeutico che può ospitare dalle 8 alle 20 fino a 10 ragazzi e come la “residenza protetta” che serve a evitare quanto più possibile il ricovero obbligatorio per i casi più gravi».

E qui Bonaccorsi denuncia un problema storico. I Servizi psichiatrici di diagnosi e cu-ra (Spdc), cioè i reparti psichiatrici per adulti collocati negli ospedali generali, sono gli unici luoghi dove può essere effettuato il Tso in Ita-lia, oltre ai servizi di neuropsichiatria infanti-le. Non esistono cioè, salvo rari casi, luoghi de-putati espressamente al ricovero di persone di età compresa tra i 12 e i 18 anni, con tutto ciò che ne consegue in termini di assistenza e cura. E di rischio. Inutile sottolineare cosa compor-ta «tenere un “esordio” psicotico agitato in un reparto dove ci sono bimbi di 8 anni». Motivo in più, spiega, per puntare sulla prevenzione or-ganizzando una fitta rete specifica di assisten-za agli adolescenti che interagisca con i servizi pubblici di neuropsichiatria infantile da un la-to e con quelli per l’età adulta dall’altro. Un mo-dello efficace, del resto, c’è ed è rappresenta-to dall’Uoc Tutela adolescenza che Bonaccor-si dirige, ma inspiegabilmente, sebbene anche dall’estero siano venuti per studiarlo ed espor-tarlo - specie in nord Europa -, a oggi questa ri-mane un’esperienza isolata. «È un problema di ordine culturale e politico», spiega il professor

Giuseppe Ducci, primario della Spdc del San Fi-lippo Neri e coordinatore dei 22 Spdc presenti nel Lazio. «In Italia - aggiunge - si è sempre data importanza alle strutture, al numero di persone che vi lavorano oppure allo spazio a disposizio-ne, molto meno alle azioni che vi si svolgono. In Gran Bretagna, dove ci sono 120 dei circa 150 centri esistenti al mondo di “intervento precoce sulle psicosi” ci sono delle leggi nazionali che entrano nel merito di come si opera, sulla ba-se dei giudizi di commissioni di esperti. Lì da lo-ro si punta su interventi di provata efficacia per evitare il più possibile il ricovero. Ad esempio, c’è una mole di lavori nel mondo che prova l’uti-lità di intercettare il disagio nelle scuole, ma in Italia non viene fatto in modo organico quasi da nessuna parte». Venerdì 4 novembre Ducci è il protagonista della conferenza intitolata “Il rico-vero degli adolescenti in Spdc: aspetti clinici e organizzativi” durante la quale approfondirà i temi accennati a left. L’incontro fa parte di quat-tro giornate formative dal titolo Psicopatologia dell’adolecscenza: teorie più recenti, comples-sità e gravità degli interventi nella pratica cli-nica organizzate a Roma dalla Uoc diretta da Bonaccorsi.

«Tranne che in alcuni ottimi casi, il disagio psichico adolescenziale non ha un interlocu-tore di tipo medico-assistenziale e psicologi-co dotato di strutture idonee a dare una rispo-sta», conferma Paolo Girardi, docente di psi-chiatria all’Università La Sapienza di Roma e direttore della Uoc di Psichiatria dell’Ospeda-le Sant’Andrea, che il 14 ottobre ha parlato di “Suicidio in adolescenza”. «Premesso che la formazione dell’operatore è cruciale perché la manifestazione di un disagio non significa ne-cessariamente malattia, e quindi occorre saper distinguere un “normale” problema esistenzia-le dal disturbo psichico, un suicidio non si cu-ra. Per prevenirlo occorre costruire una rela-zione, serve un luogo dove incontrarsi. La re-

In Gran Bretagna si trovano ben 120 dei circa 150 centri esistenti al mondo di “intervento precoce sulle psicosi”

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te britannica presente soprattutto nelle scuole ha fatto sì che il numero di ricoveri in età 14-25 anni sia quasi azzerato. Diminuendo il lavo-ro a carico dei centri di salute mentale e mi-gliorando l’offerta di salute mentale adeguata all’età dell’utente». Quale risposta dare a que-sto tipo di emergenza psichiatrica è anche il filo conduttore dell’intervento del professor Stefa-no Vicari (2 dicembre) dal titolo Esordi psico-tici in età pre-adolescenziale e adolescenzia-le. «Negli ultimi anni - ha spiegato di recente il responsabile dell’Unità operativa di Neuropsi-chiatria infantile dell’Ospedale Bambino Gesù di Roma - l’evidenza di una maggiore efficacia di un intervento precoce di fronte alle emergen-ze psichiatriche nei minori, affiancato a iter dia-gnostici e terapeutici multidisciplinari, ha in-dotto una trasformazione del paradigma di cu-ra di bambini e adolescenti con gravi disturbi psicopatologici. In questo senso, la gestione dell’emergenza psichiatrica da parte dei servi-zi di Neuropsichiatria infantile del Bambino Ge-sù rappresenta una risorsa strategica indispen-sabile per una l’assistenza globale del bambino e dell’adolescente che presenti un quadro cli-nico di emergenza». Investire sugli interventi per l’adolescenza, ridurre il ricovero degli ado-lescenti e al tempo stesso migliorarne la quali-tà, sono tutte azioni che hanno una ricaduta po-sitiva provata. E su cui bisognerebbe lavorare secondo modalità condivise e scientificamen-te valide. Quale modello teorico da adottare è al centro dell’intervento dello psichiatra Paolo Fiori Nastro (18 novembre). Il docente dell’Uni-versità La Sapienza di Roma parlerà di Violen-

za nei giovani: un comportamento innatura-le e malato. «Il servizio creato da Bonaccorsi - racconta Fiori Nastro - ha preceduto di almeno di 7-8 anni le acquisizioni dirompenti che han-no cominciato a circolare nel mondo psichia-trico internazionale a partire dagli anni Duemi-la. E che oggi sono bagaglio acquisito a livello mondiale. Vale a dire, la possibilità di consta-tare l’esistenza di una condizione peggiorativa che poi esita nelle malattie mentali gravi ha fat-to sì che si parlasse di prevenzione in psichia-tria quando l’atteggiamento principale per tutti gli anni 80-90, e in particolare in Italia, era quel-lo della gestione della cronicità secondo l’idea che la malattia mentale fosse organica». Fiori Nastro ritiene importante sottolineare che una teoria può invece non essere solo un’elucubra-zione mentale, diventando oggettivamente una valida prassi. E porta nel suo intervento l’esem-pio della violenza.

«Pensiamo - dice - a quanto e come l’idea che ognuno ha dell’essere umano condizioni il mo-do di valutare atti come quelli violenti. Chi crede che la violenza sia intrinseca alla natura umana, vede come unico atteggiamento possibile quello coercitivo, punitivo. Chi invece è convinto, co-me me, che la violenza non sia nella natura uma-na, ma sia innaturale ed espressione di un ma-lessere, pensa che sia obbligatorio andare a cer-care quali sono le ragioni di questo star male e quali possono essere le risposte da dare a chi si muove nel contesto sociale in modo violento». Ci sono però anche altre forme di violenza, mol-to meno evidenti. Come ad esempio quella colta dai giudici che indagano per concorso in omici-dio il marito della donna che questa estate a Or-betello ha ucciso il figlio. L’uomo non ha parte-cipato materialmente al crimine, ma è accusato per via «di un atteggiamento negligente e impru-dente perché, nonostante fosse pienamente al corrente della estrema gravità della situazione, non ha adottato alcuna misura idonea a proteg-gere il piccolo». «Questa forma di lontananza af-fettiva evidentemente viene vista finalmente, an-che o soprattutto da magistrati, come violenza», conclude Fiori Nastro. «Se comincia a cambiare l’idea di violenza allora c’è la possibilità di fare enormi passi avanti sul piano culturale, sociale e soprattutto in ambito psichiatrico».

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left.it cultura

8 marzo 1997, ore 18,57, Canale di Otranto: una piccola mo-tovedetta albanese con centoventi persone a bordo, la Kater I Rades, viene speronata dalla corvetta Sibilla della Marina Militare italiana, che ha l’ordine di compiere operazioni di «disturbo e interdizione» per fermare qualsiasi nave clande-stina. L’esito è terribile: cinquantasette morti, ventiquattro dispersi e trentaquattro superstiti.La più grande tragedia del mare prodotta da accordi tra Sta-ti e da politiche di respingimento. Alessandro Leogrande ce la racconta in Naufragio (Feltrinelli) mescolando l’epos di Conrad e il piglio documentaristico meticoloso di A sangue freddo di Truman Capote. Si comincia dalla tradizione orale dei villaggi polverosi a nord di Valona, dove i vecchi raccon-

tano ancora l’impresa di Pirro re dell’Epiro, più di 2000 anni fa. Pirro per sconfiggere le legioni romane dovette trasportare gli elefanti attraverso il Canale di Otranto, lungo 60 miglia, e per farlo seguì la corrente del fiume Aòos, qua-si un sentiero invisibile scavato tra le onde dell’Adriatico. Quando è caduto il regime claustrofobico di Enver Hoxha migliaia di albanesi hanno attraversato il mare ricor-dandosi di quel “sentiero” di Pirro. Leogrande, nato a Taranto trentaquattro anni fa, è forse il nostro più bravo scrittore-repor-ter, cronista puntiglioso e al tempo stesso visionario del presente. Ricordo almeno i repor-tage Nel paese dei viceré (2006) e Uomini e caporali (2008). Anche in Naufragio usa sapien-temente tecniche narrative “spettacolari” per condurre il lettore dentro il cuore di tenebra di un evento tragico ma non ineluttabile (come può essere una catastrofe naturale). Raccoglie dati, osserva, incontra sopravvissuti, militari, avvocati, etc., si mette in contatto con le associazioni antirazziste, cammina, ragiona… Ma soprattutto - ed è questa la “diffe-renza” con altri reportage narrativi - assume il punto di vista delle vittime, ce ne fa sentire la voce. Questa identificazione empatica - penso solo al lungo silenzio con cui l’autore re-sta lì, a guardare il relitto della Kater i Rades - dà al libro una coloritura emotiva e una for-za di rappresentazione che invano cerchereste in analoghe inchieste giornalistiche. Ac-canto alle testimonianze e ai resoconti su quel blocco navale in alto mare, Leogrande rac-coglie anche altre voci, leggende metropolitane, racconti più o meno fantasiosi intreccia-ti con eventi reali. Ad esempio, è certamente vero (ed inquietante) che due disertori albanesi fuggirono ver-so l’Italia con un Mig ed eludendo ogni controllo radar riuscirono ad atterrare nel minu-scolo aereoporto militare di Galatina. Ma è tutto da verificare che uno dei due sia diventa-to, per le sue doti di coraggio e abilità, il pilota dell’elicottero di Berlusconi! Il naufragio di quel venerdì Santo del 1997 si conclude come tanti altri misteri italiani: riprese televisive improvvisamente interrotte, nastri silenti, incriminazioni mancate (gli unici due colpevoli ufficiali sono il comandante della corvetta e il timoniere della motove-detta), ordini che non si sa più chi abbia dato, risarcimenti offensivi… Il libro si conclude con il lungo elenco delle vittime, di cui è indicata l’età al momento del decesso: in trentu-no avevano meno di sedici anni.

scaffale

In cerca dI un sentIero fra le onde

Tra cronaca ed epos Leogrande si mette sulle rotte dei migranti

Senza fare di neceSSitÀ Virtùdi Rosario Bentivegna, Einaudi, 422 p20 euro

La lotta partigiana. La resistenza alla feroce occupazione nazi-fascista e poi il lavoro di medico engagé. Il mitico “Paolo”, che i fascisti non riuscirono a fiaccare, si racconta in questo toccante libro di memorie, scritto con la storica Michela Ponzani.

MiGrazionidi Miloš Crnjanski,Adelphi, 1076 pagine, 20 euro

Epos lirico e possente, che at-traversa le pieghe della storia dell’Europa dell’Est, dai territori dell’impero Ottomano alla Russia vagheggiata come orizzonte di pace. Torna la splendida saga di Crnjanski in edizione compatta e economica.

L’aMica GeniaLedi ElenaFerrante, Edizioni e/o, 327 pagine, 18 euro

Un tuffo nella Napoli degli anni 50, nel passato di una città giovane e brulicante di vita. Torna la miste-riosa Elena Ferrante con una saga popolare dalla lingua tornita e sa-porosa. Affrescando odi familiari e amori giovanili che lasciano senza fiato.

libri

di Filippo La Porta

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left.itcultura

Alle prime piogge di autunno, nuovi crolli a Pom-pei. Che vanno a sommarsi a quelli avvenuti l’an-no scorso, in primis, alla Schola Armaturarum. Ora si parla del cedimento di mura di costruzione moderna, ma anche di danni nella Domus di Dio-mede. «Purtroppo era prevedibile, visto che nel frattempo non si è fatto niente di ciò che si doveva fare per la tutela di un sito archeologico così im-portante» commenta Eva Cantarella, che insieme all’archeologa Luciana Jacobelli, ha appena pub-blicato il volume Nascere, vivere e morire a Pompei (Electa) proseguendo così la ricerca avviata con i I volti dell’amore, con Supplizi capitali (ora in nuova edizione Feltrinelli) e con altri saggi dedicati alla società, alla cultura e alla vita quotidiana nella cit-tadina vesuviana sepolta dall’eruzione del 79 a.C.Inefficienza, incompetenza, ma anche mala ge-stione hanno contrassegnato il commissariamen-to del sito archeologico pompeiano e le politiche dell’emergenza del governo Berlusconi, non di ra-do, hanno generato dispendiosi mostri. «Come il presunto recupero del teatro di Pompei - com-menta la studiosa -, oggi è inguardabile». Intanto, accanto ai rischi che corrono architetture e affre-schi, si accende l’allarme per i “graffiti”, le scrit-

te che costellavano le antiche strade pompeiane. Esposte alle intemperie, senza protezioni, ora ri-schiano di scomparire.Professoressa Cantarella quanto contano le fonti non ufficiali?Dai graffiti si può imparare moltissimo, perché ci danno informazioni storiche che non troviamo nelle fonti principali. Un esempio: fra il I secolo a.C e il I secolo d.C ci fu un’emancipazione delle donne, che si videro riconosciuti, almeno formal-mente, diritti che prima non avevano. In quel pe-riodo le donne cominciarono ad avere maggiore libertà di movimento. Dalle fonti letterarie si po-trebbe dedurre che fosse un fatto di élite. Ma a Pompei iscrizioni parietali documentano, invece, che si trattava di un fenomeno più generalizzato.Autrici di alcune scritte erano le aselline?Le aselline erano di modesta estrazione, lavorava-no al Termopolium, ma non erano affatto prosti-tute, come poi si è voluto dire. Grazie ai loro graf-fiti si è saputo che alle elezioni municipali le don-ne sostenevano questo o quel candidato. All’epo-ca non c’erano manifesti elettorali. Si scriveva di-rettamente sui muri. A Pompei sono stati trovati messaggi di propaganda elettorale firmati da don-

Gli ultimi segni di

POMPEICon le prime piogge, nuovi drammatici crolli. Mentre si accelera la cancellazione di scritte di strada, fonti importanti per lo storico. La denuncia di Eva Cantarella di Simona Maggiorelli

Affreschi della Villa dei Misteri, Pompei, I secolo a.C. A destra, la studiosa di diritto antico Eva Cantarella

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left.it cultura

ne che si interessavano alle elezioni, che sceglie-vano chi votare. Più in generale a Pompei, sui mu-ri, si scriveva di tutto. Comprese le dichiarazioni d’amore. Gli uomini, curiosamente, preferivano andare a scrivere questi messaggi in gruppo. Fra i graffiti pompeiani poi si sono trovate anche po-esie d’amore firmate da donne. Alcune rivelano una certa conoscenza della letteratura e dei poe-ti più noti. Informazioni, preziose, ripeto, che non abbiamo da altre fonti.Visto il silenzio imposto alle matrone, un’estrazione più umile, poteva significa-re maggiore “libertà”?Le donne più povere uscivano di più per le strade. Ma per andare a lavorare. E allora il lavoro non aveva il senso di una realizzazione sociale. Era una necessità. Diversamente dalle donne greche che vivevano recluse, le matrone uscivano, per esempio per andare a teatro, ma dovevano farsi accompagnare. Nell’antichità le donne erano sot-to tutela a vita, prima del padre, poi del marito.Dal suo libro emerge che Pompei non era poi quella città libera e licenziosa che si dice. C’era un forte controllo sulle donne e anche paura della loro autonomia?A Pompei c’erano i bordelli come in tutto l’impe-ro romano. Semplicemente si sono trovate delle pitture erotiche con nomi di donna scritti vicino a figure che a noi possono apparire spinte. Ma i Ro-mani erano pagani, l’idea di peccato cristiana non aveva ancora fatto breccia. Quanto alla paura del-le donne, questo risulta anche dalla grande let-teratura. Anche senza andare a scomodare Gio-venale che scrisse satire particolarmente feroci quanto a misoginia.Lei scrive di un largo ricorso all’aborto. A differenza dell’adulterio, non era punito?

La donna che abortiva veniva punita solo se lo fa-ceva senza il permesso del marito. Del resto i pa-dri potevano esporre i neonati figuriamoci se era un problema l’aborto. A Roma la donna che abor-tisce senza il consenso del marito è punita perché non rispetta il suo diritto ad avere un figlio. Non c’era il problema odierno di una Chiesa che con-danna l’ aborto come uccisione di una vita. Val la pena di ricordare che i Romani dicevano che il feto “Homo non recte dicitur”, ovvero che non è corretto dire che il feto sia persona.Lei ha sottolineato spesso che la società greca era basata sulla pederastia. Accade-va lo stesso nella latinità?Né a Roma né in Grecia c’era l’idea di omosessua-lità come la intendiamo noi. Se guardiamo a quella che era l’etica sessuale dei maschi, l’uomo greco e quello romano potevano avere rapporti sia con uomini che con donne a patto di avere un ruolo attivo. In Grecia era il giovane, il ragazzo, ad ave-re rapporti passivi con un uomo adulto. Si pensa-va che avesse una funzione educativa e veniva ac-cettato. Se poi l’ex ragazzo, diventato adulto, con-tinuava a essere passi-vo veniva condannato, si diceva che “si era fat-to donna”. A Roma no. Il ragazzino non poteva essere partner passivo perché l’uomo romano doveva dominare sem-pre. Allora il partner passivo era lo schiavo, giova-ne o vecchio che fosse. Uno degli schiavi, chiama-to concubinus, dormiva con il padrone, fino a quan-do non si sposava. C’è anche un famoso carme di Catullo dedicato al suo concubino. Fra i Romani c’era anche una particolare solidarietà maschile che li portava a scam-biarsi le mogli come oggetti...Serviva a instaurare rapporti di parentela. Gli uomini lo facevano tranquillamente e le don-ne lo accettavano. Marzia, fu ceduta dal marito Catone all’amico Ortenzio. Con il permesso del padre di lei. Ebbe due figli con Ortenzio poi, al-la sua morte, Catone la riprese con sé. Che poi Marzia fosse così felice non abbiamo modo di saperlo. Il problema è che quando una pratica sociale è molto diffusa non la si percepisce più come offensiva.

«Tra i graffiti sul muro degli edifici sono state ritrovate

anche poesie d’amore scritte da donne»

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left.itcultura

La lungaestate caldaOra, nella realtà della natura non umana, è

autunno. Guardo e vedo il cielo e le piante che hanno le foglie verdi. Sono certo che esiste e non lo vedo, oltre l’orizzonte, il mare. Ma quella

parola, autunno, mi lascia perplesso. Dicono che il periodo di tempo che, abbandonata l’estate, diventa più freddo e piovoso inizia all’equinozio d’autunno quando le ore della luce del giorno sono uguali alle ombre della notte. Guardo la lampada che grande e sovrana sta sopra il piano della scrivania e le chiedo: “Perché dormi fino al tardo pomeriggio come se fosse estate ed apri gli occhi pieni di luce alle stesse ore di tre mesi fa?” La piccola lucetta rossa perde la certezza dell’esistenza della corrente elettrica e, tremando, dice “è perché tu pensi che l’estate sia iniziata il trenta aprile con l’articolo che diceva Psichiatra inventore della Analisi collettiva”.

Sorrido ed esprimo la mia compassione per la miopia della lucetta che ha poca energia per illuminare il passato invisibile. So, infatti, che i termini pensati e detti nel gennaio scorso, anno nuovo, avevano un significato profondo. Lo dissero le parole: separazione dal passato che non indicavano un tempo ma la comparsa di una realtà diversa da prima. Ed altre parole “riuscita della cura” dicevano di un movimento fondamentale nel cammino verso la verità umana. Ed il pensiero senza coscienza disse “L’estate è iniziata il primo gennaio 2011”. Ma, sono certo che è la verità. Ora è novembre e sono trascorsi dieci mesi. Anche se ho soltanto frammenti di ricordi coscienti di atteggiamenti, comportamenti e gesti dall’atmosfera misteriosa so, con certezza, che ci sono state reazioni violente da parte di alcuni. Quali? Non so. è come se il ricordo cosciente dei fatti accaduti si fosse frammentato in particelle che, come foglie secche mosse dal vento, diventano polvere invisibile. Ed io so che esso svanisce nel nulla quando non è rinnovato dall’acqua che è la memoria indefinita che si crea senza la consapevolezza della coscienza.

È stato un ottobre grande perché non ci fu la via verso la morte

Pensando, due anni fa vedemmo l’antica festa del Sole

Ed ora affiorano di tanto in tanto parole che, avvicinandosi l’una all’altra esprimono un suono che si movimenta come se componesse parole che dicono...non so. Compaiono tre parole, ma il suono è un lamento come se, nascendo, avessero subito una lesione. E comprendo pensando al titolo: Il linguaggio rinnovato. E compaiono le pagine della settimana scorsa in cui i colori sono diventati pallidi con i capelli imbiancati. Fu il venti marzo 1984 che, parlando a Napoli dissi, senza averlo pensato: Cura, formazione, ricerca. E così rimase per tanti anni, zoppicando. Ma, per fortuna, nella lunga estate qualcosa di non conoscibile si realizzò e pensai che non avevo detto la verità. La memoria-fantasia dell’esperienza vissuta, ovvero i tanti anni di sedute di psicoterapia di un grande gruppo, erano iniziati con la creazione originale, mai accaduta nella storia, che poteva indicare il non percepibile nella veglia con le parole: cura e ricerca. Ed ora, pentito e grato al lavoro di psicoterapia con il grande gruppo ho aggiunto: e formazione. Fu perché nei primi anni, la definizione dell’Analisi collettiva non era netta. E dissi: “annullate il fatto che ho scritto tre volumi di teoria. Ricominciamo insieme la ricerca”. Nello studio privato, poi, si realizzò il pensiero e le parole che dissero: setting, transfert, interpretazione. E la memoria disegna, con le parole e le figure del ricordo cosciente, il tempo detto 2002, quando feci un disegno ed un video intitolato La psichiatria esiste? Rimarcavo così quanto avevo sempre sostenuto: la psicoterapia è psichiatria perché è diagnosi e cura della malattia mentale.

Vedo lo studio in cui facciamo le sedute e ricordo il 2001 quando modificai la struttura con un legno chiaro che mi portò all’angolo che unisce le due grandi ali. Non ci furono più esseri umani che, malamente, mi udivano senza vedermi ma tutti potevano vedere la realtà del corpo ed udire la voce che dava le interpretazioni dei sogni raccontati con la descrizione delle immagini oniriche. Fu frustrata la fantasticheria che avrebbe potuto pensare che avevo qualcosa da nascondere perché toglievo il

trasformazione

di Massimo Fagiolipsichiatra

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A gennaio 2011nacque un tempo diverso.Un lieve smarrimentoparlò di una identitànuova,senza scissione.Il pensierosenza coscienzafece una separazionesenza annullamento

Per tanti anni abbiamo pensato e sofferto eci siamo liberati dall’oppressione dei miti creduti senza fantasia

corpo dalla loro vista. Era una pessima idea che negava la mia vita basata sul rifiuto continuo della tradizione delle analisi individuali di impostazione freudiana. Avevo fatto cure individuali ma con le mie idee e la mia formazione realizzata con la prassi di psichiatra. Ma, dopo le psicoterapie di gruppo di Padova e Kreuzlingen, avevo usato la struttura materiale della seduta analitica con il paziente sdraiato che, palesemente, parlava del lettino che ogni medico usa per le visite che scoprono le malattie del corpo. E penso che sia stato un tempo necessario per elaborare la separazione dalla mente che pensa alla realtà della medicina dell’organismo biologico umano.

Forse perché ho il cuore sensibile alle grazie che appaiono in una donna quando l’angolo del vestito che sta sopra una spalla cade in basso, talora sembra che il piano del pavimento su cui i piedi poggiano si alzi e si abbassi. Osservo che, guardando le ultime pagine scritte avevo visto che si sovrapponevano e si intersecavano il livello del pensiero che fa ed aveva fatto immagini architettoniche ed il linguaggio che otteneva il suo essere nella composizione delle parole. E ricordo l’espressione verbale: cura, ricerca e formazione. E subito dopo il ricordo della nuova struttura in legno del setting fatta nel 2001 mi fa pensare che avevo avuto sempre presente, senza rendermi conto, la realtà biologica dell’essere umano.

E penso, insieme, che immagine silenziosa e voce sonora si hanno dopo la fantasia di sparizione simultanea allo stimolo. Poi, dopo sei anni, si ha una realizzazione evidente della mano dell’essere umano, ovvero la scrittura. Ma poi ancora vedo che la parola solitudine si avvicina alla mano e alla scrittura come fosse la sorella trigemina. E vedo che la scrittura diventa esistente nella solitudine, e penso che l’essere umano ha la capacità di modificare le forme che la natura ha creato. Ci fu la scrittura dei tre libri. Poi accadde l’illusione del volto delle tre donne more. E la parola cura, emendata dall’amore senza intelligenza del prendersi cura, domanda: può il linguaggio articolato dell’interpretazione creare una realtà che non esisteva? Ed io ricordo «l’arte per levare» che è la lotta, con la parola, contro la negazione e la pulsione di annullamento. E tornano i pensieri antichi che, spinti dall’esigenza di curare, ovvero togliere il non umano dalla mente del proprio simile, fecero le parole “fantasia di sparizione verso proprie realtà interiori”. E fui subito certo che non era pulsione di annullamento come quella che avevo visto nella persona che aveva perduto l’identità umana irrazionale ovvero la vitalità e la fantasia. E pensai la parola frustrazione.

È come se avessi cambiato vestito. E viene di nuovo, come fosse una fonte perenne, la

memoria della prima adolescenza quando, in verità, ricordando la sesta parte della pagnotta di pane giallo che aveva la figura di un quadrato, penso che il vestito non si cambiò durante i molti mesi in cui la vita aveva l’animo del carpe diem.

Sono trascorsi quasi settanta anni e la modificazione dell’aspetto evidente di left che ha coinvolto le due pagine in cui sto scrivendo da quasi sei anni parlano con i loro colori più forti di prima. Non so cosa dicono. Come fossi in una terra sconosciuta, abitata da gente con una affascinante pelle verde scuro come la bottiglia che porta, attraversando il mare, il messaggio della speranza e certezza di un umano nuovo, sento la voce. Comprendo che articolano parole, ma non vedo il significato. È un linguaggio cinese o russo? È alfabeto greco? E so che non è quella lingua che, uguale in tante persone, costituisce “l’identità” nazionale che fa le guerre e uccide perché nega l’uguaglianza della nascita degli esseri umani. O, forse, come i poeti compongono frasi belle, senza significato.

Soltanto più lontano, una silhouette di donna, che appare nuda, non riesce ad ingannarmi. So che ha sopra e per tutta la superficie del corpo, una seconda pelle, color giallino, che la fa sembrare una statua di legno chiaro. So che si difende dal maschio che la nega. Ma io comprendo, dall’odore del legno bagnato dalle lacrime, che dice la parola che non bisogna dire, come fosse il nome di un dio innominabile: trasformazione. E due parole indicano gli opposti, sparizione-apparizione che, insieme, figliano: creatività.

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Non deve stupire che per chiudere la sua carriera Ivano Fossati abbia scelto i ritmi e i suoni con i quali l’ha aperta, ormai qua-

rant’anni fa. Il nuovo disco Decadancing gioca tra l’assonanza della parola decadenza e il ritmo del ballo. Ma è una danza sulle macerie: facile pensa-re alla decadenza che leggiamo sui nostri giornali ogni giorno. Dalla sua casa in Liguria dove si pre-para alla sua ultima tournée che partirà a Milano il 9 novembre e chiuderà a Udine il 2 febbraio, Ivano Fossati ci spiega che «non è riferita solo al nostro Paese. Per me la decadenza è l’abituarsi al peggio: alla cattiva tv, alla cattiva letteratura, alla cattiva musica soprattutto. Uno degli aspetti della deca-denza è questo abituarsi progressivo ad acconten-tarsi perché sembra che non ci sia niente di me-glio. Allora ci facciamo andare bene dei brutti li-bri, della brutta televisione, del brutto cinema. Ed è quello che sta accadendo ed è quello che deter-

mina anche l’imbruttimento dei luoghi dove vivia-mo. Perché se diventiamo meno acuti, noi faccia-mo diventare meno bello anche quello che ci sta intorno». Decadancing è un disco molto suonato, con una presenza orchestrale che contrappunta la ritmica rock e il canto intenso di Fossati. «è un disco in buona parte acustico - continua -. Ma so-prattutto lascia spazio alla musica: i dischi italia-ni spesso sono verbosi, pieni di parole». Anche se le parole che usa sono durissime. Da molto tempo il cantautore genovese ci ha abituato a riflessioni molto amare sull’oggi, sulla contemporaneità an-che politica dei nostri giorni. Prima raccontando il «tempo sbandato» di una notte in Italia, poi i ri-schi che corre la nostra «Cara, vecchia democra-zia». In questo disco il giudizio diventa più drasti-co, scrive immagini terribili: «che buio disprezza-bile è la politica, non vale neanche il giornale del mese prima», «questo è un deserto di democra-

La decadenza è

andar via

A pochi giorni dalla sua ultima tournée

che partirà il 9 novembre

da Milano, Ivano Fossati

si racconta di Giommaria Monti

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zia». «è un’immagine terribile in generale, non so-lo in Italia. Io ci tengo a mettere le mie riflessio-ni su un piano allargato, perché non mi importa minimamente di fare la critica alla politica parti-tica nazionale. Vorrei cercare di vedere un po’ più lontano. Noi viviamo il momento che viviamo, pe-rò gli americani hanno vissuto l’era Bush che non era molto lusinghiera rispetto a quella che capita a noi. Per non parlare dei francesi». Ma il nostro è anche un Paese dove i ragazzi per realizzare i so-gni devono andare via. Fossati in questo disco lo racconta in “Laura e l’avvenire”: «La decadenza è anche dover lasciare il proprio paese per lavorare. Ma si può ricominciare. Nella canzone ci sono due persone che perdono il lavoro, ma invece di spro-fondare nella disperazione trovano una specie di accordo immediato tra di loro. E questo io lo trovo importantissimo. Perché quando nella propria vi-ta privata si ha un alleato, che è il proprio compa-gno, la propria campagna abbiamo già vinto mol-to della nostra battaglia. Questi due poveretti che perdono il lavoro insieme, sono alleati e probabil-mente quello che gli accadrà dopo, che la canzo-ne non dice, magari sarà qualcosa di buono. Pro-prio perché loro sono insieme». Nelle canzoni di Fossati da sempre dentro il buio c’è una luce lon-tana, una strada che si fa in discesa per uscire. Co-me la foto della copertina di Decadancing, che un giorno ha messo sul pianoforte e ha cominciato a suonare e a scrivere. «è una foto scattata in Gre-cia: una strada in discesa che gira e va verso il ma-re. Una mia via di fuga, un suggerimento a me stes-so. Forse è emblematica per la scelta che ho fat-to: se questo doveva essere il mio ultimo album di canzoni inedite, allora questa era la scelta più giu-sta che potessi fare». Già, perché lo ha annunciato in tv da Fazio. Ascoltandolo, abbiamo sperato che fosse solo il bisogno di Fossati di mettere un pun-to nella propria storia artistica e cominciare altre cose. Il bisogno di scendere dalla macchina dello show business. Non sembrava un addio. Non era così, ci conferma: «No, non era così. Io sono stato abbastanza chiaro: ho detto che questo sarà l’ul-timo disco di canzoni inedite che scrivo. Così co-me finita la tournè a febbraio io tornerò a diven-tare un privato cittadino. E la mia scelta è molto netta». Lo ha detto in tv, davanti a qualche milio-ne di persone. Una confessione che ha suscitato l’ironia strabica di commentatori autorevoli, co-

me Aldo Grasso sul Corriere della Sera che in pri-ma pagina ha parlato di operazione promozionale per portare il disco in cima alle classifiche. «Sono sciocchezze. Nessuno dopo quarant’anni di me-stiere e di carriera fa una cosa del genere proprio l’ultimo giorno. Io volevo avvisare il mio pubblico e me stesso, mi sembrava una cosa ben fatta. E so-prattutto ho chiesto la te-levisione per dire questa cosa perché la tv, pur con tutti i suoi difetti, è l’unico mezzo che non distorce le parole. Quello che tu dici scegli tu come dirlo, non c’è nessuno che poi anche in buona fede cambia il senso delle tue parole». In fondo noi giornalisti sia-mo dei manipolatori. «Ma no, ho detto che lo fate anche in buonafede. Mille volte mi è capitato che un giornalista riscrive la tua frase senza nessuna in-tenzione malevola, ma la riscrive in un altro modo. La tv invece ti garantisce di più e per questo l’ho scelta». Quindi la decisio-ne è irrevocabile, Fossati da febbraio sarà un pri-vato cittadino. Ligabue, Battiato, Conte, Guccini hanno sperimentato anche altre forme creative: il cinema, il romanzo, la pittura. Fossati insieme al disco ha pubblicato anche un libro con Renato Tortarolo che racconta la musica, le parole, le im-magini della sua arte. Chissà, magari la tentazio-ne di proseguire in un altro modo ce l’avrà: «Asso-lutamente no. Io sono così abituato alla sintesi di quattro minuti di canzone che a volte ho difficol-tà perfino a scrivere una mail. Quindi la risposta è no, nessuno si aspetti romanzi. L’unica volta in cui mi sono lasciato tentare all’inizio degli anni 90 con un racconto lungo, Il Giullare. Ma è un espe-rimento irripetibile. Non mi riconosco nessun ta-lento di romanziere». Le ultime parole del disco di Fossati sono uno sguardo al dopo: «Il tempo can-cella le intenzioni del cuore». Lui lo scrive in “Tut-to questo futuro”. Noi ce lo auguriamo davvero.

«Il mio è un disco in buona parte acustico.

I dischi italiani sono spesso verbosi,

pieni di parole»

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Bobo e Bibi in camera da letto, lui ha sonno, sbadi-glia vistosamente, si infila il pigiama e scivola nel letto. Lei è già lì che legge, assorta. «Cosa leggi ca-ra?», chiede lui, «...un libro di algebra», risponde lei. «Algebra? E ti piace?», dice lui stupito, «... bè non è avvincente come un romanzo d’amore... ma alme-no non mi crea inutili aspettative...», risponde lei ta-gliente mentre Bobo accusa il colpo...

Scene di una storia di coppia condite con ironia e gioco, così si potrebbe sintetizzare il piccolo e deli-cato “oggettino” come lo definisce il suo autore. È il libro Stainoterapia dell’amore di Sergio Staino edi-to da Salani. Un viaggio attraverso flash e sequenze di attimi di vita che hanno come protagonista Bobo e la sua compagna Bibi. Una dialettica effervescen-te lungo tanti anni insieme. Staino racconta come l’idea sia venuta a Maria Grazia Mazzitelli, respon-sabile della Salani: «Le piaceva questa cosa - dice - di trattare il rapporto di coppia tra Bobo e Bibi che non è direttamente politico ma che comunque lo è, per-ché sotto sotto vengono fuori le dinamiche dell’area in cui si identifica Bobo che è un progressista, un de-

mocratico». E a proposito del valore “politico” dice Staino: «Ripensandoci, invece del sottotitolo La mi-glior cura per la coppia inizia con una risata potevo mettere Tutta la bellezza che si perde Berlusconi». Le schermaglie amorose tra i due personaggi, gli sguardi teneri di Bobo, il suo arrossire imbarazzato, la fierezza di Bibi e il suo pungere l’uomo quasi a sfi-darlo, in effetti sembrano atteggiamenti lontani mil-le miglia dalle cronache del bunga bunga. «Voglio di-re - continua Staino - che questo nostro capo del Go-verno rappresenta la summa di un certo modo di es-sere maschi, prevaricatori, “trombatori”. Ma così si perde tutta la fetta più bella dell’altra metà del cie-lo, la tenerezza, l’intelligenza, il gioco, la complicità dentro la parità. Sono cose che riempiono la vita». Senza questo tipo di rapporto c’è «proprio la perdi-ta dell’intelligenza poetica, la perdita delle cose più importanti che giustificano il fatto che uno passa 70-80 anni su questa terra».

L’intelligenza poetica Bobo ce l’ha. L’umanità del personaggio - e del suo autore - se traspare ogni gior-no dalle vignette sui giornali, in modo particolare esce fuori dal libro. E questo aspetto lo mettono in evidenza anche dei piccoli testi che portano la fir-ma di artisti, personaggi della politica e della cultu-ra. Una serie di “inserti” leggeri che legano le strisce con Bobo e Bibi. Una umanità che Tullio De Mau-ro per esempio definisce da «piccola sentinella che lavora per il grande esercito dell’eguaglianza, del-la liberazione della gente dalle paure, dalle oppres-sioni, dai ricatti, dagli sfruttamenti». E oggi la sen-sibilità di Staino cosa coglie nella società italiana? La volgarità di questa pseudocultura berlusconiana avrà la meglio? «Fortunatamente - afferma - sento una grande indignazione attorno a noi. Certo, i set-tori più fragili della società, soprattutto delle classi popolari, sono stati fortemente contaminati da que-sto atteggiamento. Vediamo mamme che portano le bambine piccolissime negli studi televisivi oppure insegnano tranquillamente a quelle grandi ad anda-re a letto con qualcuno che conta. Credo comunque che il corpo generale dell’Italia sia ancora potenzial-mente sano. Se gli offri altre alternative, se gli pro-spetti una possibilità di convivenza serena e respon-sabile l’indignazione cresce».

L’intelligenza poetica di BoboIl rapporto con una donna visto da Sergio Staino: «Autoironia, tenerezza, gioco. Tutto quello che si perde Berlusconi»

di Donatella Coccoli

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left.it culturaarte

Quando mesi fa alla Biennale di Vene-zia, con una flotta di spettatori e appas-sionati d’arte, ci siamo ritrovati a naso in su per rimirare la lunga teoria di piccio-ni impagliati che Maurizio Cattelan ha schierato sui cornicioni, c’è venuto più di un dubbio che l’artista padovano vo-lesse farsi beffe del nostro piccionesco ammirare un’opera di fatto inesisten-te. Il messaggio, a quanto pare, non era passato così forte e chiaro alla Bienna-le del 1997 dove per la prima volta Cat-telan aveva tirato fuori dal cilindro i suoi assorti e attoniti piccioni. E memore di quel “perseverare diabolicum” che rim-bombava nella sua infanzia cattolica, ora ci riprova, reiterando la trovata alla personale che dal 4 novembre gli dedi-ca il Guggenheim Museum di New York. Mettendo ancora una volta a dura pro-va il malcapitato critico: gesto di rottura contro il mummificato sistema dell’ar-te internazionale? Barzelletta artisti-ca? Opportunismo di mercato? Trovata pubblicitaria? Quando si parla di Mauri-zio Cattelan, l’artista italiano più paga-to e gettonato del momento, saltano le categorie e sale l’imbarazzo nel leggere

e interpretare opere e azioni artistiche che sembrano esaurirsi in un simpati-co gesto provocatorio. Come quella vol-ta che, per vendicarsi delle esuberanti confidenze sessuali di un gallerista, Cat-telan lo convinse a comparire in un Ta-bleau vivant travestito da coniglio rosa. «Lo avevo obbligato a indossare la sua ossessione», dice Cattelan al critico e sodale Francesco Bonami. «Così, sotto forma di arte, si poteva vedere la mania di una persona. La galleria era una trap-pola per fare fesse le ragazze - racconta Cattelan in Autobiografia non autoriz-zata (Mondadori) -. Ma ora le ragazze che arrivavano, anziché essere affasci-nate dal giovane, ne ridevano a crepapel-le». Altrove avrebbe detto poi che quella buffa mascherata poteva essere anche un autoritratto. Come quando, nel 2001, Cattelan si è “incarnato” in un pupazzo che spunta dal pavimento del museo di Rotterdam rappresentando così il suo essere «un abusivo dell’arte» (lo confes-sa a Catherine Grenier nel libro intervi-sta Un salto nel vuoto, Rizzoli). O come quando ha raccontato sé stesso come un orsetto che pericolosamente va in trici-

clo su un filo sospeso mentre il pubbli-co lo spia dal buco della serratura. Ma sarebbe anche ingiusto dire che Catte-lan sia solo questo. Come ricorda la cu-ratrice della mostra newyorkese Nancy Spector nel catalogo Maurizio Cattelan All (Guggenheim Skira), l’artista pado-vano è stato anche capace di ideare im-magini dirompenti come papa Wojtyla colpito da un meteorite ne La nona ora (1999) e ha osato denunciare la crimi-nale pazzia di Hitler rappresentandolo mentre prega in ginocchio (Him, 2001). La Spector ha appeso quella statua a fili invisibili lasciandola sinistramente don-dolare nel vuoto, insieme ad altre imma-ginifiche “creature” dell’universo Catte-lan, dall’asinello con la tv in groppa, al cavallo con la scritta INRI, senza dimen-ticare il pinocchio riverso nella fontana di Frank L. Wright, ideato nel 2008 pro-prio per il Guggenheim.

il circo cattelansbarca a new york

Barzellettiere dell’arte o dirompente provocatore? Al Guggenheim si celebra l’artista italiano più gettonato del momento. In una grande retrospettiva

Maurizio Cattelan, Untitled (2001). A destra Cattelan, If a tree falls in the forest and there is no one araund it. Does it make sound? (1998)

di Simona Maggiorelli

Sfidando i tabù ha raffigurato Wojtyla

sotto un meteorite

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C’è un uomo, in Turchia, che è stato capace di far danzare, per la prima volta dopo millenni, una don-na tra i dervisci rotanti. Gli effetti di un’innovazio-ne su una storia e sulla cultura, possono essere sal-vifici o devastanti, tutto dipende dall’onestà con cui si fa una cosa, diceva Coltrane.Incontro Mercan Dede grazie a Ludovico Einaudi, che è stato maestro concertatore dell’ultima Not-te della Taranta. Immaginatevi uno strano tipo con una cresta punk, un flauto traverso in legno, il Ney, e due piatti da dj, che passa il tempo a parlare di cu-cina suonando armonie che vengono dall’alba dei tempi. Una sorta di Blade Runner al servizio della musica di Oriente. Chiedo a lui cosa significhi rap-portarsi con una tradizione antichissima. Gli spie-go che per un salentino, parlare di trance, danze di donne, tarantismo e paganesimi, è assai complica-to. Perché il tarantismo, la rivolta di una donna at-traverso l’isteria al maschilismo ed al patriarcato, non è argomento da trattare alla leggera. Gli rac-conto che De Martino fu cacciato dal Partito co-munista italiano per aver sostenuto, coraggiosa-mente, che la religione non si sconfiggeva cancel-landola, ma lavorando come faceva lei, in quel mi-sterioso mondo dell’angoscia umana, che per sem-plice operazione di marketing, prese la protezione di Santo Paolo. Il Pci è morto, Santo Paolo, è pre-sente in ogni imprecazione sotto forma di canto.Poi ci arrivò il delirio della modernità, che, più ef-ficace del Pci, pretese che il progresso procedeva solo a discapito della storia. Vinse e l’identità col-lettiva, ancorata a quelle pratiche, fu cancellata.In Salento, negli ultimi anni, grazie a gente come i Sud Sound System, che fanno ragga in dialetto salentino, il rapporto con la musica tradizionale è riapparso. Tu, quando hai ini-ziato, hai ricevuto resistenze culturali e reli-giose in Turchia con il tuo lavoro?Ovviamente per molto tempo non è stato facile, ma me lo aspettavo. Quando per la prima volta fe-

Mercan Dede il Blade Runner d’OrienteDalla Turchia alla Puglia. Con intenzioni di conquista, sì, ma culturale. Esportando l’antica arte dei dervisci. Ma pronto a lasciarsi contaminare dal ritmo della taranta di Daniele De Michele aka Donpasta

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ci danzare una donna tra i dervisci, circa quindici anni fa, molti si sentirono offesi. Ora ci sono tan-te donne tra i dervisci o i musicisti di sufi. Una del-le responsabilità dell’artista è di liberare la testa e l’anima della gente. Noi ci proviamo, come il pub-blico risponda non dipende più da noi.Il danzatore derviscio più anziano che lavora con te, ha accettato le tue innovazioni?Lui ripete con un’attitudine e valori molto tradi-zionali. Inizialmente il mio modo di fare lo inner-vosiva, allora gli dissi “vieni con me in tournée, se non ti senti a tuo agio, non danzare. Non voglio ob-bligati”. Da quel momento abbiamo lavorato ogni sera, è molto concentrato ed eccitato. Ogni tanto quando faccio il dj nei rave, viene nel pubblico e vuole girare sui ritmi elettronici, perché dice che c’è una energia magica. In un certo senso ha fatto nascere la techno dervish.Il mio idolo, Joe Strummer nacque ad An-kara e da allora la Turchia è ufficialmen-te il luogo dove il punk inglese ha preso vi-ta. Scherzo, però dalla tua capigliatura im-magino che di sovvertimenti di tradizioni te ne intendi. Un’attitudine punk e sperimenta-le aiuta il rinnovarsi di una cultura?L’essenza del punk è per me legata alla libertà ed alla giustizia. È una fantastica espressione di co-me possa essere l’umanità. Libera, creativa, piena di vita e con il fuoco nel suo cuore. Prendi il ca-so di un giovane musicista salentino che ho visto in concerto qui in Salento, Antonio Castrignanò. Quando suonava, non si isolava, era in rapporto con chi ascoltava, lasciandosi andare, senza cu-rarsi del loro giudizio, ma mettendo tutta l’energia possibile. Per me, questo è il punk.La migliore musica elettronica a Londra la fanno dei tipi del Bangladesh, la musica più fresca in Francia è quella algerina. Tutto or-mai si intreccia. La scena artistica turca è molto dinamica. Pensi che sia in grado di mo-dificare la situazione culturale e politica?La Turchia è cambiata molto negli ultimi 15 anni. Ci sono tantissimi scrittori, musicisti, artisti che hanno un grande impatto, più di tanti politici. Ad esempio, vent’anni fa, i musicisti curdi zigani ave-vano tantissime difficoltà a passare in radio, tv o in concerto. Nel mio ensemble, ci sono musicisti turchi, armeni, dell’Anatolia che suonano assie-me, con una sinfonia piena di diversità. Questo ti-

po di scambi che succedono nella musica hanno apportato molte innovazioni nella società turca, alzandone il livello democratico. Vieni da una famiglia di musicisti?No, vengo da una famiglia di origini modeste, né di musicisti, né di artisti. Sono frutto del caso. Forse per questo ho deciso di lavorare con la mu-sica e le arti visive, forse perché da ragazzo era molto stufo.Noi otrantini abbiamo in-ventato l’espressione “mam-ma li turchi”, dopo la vostra invasione. Siamo legati a voi da una storia difficile ma co-mune, che si espleta nell’uso indiscriminato di melanza-ne. Cosa caratterizza di più la cucina turca?Penso le spezie ed il caffè. Il vero caffè turco ha un profumo magico. Quando qualcuno lo prepara, tutto il vicinato profuma. A volte è servito con un bicchiere d’acqua fredda e due deliziosi dolcetti turchi.La tua ricetta salentina preferita?Fave e cicorie. Sono assolutamente complemen-tari. Quando le mangi sei in connessione con la terra. Come anche con le olive ed i peperonci-ni. Ogni cosa ha il gusto della terra, del mare e dell’aria del Salento.Pensando alle melanzane turche, un vero prodigio di equilibri, faccio allora uno sfor-zo, mettendo da parte antiche beghe tra po-poli. Puoi dirmi a che ricette assoceresti tre musicisti che ami?Manu Chao ed i Tacos. Sono pieni di gusto, colore e vita. Sono ingredienti presentati separatamente. Ecco, la musica di Manu Chao è un misto di suo-ni differenti e strutture indefinite. La gente prende quello di cui ha voglia. In un certo senso sono cibi e musiche interattivi! E poi Ludovico Einaudi e la vellutata. La sua musica è soffice, come una cre-ma, piena di colori. Bjork ed il cibo giapponese. La sua è una musica molto estetica, un po’ come il ci-bo giapponese, dove la presentazione è molto im-portante, minimale e estremamente matematica. Nei sushi e sashimi trovi una dimensione preci-sa, con 6 porzioni in ogni piatto. Un po’ come nel-la musica di Bjork, dove per ogni canzone c’è una precisa ponderazione e scelta degli strumenti.

«L’essenza del punk è legata alla libertà e alla giustizia. Per me è una fantastica espressione di come possa essere

l’umanità»

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«L’uomo nasce dal fango, sguazza un poco nel fango, produce fango e si scio-glie alla fine nel fango: e come fango fi-nirà forse appiccicato alle suole delle scarpe di un pronipote». Difficile, diffi-cilissimo essere ironici con questa bat-tuta che lo zoppo e gobbo e orrendo Franz pronuncia da solo in un angolo di palcoscenico del teatro India di Ro-ma, finalmente utilizzato in tutta la sua larghezza e vastità, circondato per tre lati da grandi pannelli riempiti di graf-fiti sui quali esplode la scritta “Sturm und Drang”, Tempesta e Assalto. Ep-pure questo bravissimo giovane atto-re, Francesco Bonomo, arriva a un tale sardonico sghignazzo che viene imme-diata la risata della mente, diversa da quella del cuore, perché fredda, dispe-rata, scagliata contro il dio che ci con-fina in questo mondo e ci condanna a stare zoppi e gobbi, ciascuno a suo mo-do, nell’anima o nel corpo: «Natura… madre maledetta, chi ti ha dato il pote-re di premiare lui e castigare me? Per-ché c’è qualcuno che ha tutto… e un al-tro che non ha niente?», inveisce Franz, fratello di colui che ha tutto, Karl, bel-lo, biondo eppure anch’egli un male-detto, dannato nello spirito, che cer-cherà di raddrizzare il mondo con la ra-pina, l’omicidio, la devastazione. I ma-snadieri di Friedrich Schiller, messi in scena per la seconda volta da Gabriele Lavia dopo l’indimenticata sua edizio-ne dell’82, sono vestiti di cuoio come romantici blouson noir parigini, coper-ti con il nero della rivolta indossato dal-le menti dei giovani d’oggi. Tutto deve essere distrutto in nome dell’uomo la-sciato senza dèi in una Ragione illumi-nistica che non lo addestra ad ordina-re il mondo. Da rovesciare sono persi-no le regole della drammaturgia. Già così addentro a Shakespeare, Schiller diciassettenne nel 1776, (anno fra l’al-

tro dell’indipendenza americana) inizia a scrivere con I masnadieri un raccon-to pieno di rumore e furore, certo non pensato da un idiota ma da un sovverti-tore che mette in scena le due storie pa-rallele dei fratelli - senza curarsi troppo di intrecci, coerenza, cause e effetti - e

nel finale le manda a sbattere l’una con-tro l’altra in un clangore d’inferno e di sprofondamento. Ci sono autori perfet-ti per certi registi. Se levassero le locan-dine da fuori il teatro per l’ingresso di spettatori ignari di cosa si rappresenta e di chi lo allestisce, fin dalle prime bat-tute pronunciate da ombre che cammi-nano dentro il buio delle luci, si direb-be che questo è Lavia. Che fa Schiller. Energia, forza, corse a perdifiato, da masnada barbara, germanica, atavica, contro le legioni delle istituzioni politi-che, dello status quo e del moralismo. Azione allo spasimo, per lo spettatore che ama il teatro e sta come un ragaz-

zino stupito di fronte alla mamma che gli scaraventa un bidone di gelato in go-la. Nessuna indulgenza verso i perso-naggi. Il coraggio non esiste ma solo la temerarietà, la prudenza muore nella codardia, senza saggezza è il vecchio padre Moor affogato nella sentina de-gli errori non riscattabili. «Il letto, la battaglia, la forca - urla Karl - sono i nostri destini», i destini di chi muore. Amalia, innamorata del masnadiero, concupita dallo storpio, canta: «Male-detti voiiiii, maledetti voiii».Con questo allestimento nasce la Gio-vane compagnia del Teatro di Roma: ol-tre a Bonomo , bravi anche Simone To-ni, un Karl fra un Cristo e un dannato di periferia, e Cristina Pasino, un’Ama-lia perduta nella sua gioventù, ragazza che a tutti e a nessuno s’augura d’incon-trare a vent’anni. Guidato con mano da maestro il gruppo degli altri quindici at-tori, totalmente immersi nelle tempe-ste romantiche di Lavia e Schiller. Sce-ne di Alessandro Camera, costumi di Andrea Viotti, musiche rock di Fran-co Mussida, luci di Simone De Angelis, graffiti dei due writers Paolo Colasanti e Leonardo Maltese.

Il letto, la battaglia, la forcaGabriele Lavia torna dopo trent’anni a mettere in scena I masnadieri di Schiller. Un allestimento magnifico con la nuova Giovane compagnia dell’Argentina di Roma

Una scena de I masnadieri, diretto da Gabriele Lavia

teatro

di Marcantonio Lucidi

L’uomo come fangofinirà sulle scarpe

di un pronipote

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left.it cultura

Il Faust e la sua insaziabile ansia di conoscenza, il suo distogliere lo sguardo da dio («chi può dire oggi di credere in dio?»), per cercare il senso della vita nella materia («dove sa-rà quest’anima? Nella testa, nel cuore? Io non l’ho mai trovata») è l’uomo moderno. Il ge-niale scienziato, il coraggioso scopritore, che porta avanti il progresso. Le sue tentazio-ni: la frenesia d’azione e di potere, il dominio sulla storia e sugli altri. È su questa secon-da natura dell’eroe contemporaneo, onnipotente, che tradisce sé stesso ben prima d’in-trattenere il rovinoso patto con un povero diavolo, che si concentra la rappresentazione del Faust, ora nelle sale, di Aleksandr Sokurov. Il regista russo (allievo del grande An-drei Tarkovskij), vincitore del Leone d’oro all’ultima Mostra del cinema di Venezia. Do-po aver ritratto Hitler, come omuncolo ridicolo, in Moloch, come eroe perduto Lenin in Taurus e Hirohito, imperatore e criminale di guerra, ne Il sole, ora il regista propone il mitico personaggio mefistofelico a conclusione della sua impietosa disamina sulle po-co eroiche figure del potere nell’era contemporanea. Con una carrellata che parte dal-le altezze celesti e finisce sul pene di un cadavere miseramente squartato Sokurov cini-camente ci trasporta nel mondo laido e senza speranza (e il riferimento alle inquietanti pitture del fiammingo Bosch è immediato) di un “titano”, che mentre intraprende il suo cammino verso il progresso si corrompe, perché cieco e pronto a rinunciare a ciò che ha di più prezioso. La sua umanità, appunto. «Il male non ha niente di sovrannaturale - ha dichiarato recentemente il regista -. Lo si crede in una società moralmente degrada-ta. Ma l’uomo non è debole, è forte, può combattere e vincere». E sono le uniche paro-le di speranza in una rappresentazione che altrimenti apparirebbe disperata. Sokurov, infatti, dipinge (nel vero senso della parola, nel film l’immagine pittorica è sovrana) un Mesfistofele (Anton Adasinsky, grandissimo attore e mimo) tanto orrendo nell’aspet-to quanto innocuo nell’animo se paragonato al suo dottor Faust (l’attore Johannes Zei-ler). Scienziato per cui «la vita ha perso ogni valore», quando ha deciso di abbraccia-re un’azione delittuosa ispirata dallo “spirito di negazione” verso l’esistente. «Tutto ciò che è fugace è soltanto fetore», dirà mentre fallisce la sua ricerca sull’uomo, ridotto a semplice cadavere che cammina. Solo le immagini sublimi d’intatta bellezza del volto di Margherita, che per pochi istanti solamente riescono a fermare il suo sterile vagare sen-za senso per lande desertiche (indimenticabile il desolante paesaggio finale) e che ci mostrano la vita a cui il Faust ha rinunciato, di una struggente nostalgia per quello che sarebbe potuto essere e non è stato, restituiscono dignità all’umano e valore a ciò che non può avere prezzo.

La terra desolata di FaustUn affresco, l’ultimo film di Aleksandr Sokurov. Il regista russo “dipinge” la perdita di umanità del personaggio di Goethe

Forse non sarà un capolavoro la pellicola Cavalli, dell’esor-diente Michele Rho, presenta-ta alla passata Mostra del ci-nema di Venezia e dallo scorso fine settimana nelle sale. Ma certamente ha il coraggio di esplorare vie non più battute dalla nostra cinematografia nazionale. Soprattutto quando la storia decide di affrontare il percorso di formazione di due adolescenti, senza scadere nel vuoto delle banalità delle inutili commedie contempo-ranee. Alessandro e Pietro (da grandi Vinicio Marchioni e Mi-chele Alhaique) vivono isolati tra le montagne di un inconta-minato paesaggio dell’Italia di fine ’800 con i genitori (Cesa-re Apolito e Asia Argento). Fino a quando la giovane mamma non muore e il padre dona loro due bellissimi cavalli con cui rendersi indipendenti, in tempi in cui l’infanzia durava poco e occorreva certamente vitalità per affrontare da soli un mondo adulto anche molto violento. Un mondo diverso dal nostro, però, più genuino (che solo da poco aveva cominciato a corrompersi nel claustrofo-bico paesaggio urbano), con valori e priorità diverse. Che nel film viene rappresentato con immagini che riescono a ricreare il fascino selvaggio di un’armonia originaria ora perduta. Tra uomo, natura e animali. a.m.

cinema

Infanzia e armonia

Da sinistra Anton Adasinsky (Mefistofele) e Johannes Zeiler (Faust)

di Alessia Mazzenga

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left.itcultura

Tutti parenti, tutti differenti. Homo Sapiens. La grande storia della di-versità umana è la mostra che Pa-laexpo inaugura a Roma l’11 novem-bre. Un evento dai contenuti per mol-ti versi rivoluzionari, frutto di un pro-getto di ricerca interdisciplinare con-cepito dal genetista italiano Luigi Ca-valli Sforza. Un’equipe internaziona-le di scienziati, afferenti a diverse di-scipline, presenta le più recenti sco-perte sull’evoluzione dell’uomo e sul-le strade percorse dai nostri antena-ti. La mostra segue un ordine crono-logico, a partire dalla nascita del ge-nere Homo e attraverso le varie tap-pe della sua evoluzione. Filo condut-tore è l’esplorazione ma anche la con-temporaneità di ben cinque specie di ominidi sul pianeta Terra. Il messag-gio di fondo è di unità storica e gene-tica, siamo una specie giovane, che nasce in Africa meno di 200mila anni fa e sappiamo che rispetto all’età del-la terra la nostra comparsa è davvero recente, ma nello stesso tempo di di-versità, poiché da un piccolo inizio si è sviluppata una grande storia di in-novazione e ingegnosi adattamenti.

La mostra si ripropone l’intento di ri-costruire il cespuglio degli ominidi e cerca di dimostrare che l’evoluzione dell’uomo non è un flusso, una frec-cia, un fiume che scorre in modo li-neare e progressivo. Ma è un qualco-sa che funziona a scarti, ci sono mol-te specie diverse con tante cose in comune ma che sono distinte tra lo-ro. La mostra, divisa in sei sezioni, si propone al pubblico attraverso mol-ti exhibit interattivi ed immersivi (la prima camminata dell’umanità a Lae-toli, in Tanzania) e postazioni hands-on (sulle pitture rupestri). E i bam-bini? I loro libri di storia sono “prei-storici” quanto basta per decidere di portarli a seguire sia la mostra che l’intelligente laboratorio didattico. “Simili diversi” è il nome che è stato dato allo spazio per i bambini, con lo scopo di far loro visualizzare i con-cetti della mostra in modo tangibile e pratico. Al posto del pavimento un grande planisfero li accoglierà con-sentendogli di seguire gli spostamen-ti degli ominidi e nello stesso tem-po di osservare e realizzare che co-sa accadeva nelle altre parti del glo-

bo e quali altri “parenti” vi facessero la loro comparsa. Sulle pareti, una li-nea del tempo allestita con tasche e recipienti, li aiuterà a riallacciare le fila della nostra storia millenaria tra genetica, popoli e lingue. Un’espe-rienza emozionante per ripercorrere il viaggio dell’umanità.

bazar

Junior di Martina Fotia

Sulle orme del Sapiens

scienza di Federico Tulli

Il pianeta mai natoIl piacere di incontrarlo e osservarlo da vi-cino lo ha avuto fino a oggi solamente la sonda Rosetta. Grazie a questo straordina-rio appuntamento spaziale, avvenuto nel 2010, gli esperti dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), del Max Planck Institut e dell’Istituto renano per la ricerca ambien-tale, dipartimento di ricerca planetaria a Colonia hanno potuto delineare il primo ri-tratto completo dell’asteroide Lutetia. A quello che è uno dei corpi celesti più an-tichi del Sistema solare, noto come il “pia-L’asteroide Lutetia fotografato dalla sonda Rosetta

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as

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left.it cultura

Stralunato come sempre, di spigolo con la vita più che mai, e armato da un’esigen-za espressiva viscerale e autentica. È il ri-torno di una delle più geniali maschere del rock blues dei nostri tempi. A sette anni dalla pubblicazione di Real Gone è appe-na uscito il nuovo album di Tom Waits, il suo ventiduesimo lavoro dal titolo Bad as me. Un disco in cui poesia ad alto tasso al-colico, si mescola a ruvide ballate velate di malinconia. È il miglior distillato dello sti-le Waits, così come da sempre lo conoscia-mo, con l’aggiunta di un inaspettato pizzico di auto ironia. Che si fa divertito e pungente nel video che ha anticipato il lancio del di-sco e in cui si vede il cantante e composito-re alla guida di una vecchia auto scassata, in veste di imbonitore di se stesso, mentre cerca di convincere i passanti ad ascoltare il suo Cattivo come me. Tredici brani incaz-zati quanto basta, intervallati da testi inti-mi e struggenti come “Back in the crowd”, poesie costruite su cose apparentemente piccole e quotidiane, ma dense di emozio-ni. A far da contrappunto, sullo sfondo, di tanto in tanto un rumoreggiare metallico di pentole, un bofonchiare di motori sfonda-ti. E poi il ritmo scuro della notte, gli incon-tri casuali e un po’ balordi nei quartieri mal-

famati della città degli Angeli. Quell’atmo-sfera, insomma, che l’accompagnava an-che nei film di Jim Jarmush e che continua a stargli appiccicata addosso come un alo-ne bohemien regalando una patina under-ground ad ogni suo lavoro, malgrado l’anti divo Tom Waits stia saldamente in cima alle classiche da oltre trent’anni, rischiando ta-lora di sembrare la controfigura di se stes-so. Un manierismo, una posa, un’insisten-za sulla voce “vissuta” che in questo nuovo Bad as me lasciano il posto invece a un uso della voce misurato e profondo.

Tom Waits

AA VVThis must be the palce non è solo il titolo dell’ ulti-mo film di Paolo

Sorrentino ma anche quello della sua colonna sonora pubblicata da Indigo film. Tra i protagonisti: Ga-vin Friday Band, Iggy Pop, Jonsi & Alex, Julia Kent e i The Pieces Of Shit la band di cui fa parte Sean Penn nel film.

DRAGONETTESono una delle band più gettonate del momento. Con l’album Fixing to

Thrill, i Dragonette mettono a va-lore la collaborazione con Martin Solveig nella hit “Hello. Il terzetto elettro pop canadese veleggia di nuovo verso il top della classifica.

COLDPLAYRaffinato e al tem-po stesso più sola-re è l’atteso ritorno dei Coldplay. Con

un album di studio dal titolo eso-tico, Mylo Xyloto, (Emi) che la band capitanata da Chris Martin ha presentato in anteprima mondiale in un grande concerto di piazza a Madrid.

Blues di Federico Sisti

Il gran ritorno di Tom cdbox

BABALÙReggae, trip hop, pop, dub, si me-scolano nell’esor-dio di Babalù Batti-

to stabile (Officina records/Egea) il mastering è di Greg Calbi (che ha lavorato con Springsteen).

ADAM FREIEmpty music industry è il debutto per Adam Frei, il nuovo pro-

getto indipendente della band già nota (soprattutto al pubblico britannico) con il nome The After-glow. Molte chitarre, poche con-cessioni ad arrangiamenti orche-strali o di tastiera.

neta mai nato”, la prestigiosa rivista scien-tifica Science dedica la copertina e tre inte-ressanti articoli. La sonda dell’Agenzia spa-ziale europea (Esa), Rosetta, in viaggio ver-so la cometa Churyumov-Gerasimenko che incrocerà nel 2014, ha puntato i suoi “occhi” sull’asteroide il 10 luglio 2010, quando è ar-rivata a soli 3.170 chilometri da Lutetia. Dai dati emerge che si tratta di una sorta di dino-sauro spaziale, un vero e proprio fossile del Sistema solare, antichissimo e unico, più si-mile più a un precursore di un pianeta, os-sia a un planetesimale, che agli altri asteroi-di. Questa distinzione è importante, sottoli-neano gli esperti, perché i planetesimali so-no le prime unità che hanno dato vita ai pia-neti. La strumentazione (la camera Osiris e lo spettrometro Virtis) che ha reso possibile

le osservazioni è in gran parte di costruzione italiana. Osiris ha permesso di stabilire l’età di Lutetia, circa 3,6 miliardi di anni. «Mentre Virtis - spiega in uno dei tre articoli pubblica-ti su Science, Fabrizio Capaccioni (Inaf-Ifsi, Istituto di fisica dello spazio interplanetario di Roma) responsabile scientifico dello spet-trometro - ha rilevato come la sua superficie sia estremamente uniforme dal punto di vista della composizione mantenendo le caratteri-stiche di una crosta primordiale, formata da materiali assimilabili a meteoriti primitive». Dai dati emerge anche che la superficie non è stata modellata dall’acqua e che ha tempe-rature medie oscillanti tra 210 e 28 gradi sotto lo zero. Lutetia, infine, è ricoperto di uno stra-to di polvere molto fine e omogeneo, simile alla regolite che copre la Luna.

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left.itcultura

Milano

Arte ’800 Venerdì 4 novembre aprono al pubblico le Gallerie d’Italia - Piaz-za Scala. All’interno un percorso dedicato all’arte dell’Ottocento, da Canova a Boccioni.

siena

La Palestina tra noiTanti bambini e donne tra le macerie. Volti che esprimono la non rassegnazione, l’aspirazione ad un’esistenza degna di essere vissuta. Sono le immagini del reportage Per non far finta di non sapere realizzato da Fabio Cappelli (elaborazioni digitali di Mariangela Iannotta) nei campi profu-ghi palestinesi in Libano. La mostra è allestita dal 5 al 13 novembre a Siena, presso il Santa Ma-ria della Scala. Un’altra mostra (a cura dell’asso-ciazione Hawiyya) La Palestina della convivenza fa ripercorre la storia dei palestinesi dal 1880 al 1948. Sempre il 5 novembre sul dramma vissu-to dai palestinesi a partire dalle 9.30 si tiene un convegno con docenti, scrittori e giornalisti.

Bari

Note di pianoÈ il pianoforte, declina-to nelle sue forme più diverse, il vero prota-gonista della rassegna musicale Time Zones. Dal 4 al 19 novembre al teatro Forma.

uMBria

Donnee libriSi intitola C’era una donna ed è dedicata interamente all’univer-so femminile l’edizio-ne 2011 di Umbriali-bri, manifestazione in-centrata sull’editoria e la cultura che dal 4 al 6 novembre è a Terni e dal 10 al 13 alla Rocca Paolina a Perugia.Previsti anche labora-tori didattici .

in tour

L’anima di DenteIl suo ultimo album Io tra di noi è un successo e per Dente è l’ora di festeggiare sui palchi. Ap-puntamento il 4 novembre al Ratatoj di Saluzzo (Cn) e il 5 all’Hiroshima di Torino.

cosenza

Pazienzaat the warIl Museo delle ar-ti e dei mestieri della provincia di Cosenza ospita dal 4 novem-bre all’11 dicembre la mostra Astarte & Za-nardi, Andrea Pazien-za at the war.

roMa

Da Stern a GattoPer il Roma jazz fe-stival in arrivo all’Au-ditorium parco del-la musica alcuni tra i più grandi nomi del jazz. Da Dave Holland (8 novembre) a Mi-ke Stern, nella foto, (il 10) e Pat Metheny (il 13) per arrivare ai nostri Roberto Gatto (l’11) o Danilo Rea (il 15). Chiude il 17 no-vembre il concerto di Dee Deee Bridgewa-ter con un omaggio a Billie Holiday. www.romajazzfesti-val.it

roMa

Mojo StationTre location per tre giorni alla scoperta della cul-tura blues. È la settima edizione del Mojo station festival che all’Ex cinema Palazzo, al circolo Ar-ci Clockwork e al Jailbreak dal 4 al 6 novembre ospita il meglio delle sonorità afro americane made in Italy.

torino

Meet designDopo il successo della tappa romana, Meet De-sign sbarca a Torino. Dal 5 novembre incontri, mostre e presentazioni daranno vita a un viag-gio nel design italiano con particolare attenzione alle nuove leve.

appuntamenti

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www.lasinodoroedizioni.it

Dal 3 novembrein tutte le librerie

il nuovo libro delL’Asino d’oro

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