L'Anticlericalismo Illuminista Di Domenico Caracciolo e La Fine Dell' Inquisizione in Sicilia
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Transcript of L'Anticlericalismo Illuminista Di Domenico Caracciolo e La Fine Dell' Inquisizione in Sicilia
L’anticlericalismo illuminista di
Domenico Caracciolo e la fine
dell’Inquisizione in Sicilia
INTRODUZIONE
Se c'è un modo comune per fare entrare nella
storia gli uomini, questo è giudicarne le gesta. E
tanto più forti e significative sono esse, tanto
più l'autore viene riproposto nello scorrere del
tempo.
Il marchese Domenico Caracciolo, "illuminista e
riformatore del XVIII secolo" ha lasciato
un'impronta indelebile nella storia della Sicilia. Il
suo tentativo di riforme, sinceramente ispirato
dalle sue esperienze diplomatiche in Europa,
agli scambi culturali con i più grandi illuministi
francesi e agli insegnamenti soprattutto del
Genovesi, fece del Caracciolo uno dei più
coraggiosi politici del suo tempo.
2
CAPITOLO I
Primi anni del Marchese Caracciolo. Gli studi e le
esperienze nella magistratura. Attività nel
campo diplomatico.
Domenico Caracciolo, ovvero colui il quale
sarebbe diventato uno dei personaggi più
discussi dagli storici "dell'età moderna " , vede
la luce un anno dopo che Filippo V° di Spagna
porta all'altare Elisabetta Farnese.
3
L'Europa aspettava in quegli anni, in una
atmosfera carica di ansia di pace, da un lato la
conclusione politica della guerra di successione
spagnola, e sull'altro versante ammiccava agli
sforzi diplomatici che avrebbero appianato i
contrasti franco- britannici e franco-austriaci.
L'interesse per le spartizioni e gli scambi dei
territori avvenivano nelle "pieghe " delle Corti,
nel nome della "ragion di Stato", e in aperto e
oltraggioso dispregio delle esigenze e dei
desideri delle popolazioni.
4
Mentre si andavano consolidando le strategie
dei paesi che presto avrebbero dato luogo a
quegli schieramenti che ritroveremo sul tavolo
della Storia con l'etichetta di Paesi imperialisti,
la Francia, crocevia di tutti gli interessi del
continente europeo, stava formando quel
poderoso mezzo di trasformazione che prese il
nome di Illuminismo.
In questa cornice, carica di aspettative e di
fermenti, trova la prima collocazione il giovane
Caracciolo, mandato dalla natia Spagna alla
5
scuola napoletana dei Caracciolo, come afferma
Benedetto Croce1.
Il Collegio presso il quale il giovane notabile
assume le sue prime nozioni è presumibilmente
il luogo di incontro fra le necessità di apparire e
la qualità della didattica. Sta di fatto che in più
di un'occasione la scuola napoletana è stata
ritenuta dagli studiosi come vero e proprio
crogiolo ove s'è amalgamata una "pasta" di
grande qualità. Qualità, appunto, che ci sarà
modo di verificare negli incarichi che al giovane
1 BENEDETTO CROCE, Il Marchese Caracciolo, in Uomini e cose della vecchia Italia, Bari 1927, pag. 84
6
Caracciolo saranno assegnati ancora fresco di
studi.
Vero è che eminenti studiosi del "personaggio"
sono a volte discordi nell'attribuire con certezza
l'appartenenza ad una scuola immediatamente
identificabile, così come peraltro fa il Croce; ma
il buon senso, oltre che l'intuito di cui deve
essere dotato un ricercatore, lasciano preferire
la tesi crociana a quella dello Schipa2, del
Brancato3 e del Pontieri4 che hanno voluto, non
2 MICHELANGELO SCHIPA, Il Ministero Caracciolo, in Nel Regno di Ferdinando IV Borbone, Firenze 1938, pag. 873 FRANCESCO BRANCATO, Il Caracciolo e il suo tentativo di riforme in Sicilia, Palermo 1946, pag. 254 ERNESTO PONTIERI, Il tramonto del baronaggio siciliano, in Archivio Storico Siciliano, anno LII (1932), pag. 83
7
schierandosi, seminare dubbi, non riuscendo ad
affezionarsi ad alcuna ipotesi plausibile.
Personalmente sono tenuto ad una semplice
valutazione: l'esistenza di una scuola che
portava il nome dei discendenti dell' "antica
famiglia" e l'aperta volontà del padre di formare
nel miglior modo "europeo" il giovane
Domenico, tutto ciò fa confluire una grande
quantità di dati verso l'ipotesi crociana.
Appena ebbe ad essere proclamato dottore
laureato e poco prima che il fratello si decidesse
a cedergli il titolo di marchese, il Caracciolo si
8
trovò ad analizzare, con amarezza, le storture
del sistema giudiziario che all'epoca vedevano
livelli bassissimi di tutela dei diritti dei cittadini.
Ma il segno maggiore, nella formazione, lo ebbe
dall'unico vero referente dei suoi studi: Antonio
Genovesi. Più tardi, quando in Sicilia vestiva i
panni del Vicerè, si produsse (a parte gli studi
condotti a Londra sulla seta siciliana ) nell'unico
saggio che ci è pervenuto: Riflessioni
sull'economia e l'estrazione de' frumenti dalla
Sicilia. Più che un saggio sull'economia, questo
lavoro appare come un omaggio all'amico,
9
prima ancora che al maestro. Nell'assunto del
pensiero del Genovesi si trovano tutti i fermenti
e la poliedricità del comportamento del
Caracciolo.
Malgrado vi siano tanti contributi capaci di dare
una visione abbastanza esauriente di quel che è
stato il periodo della formazione del Marchese
Caracciolo, rimane, indipendentemente dagli
10
sforzi profusi nelle ricerche d'archivio, una zona
grigia.
Un pò come se un tenore riuscisse a bloccare
l'acuto per poi riprenderlo a piacimento e
concludere con scroscio di applausi. In effetti,
quella zona grigia, quell'acuto interrotto, fanno
pensare che il Marchese non fosse poi così
"predestinato" come fa ritenere l'epilogo della
sua carriera. Certo è che agli studi portati avanti
con la passione che il Genovesi deve avergli
saputo infondere, deve aver fatto da
contrappunto una vita sociale assai intensa:
11
quello che oggi non esiteremmo a definire
"mondana" .
E' l'alto rispetto per le classi sociali più umili,
unitamente ai principi di umanità e giustizia
sociale che aveva appreso dagli insegnamenti
del Genovesi, che portano il figlio di Maria de
Alcantara Porras y Silva e di Tommaso
Caracciolo, Marchese di Villamaina e di
Capriglia, ad essere fra i " togati giudici della
Vicaria" ( La Lumia).
Quall'esperienza rafforza nel Caracciolo la voglia
di affrancarsi dalle incombenze di una routine
12
giudiziaria che egli reputa una sorta di catena
posta fra sè e quell'ideale meta di ambizioso
successo che ritiene di meritare.
Il fatto che avvertisse una certa insofferenza per
le tristi condizioni del Paese, dove già
cominciavano ad agitarsi le nuove correnti della
pubblica opinione auspicanti riforme sociali ed
economiche, gli fu inconsapevolmente d'aiuto
per trovare credenziali autorevoli verso le sue
aspettative.
Non rimane un grande segno del suo operato
come magistrato; però è certo che quegli anni
13
furono per molti versi il volano delle sue
successive fortune.
L'avversione per le pratiche medioevali, intesa
come gestione dei sistemi politico-sociali, e il
riscontro che tante di quelle pratiche venivano
ancora perpetuate sulle terre e sugli uomini che
le coltivavano, portava il Caracciolo alla
deduzione schematizzata di uno sfruttamento
inteso come prepotenza dei baroni.
Secondo il Brancato "fu in seguito
all'apprendimento di così grande dottrina -
Genovesi - che il suo spirito, acceso da nuove e
14
più alte aspirazioni, non seppe più reggere
all'insoddisfazione sempre maggiore, causata
dal contrasto tra gli ideali vagheggiati e le tristi
condizioni presenti"5.
D'altro canto, si deve rendere conto
dell'influenza di un altro grande pensatore sul
Caracciolo: il suo anticlericalismo e il suo odio
contro la Curia romana gli provengono dal
Giannone, le cui opere esercitarono sempre un
fascino potente su tutti coloro che nella potenza
del clero e nelle pretese pontificie
5 BRANCATO, Op. cit. , pag. 26
15
intravedevano le catene che avevano impedito
lo sviluppo naturale del Paese verso migliori
condizioni di vita.
Dal fertile terreno, meticolosamente coltivato
con l'aiuto di questi illustri pensatori, il
Caracciolo trae nuova linfa per le meditazioni
che caratterizzeranno la sua vita e le sue azioni.
Il pensiero del giovane magistrato è rivolto al
miglioramento delle sorti delle classi più umili
attraverso un'azione di rafforzamento
dell'autorità e della potenza dello Stato
centrale. Tutto ciò trovava giusta dimensione in
16
ciò che esso auspicava: abbattimento di ogni
principio di autorità indiscussa, elevazione dei
valori materiali e morali dei cittadini, la
perequazione dell'abisso tra le classi sociali
verso una più equa distribuzione delle
ricchezze e verso un più convenientemente
rinnovato ordinamento dello Stato secondo i
principi e le verità della ragione.
Ma il triste spettacolo che si offrì agli occhi del
Caracciolo giudice della Vicaria della città di
Napoli, fece maturare repentinamente
quell'insoddisfazione che, come avremo modo di
17
vedere, sarà un ulteriore stimolo alla sua
ambizione.
Vero è che, come asserisce il Brancato6, la
Vicaria era all'epoca tenuta in " gran dispregio
dagli avvocati che disdegnavano di divenirvi
giudici: nel Caracciolo, al disdegno si univa una
naturale avversione contro la carriera del Foro e
la Magistratura, alla quale, suo malgrado era
stato avviato. Quell'ambiente, quindi, dove era
egli costretto a vivere in continuo odioso
contatto del più umile e meno disciplinato
6 BRANCATO, Op. cit. , pag. 28
18
popolo di Napoli, fu il luogo più idoneo a
sviluppare e a maturare la sua ripugnanza
contro la società napoletana che gli divenne
insostenibile".
Le notizie storiche a noi pervenute ci mostrano
il Caracciolo irrequieto; per esso la carriera
diplomatica costituiva il maggior desiderio, il
sogno più ambizioso: fu per lui una lieta
sorpresa, quindi, allorchè il Fogliani, primo
ministro del Regno di Napoli, confidando nelle
19
sue capacità, lo chiamò ad assolvere un difficile
compito diplomatico.
Erano trascorsi diciotto anni da quando Carlo III
(1734) era riuscito in maniera quasi incruenta a
cacciare gli austriaci dai Regni di Napoli e di
Sicilia costituendo con la nuova monarchia
borbonica un unico Stato indipendente e
sovrano.
L'incoronazione a Palermo dell'Infante di
Spagna fu un vero capolavoro della diplomazia
nonchè un colpo fatale per la politica vaticana.
20
Ma fu anche il segno evidente che qualcosa
stava muovendosi verso una pratica riformista
in seno allo Stato centrale, e questo segno era
leggibile agli occhi delle tante intelligenze
presenti nell'apparato dello Stato, ivi compreso
il giovane Marchese.
Quando il Fogliani convocò Caracciolo,
quest'ultimo seppe prendere al balzo quella
opportunità:
"Si trattava, nientemeno, di inviarlo a Parigi e
di là a Madrid con il delicato incarico di svolgere
21
segretamente, fingendo di viaggiare per
piacere, presso quelle Corti, un'azione
persuasiva delle ragioni che il Re delle Due
Sicilie aveva contro il trattato sottoscritto fra
Austria, Spagna e Sardegna nel giugno '52 ad
Aranjuez"7.
Pare che nonostante tutte le precauzioni prese
per tenere celata la vera ragione del viaggio,
nell'arco di poco tempo la missione venne al
dominio pubblico: "....la voce non falsa finì per
7 BRANCATO, Op. cit. , pag. 29
22
ritornare come voce pubblica alla Corte
napoletana, e della pubblicità non seppe
incolparsi che lo stesso Caracciolo"8.
Richiamato alle sue vecchie incombenze forensi
il Marchese scrisse parole imploranti al ministro
Fogliani.
C'è da fare una considerazione che si muove da
due ordini di motivi differenti.
Il primo vede il Caracciolo veramente avvilito
per il fallimento dell'impresa. Tale avvilimento
prende corpo soprattutto se si pensa agli anni
8 SCHIPA, Op. cit. , pag. 506
23
della formazione quando ancora diciannovenne
vedeva profilarsi con la figura di Carlo III una
nuova ipotesi di politica reale.
Il secondo è connesso più propriamente alla sua
natura estroversa e salottiera, che, nel contesto
" mitteleuropeo " di un Paese come la Francia,
baricentro dei fermenti illuministi, riusciva
maggiormente a gratificare le istanze e le
aspettative del Caracciolo diplomatico.
E' il caso di notare che in quegli anni Carlo III di
Borbone cercava di attenuare la soggezione
verso la monarchia spagnola; ragion per cui la
24
formazione di un corpo diplomatico
effettivamente rappresentativo presso le corti
europee, tale da custodire gli interessi e
assicurare lo sviluppo del Regno, era un atto di
primaria necessità. Il Caracciolo, uomo di larghe
vedute e di invidiabile acume, sinceramente
attaccato al suo Paese e devoto al suo sovrano,
risultava un elemento essenziale a questo
scopo.
Fu per questo motivo, dunque, più che per le
insistenti richieste del Caracciolo, se a
quest'ultimo, malgrado il primo fallimento
25
diplomatico, fu risparmiato di rimpatriare. Al
contrario, gli venne ordinato di non muoversi da
Parigi, sostituendo all'ambasciata il principe di
Ardore, che si apprestava a ritornare a Napoli.
L'anno successivo, il 4 luglio 1754, fu mandato,
con le stesse mansioni, a Torino per sostituire il
conte di Cantillana, che a sua volta andava a
Parigi come successore del principe di Ardore.
Si apre così un lungo periodo della vita di
Domenico Caracciolo, che lo vedrà protagonista
della scena diplomatica europea finchè non
pervenne a Palermo con la carica di Vicerè.
26
Al di là di ciò che alla Corte borbonica era stato
considerato un'insuccesso diplomatico, la
reiterata opportunità offerta al Caracciolo lo
trova adesso nella piena maturità politica.
Frequentatore dei salotti più ambiti, il Marchese
fa il punto su ciò che gli è stato dato modo di
valutare e di analizzare con il suo formidabile
senso critico. Scrive al Tanucci: " Questa
situazione degli affari italiani non è felice ma la
rende eziandio più cattiva, che il Re di Napoli ed
il Re di Sardegna, i quali avendo maggior nerbo
27
che tutti gli altri, potrebbero uniti in qualche
modo opporsi ai disegni altrui, e fare schermo ai
disturbatori del nostro riposo, si ritrovano
lontani e disgiunti da tanto Paese, e forse poco
concordi nei loro rispettivi sistemi....".
Intanto, il dilagare di nuovi contrasti porta
l'Europa ad essere invasa da nuovi e più
virulenti fatti bellici.
Da un lato la Spagna ( guerra dei sette anni ),
impegnata in un autocompiacimento per le
28
glorie passate, non si accorge di quanto siano
anacronistiche le posizioni che assume sia al
suo interno che nel contesto internazionale -
Caracciolo scrive ancora al Tanucci ".....Le
piaghe della Spagna più che altrove sono difficili
a saldare e la Nazione è troppo abbrutita dalla
superstizione, troppo attaccata ai suoi
pregiudizi, troppo contraria alle cose nuove,
troppo ammiratrice di se medesima e delle
glorie dei suoi padri "- dall'altro la difficile
situazione diplomatica, configuratasi dopo la
pace di Aquisgrana che vede la Francia
29
restituire agli austriaci i Paesi Bassi e i territori
coloniali britannici, impone grande equilibrio
proprio in considerazione del fatto che, in
seguito al trattato del 1748, Don Filippo, fratello
secondogenito di Carlo di Borbone, ottiene gli
ambiti ducati di Parma e Piacenza.
Occorre quindi tutto l'acume di un uomo che,
giustamente valutato dal primo ministro
Fogliani, si troverà alle prese con vicende che
danno un ruolo di primaria importanza anche a
fatti che, sulle prime, appaiono insignificanti. Ad
Aquisgrana, infatti, anche la Savoia ottiene un
30
allargamento dei suoi confini a scapito di quelli
milanesi.
Molto più tardi gli storici avranno modo di ben
valutare l'importanza di un uomo come il
Caracciolo. Questi, spostato da Parigi a Torino
per "cucire" delicatamente i lembi del cuore di
un continente che riesce solo attraverso la
diplomazia a scongiurare eventi disastrosi come
l'accendersi di nuovi conflitti, dà un'immagine
complessiva, lapidaria oltrechè lungimirante,
delle sue potenzialità.
31
I fermenti che corrono da un capo all'altro
d'Europa passano, infatti, per quel
rovesciamento di equilibri creati con la Pace di
Aquisgrana. Rovesciamento connaturato nella
mutata situazione franco-austriaca che, per
dirla semplicemente, mentre aggiusta un fronte
ne apre un altro, o meglio, crea le premesse per
nuove crisi. Il riferimento è mirato alle tradite
aspettative sabaude.
La Gran Bretagna che trentacinque anni prima,
con la pace di Utrecht (1713) era divenuta di
fatto l'arbitro d'Europa scegliendo la politica
32
dell'attendismo e dell'equilibrio, aveva avuto un
ruolo determinante nella spartizione dei domini
spagnoli. A quell'epoca, infatti, la Sicilia era
andata ai Savoia, legittimando le aspettative
che, come si è detto, verranno disattese ad
Aquisgrana.
Il futuro Vicerè passa di successo in successo,
trova corrispettivi ideali nei luoghi più
impegnativi della politica continentale e si
avvale delle coperture che gli vengono
rinnovate in rapporto ai vantaggi che un
33
diplomatico della sua statura riesce a dare al
Paese che lo ha espresso.
La capacità di penetrare nei meccanismi
economici degli Stati più progrediti, verso i quali
esso svolge la sua attività diplomatica, porta lo
Stato borbonico verso una capacità di
valutazione delle istituzioni partendo dal
semplice metodo di comparazione dei dati
analizzati.
Quando Caracciolo con l'esperienza più corposa,
dovuta ai quasi dodici anni di militanza nella
diplomazia di Stato, viene inviato a Londra, è
34
l'unico che può permettersi toni di presunzione
e di arroganza nei confronti di una grande
potenza alla quale tutto il Mediterraneo è
disposto ad inchinarsi in maniera acritica e
imbelle.
Queste le sue parole in una lettera al Tanucci:
"Sono gli inglesi totalmente diversi nel loro
paese: non sono né civili, né docili, né generosi,
né liberali, niente di questo: sono intrattabili,
alti, assoluti, imperiosi, capaci di gettar via
35
somme di denaro per un capriccio e per un
pegno e non un soldo di pura generosità "9.
Questo dà l'idea di quanto in uggia avesse quel
popolo e di quanto alto fosse il concetto che
aveva di sè come "soggetto capace di porsi al di
sopra delle parti e al di sopra delle
convenienze".
Trascorre il periodo londinese in sofferta
solitudine; ciò nonostante non mancano segni
della sua esuberanza e della sua inesauribile
voglia di comprendere situazioni sociali a lui del
9 Lettera al Tanucci, 13 Novembre 1764
36
tutto estranee. Si leggono, in alcune lettere da
Londra, inviti ad amici assai cari e vicini
spiritualmente, ai quali, un pò col tono
dell'imbonitore si propone fra l'altro la visita ai
bordelli. Ma non è questa la peculiarità degli
spazi di libertà che il Caracciolo si andava
concedendo. Vive con lui in Londra il fidato
maggiordomo, che figura nelle spese di Stato
come segretario; a questi confida i suoi più
reconditi pensieri e arriva a sentirlo più vicino di
altri soggetti, tanto da metterlo a parte delle
sue vicende personali, oltrechè quelle di Stato.
37
Ma una annotazione a parte va fatta per un "
complimento" che il Tanucci gli invia
indirettamente rispondendo all'accusa di aver
fatto del Caracciolo una sua creatura. A questo,
il Tanucci risponde: " Il principale oggetto mio è
stato non il Caracciolo ma il servizio del Re,
laonde il Caracciolo nulla mi deve".
Si comprende quindi come e quanta fosse la
stima di cui godeva il marchese nella sua veste
diplomatica.
Caracciolo lascia Londra il 21 agosto del 1771
mentre le navi inglesi stavano rientrando in
38
patria dopo aver assolto il compito di aiutare i
russi ad aver ragione della marina militare turca
( battaglia di Cesmè, 1770). Al maggiordomo-
segretario confida: " Caro amico, è finito per me
il tempo della solitudine, da oggi voglio
consentirmi più di un capriccio "..... e agli amici:
" Parigi è la città più confacente alle mie
esigenze spirituali ed è la società più vicina alle
mie tendenze e alle mie predilezioni".
D'altro canto non aveva fatto mistero di "
Quanto gli inglesi sono restii nel parlare tanto
39
pronti sono i parigini nel conversare
amabilmente ".
Si è pertanto portati a ritenere che
l'allontanamento da Londra non dev'essere
costato quasi nulla al "nostro" ambasciatore, se
non il costo materiale degli otto cavalli che si
portava appresso nella sua nuova destinazione
parigina.
Parigi è stata per il marchese una così grande
attrattiva da non fargli desiderare altro che di
potervi trascorrere tranquillamente gli ultimi
40
anni della sua esistenza. Con la sua briosa
conversazione, con la sua ironia, con il suo
savoir faire, amichevole e signorile, era amato e
stimato nel mondo intellettuale.
Veniva conteso fra i salotti più famosi del
tempo, da quello della signora Geoffrin a quello
del barone d'Holbach, dell'Helvetius, della
signora d'Epinay e della Lespinasse, e
dappertutto lasciava sentimenti d'ammirazione
e di simpatia tali da conquistare una grande
celebrità.
41
Così lo descriveva il Marmontel: " Al primo
abbordo aveva nel viso la impronta rozza e
massicia della goffaggine: per animare i suoi
occhi e sgrossare i suoi lineamenti occorreva
che parlasse. Allora, man mano che questa
intelligenza attiva, penetrante, luminosa, veniva
fuori, ne scaturivano scintille. Parlava male il
francese, ma era eloquente nella propria lingua:
e quando la parola francese gli mancava,
toglieva dall'italiano il termine, l'immagine che
gli serviva. Così, ad ogni momento, arricchiva il
suo discorso di espressioni ardite e pittoresche
42
che ci facevano invidia. (...) Tutti ambivano
l'amicizia del Caracciolo ".
Ben presto, insomma, il Caracciolo riempì della
sua fama l'intero mondo intellettuale parigino,
alle cui manifestazioni di cultura e di pensiero
egli partecipava con l'entusiasmo di chi viene
travolto improvvisamente da nuove correnti di
idee più consone al suo spirito.
In quegli anni l'Encyclopédie lanciava un
concetto nuovissimo di cultura, raccogliendo e
divulgando suggestioni e ipotesi destinate a
trovare ampia conferma nel progresso delle
43
scienze, divenendo punto di riferimento per le
idee che avrebbero guidato la borghesia
francese alla rivoluzione del 1789: era il tempo
di Voltaire e di Rousseau, col suo saggio "
Origini e fondamento dell'uguaglianza fra gli
uomini ". Caracciolo venne influenzato da
questo modo di pensare: egli assunse un
sentimento umanitario che lo riempì d'amore
verso le classi più umili e di odio verso i Signori
e i Potenti; lo spirito egualitario dell'epoca lo
fece riflettere sul valore della ricchezza e gli
aprì nuovi orizzonti di giustizia sociale, che,
44
eliminando le disuguaglianze fra gli uomini,
potesse instaurare l'era dell'ordine e della pace.
Inoltre, in Francia il Caracciolo rafforzò i suoi
sentimenti anticlericali: arrivò a dubitare della
sincerità di Clemente XIV quando aveva
promesso l'abolizione dell'ordine dei Gesuiti,
salvo poi ricredersi quando il pontefice emanò la
Bolla "Dominus ac Redentor", che
effettivamente scioglieva l'Ordine; il Caracciolo,
lieto del gesto di Clemente XIV, in una lettera al
Fabbroni nell'agosto del 1773, non nascose la
sua gioia, augurandosi che il Papa venisse "
45
attaccato sopra tre punti: la sua persona
particolare, la sua elezione al pontificato, e la
podestà delle chiavi"10.
A Parigi la vita del futuro vicerè la si può a
ragione definire felice; frequenta i circoli e
partecipa alle feste e alle riunioni con assiduità;
visita le amiche e si intrattiene con gli amici; e,
ogni tanto, malgrado l'età, va anche dietro a
qualche avventura galante. Quando nel maggio
del 1780, ricevette il reale dispaccio con cui
10 Lettera al Fabbroni, Luglio o Agosto 1773
46
Ferdinando III° gli annunziava la nomina a
Vicerè di Sicilia, Caracciolo ne venne
profondamente turbato: questo poneva fine alle
sue speranze di poter vivere a Parigi una vita
piacevole e tranquilla, lontana da ogni grave
preoccupazione di Governo. Quell'alto Ufficio,
vivamente ambito da tutti i funzionari
dell'amministrazione centrale del Regno delle
due Sicilie, con gli onori e gli emolumenti
connessi, col ritorno in patria dopo lunghi anni
di lontananza, con la prospettiva sicura di una
vita riposata e tranquilla, apparve al Caracciolo
47
tutt'altro che un lusinghiero riconoscimento alla
sua persona; egli lo giudicò una grave
contrarietà e si adoperò, per quanto possibile, a
far revocare l'inatteso provvedimento.
Quale fu la ragione per cui la carica di vicerè
venne attribuita al Caracciolo senza che questi
riuscisse a farsi esonerare, è ancor oggi motivo
di disputa fra gli studiosi. Mentre il Brancato
predilige la tesi che a condurre a Palermo il
Caracciolo sono stati i meriti ottenuti sul campo
della sensibilità verso l'Illuminismo e
conseguentemente tutto ciò che è ruotato
48
intorno alle necessità di Stato, e cioè
l'adeguamento a nuovi e più mirati metodi di
gestione della monarchia riformista, più
recentemente Mack Smith11 non considera
l'interessamento dello Stato napoletano verso le
nuove tendenze riformiste.
Cominciò così, nel Caracciolo, un conflitto
interiore fra il desiderio di rimanere nella sede
diplomatica che aveva fin lì ricoperto, e la
volontà di anteporre il dovere alle attrattive
della vita. E' in pratica un dilemma tutto
11 DENIS MACK SMITH, Storia della Sicilia medievale e moderna, Bari, 1987, pag. 408
49
caraccioliano. Nell'affermazione della sua
fedeltà allo Stato non ci sono dubbi che
tengano, ma la parte più recondita dell'animo
suo tenta di far prevalere lo spirito libero e
l'interesse dell'uomo. Ci volle più di un anno
prima che il Caracciolo pervenisse ad una
soluzione definitiva: il suo amore per la Patria e
la sua devozione per il sovrano fecero sì che il
Marchese, seppur riluttante, partisse alla volta
di Napoli nei primi del mese di maggio del 1781,
lasciandosi alle spalle la tanto amata Parigi.
50
A Napoli si fermò ancora molto prima di
raggiungere la sede definitiva: qui fece l'ultimo
tentativo per non addossarsi la responsabilità e
le preoccupazioni che comportava la direzione
del Governo di un Paese, che stimava fosse un
peso troppo grave per lui, già avanti negli anni,
e ancora una volta procrastinò la partenza.
Alla fine, spinto dalla forza del dovere, accettò
l'oneroso ufficio e partì alla volta della Sicilia,
dove, scortato da una nave da guerra, giunse il
14 ottobre 1781.
51
CAPITOLO II
Condizioni socio-economiche della Sicilia prima
delle riforme del Viceré
Caracciolo
Intorno alla metà del secolo XVIII la Sicilia era
ancora poco nota all'Europa. " La sua posizione
geografica non era stata presa in seria
considerazione, neanche nei famosi trattati
internazionali che avevano preparato o posto
fine alle grandi guerre di successione; Palermo,
la celebre e bella capitale dell'isola era stata
52
creduta dai collaboratori della famosa
Enciclopedia a Parigi, intorno al 1770, una città
distrutta dal terremoto"12.
Questa ignoranza si spiega se si prende in
considerazione la posizione stessa della Sicilia,
tagliata fuori dalle vie del traffico mondiale; la
mancanza di sicurezza dovuta alle incursioni
piratesche, che rendevano assai pericolosi i
viaggi per mare nel Mediterraneo meridionale;
e, non ultimo, il malgoverno degli spagnoli, che
avevano sfruttato per parecchi secoli l'isola e,
12 PONTIERI, Il Marchese Caracciolo Viceré di Sicilia ed il Ministro Acton, Napoli,1932, pag. 5
53
abbandonandola a sè stessa, avevano
contribuito a diseducarne gli abitanti e ad
alimentare i falsi miti che su di loro pesavano.
Ma dalla seconda metà del Settecento, l'Europa
comincia ad accorgersi della Sicilia, grazie ai
numerosi viaggiatori che, spinti dalla curiosità di
conoscere un paese nuovo e diverso da tutti gli
altri, visitarono l'isola.
D'altronde, quella che i forestieri venivano a
conoscere, e che poi descrivevano ai loro lettori,
era una Sicilia che non sempre rispondeva alla
realtà.
54
I resoconti settecenteschi dei viaggi in Sicilia,
infatti, sono spesso delle semplici esposizioni
delle bellezze naturali dell'isola; e quanto alle
persone con le quali i viaggiatori venivano in
relazione esse appartenevano in generale alla
aristocrazia e all'alto clero, e non si poteva fare
a meno di lodarne l'ospitalità e l'erudizione. Al
contrario, l'interno dell'isola era un'immensa
distesa di terreni brulli, infestati dalla malaria e
disabitati, che costituivano in gran parte
l'enorme latifondo feudale; la nobiltà era
ostentatamente sfarzosa, opprimente e
55
sfruttatrice, e viveva del fasto della sua
grandezza scomparsa; le plebi, specialmente
quelle rurali ( funestate da frequenti carestie ),
vivevano in miseria e con la loro passività e
completa indifferenza e rassegnata volontà non
facevano altro che favorire lo status quo; il
governo non voleva né poteva curarsi del Paese,
soggetto ancora al predominio dei baroni; la
struttura dello Stato conservava intatti i suoi
ordinamenti feudali.
56
Tutto questo sfuggiva o era poco e non sempre
attentamente osservato dai viaggiatori
settecenteschi.
La Sicilia appariva, dunque, un paese chiuso,
appartato, privo quasi di relazioni e di
comunicazioni con l'Europa, e tagliato fuori da
ogni influsso benefico delle nuove correnti di
pensiero; la sua popolazione sembrava
rassegnata ai propri mali e incapace di sentire il
benchè minimo bisogno di modificare i propri
sistemi di vita e le proprie condizioni.
57
Si sentiva, soprattutto, la mancanza di un
appoggio diretto del governo centrale, che per
le cose dell'isola non prendeva
quell'interessamento che si voleva.
L'unione dei due regni, quello di Napoli e quello
di Sicilia, dopo cinque secoli di separazione,
aveva destato in entrambi i paesi vivi
entusiasmi.
Dopo circa mezzo secolo di unione, però, i due
paesi erano rimasti ancora estranei e
sconosciuti l'uno all'altro, ciascuno con
istituzioni, leggi e costumi propri; per cui la
58
posizione politica della Sicilia nei confronti di
Napoli continuò ad essere sostanzialmente
identica a quella che in passato era stata
adottata con gli Spagnoli, i Savoia e gli Asburgo.
I Borboni avevano lasciato sussistere, immutate,
tutte le istituzioni pubbliche dell'isola, senza
chiedersi se esse rispondessero ancora alle
esigenze dei tempi in cui erano sorte, o se,
vecchie e inadeguate, non fossero che di
ostacolo alla buona amministrazione del paese.
Il Caracciolo si trovò ad operare in questo
sconfortante quadro socio-politico, nel quale,
59
sostiene il Brancato13, nonostante tutto egli trovò
terreno fertile per le sue riforme: " C'è in Sicilia,
alla vigilia delle riforme del Caracciolo, al di
sotto di quella apparente apatia e indifferenza
generale delle proprie condizioni, un gruppo di
animosi, che con grande dolore guardano ai
mali da cui vedono travagliata l'isola; che
vedono con rammarico decadere le industrie e
languire il commercio; che inteneriscono di
fronte alle continue vessazioni che vedono
commettere agli amministratori del Regno; che,
13 BRANCATO, Op. cit., pag. 66
60
pensando al miglioramento delle condizioni di
tutti, presentano con insistenza progetti di
riforma; che, soprattutto, ai privilegi dei baroni
tentano di fare anteporre il benessere comune".
Il Brancato si riferisce al principe di
Castelnuovo, ad Emanuele Bottari14, a Francesco
Maria Scrofani da Siracusa, e a tanti altri, che si
dedicavano al miglioramento della Sicilia. " Essi
costituiscono, peraltro, ancora una forza piccola,
sparuta e debole, che deve contrastare con il
feudalesimo imperante, con il baronaggio, che
14 Il cui Progetto proponeva "una misura generale dei beni, senza eccezione di persone, di ceto, di condizioni" per istituire un unico censo annuale proporzionato alle rendite di ogni tipo.
61
sovrasta ancora, con la sua impalcatura
feudale, su tutta la vita spirituale ed economica
del Paese. Prima ancora che il Caracciolo con la
sua appassionata azione riformatrice, ingaggi la
sua violenta lotta contro le forme tradizionali
della vita isolana, già in Sicilia ci sono i germi di
una tale lotta"15.
Di diverso avviso è invece il Pontieri16, là dove
afferma che " Se non può negarsi come la
Sicilia fosse stata trascurata dal Governo
borbonico, è pur vero che anche i siciliani non
15 BRANCATO, Op. cit., pag. 6916 PONTIERI, Op. cit. , pag. 9
62
avevano avuto coscienza di quella che a loro,
piuttosto che incuria, era parsa una buona
amministrazione. Sembrava che l'isola non si
fosse affatto accorta di quel fervido movimento
di vita, che pulsava fra i popoli più civili
d'Europa e d'Italia e li sospingeva sulla via del
progresso, modernizzandoli negli spiriti, nei
costumi e nelle istituzioni".
Le opere del Voltaire e del Rousseau, riuscivano
in qualche modo a penetrare in Sicilia, malgrado
la severità della censura. Ma i loro lettori
appartenevano in gran parte all'aristocrazia e
63
quindi fu molto scarsa l'efficacia innovatrice che
queste opere esercitarono sulle coscienze: "
Pochissimi compresero il vero valore di quei
libri; e quei pochi che li capirono, furono fra
coloro che li confutarono con vivace calore"17.
Se il Brancato insiste nel rilevare la presenza di
un tessuto sociale fertile e pronto per le riforme
del Caracciolo, il Pontieri su questo argomento
dissente impietosamente: " Una certa indolenza
spirituale, diffusa, per tante ragioni, in tutti gli
strati sociali, impedirono alla Sicilia di avvertire i
17PONTIERI, Op. cit. pag. 10
64
suoi mali secolari, di cercarne le cause e di
studiarne i rimedi. Se a Milano, a Firenze e a
Napoli uomini egregi si erano assunti il compito
di prospettare ai loro governi le tristi condizioni
dei propri paesi e di suggerire i provvedimenti
più adeguati al loro risorgimento, dalla Sicilia
nessuna voce partì a segnalare miserie, a
deplorar abusi e prepotenze, a chiedere
giustizia e rinnovamento".
Nel secolo XVIII la Sicilia dunque, a causa del
suo isolamento geografico e dell'indole degli
abitanti, era rimasta indietro nel generale
65
progresso che, fin dai principi del Seicento,
aveva coinvolto le popolazioni civili d'Europa. Di
questa arretratezza, però, non si era avvertita
alcuna sofferenza, anzi, i siciliani erano
gelosissimi delle loro istituzioni, le quali, sorte ai
tempi dei Normanni, portavano ancora le
impronte del predominio che sul paese
esercitava il potente baronaggio. " In Sicilia le
fondamenta ed i piloni di tutto l'edificio politico
continuavano ad essere i privilegi. Il privilegio,
infatti, si insinua da ogni parte, riducendo entro
certi confini il potere regio, già circoscritto
66
dall'antica Costituzione, e soprattutto rendendo
assai mal definita l'autorità del rappresentante
della Corona, vale a dire del Vicerè. In sostanza,
se il potere del Vicerè in basso non poteva
muoversi senza cozzare contro privilegi di
persone e di ceti, di corporazioni e di enti di
ogni colore, in alto si incontrava con i capi delle
supreme magistrature del Regno, (...)"18.
Tutti questi magistrati avevano la velleità di far
valere una certa indipendenza dall'autorità
politica, in base ad alcune vecchie prammatiche
18 PONTIERI, Op. cit., pag. 25
67
mai abrogate con le quali la Spagna aveva
cercato, in altri tempi, di consolidare il suo
dominio, opponendo poteri a poteri e favorendo
indirettamente le interferenze giurisdizionali.
Questi sistemi congiuravano contro l'effettivo
potere viceregio; e vi contribuiva anche il fatto
che la Corona, in caso di conflitto fra le
magistrature locali ed il vicerè, si mostrava più
incline a sorreggere quelle anzichè questo:
onde il Vicerè di Sicilia continuava, tutto
sommato, ad essere un semplice organo di
trasmissione burocratica.
68
" Coloro che il Vicerè veniva a trovarsi
continuamente di fronte erano i baroni, la cui
potenza doveva renderlo oltremodo guardingo a
non impigliarsi nell'inestricabile ginepraio dei
loro privilegi. L'isola brulicava di titolati: su
questo sciame di nobili, pretenziosi ed
arroganti, appena una settantina di famiglie
primeggiava. e, comunque, non erano le
sostanze spesso corrose da debiti, che
giustificassero la loro preponderanza; né la
cultura; né i buoni servigi resi allo Stato.
Insomma, nel Settecento non esisteva fattor
69
alcuno, che potesse giustificare l'incontrastato
predominio dei baroni nell'isola: questo riposava
più che altro, sulla forza della tradizione"19.
I baroni, quindi facevano sentire la loro
influenza su tutta la pubblica amministrazione:
il presidente della Giunta di Sicilia, con sede a
Napoli doveva essere scelto tra i membri del
baronaggio; i giudici e gli avvocati siciliani non
erano indipendenti, ed avevano relazioni con
varie famiglie aristocratiche; nel Sant'Ufficio e
nelle Università i baroni spadroneggiavano.
19PONTIERI, Op. cit. , pag. 26
70
Inoltre, i baroni, grazie ai loro privilegi secolari,
godevano di un particolare trattamento
giuridico: nei loro feudi essi erano indipendenti,
ed estendevano la successione feudale fino al
sesto grado in linea collaterale. Di conseguenza,
i diritti del fisco venivano gravemente
compromessi, e il potere giurisdizionale del Re
si arrestava al limitare dei loro feudi.
"Mettendo innanzi veri o pretesi privilegi, ( i
baroni ) si consideravano esenti dall'obbligo di
rivestire cariche civiche, come se ne restasse
offeso il loro decoro.
71
Indebitati, carpivano agevolmente alle imbelle
autorità differimenti e moratorie, che mettevano
nelle angustie i poveri creditori; posti alla
direzione di banchi pubblici o del patrimonio di
opere pie, non sempre ne uscivano con le mani
pulite. Proteggevano, inoltre, malviventi e
omicidi, per ostentazione di potenza e per
l'orgoglio di veder indietreggiare dinnanzi alla
loro livrea i rappresentanti della pubblica
sicurezza. Possedevano, inoltre, carceri orribili,
con celle sotterranee; e per i vassalli che
incorrevano in qualche reato, si servivano,
72
secondo l'arbitrio dei loro rappresentanti, di tutti
i mezzi repressivi consentiti dal diritto penale
del tempo"20.
La feudalità siciliana non aveva quindi subìto
rilevanti trasformazioni. Piuttosto, appariva
peggiorata, poichè i baroni non rispondevano
più, come in passato, alle esigenze locali,
dimorando nei feudi, promuovendone la cultura
e la colonizzazione: i baroni, anzi, abbandonati i
loro feudi, si erano trasferiti nelle città,
soprattutto a Palermo. La loro presunzione,
20 PONTIERI, Op. cit., pag. 28-29
73
inoltre, li portava a considerarsi compartecipi
della sovranità nel governo supremo del Regno:
posto come principio che soltanto i baroni
costituissero la nazione siciliana, essi, in virtù
dell'antico Parlamento, si credevano collaterali
del potere sovrano, quali rappresentanti del
Regno. In realtà il Parlamento siciliano aveva
perduto quasi tutte le sue prerogative, sia le
elettive, che le legislative, le giudiziarie e le
ispettive, ma possedeva l'assoluto monopolio di
tutto ciò che si riferiva a materia tributaria. Il
Parlamento rappresentava indubbiamente una
74
strumento di potenza in mano del baronaggio
del Regno. E di questo strumento esso voleva
servirsi, come se ne era già servito, per
influenzare i Vicerè.
"Messa in rilievo la preponderanza politica del
baronaggio, ci si presenta davanti agli occhi
l'enorme bardatura di usi e di abusi, che,
connessi con l'ordinamento politico e con
l'economia schiettamente feudale,
paralizzavano il commercio, l'industria,
l'agricoltura e il progresso in genere: barriere
doganali fra feudi e feudi, fra città e città, dazi e
75
pedaggi arbitrari, monopoli e privative,
manomorte e fedecommessi, corporazioni
rigidamente organizzate, agguerrite e
turbolente; plebe misera e abbrutita nelle
campagne, senza occupazioni stabili nella città;
artigianato asservito ai nobili, corrivo al
disordine e tradizionalista"21.
21 PONTIERI, Op. cit. , pag. 33
76
CAPITOLO III
Arrivo di Domenico Caracciolo in Sicilia. Prime
riforme e abolizione del Tribunale del
Sant'Officio
Il Caracciolo dunque giunse a Palermo la
mattina del 14 Ottobre del 1781. L'arrivo del
nuovo Vicerè era tradizionalmente salutato con
festosi benvenuti e con grande partecipazione
popolare. Così, l'arrivo del Caracciolo fu
festeggiato con "trattamenti veramente alla
grande e in tutto corrispondenti alla grandezza
77
eccellentissima di che trattava e di chi era
trattato"22.
Tre giorni dopo accompagnato dalle autorità e
dai nobili si recò al Palazzo Regio ad insediarvisi
in carica. Tutto quello sfarzo e quel lusso
colpirono negativamente il Caracciolo, che in
nessuna parte d'Europa s'era trovato mai a
contatto con una nobiltà così fortemente legata
alle tradizioni, e della quale intuì subito i vizi e il
modo di pensare. Il Caracciolo non era mai stato
in Sicilia, e non aveva mai avuto grande
22 MARCHESE DI VILLABIANCA, Diari, XVII, pag. 67
78
interesse per l'isola: venne così a trovarsi in un
mondo nuovo, e in un mondo per il quale aveva
dovuto abbandonare quella Parigi per lui così
ricca di amici e divertimenti. Scrive il Brancato:
" La sua profonda devozione al Sovrano e un
alto senso del dovere gli facevano accettare il
Governo di Sicilia come una missione, per cui
rinunziava anche alle cose più care della vita,
quale un'esistenza tranquilla e lontana dagli odii
del mondo, e al bene dell'Isola consacrava tutte
le sue capacità morali e intellettuali"23.
23 BRANCATO, Op. cit., pag. 91
79
Bastarono, però, pochi mesi di permanenza,
affinchè il suo intuito profondo, unito all'acuto
spirito di osservazione, gli svelasse subito tutti
gli annosi problemi dell'Isola.
Così, in una lettera a Gaetano Filangeri, datata
2 marzo 1782, il Caracciolo osserva che " Il male
è grande, il vizio è profondo e l'ammalato è
estremamente indocile ed ostinato. La Sicilia è
male organizzata, essendovi due sole classi
d'abitanti, signori e pezzenti, vale a dire
oppressori ed oppressi; si aggiugne poi che li
magistrati sono gli stromenti dell'oppressione.
80
Farebbero qui bisogno remedi grandi,
amministrati da mano intelligente e forte; se
Vostra Eccellenza anderà a sedere in quella
sede, ella potrà rimettere regola e norma in
questo Regno, e facendo valere le leggi,
abrogare gli abusi, frenare l'arbitrio ai giudici e
la prepotenza ai grandi, così ritornerà l'ordine,
la giustizia e la civile libertà in Sicilia"24.
Già da questa lettera si avvertono quelle che
erano le intenzioni del nuovo Vicerè: avvicinare
la Sicilia al Regno di Napoli, sollevando il popolo
24 In CROCE, Op. cit. , pag. 1060
81
ed abbassando la potenza dei baroni;
correggere gli abusi mettendo in armonia tutte
le classi dell'isola ed uguagliandole di fronte alle
leggi; ridare al governo del Vicerè autorità,
vigore, sviluppo e stabilità, riducendo le
competenze di tutte le magistrature siciliane
per trasferirle al potere viceregio; rimettere la
sovranità del re nell'Isola, facendone sentire la
presenza.
Il Caracciolo sapeva però che, per potere
instaurare nell'isola un nuovo ordine di cose,
così come gli suggeriva la sua mente di
82
"illuminato", bisognava rinnovare radicalmente
la Sicilia in tutti gli aspetti della sua vita, nella
convinzione che " I palliativi, ristorativi ed ogni
altro soccorso non farà altra cosa che ritardare
la sua rovina, ma nell'istesso tempo potranno in
tal maniera inviluppare la cura principale, che
quando si vorrà fare ne verrà più difficile il
successo"25. Questo brano è tratto dal carteggio
tenuto in quel periodo con l'Acton, ed evidenzia
come certi aspetti delle sue analisi trovavano
immediata risonanza fuori dagli angusti confini
25 Lettera del 2 Settembre 1782 all'Acton, in PONTIERI, Op. cit., pag. 84
83
dell'isola. La Sicilia gli appariva quindi come un
campo d'azione fertilissimo, che lo avrebbe
impegnato in una nuova prova da superare ad
ogni costo, con l'indispensabile aiuto di Napoli.
In una lettera del 27 giugno 1782, il vicerè
chiede al Governo centrale aiuto e
comprensione: " essendo l'amor di se stesso il
motore delle azioni umane niuno si espone a
processi ed a guai, ed a perdere la riputazione.
Ecco la vera causa perchè in Sicilia i miei
antecessori ed i consultori e segretari non
hanno mai fatto cosa di buono, e per lo più si
84
sono rivoltati al bottino ed alla rapina. Fogliani,
Stigliano sono certo uomini onesti, però i loro
collaterali hanno rubato ed essi, parte per
insufficienza propria e parte per massima, e
sopra tutto per timore dei siciliani, non hanno
mai né potuto né voluto far niente. Eppure è un
peccato, sarebbe facile di riordinare la Sicilia,si
può porre in buono stato molto più facilmente
che il Regno di Napoli; vi sono due o tre grandi
operazioni che sembrano difficili, e sarebbero
facilissime ad eseguirsi".
85
Con questa lettera emerge un altro dei propositi
del Caracciolo, ossia richiamare l'attenzione del
Governo di Napoli sul Regno di Sicilia,
mostrandogli " le piaghe vecchie e profonde "
da cui vedeva afflitta l'isola, per dare alla
persona del Vicerè quella autorità e quel
prestigio necessari a chi presiede al governo di
un Regno.
I suoi primi atti furono dunque mirati ad
innalzare nell'isola l'autorità e il prestigio del
Vicerè, sopraffati dall'esagerato potere a cui
erano pervenuti il Parlamento e il Senato di
86
Palermo, e in genere tutte le magistrature
dell'isola, che nel loro ambito costituivano tanti
piccoli poteri indipendenti.Il Caracciolo riteneva
infatti che sottomettere le magistrature siciliane
al controllo diretto della sua persona costituisse
il primo passo necessario per la rivalutazione
dell'autorità del Re di cui era egli
rappresentante nel Regno di Sicilia. "Così il
Caracciolo, con vigore e risolutezza che non si
erano mai riscontrati nei precedenti Vicerè,
iniziava un'opera in cui maggiormente si riflette
la rettitudine del suo carattere e l'onestà del
87
suo cuore: tenere a freno i magistrati, per una
più retta ed imparziale amministrazione della
giustizia, togliere gli arbitri nelle condanne, per
una maggiore sicurezza e disciplina nel popolo;
salvaguardare gli interessi del Re e dei cittadini
con una più severa applicazione delle leggi, per
porre fine all'indecoroso abuso che si faceva
della giustizia nel Regno di Sicilia"26.
I primi provvedimenti del Caracciolo, in sintonia
con i suoi intenti di dare al paese un nuovo
assetto e di migliorarlo nelle sue condizioni
26 BRANCATO, Op. cit., pag. 95
88
sociali, riguardano per la maggior parte la
promozione di opere pubbliche: alla Giunta dei
Presidenti e Consultori dà l'incarico di proporre i
mezzi per la creazione di un nuovo cimitero e di
un mercato pubblico; alla Deputazione delle
strade consiglia di esaminare quanto prima i
progetti già presentati per lastricare le strade;
inoltre, impone agli avvocati di unirsi alle ronde
notturne e richiama i cittadini ad una maggiore
serietà di vita, vietando, per il carnevale, l'uso
di maschere che potessero essere offensive.
89
Ma l'attacco al vecchio regime si manifestò in
tutta la sua chiarezza con la soppressione del
Tribunale del Santo Officio: il Tribunale
dell'Inquisizione.
L'Inquisizione siciliana non era più quella severa
e potente istituzione che da sempre aveva
combattuto e trattato da pari a pari con i Vicerè,
ma era comunque un'istituzione che aveva
messo radici assai profonde e il Caracciolo,
combattendola, reputò che la sua rovina lo
avrebbe agevolato nelle opere di riforma. "Il
Santo Uffizio gli si presentava come un baluardo
90
immenso che conservava i retaggi più tristi del
passato, le libertà più intollerabili, il predominio
più opprimente sulla popolazione; che, seppure
aveva cessato dai grandi rigori di un tempo, ed
ormai da cinquanta anni nessuna vittima s'era
vista più ardere, il Tribunale conservava intatti i
segni esteriori dello splendore antico, nel chè il
Caracciolo vedeva l'ostacolo più serio e più
grave al rinnovamento del popolo e
dell'attuazione del programma di riforme che
egli aveva in animo di promuovere in Sicilia"27.
27 BRANCATO, Op. cit., pag. 98
91
Il Caracciolo inizia i suoi attacchi verso il Santo
Ufficio nei primi giorni dell'anno 1782 (22
gennaio) ordinando, con il parere positivo del
Consultore e della Giunta dei Presidenti28, la
sospensione delle stampe, degli editti e
scomuniche che il Tribunale era solito
pubblicare durante la Quaresima (Editti di Fede)
. Questa riforma colpì i dirigenti del Santo Uffizio
che, ad un tratto , si trovarono limitati nella loro
libertà di azione e, di riflesso, colpì anche i
28 Il 22 Gennaio 1782, la Giunta si uniformò al criterio del Viceré, esprimendo il parere di non doversi accordare il Publicetur perché "di sommo pregiudizio alla pubblica tranquillità, e civile società, ai diritti del sovrano e alle patrie leggi".
92
baroni, che dal Tribunale traevano molti
vantaggi e privilegi.
Due giorni dopo(24 gennaio) il Vicerè trasmise
al marchese della Sambuca il parere della
Giunta ed i documenti; il Re, con dispaccio del 9
febbraio 1782, approvò quanto era stato
ordinato dal Caracciolo, "manifestando che in
appresso sarebbero state comunicate le ulteriori
risoluzioni "29.
In quel periodo il governo regio reputava il
Tribunale del Santo Ufficio, inviso alla
29 LA MANTIA, Origini e vicende dell'Inquisizione in Sicilia, Palermo 1977, pag. 137
93
popolazione, ormai inutile; una eventuale
abolizione era quindi già stata ventilata,
considerando che sarebbe stata gradita al
popolo e lucrosa per il fisco, grazie alle rendite
che si erano acquistate in secoli di confische.
Inoltre, a quel tempo, il sacerdote D. Pasquale
Mattias, denunziato al Tribunale del Santo
Ufficio, sottoposto a processo e condannato
dall'Inquisitore Monsignor Ventimiglia, fece
ricorso al Re contro la "nulla, illegittima ed
ingiusta sentenza contro di lui proferita
dall'Inquisitore".
94
"Il Re fece trasmettere la dimanda e gli atti alla
Suprema Giunta di Sicilia in Napoli. L'illegale
procedimento contro il parroco Mattias servì a
richiamare l'esame sui vieti sistemi di procedura
adottati dal Tribunale del Santo Officio in Sicilia
e sulla necessità di togliere gli abusi con
l'abolirlo totalmente"30.
Dopo un maturo esame delle proposte, il Re
Ferdinando III di Sicilia, seguendo i consigli e gli
incitamenti del Caracciolo, tradizionalmente
avverso ad ogni privilegio ed abuso
30 LA MANTIA, Op. cit., pag. 138
95
ecclesiastico, e il conforme avviso del Marchese
della Sambuca, ordinò l'abolizione
dell'Inquisizione di Sicilia.
Il 12 marzo 1782 il Consultore Saverio Simonetti
si recava nel palazzo del Sant'Officio per
apporre i sigilli alle stanze del Tribunale
dell'Inquisizione contenenti i processi criminali, i
registri dei carcerati, le denunzie e le sentenze,
e per sequestrare i libri e registri delle rendite
dell'Inquisizione.
"Sugellò egli pertanto gli archivi delle scritture e
passando a fare inventario dell'argento e delle
96
mobilie serbate ed esistenti nel palazzo, terminò
finalmente la sua incumbenza con annunziare ai
rei colà imprigionati la lor sicura liberazione fra
giorni. Di tali infelici non trovò egli che soli tre, o
per dir meglio, tre sole femmine streghe,
giacchè con avvedutezza nei precedenti mesi di
quest'anno 1782 erano stati messi in libertà
quegli altri pochissimi presi, che ivi dianzi
gemevano, d'ordine di monsignor Inquisitore
supremo Salvatore Ventimiglia"31.
31 MARCHESE DI VILLABIANCA, Diari, in LA MANTIA, Op. cit., pag. 143
97
La cerimonia di abolizione del Tribunale si
svolse con grande pompa e solennità, il 27
marzo del 1782. Il marchese di Villabianca ne dà
notizia nei suoi Diari32: " La mattina di mercoledì
27 marzo si portò il Vicerè nel palazzo
dell'Inquisizione nella maniera medesima e col
treno stesso che suole cacciar fuori quando lui
marcia per le cappelle reali. Da D. Giuseppe
Gargano, segretario di Stato, fu letta la Real
Carta dell'abolizione nell'aula propria
dell'Inquisitori, per la quale si venne a capo di
32 In LA MANTIA, Op. cit., pag, 143
98
saper il motivo di tal clamorosa novità. Dopo di
che ce la spassammo tutti facendo corte alla
persona del principe nel visitare tutto il Palazzo
e osservare lo stato delle carceri. Dopo la fine di
questa funzione si escarcerarono tre streghe.
Ma il più che cantò vittoria fu il parroco
Pasquale Mattias, il quale fu a gioire, come
quello che coi suoi ricorsi diede un fomento e il
colpo fatale alla caduta di questo colosso. Il
Vicerè ordinò che si cancellassero in seguito
tutti i segni, stemmi e croci che facean mostra
di casa di S.Uffizio in tutti i luoghi del palazzo, e
99
che si fossero mandati al fuoco all'istante tutte
le vesti gialle degli eretici inquisiti e le mitre e
gli strumenti di vergogna, e tutti i quadri che si
trovavano nel Palazzo".
L'abolizione del Sant'Uffizio fu veramente un
avvenimento grandioso33, che agli occhi del
Caracciolo acquistava maggiore importanza per
i risultati raggiunti. Era, infatti, la prima, la più
grande vittoria che egli riportava in Sicilia di
fronte agli stessi siciliani, sempre restii ad
accogliere le sue riforme; vittoria che, mentre
33 "Avvenimento fu questo che riempì di novità e di stupore tutto il paese". VILLABIANCA, Diari.
100
da una parte conferiva nuova autorità e
prestigio al Vicerè, dall'altra poneva la Sicilia su
un nuovo piano politico che l'avviava verso quel
livellamento con Napoli che fu sempre la mira
principale dell'azione riformatrice del
Caracciolo.
Il Caracciolo non tardò a comunicare la sua gioia
all'amico filosofo D'Alembert: "A dirvi il vero,
mio caro amico, mi son sentito intenerire ed ho
pianto: è la sola ed unica volta che sono giunto
a ringraziare il cielo di avermi tolto da Parigi per
servire d'istrumento a questa grand'opera.
101
Tutta questa importante esecuzione, la quale
temevasi potesse essere rubata, si è compiuta
colla maggior tranquillità possibile ed anche
cogli evviva de' più sennati"34.
Una inesatta tradizione storica vuole che il
Caracciolo, di sua iniziativa, abbia quello stesso
27 marzo ordinato la distruzione dei registri e
degli archivi del Santo Officio: " Il dì stesso nel
cortile dell'antico palazzo, fatti ammassare i
processi criminali compilati in tre secoli dagli
Inquisitori, ordinò che sotto i suoi occhi vi
34 In LA LUMIA, Domenico Caracciolo, Palermo, 1868
102
s'appiccasse il fuoco: durarono le fiamme sino
all'indomani; ma se una moltitudine può essere
talvolta scusabile quando in un impeto cieco
distrugge gli oggetti della propria sua collera,
non è a dire lo stesso di chi avrebbe dovuto pur
conoscere come i documenti del passato
appartengano alla posterità ed alla storia"35
Il La Lumia, per sbadataggine o malafede,
dimentica però che la distruzione delle carte
dell'Inquisizione avvenne esattamente un anno
dopo l'abolizione del Tribunale (27 giugno
35 LA LUMIA, Op. cit. , pag. 370
103
1783), e che essa avvenne per espresso ordine
del Re, su richiesta di monsignor Ventimiglia,
ultimo Grande Inquisitore.
Dichiara inequivocabilmente l'Alessi, per tredici
anni Consultore e qualificatore
dell'Inquisizione36: " Abolitosi già il Tribunale
dell'Inquisizione di Sicilia fu dal nostro Re
Ferdinando III ordinato che si bruciasse tutto
l'archivio segreto, cioè tutti li processi e
denunzie, ed altre scritture a detto segreto
appartenenti, lo che si eseguì nell'anno
36 ALESSI, Notizie , in LA MANTIA, Op. cit., pag. 114
104
dappresso, cioè a 27 giugno 1783. In detta
mattina, il medesimo Vicerè Marchese
Domenico Caracciolo fece dare principio alla sua
presenza a tale bruciamento, il quale durò sino
alla notte. Fu ripigliato tale incendio l'indimani a
28 giugno, e durò sino a mezzogiorno,
fintantochè col fuoco si consumò ogni minima
memoria del Santo Officio, sino le mitre, abiti
gialli ritratti d'inquisiti, e qualunque altra
minuzia appartenente all'Inquisizione".
Per la storia la perdita fu indubbiamente
incommensurabile. Del resto, sia il clero, che la
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nobiltà, che lo stesso Re avevano interesse a
che quelle carte venissero bruciate: esse
contenevano più di un segreto sia sullo Stato
che sulla Chiesa, e di certo molte famiglie
avevano usato arbitrariamente il Tribunale
dell'Inquisizione per delle questioni private.
Conservando intatto l'archivio del Sant'Officio,
potevano dunque venire alla luce non solo i
processi legittimi, ma anche le false denunzie e
le deposizioni calunniose da parte di esponenti
di famiglie molto in vista.
106
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Bari, 1987
110
MARCHESE DI VILLABIANCA, Diari 1783-1785,
Biblioteca Comunale di Palermo, volumi XVIII-
XIX
111
INDICE
INTRODUZIONE...................................................
pag.1
CAPITOLO I..........................................................
pag.2
I primi anni del Marchese Caracciolo. Gli studi e
le esperienze nella magistratura. Attività nel
campo diplomatico
CAPITOLO II........................................................
pag.41
112
Condizioni socio-economiche della Sicilia prima
delle riforme del Viceré Caracciolo
113
CAPITOLO III......................................................
pag. 61
Arrivo di Domenico Caracciolo in Sicilia. Prime
riforme e abolizione del Sant' Officio
BIBLIOGRAFIA...................................................
pag. 85
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