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1 Le politiche del lavoro nei Paesi sud europei ai tempi dell' "austerità estrema". Itinerari di riforma a confronto Patrik Vesan (Università della Valle d'Aosta) Convegno nazionale Società italiana di Scienza politica - Università della Calabria 10-12 settembre 2015 [NOTA: primo draft, work in progress (commenti benvenuti!) ] 1. Introduzione La recente crisi economica e finanziaria ha avuto forti ripercussioni sul mercato del lavoro dei paesi mediterranei. Dal 2008 al 2014, il tasso di disoccupazione in Spagna, Grecia, Italia e Portogallo è cresciuto in media di circa il 127% (contro il 53% dell'area euro), a fronte di una riduzione dell'11,4% del tasso di occupazione (-3% nell'area euro). Al fine di contrastare tale situazione di emergenza, nei quattro principali paesi del sud Europa sono state adottate una serie di incisive misure volte al drastico contenimento della spesa pubblica e alla promozione di riforme strutturali. Con riferimento alle politiche del lavoro, i provvedimenti posti in essere hanno in parte deviato il percorso di cambiamento già avviato in questi paesi negli anni precedenti alla crisi economica. In questo paper, ci proponiamo di illustrare i principali interventi che hanno determinato tale scostamento, concentrandoci, da una parte, sulle indennità di disoccupazione e, dall'altra, sulla disciplina dei rapporti di lavoro e della contrattazione collettiva. Lo scopo della nostra analisi è duplice. Innanzitutto, ricostruiremo la traiettoria delle riforme realizzate in Italia, Spagna, Grecia e Portogallo a partire dallo scoppio della recente crisi economica, al fine di illustrarne la direzione dominante e l'impatto sulla possibilità di (continuare a) distinguere alcune caratteristiche delle politiche del lavoro comuni ai paesi mediterranei. In tal senso, il nostro paper mira a contribuire alla comprensione dei processi di riforma delle politiche del lavoro in una specifica area dell'Unione europea. In letteratura sono pochi i contributi che ricostruiscono l'insieme dei cambiamenti avvenuti nei paesi mediterranei, nonostante la loro salienza e, come vedremo, la comune ricetta di policy seguita. Un'eccezione è rappresentata dal lavoro di Moreira et al (2015), che comunque si limitata a illustrare le principali riforme e i loro effetti sulla sicurezza del lavoro e le tutele offerte ai disoccupati, ma non fornisce un quadro interpretativo di quest'ultime. Inoltre, è possibile rinvenire alcuni studi, dedicati a singoli paesi o coppie di paesi sud europei, che enfatizzano il ruolo di uno o

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Le politiche del lavoro nei Paesi sud europei ai tempi dell' "austerità estrema".

Itinerari di riforma a confronto

Patrik Vesan (Università della Valle d'Aosta)

Convegno nazionale Società italiana di Scienza politica - Università della Calabria 10-12 settembre 2015

[NOTA: primo draft, work in progress (commenti benvenuti!)]

1. Introduzione

La recente crisi economica e finanziaria ha avuto forti ripercussioni sul mercato del lavoro dei paesi

mediterranei. Dal 2008 al 2014, il tasso di disoccupazione in Spagna, Grecia, Italia e Portogallo è cresciuto in

media di circa il 127% (contro il 53% dell'area euro), a fronte di una riduzione dell'11,4% del tasso di

occupazione (-3% nell'area euro).

Al fine di contrastare tale situazione di emergenza, nei quattro principali paesi del sud Europa sono state

adottate una serie di incisive misure volte al drastico contenimento della spesa pubblica e alla promozione

di riforme strutturali. Con riferimento alle politiche del lavoro, i provvedimenti posti in essere hanno in

parte deviato il percorso di cambiamento già avviato in questi paesi negli anni precedenti alla crisi

economica.

In questo paper, ci proponiamo di illustrare i principali interventi che hanno determinato tale scostamento,

concentrandoci, da una parte, sulle indennità di disoccupazione e, dall'altra, sulla disciplina dei rapporti di

lavoro e della contrattazione collettiva. Lo scopo della nostra analisi è duplice.

Innanzitutto, ricostruiremo la traiettoria delle riforme realizzate in Italia, Spagna, Grecia e Portogallo a

partire dallo scoppio della recente crisi economica, al fine di illustrarne la direzione dominante e l'impatto

sulla possibilità di (continuare a) distinguere alcune caratteristiche delle politiche del lavoro comuni ai paesi

mediterranei.

In tal senso, il nostro paper mira a contribuire alla comprensione dei processi di riforma delle politiche del

lavoro in una specifica area dell'Unione europea. In letteratura sono pochi i contributi che ricostruiscono

l'insieme dei cambiamenti avvenuti nei paesi mediterranei, nonostante la loro salienza e, come vedremo, la

comune ricetta di policy seguita. Un'eccezione è rappresentata dal lavoro di Moreira et al (2015), che

comunque si limitata a illustrare le principali riforme e i loro effetti sulla sicurezza del lavoro e le tutele

offerte ai disoccupati, ma non fornisce un quadro interpretativo di quest'ultime. Inoltre, è possibile

rinvenire alcuni studi, dedicati a singoli paesi o coppie di paesi sud europei, che enfatizzano il ruolo di uno o

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più fattori, senza però ricondurli a uno schema esplicativo unitario (León et al., 2015; Petmesidou and

Glatzer, 2015; Theodoropoulou, 2015; Sacchi 2015).

Il secondo obiettivo del paper è quello di proporre un modello interpretativo dei cambiamenti realizzati in

grado di tenere assieme fattori di spinta alle riforme di origine "esterna" e fattori di origine domestica. A

tal proposito, riadatteremo ai nostri fini, anche a partire dai più recenti contributi della letteratura

sull'europeizzazione delle politiche, sul policy change e sull'evoluzione delle politiche sociali e del lavoro, il

cosiddetto "push-and -pull model".

Per quanto riguarda la metodologia di ricerca, la nostra ricostruzione si basa essenzialmente su fonti

documentali originarie (leggi e documenti governativi) e su fonti secondarie, quali report di organizzazioni

internazionali, stampa nazionale e internazionale e articoli pubblicati in riviste scientifiche.

Il paper è suddiviso in cinque parti. Nella prossima sezione presenteremo lo schema analitico utilizzato per

lo studio delle riforme delle politiche del lavoro nei paesi mediterranei. Quest'ultime verranno illustrate e

analizzate nella terza sezione, mentre la quarta sezione analizzerà i principali fattori che spiegano le riforme

alla luce dello schema teorico-analitico proposto. Infine, la quinta sezione conclude, sintetizzando i

principali risultati della ricerca.

2. Le riforme delle politiche del lavoro durante la crisi: uno schema per l'analisi

A partire dalla metà degli anni novanta, i paesi mediterranei hanno avviato un processo di profonda

revisione delle politiche del lavoro che ha conosciuto la sua fase più avanzata e decisiva dopo il 2010, a

seguito della crisi dei debiti sovrani dell'area euro. In passato, alcuni autori avevano sottolineato l'esistenza

di un comune modello di politiche sociali e del lavoro con riferimento all'Italia, alla Spagna, alla Grecia e al

Portogallo (Ferrera, 1996; Gallie and Paugam, 2000; Karamessini, 2008). Tale modello aveva conosciuto

importanti cambiamenti ben prima della "Grande Recessione", ma le più recenti riforme realizzate in tempi

di "austerità estrema" (Karyotis and Rüdig, 2013) potrebbero avere messo definitivamente in discussione la

possibilità di coglierne ancora i tratti distintivi, perlomeno dal punto di vista della configurazione delle

politiche. Al fine di cogliere l'impatto di tali riforme sugli outputs istituzionali, faremo riferimento a due

dimensione d'analisi.

La prima dimensione, che chiameremo "coerenza interna", riguarda l'esistenza di alcune caratteristiche che

accomunano l'assetto istituzionale delle labour policies nei paesi mediterranei. La seconda dimensione, che

chiameremo "distintività", concerne invece la presenza di peculiarità che consentono di differenziare i

quattro casi esaminati da altri paesi, quali la Germania e la Francia.

L'analisi dei processi di cambiamento sarà inoltre volta a identificarne la traiettoria dominante,

distinguendo tra tre possibili direzioni nelle strategie di riforma.

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La prima direzione è quella del ridimensionamento o progressivo smantellamento delle politiche sociali,

perseguita attraverso interventi di drastico contenimento della spesa e/o riducendo le tutele sociali (il

cosiddetto "institutional retrenchment", cf. Green-Pedersen, 2004). Questa direzione sottrattiva delle

riforme può realizzarsi attraverso un'accresciuta enfasi sulle politiche di means teasting oppure l'adozione

di restrizioni nelle regole di eleggibilità ai benefici, la diminuzione nei loro importi e durata o ancora il

ricorso a interventi normativi volti a congelare o ridurre i salari dei lavoratori. Anche la cessione di funzioni

e servizi a soggetti privati o l'accresciuta possibilità di "opting out" rispetto a quanto stabilito dalla

contrattazione collettiva di livello superiore o, più in generale, la spinta all'individualizzazione dei rapporti

di lavoro, possono rappresentare ulteriori esempi di "institutional retrenchment", nella misura in cui tali

interventi comportino un peggioramento delle condizioni di lavoro o di accesso ai servizi rispetto allo status

quo ante.

Una seconda direzione di riforma è quella dell'aggiustamento delle politiche esistenti a fronte delle mutate

condizioni economico-sociali e finanziarie. L'aggiustamento si realizza grazie all'adozione di misure di natura

prettamente correttiva, che di norma intervengono ai margini del sistema. Esso inoltre può comportare

interventi di parziale contenimento dei costi o, viceversa, misure di carattere espansivo volte a far fronte, di

norma in maniera transitoria o comunque circoscritta, a specifici bisogni sociali emergenti. Rientrano in

questa categoria la ridefinizione del settaggio di alcuni strumenti (benefici o servizi, evitando però di

modificarne radicalmente il funzionamento o gli obiettivi, oppure l'adozione di misure temporanee di

contenimento dell'emergenza sociale, come gli ammortizzatori sociali in deroga in Italia e l'estensione o il

rafforzamento temporaneo delle tutele riservate ad alcuni gruppi di lavoratori. Una delle caratteristiche di

questa traiettoria di riforma, indipendentemente dal suo effetto sulla spesa sociale, è quella di essere per lo

più finalizzata alla manutenzione degli assetti istituzionali preesistenti, senza prevederne un ripensamento

complessivo nel breve o medio periodo.

Una terza direzione di riforma è costituita dalla cosiddetta ricalibratura delle politiche realizzate a sostegno

della copertura di nuove categorie e/o rischi sociali (Bonoli, 2005; Ferrera and Hemerijck, 2003;

Häusermann, 2012). Tale terza traiettoria di cambiamento è distinguibile dalla prima (lo "smantellamento")

nella misura in cui la razionalizzazione o modernizzazione delle politiche sociali si realizza per mezzo di una

tendenziale espansione (o perlomeno mantenimento) del complesso delle risorse investite. Allo stesso

tempo, essa differisce dal più semplice aggiustamento delle politiche poiché gli interventi adottati tendono

a essere legittimati come aventi carattere strutturale. La ratio soggiacente è infatti quella di modificare

alcuni dei principi di funzionamento su cui si fonda il sistema di welfare, senza disconoscere del tutto la

funzione svolta dai tradizionali schemi di sicurezza sociale. Tra gli esempi di tale direzione di riforma

possiamo citare il cosiddetto approccio di "investimento sociale" e, con riferimento alle politiche del lavoro,

l'approccio dei "mercati del lavoro transizionali" (Hemerijck, 2015; Schmid, 2006).

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Per quanto analiticamente distinguibili, è chiaro che nella realtà esistano ampie zone grigie, dove le

traiettorie di cambiamento da noi identificate finiscano con l'intrecciarsi. Ciò è dovuto sia alla complessità

dei pacchetti di misure adottati dai vari governi, sia al fatto che le strategie di riforma non possiedono

sempre una nitida coerenza interna.

Il secondo obiettivo di questo articolo è di contribuire alla comprensione dei fattori sottostanti il

cambiamento delle politiche del lavoro da noi esaminate. In particolare, trarremo spunto -

reinterpretandolo - da uno specifico modello interpretativo, denominato "push-and-pull model", diffuso

nell'ambito degli studi sui fenomeni migratori (Portes and Böröcz, 1989; Zimmermann, 1996), sulla

compliance nazionale delle norme europee (Borzel, 2000) e sull'europeizzazione delle politiche

(Schimmelfennig and Sedelmeier, 2005, 2004; Yilmaz, 2014). In base a tale modello, le riforme del lavoro

realizzate nei paesi mediterranei durante la crisi possono essere spiegate esaminando la combinazione di

alcuni fattori di pressione esterna (che possono rafforzare ciò che chiamiamo "push capacity") con fattori di

pressione interna ("pull capacity") rinvenibili a livello domestico. Maggiore sarà la capacità di spinta e di

"tiraggio", maggiore saranno le probabilità che le riforme vengano realizzate.

Il nostro schema esplicativo non ha l'ambizione di porsi come modello generale per la comprensione dei

processi di policy change, dal momento che la sua validità è soggetta a specifiche "scope conditions" quali la

presenza, con riferimento a una specifica area di policy e in dato arco temporale, di significative pressioni al

cambiamento che originano da un contesto "esterno" a quello puramente domestico1. Ciò non comporta

che tali pressioni esterne siano necessarie, né che, qualora esistenti, siano in grado di generare

cambiamenti di policy. Affinché tale spinta possa produrre dei risultati essa deve infatti possedere

determinate caratteristiche, nonché essere accompagnata da altri fattori riconducibili alla sfera domestica.

Come vedremo, una delle principali spinte alle riforme delle politiche del lavoro sud europee durante la

crisi è stata rappresenta dalle condizioni imposte da alcune istituzioni sovranazionali nell'ambito delle

politiche di salvataggio finanzio rivolte ai Paesi a mediterranei. Seguendo Schimmelfennig e Sedelmeier

(2004) e Yilmaz (2014), riteniamo che il livello della spinta impartita (push capacity) dipenda essenzialmente

dalla credibilità delle richieste o condizioni formulate e dalle loro implicazioni. In particolare, la nostra

prima ipotesi è che la "push capacity" tenda ad aumentare al crescere di alcuni fattori, di seguito illustrati.

In primo luogo, essa dipende dal livello di "chiarezza" (determinacy) con cui le richieste sono formulate,

vale a dire da quanto margine interpretativo, ovvero di discrezionalità, viene lasciato agli attori chiamati ad

accoglierle.

1 Nella più recente letteratura nell'ambito della politica comparata e dei processi di europeizzazione, la tradizionale separazione tra sfera domestica e sfera internazionale è messa in discussione, riconoscendo l'ampia compenetrazione di questi due ambiti di attività. Pur accogliendo tale considerazione, nel nostro articolo faremo riferimento alla presenza di fattori (e pressioni) interni o esogeni e viceversa esterni o esogeni. Quest'ultimi sono caratterizzati dal fatto che il loro raggio d'azione appare più ampio dei confini nazionali e non dipendono esclusivamente da istituzioni e processi riconducibili a un singolo Stato.

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In secondo luogo, la capacità di pressione aumenta all'aumentare della credibilità della minaccia sotto

forma di mancata ricompensa o diretta sanzione associata alle indicazioni impartite o concordate. Altri due

elementi che influenzano il livello di "spinta alle riforme" sono la portata (size) delle ricompense e/o

sanzioni previste e la loro prossimità temporale, ovvero se esse siano in grado di esercitare i loro effetti in

un lasso di tempo più o meno ravvicinato. Infine, la "push capacity" cresce quando si rafforza la capacità di

monitoraggio e steering delle riforme domestiche da parte delle autorità sovranazionali, anche attraverso

forme di coinvolgimento diretto nel disegno delle politiche, nella vigilanza del processo di implementazione

e nella verifica dei risultati.

Per quanto la capacità di spinta alle riforme possa essere elevata, essa necessita di combinarsi con

un'adeguata capacità di "tiraggio" da parte degli attori domestici. Quest'ultima, a sua volta, può essere

intesa come una funzione di alcune caratteristiche del contesto politico domestico.

Innanzitutto, la "pull capacity" diminuisce al crescere delle "possibilità di veto" alle riforme. Seguendo

Mahoney e Thelen (2010), tali veto possibilities dipendono dalla presenza di una solida "coalizione di

blocco" che può essere composta sia da powerful veto players, sia da veto points istituzionali (à la Tsebelis

2002).

Un ulteriore elemento del contesto politico che condiziona la "pull capacity" domestica è rappresentato

dalla risolutezza o fermezza dell'azione di governo. Quest'ultima dipende dalla compatibilità fra le richieste

delle istituzioni europee e internazionali e gli orientamenti dei singoli esecutivi. I costi di adozione delle

riforme tendono infatti a salire al crescere della dissonanza cognitiva tra le posizioni assunte dagli attori

sovranazionali e quelle dell'elite politica al governo.

Un altro importante fattore riguarda la capacità decisionale dell'esecutivo, vale a dire il suo controllo sul

processo decisionale: tanto più è elevata, tanto più è probabile che la pressione domestica per le riforme

abbia un esito positivo.

Infine, anche la capacità della pubblica amministrazione, centrale e locale, può influenzare la realizzazione

delle riforme. Le idee e proposte circolanti a livello nazionale e internazionale necessitano infatti, per

essere attivate, di strutture burocratiche in grado di disegnare gli interventi necessari e di portarli a

compimento. Altrimenti il rischio è che il processo di riforma si limiti a semplici dichiarazioni di intenti e

buoni propositi.

Accanto ai quattro fattori che incidono sulla "pull capacity", l'analisi dovrà tenere in considerazione anche

un ultimo aspetto che opera come variabile interveniente nel processo di policy chance: la possibilità di

reperire le risorse finanziarie a sostegno delle riforme. In una condizione di penuria di bilancio è chiaro che

l'adozione di provvedimenti che impattano in maniera significativa sulla spesa pubblica risulti difficile. Ciò

nonostante, tale fattore non possiede una valenza esplicativa autonoma sia perché l'ammontare delle

risorse finanziarie potrebbe non essere rilevante nel caso di interventi di natura prettamente regolativa, sia

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perché gli esecutivi, a fronte di una chiara volontà politica, possono riuscire a scovare le risorse necessarie

attraverso esercizi di spending review o ricalibratura delle spese.

In sintesi, il "push-and-pull model" ci consente di cogliere la reazione derivante dal combinarsi di una

pluralità di fattori, innestati da una causa scatenante come la crisi economico-finanziaria e le sue

conseguenze sociali. La figura 1 sintetizza i principali elementi di tale schema interpretativo.

Figura 1 Il modello "push-and-pull factors"

Ogni sequenza di riforma può dunque essere intesa come un processo di combustione innestato da qualche

specifica causa o insieme di concause (il detonatore). Per aver luogo, tale combustione abbisogna di risorse

con cui alimentarla, come le idee e le proposte sul "cosa e come fare" in termini di soluzioni e giustificazioni

che circolano negli "issue networks" internazionali e nazionali (Heclo, 1978). Allo stesso tempo, occorre che

vi sia di un'adeguata capacità di "tiraggio" che permetta al processo di combustione di essere avviato e di

mantenersi. In altre parole, sono necessarie specifiche condizioni contestuali e/o la presenza di ulteriori

risorse che non impediscano o limitino il cambiamento.

La reazione prodotta, cioè il "consumarsi" delle riforme che ne deriva, può essere parziale o limitata,

qualora una delle due fonti di pressione al cambiamento risulti debole. Al contrario, le possibilità che le

riforme abbiano luogo aumentano quando si rafforzano sia i fattori di "push", sia quelli di "pull",

Push capacity

Pull capacity

RIFORME

Crisi economico-

finanziaria e sue

implicazioni

occupazionali

- Determinacy - Credibilità delle

condizioni/richieste

- Veto possibilities - Risolutezza e capacità decisionale del governo - Capacità delle pubbliche amministrazioni

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combinandosi gli uni con gli altri (Yilmaz, 2014). Nel prosieguo del paper ritorneremo su tale schema

esplicativo, al fine di saggiarne l'utilità con riferimento alle riforme che descriveremo invece nella prossima

sezione.

3. Le trattorie delle riforme delle politiche del lavoro nel sud Europa

La crisi economico-finanziaria ha rappresentato una significativa "giuntura critica" (Pierson, 2001) che ha

portato all'apertura di una nuova stagione di riforme. Il percorso intrapreso dai paesi mediterranei non ha

semplicemente determinato un approfondimento delle strategie avviate anche solo negli anni a ridosso

della recessione. Al contrario, il nuovo ciclo di riforme sembra risolversi in un vero e proprio "cambio di

passo" che ha inciso sull'architettura istituzionale complessiva delle politiche del lavoro sud europee.

In quanto segue, presenteremo gli interventi adottati nei vari paesi, raggruppandoli in base al loro oggetto:

da una parte, ci soffermeremo sulle misure relative alla disciplina dei rapporti di lavoro e della

contrattazione collettiva e, dall'altra, sulle riforme del sistema degli ammortizzatori sociali. Al fine di

cogliere l'effetto dei provvedimenti realizzati in questi due ambiti faremo riferimento alle dimensioni di

analisi che abbiamo illustrato nella seconda sezione, ovvero la "coerenza interna" e la "distintività" delle

politiche del lavoro.

3.1 Licenziamenti più semplici e minori tutele delle condizioni di lavoro

Gli interventi più rilevanti messi in atto in risposta alla crisi economica riguardano la disciplina dei rapporti

di lavoro. A partire dagli anni novanta, i Paesi sud europei avevano già realizzato una serie di riforme "al

margine", volte a liberalizzare il ricorso dei contratti a termine, preservando le tutele connesse ai contratti a

tempo indeterminato21. Una chiara discontinuità è invece rinvenibile a seguito dello scoppio della crisi dei

debiti sovrani, quando i governi di Italia, Grecia, Spagna e Portogallo hanno proceduto a una "ricalibratura

sottrattiva" dei diritti posti a tutela dei core workers, rendendo più semplici i licenziamenti dei lavoratori a

tempo indeterminato.

Una seconda novità, sempre nella direzione di una liberalizzazione più spinta del mercato del lavoro, ha

riguardato l'adozione di politiche di "svalutazione interna" (Armingeon and Baccaro, 2012) volte a ridurre la

pressione salariale e intervenire sulla strutturazione della contrattazione collettiva. Tali politiche hanno

comportato il taglio dei salari minimi (Sotiropoulos 2015), la riduzione o congelamento delle buste paghe

dei dipendenti pubblici o ancora l'adozione di norme volte a promuovere il decentramento della

contrattazione collettiva ed estendere la capacità derogatoria degli accordi siglati a livello aziendale (Etuc

2013).

21 La Spagna costituisce un'eccezione importante, dal momento che, fin a partire dagli anni novanta, ha proceduto a una ri-regolazione dei contratti a termine al fine di contenerne la diffusione.

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In Italia, all'indomani dello scoppio della crisi finanzia nell'estate del 2011, il governo Berlusconi adotta, in

seno alla cosiddetta "manovra-bis", una misura indirizzata a promuovere la contrattazione a livello

territoriale e la sua capacità derogatoria rispetto al quadro di regole definite a livello superiore (Vesan

2012)22. Tale provvedimento cercava di rispondere ad alcune delle richieste che la Banca centrale europea

aveva rivolto al governo italiano e che erano, seppur non esplicitamente, connesse alla volontà di

continuare a sostenere il nostro paese, acquistando i titoli di Stato italiani sul mercato secondario (Sacchi,

2015). Nell'agosto del 2011, infatti, Trichet e Draghi, rispettivamente presidenti entrante e uscente della

Banca centrale europea, avevano inviato a Berlusconi una lettera (confidenziale) nella quale erano

chiaramente elencate alcune delle principali riforme che l'Italia avrebbe dovuto adottare con urgenza. Tra

le misure indicate in materia di politica del lavoro spiccavano la promozione del decentramento della

contrattazione collettiva, la revisione delle norme sui licenziamenti e la riforma del sistema di tutela contro

la disoccupazione.

Il Presidente del Consiglio Berlusconi non riesce comunque a proseguire nell'azione di governo: l'aggravarsi

della crisi del debito sovrano e il progressivo sfaldarsi della maggioranza politica al potere portano infatti

alle sue dimissioni. Gli succede Mario Monti, economista e già commissario europeo, che dà vita a un

esecutivo di tecnici con lo scopo di portare a termine nel breve periodo una serie di importanti riforme, a

partire da quelle richieste dalle autorità sovranazionali. Il nuovo esecutivo vara infatti in tempi ristretti sia

un'incisiva riforma delle pensioni alla fine del 2011, sia un'importante riforma del lavoro, con l'adozione

della legge 92 nel luglio del 2012.

Quest'ultimo provvedimento è caratterizzato da alcuni importanti elementi di novità: per la prima volta in

Italia viene approvata una modifica delle norme sulla disciplina dei licenziamenti dei lavoratori a tempo

indeterminato, rimaste sostanzialmente inalterate dagli anni settanta. Non si tratta più, dunque, solo di una

riforma ai "margini" (Davidsson 2011), così come avvenuto a partire dalla metà degli anni novanta (Vesan

2012; Sacchi e Vesan, 2015), ma di una misura che tocca direttamente i core workers. La tutela reale

garantita dall'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, ovvero l'obbligo di reintegra del lavoratore

illegittimamente licenziato, viene infatti significativamente circoscritta, prevedendo al suo posto

l'introduzione di un compenso economico.

Un passo ancora più incisivo in tale direzione si realizza nel 2015, con l'approvazione di un ampio

intervento di riforma in materia di politica del lavoro promosso dal governo Renzi: il "Jobs Act". Viene

infatti istituito un nuovo contratto detto "a tutele crescenti" per tutti i nuovi assunti a tempo indeterminato

che limita la possibilità di reintegra del lavoratore solo per i licenziamenti nulli, discriminatori e specifiche

22 Facciamo riferimento all'introduzione dei cosiddetti "contratti di prossimità". Tale misura può essere considerata come l'ennesimo tentativo di Berlusconi, dopo alcuni fallimenti collezionati fin dai 2001, di liberalizzare le norme sui contratti a tempo indeterminato.

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fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato. Per tutti gli altri casi, i licenziamenti dichiarati

illegittimo danno diritto a un'indennità d'importo prestabilito, pari a 2 mensilità per ogni anno di anzianità

di servizio, con un minimo di 4 e un massimo di 24 mensilità23.

Un'ulteriore flessibilizzazione dei rapporti di lavoro viene conseguita prevedendo la possibilità del "de-

mansionamento" del lavoratore (a parità di retribuzione e solo fino a un livello inferiore) nei casi di processi

di ristrutturazione aziendale, nonché l'eventuale stipula di accordi individuali, seppur in "sede protetta", tra

datore di lavoro e lavoratore che possono portare a una modifica del livello retributivo e delle mansioni

assegnate, al fine di conservare il posto di lavoro.

Importanti cambiamenti sul fronte della disciplina dei rapporto di lavoro a tempo indeterminato possono

essere osservati anche in Portogallo, Grecia e Spagna. A differenza dell'Italia, già prima della crisi

economica ai lavoratori a tempo indeterminato era di norma garantita negli altri Paesi mediterranei solo

un'indennità di licenziamento, concessa anche indipendentemente dalla legittimità dell'interruzione del

rapporto di lavoro. Per questo motivo, gli interventi hanno sostanzialmente mirato a rendere meno

costoso per il datore l'interruzione del rapporto di lavoro dal punto di vista procedurale e finanziario.

Nel caso del Portogallo e della Grecia, tali riforme hanno costituito per lo più una risposta alle puntuali

indicazioni espresse nei memorandum of undertanding, vale a dire negli accordi siglati con la troika

(Commissione europea, Fondo monetario internazionale e Banca centrale europea), per accedere ai

cospicui prestiti internazionali e far fronte alla grave situazione finanziaria nazionale.

Più in dettaglio, a partire dal 2011 in Portogallo sono state ridotte le indennità di licenziamento per i

lavoratori a tempo indeterminato che nel giro di pochi anni sono passate dagli originari 30 giorni a 12 giorni

per ogni mese di anzianità lavorativa, con un tetto massimo di 8 mensilità, mentre il loro livello minimo, in

precedenza pari a tre mesi di salario, è stato abrogato.

In Grecia, è stato innalzato il numero di licenziamenti individuali che è possibile effettuare in un mese senza

dover ricorrere alla più gravosa procedura del licenziamento collettivo. Sempre nel 2010, è stato ridotto il

periodo massimo di notifica obbligatoria dei licenziamenti per i "colletti bianchi". Tale periodo, che in

passato poteva arrivare fino a un massimo di 24 mesi, viene portato nel 2012 a 4 mesi per tutti i lavoratori.

Questa modifica ha una conseguenza diretta sulle indennità di licenziamento. Il loro importo è infatti

dimezzato qualora il datore rispetti i termini di notifica. Aver dunque drasticamente ridotto il periodo

massimo di attesa per poter "allontanare" un lavoratore comporta dunque la possibilità di un forte

abbattimento dei costi connessi al licenziamento dei lavoratori (Young Greek Scholars, 2014).

23 Al fine di evitare di andare in giudizio, il datore di lavoro può inoltre offrire al lavoratore una somma a titolo di indennizzo, non soggetta a trattenute fiscali e contributive pari a una mensilità per ogni anno di servizio fino a un massimo di 18 mensilità. Nel caso di imprese al di sotto dei 15 dipendenti, che in Italia costituiscono quasi la totalità delle imprese e impiegano circa il 55% dei dipendenti con contratti a tempo indeterminato, gli importi delle indennità previste nel caso di licenziamento illegittimo si riducono della metà, con un tetto massimo di 6 mensilità.

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In Spagna, così come avvenuto in Italia, le richieste di revisione della disciplina dei licenziamenti da parte

delle autorità sovranazionali non sono oggetto esplicito di un memorandum, ma rimangono ugualmente

pressanti. A seguito di tali pressioni, e stante le oggettive difficoltà a contenere l'elevato utilizzo dei

contratti a termine, i governi spagnoli decidono di perseguire con maggiore convinzione la strada della

liberalizzazione dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato. Questa strategia viene portata avanti a

partire dal 2010 da due esecutivi di diverso colore politico.

La prima fase di interventi è realizzata dal governo Zapatero nel 2010 e 2011. La riforma del 2010 si

concentra principalmente sull'estensione delle causali che legittimano il ricorso al licenziamento per motivi

economici e sulla riduzione dei costi connessi ai licenziamenti. Questo avviene ampliando le possibilità di

ricorso ai "contratti permanenti di promozione dell'occupazione", introdotti nel 1997, che prevedono in

caso di licenziamento ingiustificato, un'indennità risarcitoria di 33 giorni lavorativi per ogni anno di servizio

prestato (contro i 45 giorni per un massimo di 42 mesi previsti dai contratti a tempo indeterminato

ordinari).

La seconda fase di cambiamento si apre dopo la sconfitta elettorale del premier socialista e la formazione

del nuovo governo di centro destra guidato da Rajoy. Nel 2012 viene adottata un'incisiva riforma volta a

liberalizzare ulteriormente il mercato del lavoro spagnolo. Le motivazioni che giustificano il licenziamento

vengono estese e rese più difficilmente impugnabili di fronte al giudice del lavoro. Questo ha

un'implicazione anche sui costi che il datore deve sostenere: nel caso in cui il licenziamento sia giustificato,

l'importo dell'indennità (severance payment) scende infatti a 20 giornate lavorative per ogni anno di

anzianità di servizio, fino a un massimo di 12 mesi. L'indennizzo per il licenziamento illegittimo è invece

portato per tutti i contratti a 33 giorni di salario per ogni anno di servizio prestato, con un tetto massimo di

24 mesi.

Per comprendere le principali conseguenze di queste riforme sul modello istituzionale di politiche del

lavoro sud europeo, possiamo considerare l'evoluzione dei valori dell'indice di tutela dell'occupazione

elaborato dall'Ocse (Epl).

La figura 2 mostra le variazioni nei valori dell'Epl relativi agli anni 1998, 2008 e 2013. Con riferimento al sud

Europa, chiari segnali di liberalizzazione dei contratti a termine sono rinvenibili già nei primi anni duemila.

Tale processo è proseguito anche durante il periodo della crisi, portando i paesi mediterranei ad assestarsi

nel 2013 su valori dell'Epl di poco superiori a quelli registrati in media nei paesi continentali24.

Al contrario, il livello di tutela dei contratti a tempo indeterminato ha conosciuto nei paesi sud europei un

cambiamento solo negli ultimi anni. Si tratta in questo caso di una variazione più contenuta, rispetto a

24 I paesi continentali considerati al fine di calcolare il valore medio sono la Germania, la Francia, l'Austria, il Belgio e l'Olanda.

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quella registrata con riferimento ai contratti a termine, ma egualmente significativa se si considera la

portata politica di tali riforme.

Figura 2 La tutela del lavoro nei paesi continentali, mediterranei e nel Regno Unito.

Nota: per il lavoro a tempo indeterminato si fa riferimento ai dati dell'Epl versione 2, mentre per quello a termine

all'Epl versione 1.

Fonte: nostra elaborazione su Oecd Employment protection database.

Se ancora alla fine degli anni novanta potevamo osservare un certo grado di "distintività" della famiglia dei

paesi sud europei rispetto al gruppo di più immeditato riferimento, ovvero i paesi continentali, nell'ultimo

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quindicennio le differenze nei valori medi sono state quasi completamente assorbite. I paesi mediterranei si

mantengono comunque ancora lontani dal modello liberista di regolazione dei rapporti di lavoro di matrice

anglosassone.

Infine, per quel che riguarda invece il livello di coerenza interna del modello sud europeo, la figura 3 mostra

la presenza di un chiaro processo di convergenza. Dal 1998 al 2013, le distanze tra i valori nazionali si sono

ridotte in maniera significativa, grazie alla comune direzione delle riforme, ma anche alla loro diversa

intensità che ha permesso ai paesi che presentavano una minore flessibilità normativa di recuperare

terreno.

Figura 3 Le tutele dell'occupazione a tempo indeterminato (Epl versione 2) e a termine (Epl versione 1).

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Fonte: nostra elaborazione su Oecd Employment protection database.

In sintesi, nonostante una serie di importanti differenze nelle condizioni di partenza e negli assetti socio-

economici dei Paesi mediterranei, la ricetta della liberalizzazione del lavoro a tempo indeterminato ha

rappresentato una soluzione comune adottata dai vari governi, sotto la spinta delle autorità sovranazionali.

Il risultato complessivo è una maggiore somiglianza fra Italia, Spagna, Grecia e Portogallo sotto il profilo

delle minori tutele garantite ai lavoratori. Al contempo, tali riforme rendono il confine tra insiders e

outsiders all'interno dei singoli paesi più sfumato, così come si sono ridotte drasticamente le distanze in

termini di "rigidità" dei mercati del lavoro tra l'area sud europea e quella continentale.

3.1 Le indennità di disoccupazione: convergenze (quasi sempre) al ribasso

La prima risposta adottata dal governo italiano nel 2008 per lenire gli effetti della crisi sul mercato del

lavoro fu l'adozione di provvedimenti d'urgenza di natura temporanea, come i cosiddetti "ammortizzatori

sociali in deroga", allo scopo di estendere il ricorso agli schemi di Cassa integrazione guadagni e le indennità

di mobilità a categorie di lavoratori (e imprese) che non avrebbero potuto beneficiarne o perché ineleggibili

o per via del protrarsi della loro condizione di bisogno al di là della durata ordinaria dei benefici.

Nella prospettiva promossa dal governo Berlusconi questi primi interventi rimanevano dunque estranei a

una politica di riforma complessiva del sistema degli ammortizzatori sociali, più volte annunciata, ma mai

realizzata. Diversi esponenti della maggioranza di governo, a cominciare dal Ministro del Lavoro, valutavano

infatti tale sistema come sostanzialmente efficace, grazie sopratutto alla flessibilità d'intervento della cassa

integrazione e della mobilità. Il governo riteneva inoltre che la crisi mondiale si sarebbe assorbita in tempi

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relativamente brevi, o comunque avrebbe toccato solo in parte il nostro Paese, consentendo di affrontare

l'impatto occupazionale della recessione con strumenti temporanei di gestione straordinaria.

Con lo scoppio della tempesta finanziaria nell'estate del 2011, la situazione economico-finanziaria italiana

invece precipita rapidamente. A questo, come abbiamo detto, si accompagna anche una crisi politica con le

dimissioni di Berlusconi e la formazione di un nuovo governo presieduto da Monti.

La riforma delle politiche del lavoro (legge 92/2012) promossa da Elsa Fornero, neo ministro del Lavoro

dell'esecutivo di tecnici formatosi a fine 2011, prevede importanti novità anche in materia di sistema degli

ammortizzatori sociali. L'indennità di disoccupazione ordinaria è sostituita dall'introduzione

dell'Assicurazione sociale per l'impiego (Aspi), più generosa negli importi e nella durata rispetto al

precedente regime, fattasi eccezione per l'indennità di mobilità per la quale è comunque prevista

l'abrogazione a partire dal 1 gennaio 2017.

Anche in questo caso, il processo di riforma delle politiche italiane avviate dal governo Monti, conosce un

suo ulteriore approfondimento con l'adozione del Jobs Act promosso da Matteo Renzi. Tale riforma

procede infatti a un ripensamento del sistema delle indennità di disoccupazione, da poco modificato con la

legge 92/2012. Dal primo maggio 2015, viene infatti istituita la Nuova assicurazione sociale per l'impiego

(Naspi), prevedendo l'abbattimento dei requisiti contributivi e di anzianità assicurativa26. Si tratta di un

risultato importante perché, modificando le rigide condizioni di accesso previste in passato, dà vita per la

prima volta a un'unica indennità assicurativa a copertura quasi universale. La durata della nuova indennità

è pari alla metà delle settimane di contribuzione versate negli ultimi 4 anni, fino a un massimo potenziale di

24 mensilità, mentre per gli importi la nuova indennità, che segue le regole della vecchia Aspi, prevede una

progressiva riduzione nella misura del 3% per ogni mese di fruizione a partire dal quarto27.

A fianco della Naspi possiamo inoltre menzionare altre due novità. La prima riguarda l'introduzione di

un'indennità assicurativa riservata ai collaboratori a progetto (Dis-coll), di durata pari alla metà dei mesi di

contribuzione versati fino a un massimo di sei mensilità. Tale indennità offre una forma di tutela a una

categoria di lavoratori in precedenza coperta solo da una misura "una tantum" di importo limitato e

stingenti requisiti di accesso, anche se esclude, a differenza delle più recenti misure adottate in Spagna,

Grecia e Portogallo, altre categorie di lavoratori, come i detentori di partita iva in regime di

monocommittenza o pluricommittenza.

La seconda novità è l'introduzione di un Assegno di disoccupazione (Asdi), riservato alle persone in stato di

bisogno e prioritariamente ai lavoratori appartenenti a nuclei familiari con minorenni e a quelli in età vicina

al pensionamento. Al momento si tratta di uno schema di durata semestrale che eroga una somma pari al

26 Questi ultimi vengono portati rispettivamente a 30 giornate di lavoro effettive nei 12 mesi precedenti l'inizio del periodo di disoccupazione e 13 settimane di contributi versati negli ultimi quattro anni. 27 Questo fa sì che in alcuni mesi l'ammontare della Naspi possa essere inferiore a quello attualmente previsto dalla vecchia Aspi.

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75% dell'ultimo importo della Naspi ricevuto, fino a un ammontare non superiore all'assegno sociale (447

euro al mese nel 2014), più eventuali maggiorazioni. Tale schema ha comunque per ora una natura

sperimentale.

Infine, un'ultima novità riguarda il riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali in costanza

di rapporto di lavoro, vale a dire il sistema delle casse integrazione guadagni ordinaria e straordinaria (CIGO

e CGIS). Gli aspetti più salienti di tale provvedimento sono tre. In primo luogo, è prevista l'estensione dei

trattamenti di integrazione salariale, ordinaria e straordinaria, anche per le imprese che occupano

mediamente più di cinque dipendenti e per coloro che sono assunti con un contratto di apprendistato

professionalizzante. In secondo luogo, è stabilita la diminuzione della durata massima delle integrazioni

salariali a 24 mesi in un quinquennio (prorogabile per ulteriori 12 mesi in caso di utilizzo dei contratti di

solidarietà). Infine, viene introdotto un meccanismo di responsabilizzazione delle imprese, prevedendo un

incremento dei costi, sotto forma di contributo addizionale, al crescere dell'utilizzo della cassa integrazione.

L'obiettivo di tale provvedimento è dunque allargare la platea dei beneficiari e razionalizzarne l'utilizzo da

parte delle aziende, nel tentativo di valorizzare gli schemi di integrazione salariale come strumento

complementare e non sostitutivo delle indennità di disoccupazione.

Per quel che concerne invece le riforme delle indennità di disoccupazione negli altri Paesi sud europei, le

novità più rilevanti riguardano il Portogallo e la Grecia, dove vengono realizzati importanti tagli alla durata

e/o all'ammontare delle prestazioni.

In Portogallo, la generosità dei benefici previsti è stata significativamente ridotta attraverso la contrazione

della durata massima dei sussidi assicurativi (da 38 a 18 mesi), dei loro importi col passare del tempo e

l'imposizione di un tetto massimo. Un destino analogo è riservato al reddito sociale di inserimento (Rsi) 28, il

cui ammontare già esiguo (pari nel 2013 a meno di 3 euro al giorno) non è stato rivalutato con il passare

degli anni e l'aggravarsi della crisi.

Anche in Grecia le risposte alla crisi hanno portato a una contrazione della già limitata generosità dei sussidi

a causa della riduzione del salario minimo, a cui le indennità di disoccupazione sono agganciate. Sono stati

inoltre introdotti tetti alla durata dei sussidi rivolti ai lavoratori stagionali e agricoli (Petmesidou, 2013).

Minori novità si registrano in Spagna, che ha mantenuto sostanzialmente inalterato il suo sistema, con

l'eccezione di una diminuzione (dal 60 al 50%) del tasso di sostituzione previsto per le assicurazione di

disoccupazione dopo un periodo di sei mesi.

Accanto a questi interventi volti a contenere la spesa pubblica per l'assistenza ai disoccupati, al fine di

contrastare gli effetti della crisi, gli stessi paesi hanno cercato di ampliare, seppur parzialmente, la platea

dei potenziali beneficiari. Ad esempio, la soglia contributiva minima per l'accesso all'indennità assicurativa

28 Il Portogallo è l'unico paese mediterraneo ad aver introdotto uno schema nazionale di reddito minimo, adottato nel 1996.

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in Portogallo è stata abbassata, passando da un minimo di 15 a 12 mesi. Inoltre, i sussidi di disoccupazione

sono stati estesi ai lavoratori autonomi "economicamente dipendenti" (Ilo 2014). Provvedimenti analoghi a

favore dei lavoratori autonomi sono stati adottati anche in Spagna e Grecia. In Spagna, per contrastare gli

effetti della crisi occupazionale sono anche istituiti nel 2010 alcuni programmi di assistenza temporanea per

i disoccupati che hanno esaurito la possibilità di godere di altri sussidi assicurativi o assistenziali. Allo stesso

modo, in Grecia è prevista un ampliamento delle tutele per i sussidi assistenziali per i disoccupati di lungo

periodo; ciò nonostante, i tassi complessivi di copertura delle indennità elleniche rimangono

particolarmente bassi (Matsaganis, 2013, 2011). Ad aggravare la situazione concorre anche il fatto che in

Grecia non solo non esiste uno schema di reddito minimo nazionale, come in Italia e Spagna, ma nemmeno

schemi a livello locale, volti a contrastare il fenomeno della povertà. Dopo anni di inerzia, nell'autunno del

2014 è stato lanciato un progetto pilota per l'introduzione di misure di reddito minimo in alcune

municipalità. Tale iniziativa pare comunque essersi già arenata per via di una serie di difficoltà connesse alla

sua implementazione (Theodoropoulou, 2015).

Anche nel caso delle riforme dei sistemi di indennità di disoccupazione, è interessate esaminare se le

queste abbiano o meno compromesso la possibilità di individuare alcuni elementi comuni nel sistema degli

ammortizzatori sociali dei Paesi sud europei.

Nel loro complesso, le riforme realizzate hanno portato a una parziale convergenza nella generosità delle

indennità di disoccupazione derivante sopratutto dall'effetto congiunto della crescita della generosità delle

indennità di disoccupazione italiane e del contenimento di quelle portoghesi.

Per quanto riguarda il grado di "distintività", le distanze tra i valori medi dei paesi mediterranei e dei paesi

continentali sembrano invece mantenersi. Se consideriamo come misura della generosità dei sussidi i dati

relativi alla spesa procapite per ogni persona in cerca di lavoro, il margine di distacco tra paesi mediterranei

(compresi i paesi iberici) e quelli continentali (compresa la Germania) appare ancora visibile. I dati riportati

nella tabella 1 confermano infatti una delle caratteristiche tipiche del modello mediterraneo: la scarsa

generosità degli interventi di sostegno al reddito.

Tabella 1 Spesa per le politiche passive del lavoro procapite riferita alle persone in cerca di occupazione -

PPS

2008 2009 2010 2011 2012

Germania 4.656 6.111 6.275 5.393 5.564

Francia 6.782 6.657 6.865 6.820 6.773

Grecia 2.537 2.944 2.343 : :

Spagna 5.497 5.773 5.624 4.871 :

Italia 2.176 3.533 3.628 3.454 3.633

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Portogallo 3.845 4.150 4.125 2.754 2.798

Fonte: Eurostat, EU-LFS.

In sintesi, le riforme delle indennità di disoccupazione sono state caratterizzate da diverse direzioni di

marcia: tendenzialmente espansiva in Italia, di limitata contrazione in Spagna e di più netto taglio in

Portogallo e Grecia. L'effetto combinato di tali provvedimenti ha portato a una, seppur parziale, maggiore

coerenza interna al gruppo dei paesi mediterranei, sebbene sembra permanere in media una certa distanza

tra questi paesi e alcuni dell'Europa continentale, sopratutto per via della condizione di outliner della

Grecia.

3.3 Le riforme delle politiche del lavoro sud europee: alla ricerca di una stella polare

A partire dalla ricostruzione presentata nelle precedenti sezioni, è possibile osservare come, al netto di

alcune peculiarità nei processi di riforma nazionali, la traiettoria del cambiamento appare caratterizzata da

una chiara dominante "sottrattiva", vale a dire orientata al contenimento della spesa pubblica e

all'adozione di interventi di "retrenchment istituzionale".

Tutti e quattro i paesi esaminati hanno infatti intrapreso un percorso di contrazione delle tutele dei

lavoratori a tempo indeterminato e di flessibilizzazione e/o peggioramento delle condizioni di lavoro dei

dipendenti privati e pubblici. A dire il vero, come sottolineano Moreira et al. (2015), questo indirizzo di

riforma non ha riguardato solo l'area del sud Europa, ma anche numerosi altri paesi come la Repubblica

Slovacchia e il Belgio. Nell'Europa mediterranea, la giustificazione che ha prevalso a sostegno delle riforme

è la necessità di fronteggiare l'elevata segmentazione dei mercati del lavoro; le riforme realizzate si sono

però spinte verso una "de-segmentazione al ribasso" i cui effetti positivi sulla riduzione della condizione di

precarietà dei lavoratori e sulla crescita delle produttività sono ancora da dimostrare. Tali riforme

potrebbero infatti essere iscritte nell'ambito di un disegno di ricalibratura delle politiche, solo nel caso in

cui fossero accompagnate da un significativo calo delle assunzioni a termine e dal rafforzamento della

sicurezza sociale e delle opportunità di formazione continua.

Sul fronte delle indennità di disoccupazione assistiamo in Portogallo, Grecia e in misura minore in Spagna, a

una riduzione della generosità dei sussidi. A complemento di tale strategia sono stati adottati alcuni

provvedimenti volti ad ampliare la platea di possibili beneficiari: tali misure sembrano però configurarsi

come misure emergenziali e transitorie, più che come elementi di una strategia di ri-orientamento

strutturale degli strumenti di sostegno al reddito.

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La riforma del sistema delle indennità di disoccupazione in Italia potrebbe rappresentare una parziale

eccezione a questa tendenza30. L'istituzione prima dell'Apsi e mini-Apsi e successivamente della Naspi e

dell'Asdi può essere iscritta all'interno di un processo di catching-up, ovvero di tentata convergenza tra il

sistema degli ammortizzatori sociali italiano e le esperienze di altri paesi, come quello tedesco. Tale

percorso rimane però ancora incompleto per via del carattere sperimentale dell'Asdi e del permanere

dell'assenza di uno schema nazionale di reddito minimo.

Inoltre, se spostiamo lo sguardo al complesso degli ammortizzatori sociali, l'intervento di razionalizzazione

si è mosso sia in direzione di un parziale retrenchment delle politiche dovuto all'abrogazione dell'indennità

di mobilità a partire dal 2017 e al contenimento della durata delle Casse integrazioni guadagni, sia di

estensione permanente delle integrazioni al reddito a categorie di lavoratori in precedenza esclusi.

6. Comprendere le riforme delle politiche del lavoro nel sud Europa: spunti interpretativi

La crisi dei debiti sovrani e la concomitante recessione economica accompagnata dalle drammatiche

ripercussioni sul mercato del lavoro rappresentano i principali fattori che hanno concorso ad accendere la

"miccia" delle riforme nei paesi dell'Europa mediterranea. Come abbiamo argomentato nella seconda

sezione, il processo di cambiamento per potersi dipanare necessita comunque di un valido "combustibile",

ovvero di soluzioni in termini di quadri interpretativi e valoriali, idee e strumenti a disposizione dei decision-

makers, e di un "tiraggio" adeguato, affinché le riforme possano essere effettivamente avviate e realizzate.

Per quanto concerne il combustibile, il riferimento principale va a quei fattori che hanno rafforzato la

"capacità di spinta" (push capacity) alle riforme. In tal senso, un ruolo fondamentale è stato giocato dalle

indicazioni provenienti dalle autorità sovranazionali, in primis la Commissione europea (DG Ecofin), la Banca

centrale europea e il Fondo monetario internazionale. Nel caso della Grecia e del Portogallo, tali richieste

hanno raggiunto un elevato grado di formalizzazione, essendo state ricomprese negli accordi finanziari (i

memorandum of undertanding) siglati dai rispettivi esecutivi e la cosiddetta "troika". Nel caso della Spagna

e dell'Italia, le indicazioni sono invece pervenute seguendo canali meno formali, ma non per questo meno

efficaci.

Tale capacità di spinta alle riforme (push capacity) si è mostrata particolarmente efficace per via di alcune

caratteristiche che hanno contrassegnato le indicazioni impartite dalle istituzioni sovranazionali.

Innanzitutto, le richieste provenienti dall'Unione europea e dal Fmi hanno mostrato un elevato grado di

specificità e chiarezza (determinacy) rispetto a quanto occorreva fare e alla "posta in gioco", ovvero alle

sanzioni in caso di mancato adempimento. I margini di manovra interpretativi concessi ai governi nazionali

sono stati infatti relativamente limitati e/o difficilmente negoziabili, a differenza di quanto avveniva per le

linee guida elaborate nell'ambito dei processi di coordinamento aperto in materia occupazionale.

30 In merito ad alcuni aspetti critici di questa riforma si rinvia a Vesan (2015) e Raitano (2015).

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Un secondo aspetto che ha inciso sulla capacità di spinta alle riforme riguarda la crescita del livello di

credibilità delle condizioni concordate dai governi nazionali con le istituzioni sovranazionali. Tale credibilità

rafforzata è riconducibile sostanzialmente alla marcata asimmetria di potere tra le parti contraenti. Se

infatti l'asimmetria di potere è connaturale a qualsiasi esercizio di condizionalità, il suo livello - come

abbiamo visto nella seconda sezione - dipende da una pluralità di fattori. Fra questi possiamo menzionare:

la consistenza effettiva degli incentivi veicolati sotto forma di premio o scampata sanzione, la prossimità

temporale degli effetti prodotti da tali incentivi e la capacità di monitoraggio e verifica puntuale e

continuativa del rispetto delle prescrizioni. I primi due elementi (la consistenza degli incentivi e il loro

rapido dispiegarsi) hanno costituto un elemento costante dei processi di riforme delle politiche del lavoro

durante la crisi in tutti e quattro i casi presi in esame: direttamente o indirettamente l'adozione di

determinate misure era connessa alle politiche di salvataggio finanziario da attuare in tempi serrati.

Allo stesso tempo, l'effettiva esecuzione delle riforme è stata sottoposta a pressanti controlli da parte delle

autorità sovranazionali durante l'iter processuale della loro adozione e la loro effettiva attuazione. In

passato, la realizzazione di cicli iterativi di analisi e valutazione delle riforme nazionali in seno ai metodi

aperti di coordinamento nell'ambito delle politiche sociali e del lavoro aveva già potenziato la capacità di

screening da parte delle istituzioni europee (in particolare la Commissione) (Goetschy, 2003). Ma tali

modalità di coordinamento soft e non gerarchico avevano finora esercitato una pressione relativamente

debole, i cui effetti erano lasciati al "volontarismo" degli attori domestici, chiamati a seguire linee guide e

raccomandazioni svincolate da puntuali e concreti incentivi attivabili nel breve periodo (Schäfer and Leiber,

2009; Streeck, 1995).

Accanto ai fattori che hanno potenziato la capacità di spinta alle riforme occorre considerare un secondo

elemento, ovvero la capacità di "tiraggio" di quest'ultime (pull capacity).

Un primo elemento che ha contribuito a rafforzare la capacità di "tiraggio" è l'assenza di una forte

dissonanza cognitiva tra le proposte di policy di matrice neoliberista formulate dalla troika e gli

orientamenti dei leader domestici al potere. I governi nazionali hanno infatti giocato un ruolo proattivo,

avvallando le ricette riformiste promosse dalle autorità sovranazionali e legittimandole come interventi

ritenuti non solo necessari, ma anche appropriati.

Un aspetto interessante è che, nonostante alcune variazioni sul tema, le politiche di austerità e di

liberalizzazione del mercato del lavoro adottate durante la crisi sono state realizzate da governi sostenuti

da maggioranze di diverso orientamento politico o da ampie coalizioni trasversali (Armingeon e Baccaro,

2012). Al fine di promuovere le riforme, tali governi hanno combinato strategie di blame avoidance e di

credit claiming (Bonoli, 2012).

Per quanto concerne la blame avoidance, l'appello allo "stato di necessità e urgenza", ovvero alla narrativa

del "non ci sono alternative" (il thacheriano "TINA"), è risultato un elemento ricorrente sopratutto nelle fasi

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più acute della crisi (León et al., 2015). In misura minore, ma pur sempre significativa, si è fatto ricorso alla

stratagemma del "capro espiatorio", volto a identificare nei sindacati e in alcune corporazioni una delle

con-cause del problema, accusandoli di ostacolare assieme al processo decisionale anche le possibilità di

ripresa.

Come sottolineato da Leon e Pavolini (2015), queste strategie di "blame avoidance" non sono però state

accompagnate da ciò che Pierson (2001) ha chiamato un "path of least resistance", ovvero dal tentativo di

far gravare il peso delle riforme principalmente su categorie più marginali o di procrastinare gli effetti delle

riforme. Al contrario, le riforme delle politiche del lavoro hanno interessato direttamente categorie centrali

nel mercato del lavoro, quali i lavoratori a tempo indeterminato, e politicamente salienti, come i dipendenti

della pubblica amministrazione.

Ciò è stato possibile non solo per via della forte "spinta alle riforme" derivante dai condizionamenti

internazionali, ma perché le strategie di blame avoidance sono state spesso accompagnate da strategie di

credit claiming tale per cui il loro intreccio è divenuto via via più complesso. I governi nazionali hanno infatti

esplicitamente promosso le riforme avviate come una cura efficace per recuperare credibilità e

competitività a livello internazionale. In tal senso, è anche possibile rileggere criticamente l'ipotesi di

intrusione dell'Unione europea nelle politiche nazionali fatta propria da una parte della letteratura

(Theodoropoulou, 2015). Qualora tale "intrusione" si sia realizzata, quest'ultima è stato perlomeno

facilitata da attori nazionali che l'hanno assecondata, se non "sfruttata" a proprio vantaggio, nonché

sostenuta da "comunità epistemiche" composte da esperti e alti funzionari che hanno visto in questa la

possibilità di rafforzare la propria legittimità.

Un secondo elemento che ha inciso positivamente sulla "pull capacity" riguarda la presenza di una solida

"coalizione di blocco" alle riforme. Negli anni più acuti della crisi, le cosiddette veto possibilities sono

apparse relativamente deboli sia con riferimento ai sindacati, sia alle opposizioni politiche. Alcuni

importanti tentativi di mobilitazione sociale contro le riforme sono stati realizzati sopratutto in Portogallo,

Grecia e Spagna e, allo stesso tempo, è possibile registrare una crescita delle formazioni partitiche che

hanno costruito una parte del loro consenso intorno a programmi "anti-austerità". Ciò nonostante, la

resistenza alle riforme da parte dei potenziali "veto players" si è rivelata incapace di mettere seriamente in

discussione l'operato dei governi nel momento in cui questi si accingevano a varare provvedimenti anche

fortemente impopolari. E anche quando i partiti al governo hanno visto calare sensibilmente i loro consensi

fino a risultare sconfitti alle elezioni, i loro successori hanno di fatto continuato a implementare le stesse

politiche di austerità. In altre parole, le conseguenze sociali della recente crisi economica e la realizzazione

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di politiche di "austerità estrema" non ha portato al consolidamento di uno o più "coalizioni di blocco" in

grado di soppiantare i governi in carica con una proposta radicalmente alternativa 33.

Non solo la capacità dei veto players di ostacolare il processo di riforma attraverso i tipici strumenti di lotta

e mobilitazione sociale, ma perfino la possibilità di condizionarlo attraverso i canali della cooperazione e

della negoziazione è apparsa limitata. Anche se i paesi mediterranei, seppur con le dovute differenze, non

hanno mai potuto vantare una forte tradizione neocorporativa, la prassi del dialogo sociale, che aveva

accompagnato alcuni dei precedenti tentativi di modernizzazione delle politiche sociali in Portogallo, Italia e

Spagna, è stata largamente estranea ai più recenti processi di riforma o, nel migliori dei casi, limitata ad

"accordi di concessione" (concessionary agreements) destinati ad addolcire gli aspetti più radicali delle

proposte di riforma (Armingeon e Baccaro 2012; Petmesidou and Glatzer, 2015). Per di più, i governi

nazionali hanno proceduto ad adottare politiche di "svalutazione interna" (Armingeon and Baccaro, 2012)

che hanno minato lo stesso "potere" dei sindacati nel sistema di relazioni industriali, rafforzando la

controparte datoriale.

Al di là alla debolezza dei veto players, è possibile notare come la capacità di "tiraggio" delle riforme non

derivi automaticamente dal richiamo allo "stato di necessità e urgenza" delle riforme, ma da altri fattori

concomitanti che hanno rinsaldato l'efficacia stessa di tale richiamo.

In primo luogo, osserviamo una crescita della concentrazione del potere decisionale degli esecutivi, a

dispetto di altri attori presenti nell'arena nazionale (León et al., 2015; Sotiropoulos 2015). Già negli anni

precedenti alla "Grande recessione", si era assistito a un graduale rafforzamento del potere dei capi degli

esecutivi e dei ministri delle Finanze, ovvero dei due soggetti istituzionali chiamati direttamente a

interloquire con gli attori sovranazionali. Ciò era avvenuto anche attraverso il potenziamento delle funzioni

di programmazione strategica, di coordinamento inter-ministeriale e di monitoraggio esercitato dallo staff

alle loro dirette dipendenze (Fabbrini 2000; Sotiropoulos 2015). A seguito dello scoppio della crisi dei debiti

sovrani e con l'intensificarsi della natura intergovernativa dei processi decisionali europei, la tendenza al

rafforzamento dei vertici del governo, a danno di altri attori domestici, ha conosciuto un'ulteriore

accelerazione. I principali partiti politici, spesso riuniti in "grandi coalizioni" a sostegno degli esecutivi

nazionali, così come i maggiori sindacati, si sono ritrovati di fronte a un'alternativa che lasciava in realtà

pochi margini di scelta: opporsi alle politiche di austerità, assumendosi la responsabilità dei severi

contraccolpi che sarebbero derivati dai mancati aiuti finanziari internazionali, oppure accettare di sostenere

l'azione portata avanti da "governi dell'emergenza", rispondenti più alle autorità sovranazionali che ai loro

elettori.

33 L'esperienza più avanzata in tal senso è certamente quella Greca, con la vittoria di Syriza guidato dal suo leader Alexis Tsipras. Anche in questo caso, nonostante un ampio consenso raccolto intorno a un programma di governo inteso a respingere le più drastiche misure di austerità richieste dalla troika, il governo ellenico ha alla fine dovuto accogliere le nuove dure condizioni connesse al terzo memorandum of understanding firmato nel 2015.

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In questa condizione di "stato di crisi", l'unico, seppur parziale, contropotere è stato rappresentato

dall'intervento delle Corti supreme che, in alcuni casi, hanno rimesso in discussione le scelte operate dagli

esecutivi. Il caso più lampante è quello del Portogallo, ma alcuni esempi sono riferibili anche con

riferimento alla Corte costituzionale greca e italiana .

Un ultimo aspetto connesso al rafforzamento della pull capacity concerne la capacità delle amministrazioni

pubbliche. In questo caso, i paesi mediterranei mostrano burocrazie spesso descritte come inefficaci e

inadatte a far fronte alle sfide della modernizzazione. Ad ogni modo, a partire dalla metà degli anni novanta

numerose riforme sono state realizzate, al fine di rafforzare la capacità d'intervento degli apparati pubblici.

Al di là dei diversi effetti prodotti da queste riforme nei Paesi mediterranei, le politiche di austerità hanno

contratto in maniera significativa la spesa in conto corrente e conto capitale delle pubbliche

amministrazioni, rallentando fortemente il tentativo di modernizzazione degli apparati e di potenziamento

delle capacità di erogazione dei servizi. Tale effetto è ben visibile ad esempio con riferimento agli apparati

burocratici a livello regionale e locale chiamati a implementare le politiche attive del lavoro e i servizi socio-

assistenziali.

In conclusione, la concentrazione del potere decisionale favorita dalla contingenza della crisi e dalle

pressanti richieste delle autorità sovranazionali ha accelerato il processo di cambiamento sopratutto negli

ambiti di diretta attuazione, come la disciplina dei rapporti di lavoro e della tutela dei redditi. Laddove

invece l'effettiva realizzazione delle riforme è subordinata all'implementazione da parte di servizi efficienti

ed efficaci, la crisi economica ha semmai rappresentato un ostacolo in più nella realizzazione del percorso

di riforma.

Conclusioni

A partire dalla metà degli anni novanta, i Paesi mediterranei hanno avviato un processo di profonda

ristrutturazione delle politiche del lavoro che ha conosciuto una significativa accelerazione dopo il 2010, a

seguito della crisi dei debiti sovrani dell'area euro. Le riforme adottate hanno avuto importanti

conseguenze non solo sulle traiettorie di policy all'interno dei singoli paesi, ma anche con riferimento alla

possibilità di continuare a individuare alcuni tratti comuni alle politiche del lavoro sud europee.

Le somiglianze interne alla famiglia mediterranea si sono infatti in parte rafforzate, ma la direzione assunta

dal processo di convergenza interna ha attenuato le distanze fra il modello mediterraneo e quello

continentale. Ciò vale sopratutto per la disciplina dei rapporti di lavoro, mentre alcune differenze sembrano

permanere sul fronte dei sussidi di disoccupazione, anche se vanno inquadrate in seno a un percorso di

progressiva convergenza.

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in questo paper abbiamo proposto anche un quadro interpretativo delle riforme realizzate in Italia, Spagna,

Portogallo e Grecia, adattando il cosidetto "push-and-pull model", diffuso in particolare nella letteratura

sulle politiche migratorie e sui processi di europeizzazione.

La recente ondata di riforme può essere infatti intesa come il frutto dell'intreccio tra fattori che

contribuiscono a rafforzare la capacità di spinta dall'esterno al cambiamento, influenzando contenuti e

processi del policy change, e fattori che hanno potenziato la capacità di "tiraggio" di quest'ultimo a livello

domestico. Un intreccio che è stato possibile grazie all'innesto fornito dalla crisi economico-finanziaria.

Come abbiamo visto nelle precedenti sezioni, la maggiore capacità di spinta alle riforme sembra trovare

fondamento in una razionalità di tipo strumentale, che opera attraverso l'elargizione di premi o mancate

sanzioni. Tale "spinta rafforzata" è infatti dipesa dalla più stringente condizionalità imposta dagli attori

sovranazionale e dagli strumenti e i processi della nuova governance economica europea. Al contrario, ciò

che appare indebolito è la "push capacity" di natura normativo-valoriale, che in passato discendeva dalla

forza legittimante dell'Unione europea. Nei paesi mediterranei, il richiamo all'Europa anche come

opportunità di miglioramento e progresso sociale aveva infatti giocato un ruolo importante nei "discorsi

comunicativi" (Schmidt, 2008) a sostegno delle riforme avviate tra la fine degli anni novanta e i primi anni

duemila (Ferrera and Gualmini, 2000; Guillen e Alvarez 2004). A partire della scoppio della crisi economica

e a fronte della crescita dell'euroscettismo, la retorica del "ce-lo-chiede-l'Europa", che ha accompagnato

l'adozione politiche di austerità nei paesi mediterranei, ha invece portato le elite politiche nazionali a

raffigurare le riforme per lo più come una medicina amara "per sopravvivere", a fronte della quale non

c'erano valide alternative. Il risultato complessivo è stata una perdita netta del consenso dell'opinione

pubblica nei confronti della membership europea sia sotto il profilo della legittimità dell'ouput (dove al

contrario va affermandosi l'immagine di un'Europa non più in grado di garantire prosperità e crescita), sia

dell'input (dove le decisioni adottate a livello sovranazionale appaiono sempre più come vincoli indebiti che

mettono in discussione la possibilità di compiere libere scelte democratiche a livello nazionale).

Le pressioni "esterne" alle riforme sono state inoltre accompagnate da una maggiore "push capacity"

dovuta ad alcune specifiche condizioni del contesto politico domestico. In particolare, possiamo osservare

un sostanziale avvallo da parte delle elite politiche nazionali della ricetta di policy definita dalla troika. Allo

stesso tempo, lo "stato di crisi" ha finito col disarmare le possibili "coalizioni di blocco" alle riforme,

portando viceversa a un ultra-rafforzamento della capacità decisionale degli esecutivi.

Per quanto comunque un simile rafforzamento della "push capacity" dovuto alla caratteristiche intrinseche

delle "condizioni" fissate a livello sovranazionale possa essere considerato come una conseguenza della

congiuntura economico-finanziaria, non è detto che esso rappresenti solo un fenomeno transitorio. Al

contrario, diversi segnali puntano in direzione di una sua possibile stabilizzazione ed estensione. Negli anni

della crisi, la "credibilità rafforzata" dei condizionamenti sovranazionali è stata istituzionalizzata attraverso

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l'adozione di nuovi strumenti e procedure di governance economica a livello europeo che sanciscono, a

fronte della possibilità di comminare sanzioni, un'inedita asimmetria di potere delle istituzioni europee,

anche in settori di policy in cui non vi è alcuna diretta cessione di competenze da parte degli Stati membri35.

Allo stesso tempo, questa situazione potrebbe portare a una progressiva normalizzazione dello stato di

"governo dell'emergenza" a livello nazionale, con severe ripercussioni sulla qualità, se non perfino sulla

tenuta, del compromesso democratico nei paesi più periferici dell'Unione europea.

35 Per una panoramica generale delle trasformazioni in atto della governance europea si rimanda al numero speciale Comparative European Politics (1/2015), curato da Halpern e Graziano.

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