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LE DIRETTIVE DELLA REGIA MARINA PER LA REPRESSIONE DELLA TRATTA DEGLI SCHIAVI CIRO PAOLETTI Il commercio degli schiavi è una pratica antichissima, che gli Europei cominciarono a interrompere solo nel XIX secolo, quando la rivoluzione industriale ridusse la necessità di manodopera tanto da permettere agli scrupoli filantropici di farsi sentire più degli interessi economici. Nonostante questo, l’abolizione dello schiavismo fu lunga e non facile, visto che restò in vigore negli Stati Uniti fino alla fine della Guerra di Secessione, nel 1865, e in Brasile fino addirittura agli anni ’80 del medesimo secolo. Una delle zone del mondo in cui fu più duro a morire fu anche uno dei due teatri marittimi extraeuropei in cui la Regia Marina operava stabilmente: il Mar Rosso e la costa orientale dell’Africa. Infatti nella seconda metà dell’Ottocento la schiavitù resisteva in Etiopia, dove sarebbe stata abolita solo coll’occupazione italiana del 1936, e nella Penisola Arabica, e i mercati di schiavi più fiorenti erano in Sudan e a Zanzibar. Il traffico di esseri umani, monopolio degli Arabi, cominciava nelle zone interne del Continente. I villaggi venivano assaliti dai guerrieri di altri villaggi o di altre tribù o, più raramente, dagli stessi mercanti di schiavi. I prigionieri, incatenati e incolonnati, erano poi condotti alla costa e imbarcati per il mercato più vicino, da dove erano smistati, a seconda degli acquirenti, verso altre zone dell’Africa, o verso l’Arabia, che poteva essere raggiunta solo per mare. Finché il Sudan era stato dominio ottomano, la presenza degli schiavisti vi era stata tollerata; quando era passato sotto il Kedivé d’Egitto, erano stati fatti tentativi per stroncarla o, almeno, ridurla.

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LE DIRETTIVE DELLA REGIA MARINA

PER LA REPRESSIONE DELLA TRATTA DEGLI SCHIAVI

CIRO PAOLETTI

Il commercio degli schiavi è una pratica antichissima, che gli Europei cominciarono a interrompere solo nel XIX secolo, quando la rivoluzione industriale ridusse la necessità di manodopera tanto da permettere agli scrupoli filantropici di farsi sentire più degli interessi economici. Nonostante questo, l’abolizione dello schiavismo fu lunga e non facile, visto che restò in vigore negli Stati Uniti fino alla fine della Guerra di Secessione, nel 1865, e in Brasile fino addirittura agli anni ’80 del medesimo secolo.

Una delle zone del mondo in cui fu più duro a morire fu anche uno dei due teatri marittimi extraeuropei in cui la Regia Marina operava stabilmente: il Mar Rosso e la costa orientale dell’Africa. Infatti nella seconda metà dell’Ottocento la schiavitù resisteva in Etiopia, dove sarebbe stata abolita solo coll’occupazione italiana del 1936, e nella Penisola Arabica, e i mercati di schiavi più fiorenti erano in Sudan e a Zanzibar.

Il traffico di esseri umani, monopolio degli Arabi, cominciava nelle zone interne del Continente. I villaggi venivano assaliti dai guerrieri di altri villaggi o di altre tribù o, più raramente, dagli stessi mercanti di schiavi. I prigionieri, incatenati e incolonnati, erano poi condotti alla costa e imbarcati per il mercato più vicino, da dove erano smistati, a seconda degli acquirenti, verso altre zone dell’Africa, o verso l’Arabia, che poteva essere raggiunta solo per mare.

Finché il Sudan era stato dominio ottomano, la presenza degli schiavisti vi era stata tollerata; quando era passato sotto il Kedivé d’Egitto, erano stati fatti tentativi per stroncarla o, almeno, ridurla.

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Nella seconda metà degli anni ’70, il generale britannico Gordon e l’italiano Romolo Gessi erano stati duramente impegnati per conto del governo egiziano contro gli schiavisti operanti nel Darfur, cioè nel Sudan meridionale. Contestualmente, il 4 agosto del 1877 la Gran Bretagna aveva stipulato coll’Egitto una convenzione per la repressione e la distruzione della tratta degli schiavi.( 1) Comparsa l’Italia in Mar Rosso,( 2) il Governo del Re si era affrettato ad accedere alla convenzione, firmandone lo strumento il 21 dicembre 1885 al Cairo.( 3)

Un anno e mezzo dopo, il 7 luglio 1887, il conte Pietro Antonelli, inviato del Regio Governo Italiano, aveva firmato con Ahmed Sanfari, sultano dell’Aussa, un trattato per la repressione del commercio degli schiavi, con cui il sultano si impegnava ad abolirlo nei suoi dominii e ad impedire il transito alle carovane negriere. Infine nel 1889 altri due atti avevano completato il quadro normativo di riferimento: il Trattato di Uccialli, fra Italia ed Etiopia – che all’articolo XIV vedeva l’impegno del negus Menelik a impedire il commercio degli schiavi, in modo che nessuna carovana potesse traversare i suoi Stati, poiché la tratta era “contraria ai principii della religione cristiana” – e la convenzione anglo-italiana “fatta a Londra, il 14° giorno di settembre dell’anno di Nostro Signore mille ottocento ottantanove”, per la repressione della tratta degli schiavi.

(1) Convention entre le Gouvernement de la Grande Bretagne et le Gouvernement de l’Egypte du 4 aout 1877, pour la suppression du trafic des esclaves, fatto ad Alessandria d’Egitto, il 4 agosto 1877, a firma C. Vivian e Chérif, in sette articoli e un annesso, rip. in Manuale sulla repressione della tratta degli schiavi – istruzioni e notizie per gli ufficiali della R. Marina, Roma, Bertero, 1894, p. 114 ss.

(2) L’Italia aveva avuto riconosciuto dalla Gran Bretagna il possesso della Baia di Assab e il pretesto per l’allargamento dell’occupazione fu il massacro della spedizione di Gustavo Bianchi, assalito e ucciso dai Dancali nella notte dal 7 all’8 ottobre 1884, nella regione di Harak. L’impressione in Italia fu enorme; il Governo, timido e irresoluto quanto tutti i precedenti e molti dei successivi, si decise a far sbarcare il tenente colonnello Saletta con 800 bersaglieri a Massaua, occupandola il 5 febbraio 1885 ed espellendone gli Egiziani. Sostenuti da una divisione navale di ben 15 unità fra maggiori e minori al comando del contrammiraglio Pietro Caimi, gli Italiani proclamarono il protettorato sulla costa da Assab a Massaua e come sulle isole delle baie di Assab ed Amfilé e sulle Dàhalac, poi, il 15 novembre 1885, il generale Gené assunse tutti i poteri civili e militari dei “Possedimenti italiani del Mar Rosso”, che solo col Regio Decreto 6592 dal 1° gennaio 1890 sarebbero divenuti la “Colonia Eritrea.”

(3) “Dichiarazione d’accessione dell’Italia alla Convenzione anglo-egiziana del 4 agosto 1877”, fatto al Cairo il 21 dicembre 1885, a firma G. De Martino, H. Drummond Wolff, N. Nubar, rip. in Manuale sulla repressione della tratta degli schiavi – istruzioni ..., cit., p. 113 sg.

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Già così, ce ne sarebbe stato a sufficienza, ma l’anno seguente a Bruxelles parecchie Nazioni sottoscrissero un accordo per la repressione della tratta degli schiavi( 4) e anche queste direttive vennero recepite dal Regio Governo,( 5) che le passò alla Regia Marina perché le attuasse.

Come? Il Ministero pubblicò istruzioni sotto forma di manuale per gli ufficiali( 6) e abbondò in fonti riportate, ordini e dettagli, stabilendo innan-zitutto chi e dove se ne dovesse occupare: “Le navi da guerra della stazione del mar Rosso sono incaricate della repressione della tratta degli schiavi, per mare …”.( 7) Quale mare? Pronta risposta: “La zona di mare nella quale deve essere repressa la tratta ha per limiti, da un lato le coste dell’oceano Indiano, comprese quelle del golfo Persico e del mar Rosso, dal Beluchistan fino alla punta di Tangalane (Quilimane), dall’altro una linea convenzionale che segue da principio il meridiano di Tangalane fino all’incontro col 26° grado di latitudine Sud, si confonde quindi con questo parallelo, poi volgendo a Nord, corre parallelamente alla costa orientale e settentrionale dell’isola di Madagascar a 20 miglia di distanza da quella, finché non interseca il meridiano di Capo Ambra, dal quale punto volge obliquamente verso la costa del Beluchistan, passando 20 miglia al largo di Ras el Had. Per le navi di questa stazione però l’incarico di reprimere la tratta sarà in generale limitato alla costa del mar Rosso”.( 8)

Le navi avrebbero dovuto sorvegliare i bastimenti sospetti, specie se indigeni, dando la caccia e catturando quelli colti in flagrante; sottoporre a

(4) Acte Général de la Conférence de Bruxelles pour la répression de la traite des esclaves, fait à Bruxelles, le deuxième jour du mois de juillet mil huit cent quatre-vingt-dix, cioè «il secondo giorno del mese di luglio del 1890», rip. in Manuale sulla repressione della tratta degli schiavi – istruzioni ..., cit., p. 49 ss. L’Atto fu ratificato da Impero d’Austria e Regno d’Ungheria, Regno dei Belgi, Stato Indipendente del Congo (che all’epoca era una proprietà privata del Re dei Belgi), Regno di Danimarca, Repubblica Francese, Impero di Germania, Regno della Gran Bretagna e Irlanda, Regno d’Italia, Regno dei Paesi Bassi, Impero di Persia, Regno del Portogallo, Impero Russo, Regno di Spagna, Stati Uniti d’America, Regno di Svezia e Norvegia, Impero Ottomano, Sultanato di Zanzibar. La Francia lo ratificò solo parzialmente, l’Egitto venne considerato firmatario in quanto aveva già sottoscritto la convenzione del 1887.

(5) Con la legge n. 377 del 13 luglio 1892, “che dà piena ed intera esecuzione all’Atto generale della Conferenza di Bruxelles per la repressione della tratta degli schiavi”, fatto a Monza, il 13 luglio 1892, a firma S.M. Umberto I e S.E. il ministro Benedetto Brin.

(6) Ministero della Marina, Manuale sulla repressione della tratta degli schiavi – istruzioni ..., cit.

(7) “Istruzioni per la repressione della tratta”, Manuale sulla repressione della tratta degli schiavi ..., cit., p. 7, art. 1.

(8) “Istruzioni per la repressione della tratta”, cit., art. 2, p. 7 sg.

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Copertina del Manuale sulla re-pressione della tratta degli schiavi, pubblicato nel 1894 dal Ministero della Marina. visita delle carte di bordo e, nel caso di legni indigeni, anche di quelle di carico, tutti i bastimenti incontrati in aree sospette o dei quali si so-spettava potessero esercitare la trat-ta. Per bastimenti indigeni si inten-devano quelli che presentavano “i caratteri esterni di costruzione e di attrezzatura indigena” e avevano il capitano e la maggior parte del-l’equipaggio originari dei Paesi rivieraschi del Mar Rosso, del Golfo Persico e dell’Oceano Indiano. Que-sti, di solito sambuchi,( 9) andavano sorvegliati rigorosamente perché,

date le loro caratteristiche nautiche, potevano arrivare fino a riva e sfuggire alla caccia delle unità europee. Si stabiliva poi, quanto alle carte di bordo, che: “Tutti i bastimenti indigeni appartenenti a uomini di colore stabiliti nella colonia Eritrea e con equipaggio della stessa origine, esercitanti il traffico sulla costa sottoposta alla giurisdizione italiana e nelle isole adiacenti, devono essere muniti dell’atto di nazionalità, il quale dà loro il diritto ed il dovere di inalberare la bandiera italiana”.( 10)

L’atto di nazionalità veniva rilasciato dal governatore della Colonia, conteneva tutte le indicazioni necessarie a identificare la nave e il proprietario,

(9) Il sambuco – detto anche dhow in inglese, come traslitterazione dell’arabo daw – è un’imbarcazione a uno o due alberi e vele latine, capace di portare, secondo le dimensioni, da 12 a 30 persone e con un dislocamento da 20 a 300 t. La Convenzione di Bruxelles non faceva esplicita menzione dei sambuchi, ma più genericamente prescriveva di limitare la sorveglianza alle navi di dislocamento non superiore alle 500 t.

(10) “Istruzioni per la repressione della tratta”, cit., art. 7, p. 9.

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1894. La carta della zona ma-rittima in cui doveva essere applicato l’Atto generale della Convenzione di Bruxelles. andava rinnovato ogni anno ed era un foglio redatto in italiano con la traduzione completa in arabo sul verso. Oltre all’atto di nazionalità, il bastimento doveva avere un ruolo dell’equipaggio, rilascia-to dalla capitaneria di porto di Massaua o dalla delegazione di porto di Assab e, nel caso di tra-sporto di passeggeri, doveva averne un secondo, parimenti rilasciato dalle autorità por-tuali del luogo d’imbarco e vistato dalle corrispondenti autorità in tutti i punti d’ap-prodo, sia all’arrivo sia alla partenza.( 11) Anche questo, co-me l’atto di nazionalità, an-dava rinnovato ogni dodici mesi e a ogni nuovo arma-mento della nave. Quest’ul-tima, per piccola che fosse, doveva sempre avere “sulla

(11) Le autorità di porto nei 18 fra porti, approdi e sorgitori erano: a Taclai, il comandante del posto armato degli Habab; a Emberemi, il locale sceicco Aba el Kader; a Massaua il capitano di porto; ad Archico, il delegato di porto; alla fornace di Gheddam, il signor Trusnich; a Zula, Mohamed Zebibi; ad Arafali, Mahmud nold Mohamed; a Macan-lile il negus Mohamed Gheder; ad Arena Muriscia, Mohamed Ambis; a Meder, Gaas Mohamed; a Edd, Eddu Mahmud; a Beilul, Hussein Achitu; ad Assab il delegato di porto; a Raheita, Hummed Dini; a Nocra, nell’arcipelago delle Dàhalac, il delegato di porto; a Dissè, Mohamed Ibrahim; a Baca, Saleh Hamed; a Hanachil, Omar Hassan.

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poppa il nome e l’indicazione del tonnellaggio e delle vele, le iniziali del porto di iscrizione e il numero di registrazione”.( 12)

Infine, un bastimento indigeno, appartenente a una delle Potenze firmatarie dell’Atto generale della Convenzione di Bruxelles, che si trovasse a navigare fuori delle sue acque territoriali, doveva avere anche l’atto di autorizzazione di bandiera, oltre al ruolo d’equipaggio e del manifesto dei passeggeri “se hanno a bordo di passaggio uomini di colore”, per essere sicuri che non fossero schiavi cui erano state tolte le catene subito prima della visita. Ad ogni modo i bastimenti non originari della Colonia potevano approdare solo in 14 dei 18 approdi eritrei,( 13) pur avendo il permesso di prendere terra in tutte le isole “per iscopo commerciale”, ma a condizione d’aver fatto prima vistare le carte di bordo dalla delegazione di porto di Nocra. Si faceva eccezione “per quei bastimenti indigeni i cui proprietari ed equipaggi hanno le loro famiglie lungo la costa. Tali bastimenti potranno con un permesso rilasciato dalla Capitaneria di porto di Massaua, o dalla delegazione di Assab, secondo i casi, restare ancorati in vicinanza delle abitazioni del rispettivo equipaggio”.( 14)

A terra le autorità portuali dovevano verificare le carte di bordo all’arrivo e alla partenza, apponendovi un visto dopo averne constatato la regolarità, e vigilavano “sull’imbarco di uomini di colore destinati a far parte dell’equipaggio, o dei passeggieri”,( 15) sempre per esser certi che non fossero in realtà schiavi.

Chiaramente con prescrizioni tanto precise riguardo ai luoghi e alle condizioni di sbarco, diveniva subito sospetto chi non le osservava, per cui “l’imbarco o lo sbarco di uomini di colore in punti della costa diversi da quelli stabiliti all’articolo 14 autorizzano il sospetto di tratta sopra il bastimento che li esegue. Le navi da guerra dovranno in questi casi dar la caccia e procedere senz’altro alla cattura del bastimento colto in flagrante. 19. – Le regie navi in crociera lungo la costa per la repressione della tratta, od incaricate di qualunque altra missione, hanno l’obbligo imprescindibile d’impedire ogni tentativo di approdo in luoghi differenti da quelli stabiliti, anche se l’approdo si tenti per ragioni di traffico”.( 16)

Se poi si sorprendeva “un bastimento indigeno nel momento di tentare od eseguire lo sbarco o l’imbarco di uomini di colore od anche del carico, in punti della costa diversi da

(12) Manuale sulla repressione della tratta degli schiavi ..., cit., art. 11, p. 10 sg. (13) L’articolo 14 delle “Istruzioni per la repressione della tratta” consentiva

l’approdo a Taclai, Emberemi, Massaua, Archico, alla fornace di Gheddam, Zula, Arafali, Macanlile, Arena Muriscia, Meder, Edd, Beilul, Assab, Raheita “e nelle varie isole”.

(14) Ibidem, art. 15, p. 12. (15) Ibidem, art. 17, p. 13. (16) Ibidem, art. 18 e 19, p. 14.

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quelli stabiliti”,( 17) il comandane della nave da guerra doveva procedere “alla cattura del bastimento colto in flagrante conducendolo nel porto di Massaua, od in quello di Assab secondoché sia più vicino all’uno o all’altro porto”.( 18) Poi redigeva il verbale da consegnare alle autorità portuali. “Se il bastimento è invece sorpreso all’ancoraggio in punti vietati, senza tuttavia che risulti sospetto di tratta, non potendo esso giustificare la sua permanenza in quei paraggi con i casi di forza maggiore [cioè avaria o cattivo tempo] … il comandante della nave da guerra l’obbliga a partire, e riferisce all’autorità competente della constata trasgressione”.( 19)

Il comandante di una regia nave incaricata di sorvegliare le coste per impedire la tratta degli schiavi doveva vigilare su tutti i bastimenti che incontrava e procedere alla visita di quelli sospetti. Doveva quindi incrociare in tutti i sensi nella zona assegnatagli e poteva anche appostarsi. Avvistato un legno sospetto, doveva raggiungerlo e obbligarlo a fermarsi anche con la forza; ma, attenzione, questo valeva solo per i bastimenti delle Potenze che avevano ratificato l’Atto di Bruxelles, e delle loro colonie e solo a condizione che avessero un tonnellaggio inferiore alle 500 t. Se, per ipotesi, la nave inalberava i colori greci – cosa non tanto impossibile – o bulgari, o romeni, o giapponesi, o di un qualsiasi Paese sudamericano, o, ad esempio, della Liberia, le si poteva solo controllare l’atto di nazionalità, ma non erano possibili né le rassegne dell’equipaggio e dei passeggeri, né la verifica del carico.

Comunque, ipotizziamo che il comandate di una regia nave ritenesse sospetto un bastimento e decidesse di procedere all’inchiesta. Per prima cosa segnalava al capitano della nave sospetta le sue intenzioni e gli ordinava di accostare e fermarsi.( 20) Appena quello metteva in panna, o fermava le macchine, dalla regia nave si staccava un’imbarcazione con personale e un ufficiale di vascello – come allora veniva indicato lo Stato Maggiore – incaricato della visita. Questi saliva a bordo e verificava le carte che poteva vedere, a seconda che si trattasse di una nave battente bandiera italiana o di una Potenza firmataria dell’atto di Bruxelles, tenendo inoltre conto, se la nave era francese nazionale o coloniale, che la Francia l’aveva ratificato ma con parecchie restrizioni. La procedura di visita era semplice. Una volta saliti sul legno da ispezionare in mare, gli ufficiali della Marina dovevano: verificare che

(17) Ibidem, art. 28, p. 19. (18) Ibidem. (19) Ibidem, art. 28, p. 19. (20) Se non si fermava, la procedura era la solita: prima un colpo in bianco, poi uno

a polvere, poi la cattura a forza, sparando innanzitutto a palla contro le vele e l’alberatura e, se ancora non accennava ad arrestarsi, contro lo scafo.

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l’atto di nazionalità non fosse più vecchio d’un anno; se lo potevano – cioè se la nave batteva bandiera firmataria dell’Atto di Bruxelles – controllare il ruolo d’equipaggio, verificando che fosse stato vistato dalle autorità portuali di partenza e riscontrarne la veridicità passando in rassegna l’equipaggio stesso. La stessa cosa andava fatta se c’erano passeggeri: occorreva identificarli tutti, uno per uno, controllando se figuravano sul manifesto dei passeggeri e se le variazioni di questo erano esatte e attendibili.

Se non trovava nulla, l’ufficiale, prima di rientrare, redigeva un processo verbale sull’apposito modulo – Modulo n. 1 se la perquisizione era fatta dal comandante della regia nave, Modulo n. 2 se da uno dei suoi ufficiali – e lo firmava insieme a due testimoni; poi ne consegnava copia al comandante della nave visitata e tutto finiva lì. Se invece saltava fuori qualche irregolarità nelle carte di bordo, o si trovavano uomini o donne di colore la cui presenza non era giustificata, per cui si poteva sospettarli schiavi, se si trovavano tracce materiali tali da far pensare che la nave fosse adibita alla tratta e cioè “… se si troveranno a bordo catene per schiavi, ferri o manette, o strati speciali di fango o di sabbia, stesi come giacigli per schiavi; una quantità d’acqua in barili od in vasche maggiore di quella richiesta per uso dell’equipaggio di detto bastimento mercantile, una caldaia od altro utensile da cuocere di grandezza non usuale, e più ampio od atto ad essere reso più ampio, di quello che sia richiesto per uso dell’equipaggio del bastimento, o più di una caldaia od altro utensile da cuocere della grandezza ordinaria; una quantità di stuoie o pagliericci maggiore di quanto è necessario per uso del bastimento, a meno che tali stuoie o pagliericci non siano inscritti nei registri come parti del carico”( 21) e, peggio ancora, se risultava l’usurpazione di bandiera, si procedeva immediatamente alla cattura del bastimento, portandolo a Massaua o Assab – se aveva i colori italiani – “ovvero nel porto della zona più vicina dove si trovi un’autorità competente della potenza, la cui bandiera venne issata. Può anche essere consegnato ad una nave da guerra della sua nazione, purché questa consenta ad incaricarsene”.( 22) Anche in questi casi dovevano essere redatti alcuni verbali sui modelli n. 3, 4, 5 e 9, che rispettivamente erano: il “Verbale circa lo stato in cui trovasi l’imbarcazione al momento del sequestro”, il “Verbale circa le carte

(21) Convenzione fra l’Italia e la Gran Bretagna per la repressione della tratta degli schiavi, stipulata a Londra il 14 settembre 1889, a firma S.E. il comm. Tommaso Catalani, incaricato d’affari del Re a Londra e l’onorevolissimo Robert Lord Salisbury “principale segretario di Stato di Sua Maestà per gli affari esteri”, art. V, rip. in Manuale sulla repressione della tratta degli schiavi ..., cit., p. 103.

(22)“Istruzioni per la repressione della tratta”, cit., art. 26, p. 17.

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1894. Modello n. 8. Verbale di allontanamen-to dal bordo del basti-mento catturato. trovate a bordo del ba-stimento catturato”, il “Verbale circa il danaro od altri valori rinvenuti a bordo del bastimento catturato, copia del qua-le dovrà in ogni caso essere consegnata al ca-pitano” e, infine, l’“In-ventario delle provvi-gioni, del mobilio e del carico della nave cat-turata, da compilarsi per parte dell’Ufficiale in-caricato.” Poteva darsi che il legno catturato non fosse più in condizione di navi-gare, specie se gli ave-vano sparato addosso per fermarlo. In questo caso andava sorvegliato

dove era stato fermato, mandandovi a bordo un ufficiale o un graduato della Regia Marina finché non fosse stato rimesso in grado di navigare, o, almeno, di essere rimorchiato al porto più vicino.

Se però era così malconcio da non poter resistere al mare, poteva essere distrutto, dopo averne preso a bordo il comandante, l’equipaggio, i passeggeri e tutto ciò che si poteva asportare, “specialmente gli oggetti atti a dimostrare che il basti-mento fosse armato per la tratta”.( 23)

(23) “Istruzioni per la repressione della tratta”, cit., art. 30, p. 20.

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Naturalmente anche qui occorreva compilare verbali, ricorrendo ai modelli n. 6 e 7, rispettivamente “Verbale di distruzione di navi” e “Verbale circa i generi e l’equipaggiamento esistenti a bordo di una nave naufragata ovvero distrutta”. Quest’ultimo andava compilato anche se la nave naufragava, a terra o in mare, durante l’inseguimento.

Infine, se per ipotesi uno schiavo riusciva a chiedere protezione al comandante di una nave da guerra, rifugiandovisi sopra o facendosi notare in qualche maniera, quest’ultimo gliela doveva accordare dandogli asilo fino a quando avesse potuto consegnarlo alle competenti autorità, le quali erano sostanzialmente le stesse a cui dovevano essere rivolti i rapporti e i documenti relativi alle visite e catture, cioè l’avvocato fiscale militare a Massaua o il regio commissario civile ad Assab. Salvo alcuni piccoli adattamenti alla realtà eritrea, le Istruzioni erano la trasposizione in italiano degli articoli da XX a LXI dell’atto di Bruxelles, il cui capitolo III, che li conteneva, riguardava espressamente la repressione della tratta sul mare.

C’erano però alcune eccezioni. Intanto le Potenze firmatarie potevano anche accordarsi fra loro con atti bilaterali, oppure potevano, come fece la Francia, ratificare l’atto solo in parte. Cosa comportava questo?

Per cominciare, una strana situazione, per cui la tratta era combattuta, ma lo schiavismo no, o almeno non del tutto. Infatti, non a caso, l’Etiopia – allora ufficialmente Abissinia – aveva aderito alla repressione della tratta nel 1889, ma, come si è detto, la schiavitù vi sarebbe restata in vigore fino al 1936, cioè per altri 47 anni. In secondo luogo, questa salvaguardia dell’istituto della schiavitù era implicitamente confermata anche dagli atti pubblici e in-ternazionali, come, ad esempio, la convenzione anglo-italiana del 1889 che, all’articolo V, recitava testualmente: “Ogni bastimento mercantile … che sarà visitato ed arrestato … sarà considerato (a meno che non siano presentate prove in contrario) essere stato impegnato nella tratta, od essere stato allestito per quel traffico, se a bordo di esso si troveranno schiavo o schiavi che non siano schiavi domestici al servizio od al disimpegno delle legittime faccende dei loro padroni, o schiavi impiegati bona fide nella navigazione del bastimento”.( 24) Di conseguenza chi era già schiavo di qualcuno non poteva essere liberato d’ufficio, a meno che non lo richiedesse egli stesso al co-mandante della nave, e la sua presenza a bordo di una nave fermata non esponesse la nave stessa ad alcun rischio di sequestro.

(24) Convenzione fra l’Italia e la Gran Bretagna per la repressione della tratta degli schiavi, cit.

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Altro problema era quello del controllo a terra, cioè alla partenza e all’arrivo. Quanto era efficace, e cioè quanto era affidabile? Su diciotto porti solo Massaua, Archico, Assab e Nocra avevano personale delle Capitanerie – rispettivamente un capitano di porto e tre delegati – a cui si aggiungeva un civile a Gheddam. I rimanenti approdi erano controllati da personalità locali che erano, o potevano facilmente essere sotto l’influenza di pressioni e interessi a cui la tratta degli schiavi poteva non essere estranea. Al di là di ogni supposizione, va poi notato che i sambuchi erano in grado di toccare terra in qualsiasi punto, perché non abbisognavano di approdi speciali o di profondità stabilite, e che in un periodo in cui l’avvistamento era ancora solo visivo era facilissimo sfuggire alla sorveglianza navale, sia navigando di notte, sia tenendosi sotto costa, sia, infine, fuggendo non appena avvistato il fumo delle navi militari, nero e visibilissimo quando erano ancora sotto la linea del-l’orizzonte e quindi non in grado di scorgere l’imbarcazione negriera.

Per il contrasto e la repressione della tratta, all’inizio la Regia Marina si serviva di navi relativamente grandi, ma ben presto si vide che era meglio orientarsi su quelle molto piccole. Lo notiamo perché dal giugno 1885, cioè dal principio dell’attività, fu impiegata la regia nave Andrea Provana, una cannoniera di 733 t di dislocamento comandata dal capitano di corvetta Luigi De Simone, rimpatriata nell’aprile del 1886, alla quale fu aggiunta la regia cannoniera Cariddi, di 1101 t di dislocamento, comandata dal capitano di corvetta Stanislao La Greca, arrivata nell’agosto 1885.

Rimpatriata a settembre del 1886, la cannoniera fu rilevata nelle sue incombenze dalla regia goletta Mestre, al comando del tenente di vascello Gaetano Nicastro, il quale a fine marzo del 1887 riuscì a intercettare un

negriero nel Canale Nord di Massaua, liberando le 34 donne e i 16 ragazzi che aveva a bordo.

1894. Marinai locali su un sambuco.

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Il pattugliamento quindi venne effettuato sempre più mediante navi di piccolo tonnellaggio, e non a caso nel 1902 la Regia Marina avrebbe armato una flottiglia di sambuchi( 25) per la vigilanza costiera e il contrasto della pirateria, del contrabbando e della tratta. Il risultato nell’arco degli anni fu la liberazione di centinaia e centinaia di schiavi, a volte che si manifestavano da sé per tali e chiedevano d’essere liberati, altre volte liberati grazie alla visita a bordo e alla scoperta del traffico.

Del primo caso – schiavi che domandavano protezione e libertà – abbiamo un esempio riferito dal capitano di corvetta Fabrizio Fabrizi, che, nel 1887, col Cariddi nella baia di Hanfilah ne liberò due. Riferì poi: “Nel mattino del 6 novembre 1887 verso le 5 antimeridiane si avvista in prossimità del bordo un piccolissimo battello, di quelli formati da un tronco d’albero, con due indigeni dentro, che vogavano abrivati con le loro pagaie dal largo verso il nostro bordo. Poco dopo attraccati al barcarizzo di sinistra domandavano asilo e protezione sul mio bastimento, dichiarandosi schiavi fuggiti da bordo di un sambuco che da vario tempo è adibito alla pesca del pescecane e trovasi alla fonda assieme ad altro sambuco più piccolo dentro il canale fra Ras Hanfilah e Daransas, per evitare i cattivi trattamenti del capitano del sambuco … Ritornata la barca a vapore, l’ufficiale di comandata mi rapportava che aveva trovato tutto in

regola sul sambuco e che l’equipaggio si era già rimesso al lavoro di pesca. Il nome del comandante del sambuco è Bayelà Alì, con mio ordine del giorno ho imbarcato al mio 1903. Il regio sambuco armato Gazzella, di 56 t (ex mercantile arabo Sahada), il secondo del-la Regia Marina.

(25) Il primo sambuco della Regia Marina si chiamava Gazzella, aveva le vele auriche – unico fra tutti i sambuchi – e fu in servizio dal 1890 al 1895. Nel 1902 entrarono in linea Antilope, Cervo e Gazzella (2°); nel 1903 Camoscio, Capriolo e Zebra, cui ne seguirono altri negli anni successivi.

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1903. Il regio sambuco armato Antilope, di 60 t. bordo i due schiavi liberati che condurrò a Massaua al mio ritorno”.( 26) Il secondo caso, quel-lo della liberazione di

schiavi grazie a visita a bordo, ci è invece riferito, per esempio, nel rapporto del capitano di corvetta Cesare Marcacci, che, nel 1895, al comando dello Scilla, nei dintorni di Eid intercettò un sambuco su cui trovò 23 schiavi. Scrisse: “Trovandomi all’ancoraggio di Eid … la mattina del 30 gennaio u.s. essendo in vista un sambuco, fu ordinato al sottotenente di vascello, signor Casano, di recarsi ad esercitarvi il diritto di visita. Questo diritto fu esercitato secondo le regole della conferenza di Bruxelles, ed il sambuco fu trovato carico di schiavi.”( 27)

I dettagli li sappiamo dal rapporto del signor Casano al comandante Marcacci: “… Messomi nella barca a vapore, portando con me due interpreti e quattro

uomini armati di soli revolver ed una cara-bina, mi diressi sulla ve-la che scorgevasi al-l’orizzonte. Il regio sambuco ar-mato Zebra, di 30 t.

(26) F. Fabrizi, Rapporto, rip. in O. Po, L. Ferrando, L’opera della R. Marina in Eritrea e Somalia (dall’occupazione al 1928), Roma, Ufficio Storico R. Marina, 1929, p. 117 sg.

(27) C. Marcacci, Rapporto, rip. in O. Po, L. Ferrando, op. cit., p. 269.

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1899. Sbarco di merci di contrabbando dai sambuchi.

Dopo poco vidi in vicinanza della costa, a un miglio da Hayock Hill ammainare la vela al sambuco, e feci rotta esatta sulla direzione della nave. In vicinanza del sambuco, quasi ad un chilometro, mi accertai che non aveva inalberata alcuna bandiera, feci allora alzare la mia bandiera appoggiandola con un colpo di carabina tirato in aria. Visto che non decidevasi ad alzare bandiera ed anzi al rumore del colpo salpava l’ancora e muovevasi coi remi preparandosi a mettere alla vela, e che il suo zatterino si avvicinava al bordo per scostare subito dirigendo sulla costa sbarcando molte persone, tirai un colpo a colpire poco discosto dal sambuco per obbligarlo a fermarsi ed alzare bandiera, giusta l’art. 27 delle istruzioni per la repressione della tratta degli schiavi. Nello stesso tempo, vedendo la gente dello zatterino sbarcare a terra e correre sulle colline, tirai anche a loro un colpo per intimorirli, ma essi seguitarono a fuggire e si radunarono tutti su di un punto più alto, forse per scorgere meglio la mia operazione. Allora soltanto, visto tali manovre, accostai al sambuco, e profittando dei due interpreti che avevo con me, intimai di alzare bandiera che venne subito alzata (bandiera egiziana). Procedei ad una visita sommaria del bastimento e verificando che non aveva nome, numero di tonnellaggio, carte che dimostrassero provenienza, ruolo dell’equipaggio e dei passeggieri, e visitato sotto una coperta fittizia e trovato degli schiavi, ordinai al padrone della barca a vapore di prendere a rimorchio il sambuco.

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Particolari di un sambuco. Al principio voleva far resistenza: allora col revolver alla mano obbligai ad ubbidirmi, ordinando che parte dell’equipaggio sbarcasse nella barca a vapore. Domandato poi cosa fosse andata a fare la gente scappata a terra, mi fu risposto che il padrone era sbarcato con alcuni uomini dell’equipaggio e alcuni schiavi per prendere acqua. Considerando la mia presenza necessaria a bordo, e non potendomi allontanare dai miei uomini lasciandoli soli, provvedei di far fuoco su quel punto bianco che scorgevasi sulla collina più alta ove si erano rifugiati i fuggiaschi. Infatti caricai la carabina che aveva con me e feci fuoco, vidi un uomo cadere, forse ferito, e gli altri scappare, tirai altri colpi e dopo non vidi più nessuno. Non potendo più nuocere in nessun modo ai fuggiaschi, rimorchiai il sambuco sotto il bordo. Durante il viaggio passai una visita più accurata al sambuco e trovai in un cofanetto di manifattura araba, dieci talleri, in un cassetto altri due talleri, in un pezzo di futa altre monetine d’argento ed alcune di rame, sotto il banco di poppa un fucile Remington e contai sotto coperta 23 schiavi tra ragazzi e ragazze.”( 28)

(28) S. Casano, Rapporto, rip. in O. Po, L. Ferrando, op. cit., p. 269 sg.

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Come si vede, siamo ben lontani dalle centinaia di persone imbarcate sulle navi negriere che traversavano l’Atlantico nel Seicento e nel Settecento. La tratta in Mar Rosso veniva fatta a livelli di cabotaggio, trasportando pochi schiavi per volta, perché i sambuchi erano piccoli. Ma questo rendeva l’azione di contrasto più difficile, perché proprio grazie alla loro piccolezza potevano fuggire e nascondersi meglio, per cui il rapporto del signor Casano può dirsi esemplare della situazione quanto alle circostanze, alle modalità d’intervento e al numero degli schiavi liberati, e i risultati furono nel complesso notevoli.

Come si sia svolta la repressione della tratta degli schiavi, sovente difficile da separare dal contrabbando – specie di armi – e dalla pirateria, e che risultati vi abbiano avuto le regie navi, inclusi i sambuchi, è un’altra storia.

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Bibliografia - Acte Général de la Conférence de Bruxelles pour la répression de la traite des esclaves,

fatto a Bruxelles, il 10 luglio 1890. - Convention entre le Gouvernement de la Grande Bretagne et le Gouvernement de l’Egypte

du 4 aout 1877, pour la suppression du trafic des esclaves, fatta ad Alessandria d’Egitto, il 4 agosto 1877.

- Convenzione fra l’Italia e la Gran Bretagna per la repressone della tratta degli schiavi, fatta a Londra il 14 settembre 1889.

- Dichiarazione d’accessione dell’Italia alla Convenzione anglo-egiziana del 4 agosto 1877, fatta al Cairo il 21 dicembre 1885.

- Instructions aux Capitaines et Commandants des navires de guerre de Sa Majesté Britannique employés à la répression de la traite des esclaves, Londra, Ammiragliato, s.d., ma 1891.

- Instructions données aux croiseurs français, Paris, s.i., ma 1892. - Instructions en ce qui concerne les bâtiments sous pavillon français, Paris, s.i., ma 1892. - Instructions relatives à l’application de l’Acte général de la Conférence de Bruxelles,

Londra, Ammiragliato, s.d., ma 1891. - Instructions relatives aux navires britanniques, à la juridiction britannique et aux

bâtiments sans nom ou sans nationalité, Londra, Ammiragliato, s.d., ma 1890. - Istruzioni compilate in data 15 novembre 1909 d’accordo fra l’Italia e la Francia. - Legge n. 377 del 13 luglio 1892, “che dà piena ed intera esecuzione all’Atto generale

della Conferenza di Bruxelles per la repressione della tratta degli schiavi.” - Ministero della Marina, Istruzioni per la repressione della tratta degli schiavi, Roma,

1894. - Ministero della Marina, Manuale sulla repressione della tratta degli schiavi –

istruzioni e notizie per gli ufficiali della R. Marina, Roma, Tipografia Nazionale di G. Bertero, 1894.

- O. Po, L. Ferrando, L’opera della R. Marina in Eritrea e Somalia (dall’occupazione al 1928), Roma, Ufficio Storico R. Marina, 1929

- Trattato fra il Regno d’Italia e il Sultano Mohamed Anfari dell’Aussa relativo alla repressione del commercio degli schiavi, fatto il 15° giorno del mese di Sciaual dell’anno 1304 dell’Egira, ossia il 7 luglio 1887.

- Trattato fra il Regno d’Italia e l’Impero Abissino, fatto a Uccialli il 2 maggio 1889.

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