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Cura e introduzione di Gabriele Baldini Con un testo di Harold Bloom Ch’io muoia pure, adesso, perché ho vissuto anche troppo a lungo. William ^ ^ C D Le allegre comari di Windsor Estratto della pubblicazione

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Cura e introduzione di Gabriele Baldini

Con un testo di Harold Bloom

Ch’io muoia pure, adesso, perché ho vissuto

anche troppo a lungo.

William

C D

Le allegrecomari

di Windsor

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Opere

William

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Gabriele Baldini (Roma, 1919-1969), saggista, traduttore, critico

letterario e cinematografico, è stato direttore dell’Istituto Italiano di

Cultura a Londra e docente di Letteratura inglese a Roma.

La sua fama, in Italia e all’estero, è legata ai suoi meriti accademici

in anglistica e americanistica: dai suoi studi sono nati saggi di rilie-

vo, come Poeti Americani 1662-1945, Melville o le ambiguità, John Webster e il linguaggio della tragedia. È stato il primo curatore di

una rigorosa edizione dell’intero corpo degli scritti di Shakespeare,

in tre volumi: Opere Complete nuovamente tradotte e annotate

(Classici Rizzoli, 1963). Fanno ancora scuola la sua storia del teatro

inglese – Teatro inglese della Restaurazione e del ’700, La tradizio-ne letteraria dell’Inghilterra medioevale, Il dramma elisabettiano –,

le sue lezioni su Le tragedie di Shakespeare e il fortunatissimo Ma-nualetto shakespeariano.

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Williamz z

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WILLIAM SHAKESPEARE - OPERE

Edizione speciale su licenza per Corriere della Sera

© 2012 RCS MediaGroup S.p.A. Divisione Quotidiani, Milano

Direttore responsabile Ferruccio de Bortoli

ISBN 97888

Proprietà letteraria riservata

© 1963-2012 RCS Libri S.p.A., Milano

Titolo originale dell’opera:

Traduzione di Gabriele Baldini

Per il testo di Harold Bloom tratto da Shakespeare. L’invenzione dell’uomo© 201 RCS Libri S.p.A.

Titolo originale dell’opera:

Shakespeare: the Invention of the Human© 1998 by Harold Bloom

Traduzione di Roberta Zuppet

Quest'opera è protetta dalla Legge sul diritto d'autore.È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

via Sol erino 28, 20121 Milano

Sede Legale via Rizzoli 8, 20132 Milano

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Prima edizione digitale da edizione LLIAM SHA ESPEARE - OPERE WI2012 2012K

e note

16 – Le allegre comari di Windsor

The Merry Wives of Windsor

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PRESENTAZIONEdi Harold Bloom

Benché, a mio giudizio, quest’opera si contenda con I due gentiluomini di Verona il titolo di commedia shakespeariana più insulsa, non si può disprezzare totalmente il testo destina-to a diventare la base per il Falstaff di Verdi. Inizierò tuttavia affermando con convinzione che l’eroe-cattivo delle Allegre comari di Windsor è un impostore anonimo, travestito da Sir John Falstaff. Anziché assecondare questa usurpazione, per la durata di questa breve discussione lo chiamerò pseudo-Falstaff.

La tradizione vuole che Shakespeare abbia scritto Le al-legre comari, forse tra le due parti dell’Enrico IV, perché la regina Elisabetta aveva chiesto di vedere il grande Sir John innamorato. La farsa, una dote naturale in Shakespeare, si ri-duce a superficialità nelle Allegre comari, un esercizio faticoso per cui – ne ho il forte sospetto – il drammaturgo si ispirò a un testo anteriore, suo o di qualcun altro. Russell Fraser ha abilmente ricostruito i retroscena autobiografici delle Allegre comari, in cui Shakespeare potrebbe aver restituito qualche vecchio torto e una o due ferite. Aggiungerei che vi è anche un pizzico di satira ai danni di Ben Jonson, sebbene il ber-saglio sia più l’arte di Jonson che Jonson stesso. Uno degli scopi di questa commedia è dimostrare quanto siano efficaci, in realtà, le prime farse shakespeariane – La commedia degli errori e La bisbetica domata – in confronto alla finta energia liberata in questa umiliazione dello pseudo-Falstaff. Gli indi-zi disseminati in tutta l’opera segnalano che Shakespeare è a disagio con quanto sta facendo e che desidera buttarselo alle spalle il prima possibile.

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Questo è più o meno il massimo cui il finto Falstaff possa aspirare:

Oh, le sue occhiate percorrevano le mie parvenze esterne con una tale rapace intenzione, che l’appetito delle sue luci parve a un tratto scottarmi come la vampa d’uno specchio ustorio. Qui c’è un’altra lettera per lei. E anch’essa tien le chiavi dello scrigno, ed è come una tenuta della Guiana, e cioè tutt’oro e opulenza. Farò da cassiere a entrambe, ed esse mi faranno da banca. Saranno le mie Indie, orientali e occidentali, ed io avrò commerci con tutt’e due a un tempo. Va’ e consegna questa lettera alla comare Page, e tu porta quest’altra alla comare Ford. Faremo fortuna, ragazzi, faremo fortuna.

[I.iii.61-70]

In questo passo riconosciamo forse l’immortale Falstaff? Op-pure in quest’altro?

Vammi a prendere un quarto di vin di Spagna, e mettici den-tro un crostino caldo. [Exit Bardolph] Avrei dunque vissuto tant’anni per essere portato in un canestro, come una carret-tata di rifiuti d’una macelleria, e gettato nel Tamigi! Davvero che se mi lascio giuocare un’altra volta a questo modo, mi farò trarre le cervella, le friggerò al burro e le darò a mangiare a un cane come regalo di Capodanno. Quei manigoldi m’han buttato a fiume con la stessa indifferenza che se vi avessero gettata una covata di quindici catellini ciechi. E dalla mia corporatura si può anche capir com’io possa avere una certa propensione ad affondare. Pur se il fondo sia fondo quanto l’inferno, si può star certi ch’io saprò toccarlo. Se l’acque non fossero state basse, certo affogavo. Brutta morte! Perché l’ac-qua gonfia, e sarebbe proprio uno spettacolo da vedersi s’io mi fossi gonfiato anche più di quel che sono! Sarei apparso come una montagna di gelatina.

[III.v.3-17]

Questo Falstaff, che non è arguto di per sé e che non è più causa di arguzia negli altri, mi indurrebbe a rimpiangere una gloria perduta se non sapessi che è un impostore bell’e buo-no. Il suo fascino, infatti, consiste nel fatto che Shakespeare

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non investa nulla in lui. Le allegre comari di Windsor è l’unico dramma shakespeariano che il drammaturgo sembra disprez-zare persino durante la stesura. Disdegnando l’incarico rice-vuto, creò un Falstaff adatto solo per essere trasportato in una cesta e gettato nel Tamigi. Questa degradazione è simile alla scelta di ridurre Cleopatra a una pescivendola (in una pro-duzione britannica allestita a New York City) o di mostrare Giulietta nei panni di una giovane delinquente (al cinema). Ci si può sbellicare dalle risa infilando in una cesta un ciccio-ne qualsiasi. Non deve necessariamente essere Falstaff, e il suo creatore non deve necessariamente essere Shakespeare. Quan-do Falstaff, travestito da vecchia grassona, viene battuto di santa ragione, si comincia a concludere che Shakespeare non detesta solo questo episodio, ma anche se stesso per averlo scritto. L’affronto finale è uno pseudo-Falstaff cornuto e inca-tenato, vittima di una farsa sadomasochistica e forse persino di una fugace esplosione di odio del drammaturgo verso se stesso. Alla fine l’impostore sventurato, pizzicato e bruciac-chiato da finte fate, ha la possibilità di dare una risposta quasi falstaffiana a un parroco gallese, burlandosi del suo accento:

Burro e formaggio! Son dunque vissuto fino ad oggi soltanto per esser oggetto delle beffe d’un tale che fa un tal spezzatino della nostra lingua? Tanto basterebbe a togliere ogni voglia di fornicare a tutti i nottambuli del regno.

[V.v.143-146]

Questa è solo un’ombra del Falstaff autentico, ma non otte-niamo altro. Ciò che riceviamo è un carnevale sadomasochi-stico adatto per l’episodio di Nighttown nell’Ulisse di Joyce, ma indegno della superiore arguzia verbale joyciana (superio-re solo alle Allegre comari di Windsor). L’immortale Falstaff di Shakespeare subisce la terribile umiliazione finale del rifiuto pubblico, ma durante il declino conserva il pathos, la dignità e persino una sorta di nobiltà, diventando un Lazzaro per Enrico V, il ricco epulone vestito di porpora. L’unica cosa che

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il finto Falstaff riesce a conservare è un deretano malconcio; non riesco a esprimere l’indignazione meglio di quanto abbia fatto A.C. Bradley, di cui condivido pienamente il giudizio:

[Falstaff è] confuso, gabbato, trattato come biancheria sporca, picchiato, bruciato, pizzicato, sbeffeggiato, insultato e, peg-gio ancora, pentito e didascalico. È orribile.

Gli affari sono affari, ma perché Shakespeare ha fatto questo a un personaggio che rappresenta il trionfo della sua arguzia? Una volta, a Yale, vidi una produzione di questa congerie ri-tualistica in quella che veniva spacciata per la vera pronuncia di Shakespeare, e fui molto lieto di non comprendere tutte le battute. Alcuni critici femministi ipotizzano che Shake-speare, pur avendo solo trentatré anni, temesse già la perdita della vitalità sessuale e che abbia punito il finto Falstaff co-me surrogato di se stesso. A loro parere, Le allegre comari di Wind sor è un elogio alla castrazione, con le allegre comari che assaporano appieno le fatiche dell’evirazione. Mi astengo da qualsiasi commento.

Resta il mistero del perché Shakespeare abbia sottoposto lo pseudo-Falstaff a una tortura così crudele, una specie di combattimento di cani contro un orso incatenato, dove «Sir John innamorato» fa la parte dell’orso. Essendo un dram-maturgo esperto, sempre pronto ad assecondare mecenati subdoli, censori statalisti e spettacoli regali, Shakespeare nu-triva, in cuor suo, ansie e risentimenti che esprimeva di rado. Sapeva che i loschi servizi segreti di Walsingham avevano as-sassinato Christopher Marlowe e torturato Thomas Kyd fino a causarne la morte prematura. Amleto muore, per così dire, verso l’alto, in una trascendenza sicuramente irraggiungibile per Shakespeare come uomo, e il vero Falstaff muore a let-to, giocando con i fiori, sorridendo alla punta delle dita ed evidentemente cantando di una tavola imbandita per sé tra i nemici. Non sappiamo come sia morto Shakespeare. Qual-cosa dentro di lui, qualcosa che forse egli identificava con il

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Falstaff autentico – rifiutato da chi amava maggiormente e solitario come il poeta dei Sonetti –, potrebbe tuttavia aver temuto ulteriori umiliazioni. Devo concludere che Shake-speare cerca di tenere lontano l’orrore personale trovando nel finto Falstaff un capro espiatorio in questo dramma poco convincente.

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