L'Abruzzo tra storia e memoria

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L’abruzzo tra storia e memoria Il racconto e le immagini dei film di famiglia Annacarla Valeriano

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Il libro analizza i film familiari come fonte per la storia e li utilizza per descrivere la storia dell'Abruzzo in relazione con la storia nazionale. Il libro si basa sui film di famiglia raccolti dall'Archivio Audiovisivo della Memoria Abruzzese dell'Università di Teramo

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L’abruzzotra storiae memoriaIl racconto e le immagini

dei film di famiglia

Annacarla Valeriano

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L’Archivio Audiovisivo della memoria abruzzese

L’Archivio audiovisivo della memoria abruzzese è un progetto che, con un approccio scientifico rigoro-so e originale, muove dalle aule e dai saperi accademici e arriva nel cuore della regione. L’Archivio è una sorta di omaggio all’Abruzzo che la Fondazione Università degli Studi di Teramo sostiene per creare un ulteriore punto di incontro tra Università e territorio.

Un legame che non trova cittadinanza in concetti astratti, ma nella ricerca continua di opportunità e occasioni concrete di crescita, perché è sempre più necessario fronteggiare la crescita della complessità agevolando tutti quei rapporti, quelle contaminazioni e quei processi in grado di coniugare saperi, co-noscenze, entusiasmi e risorse.

Con questo spirito è stato pensato il nostro Archivio, scegliendo i filmini familiari e amatoriali, uno spaccato di vite comuni, personaggi e protagonisti che attraverso ordinarie esistenze riescono a raccon-tare “in presa diretta” vita, abitudini, costumi, aspettative, emozioni e a regalarci un affresco della nostra storia recente.

Si è trattato di un’intuizione felice e di un’operazione brillante, che ha riproposto in primo piano la forza delle memorie individuali nella costruzione della memoria collettiva, nonché il valore del filmino familiare quale documento “lindo”, incontaminato, degno di attenzione storica perché immediato e diretto, privo di suggestioni e fantasie.

Un processo che è stato possibile realizzare grazie alla capacità della Facoltà di Scienze della Comu-nicazione di annodare filoni di studio, di interessi e di competenze, per sperimentare percorsi di ricerca nuovi e alternativi, attingendo a quel patrimonio vitale per una università, rappresentato dai propri studenti e dai propri laureati.

L’Archivio - diretto dallo storico Guido Crainz - rappresenta un paradigma della capacità della nostra Università di coniugare e declinare culture e generazioni, di cui il libro curato da Annacarla Valeriano rappresenta un’importante testimonianza.

Nella certezza che l’Archivio, aperto e consultabile nella sua struttura digitalizzata, rappresenterà un riferimento per tutti gli abruzzesi che potranno usarlo come scrigno della memoria per leggere il pre-sente e immaginare il futuro, il lavoro di Annacarla Valeriano consente al lettore di aprire una preziosa scatola dei ricordi e ricomporre i tasselli del passato.

Luciano D’Amico Direttore Fondazione Università degli Studi di Teramo

Foto di copertinaFontanelle di AtriFondo Nardini - Archivio fotografico Biblioteca provinciale “Melchiorre Delfico”

Foto interneArchivio audiovisivo della memoria abruzzeseFondazione Università degli Studi di Teramo

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L’Abruzzo fra storia e memoriaIl racconto e le immagini dei film di famiglia

Questo libro testimonia di un lavoro interamente svolto dall’autrice presso l’Università di Teramo e dedicato all’Abruzzo “fra storia e memoria”, fra vicende economico-sociali e immaginari collettivi. E’ un lavoro iniziato con la tesi di laurea, proseguito con una borsa di ricerca e completato con il dottorato in Culture, linguaggi e politica della comunicazione, brillantemente conseguito nel dicembre del 2008. In questo percorso Annacarla Valeriano ha “costruito” un bene prezioso per l’Ateneo e per il territorio in cui l’Ateneo opera: questo è l’Archivio audiovisivo della memoria abruzzese, largamente basato sui film di famiglia, cui la Valeriano ha dato un contributo decisivo e insostituibile. Un bene prezioso in primo luogo per l’Ateneo, per la ricerca e per la didattica: lo testimonia l’uso che già ne è stato fatto dai docenti e dagli studenti delle lauree magistrali e del master in giornalismo. Un bene prezioso anche per il terri-torio: nel settembre di quest’anno ho partecipato con vera emozione alla “prima” di All’ombra del tempo che si è svolta a Poggio Umbricchio, il piccolo paese di montagna che è protagonista del documentario realizzato da Andrea Sangiovanni con i materiali dell’Archivio. Un piccolo paese che oggi si spopola quasi interamente d’inverno e riprende più intensa vita in estate: quella sera la piazza era gremita oltre ogni previsione di donne, uomini e bambini che –direttamente o indirettamente- in quel luogo aveva-no le loro origini. Ad essi si mescolavano gruppi di studenti che avevano contribuito alla realizzazione del documentario recandovi un importante apporto intellettuale e umano: anche questo, ho pensato quella sera, può essere l’Università.

Nella stessa direzione va la pubblicazione di questo libro. Vuole essere anche un invito a intensifi-care la raccolta di “documenti” come i film di famiglia e amatoriali, che altrimenti rischiano di andare irrimediabilmente perduti. Un invito, inoltre, ad allargare la ricerca alle fotografie, alle testimonianze audiovisive e a molto altro ancora, per consegnare al futuro la preziosa memoria di emozioni e di senti-menti, di vissuti quotidiani e di momenti collettivi. In un bel romanzo di Christa Wolf la protagonista, Cassandra, ricorda la sua vita nell’antica Troia e conclude: “Le tavolette degli scribi tramandano la con-tabilità del palazzo: grano, anfore, armi, prigionieri. Per il dolore, l’infelicità, l’amore non ci sono segni. E questo mi sembra di rara infelicità”.

Nasce da qui la sfida dell’Archivio audiovisivo della memoria abruzzese. Nasce da qui l’ ambizioso obiettivo di raccogliere i segni delle speranze e dei sogni, dell’amore e della gioia, talora anche della tri-stezza e del dolore: cioè i segni insostituibili della vita, della nostra vita. Gli strumenti indispensabili per una storia vera, perchè - come dice una bella canzone di Francesco De Gregori- “la storia siamo noi”.

Nel percorso che ci ha portati alla costruzione dell’Archivio –un percorso condiviso da molti, in particolare da Andrea Sangiovanni e da Silvia Salvatici, docenti anch’essi della Facoltà di Scienze della Comunicazione- non sono stati pochi i momenti di emozione, talora di commozione, stimolati dalle immagini. Ed era stato un film amatoriale di rara intensità a rafforzarmi nella convinzione di dar corpo a questo progetto: un filmato girato a Manoppello nel 1956, al funerale delle vittime della tragedia di Marcinelle (le ha proposte Giuseppe Giannotti in un bellissimo documentario di Raitre, Marcinelle, me-morie del sottosuolo). Il libro di Annacarla Valeriano porta il lettore a vivere in parte quelle emozioni,

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Molte sono le persone che in un modo o in un altro mi hanno aiutata in questo percorso di ricerca, indi-candomi la strada e discutendo con me delle questioni qui affrontate.Tra queste vorrei ringraziare in primo luogo Guido Crainz, nei cui confronti ho accumulato un debito di riconoscenza che è cresciuto di giorno in giorno. Senza il suo sostegno questo libro non avrebbe visto la luce e certamente sarei stata orfana di molti insegnamenti che valgono per me più di un tesoro, perché fonte di ricchezza interiore.Ringrazio altresì Luciano D’Amico per aver creduto nella bontà di questo lavoro.Andrea Sangiovanni e Silvia Salvatici sono stati “compagni di viaggio” di questa avventura; sono loro grata per aver condiviso con me scoperte e difficoltà e per avermi arricchita con le loro conoscenze sull’argomento.Per questo libro sono stati di grande aiuto anche i momenti di confronto e di riflessione che mi sono stati offerti da Mario Spiganti della Mediateca della Comunità Montana del Casentino. A lui va la mia grati-tudine per la sua generosità.Le famiglie abruzzesi sono state le vere protagoniste di questo lavoro: a ognuna di loro va la mia ricono-scenza per i preziosi materiali messi a disposizione e un ringraziamento particolare per la loro disponibi-lità.Allo stesso modo ringrazio i miei genitori per avermi seguita silenziosamente e con amore in questo per-corso.Con Ketty ho potuto parlare a lungo e in ogni momento e la ringrazio per la pazienza infinita, per il soste-gno e per l’affetto che non sono mai venuti meno.Per finire, alcune parole di gratitudine per Andrea che mi ha accompagnata nel tratto finale di questo tragitto e mi ha aiutato a tirare fuori tutte le mie emozioni.

Teramo, settembre 2009 A.V.

sia pure in modo indiretto. Nelle nostre intenzioni è solo una anticipazione del lavoro appena avviato all’interno della Fondazione dell’Ateneo -e bisognoso di sostenitori generosi e appassionati- volto a mettere in rete la parte più significativa dell’Archivio. Volto a far provare a tutti quelle sensazioni e quelle emozioni, e a mettere a disposizione degli studiosi e dei cittadini uno straordinario patrimo-nio di conoscenza. Quelle immagini possono aiutare davvero a comprendere la ricchezza della storia d’Abruzzo. Possono far comprendere, inoltre, che anche la vicenda di un piccolo paese o l’esperienza migratoria di una sola famiglia possono essere la metafora e la “rivelazione” di una più ampia vicenda collettiva. Talora, come nel caso dell’emigrazione, di un’epopea: un’epopea che ha fondato parti decisive della nostra identità.

Anche questo può e deve essere l’apporto dell’Università al territorio in cui opera e alla società nel suo insieme. Era questa la convinzione di un Rettore indimenticato e indimenticabile, Luciano Russi, il primo sostenitore del nostro progetto. E’ stata questa la convinzione del Rettore Mauro Mattioli, che ha contribuito in modo decisivo allo svilupparsi del lavoro e al suo collocarsi all’interno della Fondazione dell’Ateneo. Ed è questa, so di poterlo dire, la convinzione del nuovo Rettore, Rita Tranquilli Leali.

Questa convinzione è rafforzata, io credo, dalla consapevolezza di poter contare su giovani di qualità, capaci di ricerca e di passione. Come ricordavo, il libro è frutto di un dottorato che si è concluso un anno fa. Nei mesi scorsi è già stato pubblicato un altro volume nato in quello stesso ambito e accolto da giudizi molto lusinghieri sulla stampa nazionale: è di Emiliano Morreale ed ha come titolo L’invenzione della nostalgia (Donzelli editore). Chi, come me, è stato il coordinatore di quel dottorato vive con gran-dissimo orgoglio risultati come questi. Più ancora, sente di aver fatto il proprio dovere.

Guido Crainz Direttore dell’Archivio audiovisivo della memoria abruzzese

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INDICE

«La storia siamo noi» 11 1. UnA nUovA storIA per nUove fontI 13 1.1. La “rivoluzione documentaria” 13 1.2. L’impiego delle immagini come fonti 15

2. rAccontI per ImmAgInI: LA fotogrAfIA, IL cInemA, I fILm dI fAmIgLIA 21 2.1.La fotografia 22 2.2. Il cinema 23 2.3. I film di famiglia 26

Abruzzo in super8: memorie familiari fra anni Quaranta e settanta 37proLogo 39 I criteri di analisi 41

3. gLI AnnI cInQUAntA: frA cULto deLLA trAdIzIone e Avvento deLLA modernItà 45 3.1. Il dopoguerra 45 3.2. Conservazioni e trasformazioni: i diversi volti della Ricostruzione 50

4. gLI AnnI sessAntA: verso LA socIetà deI consUmI 61 4.1. L’avvio di una crescita rapida e concentrata 61 4.2. Modernizzazione e identità familiare 65 4.3. La precarietà della modernizzazione 79

5. svILUppI e contrAddIzIonI degLI AnnI settAntA 85 5.1. Il consolidamento del benessere fra luci e ombre 89 5.2. Spopolamenti e popolamenti 95 5.3. Disgregazioni e conservazioni 98 5.4. Vecchi e nuovi miti 103 5.5. Culture e mentalità 107

emigranti in posa: luoghi e immagini 113 6. Le pArtenze 117 7. Le vIsIte 123 8. I rIentrI 129

Appendice e Bibliografia 131

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«La storia siamo noi»

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1. UnA nUovA storIA per nUove fontI

Il tempo in cui gli storici credevano di dover lavorare esclusivamentecon testimonianze scritteè passato da un pezzo.1

1.1. La “rivoluzione documentaria”

La scoperta del film di famiglia come fonte storica e la sua graduale inclusione nel laboratorio dello storico è solo una delle più recenti frontiere aperte dalla “rivoluzione documentaria”2 vissuta dalla storiografia contemporanea. Una “rivoluzione” che non è ancora conclusa e che affonda le sue radici agli inizi del XX° secolo quando, in un clima di insofferenza nei confronti della dottrina storiografica positivista3, si incomincia a parlare di una “nuova storia”. In tale espressione confluiscono istanze ed esigenze diverse di matrice non soltanto europea, accomunate dalla «volontà di allargare la visuale di chi fa ricerca storica (…) e di rinnovare drasticamente metodi e procedure del lavoro storiografico»4. Con la rivoluzione documentaria, suoni, parole, immagini si trasformano in oggetti di studio specifici ed autonomi. Acquistano un’anima, una forma ed un valore contenutistico in grado di restituire bene il senso storico del passato. Le tendenze di questa rivoluzione, quantitativa e qualitativa5 insieme, sono ben fissate nelle parole di Luciene Febvre:

La storia si fa senza dubbio con i documenti scritti. Quando ce n’è. Ma si può fare, si deve fare senza documenti scritti, se non esistono. Per mezzo di tutto quello che l’ingegnosità dello storico gli consente di utilizzare per fabbricare il suo miele, in mancanza dei fiori normalmente usati. Quindi con la parole. Con segni. Con paesaggi e con mattoni. Con forme di campi e con erbe cattive. Con eclissi lunari e con collari da tiro (…) In una parola, con tutto quello che, essendo proprio dell’uomo, dipende dall’uomo, serve all’uomo, esprime l’uomo, significa la presenza, l’attività, i gusti e i modi di essere dell’uomo. Non è forse vero

1 C. Ginzburg, Indagini su Piero, Torino, Einaudi 1981, p. XXI .2 Cfr. J. Le Goff, Storia e Memoria, Torino, Einaudi, 1982.3 Utili riferimenti ai principali caposaldi della dottrina storiografica positivista si trovano in: J. Le Goff - P. Nora (a cura di), Fare storia, Torino,

Einaudi, 1981; J. Topolski, La storiografia contemporanea, Roma, Editori Riuniti, 1981; G. De Luna, La passione e la ragione : fonti e metodi dello storico contemporaneo, Firenze, La Nuova Italia, 2001.

4 A. D’Orsi, Alla ricerca della storia: teoria, metodo e storiografia, Torino, Paravia Scriptorium, 1999, cit. p. 157. Di new history, in anticipo rispetto ai francesi Bloch e Febvre, parlano ad esempio gli statunitensi James Harvey Robinson e Harry Elmer Barnes, designando con il termine un approccio nuovo in grado di cambiare la rotta del tradizionale paradigma e di svecchiare metodi ed oggetti della storia. Cfr. J.H. Robinson, The new history, New York, Macmillan, 1912; H.E. Barnes, The New History and the social studies, New York, The Century co., 1925. A partire dalla prima metà del ‘900, la scuola francese delle Annales getterà le basi della cosidetta “nuova storia”, fondata su un approccio interdisciplinare, sullo sviluppo di nuovi metodi e tecniche di ricerca e sulla scoperta di nuove fonti. Per una storia delle Annales, cfr. P. Burke, Una rivoluzione storiografica: la scuola delle Annales, 1929 - 1989, Roma, Laterza, 1992; per una panoramica esaustiva sui concetti principali della “nuova storia”: J. Le Goff - R. Charter - J. Revel, La Nouvelle Histoire, Paris, C.E.P.L.E, 1978.

5 J. Le Goff, Storia e memoria, op. cit. p. 448.

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che una parte, e quella più appassionante senza dubbio, del nostro lavoro di storici consiste nello sforzo costante di far parlare le cose mute, far dire loro quel che da sole non dicono sugli uomini e sulle società che le hanno prodotte, fino a costituire fra loro quella vasta trama di solidarietà e di ausili reciproci, capace di supplire all’assenza del documento scritto?6.

Si rompe dunque il legame che vincola gli storici ai testi scritti: tutto ciò che è in grado di restituire un frammento del passato e dell’uomo diventa fonte per la storia7. Da questo allargamento della nozione di documento discende il secondo effetto provocato dalla rivoluzione documentaria: l’abolizione della distinzione positivista tra monumento e documento8. Scrive Jacques Le Goff:

Il documento è monumento. È il risultato dello sforzo compiuto dalle società storiche per imporre al futuro quella data immagine di se stesse (…) Non esiste un documento - verità. Ogni documento è menzogna. Sta allo storico il non fare l’ingenuo (…) Qualsiasi documento è nello stesso tempo vero e falso, perché un monumento è in primo luogo un travestimento, un’apparenza ingannevole, un montaggio. Bisogna anzitutto smontare, demolire quel montaggio, destrutturare quella costruzione e analizzare le condizioni in cui sono stati prodotti quei documenti - monumenti9.

Sono un esempio di documento - monumento gli stessi film di famiglia, «realizzati da un membro della famiglia riguardanti personaggi o avvenimenti legati in qualche modo alla storia di quella famiglia e a uso privilegiato dei componenti di quella famiglia»10. Girati intenzionalmente dai cineamatori per creare “monumenti” di memoria familiare che salvino dall’oblio ricordi, tradizioni ed abitudini diventano, se sottoposti ad adeguate letture ed interpretazioni, “documenti”, fonti storiche in grado di restituirci, al di là delle loro originarie finalità, aspetti di realtà, brandelli di storia che parlano della vita di una comunità, dei suoi cambiamenti e delle sue permanenze11.Il nuovo concetto di documento - monumento permette dunque ai film in formato ridotto di rientrare a pieno titolo tra le fonti storiche e li rende al contempo materiali preziosi cui attingere per rileggere la contemporaneità. Intrecciandosi in racconti del passato che utilizzano linguaggi e modelli narrativi propri, essi si offrono in modo particolare ad una storiografia che voglia indagare l’immaginario, la mentalità, la sensibilità di un determinato periodo storico.

6 Cfr. L. Febvre, Problemi di metodo storico, trad. C. Vivanti, Torino, Einaudi, 1976, pp. 175 - 178.7 Cfr. A. D’Orsi, Alla ricerca della storia, op. cit. p. 92.8 Cfr. J. Le Goff, op. cit., pp. 443 - 446; G. Lefebvre, La storiografia moderna, Milano, Mondadori, 1973; G. De Luna, L’occhio e l’orecchio dello storico, op.

cit.9 J. Le Goff, op. cit. pp. 454 - 455.10 La definizione più compiuta di film di famiglia è stata formulata dallo studioso francese Roger Odin: R. Odin, Le film de famille. Usage privè,

usage public, Paris, Meridiens Klincksieck, 1995, p. 27. Sviluppatosi tra gli anni Venti e gli anni Ottanta del Novecento, il film di famiglia può essere considerato come una delle varianti del cinema amatoriale, «un diverso spazio amatoriale (…) caratterizzato da un modo di comunicazione specifico», Id., Il cinema amatoriale, in G.P. Brunetta (a cura di), Storia del cinema mondiale, Torino, Einaudi, 2001, p. 320.

11 Esemplificative, in tal senso, sono alcune immagini di film di famiglia sulla trebbiatura del grano girate da differenti cineamatori in anni diversi (anni ‘50, anni ‘60 e anni ‘70) nelle campagne della provincia di Teramo. Le riprese dei primi anni Cinquanta, in cui si vedono i contadini al lavoro che smistano il grano sulle trebbiatrici a nastro, si confondono, quasi sovrapponendosi, con quelle girate negli anni Sessanta e Settanta, a testimonianza di un’immutabilità dei gesti e del lavoro agricoli che coloro che filmavano non intendevano certamente fissare su pellicola (la vera finalità delle riprese era quella di creare il “monumento” della “festa” della trebbiatura del grano). Il “monumento” filmato acquisisce lo spessore del “documento” nel momento in cui si vanno a comparare tra di loro le diverse immagini, contestualizzandole nel più ampio quadro dei mutamenti che si susseguono nel corso degli anni. Si nota allora che impercettibili particolari (come il cambiamento dei volti dei lavoratori, la presenza di automobili alle loro spalle, di moderni trattori agricoli al posto dei cingolati o di mietitrebbiatrici sui campi accanto alle tradizionali trebbiatrici) ci restituiscono, oltre

Si rivelano inoltre fondamentali per documentare la «cultura»12 e costituiscono una prova storica di straordinaria rilevanza in quanto “testimonianze oculari” delle temperie in cui sono stati prodotti13. A partire dagli anni Ottanta hanno iniziato a moltiplicarsi le ricerche che ricorrono alle immagini come fonti14, a dimostrazione della volontà di sottrarre le testimonianze audiovisive alla tradizionale marginalità e indifferenza. Tuttavia, l’impiego delle immagini come documenti “vivi” ha sollevato e solleva ancora oggi numerose questioni per gli studiosi. In particolare, si è posta con urgenza la necessità di elaborare una metodologia nuova, funzionale ad interrogare adeguatamente questi materiali, in «un’impresa tanto difficile quanto appassionante»15.

1.2. L’impiego delle immagini come fonti

Soprattutto nel contesto storiografico italiano, la scarsa dimestichezza nell’uso delle immagini ha determinato un ritardo complessivo nell’approccio a questo tipo di documenti. La diffidenza di molti storici verso le fonti visive ha assunto molteplici forme - dalla loro marginalizzazione all’interno della ricostruzione storica al loro impiego come strumenti puramente illustrativi ed ausiliari ai testi scritti - perdurando in Italia ben oltre gli anni Ottanta. Già nel 1973 il sociologo Franco Ferrarotti richiamava l’attenzione sulla necessità di riscoprire il valore delle fotografie, servendosene in modo più sistematico e meno casuale all’interno delle discipline sociali. Ferrarotti poneva anche in evidenza le riserve nutrite dalla comunità scientifica verso questo tipo di documenti, sottolineando che le uniche scienze ad averli utilizzati compiutamente a fini di studio erano state, fino ad allora, l’etnografia, l’etnologia e l’antropologia culturale16. Ancora nel 1991, poi, Peppino Ortoleva osservava che:

pur avendo con successo accolto fra i documenti e gli strumenti per il proprio lavoro le forme più varie dell’espressione umana, la ricerca storica appare oggi ancora (dopo

alla sfasatura temporale, anche il senso di una modernità che avanza - con il suo strascico di trasformazioni - sullo sfondo di un mondo agricolo apparentemente immobile. Le riprese in questione - su cui si tornerà in modo più approfondito nelle pagine che seguono - sono depositate presso l’Archivio Audiovisivo della Memoria Abruzzese dell’Università di Teramo e i fondi cui si fa riferimento appartengono alle famiglie: Fumo, De Santis, Di Luigi, Renzi.

12 G. Galasso, Nient’altro che storia: saggi di teoria e metodologia della storia, Bologna, Il Mulino, 2000, p. 75.13 Cfr. P. Burke, Testimoni oculari: il significato storico delle immagini, Roma, Carocci, 2002. In questo senso due importanti lavori storiografici hanno

utilizzato in modo pionieristico le fonti iconografiche come risorse privilegiate per mettere a fuoco aspetti della memoria passata ed identità collettive. Il primo risale al 1940 ed è L’autunno del Medioevo di Johan Huizinga, una ricostruzione del Quattrocento fiammingo in cui la pittura si fa racconto di un momento storico e viene impiegata non più come un riflesso, ma come elemento costitutivo di una realtà storica. Una successiva ricerca condotta dallo storico Philippe Ariès sulla famiglia e la scuola durante l’ancién regime ha invece utilizzato i ritratti dei bambini per sostenere la tesi che l’idea dell’infanzia non sia mai esistita nel Medioevo, ma sia stata una prerogativa esclusiva dell’età moderna. Le testimonianze visive, insomma, sono state usate alla stregua della letteratura e dei tradizionali documenti d’archivio; sono state cioè interrogate per cogliere l’insorgere di un cambiamento culturale, le trasformazioni della sensibilità e della vita di un’epoca passata. Negli anni successivi altri studiosi hanno proseguito lungo questa strada, continuando ad avvalersi delle immagini come fonti, convinti dalla loro straordinaria efficacia sul piano conoscitivo. Pierre Sorlin e Marc Ferro, in tal senso, sono stati tra i maggiori fautori dell’uso delle fonti visive all’interno della ricerca storica. Cfr. J. Huizinga, Autunno del Medioevo, Firenze, Sansoni, 1940; L. Gerverau, Les images qui mentent, Paris, Editions du Seuil, 2000; P. Ariés, Padri e figli nell’Europa medievale e moderna, Bari, Laterza, 1960; P. Sorlin L’immagine e l’evento: l’uso storico delle fonti audiovisive, Torino, Paravia, 1999; M. Ferro, L’histoire sous surveillance: science et con science de l’histoire, Paris, Calmann - Levy, 1985.

14 Cfr. Cfr. M. Ferro, Cinema e storia. Linee per una ricerca, Milano, Feltrinelli, 1980; P. Ortoleva, Cinema e storia. Scene dal passato, Torino, Loescher, 1991; G. Miro Gori (a cura di), Passato ridotto. Gli anni del dibattito su cinema e storia, Firenze, La casa Usher, 1982; Id., La storia al cinema. Ricostruzione del passato, interpretazione del presente, Roma, Bulzoni, 1994; P. Iaccio, Cinema e storia: percorsi, immagini, testimonianze, Napoli, Liguori, 2000.

15 Cfr. C. Sorba e S. Troilo, Le prospettive del visuale: storia e immagini, in “Contemporanea”, n. 4, 2006, p. 703. 16 F. Ferrarotti, Dal documento alla testimonianza. La fotografia nelle scienze sociali, Napoli, Liguori, 1974, p. 10.

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decenni di dibattiti) esitante (…) Di fatto, a una diffidenza ancora diffusa e direi prevalente nell’insieme della disciplina fa riscontro, da parte degli studiosi che più si sono dedicati a questi temi, un orientamento che privilegia i problemi di metodo, indirizzato, sembrerebbe, più a una discussione preliminare su come il film (o le immagini più in generale, ndr) possa essere usato e interpretato dallo storico, che a produrre concreti e misurabili risultati conoscitivi17.

L’anno successivo un’altra voce, quella di Nicola Tranfaglia, affermava:

gli storici dell’età contemporanea, soprattutto in Italia, fanno fatica a rendersi conto dell’importanza delle fonti visive, in modo specifico, di quelle che noi chiamiamo “immagini in movimento”18.

Più recentemente, è stata adoperata la suggestiva espressione di “invisibilità del visivo” proprio per rimarcare le profonde diffidenze dispiegate nell’utilizzo delle immagini come fonti: «gli storici (…) preferiscono avere a che fare con testi e con fatti politici o economici, e non con i livelli più profondi dell’esperienza che le immagini sondano»19. Una delle maggiori difficoltà legate all’utilizzo delle immagini è stata proprio quella relativa alla loro interpretazione: come leggerle? Che significati attribuire loro? Come tradurle in parole? Per gli storici abituati a lavorare con i testi scritti il problema di adottare un linguaggio con cui dialogare con le immagini ha avuto, fin dall’inizio, una grande importanza e la polisemia dei testi visivi non ha di certo facilitato il compito degli studiosi nel processo di comprensione. L’espressione di «testimoni muti»20 inventata da Peter Burke ben descrive, in tal senso, le difficoltà di traduzione incontrate nel trasporre in parole il contenuto di queste fonti. A rendere spinoso l’utilizzo delle fonti iconografiche ha contribuito anche l’ambiguità delle rappresentazioni insita in esse poiché: «il film - come ha affermato Peppino Ortoleva - è, al tempo stesso, documento e rappresentazione (…) tale ambiguità è anche la sua ricchezza»21. Non di rado, proprio la ricchezza semantica delle immagini ha finito per disorientare gli storici, conducendoli a compiere letture approssimative, nella convinzione che tutto ciò «che esse mostrano non è altro che l’insieme delle convenzioni rappresentative vigenti in una determinata cultura»22. Altre volte invece, gli studiosi hanno giustificato l’impossibilità di gestire adeguatamente i diversi significati dei testi visivi adducendo la motivazione di non possedere specifiche competenze tecniche.

Impossibile comprendere la fotografia senza dominare la tecnica fotografica; chimera è sfruttare l’immagine cinematografica senza possedere la tecnica cinematografica: uno schema di pensiero, questo, applicato a tutte le forme di immagine (…) Due allora sono le conseguenze. Da un lato l’immagine è vista come un dominio di specialisti e dall’altro ogni

17 P. Ortoleva, Cinema e storia: scene dal passato, Torino, Loescher, 1991, p. XVI.18 N. Tranfaglia, Istantanee del passato, in “Il Mattino” di Napoli, 26 gennaio, 1992; ora anche in P. Iaccio, Storia e cinema: un incontro troppe volte

rimandato, opuscolo fuori testo della rivista “Cinema Sessanta”, a. XXXVI, n. 1, gennaio - febbraio 1995, pp. 1 - 2. 19 P. Burke, Testimoni oculari, op. cit., pp. 11 - 12.20 Id. p. 17.21 P. Ortoleva, Testimone infallibile, macchina dei sogni: il film e il programma televisivo come fonte storica, in M. Gori (a cura di), La storia al cinema,

cit. p. 304. 22 P. Burke, Testimoni oculari, cit. p. 213.

supporto visivo fornisce materia a un settore di specializzazione (…) La ricerca storica sull’immagine è così diventata una moltitudine di campi autonomi, incomunicabili dove i ricercatori di ogni micro - cantiere ignorano perfino l’identità dei ricercatori del cantiere accanto. Una categorizzazione eccessiva e indubbiamente nefasta. (…) Questa chiusura ha scoraggiato gli storici dall’utilizzare le immagini come fonte per far luce sui grandi settori classici come la storia politica, la storia sociale, la storia delle relazioni internazionali, ecc23.

Al problema dell’interpretazione si sono aggiunte poi altre questioni di minor rilevanza che hanno comunque contribuito ad alimentare resistenze24. Da circa un quindicennio comunque la reticenza verso l’uso delle immagini si è attenuata, giungendo ad essere superata quasi del tutto e la nuova l’apertura è stata favorita da due processi congiunti. Da un lato si è diffusa la consapevolezza - soprattutto tra gli storici italiani - dell’importanza dell’impiego delle immagini - sia fisse che in movimento - per ricostruire la storia e la società contemporanee.

L’uomo del XX secolo ha lasciato sullo schermo, e disperso in una miriade di altri luoghi, i frammenti visibili e spesso invisibili di un’autobiografia (…). Gli storici per decenni si sono rifiutati di prenderne atto, ma ormai da qualche anno la battaglia su questo fronte si può dire ormai vinta. Ultimi arrivati nel riconoscerne e legittimarne la centralità e l’indispensabilità del loro lavoro, le immagini costituiscono ormai una forza rilevante e un interlocutore indispensabile per l’avanzamento della conoscenza lungo tutte le direttrici del territorio25.

Da un altro lato la disciplina storica è andata sempre più elaborando soluzioni capaci di evitare errori nell’utilizzo di queste fonti.Dovendo eleggere ad oggetti di studio documentazioni tradizionalmente ignorate, il primo passo compiuto è stato quello di procedere - secondo la concezione dinamica suggerita da Topolski26 - alla «creazione epistemologica» delle fonti, selezionate coerentemente al programma di studi predisposto. Precisa Giovanni De Luna:

La creazione non riguarda, ovviamente, l’oggetto materiale portatore dell’informazione (la fotografia, un documento radiofonico, uno spezzone cinematografico), ma si riferisce alla struttura informativa, quella, cioè, tratta dalla fonte organizzandone alcuni tratti distintivi sulla base delle domande poste dallo storico e dei nessi da lui stabiliti tra l’informazione sollecitata e la propria ricerca27.

23 Cfr. C. Sorba e S. Troilo, Le prospettive del visuale, cit., pp. 701 - 703.24 Le maggiori critiche, ad esempio, sono state mosse al cosiddetto “tempo congelato” o anche alla natura “istantanea” di alcune fonti visive (come

la fotografia) che, cristallizzando il flusso temporale, finirebbero per appiattire la storia sugli eventi, risultando incompatibili con interpretazioni storiche di lungo periodo. È stato detto che «l’immagine meccanica della fotografia impedisce alla bobina della memoria di riavvolgersi, spezza il continuum storico, svuota di ogni profondità e spessore il senso del tempo e della storia dell’uomo moderno». Oppure, la problematica legata alle difficoltà di consultazione degli archivi visivi, all’interno dei quali sarebbero spesso conservati corpus documentari vasti ed eterogenei, ma ancora mancanti di un’adeguata catalogazione che semplifichi l’attività di ricerca. Cfr. P. Ortoleva, La fotografia, in Il mondo contemporaneo, vol. X, Gli strumenti della ricerca, Firenze, La Nuova Italia, 1983, pp. 1123 - 1125.

G. De Luna, La passione e la ragione, cit, p. 253; Cfr. R. Debray, Vie et mort de l’image, Paris, Gallimard, 1991 ; S. Sontag, Sulla fotografia, Torino, Einaudi, 1978.

25 G. P. Brunetta, Storia del cinema italiano, Roma, 1993, vol. I, p. XXXI.26 Cfr., J. Topolski, La storiografia contemporanea, cit., p. 45.27 G. De Luna, L’occhio e l’orecchio dello storico, cit, p. 25; Id., La passione e la ragione, cit., p. 114 -117.

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Di qui, la rilevanza attribuita alle domande con cui interrogare i documenti iconografici, per consentire loro di trasformarsi da fonti «potenziali» a fonti «effettive»28.Contemporaneamente, si sono iniziati a mutuare concetti e metodologie da scienze - come l’antropologia, la sociologia, la linguistica, l’iconologia, la semiologia - in cui le immagini sono da tempo oggetti di studio. Ha scritto Gabriele D’Autilia:

Grazie all’apporto di altre discipline lo storico può appropriarsi per la prima volta di una fonte che a causa dei suoi troppi significati, spesso ridotti al più evidente, risulta inesplorata, e introdurla nel suo laboratorio. Se scegliere alcune strade di lettura può sembrare un impoverimento di fronte alla molteplicità di stimoli offerti dall’immagine, può d’altra parte rivelarsi l’unica alternativa sia alla sua banalizzazione sia alla “vertigine” che ci provoca la sua naturale ambiguità29.

Di grande utilità, ad esempio, si sono dimostrati gli strumenti della semiologia nella ricerca di un linguaggio specifico da applicare all’immagine30; le nozioni tratte da questa disciplina31 hanno consentito di rendere le fonti visive meno ambigue agli occhi degli studiosi, facilitandone una lettura storica. Anche i segni visivi, infatti, al pari di quelli linguistici possiedono un livello denotativo (ciò che è raffigurato nell’immagine) e un livello connotativo (il significato simbolico che la stessa immagine assume al di là di quello che raffigura)32.Nell’interpretazione delle fonti iconografiche, quindi, si è cercato di superare letture ingenue, attraverso un processo di scomposizione delle testimonianze iconografiche simile ad un “contro - interrogatorio”33.

L’immagine acquista una nuova vita, diventa più complessa, si organizza in molteplici livelli: il primo è l’oggetto rappresentato, il secondo è quello legato alla cultura, alla mentalità di chi la produce e all’ambiente in cui è inserito, e così via (…) Soprattutto nell’analizzare il primo livello, lo storico è consapevole che le immagini non trascrivono il reale ma lo interpretano (…) Solo la corretta ricostruzione delle coordinate storiche che hanno portato alla loro realizzazione possono rendere utilizzabili le immagini come fonti34.

Leggere storicamente le immagini, infatti, vuol dire riuscire a distinguere le diverse sfumature semantiche in esse contenute e correlate a ciò che le immagini dicono a chi le osserva, a ciò che volevano esprimere negli intenti originari di chi le ha prodotte, a ciò che raccontano, infine, malgrado le loro intenzioni.

In prima battuta, si tratta di riconoscere le intenzioni dell’autore, il suo progetto, il suo retroterra psicologico; subito dopo, però, occorre far parlare quei documenti malgrado

28 J. Topolski, La storiografia contemporanea, cit., p. 221.29 G. D’Autilia, L’indizio e la prova, cit., p. 13. 30 Cfr., M. Joly, Introduzione all’analisi dell’immagine, Torino, Lindau, 1999.31 Si veda, a titolo d’esempio, il metodo della scomposizione delle immagini in diverse funzioni a ciascuna delle quali corrisponderebbe un preciso

significato: funzione metalinguistica, esplicita, implicita, epistemica. Si rimanda comunque a M. Joly, Introduzione all’analisi dell’immagine, cit. pp. 69 - 72.

32 Più in generale, cfr. A. Mignemi, Lo sguardo e l’immagine, la fotografia come documento storico, Torino, Bollati Boringhieri, 2003.33 P. Burke, Testimoni oculari, cit. p. 28.34 G. De Luna, La passione e la ragione, cit., p. 147.

se stessi, scavalcare le intenzioni dell’autore e valorizzare, alla fine, proprio i loro elementi non intenzionali, quelli cioè che vi sono rimasti impigliati al di fuori della capacità di controllo degli autori35.

Ovviamente, il grado di intenzionalità contenuto in ogni singola immagine cambia a seconda che essa sia stata realizzata per un uso pubblico o privato:

quanto più sono pubbliche, ufficiali, visibili, destinate alla comunicazione, tanto più la loro intenzionalità è esplicita (…) Viceversa, più si caratterizzano in ambito familiare, comunitario quotidiano, più cresce la loro capacità di documentare oggettivamente feste, tradizioni, abitudini, sistemi di relazioni sociali e interpersonali che appartengono alla rappresentazione e all’autorappresentazione della gente comune36.

Nella comprensione dell’intenzionalità delle fonti visive si è rivelata fondamentale la ricostruzione del contesto nel quale le stesse sono state prodotte. Il “contesto sociale” influenza, di fatto, il significato delle immagini, consentendo allo studioso di «ricavare le ragioni della loro curvatura», in un’interpretazione che non si ferma ad un livello superficiale37. Il contesto di produzione dell’immagine, infatti, fornisce spesso indicazioni utili sulla natura della fonte, sui suoi autori, sugli ambienti in cui ha circolato e ai quali era destinata, sulle ragioni stesse per cui è stata prodotta. È inoltre la comprensione del contesto di produzione che accresce il valore delle fonti visive, contribuendo a svelare lo sguardo, mai neutrale, che si cela dietro esse. È il caso, ancora una volta, dei film di famiglia: realizzati dai cineamatori per assolvere ad una funzione sociale di ricordo - e dunque originariamente destinati ad una fruizione domestica - appaiono, agli occhi di chi intende studiarli, come “diari in movimento”, testi non risolti, incompleti, che testimoniano la quotidianità della vita familiare, il modificarsi delle mode, il mutare delle relazioni affettive interpersonali. Il reinserimento di questi documenti nelle circostanze della loro produzione permette di leggerli tra le righe, di forzarli a rivelare ciò che i cineamatori non immaginavano neanche di trasmettere.L’elaborazione di una griglia interpretativa - per quanto flessibile - è risultata necessaria per avvicinarsi ad una corretta lettura delle fonti visive, o quanto meno per evitare di cadere negli errori di senso più comuni.Tuttavia, molta strada resta da compiere nella metodologia storica delle immagini, poiché non esiste ancora un’interpretazione globalmente compiuta delle stesse, né sistemi di spiegazione completi ed esaustivi, «ma solo approcci segmentati»38 tra i quali chi decide di studiare le testimonianze iconografiche deve di volta in volta scegliere, utilizzando come criterio di selezione le ragioni della propria ricerca.

35 Id. pp. 211 - 212.36 Id., p. 214.37 Cfr. P. Burke, Testimoni oculari, cit., p. 207; A. Grasso (a cura di) Fare storia con la televisione, cit., p. 135. 38 Cfr. L. Gerverau, Les images qui mentent, Paris, Editions du Seuil, 2000, p. 19.

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2. rAccontI per ImmAgInI: LA fotogrAfIA, IL cInemA, I fILm dI fAmIgLIA

Il passato è un film,la nostra memoriaè un proiettore.39

Nel corso del Novecento, come si è visto, le testimonianze sul passato offerte dalle immagini - siano esse fisse o in movimento - si costituiscono in racconti preziosi in grado di far luce su una zona spesso trascurata dalla conoscenza storica: la dimensione della quotidianità. In essa si collocano, come sostiene Kracauer, i «piccoli momenti casuali che riguardano le cose comuni a voi, a me, a tutto il resto degli uomini»40. A conferire suggestione ed immediatezza alle immagini è, in particolare, la loro capacità di trasmettere ciò che la narrazione storica tradizionale non ha saputo rendere con altrettanta efficacia: le trasformazioni avvenute nel corso del tempo, i lenti mutamenti, il permanere di elementi di continuità nelle abitudini e nelle mentalità di diversi gruppi sociali41. È un aspetto evidente soprattutto in quelle fotografie e in quel cinema che in origine non avevano intenti “documentari”, ma che poi hanno assunto tale valore con il passare del tempo. Questi materiali ci restituiscono narrazioni della realtà quanto mai vivide e dalle quali emergono sensibilità, modi di essere, comportamenti, stili di vita altrimenti impossibili da descrivere e mostrare. È il caso, ad esempio, delle istantanee e dei film documentari che mostrano intere sequenze di lavori artigianali o agricoli ormai scomparsi e che hanno trovato uno spazio nelle nostre memorie per il solo fatto di essere stati fotografati o filmati42. «Immagini del vissuto, ritratto collettivo di una comunità (…) racconto corale di un’Italia minore, periferica, ma non per questo meno viva»43. Nelle pagine che seguono si cercherà di dar conto, a grandi linee, dei diversi racconti che la fotografia, il cinema - e in modo particolare la “nuova risorsa” costituita dal film di famiglia - possono regalare a chi voglia e sappia adeguatamente interrogarli. Cronache fatte di scatti, fotogrammi di pellicole, attraverso cui è possibile riappropriarsi di un pezzo della nostra memoria e ricostruire “autobiografie per immagini” di comunità nelle quali esistenze individuali ed esistenze collettive convergono in un unico grande affresco di storia vissuta.

39 G. De Luna, La passione e la ragione, cit. p. 250.40 S. Kracauer, Momenti della vita quotidiana, in C. Grassi (a cura di), Tempo e spazio nel cinema, Roma, Bulzoni, 1987, p. 250.41 Cfr. P. Bevilacqua, Sull’utilità della storia per l’avvenire delle nostre scuole, Roma, Donzelli, 2000; in partic. pp. 136 - 137.42 Cfr. G. D’Autilia, L’indizio e la prova, cit. p. 225. Tra i film documentari che raccontano mestieri artigianali ormai scomparsi, in particolare, quelli

del documentarista toscano, Lionetto Fabbri, come “La Lunga raccolta” (Le olive in Calabria), “Vetro verde” (Empoli), “Gente lontana” (Il lavoro della pomice a Lipari), “I lavandai di Grassina”, “I mammalucchi”. Splendide testimonianze filmate che ritraggono le condizioni di vita e di lavoro, le tradizioni e i costumi, di uomini e donne nell’Italia degli anni Cinquanta.

43 E. Quarenghi, Un romanzo familiare, la fotografia come memoria individuale e collettiva, Istituto bergamasco per la storia della Resistenza e dell’Italia contemporanea, Il filo di Arianna, 2003, p. 170.

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2.1. La fotografia

Le immagini fotografiche, ancora prima di quelle cinematografiche, contribuiscono a fornirci racconti sul passato efficaci ed emotivamente coinvolgenti. La loro funzione narrativa si colloca su un doppio versante: da un lato strumenti di conservazione della memoria privata, in continuità con la tradizione del ritratto; dall’altro mezzi di preservazione della memoria collettiva utili a mantenere vivo il ricordo di eventi importanti che coinvolgono interi gruppi o società. I racconti ricavabili dalle fotografie sono moltissimi perché, nell’arco di un secolo, essa ha contribuito a fissare su pellicola la realtà colta dal vivo. Le potenzialità narrative della fotografia, d’altronde, non passano inosservate fin dalle sue origini: «in una lezione tenuta nel 1888, per esempio, George Francis esortava a una raccolta sistematica delle fotografie, in quanto esse costituivano il miglior mezzo di rappresentazione dei nostri territori, edifici e modi di vita»44. Negli anni precedenti alla prima guerra mondiale uno dei campi privilegiati di applicazione dell’apparecchio fotografico è quello funerario: strumento di conforto nella dimensione privata del dolore e della morte, la fotografia del trapasso contribuisce ad alimentare il culto dei morti, imprimendo su pellicola le immagini delle persone scomparse e creando così quel legame forte che consente ai vivi di rimanere per sempre in contatto con il ricordo degli estinti45. È però con gli eventi bellici - in particolare con la prima guerra mondiale - che le immagini fotografiche acquisiscono una funzione pubblica pregnante, assumendo un ruolo di primo piano nell’edificazione delle memorie nazionali e dispiegando così il loro «effetto realtà»46. Le fotografie di guerra, a differenza di quelle funerarie intrise di rimpianto e di nostalgia per i congiunti scomparsi - racconti per immagini di ricordi - mostrano, per la prima volta, la crudezza dei conflitti, con i loro orrori e con la loro scia di morti. A proposito degli scatti fotografici riguardanti il primo conflitto mondiale, Taylor afferma:

guardando una raccolta di fotografie di quel tempo, assistiamo di nuovo al terrificante spettacolo delle campagne devastate, delle “code” per il cibo nelle città, degli esseri umani che combatterono, soffrirono e morirono: l’uomo vero al di là delle frasi altisonanti. Grazie alla macchina fotografica, possiamo vivere la prima guerra mondiale e non solo apprenderne le vicende da un libro47.

Le fotografie di guerra si costituiscono dunque in storie che narrano in modo sistematico le operazioni condotte dagli eserciti sui vari fronti e in seguito - soprattutto sotto i regimi totalitari - in racconti di propaganda abilmente confezionati per costruire nuove forme di consenso tra le popolazioni48.La fotografia però - come si è detto inizialmente - non è solo racconto pubblico di eventi drammatici

44 P. Burke, Testimoni oculari, cit. p. 25.45 Cfr., E. Grazioli, Corpo e figura umana nella fotografia, Milano, Mondadori, 1988.46 Cfr. R. Barthes, Il brusio della lingua, Torino, Einaudi, 1988. 47 A.J.P. Taylor, Storia della prima guerra mondiale, Novara , De Agostini, 1969, p. 8.48 Cfr., P. V. Cannistraro, La fabbrica del consenso. Fascismo e mass media, Roma - Bari, Laterza, 1974; sull’uso della fotografia a fini propagandistici

anche E.G. Laura, Le stagioni dell’Aquila, Roma, Ente dello Spettacolo, 2000; L. Lanzardo, Immagine del fascismo. Fotografie, storia, memoria, Milano, Franco Angeli, 1991; S. Luzzatto, L’immagine del duce: Mussolini nelle fotografie dell’Istituto Luce, Roma, Editori, Riuniti, 2001; L. Malvano, Fascismo e politica dell’immagine, Torino, Bollati Boringhieri, 1988.

del passato o strumento di costruzione del consenso; essa attinge anche al quotidiano, rappresentando per immagini la vita delle persone comuni, siano esse povere o agiate. Sono un esempio di ciò le cosiddette “fotografie documentarie” che, al pari del film documentario, si diffondono negli Stati Uniti nel corso degli anni Trenta, all’indomani della “grande crisi”: gli scatti di fotografi come Jacob Riis, Dorothea Lange, Lewis Hine raccontano il mondo della miseria, intriso di esistenze vissute ai margini dell’indigenza e si costituiscono, in questo modo, in documenti di denuncia sociale49. All’estremo opposto, invece, si colloca il caso delle fotografie che descrivono la storia di un’ascesa sociale: è l’uso che dell’immagine fotografica si fa, in particolare, nell’Italia del secondo dopoguerra, in cui per molte famiglie le fotocamere diventano un elemento di arredamento del proprio benessere «genere di consumo apparentemente estetico (…) che come la Seicento, il frigorifero, la lavatrice ha la stessa funzione scaramantica di amuleto contro il ritorno dei tempi bui, della miseria, della vita grama»50. Le immagini fotografiche, in questo caso, si prefigurano come racconti di più grandi trasformazioni: urbane, sociali, dei consumi e nei quali è possibile addentrarsi per comprendere eventi collettivi determinati del nostro passato più recente. Enzo Quarenghi non sbagliava nell’affermare che:

la nostra memoria individuale e collettiva è la fotografia, un patrimonio da salvaguardare e tutelare. Le migliaia di scatti che hanno indagato nelle minute pieghe di un modo di essere e di esistere sono “voci” che ci parlano di tante storie apparentemente chiuse in sé, come altrettanti medaglioni. Basta però storicizzarle e diventano Storie, in vario modo esemplari della complessa vicenda umana51.

2.2. Il cinema

Il cinema prosegue sulla strada aperta dalla fotografia presentandosi, fin dai suoi primissimi anni di vita, come uno strumento molto utile. In questo senso, il cineasta polacco Boleslaw Matuszewski afferma: «questo semplice nastro di celluloide costituisce non solo un documento storico, ma un pezzo di storia e di una storia che non è svanita, che non ha bisogno di un nume per farla riconoscere»52. Il cinema, dunque, come strumento per raccontare la storia, mezzo in grado di costruire narrazioni della realtà che attingono direttamente al quotidiano, al sociale, restituendo un’impronta del passato nella quale restano impigliate tracce preziose di abitudini e di comportamenti che scompaiono. Tuttavia, le intuizioni di Matuszewski non incontrano un favore generalizzato e finiscono per non avere grande seguito. Bisogna attendere il secondo dopoguerra53 per assistere alla riscoperta e alla valorizzazione delle capacità

49 P. Burke, cit. p. 26.50 M. Smargiassi, La famiglia foto - genica, in U. Lucas (a cura di), L’immagine fotografica, 1945 - 2000, Torino, Einaudi, 2004. 51 E. Quarenghi, Un romanzo familiare, cit., pp. 11 - 12.52 Il cineasta polacco esprime il suo giudizio sulle potenzialità del racconto cinematografico in un memoriale inviato nel 1898 al direttore della rivista

francese Le Figaro, dal titolo Une nouvelle source de l’histoire. Cfr. B. Matuszewski, Une nouvelle source pour l’histoire, citato in G. Rondolino, Il cinema, in G. De Luna - P. Ortoleva - M. Revelli - N. Tranfaglia (a cura di), Gli strumenti della ricerca. Questioni di metodo, Firenze, La Nuova Italia, 1983.

53 È a partire da questo periodo che la riflessione teorica sul cinema si sfronda della necessità di fornire ad esso quella legittimazione estetica cercata fin dai primi decenni di vita. Cfr. G. Gori (a cura di) Passato ridotto, cit. p. 230.

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narrative del cinema e all’avvio del dibattito su cinema e storia. Il cinema, in particolare, inizia ad essere considerato come un «modo di mettere in scena il passato per raccontarlo»54; un racconto in cui si deposita la memoria di intere comunità, «un luogo privilegiato in cui i segni della storia si condensano, si distribuiscono e persistono in maniera più rappresentativa che altrove. (…) Con il passare del tempo questi segni si sedimentano, raggiungono un maggior grado di stabilità, riuscendo a produrre una sorta di valore storico aggiunto»55 e trasformandosi quindi in narrazioni coerenti. All’interno della comunità scientifica i primi ad annoverare le rappresentazioni cinematografiche tra i possibili racconti del passato sono André Bazin e Siegfried Kracauer. Il primo parla del racconto cinematografico come di una «impronta digitale»56 del mondo che ne svela l’essenza più intima. Il secondo insiste sulla «rappresentatività» del cinema nella spiegazione dei comportamenti collettivi e lo considera «lo strumento ideale per registrare la realtà fisica»57. A partire dagli anni Cinquanta, ci si inizia dunque a chiedere che tipo di valore si debba conferire ai racconti del cinema e quali possibilità essi possano offrire alla ricostruzione storica. Si sviluppa l’idea che il cinema aiuti bene a comprendere l’immaginario delle persone, le modalità di rappresentazione dei desideri o delle aspirazioni, le identità di culture specifiche. A mettere al centro l’idea che il cinema sia soprattutto un racconto dell’immaginario58 è Edgard Morin59, che parte dalla fotografia per spiegare il collegamento esistente tra cinema e immaginario. Afferma Morin:

La fotografia sa essere un sostituto, un oggetto di culto, una fonte di emozioni (…) Ora queste proprietà della fotografia derivano dal vissuto, dalla sensibilità e dalla immaginazione di chi le osserva (…) Le proprietà che sembrano appartenere alla fotografia sono le proprietà del nostro spirito che vi sono fissate e che essa ci rimanda (…) La ricchezza della fotografia è ciò che noi proiettiamo e fissiamo in essa.

Il racconto cinematografico - secondo Morin - si innesta su tale terreno, sviluppandolo ulteriormente: il cinema, infatti, diventa il racconto dell’immaginario sia perché nasce dalla fotografia, sia perché consente di identificarsi in esso.E precisa Morin:

Il cinema ci consente di fotografare noi stessi, i nostri movimenti interiori, le nostre pulsioni, i nostri atteggiamenti e la nostra comprensione del mondo. Fino a farsi non “specchio del mondo” bensì “archivio d’anime”.

In Italia, il dibattito su cinema e storia si impernia, in quegli stessi anni, intorno alla distinzione tra “veri” e “falsi” racconti offerti dal cinema. Ad affrontare tale questione è per primo Antonio Mura, il quale differenzia le diverse narrazioni del

54 G. De Luna, L’occhio e l’orecchio, cit. p. 67.55 G.P. Brunetta, Il cinema legge la società italiana, in Storia dell’Italia repubblicana, vol. II, Torino, Einaudi,, pp. 784 - 785.56 A. Bazin, Qu’est - ce que le cinéma?, Paris, Editions du Cerf, 1958.57 S. Kracauer, Theory of film, Oxford, Oxford University Press 1960; tr. it. Film: ritorno alla realtà fisica, Milano, Il Saggiatore, 1962. Cfr., M. Lagny, Il

cinema come fonte di storia, in G. P. Brunetta (a cura di), Storia del cinema mondiale, Torino, Einaudi, 2001, p. 269. 58 Cfr. F. Casetti, Teorie del cinema. Dal dopoguerra agli anni Sessanta, in G.P. Brunetta (a cura di), Storia del cinema mondiale, cit. in partic. pp. 524 -

531. 59 E. Morin, Le Cinéma et l’homme immaginaire, Parigi, ed. de Minut, 1956, trad. it. Il cinema o l’uomo immaginario, Milano, Feltrinelli economica,

1982, p. 250 e seg. Tutte le citazioni che seguono sono tratte dal suddetto saggio.

cinema, affermando che sono racconti e quindi «documenti filmici» solo quelli che mostrano «fatti realmente accaduti, in qualche luogo e in una certa data (…) i film documenti di vita», che attingono all’attualità, al quotidiano, al familiare60. Tali riflessioni vengono riprese ed ampliate qualche anno più tardi da Lino Miccichè, il quale insiste sul valore documentario ricavabile dalle “storie” cinematografiche, a patto che esse siano costituite «a partire da documenti d’attualità cinematografica. Le immagini d’epoca sono i veri, gli unici pre-testi storici». Il vero racconto sul passato, dunque, è quello che si basa su immagini d’attualità, poiché «il vissuto di quelle immagini su cui si fonda il discorso è un vissuto della storia, cioè del mondo e degli uomini, non più soltanto della cinepresa»61. Negli anni Settanta, i contributi di Marc Ferro62 fanno emergere nuovi spunti. Ribadendo l’esistenza di «molteplici interferenze» tra cinema e storia, Ferro introduce la possibilità di costruire attraverso le immagini sonore non solo racconti della realtà, ma una vera e propria “controanalisi della società” che finisce per svelare i “lapsus” della collettività. Spiega Ferro:

La cinepresa (…) su ciascuno riesce a dire di più di quanto egli vorrebbe mostrare. Svela i segreti, mostra l’altra faccia di una società, i suoi lapsus. (…) Questo vorrebbe dire che le immagini costituiscono il materiale di un’altra storia, diversa dalla Storia. Una controanalisi della società? (…) Questi lapsus di un autore, di una ideologia, di una società costituiscono dei rivelatori privilegiati. (…) La ricerca di questi lapsus, delle concordanze e delle discordanze con l’ideologia aiuta a scoprire il latente dietro l’apparente, il non visibile attraverso il visibile. Troviamo così materia per un’altra storia, che non pretende certo di costituire un bell’insieme ordinato e razionale come la Storia, ma che contribuirà piuttosto ad affinarla, o a distruggerla63.

Contemporaneamente, Ferro non tralascia di mettere in luce gli effetti del diffondersi del Super8, nel corso degli anni Settanta, sull’arricchimento del racconto cinematografico; grazie all’uso di massa di queste nuove tecnologie, infatti, «il cinema può diventare (…) strumento per una presa di coscienza sociale o culturale e pertanto la società non è più soltanto un oggetto d’analisi (…) la società può d’ora innanzi farsi carico di se stessa»64.La discussione sul racconto cinematografico come specchio dell’immaginario sociale e delle mentalità collettive viene ripresa, invece, da Pierre Sorlin che in Sociologie du cinéma cerca di dimostrare come il cinema offra, per la maggior parte, descrizioni proprie del modo di vedere di una società e non della realtà.

Il visibile di un’epoca è ciò che i fabbricanti di immagini cercano di captare per trasmetterlo (…) Il visibile è ciò che appare fotografabile e presentabile in un’epoca data. (…) Le condizioni che influenzano le metamorfosi del visivo e il campo del visivo sono

60 Cfr. A. Mura, Film, storia e storiografia, Roma, Edizioni della Quercia, 1967, citato in A. Grasso (a cura di) Fare storia, cit. p. 63.61 L. Miccichè, Cinema e storia, in G. Gori (a cura di), Passato ridotto, cit. pp. 206 - 207. 62 Fondamentale, in tal senso, il saggio di M. Ferro, Cinema e Storia, linee per una ricerca, cit. pubblicato per la prima volta in Francia nel 1977. Le

citazioni che seguono sono tutte tratte dal medesimo saggio.63 Id. pp. 100 - 103.64 Id. p. 11.

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strettamente legati: un gruppo vede ciò che può vedere, e ciò che è capace di percepire definisce il perimetro entro il quale esso è in grado di porre i problemi. Il cinema mostra non già il “reale”, ma i frammenti del reale che il pubblico accetta e riconosce65.

È dunque compito dello storico comprendere, di volta in volta, quali sono le variabili che regolano la produzione di immagini in un determinato periodo. Solo in questo modo è possibile riconoscere nei racconti stessi «non una mera miniera di informazioni, ma l’espressione di un punto di vista che rimane altro rispetto al proprio»66 ed utilizzarli per arricchire la propria interpretazione su un determinato momento storico o evento.

2.3. I film di famiglia

I film di famiglia e amatoriali - «pratiche consumate all’interno della famiglia e in ambienti non professionali, tra gli anni Venti e gli anni Ottanta del XX secolo»67 - costituiscono l’acquisizione più recente del discorso storiografico degli ultimi venticinque anni. In esso hanno trovato uno spazio sempre maggiore i racconti cinematografici; tuttavia, il valore dei film di famiglia come testimonianze etnografiche, sociologiche e storiche ha stentato ad affermarsi, a causa delle numerose questioni sollevate da questi documenti. Prima fra tutte la loro caratteristica di non neutralità, che ha portato gli studiosi a maneggiarli con una cautela ancora maggiore rispetto agli altri documenti, ma soprattutto le difficoltà legate ad una loro selezione e ad una loro traduzione in parole68. Ciò ha determinato un complessivo ritardo nell’utilizzo dei film di famiglia come documenti, ma questo freno non ha comunque sminuito la capacità degli stessi di essere fonti in grado di raccontare, con una straordinaria espressività, le trasformazioni vissute da una società o gli aspetti del passato che erano stati dimenticati.Lo studioso francese Roger Odin è il primo, nel 1995, a formulare una definizione precisa di essi69 e a sottolineare le difficoltà incontrate dal cinema amatoriale, e dunque anche dall’home movie, per ottenere riconoscimento dalla comunità scientifica. Scrive Odin:

Il cinema amatoriale non ha beneficiato del movimento d’interesse teorico del cinema che si è sviluppato negli anni sessanta (…) come se la giustapposizione dell’aggettivo “amatoriale” bastasse, da sola, a rimandare all’insignificante, al ridicolo, allo spregevole,

65 P. Sorlin, Sociologie du cinéma, Paris, Aubier Montaigne, 1977 ; tr. it. Sociologia del cinema, Milano, Garzanti, 1979.66 P. Ortoleva, Cinema e storia, cit. p. 173. 67 Ad essere oggetto di riflessione sono i filmati in formato analogico (cioè in pellicola) a rischio di dispersione. Cfr. P. Simoni, Archeologia della memoria privata. La ri-contestualizzazione filmica di Péter Forgàcs, in L. Mosso (a cura di), Private Europe: il cinema

di Péter Forgàcs, Pubblicato in occasione della retrospettiva dedicata a Peter Forgacs da Filmmaker/doc8, festival internazionale di film e video, Milano, Cinema Gnomo, 2003; Id., Alla ricerca di immagini private. Un progetto per la memoria filmica di famiglia, in M. Bertozzi (a cura di), L’Idea documentaria, Torino, Lindau, 2003.

68 Ad ogni modo, un utile approccio metodologico che consente di ridurre notevolmente le difficoltà interpretative sollevate dal linguaggio filmico familiare è quello legato alle informazioni ricavabili dall’esterno. Raccogliere informazioni biografiche e storiche dai proprietari dei film di famiglia - per comprendere da chi sono state girate le immagini, a chi erano destinate, se erano accompagnate o meno da un commento sonoro, se sono state sottoposte ad un montaggio - si rivela di primaria importanza per riempire di senso documenti utili alla comprensione della storia e alla ricostruzione del vissuto di una collettività.

69 Il cinema amatoriale, abbraccia un campo estremamente vasto ed eterogeneo, che va dal film di famiglia al diario filmato, al cinema sperimentale, al documentario, al cinema privato.

se non addirittura all’inesistente. Anche quei pochissimi che si interessano alla questione (…) danno prova di quanto sia difficile riconoscere il cinema amatoriale quale soggetto degno di studio di per se stesso70.

In realtà, alla luce delle varie esperienze e ricerche condotte negli ultimi anni in campo internazionale è possibile affermare che la scoperta e la valorizzazione della ricchezza documentaria dei film amatoriali e familiari procedono lungo differenti percorsi e a differenti velocità. Per meglio comprendere l’importanza degli studi sviluppatisi intorno ai film di famiglia, è bene ripercorrere le principali tappe della pratica cinematografica familiare71. Ciò anche per capire in che modo gli home movies si siano potuti diffondere nel corso del XX° secolo come passatempo di massa, trasformandosi - solo in un secondo momento - da “giochi collettivi”72 all’interno dello spazio domestico a documenti sociali degni di studio.Fin dalle origini del cinema si cerca di diffondere la pratica del filmare anche in ambito amatoriale, proponendo un formato specificatamente pensato per il mercato familiare: il 17,5mm, ottenuto tagliando a metà la pellicola 35mm. Tuttavia, per molto tempo il cinema amatoriale non riesce pienamente a svilupparsi a causa del supporto utilizzato per la pellicola, il nitrato di cellulosa, altamente infiammabile e dunque di scarso utilizzo per un impiego sicuro e generalizzato. La pratica amatoriale conosce una prima rivoluzione solo a partire dal 1923, quando vengono lanciati sul mercato nuovi formati realmente familiari, composti da pellicola ininfiammabile, molto più affidabili per un uso domestico: il 16mm e il 9,5mm Pathé Baby. È bene però ricordare che, almeno fino agli anni Sessanta, i costi delle apparecchiature e delle pellicole restano alti e il cinema amatoriale continua a prefigurarsi in Europa come appannaggio esclusivo di porzioni molto ristrette di popolazione. Le famiglie che tra gli anni Venti e gli anni Quaranta possono concedersi il “lusso” di filmarsi sono di estrazione prevalentemente agiata e legate a modelli di vita borghesi e alto borghesi. È esemplare il caso italiano in cui la pratica del cinema amatoriale, tra le due guerre, si diffonde con estrema lentezza. Ancora nel 1931 Ernesto Cauda afferma:

Tra i grandi paesi civili l’Italia è quello in cui la cinematografia per dilettanti è tuttora meno sviluppata: s’è però manifestata in questi ultimi tempi una forte tendenza al progresso, anche in questo campo. La Cinematografia è l’Arte del giorno, domani in nessuna famiglia dovrà mancare l’apparecchio da presa e il piccolo proiettore73.

Al ritardo italiano contribuiscono soprattutto le condizioni di analfabetismo e povertà in cui versa la maggioranza della popolazione74; condizioni che, naturalmente, impediscono di dilettarsi con un hobby costoso, basato su precise competenze tecniche, e che viene quindi relegato ad una ristretta élite

70 R. Odin, Il cinema amatoriale, cit., p. 319.71 Per ricostruire dettagliatamente la storia della tecnologia amatoriale si rimanda ai seguenti testi: K. Florini, M. Santi, Per una storia della tecnologia

amatoriale, in “Comunicazioni Sociali”, anno XXVII, n. 3, 2005; G. Valperga (a cura di), Origini, storia e realtà del formato ridotto, in “Il formato ridotto”, Museo Nazionale del Cinema, Torino, s.d.; A.D. Kattelle, The evolution of Amateur Motion Picture Equipement 1895 - 1965, in «Journal of Film and Video», 38, 1986; C. Montanaro, Il cammino della tecnica, in G.P. Brunetta (a cura di), Storia del cinema mondiale, cit.; A. Cati, Pathé Baby e i dilettanti del cinema in Italia tra il 1927 e il 1935, in “Comunicazioni Sociali”, cit.; R. Odin, Il cinema amatoriale, cit.

72 Id. p. 347. 73 E. Cauda, La cinematografia per tutti. Guida pratica per cinedilettanti, Roma, Edizione ACIEP, 1931, pp. 5 - 6.74 I dati del censimento del 1931 svelano il volto fortemente rurale del Paese, in cui diffuso è l’analfabetismo: è analfabeta il 20,9% della popolazione,

mentre il 45,6% della forza lavoro attiva è impiegato nel settore dell’agricoltura; il 23% è invece composto da operai, i lavoratori dei servizi sono l’8%,

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di privilegiati. Solo nei primi anni Settanta la cinepresa si trasforma da bene di lusso a mezzo popolare di svago e di divertimento: indagini demoscopiche indicano che in Italia il 7 - 10% delle famiglie è in possesso di una cinepresa amatoriale75; la cinepresa, al pari di altri elettrodomestici, entra tra le mura domestiche delle famiglie medie italiane, certificandone i livelli di agiatezza raggiunti. A stagliarsi da questo quadro sono invece gli Stati Uniti, dove la generalizzazione della pratica filmica familiare avviene almeno un ventennio prima, intorno agli anni Cinquanta, quando «l’esplosione della civiltà del tempo libero (…) porta a una banalizzazione dell’uso della cinepresa, strumento di svago alla pari del barbecue e del ping - pong»76.Tornando alla storia dei formati amatoriali, una seconda importante rivoluzione si ha nel 1932, quando la Kodak comincia a commercializzare la pellicola 8mm in bianco e nero. L’introduzione di questo nuovo formato abbatte decisamente i costi decretandone il successo almeno fino al 1965, quando appare per la prima volta quello che viene comunemente chiamato il formato Super8. Ridotto, economico e di estrema versatilità, il Super8 istituzionalizza realmente la pratica cineamatoriale, rendendola di massa e popolare. Con il nuovo supporto chiunque può facilmente realizzare in casa i propri film, senza alcuna difficoltà: a riprova di ciò, gli stessi slogan pubblicitari del Super8 utilizzano come testimonial giovani donne sorridenti che impugnano la cinepresa, riprendendo scene di vita domestica o gite in famiglia77. A democratizzare ulteriormente la pratica del “cinema fatto in casa” è la natura stessa dello svago, contemporaneamente passatempo ed esperienza condivisa, che lo distingue da altre forme di divertimento:

non solo la visione, ma anche il tempo speso in comune per realizzare un film contribuisce a rafforzare il senso di appartenenza e l’identità familiare; in particolare il film di famiglia offre al padre, in qualità di regista, organizzatore e commentatore del film, la possibilità di prendere parte attivamente alla vita familiare come compagno di gioco dei figli e del tempo libero della moglie78.

I film in formato ridotto, dunque, si attestano nel corso del Novecento come pratiche culturali diffuse tra le famiglie e gli appassionati. Più che con il cinema essi presentano forti congruenze con il paradigma della fotografia, soprattutto della fotografia di ricordo: Roger Odin parla del cinema amatoriale come di «fotografia vivente di famiglia»79. Ad accomunare film di famiglia e fotografia non sono soltanto continuità tecniche, ma anche e soprattutto continuità contenutistiche. L’home movie infatti presenta le stesse finalità dell’album fotografico: viene realizzato per perpetuare i ricordi familiari, per conservare tracce di persone ed ambienti altrimenti destinati all’oblio, è strumento di rappresentazione ed auto-rappresentazione di famiglie o di comunità sociali. Proprio perché le immagini dei film e delle foto di famiglia sono destinate ad una platea ridotta

gli impiegati il 2,7%, gli insegnanti solo l’1,1%. Cfr. L. Gallino, Le classi sociali tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta, in A. Del Boca, M. Legnani, M.G. Rossi (a cura di), Il regime fascista. Storia e storiografia, Roma - Bari, Laterza, 1995, p. 405.

75 Cfr., P. Simoni, Alla ricerca di immagini private, in M. Bertozzi (a cura di), L’idea documentaria, Torino, Lindau, 2003.76 R. Odin, Il cinema amatoriale, cit. p. 341.77 Cfr. K. Florini, M. Santi, Per una storia della tecnologia amatoriale, cit. pp. 433 - 434. Le foto d’epoca delle pubblicità del Super8 si trovano invece in

P. Monier, Le cineaste amateur, technique, pratique, estétique, Paris, Pubblications photo - cinéma Paul Montel, pp. 13, 23, 149. 78 A. Schneider, «Felice Logatto», «Bernardo l’eremita» e «I Boys»: il sistema Pathé Baby e il caso della famiglia U., in “Comunicazioni Sociali”, cit. p. 443.79 R. Odin, Il cinema amatoriale, cit. p. 343.

di spettatori - generalmente individuati nell’ambito dei confini domestici - esse non presentano una struttura narrativa forte, non hanno bisogno di troppe spiegazioni, poiché chi osserva le immagini ha già vissuto gli eventi rappresentati e dunque è in grado di creare tra loro un nesso di significati comprensibile. Un film di famiglia funziona proprio perché i membri della famiglia, nel rivederlo, si scambiano informazioni per costruire una rievocazione mitica degli eventi passati. È sempre Odin ad affermare:

Come la foto di famiglia, il film di famiglia non è tenuto a raccontare storie perché coloro che devono vederlo hanno vissuto gli avvenimenti di cui parla; il suo ruolo, come quello della foto, consiste nell’eccitare la memoria degli spettatori familiari È addirittura auspicabile che non racconti (…)80.

La compilazione dell’album familiare, sia esso composto da immagini fisse o in movimento, ha la funzione di rafforzare l’identità e l’unità del nucleo familiare, «è un rito di culto domestico in cui la famiglia è insieme soggetto e oggetto»81. Guardando insieme le immagini dei filmini, così come quelle degli album di famiglia - generalmente realizzate dagli uomini - si parla molto perché «i membri della famiglia si vedono costretti a lavorare insieme nella ricostruzione della storia familiare e la coesione del gruppo ne esce consolidata (è questa la sua funzione, produrre consensi e perpetuare la famiglia)»82. Il film in formato ridotto, quindi, agisce su due differenti piani: quello collettivo, nella ricostruzione della storia della famiglia e quello individuale, nella rappresentazione di un percorso soggettivo. Fotografia e filmati amatoriali, inoltre, condividono le medesime tematiche: entrambi raccontano eventi o episodi della vita domestica e del quotidiano, ma anche cerimonie importanti della vita privata o rituali della collettività. Nei film e nelle foto c’è spazio soprattutto per la rappresentazione dei momenti lieti e importanti della parabola familiare: nascite, matrimoni, vacanze, partenze, arrivi; tutte quelle occasioni fotografabili e filmabili - selezionate intenzionalmente per entrare a far parte della memoria - in cui ad essere protagonista è il senso di coesione del nucleo familiare, composto da volti sorridenti e spensierati. Raramente in quelle immagini s’incontrano momenti tristi (funerali, morte), anche se non mancano alcune significative eccezioni83.Quando i film di famiglia cambiano pelle? Quando, cioè, abbandonano le forme del passatempo collettivo, si svestono degli abiti che ne fanno esclusivi strumenti del tempo libero familiare ed iniziano ad assumere le sembianze ed il valore di testimonianze storiche e antropologiche, frammenti pulsanti di memoria collettiva in grado di rileggere, con un punto di vista nuovo ed inedito, mezzo secolo di storia e di vicende di vita sociale? Semplificando molto, si potrebbe dire che il delicato passaggio avviene, grosso modo, quando i film di famiglia, esaurita ormai la loro originaria funzione sociale (negli anni Ottanta, con l’avvento dei video digitali), divengono una fonte di inestimabile valore per la comprensione dei processi interni alla società e per il recupero di aspetti dimenticati del passato.

80 Id. p. 344. 81 P. Bourdieu (a cura di), La fotografia. Usi e funzioni sociali di un’arte media, Rimini, Guaraldi, 1972, p. 56.82 R. Odin, Il cinema amatoriale, cit. pp. 344 - 345.83 Cfr. C. Saraceno, Interni ed esterni di famiglia, in L’Italia del Novecento, cit. Delle eccezioni sopra citate - filmati amatoriali che affrontano il tema del lutto e della morte - si parlerà molto più ampiamente nel prosieguo di

questa trattazione.

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Da allora, archivisti, cineasti, studiosi di varie discipline e storici iniziano a guardare ai film di famiglia come a documenti “unici”:

La rappresentazione dei fatti attraverso le immagini amatoriali offre la possibilità di vedere e riflettere più intimamente sulla nostra storia, sia perché mostrano spesso fatti sfuggiti alle maglie della ricerca storica (…) sia perché li rappresentano in maniera assolutamente inedita84.

Diverse, a tal proposito, sono state le modalità attraverso cui si è giunti a considerare questi filmati non soltanto come semplici pratiche cinematografiche, ma come fonti storiche inedite. Ciascuna scoperta e valorizzazione dei film di famiglia e amatoriali ha condotto, a seconda dei differenti ambiti di applicazione, a risultati inediti che hanno dimostrato la versatilità di utilizzo di tali materiali come documenti e le molteplici letture della realtà da esse scaturibili.La cinematografia è la prima a capire le potenzialità narrative e documentarie di questi materiali e già a partire dalla fine degli anni Sessanta li utilizza, rimontandoli e reinterpretandoli, per rivelare storie personali, far riemergere brandelli di memoria collettiva completamente dimenticati, raccontare identità sociali. Ne sono degli esempi i “diari filmati” del regista americano di origine lituana, Jonas Mekas85, dall’intento profondamente autobiografico, oppure i film - inchiesta dell’ungherese Peter Forgàcs che, attraverso l’utilizzo di home movies, ripropongono una “storia privata” dell’Ungheria che fa emergere verità storiche rimaste nell’ombra86. Sullo stesso “riuso” dei film di famiglia, impiegati per ricostruire storie e gettar luce su problemi o temi specifici, si concentra il lavoro portato avanti dai coniugi - registi, Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi. Di origine armena lui, romagnola lei, i due film - makers, famosi nel mondo ma poco noti in Italia, sfruttano la memoria storica insita nelle immagini familiari e amatoriali per capire non solo il reale, ma anche i suoi modi di rappresentarlo. Il lavoro svolto su tali materiali diventa così attività di investigazione, ricerca e scavo per comprendere ciò che le immagini possono nascondere o sottointendere; strumento conoscitivo capace di rileggere e decifrare la storia87. Più recentemente, il regista americano Andrew Jarecki, con il film Una storia americana, vincitore del Gran premio della Giuria al Sundance Film Festival del 2003, ha ricostruito la complessa vicenda

84 P. Simoni, Alla ricerca di immagini private, cit. p. 233 e seg.85 Mekas, dal 1969, utilizza i filmini familiari come materiali grezzi da trasformare in film; le sue opere, infatti, sono diari, appunti di viaggio, ritratti

familiari, di amici e costituiscono capitoli di un lungo romanzo personale che utilizza gli home movies montati secondo un principio di straordinaria suggestione formale. «Mekas inizia a riprendere brevi frammenti della sua vita quotidiana nel 1949 a New York, dopo essere stato esiliato dalla sua Lituania. Le immagini vengono registrate in 16 mm (…) e il loro accumularsi giornaliero si configura come un vero e proprio diario (…) Nei diari di Mekas la forte presenza di scene, che potremmo definire ritratti di famiglia, assolve la medesima funzione sociale degli home movies: la celebrazione della coesione del gruppo, il rinnovarsi di un legame affettivo», in A. Cati, Auto/Rappresentazioni, in «Comunicazioni Sociali», 2005, n. 3, pp. 505-506.

86 Il regista Peter Forgacs, dal 1982, recupera e colleziona home movies degli anni trenta e quaranta appartenenti a famiglie ungheresi con l’intento di far emergere da queste pellicole frammenti del passato ungherese al di fuori dei confini della storia ufficiale. «Forgacs cerca di vedere il non visto, de - costruire e ricostruire il passato attraverso gli effimeri home movies. In una cultura della memoria negata, com’è stato per la storia ungherese, l’archivio privato consente di riappropriarsi di un passato al di fuori della storia ufficiale (…) Riesumando film sepolti Forgacs porta alla luce memorie scomparse», in P. Simoni, Archeologia della memoria privata, cit., p. 37.

87 Uno dei film più recenti, realizzato nel 2000 dalla coppia di registi, dal titolo “Inventario balcanico” utilizza proprio materiali amatoriali, vecchi filmini casalinghi girati tra gli anni Venti e gli anni Quaranta attraverso le capitali della ex Jugoslavia, per restituire la storia prima dei conflitti e delle divisioni; «la storia vista dal privato, dalla vita intima, partendo dal basso, dal minimo, dal dettaglio». Cfr., Y. Gianikian, A. Ricci Lucchi, Cinema anni vita, Milano, Il castoro, 2000.

giudiziaria che ha coinvolto i Friedman, una famiglia normale della media borghesia newyorchese, attraverso filmini familiari girati dal capofamiglia, Arnold Friedman e da suo figlio Adam88.Un ulteriore riconoscimento documentario ai film di famiglia arriva, in un secondo tempo, anche dagli archivisti; a partire dal 1985, infatti, si moltiplicano le cineteche che aprono un settore dedicato al cinema amatoriale. Ad attivarsi per prime sono state lo Smalfilmmuseum di Hilversum in Olanda (1985), la Cinémathèque de Bretagne (1986)89, mentre è del 1994 l’inserimento nelle collezioni della Library of Congress (New York) del film di Abrahm Zapruder sull’assassinio del presidente Kennedy del 22 novembre 196390. Sulla necessità di strappare all’oblio questi documenti si basano anche i progetti portati avanti dalla televisione francese e dall’Archivio della Televisione Svizzera Italiana. Il progetto della televisione francese fa leva sulla sensibilità del pubblico chiedendo «a tutti i suoi spettatori di mandare i loro film di famiglia, le loro produzioni amatoriali, per mostrarle, diffonderle, codificarle»91. Quello della televisione svizzera, invece, ha restituito nuova vita alle pellicole dei cineamatori, utilizzandole come materiale per la realizzazione di programmi televisivi sulla memoria storica del Paese.

Nato nel 1995 per raccogliere il materiale filmato dai cineamatori (…) il progetto si è ingrandito nel corso degli anni fino a permettere la costituzione di un archivio di dimensioni considerevoli (…) Negli archivi della TSI si conservano oggi immagini uniche e di grande importanza, che permettono di mostrare un modo di vita scomparso e di cui i testimoni si fanno rari (…) L’insieme dei filmati costituisce una parte fondamentale e insostituibile della memoria storica del Paese e un supporto ormai indispensabile per gli studiosi92.

Sempre nel territorio svizzero opera l’Associazione Memoriav fondata nel 1995 con lo scopo principale di salvaguardare e valorizzare il patrimonio audiovisivo svizzero. Tra i fondi documentari acquisiti e conservati da Memoriav c’è anche un settore dedicato ai filmati “in formato ridotto” (cioè film di famiglia in 8mm, 9,5mm e 16mm), considerati preziosi per arricchire la memoria collettiva della nazione93.Molto più lento ed accidentato si è rivelato invece il percorso che ha portato il cinema amatoriale e familiare ad essere considerato dagli storici come documento tout court. I primi ad accostarsi allo studio dei filmini familiari sono stati gli antropologi; tra essi l’antropologo sociale americano Richard Chalfen che li ha utilizzati come punto di partenza per lo studio e la comprensione di un determinato contesto culturale, giungendo ad affermare che «il film di famiglia è spesso una vera e propria “traccia”

88 Cfr. A. Jarecki, Una storia americana, Dvd Feltrinelli, 2006.89 Lo Smalfilmmuseum di Hilversum, in Olanda, colleziona film amatoriali, documentazione e materiale relativo ad essi. Le pellicole riguardano

tutto il territorio nazionale e il film più antico, del 1905, è in formato 17,5 mm. Ulteriori informazioni sulle attività svolte dal museo sono reperibili all’indirizzo Internet: www.smalfilmmuseum.nl. La Cinémathèque de Bretagne può essere invece portata come esempio di archivio regionale: conserva una vasta collezione di film amatoriali e prevede un inventario permanente di tutte le opere audiovisive realizzate in Bretagna. Cfr. www.cinematheque-bretagne.asso.fr; P. Simoni, La nascita di un archivio per il cinema amatoriale: il caso dell’associazione Home Movies, in «Comunicazioni Sociali», cit., pp. 479-485.

90 Cfr. R. Odin, Il cinema amatoriale, cit., p. 328.91 Cfr. G. Gori, Passato ridotto, cit. p. 44.92 M.G. Bonazzetti Pelli, “Mi ritorna in mente”. Memoria collettiva e ricordi privati, in A. Grasso (a cura di), Fare storia con la televisione, Milano, V&P,

2006, p. 208.93 Id., pp. 205-212. Inoltre: www.memoriav.ch

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lasciata da un membro di una società che non potrebbe appartenere a nessun altra società che a quella a cui appartiene»94. Gli storici, arrivati solo recentemente a scoprire il valore di questi documenti, si trovano oggi a dover colmare molte lacune. Risale appena ad un quindicennio fa, infatti, il tentativo di Susan Aasman di gettare luce su un campo di ricerca ancora del tutto sconosciuto, nella convinzione che «queste immagini amatoriali apportano un affascinante punto di vista interno sul mondo di un gruppo, di una classe o di un particolare individuo»95. La ricerca della Aasman, svolta nel quadro dell’History Bureau dell’Università di Groningen, aveva per oggetto la rappresentazione sociale, ideologica ed estetica della vita domestica nei Paesi Bassi dagli anni ’20 agli anni ’70. Ad inserire i film di famiglia in un campo di studi vero e proprio, ad ogni modo, sono state le ricerche di Roger Odin e della sua scuola che ne hanno esplorato per la prima volta in modo analitico le caratteristiche costitutive. I filmini familiari, afferma Odin, «hanno la capacità di offrire una documentazione di prima mano e dall’interno su interi settori della società», sono specchio di una cultura e dunque, consentono di «studiare come la nostra società vede se stessa (…) Questi film costituiscono meravigliosi documenti di vita locale»96. A ribadire il ruolo del film di famiglia come documento sociale interessante è anche il lavoro di Patricia Zimmermann (1995), che dopo aver proposto una visione d’insieme sulla storia del cinema amatoriale negli Usa dal 1897 ai giorni nostri97, ne rimarca il valore documentario definendolo un «concentrato di memoria collettiva»98.Tuttavia, malgrado il progressivo fiorire di studi e ricerche ancora nel 1998 Odin si trova a dover constatare che «fino ad oggi (…) le produzioni cinematografiche amatoriali sono state completamente ignorate dagli storici e dai teorici del cinema»99.Il panorama italiano conferma la scarsa considerazione nella quale sono stati tenuti a lungo questi documenti, sia dal punto di vista della valorizzazione cinematografica, sia da quello della conservazione archivistica nonché della ricerca storica. Ad oggi, infatti, non esiste ancora un filone storiografico intorno ai film di famiglia e solo da qualche anno si sono cominciati a muovere i primi passi nella direzione di una riscoperta e rivalutazione di essi. In campo archivistico, il recupero di questi materiali è iniziato a partire dal 2001, grazie all’attività condotta sul territorio nazionale dall’associazione Home Movies di Bologna. Fondata da un gruppo di giovani archivisti e storici del cinema con lo scopo di raccogliere, conservare e promuovere il cinema cresciuto fra le quattro mura domestiche prima dell’avvento delle telecamere digitali, Home Movies ha fino ad oggi accumulato più di 180 fondi familiari per un totale di oltre 2.500 ore di repertorio che raccontano il nostro Paese dagli anni Venti agli anni Ottanta. In pochi anni l’associazione ha dato vita, sulla scorta degli esempi europei e nordamericani, all’Archivio nazionale del film di famiglia, unica istituzione sul territorio italiano che, allo stato attuale, si pone

94 R. Chalfen, The Home Movies in a World of Reports: An Anthropological Appreciation, in «The Journal of Film and Video», 1986, n. 38; Cfr. C. Malta, La famiglia e la sua immagine: il film di famiglia nell’Italia del miracolo economico, in «Comunicazioni Sociali», cit., p. 546.

95 S. Aasman, Le film de famille comme document historique, in Odin (a cura di), Le film de famille, cit., pp. 97-111.96 R. Odin, Il cinema amatoriale, cit., pp. 338-344. Oltre al lavoro collettivo dell’equipe di ricerca dell’Università della Sorbonne Nouvelle, Le film de

famille, cit., cfr. R. Odin, Le cinéma en amateur, «Communications», 1999, n. 68.97 P. Zimmermann, Reel Families, A Social History of Amateur Film, Bloomington, Indiana University Press, 1995.98 Cfr. K. Ishizuka e P. Zimmermann (a cura di), Mining the Home Movie: Excavations into History and Memory, Berkeley, Los Angeles-London, 2001.99 R. Odin, Il film di famiglia, in «Bianco & Nero», speciale L’home movie tra cinema video e televisione, 1998, n. 59, p. 7.

come vero e proprio punto di riferimento per la salvaguardia e la valorizzazione di questi documenti. Ha inoltre avviato collaborazioni con università e archivi internazionali come la belga Association Europeenne Inedits, l’archivio olandese Smalfilmmuseum di Hilversum, la Cinematheque de Bretagne di Brest, l’East Anglican Film Archive di Norwich e l’Ircav, dipartimento dell’Universitè Sorbonne Nouvelle100. L’associazione parte dal presupposto che

lo studio della società italiana attraverso fonti inedite quali i film di famiglia è un campo tutto da scoprire e da promuovere. Certo il film di famiglia è una fonte ulteriore rispetto a quelle più usuali, ma la sua scoperta e valorizzazione può essere un contributo di rilievo (…) per mostrare le potenzialità di racconto e rappresentazione, nonché quelle di trasmissione della memoria che i film di famiglia “nascondono”101.

A motivare il lavoro dell’associazione bolognese è la convinzione che «materiali di questo tipo ampliano l’opportunità per il ricercatore di intercettare il “visibile”, trovare una traccia di persone ormai scomparse e dell’ambiente in cui sono vissute, delle posture e dei gesti, abitudini e comportamenti (…)»102. Oltre alla creazione dell’Archivio e alle attività connesse di raccolta e catalogazione, Home Movies presenta, nel quadro di festival e rassegne103, selezioni dei film raccolti, rielaborazioni o semplici antologie in cui il cinema amatoriale, nelle sue diverse forme, emerge come strumento privilegiato di registrazione e trasmissione della memoria104.A proporre un utilizzo dei filmini di questo tipo, costruendo un vero e proprio racconto cinematografico, è stata nel 2002 la regista Alina Marazzi, con il suo documentario Un’ora sola ti vorrei, a dimostrazione di come «i film di famiglia funzionino non solo come memoria sensibile di un’esperienza privata, ma anche, e soprattutto, come scena di una recita sociale, come memoria collettiva di un’identità di classe»105. Un diverso impiego di questi materiali è stato fatto poi nel 2006 da Matteo Cerami e Mario

100 Cfr. S. Veroli, La grande festa del film di famiglia, in “Il Manifesto”, 13 agosto 2006; F. Pellerano, Memorie di famiglia, in “Il Corriere di Bologna”, 26 ottobre 2007; E. Pagani, L’Italia in Super-8, in “La Stampa”, 29 ottobre 2007.

101 P. Simoni, La nascita di un archivio per il cinema amatoriale, in «Comunicazioni Sociali», cit., p. 483.102 P. Simoni, Archeologia della memoria privata, cit.103 Tra le rassegne organizzate da Home Movies, di particolare interesse il convegno sulle “Giornate del Cinema Privato”, Percorsi originali d’espressione

e di memoria, svoltosi tra Siena, Firenze e Pisa nel novembre 2005. L’appuntamento, promosso anche dalla Mediateca regionale toscana, in collaborazione con l’Istituto francese di Firenze, il Dipartimento di storia delle arti e dello spettacolo dell’Università di Firenze, il Dipartimento di scienze della comunicazione dell’Università di Siena, il Corso di Laurea in cinema, musica e teatro dell’Università di Pisa, il comune di Siena, il Festival visionaria e doc/it, è stato un’occasione preziosa per confrontarsi sul tema della salvaguardia delle memorie personali e familiari. Filo rosso dell’intera manifestazione è stata la familiarità, ovvero la comprensione delle principali direttrici tracciate dal cinema privato nei “percorsi originali di espressione e di memoria”. Un territorio immenso, composto da home movies, film personali e diaristici, autobiografie, rielaborazioni di memorie filmiche familiari proprie o altrui, esplorato attraverso gli interventi di ospiti italiani ed internazionali, oltre che di filmmaker ed autori di film realizzati in ambito privato. Home Movies, inoltre, ha collaborato all’organizzazione della più recente iniziativa dedicata al cinema familiare, svoltasi a Stia (Ar) nel settembre del 2008. Il convegno sulle “Giornate del Cinema Familiare”, promosso dalla Mediateca della Comunità Montana del Casentino, si è inserito nel più ampio progetto “Seicento minuti di Novecento” intrapreso nel 2003 dalla stessa Mediateca per recuperare e valorizzare il cinema familiare in provincia di Arezzo e Toscana e che ha portato all’acquisizione e digitalizzazione di oltre 600 minuti di filmati realizzati fra gli anni trenta e gli anni sessanta. Le “Giornate del Cinema Familiare” sono state un’occasione preziosa di incontro e confronto fra esperienze diverse, tutte incentrate sul recupero e sullo studio di queste nuove documentazioni private. Ulteriori informazioni su www.casentino.toscana.it

104 Per avere ulteriori informazioni su tutte le attività svolte dall’associazione Home Movies è possibile visionare il sito ad essa dedicato all’indirizzo: www.homemovies.it

105 Cfr. L. Farinotti, La Ri - scrittura della storia, cit., pp. 501-502. Un’ora sola ti vorrei è la storia della madre della regista, Liseli Hoepli, della nota famiglia di editori milanesi, morta tragicamente quando la Marazzi era solo una bambina. Il film documentario, della durata di un’ora, ricostruisce la vita di Liseli proprio attraverso il montaggio e la rielaborazione di pellicole super 8 e 16 mm girate dal nonno, Ulrico Hoepli, e conservate in un armadio. Recuperando quel materiale e combinandolo con altri elementi recitati dalla voce fuori campo della regista (lettere e diari scritti dalla madre fino

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Sesti con La voce di Pasolini. Un film documentario in cui «su una colonna sonora fatta interamente di testi di Pier Paolo Pasolini (…) gli autori hanno montato una straordinaria storia d’Italia», illustrata anche con immagini inedite tratte da archivi diversi (dall’Archivio audiovisivo del movimento operaio, dalla Cineteca di Bologna), tra cui filmini familiari provenienti dall’archivio Home Movies di Bologna106.In Italia, comunque, il crescente interesse per i filmini familiari sembra aver appena sfiorato la ricerca storica, che continua a relegare questi documenti in uno spazio ancora molto ristretto, stentando a riconoscere ad essi lo statuto di fonti. Interessanti spunti di riflessione sono stati offerti, però, da Chiara Malta e Alice Cati. La prima ha analizzato gli anni del boom economico italiano proprio a partire da filmini girati in famiglia tra gli anni cinquanta e sessanta107. I consumi, le feste, le vacanze degli italiani impressionate su pellicola sono stati presi in considerazione come lenti d’ingrandimento per leggere, con uno sguardo diverso e più smaliziato, gli immaginari collettivi di quegli anni.

Il Miracolo economico, il film di famiglia lo racconta da un punto di vista insolito: contrariamente a quanto si possa credere, questi film raramente mostrano il privato singolare degli italiani. Più spesso l’immagine che ci rinviano è quella pubblica e stereotipata dei loro desideri (…) Sguardi incrociati su un’Italia tutta da rifare, tutta da immaginare (…) Dalla visione di questi film esce un’Italia confusa e sospesa in una strana alchimia che unisce vecchi costumi e nuovi riti della modernità (…) L’esperienza lacerante della modernità trova nell’archivio familiare un testimone indiretto sempre vivente, che porta sul corpo le tracce di un passaggio che ancora non ha finito di compiersi108.

La seconda, invece, ha provato a riflettere sui film familiari e amatoriali come nuova “risorsa” memoriale, superando le pure considerazioni teoriche su cui fino ad oggi, almeno in Italia, si è imperniato il dibattito sul cinema privato. Adottando un approccio teorico - semiotico, Alice Cati ha dimostrato come il cinema privato, esaurita l’originaria funzione sociale di ricordo, possa essere considerato come una pratica della memoria a tutti gli effetti in grado di riconsegnare, a partire da frammenti di ricordi personali e privati, testimonianze seppur parziali appartenenti ad una più ampia memoria storica collettiva109.Anche lo storico inglese John Foot, in uno dei suoi lavori più recenti dedicato ai luoghi e alla memoria della città italiana nel Ventesimo secolo, ha attinto alle immagini del cinema familiare per rievocare le trasformazioni vissute dalla Bovisa di Milano fra anni Cinquanta e Settanta110.I “racconti” offerti dai film di famiglia, d’altronde, sono molteplici proprio perché essi sono realizzati all’interno dello spazio domestico. Gli home movies infatti costituiscono strumenti attraverso cui

alla morte, ma anche cartelle cliniche dei vari ospedali in cui la giovane Liseli fu ricoverata) la Marazzi riscrive la sua storia familiare conferendole accenti personali ed intimisti e ricompone, in questo modo, il volto della madre giungendo, nel finale, ad identificarsi con esso. Cfr., A. Marazzi, I. Fraioli, Un’ora sola ti vorrei, in M. Bertozzi (a cura di), L’idea documentaria, cit., pp. 92 - 101; A. Marazzi, Un’ora sola ti vorrei, dvd Mikado, 2005.

106 Cfr. M. Cerami, M. Sesti, La voce di Pasolini, Feltrinelli, 2006. Un ulteriore uso di filmini familiari è stato fatto nel 2007 all’interno della mostra curata dalla Cineteca di Bologna e dedicata alla vita di Charlie Chaplin. L’esposizione dal titolo: “Chaplin e l’immagine” è stata la prima realizzata a partire dagli archivi della famiglia Chaplin, tra cui home movies che raccontano la vita del maestro attraverso immagini private ed inedite.

107 C. Malta, Film di famiglia e immaginario del boom, paper, resoconto della ricerca condotta all’Università di Paris III, Associazione Home Movies, 2003.

108 Id., La famiglia e la sua immagine, cit, pp. 547-551.109 A. Cati, Pellicole di ricordi. Film di famiglia e memorie private (1926 - 1942), Milano, Vita e Pensiero, 2009.110 J. Foot, Bovisa: story of a house. Memory and Place in the 20th Century Italian City: Milan, dvd, Arts and Humanities Research Board (Uk), s.d.

ciascuna famiglia fissa su pellicola un pezzo del proprio passato, con la speranza di mantenerlo sempre vivo nel tempo, «sensibile cartina di tornasole delle alchimie da cui si genera il patrimonio mnesico del gruppo familiare»111. Essi, inoltre, organizzandosi in memoria visiva del passato di un gruppo contribuiscono a costruirne l’identità, poiché «il gruppo quando conosce il proprio passato così come gli viene proposto dalla sua memoria, prende coscienza della sua identità»112.L’idea di poter guardare al passato anche attraverso gli occhi della gente comune e, al tempo stesso, rivisitare stereotipi e immaginari attraverso questo tipo di documenti, ha ispirato il lavoro di ricerca e di studio avviato sul territorio abruzzese, a partire dal 2004, dal Dipartimento e dalla Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università di Teramo. Il progetto dell’ateneo teramano ha portato all’acquisizione di un cospicuo gruppo di filmini familiari appartenenti a famiglie abruzzesi e ambientati tra gli anni Venti e gli anni Ottanta.Tali materiali, divisi attualmente in ventisette fondi per un ammontare complessivo di oltre 80 ore di girato, sono confluiti in un archivio che ha anche realizzato alcuni prodotti di montaggio113. Oltre ad illustrare potenzialità e ragioni del lavoro, essi mostrano come i filmati familiari possano raccontare con voci inusuali la storia dell’Abruzzo e degli abruzzesi. È già possibile dire che questo filone di lavoro può costituire una vera ricchezza per il territorio. Può infatti rappresentare un cantiere essenziale per l’avvio di ricerche innovative di carattere storico, sociologico e antropologico che, attraverso il microcosmo privato e familiare, raccontino le trasformazioni che hanno segnato la società italiana nel XX secolo. Lo studio dei filmini familiari prodotti in Abruzzo tra gli anni venti e ottanta, inoltre, ci aiuta a capire le dinamiche sociali e ideologiche, il mutamento della mentalità, dei modelli culturali, dei comportamenti, dei riti sociali e dei cerimoniali, le trasformazioni del paesaggio e dello spazio urbano, il ruolo della piazza, la crescita o il depauperamento delle periferie.Analoghe finalità perseguono altri progetti di recupero, conservazione e studio dei film in formato ridotto intrapresi negli ultimi anni in diverse realtà italiane. Fra essi vanno almeno menzionati quello dell’associazione torinese Documentary in Europe che a partire dal 2006 con il progetto “Superottimisti” raccoglie, scheda, restaura e digitalizza materiale amatoriale altrimenti destinato alla dispersione. Ad oggi l’archivio conta più di 400 bobine, per un totale di circa 170 - 180 ore di filmati amatoriali in Super8114. Non meno importante risulta l’attività della Fondazione Museo storico del Trentino che all’interno dell’archivio di cinema e storia ha iniziato, nel 2007, una campagna di raccolta di materiali amatoriali in pellicola, raccogliendo circa 400 ore115. Nel Lazio, invece, sempre nel 2007 è stato promosso dalla Regione un progetto denominato Famiglie laziali. L’iniziativa - curata dall’Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico e dall’Istituto per la storia del Risorgimento italiano - ha avuto come obiettivo la ricostruzione della storia della famiglia e del territorio regionale attraverso le immagini autoprodotte dai suoi abitanti: fotografie e filmini familiari e amatoriali compresi tra la fine dell’Ottocento e i primi anni ottanta del Novecento. Il progetto, dopo una prima mappatura, individuazione e selezione dei materiali filmici e fotografici con i quali ricostruire una storia del Lazio, si è concluso con una mostra

111 M. Franchi, Immaginari cinematografici e pratiche sociali della memoria, in “Comunicazioni Sociali”, cit. p. 493 e seg. 112 M. Halbwachs, I quadri sociali della memoria, Napoli, Ipermedium, 1997, p. XVII.113 Si rimanda all’appendice per informazioni più dettagliate sui prodotti.114 www.docineurope.org/superottimisti 115 Per ulteriori informazioni si rimanda a www.museostorico.tn.it.116 Si rimanda al catalogo della mostra Famiglia: fotografie e filmini di famiglia nella regione Lazio, a cura di G. D’Autilia, L. Cusano, M. Pacella, Roma,

Gangemi, 2009. Ulteriori informazioni sull’iniziativa sono reperibili sul sito internet: www.aamod.it/famiglielaziali

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a tema allestita a Roma, nel 2009 all’interno del complesso del Vittoriano. L’esposizione ha proposto una selezione delle migliori immagini raccolte in quattro realtà diverse (province di Frosinone, Latina, Rieti e Viterbo) differenziate per composizione sociale, economica e culturale. Oltre alle scuole medie e superiori, i soggetti direttamente coinvolti nel reperimento delle documentazioni sono stati gli archivi di Stato, gli archivi comunali e le biblioteche. In totale sono state raccolte circa 10 mila fotografie e più di 100 filmati amatoriali che, digitalizzati e catalogati, sono stati ordinati in una banca dati on line (www.fotofamilia.it) accessibile a tutti gli utenti116.È stato avviato nel 2008, infine, il progetto dell’Osservatorio di Reggio Emilia che, in collaborazione con il Dipartimento di Scienze Sociali, Cognitive e Quantitative dell’Università di Modena e Reggio Emilia, ha cominciato a raccogliere pellicole amatoriali nella città e nel territorio della provincia di Reggio Emilia per ricostruire, anche attraverso questi audiovisivi, i cambiamenti del modo di vivere delle persone e del paesaggio urbano117. La recente valorizzazione ed il nascente interesse per il valore documentario dei film di famiglia sono stati accelerati anche dai cambiamenti vissuti dal cinema amatoriale negli ultimi quindici anni. Mutamenti legati all’irruzione, nei primi anni Ottanta, della videocamera e delle produzioni video digitali. Tali trasformazioni tecnologiche, contrassegnate dalla proliferazione di produzioni realizzate da soggetti che raccontano esperienze esistenziali prima mai narrate dai film amatoriali e familiari (l’omosessualità, i conflitti intergenerazionali)118, hanno di fatto decretato il tramonto del “cinema fatto in casa” originariamente inteso, e contribuito secondo l’opinione di osservatori attenti come Patricia Zimmermann «alla dissoluzione in atto nelle nostre società della famiglia nucleare borghese»119. È dunque possibile affermare che l’estinzione del film di famiglia in pellicola ha avuto come effetto di ritorno quello di fare sì che tale pratica culturale, soppiantata dalle videocamere digitali, abbia iniziato ad essere considerata - e non più soltanto dalle cineteche - come patrimonio collettivo da raccogliere, conservare e studiare per contribuire a rileggere la storia e restituire così volto a memorie individuali e collettive.

117 www.osservatorioreggioemilia.org. 118 Cfr. R. Odin, Il cinema amatoriale, cit. p. 349.119 Cfr. P. Zimmermann, Reel Families, cit. cap. VI.

Abruzzo in Super8:memorie familiari

tra anni Quaranta e Settanta

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Vi è nella famiglia una sostanza profonda che la riscatta dall’opacità della vita quotidiana,sino a trasformare il banalein sublime sino a conferire (…)una stabilità che sfida il tempo,il carattere di ciò che èeternamente umano120.

scena prima: Le immagini sono mosse e i colori un po’ scuri; si riescono tuttavia ad intravedere molte persone davanti al piazzale di una chiesa. All’improvviso le riprese diventano più chiare e tra la folla di uomini e donne in abiti buoni si scorge una bambina agghindata come una piccola sposa: abito bianco, tra i capelli una coroncina di fiori dello stesso colore e un velo. Seguono alcune sequenze del rinfresco sul terrazzo di un hotel; il papà indugia con la cinepresa sulla bambina: è il giorno della sua prima comunione, ma anche, simbolicamente, il momento di iniziazione alla comunità degli adulti. La cerimonia, la festa con i parenti e con gli amici, costituiscono solo il contorno mondano dell’evento che rompe l’ordinarietà della vita di tutti i giorni. Per questo esso va fissato su pellicola, per poterne conservare un ricordo negli anni a venire.scena seconda: Tutta la famiglia è riunita in sala da pranzo: la tavola è imbandita a festa, con bicchieri di cristallo e piatti di porcellana. I commensali sono in piedi e brindano: tra loro due donne sorridono maliziosamente alla cinepresa e bevono attaccandosi direttamente alle bottiglie. Si festeggia qualcosa, ma il cineamatore non lo svela subito. Preferisce prima intrufolarsi in cucina, dove le donne sono affaccendate intorno ai fornelli, per dare uno sguardo ai piatti con il cibo, pronti per essere messi in tavola. Solo in un secondo momento la cinepresa entra in camera da letto dove, adagiato tra le coperte, giace il protagonista dei festeggiamenti: un fagottino bianco, dal quale spunta il viso di un neonato, circondato dai fratelli più piccoli. Il bimbo è stato appena battezzato e, sotto l’occhio vigile della cinepresa, fa il suo ingresso, insieme alla madre, nella sala da pranzo, tra gli applausi di tutti. Con delicatezza viene posto tra le braccia dell’anziana nonna, vestita negli abiti più semplici. La donna protende le braccia verso il bambino, il suo sguardo ha il sapore della tenerezza: la cinepresa lo coglie e lo consegna al ricordo, insieme allo “straordinario” familiare della nascita, tradotto nel rito del battesimo.scena terza: La bambina indossa un vezzoso abito rosa, tra i capelli due fiocchi dello stesso colore. Tende le mani verso la torta che è sul tavolo, per aggiustare le candeline. Di tanto in tanto lancia uno sguardo timido al papà che la riprende con la sua cinepresa, quasi sorride. Intorno a lei la madre e le due nonne, in abiti casalinghi. La piccola si mette in piedi sulla sedia e con gesto solenne taglia la torta; poi scappa fuori ad inseguire i suoi giochi infantili nell’aia davanti casa, un gatto per amico. La distanza tra le pareti domestiche - in cui è possibile scorgere i primi segnali di un modesto benessere - e le riprese esterne -

120 T. Mann, Lettera sul matrimonio (1925), ora in Id., Opere, Mondadori, Milano, 1958, vol. XII, p. 459.

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121 Tutte le descrizioni delle scene sono tratte da una schedatura del Fondo De Giorgis, Vita in paese - Riti di passaggio, da me redatta per l’Archivio Audiovisivo della Memoria Abruzzese dell’Università di Teramo, d’ora in avanti AAMA. Le riprese sono state realizzate negli anni sessanta a Poggio Umbricchio, piccolo paese della montagna teramana.

122 M. Halbwachs, (a cura di) B. Arcangeli, Memorie di famiglia, Roma, Armando, 1996, p. 16.

dall’ambientazione tipicamente rurale - ci restituiscono la sensazione di uno spazio familiare in bilico tra il vecchio e il nuovo.scena quarta: La sposa esce di casa: indossa un abito bianco molto accollato, impreziosito da una ricca acconciatura e un lungo velo. Il contrasto tra la semplicità dell’abito, che sa di tradizione, e la pettinatura - più in linea con i dettami della moda anni Sessanta - si riflette anche nello sfondo dal quale si staglia la giovane donna: caseggiati in pietra grezza, alcune compaesane, in abiti modesti, che osservano dalla soglia delle case; accanto a loro donne vestite da cerimonia. La sposa, sotto braccio al padre, attraversa a piedi le strette vie del paese, seguita da un corteo di parenti, compiendo una mini processione. Subito dopo la cerimonia di nozze, gli sposi ripetono la processione lungo le strade in pietra, ma questa volta per recarsi nell’abitazione dello sposo, dove si svolgerà il ricevimento. A differenza di tanti matrimoni celebrati in questi stessi anni, il pranzo di nozze non avviene al ristorante - occasione irripetibile per uscire fuori dalle pareti domestiche e per “mettersi in scena” - ma in un ordinario e tranquillo scenario di paese che ha i sapori della domesticità e al quale partecipano tutti i compaesani. S’intravedono, infatti, uomini e donne in grembiule da cucina, altri impegnati a portare la grande torta nuziale. Le riprese si chiudono sugli sposi raggianti che, in piedi sulla strada esterna all’abitazione dove si svolge il pranzo, tagliano la torta sorretta da alcuni amici. È un’immagine densa di simbolismi e significati - certamente non intenzionale - che consacra una festa di nozze, trasformandola da avvenimento “privato” di una coppia in momento “pubblico” condiviso da un intero paese. La cinepresa amatoriale restituisce il senso di questa trasformazione, celebrando, accanto alla festa, l’unità della comunità121.

Prime comunioni, battesimi, feste di compleanno, matrimoni: questi riti familiari rappresentano una parte dei tòpoi iconografici su cui le famiglie costruiscono le proprie “parabole del ricordo”. Impressi su pellicola si trasformano in “oggetti della memoria” che aiutano a tenere unita l’identità del gruppo domestico, riassunti visivi di una vita familiare di cui scandiscono le trasformazioni. Ma sono solo memorie di festa, tracce su bobina di uno “straordinario” familiare, o anche testimonianze involontarie in grado di restituirci le trasformazioni o le permanenze all’interno delle famiglie? Sono solo passatempi praticati da appassionati di cinema, o anche istantanee in movimento che segnano la memoria privata, ma per certi versi anche pubblica, di un’intera comunità locale? E ancora: quelle immagini sono depositarie solo di una memoria individuale e familiare o anche espressione di una società che resta sullo sfondo, in cui vecchio e nuovo si fondono e si plasmano reciprocamente, e di cui, quindi, non si può tacere la visibilità? Maurice Halbwachs afferma: «la memoria è fatta, in realtà, di una moltitudine di contatti tra le memorie individuali chiamate a comunicare tra loro, lungo le generazioni, tanto con la parola che con lo scritto»122. Questa definizione potrebbe essere allargata anche ai film di famiglia e amatoriali nei quali la cinepresa, in continuità con la tradizione dell’apparecchio fotografico, si trasforma in testimone di vita, entrando

nelle case per filmare la domesticità, ma anche quegli eventi che cambiano la quotidianità: il battesimo, il matrimonio, la morte123. È sempre Halbwachs a dire che

la famiglia ha una memoria propria, allo stesso titolo degli altri tipi di comunità: ciò che passa in primo piano in questa memoria sono i rapporti di parentela e, se vi prendono posto degli eventi che a prima vista si riconnettono ad idee di tutt’altro tipo, è perché per certi aspetti possono essere considerati anch’essi come eventi familiari124.

Probabilmente è questo lo sguardo con il quale guardare ai film di famiglia per poterli leggere ed interrogare come fonti. I ricordi racchiusi in queste pellicole, infatti, non si limitano a portare con sé un’inevitabile patina di nostalgia: essi riproducono, spesso in modo inconsapevole, altro; dipingono quadri suggestivi di una storia intesa nel senso più ampio, che non è solo memoria di famiglia. Accostate le une accanto alle altre e analizzate con un occhio critico in grado di addentrarsi nella loro trama più nascosta, le immagini amatoriali possono offrire alla storia una cornice più ricca. Possono consentire d’integrare quanto nelle storie ufficiali passa inevitabilmente sotto silenzio, trasformandosi così in possibili documenti in grado di restituire modificazioni sociali, cambiamenti territoriali, l’accrescimento delle città a spese delle campagne e molti altri aspetti della vita sociale e culturale filtrati attraverso lo sguardo minuto delle famiglie. «Una geografia del quotidiano iscritta nei luoghi, nelle cose, nei volti, negli abiti»125.Le fonti filmiche familiari appartenenti al contesto abruzzese possono innestarsi bene sulla sottile linea di tensione fra tradizione e modernità che caratterizza la realtà territoriale del secondo dopoguerra, contribuendo a ricostruire - o quanto meno a far emergere con efficacia - i tratti di una modernizzazione tardiva rispetto ad altre regioni ma destinata ad assumere poi - soprattutto a partire dalla metà degli anni sessanta - un ritmo molto accelerato126.

I criteri di analisi In questo lavoro si è cercato di dare voce alle fonti filmiche amatoriali conservate nell’Archivio Audiovisivo della Memoria Abruzzese per comprendere in che modo esse possano costituirsi in documenti indiretti ed involontari degli squilibri e delle contraddizioni in cui nasce e si sviluppa l’Abruzzo del secondo dopoguerra, fra la fine degli anni Quaranta e i primi anni Ottanta. L’attenzione si è concentrata su quei filmati in cui è stato possibile rintracciare meglio la complessità dei processi che hanno investito la società abruzzese in quel periodo. La struttura familiare, con le sue auto - rappresentazioni e il suo sguardo, è stata quindi un punto di partenza dell’analisi e un osservatorio privilegiato. Accanto ad essa, è stata presa in considerazione la

123 Cfr. G. Fiorentino, Gli occhi del luogo, in L’Italia del Novecento. Le fotografie e la storia, cit., p.129.124 M. Halbwachs, Memorie di famiglia, cit., p. 42.125 G. Fiorentino, Gli occhi del luogo, cit. p. 160.126 Cfr. G. Corazziari, Lo sviluppo industriale dell’Abruzzo, in “Trimestre”, n. 3 - 4, 1990; M. Costantini, C. Felice (a cura di), Storia d’Italia. Le regioni

dall’unità a oggi. L’Abruzzo, Torino, Einaudi, 2000.

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stessa realtà socio - economica abruzzese per cogliere ritardi, persistenze ed altri segni della società che al contemporaneo sono sfuggiti.Le fonti “private” selezionate sono state sottoposte ad una lettura trasversale ed incrociate, in modo sistematico, con altre documentazioni di carattere “pubblico” (cinegiornali dell’Istituto Luce e repertori della Settimana Incom; fonti a stampa, tra cui quotidiani locali e nazionali, periodici; fonti statistiche, contributi storiografici)127 per cercare di mettere a confronto gli sguardi pubblici e privati sulla regione e fornire, così, risposte coerenti agli interrogativi e alle questioni che le autorappresentazioni amatoriali hanno di volta in volta sollevato.Una prima sezione di questo lavoro si è concentrata sui processi storico - sociali vissuti dalla regione dall’immediato dopoguerra sino alla fine degli anni ‘70 e sulle modalità con cui essi sono stati rappresentati e restituiti dall’«involontaria coscienza critica delle famiglie»128 cristallizzata nei fotogrammi delle cineprese amatoriali. In questa sezione si è cercato di cogliere la compresenza di elementi di permanenza e di innovazione, mantenendo sullo sfondo le più generali dinamiche della trasformazione abruzzese, con i suoi caratteri di gigantesca fusione fra vecchio e nuovo129.Una seconda parte del lavoro, invece, ha preso in considerazione i filmati in formato ridotto realizzati dagli emigranti per comprendere cosa essi potessero confermare, ma anche aggiungere, rispetto alle acquisizioni dei più consolidati studi sull’emigrazione130 e in che modo le letture e le rappresentazioni ricavabili da essi potessero utilmente integrarsi con quelle della storiografia. Soprattutto si è cercato di far emergere i differenti punti di vista con cui gli emigranti, imprimendo i loro ricordi sulle pellicole,

127Sono stati sottoposti ad un’analisi attenta e sistematica i repertori audiovisivi dell’Archivio dell’Istituto Luce (cinegiornali, documentari, Settimana Incom, rubriche d’informazione ed attualità) realizzati fra la fine degli anni Quaranta e la fine degli anni Settanta. Fra le fonti a stampa, invece, sono stati consultati: quotidiani nazionali (“Il Tempo” e “Il Messaggero”, con particolare attenzione per le edizioni locali) e periodici locali (“Abruzzo d’Oggi”, “La Voce Pretuziana”, “Fronte Unico”, “Notizie dell’economia teramana” e “Notiziario economico”). Per un elenco dettagliato delle fonti a stampa si rimanda all’appendice bibliografica.

128 La citazione è tratta dal testo di commento del montaggio Appunti per un archivio della memoria familiare abruzzese realizzato a partire dalle fonti filmiche familiari conservate nell’Archivio Audiovisivo della Memoria Abruzzese e prodotto nel 2005 da Andrea Sangiovanni, ricerche Annacarla Valeriano.

129 Cfr. A. Signorelli, Movimenti di popolazione e trasformazioni culturali, in Storia dell’Italia repubblicana, vol. II, Torino, Einaudi, 1995, p. 580.130 Per quanto riguarda il panorama italiano storiografico relativo all’emigrazione oltreoceano fino almeno al 1973 si parla di una vera e propria

«latitanza» degli studi, tanto che nel venticinquennio compreso fra il 1948 e il 1973 si ha a stento un interessamento reale degli studi storici per il fenomeno dell’emigrazione transoceanica di massa. Le ricerche sono destinate ad espandersi soprattutto dopo il 1973, quando si assiste da parte di vari studiosi di storia contemporanea alla riscoperta del vasto patrimonio scientifico e documentario relativo agli esodi transoceanici. Da allora la produzione storiografica sull’emigrazione inizia ad assumere dimensioni considerevoli, tanto da fare in modo che lo studio dei processi migratori si configuri come una vera e propria cartina di tornasole per individuare alcuni nodi centrali della storia italiana e della costruzione dell’identità nazionale. Dagli anni Ottanta, inoltre, si è assistito all’apertura degli studi sul tema verso le scienze sociali, soprattutto sociologia e antropologia, che ha consentito approcci diversificati e interpretazioni diverse. Ai tradizionali dati statistici, quindi, si sono aggiunte le corrispondenze epistolari, la documentazione cinematografica e radiofonica, i giornali, la letteratura, che hanno consentito di concentrare l’attenzione sulle rappresentazioni del folclore e della religiosità popolare, sull’alimentazione, sui rapporti con la Chiesa. Per un quadro completo aggiornato degli studi storici sull’emigrazione transoceanica si rimanda a: E. Franzina, Emigrazione transoceanica e ricerca storica in Italia: gli ultimi dieci anni (1978 - 1988), in “AltreItalie”, aprile 1989, pp. 6 - 55; Id., Emigrazione e immigrazione all’estero «lontano»: panoramica degli studi storici, in Emigrazione, memorie e realtà, cit., pp. 11 - 72; S. Martelli, Rappresentazioni letterarie dell’emigrazione transoceanica tra Ottocento e Novecento, in Appunti di viaggio, cit., pp. 217 - 218; P. Corti, L’emigrazione italiana e la sua storiografia: quali prospettive?, in “Passato e presente”, XXIII, 64, 2005, pp. 89 - 95; M. Sanfilippo, Nuovi contributi sull’emigrazione italiana negli Stati Uniti, in “Studi Emigrazione”, n. 161, 2006, pp. 199 - 206. Per la letteratura tradizionale sull’emigrazione italiana e per le tendenze più recenti, invece, cfr. Matteo Sanfilippo, Problemi di storiografia dell’emigrazione italiana, Viterbo, Sette Città, 2002, e Id., Emigrazione italiana: il dibattito storiografico nel nuovo millennio, “Studi Emigrazione”, 150 (2003), pp. 376-396. Per un confronto tra letteratura italiana e statunitense, vedi Anna Maria Martellone, La storia d’Italia e le storie di emigranti, la storia degli Stati Uniti e le storie delle etnie, in L’emigrazione italiana transoceanica tra Otto e Novecento e la storia delle comunità derivate, a cura di Marcello Saja, I, Messina, Trisform, 2003, pp. 49-62.

hanno tentato di raccontare un’esperienza che ha indubbiamente segnato i percorsi esistenziali di molti uomini e donne131.L’intento è stato quello di provare a mettere a confronto questa “storiografia familiare” con quella più ufficiale, accademica, per dimostrare che in fondo queste due forme di racconto storico non sono poi «antinomie inconciliabili; configurano piuttosto le due polarità di un continuum, lungo il quale possono muoversi l’una verso l’altra e cooperare»132.

131 Un esempio sull’uso dei film familiari come fonte e strumento di narrazione storica all’interno dell’esperienza migratoria è stato offerto da un breve saggio di Andrea Sangiovanni. L’autore, nel prendere spunto dal video: Sguardi incrociati, storie di emigranti fra Abruzzo e Canada, realizzato dall’Università di Teramo con filmati familiari di emigranti abruzzesi ha cercato di «riflettere sui diversi modi (degli emigranti) di confrontarsi con una terra diversa, su che cosa vi si cercasse, sul modo in cui la permanenza all’estero possa cambiare lo sguardo di chi rientra in patria». Cfr. A. Sangiovanni, La Storia in Super8. I filmini familiari come fonti storiche, in “Contemporanea”, a. XI, n. 2, aprile 2008, pp. 459 - 470.

132 M. Buonanno, La riattuazione del passato nella fiction italiana, in “Storia e problemi contemporanei”, n. 44, a. XX, gennaio - aprile 2007, p. 22.

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3. gLI AnnI cInQUAntA: frA cULto deLLA trAdIzIone e Avvento deLLA modernItA’

3.1. Il dopoguerra

Nel 1947 un emigrante rientra in Abruzzo per far visita al luogo natio, Mosciano Sant’Angelo, un borgo di campagna a qualche chilometro da Teramo133. L’uomo ha fatto fortuna negli Stati Uniti e nel suo bagaglio di emigrante, oltre all’acquisita ricchezza, porta con sé una piccola cinepresa amatoriale. Con essa decide di filmare la vita del suo paese, per imprimere sulla pellicola i volti dei luoghi e delle persone che per molti anni ha serbato nel ricordo ma anche per comprendere cosa è rimasto di ciò che ha lasciato quando è partito e cosa invece è cambiato.Fino ad allora erano state soprattutto le immagini ufficiali dell’Istituto Luce a parlare delle condizioni dell’Abruzzo, descrivendolo come «una delle regioni più martoriate, una tra le più dimenticate, forse perché l’Abruzzo è una delle regioni più tranquille del Paese» e in cui «il conflitto ha fatto danni proprio nelle zone più misere della regione, già così povera di risorse»134. I filmini realizzati dall’emigrante tornano ad osservare involontariamente questa realtà di miseria e di rovine - svelata anche dalle diverse Inchieste del dopoguerra135 - e lo fanno con uno sguardo diverso, ingenuo, sotto molti aspetti disincantato perché costretto a scontrarsi con un mondo reale completamente diverso da quello immaginato da lontano. Questo sguardo “straniato” - percepibile nelle riprese - trasforma le immagini amatoriali in documenti unici ed inediti del difficile dopoguerra abruzzese, testimonianze realistiche del «panorama di squallore e di cedimento morale che l’Italia dell’immediato dopoguerra presenta nel suo insieme» e che in Abruzzo «assume forse caratteri ancora più marcati»136.Le prime sequenze filmate realizzate dal cineamatore sono in bianco e nero e ci portano direttamente nel paese, tra coloro che arrancano per guadagnarsi da vivere. Gli uomini svolgono i mestieri più umili: la maggior parte sono contadini poveri, categoria largamente predominante tra la popolazione rurale137. Alcuni, accorgendosi della cinepresa, ostentano una posa forzata e si schiacciano contro ad un muro sul quale è possibile scorgere una scritta sbiadita: “Contadini…”.

133 La descrizione di tutte le immagini che seguono, ove non specificato, è tratta da Archivio Audiovisivo della Memoria Abruzzese (d’ora in avanti AAMA), Fondo famiglia Fumo, parte prima, America - Mosciano, 1947.

134 Archivio Istituto Luce, (d’ora in avanti AIL), Notiziario Nuova Luce N1021, 1946, Abruzzo: De Nicola visita le località della regione devastate dalla guerra, b/n, durata 1 min. e 14 sec.

135 In particolare si fa qui riferimento a tre importanti inchieste: la prima, sulla distribuzione della proprietà fondiaria, realizzata dall’Inea nel 1946 che aveva messo in luce come l’assetto produttivo nelle campagne abruzzesi fosse strutturalmente povero ed arretrato, accompagnato da un’estrema polverizzazione dei terreni. La seconda inchiesta, sull’approvvigionamento idrico, effettuata dall’Istat nel 1951 aveva evidenziato la mancanza pressoché totale dei più elementari servizi igienici (acqua corrente, fognature) nelle abitazioni e nei principali comuni dell’entroterra. La terza indagine, sulla miseria e sulla disoccupazione, disposta dalla Commissione parlamentare d’inchiesta tra il 1952 e il 1953 era entrata nelle vite delle famiglie abruzzesi mettendone a nudo penurie alimentari e disagi materiali. Cfr. Inea, La distribuzione della proprietà fondiaria in Italia, cit; Istat, Rilevazione statistica sulle fognature. Situazione al 31 dicembre 1951, Roma, 1953, pp. 120 - 136; Commissione parlamentare d’inchiesta sulla miseria in Italia e sui mezzi per combatterla, Abruzzi e Molise (vol. VII), (a cura di B. Barberi), Roma, 1953; Commissione parlamentare d’inchiesta sulla disoccupazione, Monografie regionali: Lazio, Campania, Abruzzi e Molise, vol. III. T. 3, Roma, 1953, pp. 470 - 71.

136 C. Felice, Da obliosa contrada a laboratorio per l’Europa, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità ad oggi, p. 377.137 Id. Alle origini della Restaurazione post - bellica nel Mezzogiorno: società, partiti e Stato in Abruzzo e Molise dopo la Liberazione, in “Rivista Abruzzese”,

n. 3, 1986, pp. 135 - 151.

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Un appello - forse un invito ad agire - quasi certamente uno dei segni lasciati da quel «magmatico ribollire di proteste, rivendicazioni e tumulti»138 che scuotono le campagne negli anni dell’immediato dopoguerra. Tra il 1944 ed il 1950, infatti, l’impossibilità di soddisfare i bisogni minimi dell’esistenza139, le ristrettezze materiali nelle quali versano i ceti rurali e urbani140, ma soprattutto i sentimenti di rinnovamento e di speranza, quasi subito infranti, esplodono in tensioni e contraddizioni che hanno nelle campagne i loro scenari principali e più drammatici. Manifestazioni e proteste per cambiare i tradizionali assetti sociali e produttivi si registrano un po’ ovunque, in un continuo crescendo; in Abruzzo, in particolare, i contadini e la popolazione fucense si ribellano contro il dominio dei Torlonia. Molte di queste manifestazioni iniziano già nel 1944 e sfociano nell’occupazione delle terre e nella protesta contro il sistema degli ammassi che, associato alla squilibrata distribuzione della proprietà fondiaria141, condannano i lavoratori all’indigenza.In una delle tenute dei Torlonia - quella di Ortucchio, in provincia di Chieti - si verifica nell’ottobre del 1944 il primo eccidio del dopoguerra. I contadini «armati di scuri, zappe, badili ed altri arnesi si dirigono verso l’azienda Torlonia per occuparla; (…) lì trovano ad attenderli un drappello di uomini armati che senza esitazione fanno fuoco sul mucchio: un contadino resta ucciso ed altri 7 feriti»142. Vi sono molte lotte anche in provincia di Teramo, dove nel dicembre del 1944 i contadini insorgono contro il sistema annonario, opponendosi al «trasporto di prodotti agricoli verso le zone interne (…) una manifestazione viene poi segnalata a Castilenti, dove 300 dimostranti impediscono il carico di 8 quintali di olio. Ed alcune settimane dopo, ad Atri, è l’intera popolazione che, al suono delle campane, si oppone al trasporto dei cereali»143. Anche le città sono attraversate da agitazioni: sempre nel 1944 il settimanale “Fronte Unico” denuncia che «la popolazione di Teramo non può godere la misera razione di 100 g di carne settimanale perché gli agricoltori boicottano di proposito tutti i raduni di bestiame» per venderlo a prezzi esorbitanti al mercato nero; mentre nell’ottobre di quello stesso anno, ancora a Teramo, proteste si verificano sotto i balconi della Prefettura per rivendicare l’aumento della razione di pasta e contro «le paghe e gli stipendi che non sono affatto adeguati al decuplicato costo della vita»144.

138 Id. Il disagio di vivere. Il cibo, la casa, le malattie in Abruzzo e Molise dall’Unità al secondo dopoguerra, Milano, Franco Angeli, 1989, p. 275.139 Tra i bisogni primari c’è innanzitutto quello dell’alimentazione che subisce, nel dopoguerra, un drastico calo dei consumi. La Commissione alleata -

Istat, in tal senso, in un’indagine effettuata nel 1944 stabilisce che solo il 47,5% degli abitanti censiti in Abruzzo riesce ad approvvigionarsi con il pane e con i prodotti di minestra. I dati della commissione sono citati in C. Felice, Il disagio di vivere, cit. p. 269.

140 Nel dopoguerra l’agricoltura della regione risulta danneggiata per un valore di 12 miliardi: la superficie a seminativi resa inutilizzabile dalla guerra ammonta a 9.805 ettari; in molte zone, inoltre, i terreni rendono meno del previsto, con un calo della produttività calcolato intorno al 30 - 40%. La stessa produzione del grano subisce battute d’arresto pesanti, riducendosi di oltre il 17%. I dati sono citati in C. Felice, Alle origini della Restaurazione, cit. p. 136. Si veda anche Censimenti e indagini per la ricostruzione nazionale, Roma, 1945, p. 72.

141 Un’indagine condotta dall’Inea in Abruzzo nel 1946 stima al 96,2% del totale i possedimenti con un’estensione fino a 5 ettari, mentre al 56% le proprietà fondiarie che non superano il mezzo ettaro. Cfr. Inea, La distribuzione della proprietà fondiaria in Italia. Abruzzo e Molise, Roma, 1947, p. XII

142 C. Felice, Alle origini della Restaurazione post - bellica nel Mezzogiorno: società, partiti e Stato in Abruzzo e Molise dopo la Liberazione, in “Rivista Abruzzese”, n. 3, 1986, pp. 148 - 149.

143 C. Felice, Alle origini della Restaurazione, cit. p. 144. Per un’analisi più approfondita delle lotte contadine in Abruzzo si rimanda ai seguenti testi: R. Liberale, Le lotte contadine in Abruzzo dal 1945 ad oggi in Campagne e movimento contadino nel Mezzogiorno d’Italia, Bari, De Donato, 1970; P. Cinanni, Lotte per la terra nel mezzogiorno, 1943 - 1953, Venezia, Marsilio 1979; C. Felice, Mercato nero, ammassi e tumulti popolari nell’immediato dopoguerra: il caso dell’Abruzzo, in “Trimestre”, n. 3 - 4, 1984, pp. 291 - 322.

144 “Fronte Unico”, Il problema della carne e degli agricoltori, 15 settembre 1944, a. I, n. 2; Id, Una dimostrazione di popolo a Teramo, 6 ottobre 1944, anno I, n. 4.

Le tensioni sociali sono assenti dal racconto delle immagini amatoriali a nostra disposizione: la vita del piccolo paese è interamente scandita dai ritmi del lavoro. A svolgere incombenze e mansioni diverse non sono solo gli uomini, ma anche le donne e i bambini; le prime ritratte nel “rito del lavatoio” o nel trasporto di pesanti fascine di legna, i secondi, invece, impegnati nella cura degli animali, mentre conducono le pecore al pascolo145. Ne scaturisce la rappresentazione complessiva di un paese operoso, dedito alle proprie attività agro - artigianali, nel quale l’esperienza traumatica della guerra sembra non aver lasciato conseguenze tangibili nei vissuti dei singoli. Le immagini che mostrano la piazza gremita nel giorno del mercato rafforzano questa rappresentazione; è evidente il tentativo di ricomporre l’antico mondo rurale, di recuperare un profilo paesano ed agreste che è rimasto nascosto tra le macerie della guerra e tale meccanismo - tipico della ricostruzione postbellica in molti paesi dell’entroterra - si svela con chiarezza agli occhi dell’osservatore esterno. Ancora una volta, tuttavia, alcuni dettagli rivelano l’esistenza di una realtà diversa da quella rappresentata. La maggior parte degli abitanti presenti in piazza sono giovani: alcuni camminano con le mani in tasca; molti altri si riuniscono a parlare in crocicchi negli angoli delle strade. Gli sguardi furtivi lanciati alla cinepresa sembrano velati dalla rassegnazione, da un malessere profondo legato all’impossibilità di svolgere un mestiere che li sollevi dall’ozio e procuri loro il necessario per vivere146. Nell’immediato dopoguerra, infatti, la disoccupazione assume dimensioni allarmanti in tutto il paese: in Abruzzo viene accentuata dal volto prevalentemente agricolo della regione, i cui terreni - anche a causa dell’estrema polverizzazione delle aziende coltivatrici e della scarsa fertilità del sottosuolo - si limitano a produrre quel poco che basta per sopravvivere, senza riuscire ad alimentare un vero e proprio mercato del lavoro147. L’altissimo tasso di ruralità della regione è confermato dal censimento del 1951, secondo il quale il 61,7% della popolazione attiva (di contro alla media nazionale del 42,2%) risulta ancora dedito ad agricoltura, caccia e pesca148. Non esistono sbocchi occupazionali diversi, poichè il tessuto industriale è ancora troppo fragile: sempre al censimento del 1951, le attività industriali riescono ad assorbire solo il 14% degli occupati e le poche imprese presenti sul territorio hanno carattere artigianale e piccolissime dimensioni149.

145 Fino alla prima metà degli anni Cinquanta l’Abruzzo è tra le regioni ai primi posti per il più elevato tasso di analfabetismo, diffuso soprattutto tra i ragazzi: nel 1951 ben il 40,7% della popolazione regionale risulta sprovvisto di licenza elementare. In provincia di Teramo, il Censimento del 1951 registra il 22,6% di analfabeti sul totale della popolazione residente. L’analfabetismo è più diffuso nelle zone di collina (24,7%) e in montagna (23,1%), mentre nel comune capoluogo si attesta al 18,6%, percentuale più che doppia rispetto a quella del complesso dei capoluoghi italiani (7,5%). A determinare l’arretratezza culturale della provincia è soprattutto l’isolamento in cui vive la maggior parte della popolazione, residente in case sparse, in montagna o collina, lontane dai centri abitati e quindi in disagiate condizioni per raggiungere le scuole pubbliche. Lo stesso grado medio di istruzione è basso, in quanto il 93% degli alfabeti non supera il livello elementare. Cfr. C. Cosenza, L’Abruzzo, in V. Cao Pinna (a cura di), Le regioni del mezzogiorno, cit. p. 204. Camera di Commercio, Industria e Agricoltura di Teramo, Condizioni economiche e sociali della provincia di Teramo, 1958, pp. 19 - 20.

146 Tra il 1945 e il 1947 la disoccupazione in Abruzzo cresce in modo esponenziale: nel giugno del 1945 i disoccupati ammontano a 5.000 in provincia di Chieti, a fine anno se ne contano 10.000 in quella dell’Aquila e oltre 7.000 nel Teramano. Nel 1946 il numero di disoccupati aumenta, nella sola provincia di Teramo, di 630 unità, raggiungendo a fine maggio «l’imponente cifra di 8063 individui», mentre nel maggio del 1947 «i lavoratori disoccupati che si dibattono in una sempre incresciosa situazione di grave disagio, nella vana ricerca di una via d’uscita» sono 9080. Dati tratti da: Notiziario economico della Camera di Commercio di Teramo, Andamento dell’economia provinciale durante il mese di giugno 1946, a. I, giugno 1946, n. 6; Id. Andamento dell’economia provinciale durante il mese di maggio 1947, a. II, 31 maggio 1947, n. 10.

147 Negli anni siuccessivi, un documentario dell’Istituto Luce sui paesi dell’Abruzzo dal titolo: L’Unione fa la forza, (regia di Giulio Morelli, 1961, durata 9 minuti e 55 sec.) tornerà sul tema della polverizzazione fondiaria delle terre, individuando in essa la principale causa di povertà e di miseria per le popolazioni agricole.

148 Cfr. La disoccupazione in Italia, cit. p. 450. G. Crocioni, Il rapporto città- campagna, cit. p. 17.149 La disoccupazione in Italia, cit. pp. 498 - 99.

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Negli anni la situazione non conosce margini significativi di miglioramento: ancora nel 1953 la “Astra Cinematografica” produce un breve documentario nel quale si parla di «uno dei tanti paesini dell’Abruzzo adagiato nel fondo della valle; tutto intorno circondato da aspre montagne improduttive (…) per questo uno dei più depressi d’Italia». Una realtà in cui «arretrata e modesta è tutta l’agricoltura locale» e dove la «conseguenza fatale è una preoccupante disoccupazione»150.Le riprese amatoriali non si fermano alla piazza ma continuano, allargandosi nei vicoli del paese, dove - tra strade sporche e case diroccate - si snodano le vite delle famiglie. Ogni sequenza filmata svela, progressivamente, la miseria in cui versano gli abitanti: bambini scalzi e cenciosi si azzuffano, rincorrendosi tra la polvere delle vie e tra animali da cortile che pascolano in libertà. Alcune immagini, involontariamente, accostano l’elegante cappotto indossato dall’emigrante agli stracci appesi ai muri delle case. Segnali stridenti di una distanza incolmabile che separa chi è partito per cercare fortuna da chi è rimasto, quasi una conferma del fatto che la ricchezza arriva da oltreoceano. Le abitazioni, oltre ad essere fatiscenti e decrepite, sono prive di qualsiasi servizio igienico: la cinepresa si sofferma su una donna che, a piedi scalzi, si affaccia sull’uscio di casa per svuotare direttamente in strada un catino di liquami; a poca distanza, uno dei suoi figli sgambetta seminudo, affondando i piedi nel fango. Alcuni dati confermano il “racconto” di queste immagini. Nel 1951 le famiglie abruzzesi che vivono in condizioni misere - perlopiù concentrate nei piccoli centri dell’entroterra - sono il 23% del totale; quelle disagiate arrivano al 20% (di contro al dato nazionale che si attesta al 11,6%). Sempre in Abruzzo e Molise si colloca la più alta percentuale di famiglie che durante la settimana non consumano mai carne (64%) e che calzano scarpe miserrime (4,5%) e misere (oltre il 10%)151. Nello stesso anno, l’Istat fotografa la situazione dei servizi igienici della regione, tratteggiando un quadro allarmante. Nell’intera area regionale, a quella data, 56 comuni risultano parzialmente serviti da acquedotto (15 solo nel teramano), mentre 23 ne sono del tutto sprovvisti e per utilizzare acqua, sia a fini alimentari che igienici, si è costretti a ricorrere esclusivamente ai pozzi e alle sorgenti152. Nel paese filmato dall’emigrante sono frequenti le sequenze in cui si vedono donne con brocche di rame sulla testa mentre si recano ad attingere acqua. Accertamenti effettuati dalla Cassa per il Mezzogiorno agli inizi degli anni Cinquanta, inoltre, rilevano che il servizio di rifornimento idrico viene effettuato in modo discontinuo, cioè con interruzioni giornaliere del flusso nell’intero abitato o in parte di esso, e che la percentuale di comuni bisognosi di un rifacimento totale delle condutture si aggira al 43,4%, mentre quelli che non hanno bisogno di alcun intervento integrativo sono appena l’1,7% del totale153. Non va meglio per la situazione fognaria: è sempre l’Istat, contemporaneamente all’inchiesta sulle acque, a far emergere che in Abruzzo e Molise oltre il 30% dei comuni manca ancora del tutto di fognature e tra essi 84 (su 132) sono anche privi di pozzi neri o mezzi per raccogliere liquami. A ciò si aggiunga che, su 982 centri abitati, solo 333 ne

150 AIL, Documentario Astra, 1953, Un paese lavora, regia di G. Passante, colore, 9 min. e 51 sec.151 Inchiesta sulla miseria, vol. II, cit. p. 65, p. 163, 167.152 Fonte Istat, Rilevazione statistica, cit., pp. 120 - 123. Un quadro più ampio sulla situazione dell’approvvigionamento idrico in provincia di Teramo nel

secondo dopoguerra si trova in M. J. Di Donato, L’acquedotto del Ruzzo nelle trasformazioni economiche e sociali di Teramo e provincia, Tesi di Laurea discussa presso la Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università degli Studi di Teramo, anno accademico 2005 - 2006, pp. 96 - 104.

153 Cassa per il Mezzogiorno, Dodici anni 1950 - 1962, vol. III (acquedotti e fognature), Bari, Laterza, 1962, pp. 317 - 319.

risultano provvisti mentre nei nuclei abitati e nelle case sparse non s’immagina neanche l’esistenza di questo servizio154. Le immagini amatoriali danno consistenza materiale a questi dati, scolpendoli nei luoghi e nei volti delle persone ritratte. Gli stessi movimenti della cinepresa suggeriscono un degrado diffuso: essa si arresta sempre sui confini esterni, non entra all’interno delle case. C’è da chiedersi se ciò dipenda dalla diffidenza delle persone o dalla natura delle abitazioni, i cui interni sono troppo miseri per essere mostrati. Emblematiche, in tal senso, le sequenze che ritraggono i sorrisi e gli sguardi complici di alcune donne affacciate sulla soglia delle case. I loro occhi, le loro pose, tradiscono la voglia di mostrarsi all’obbiettivo del compaesano ricco tornato dall’America, ma tale desiderio si spegne sugli usci, non oltrepassa la soglia. Quando l’emigrante entra in alcune delle povere abitazioni - una fugace immagine ci restituisce una di queste visite - la cinepresa non lo segue.Nell’atto di non varcare con la cinepresa la soglia che separa il mondo familiare da quello esterno sembra esserci, dunque, il tentativo di non marcare ulteriormente il disagio materiale profondo delle famiglie. Disagio confermato anche dalla più nota Inchiesta sulla miseria, che sottolinea le difficili condizioni abitative nei piccoli paesi abruzzesi. Una parte non piccola delle case isolate nelle campagne, per tutto il corso degli anni Cinquanta, continua ad essere sprovvista dei più elementari servizi, compresa l’illuminazione elettrica155. Il sovraffollamento abitativo, inoltre, si configura sempre negli stessi anni come una situazione comune a molte famiglie: in Abruzzo e Molise sono concentrati i nuclei più numerosi. Quelli con 4 componenti rappresentano il 18,6% del totale, quelli con 5 il 15,4%, quelli con 6 il 9,5%, con 7 il 6,3% e con 8 e più l’8,5%156. Dal centro abitato la cinepresa si sposta in campagna, nella masseria di proprietà dell’emigrante. Le riprese in questo caso sono a colori e documentano le fasi più salienti della tradizionale “festa” della trebbiatura. È una rappresentazione gioiosa del lavoro contadino, nella quale elementi tradizionali - il carro di buoi parato a festa, il grano raccolto, ammassato in covoni e benedetto dal frate, la presenza attiva delle donne che lavorano come braccianti accanto agli uomini, coadiuvandone l’opera - si mescolano ad elementi moderni - la meccanizzazione del lavoro attraverso la mietitrebbiatrice a nastro - che richiamano idealmente cambiamenti sociali più importanti nei quali anche l’immutabile mondo agricolo inizia ad essere coinvolto. Alcuni segnali di un rimescolamento dei valori e delle gerarchie - già avviato all’interno delle famiglie contadine - sembrano cogliersi, ad esempio, nella sequenza di immagini che mostrano alcuni momenti di una conversazione tra il proprietario terriero e un’anziana contadina al suo servizio. La donna annuisce e gesticola con estrema deferenza, mentre l’uomo le impartisce ordini. In queste immagini sembra intravedersi il superamento dell’assegnazione dei ruoli tradizionalmente affermata e praticata nelle campagne e che riservava agli uomini il compito di “trattare” con i padroni. Rapportandosi personalmente con il proprietario, l’anziana sembra partecipare alla vita della comunità non solo nei ruoli a lei riconosciuti come legittimamente femminili, ma anche gestendo in prima persona quelle

154 Istat, Rilevazione statistica cit, pp. 120 - 136.155 C. Felice, Il disagio di vivere, cit. p. 292.156 Dati tratti da Inchiesta sulla miseria, cit. vol. II, p. 157 ora anche in C. Felice, Il disagio di vivere, cit. pp. 293 - 94. Al censimento del 1951 il 48,66% delle

famiglie della provincia di Teramo vede il capofamiglia impiegato nell’agricoltura, il 35,61% in altri rami di attività economica. Le “famiglie agricole” risultano mediamente composte da 5,8 componenti; le restanti da 4,4. Cfr. Camera di Commercio, Condizioni economiche, cit. pp. 13 - 14.

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relazioni con il “potere” che richiedono atteggiamenti di deferenza e pratiche di intercessione considerate fino ad allora esclusivo appannaggio degli uomini. Questa assunzione di responsabilità da parte delle donne costituisce forse l’eredità più importante lasciata alle famiglie dalle rivendicazioni contadine. È proprio sulla spinta di quelle rivendicazioni, infatti, che la sfera femminile abbandona l’alveo dei confini domestici per proiettarsi in una dimensione pubblica, nella quale è chiamata a ricoprire un ruolo di “mediazione” tra la parte debole e la parte forte della società rurale157; un ruolo che si giustifica in nome della «conservazione» della stessa famiglia contadina158.

3.2. Conservazioni e trasformazioni: i diversi volti della Ricostruzione

La tensione tra vecchio e nuovo continua a manifestarsi, con tratti e caratteristiche particolari, per tutto il corso degli anni Cinquanta; anni che vedono l’Abruzzo impegnato in una ricostruzione faticosa che passa, in parte, anche attraverso la realizzazione di alcune importanti infrastrutture di base. La Regione, infatti, viene coinvolta nel programma energetico dell’Eni in seguito al ritrovamento, nel 1955, di giacimenti petroliferi in alcune aree della provincia di Chieti: a Vallecupa, ad esempio, «trivellazioni condotte nel quadro delle ricerche petrolifere avviate lungo il litorale adriatico portano alla scoperta del tesoro in aree fino a ieri depresse». Le stesse Alanno e Pollutri, località del teatino dalle quali sgorga il petrolio, «si aggiungono alla nuova toponomastica dell’oro nero»159. Svariate immagini amatoriali ci introducono al clima di quel periodo. Sono tratte da filmati girati tra il 1953 e il 1954 da diversi cineamatori che decidono di testimoniare il timido processo di modernizzazione avviato in Abruzzo - anche grazie all’opera iniziata dalla Cassa per il Mezzogiorno - per rompere l’isolamento viario e dotarlo al tempo stesso delle più essenziali infrastrutture igieniche e civili necessarie al suo successivo sviluppo160. Una prima sequenza amatoriale, a colori, è ambientata tra le montagne del teramano e si sofferma su due diversi cartelli: sul primo di essi si legge “Cassa per il Mezzogiorno, viabilità ordinaria, costruzione della strada Aprati - Cervaro”, sul secondo “Cassa per il Mezzogiorno, costruzione del ponte sul Vomano ad Aprati”. Seguono varie riprese del ponte in fase di realizzazione sulle quali il cineamatore insiste particolarmente perché sono immagini per lui eccezionali, attraverso le quali prende atto delle profonde modificazioni avvenute nell’abituale geografia del paesaggio circostante.

157 G. Modica, Il ruolo delle donne nelle lotte contadine, in Centro siciliano di documentazione, Ricomposizione del blocco dominante, (nov. 1977), pp. 53 - 56.

158 Cfr. A. Signorelli, Movimenti di popolazione e trasformazioni culturali, in Storia dell’Italia repubblicana, vol. II, cit. p. 636.159 AIL, La Settimana Incom 01299, Il petrolio negli Abruzzi, 21/09/1955, durata 46 secondi; Mondo Libero M182, Petrolio in Abruzzo, 4/02/1955, durata

58 secondi; Id. M217, Sgorga il petrolio dalla terra d’Abruzzo, 7/10/1955, durata 54 secondi.160 In Abruzzo la Cassa per il Mezzogiorno privilegia in particolare la realizzazione di opere stradali, riservando alla viabilità circa il 44% dell’importo

totale delle opere appaltate nella regione; quote consistenti vengono destinate anche alla costruzione di acquedotti e fognature (27,9%) e alle bonifiche e sistemazioni montane (19,5%). Cfr. V. Cao Pinna, Le regioni del Mezzogiorno, cit. pp. 125 - 127; M.J. Di Donato, L’acquedotto del Ruzzo, cit., pp. 96 - 98. Nel novembre del 1955, ad esempio, viene inaugurata a Teramo la sede dell’acquedotto del Ruzzo, progettato per alimentare 32 comuni della provincia. Le immagini di quell’evento ci vengono restituite da un cinegiornale Incom: AIL, La Settimana Incom 01325, Colpi d’obiettivo, 18/11/1955, 2 minuti e 53 secondi.

Ancora una volta, dietro la cinepresa c’è lo sguardo di un emigrante rientrato in paese dopo alcuni anni trascorsi in America. I lavori appaltati dalla Cassa assumono per lui un valore simbolico poiché stravolgono profondamente il ricordo della terra in cui è cresciuto. Il cineamatore riprende i luoghi, nei quali non riesce più a riconoscersi, quasi per rintracciare in essi le tracce serbate nella memoria prima che il cemento le cancellasse. Il suo stupore e la sua incredulità sono tutti raccolti in queste sequenze mosse che indugiano sul lungo pilone che collega i due bracci della montagna161. I segni di altre opere effettuate in quegli anni dalla Cassa per il Mezzogiorno si ritrovano nelle immagini fugaci riprese da un altro cineamatore, durante una passeggiata con la famiglia, che inquadrano una fontana in pietra su cui è incisa la scritta “Cassa per il Mezzogiorno. Acquedotto Molisano, 1954”162. La stessa curiosità documentaria anima i filmati realizzati da un terzo cineamatore che nel 1954, in occasione di un’escursione in montagna sul lago di Campotosto, dedica una buona parte delle sue inquadrature alla centrale idroelettrica da poco inaugurata sul bacino idrico, soffermandosi a più riprese sull’impianto idroelettrico che si staglia sull’orizzonte innevato163. Sono immagini di particolare effetto, quasi sovrapponibili a quelle di un documentario della Incom dello stesso anno dedicato all’elettrificazione del Paese. Tra le varie località passate in rassegna per tracciare gli aspetti più salienti della “geografia elettrica” italiana, figura infatti anche il lago di Campotosto, dal cui serbatoio «nasce ogni anno mezzo miliardo di kilowattora che permette di integrare la carenze idroelettriche dello stesso sistema alpino», trasformandosi in «energia di alto pregio per la sua disponibilità nei periodi di magra»164.Al di là di queste realizzazioni, tuttavia, la trasformazione degli anni ’50 si attua in Abruzzo attraverso il susseguirsi di processi congiunti, e non sempre lineari, che in modo contraddittorio investono le “diverse realtà” regionali, orientandone i successivi sviluppi e scompaginando geografie tradizionali e assetti socio - culturali preesistenti. Non è un caso, in tal senso, che un documentario “Opus” fotografi, qualche anno dopo, le nuove dinamiche delle residenze - innescate in tutto il Paese, e anche in Abruzzo, dagli esodi interni - tratteggiando la descrizione del «montanaro che non si accontenta più, vuol essere cittadino. Così le città diventano metropoli, spesso circondate di misere catapecchie. Così dappertutto, dal Trentino all’Abruzzo: un’insensibile ma inarrestabile movimento di popolazioni. A guardia dei borghi rimangono vecchi e donne»165.L’esistenza di un “Abruzzo nell’Abruzzo” ci è documentata in modo efficace da immagini amatoriali realizzate in differenti contesti. Una prima serie di filmati girati tra il 1953 ed il 1954, ad esempio, ci conduce nella vita quotidiana di una piccola comunità arroccata tra le montagne teramane: Poggio Umbricchio166. Nel borgo è possibile scorgere i primi segnali di quel lento e graduale decadimento che, a partire dagli anni ‘50, inizia a colpire, in modo crescente i piccoli centri della montagna, determinandone

161 AAMA, Fondo famiglia De Giorgis, dvd 1, Ritorno a Poggio - matrimoni in paese, 1953 - anni ‘60.162 Id,., Fondo famiglia Manuppella, vhs, Campobasso, Isernia, battesimo, Rimini, anni ’50 - ‘60.163 Id., Fondo famiglia Plebani, dvd 1, Gite della scuola - montagna, 1954 - metà anni Sessanta.164 AIL, Documentario Incom, Viaggio ad alta tensione, 1954, 9 minuti.165 AIL, Documentario “Opus”, Paesi morti, 1962, durata 9 minuti e 50 secondi.166 AAMA, Fondo famiglia De Giorgis, Ritorno a Poggio, 1953. La descrizione delle immagini che seguono è tratta dal medesimo fondo.

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il depauperamento e lo spopolamento167. Anche in Abruzzo, infatti, l’emigrazione rappresenta per molti l’unica prospettiva possibile: già nel 1951 la percentuale di emigrati raggiunge il 10,3%. La maggior parte si reca oltreoceano, in Canada, Argentina, Usa, magari richiamati da un parente già insediato in quei luoghi: tra il censimento del 1951 e quello del 1961 oltre 300.000 abruzzesi abbandonano i luoghi natii, circa il 19% degli abitanti, pari ad una media annua del 2,08%168. Gli stessi flussi interregionali riprendono a partire dai primi anni ’50: per quanto riguarda le sole migrazioni interne, l’Abruzzo perde fra il 1951 ed il 1971 circa l’8,9% della popolazione. Coloro che partono - per la maggior parte provenienti dal mondo agricolo - si dirigono prevalentemente verso Roma e il Lazio (42%), per compiervi i mestieri più umili e faticosi169.Un documentario prodotto dalla “Opus” nel 1952 racconta, a tal proposito, le vicende migratorie di «un paesino di montagna in Abruzzo, Secinaro, a 200 km da Roma, dove per otto mesi all’anno per le strade non incontri che donne e bambini, perché durante l’inverno e le mezze stagioni gli uomini sono diramati per tutta l’Italia, fra città, campagne, paesi e specialmente a Roma. In questi mesi il paese resta in mano alle donne, donne che fanno tutti i mestieri, che faticano»170. Allo stesso modo, nel paesino ripreso nelle immagini amatoriali il tempo sembra essersi fermato e tutto scorre lentamente: anziane donne - negli abiti della tradizione contadina - siedono in gruppo dinanzi agli usci delle case; bambini in canottiera e calzoncini si offrono sorridenti alla cinepresa, mentre alcuni uomini, impegnati in lavori di costruzione, sembrano ignorare chi li sta riprendendo.Il cineamatore ci conduce idealmente a passeggio lungo le strade del paese, restituendoci il volto più arcaico del luogo, tra caseggiati in pietra grezza e donne che - affaccendate nel lavoro di tutti i giorni - perpetuano la tradizione recandosi, con le anfore di rame in equilibrio sulla testa, ad attingere acqua alla fonte. La cinepresa sosta per un istante nella piazza principale, giusto il tempo per svelare chi è rimasto a Poggio Umbricchio e chi invece è partito. Ci sono molte donne, anziani e bambini; pochi i giovani presenti. Molti di loro hanno scelto di lasciare il paese, rompendo l’isolamento nel quale vivevano da sempre e spostandosi verso la fascia costiera o nei capoluoghi, alla ricerca di un lavoro più redditizio e di un tenore di vita più dignitoso per sé e per le loro famiglie171. Una di queste separazioni è filmata dalla cinepresa: a partire, in questo caso, è una donna che, circondata da tutti i compaesani, si dirige

167 Cfr. A Pecora, Sullo spopolamento montano negli Abruzzi, estratto da «Bollettino della Società Geografica Italiana”, 1955, n. 11 - 12, Roma, Società Geografica, 1955, pp. 563 - 581. La crisi delle aree rurali e montane emerge con chiarezza nel confronto tra i due censimenti della popolazione, effettuati rispettivamente nel 1951 e nel 1971: nel 1951, fatta pari a 100 la popolazione, gli abitanti dei centri montani abruzzesi si riducono, passando da 109 unità a 73 unità, mentre quelli della collina interna diminuiscono da 136 unità a 96 unità. Inoltre, nel 1911 i piccoli centri della montagna ospitano circa il 40% degli abitanti dell’intero Abruzzo: tra i censimenti del 1951 e del 1991 i centri rurali della collina perdono il 33% della propria popolazione, mentre quelli della montagna ben il 40%, a dimostrazione delle valenze catastrofiche assunte dalla crisi. Dati tratti da L. Piccioni, La natura come posta in gioco, in Storia d’Italia, cit. p. 1003 - 1004 e da ISTAT, Popolazione residente e presente dei comuni. Censimenti dal 1961 al 1981, Roma, 1985, pp. 256 - 257. Si veda inoltre, D. Manna, La popolazione nel sistema dell’economia abruzzese dal 1861 al 1976, Roma, 1978 e R. Parroni, Ripopolamento e rivalorizzazione del territorio in Abruzzo, in L’Italia emergente: indagine geo - demografica sullo sviluppo periferico (a cura di) C. Cencini, G. Dematteis e B. Menegatti, Milano, Angeli, 1990, pp. 443 - 463.

168 Cfr. S. Cafiero, Le migrazioni meridionali, Ciuffrè, Roma, 1964, pp. 10 - 11; per le sole province abruzzesi, D. Manna, La popolazione nel sistema dell’economia abruzzese dal 1861 al 1976, Roma, 1978, p. 104.

169 Cfr. P. Iuso, Il secondo dopoguerra, in “Trimestre”, 1994, n. 3 - 4, pp. 637 - 640.170 AIL, Documentario Opus, Ombrellai, 1952, durata 10 minuti e 51 secondi.171 Già nel 1955, in seguito ai movimenti di popolazione, la regione sembra essere divisa in due parti ben distinte e contrapposte: quella montuosa interna

- dove lo spopolamento è molto elevato anche in relazione alla povertà dell’ambiente naturale - e quella della fascia costiera, dove si intensificano le attività umane. In provincia di Teramo, lo spopolamento montano colpisce soprattutto le pendici nord - occidentali del Gran Sasso, assumendo particolare intensità nel comune di Fano Adriano (-16,5%), situato nel comprensorio in cui è localizzato anche il comune di Poggio Umbricchio. Ad

- portando una pesante valigia sulla testa - verso la corriera appena giunta in paese. La donna non è probabilmente l’unica ad andarsene, dato che all’interno del mezzo si scorgono altre sagome172. La propensione degli abruzzesi ad allontanarsi dal luogo natìo per cercare fortuna altrove è confermata in quegli anni da un’indagine Doxa condotta per conto della Direzione generale dell’Emigrazione del Ministero degli Esteri; stando ai dati dell’inchiesta è in Abruzzo e Molise che si registra la percentuale più alta di intervistati disposti ad emigrare (44%)173. L’emigrazione viene vista da molti come l’unica soluzione; ancora nel 1957 il deputato abruzzese, Giuseppe Spataro porta all’attenzione del Parlamento le difficili condizioni nelle quali versano le popolazioni delle zone montane, condannate alla povertà dal «frazionamento dei terreni coltivabili» e dalla scarsa redditività dei «pochi pascoli disponibili per il bestiame». «Da queste zone - afferma Spataro - si verifica un costante esodo di disoccupati alla ricerca di un lavoro qualsiasi per costruirsi una vita»174. Chi resta continua a perpetuare il proprio equilibrio esistenziale modellandolo sulle radici comunitarie del luogo di appartenenza ed esaltando i valori tradizionali che ne fondano l’identità. Sono significative le immagini delle donne raccolte in piazza nello svolgimento di uno dei più antichi lavori artigianali: la filatura della lana con l’arcolaio. Colpisce, in queste ed altre sequenze, la volontà da parte degli abitanti di conservare le varie espressioni della vita locale autentica (vecchi costumi, rituali), nonostante un’emigrazione che inevitabilmente porta a guardare verso quei luoghi da cui provengono idee più moderne e nuovi modelli di riferimento. La temporaneità dell’emigrazione maschile è confermata da immagini successive, realizzate dal cineamatore in un giorno di festa, in occasione del quale molti sono rientrati in paese.La cinepresa torna nuovamente sulla piazza ora affollata di persone - tra cui molti giovani uomini - che all’uscita dalla messa sostano a chiacchierare in piccoli gruppi. Gli uomini tornati in paese hanno smesso i panni dei lavoratori per indossare quelli dei padri di famiglia: si lasciano riprendere in giacca e cravatta accanto alle loro mogli e con i bambini vestiti negli “abiti della festa”.La stessa rappresentazione del paese vivo, popoloso - nel quale l’emigrazione sembra essere solo una breve parentesi stagionale - si ritrova in altre riprese effettuate in occasione della processione della Madonna. Anche in questo caso tutte le famiglie, riunitesi per partecipare alla cerimonia, prendono parte all’evento, confermando così l’appartenenza alla vita comunitaria e la volontà di rinsaldare i legami allentati dalle partenze175. Del resto, «la festa del patrono, o religiosa in generale, resta un momento centrale di attrazione per l’emigrato che si ritrova accomunato con chi è rimasto in paese attraverso rappresentazioni che presentano caratteri di identità e continuità»176. Processi di segno diverso sembrano investire le montagne abruzzesi nel corso degli anni Cinquanta. A realtà montane in graduale decadimento - segnate da un incessante impoverimento demografico - si

esercitare la maggiore attrazione sono in particolare le conche intermontane, come Teramo (+21,5%) e le città della costa come Giulianova (+26%) e Roseto (+16%); A. Pecora, Lo spopolamento, cit. p. 10. Più in generale, sul fenomeno dell’esodo dalle aree montane dell’Appennino abruzzese si rimanda a P. Vitte, Le campagne dell’Alto Appennino. Evoluzione di una società umana, Milano, Unicopli, 1995, pp. 95 - 151.

172 A partire erano in maggior misura gli uomini, ma non erano infrequenti i casi di donne che decidevano di abbandonare i paesi d’origine e spostarsi nei centri maggiori - come ad esempio Roma - dove spesso trovavano occupazione nei lavori a domicilio. A Pecora, cit., p. 568.

173 «Informazioni Svimez», 1953, n. 34 - 35, p. 754.174 G. Spataro, Problemi e proposte per lo sviluppo economico e sociale dell’Abruzzo e del Molise, discorso pronunciato alla Camera dei Deputati nella

seduta del 26 marzo 1957, p. 8.175 In particolare sulle memorie di festa che scandiscono la vita delle piccole comunità locali si rimanda a L’Italia del Novecento, cit., pp. 128 - 138.176 Censis, Gli abruzzesi a Roma: storie e vita di una etnia, Milano, Franco Angeli, 1987, p. 137.

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affiancano aree in cui iniziano a svilupparsi le prime forme di turismo177. Roccaraso - quasi totalmente devastata dal passaggio del fronte - è la prima località ad aprire la stagione del turismo invernale: «nel 1950 il 40% delle abitazioni è già ricostruito, sono stati aperti quattro nuovi alberghi e, ciò che più conta, l’attività sciistica consolidatasi notevolmente negli anni Trenta, può ora contare sulla prima seggiovia costruita in Italia meridionale e su una sciovia»178. Dello sviluppo turistico della località parla anche un documentario Luce del 1953 che descrive «la confortevole attrezzatura alberghiera, la seggiovia e i vasti campi» di Roccaraso, in grado di soddisfare «il desiderio di lunghe e inebrianti sciate»179. Prima dello scoppio della guerra, era stato sempre l’Istituto Luce a dipingere Roccaraso come meta di escursionismo e luogo di svago per persone di tutte le età: dagli anziani - ritratti in tranquille passeggiate nei giardini - ai giovani - impegnati in partite di tennis - fino ad interi nuclei familiari adagiati sui prati fra bambini festanti e picnic consumati sotto il sole180. A Roccaraso, negli anni successivi, si aggiungono altre località come ad esempio Scanno, un piccolo borgo adagiato tra le montagne aquilane, che nel 1956 «arricchisce la sua già invidiabile attrezzatura turistica e le sue possibilità panoramiche con una seggiovia»181.Le cineprese amatoriali catturano il nascente volto turistico della montagna, restituendolo attraverso le immagini delle prime gite tra i monti: è il caso, ad esempio, della famiglia Plebani che, all’inizio degli anni ’50, visita Scanno. Il ricordo di quella giornata ci è consegnato da riprese a colori nitide, che si soffermano sul lago e sullo spettacolo del paesaggio circostante. Il cineamatore segue poi la passeggiata della moglie lungo le rive del lago: la donna è accompagnata da una coppia di amici e si offre alla cinepresa sorridente, fumando con disinvoltura una sigaretta182. Un filmino che doveva limitarsi a registrare il ricordo di un’escursione in montagna si trasforma, inconsapevolmente, in un “luogo” in cui frammenti oggettivi di una vita sociale apparentemente spontanea vengono messi in fila acquisendo nuovi significati, divenendo tracce sensibili di un cambiamento culturale più profondo che inizia, in quegli anni, ad attraversare i costumi ed i comportamenti delle famiglie e che trova nella sfera femminile uno dei principali terreni di germinazione. La registrazione disordinata di questi «geroglifici visibili dell’invisibile dinamica dei rapporti umani»183

e soprattutto di un nuovo modo di essere per tutti - a partire dalle donne - ci è restituita, in questi anni,

177 Cfr. G. Ridolfi, Lo sviluppo del turismo in Abruzzo nei suoi aspetti geografici, in Aa. Vv., Studi geografici sull’Abruzzo in via di sviluppo, Pisa, 1970; M. Riccardi, Aspetti geografici del turismo in Abruzzo e Molise, in Atti del XVII Congresso Geografico Italiano, Roma, 1957. Lo sviluppo del turismo montano non riesce in ogni caso a frenare lo spopolamento dei centri minori: basti pensare che «su nove centri sciistici dell’Abruzzo montano (Roccaraso, Pescasseroli, Campo di Giove, Pescocostanzo, Rivisondoli, Scanno, Rocca di Mezzo, Ovindoli e Rocca di Cambio) uno solo, Roccaraso, riesce a realizzare tra il 1951 e il 1991 saldi demografici quasi sempre positivi; tutti gli altri mostrano saldi costantemente negativi che portano in quarant’anni a perdite complessive di popolazione tra il 20 e il 53%», in L. Piccioni, La natura come posta in gioco, cit. p. 1009.

178 F. Sabatini, La regione degli altopiani maggiori d’Abruzzo: storia di Roccaraso e Pescocostanzo, Roccaraso, Azienda di soggiorno e turismo, 1960, p. 259. Tra il 1951 e il 1956 le attività alberghiere (alberghi, pensioni e locande) registrano in provincia di Teramo un incremento del 42,4%, passando per numero da 33 a 47. L’aumento percentuale è il più elevato della regione. In base quindi alla graduatoria delle provincie italiane secondo le variazioni percentuali, nel numero degli esercizi alberghieri, la provincia di Teramo occupa il 33° posto. Dati tratti da Alberghi e pubblici esercizi in provincia di Teramo, in “Notizie dell’economia, marzo 1966, n. 3, p. 16. Tra il 1955 e il 1973, invece, gli esercizi alberghieri di Roccaraso passano da 11 a 25 e le camere da 375 a 2162; ISTAT, L’attrezzatura alberghiera in Italia al 1° gennaio 1955, Roma, 1957, p.292 e Id. L’attrezzatura alberghiera in Italia al 1° gennaio 1973, Roma, 1974, p. 353.

179 AIL, Documentario Luce, L’Abruzzo, 1953, durata 10 minuti e 26 secondi, regia di P. Turchetti.180 AIL, Giornale Luce A0834, Roccaraso, Abruzzo. La vita d’estate, 1931, durata 1 minuto e 50 secondi.181 Id., La Settimana Incom 01446, Tra i monti d’Abruzzo, 23/08/1956, durata 50 secondi.182 AAMA, Fondo Famiglia Plebani, Scanno, Catania, prima comunione, gite scolastiche, anni ’50 - fine anni ’60.183 P. Ortoleva, Scene dal passato, Torino, 1991, cit. in G.P. Brunetta, Il cinema legge la società italiana, cit., p. 785.

da filmati amatoriali in cui ad essere protagoniste sono famiglie di estrazione sociale medio - alta che vivono in contesti urbani. In queste riprese si comprende bene come la difficile transizione degli anni ’50 verso una società del benessere e dei consumi si attui in Abruzzo con tempi diversi che variano dai centri alle periferie, assumendo caratteristiche e sfumature specifiche per le famiglie che appartengono ad una precisa estrazione sociale e che sono legate a precisi stili di vita. «Nella loro stragrande maggioranza, infatti, le popolazioni d’Abruzzo e Molise - come verosimilmente quelle dell’intero Mezzogiorno - fino al boom degli anni Sessanta hanno continuato a nutrirsi e ad abitare (…) pressappoco negli stessi modi in cui lo facevano nei decenni postunitari. A migliorare in misura vistosa sono state solo delle minoranze ristrette, la cui forza di trascinamento sul resto della società si è mostrata nel complesso limitata»184.Le immagini amatoriali, in qualche modo, danno voce a queste “minoranze privilegiate; nei contesti urbani è possibile osservare i primi timidi tentativi delle donne di affacciarsi sulla scena sociale in modo nuovo: non più in ruoli defilati, ma come protagoniste, alla ricerca di un’identità più moderna. Le stesse abitazioni, luogo nevralgico della quotidianità familiare diventano termometri molto sensibili dell’Italia che cambia185. Alcuni spezzoni di filmati amatoriali sembrano suggerirlo: in una prima sequenza di immagini - realizzate nel 1952 - la moglie del cineamatore Plebani è ripresa insieme alla madre e alle sorelle a passeggio per le vie di Catania, sua città d’origine. L’abbigliamento delle protagoniste ci appare profondamente distante da quello adottato in quegli stessi anni dalle donne che vivono nei piccoli centri dell’entroterra abruzzese. I vestiti - dalle tinte chiare - sono in linea con i dettami della moda anni ’50: le più giovani indossano raffinati guanti di seta - utilizzati per «fasciare le mani e difenderle quando scherzano col fuoco» - e ammiccano alla cinepresa senza inibizioni. Una di esse, seduta al tavolino di un bar, si accende una sigaretta affermando, con questo gesto orgogliosamente esibito dinanzi alla cinepresa, il desiderio di autorappresentarsi fuori dai tradizionali schemi, nel segno di un anticonformismo ricalcato su modelli femminili europei, che vuole in qualche modo marcare una precisa identità186.Il desiderio di autorappresentarsi fuori dai tradizionali canoni emerge anche dalle immagini di un’altra protagonista, ripresa dal marito mentre passeggia. Durante il cammino, la donna si arresta per aggiustarsi i capelli e rimettere il rossetto riflettendo, con fare civettuolo, la propria immagine in un piccolo specchio tirato fuori dalla borsa187. È una rappresentazione femminile molto distante dalle immagini che in quegli stessi anni, la Settimana Incom diffonde delle donne abruzzesi, ritratte negli abiti tradizionali, impegnate in gare di cucito e di gastronomia oppure alla fonte, a lavare i panni, perché «una buona moglie deve essere anche un’ottima lavandaia»188.

184 C. Felice, Il disagio di vivere, cit. pp. 11 - 12.185 Sorlin, in particolare, ritiene che le abitazioni iniziano ad assolvere in questo periodo una “funzione segnaletica” della società, Cfr., P. Sorlin,

Sociologia del cinema, Milano, Garzanti, 1979, p. 245.186 Già nel 1948 la Incom dedica un servizio alle sfilate di moda di Parigi e in particolare alle collezioni di guanti per donna. Il concetto di “mani

femminili che scherzano con il fuoco” è ripreso proprio dal servizio della Incom che associa l’espressione all’immagine di una donna che fuma in guanti di seta. AIL, La Settimana Incom 00154, La pagina della donna: per le vostre mani collezione di guanti, 14/05/1948.

AAMA, Fondo Famiglia Plebani, Catania, anni ‘50.187 Id. Fondo Famiglia Ortolani, Vacanze al mare, nevicata, riti familiari, 1956 - 1958.188 AIL, La Settimana Incom 00973, La più bella e la più brava d’Abruzzo, 30/07/1953, durata 1 minuto.

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La signora Plebani torna ad essere protagonista di un altro filmato - realizzato nel 1953 - che la ritrae, questa volta, a Teramo, a condurre una vita che si snoda tra “impegni” diversi: la cura della figlia, le passeggiate alla villa comunale, la visita alle amiche, i piccoli lavori domestici eseguiti sotto lo sguardo vigile della suocera. Con quest’ultima, la famiglia condivide lo spazio domestico, a dimostrazione del perpetuarsi della tradizione patrilocale e di uno spazio fisico “proprio” non ancora pienamente raggiunto, in quegli anni, neanche dai ceti urbani e più abbienti189.La medesima condizione di “famiglia allargata” è vissuta da un’altra coppia del teramano e si ritrova in un filmato del 1956: in questo caso, per la prima volta, il cineamatore porta la cinepresa all’interno dell’abitazione per riprendere la moglie, impegnata nel rammendo, insieme all’anziana suocera. Alle spalle delle protagoniste è possibile scorgere alcuni oggetti d’arredo - piante, quadri, mobili, libri - rappresentativi del consumo familiare di quegli anni190. La registrazione dei lavori femminili all’interno delle pareti domestiche costituisce in questo caso un elemento di forte rottura rispetto alle precedenti rappresentazioni delle famiglie rurali, in cui si vedono le donne sempre riprese sulla porta, sulle scale, sull’aia. In città, infatti, gli interni abitativi divengono rappresentabili, a dimostrazione di un certo grado di benessere goduto dalle famiglie e del fatto che per i ceti urbani la casa costituisce il luogo per eccellenza della vita e della rappresentazione familiare. Le riprese degli interni domestici nei filmati familiari degli anni ‘50 assumono un valore aggiunto se si considera che ancora nel 1951 «nel comune di Teramo ben 2039 abitanti vivono in 598 fondaci, baracche, grotte e simili» e che «alcuni aspetti della situazione igienica, particolarmente nei rioni popolari e nei centri rurali, sono di una certa gravità». Ben il 45,4% delle abitazioni della provincia di Teramo - di cui 34,2% nel solo comune di Teramo - non sono infatti dotate di acqua potabile e latrine. Riguardo all’acqua potabile, in particolare, il Rapporto della Camera di Commercio di Teramo sulle condizioni economiche e sociali della provincia di Teramo evidenzia che solo il 24,5% delle abitazioni possono fruire di acqua potabile erogata da condutture installate internamente, mentre il 10,2% delle famiglie devono attingere a fonti esterne; il 27,3% delle case, inoltre, è servito da acqua di pozzo. Non va meglio per quanto riguarda le latrine: «10.748 abitazioni ne sono fornite internamente, mentre 12.469 utilizzano quelle esterne, in molti casi comuni a più famiglie. Le abitazioni dotate di bagno risultano appena 1.370 (18,4%)». Per quanto riguarda l’illuminazione elettrica, inoltre, il 48,5% delle abitazioni isolate ne è sprovvista. Il rapporto camerale evidenzia poi come alla fine del giugno 1957 siano «200 i centri abitati non serviti da fognature dinamiche, che adottano altri sistemi poco decenti, in prevalenza pozzi neri»191. È per questo che, ove rappresentata, la casa diventa per le famiglie borghesi anche lo spazio delle celebrazioni, lo sfondo su cui mettere in scena un consumo festivo e allo stesso tempo “vistoso”, indicativo di un certo status. Esemplificativo, in tal senso, un filmino realizzato nel 1956 che documenta il “Natale in casa” di una famiglia teramana. Madre e figlio sono ripresi nel soggiorno modernamente arredato; la signora si mette in posa inscenando una finta telefonata che le consente di mostrare alla cinepresa il possesso dell’apparecchio telefonico192.

189 AAMA, Vacanze in famiglia, gare studentesche, Catania, 1953 - metà anni ’60. Sull’emergere della famiglia coniugale intima si rimanda invece a L’Italia del Novecento, cit., pp. 31 - 54.

190 Id., Fondo famiglia Ortolani, In casa, 1956.191 Camera di Commercio, Industria e Agricoltura di Teramo, Condizioni economiche, cit. pp. 20 - 24.192 Nel 1951 solo il 4,9% dei consumi privati delle famiglie italiane è destinato alla voce di spesa “comunicazioni” (che comprende anche il telefono) e

Seguono immagini della festa di Capodanno nel soggiorno dell’abitazione trasformato, per l’occasione, in una sala da ballo dove coppie, in eleganti abiti da sera, si stringono in un lento. Le riprese si spostano successivamente in cucina per soffermarsi su uno dei figli del cineamatore che mostra con orgoglio i regali ricevuti: una piccola bicicletta cui è attaccato un cavallino di legno, una lavagna con un pallottoliere. Altri giocattoli vengono poi portati in cucina per essere ostentati dinanzi alla cinepresa193. In questi anni, dunque, è lo spazio domestico, con i suoi oggetti di consumo, a distinguere i ceti abbienti dagli altri194; questi ultimi - come si vedrà più avanti - inizieranno a rappresentarsi tra le pareti domestiche, all’interno di una socialità più informale, solo con lo sviluppo generalizzato dei consumi e del tempo libero195.Appartengono alle fasce medio alte della borghesia anche quelle famiglie che sul finire degli anni ’50 iniziano ad introdurre le vacanze balneari all’interno delle proprie abitudini196.Un filmato familiare del 1958197, ad esempio, ci racconta le esclusive vacanze di due famiglie benestanti sulla costiera amalfitana, consegnandoci una rappresentazione del tempo libero tipica delle famiglie agiate, in cui le coppie sono in gita da sole o con altre coppie di amici. La cinepresa riprende varie fasi dell’escursione, tra gite in barca, bagni di sole e passeggiate sulla terra ferma, restituendoci non soltanto il ricordo di una semplice vacanza ma il vero e proprio “recupero”, da parte dei ceti borghesi, «di quello spazio pubblico per la vita familiare che avevano abbandonato per la costruzione della famiglia coniugale intima. Si tratta di uno spazio pubblico diverso da quello in cui si svolgeva forzatamente la vita di molte famiglie contadine o del sottoproletariato urbano, perché impegnate nel lavoro o perché allargavano sulla strada pezzi della propria quotidianità che non poteva essere contenuta dagli spazi domestici»198.Ad incoraggiare la diffusione delle prime villeggiature estive contribuiscono diversi elementi, come lo stile di vita urbano condotto da molte famiglie, ma anche l’aumento dei consumi legato alle trasformazioni economiche che hanno luogo sul finire degli anni ’50, accanto al contemporaneo moltiplicarsi di numerose strutture ricettive nelle località balneari.In un altro filmato di quegli anni, ad esempio, la famiglia si reca in vacanza a Rimini, «la città delle pensioni costruite una accanto all’altra»199, a bordo della sua nuova 600, la macchina simbolo del

nelle regioni dell’Italia meridionale (tra cui l’Abruzzo) solo il 3,9% delle famiglie spende in “comunicazioni”. Nel 1957, nella sola provincia di Teramo, si ha un telefono installato ogni 67 abitanti e 1 abbonato ogni 78 abitanti. Ancora nel 1963, gli abruzzesi in possesso del telefono risultano circa l’8%, mentre in Italia l’apparecchio telefonico è posseduto dall’1% delle famiglie contadine, dal 58% delle famiglie impiegatizie e dal 20% delle famiglie operaie. Dati tratti da: C. D’Apice, L’arcipelago dei consumi, cit. p. 30, p. 43 e p. 144; Eurostat, Bilanci familiari 1963 - 64, cit. p. 152; V. Cao Pinna, Le regioni del Mezzogiorno, cit. p. 55. Camera di Commercio, Condizioni economiche, cit., p. 91.

193 AAMA, Fondo Famiglia Fumo, Natale in Casa, 1956.194 Ancora nel 1955 molte famiglie della provincia di Teramo vivono in uno “stato di depressione”. Alcuni dati lo mettono in evidenza: in quell’anno

l’energia elettrica consumata in provincia incide sul consumo complessivo nazionale per il solo 0,10%. Alla fine dell’anno, si calcola che il consumo medio di energia elettrica per abitante della provincia sia così ripartito: 25,6% per illuminazione (di contro al dato nazionale del 62,4%); 87,6% per altri usi (di contro al 584,5% nazionale). Nel complesso il consumo elettrico della provincia si attesta al 113,2% di contro alla percentuale nazionale del 646,9%. Dati tratti da: Camera di Commercio, Condizioni economiche, cit. pp. 31 - 32.

195 G. De Luna et al.. L’Italia del Novecento, cit., p. 67.196 Le famiglie alto - borghesi costituiscono un’eccezione in quegli anni: nel 1956 il reddito medio per abitante della provincia di Teramo - indice del

grado di benessere della popolazione - non supera le 112.764 lire (quello nazionale si attesta invece a 217.725 lire). L’apporto del reddito complessivo della provincia al reddito nazionale rappresenta la magra percentuale dello 0,29%. Questo dato, trasposto nella graduatoria nazionale relativa al reddito medio per abitante, pone la provincia al 76° posto, mentre per il reddito complessivo all’86° posto. Cfr. Camera di Commercio, cit. p. 27 - 29.

197 AAMA, Fondo Famiglia Ortolani,Vacanze sulla costiera amalfitana, 1958.198 C. Saraceno, Interni (ed esterni) di famiglia, in G. De Luna et al. L’Italia del Novecento, cit., pp. 70 - 73.199 P. Battilani, Vacanze di pochi, vacanze di tutti, cit., p. 268.

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“miracolo economico”200. Nelle riprese della famiglia al mare, tra abbronzature e chiacchiere sui lettini, si intuiscono le dimensioni di massa che il turismo inizia ad assumere in quegli anni e le trasformazioni nel modo di stare sulla spiaggia: il lido è gremito di ombrelloni e le donne prendono il sole con vestiti leggeri o costumi interi, quando non in bikini201. Anche le vacanze sulla costa abruzzese trovano una rappresentazione nei filmati familiari della fine degli anni ’50 - con immagini di donne a passeggio sul bagnasciuga o di giovani madri che giocano con i figli sulla riva del mare202 - a dimostrazione di un nascente movimento turistico che non è più appannaggio del ceto aristocratico o alto borghese e che si svilupperà pienamente solo nel decennio successivo203. Le famiglie trascorrono i primi soggiorni estivi a Giulianova, Alba Adriatica, Roseto, in quelle località, cioè, che sul finire degli anni ’50 gettano le basi per il decollo dell’industria balneare, dotandosi di grandi alberghi, stabilimenti balneari, spiagge ben curate204. Il percorso di espansione turistica compiuto dalla costa abruzzese ci è restituito, in tal senso, da due cinegiornali dell’Istituto Luce realizzati negli anni Trenta: il primo, girato nel 1930 a Francavilla, è dedicato alla colonia marina organizzata dai fasci femminili di Chieti. Le immagini mute e in bianco e nero propongono una rappresentazione delle spiagge come ulteriori luoghi di “inquadramento” delle giovani generazioni. I bambini, infatti, sotto lo sguardo attento delle vigilatrici, effettuano sdraiati sugli arenili la “cura del sole”, esercizi di ginnastica e di respirazione, componendo rigorose coreografie a forma di cerchio205. Nel secondo filmato del 1932 ambientato a Giulianova, invece, il Luce abbandona per un attimo i toni della propaganda lasciando intravedere la vita balneare del litorale adriatico. La cinepresa si fissa sulle panoramiche della spiaggia - non ancora invasa dal turismo di massa - su belle bagnanti in costume alla marinara sedute in gruppo, su villeggianti di tutte le età accomodati tra le file ordinate degli ombrelloni messi a disposizione dai primi stabilimenti balneari206. L’attrezzatura alberghiera della provincia di Teramo, in tal senso, registra un sensibile miglioramento proprio nel corso degli anni ’50, passando dai 7 alberghi del 1949 ai 18 della fine del 1957207.Nelle immagini amatoriali la vacanza diventa per le famiglie un’ulteriore modalità di vivere l’esistenza - e soprattutto il tempo libero, - uno spazio sociale nuovo che contribuisce fortemente all’emancipazione sociale e del costume.

200 F. Paolini, Un paese a quattro ruote. Automobili e società in Italia, Venezia, Marsilio, 2007, p. 119 Alla fine del 1957, nella provincia di Teramo, circola un’autovettura ogni 68 abitanti. Cfr. Camera di Commercio, cit. p. 90. Più in generale, almeno fino alla fine degli anni ’50 gli italiani continuano a muoversi prevalentemente su “due ruote”.

201 AAMA, Fondo Famiglia Manuppella, Vacanze a Rimini, fine anni Cinquanta.202 Id. Fondi Famiglia Fumo e Plebani, cit.203 Nel 1957 il sindaco di Pescara, Mancini, descrive così il periodo estivo della città adriatica: «l’estate pescarese è per vari aspetti smagliante e costituisce

per decine di migliaia di persone un periodo di soggiorno felice, in una tra le più accoglienti spiagge italiane. Città dal carattere inconfondibile, Pescara offre al forestiero qualcosa di più di una sabbia fine come polvere d’oro, di un lembo d’Adriatico tranquillo e sicuro, di un lungomare festoso di fiori e di luci (…) In questo fervido mese di agosto sulla spiaggia i bagnanti numerosissimi, la splendida catena di locali, il variopinto esercito degli ombrelloni, aggiungono stupende pennellate di colore alla bellezza della nostra marina», in “Il Tempo”, Il monumento - Teatro “Gabriele D’Annunzio” testimonianza perenne dell’anno celebrativo”, 15 agosto, 1957.

204 Stessa spiaggia, stesso mare: storia, cronache, immagini del turismo balneare in Abruzzo, Pescara, Soprintendenza archivistica per l’Abruzzo, 2006, pp. 60 - 62.

205 AIL, Giornale Luce A0651, Colonia marina di Francavilla in Abruzzo, 1930, durata 1 minuto e 51 secondi.206 Id., Giornale Luce A0989, Giulianova, Abruzzo. La spiaggia adriatica, 1932, durata 1 minuto e 31 secondi.207 Camera di Commercio, cit. p. 86.

Malgrado ciò «le trasformazioni non prevalgono ancora sui costumi e gli assetti della tradizione, le abitudini e le necessità del passato continuano a dare il tono all’esistenza di singoli e comunità.»208. Basti pensare che, in quegli stessi anni, la rete stradale della provincia teramana continua a presentarsi «deficiente rispetto ai bisogni della provincia. Le strade di alta collina sono del tutto inadeguate» ed esistono ancora dei «comuni mal collegati o addirittura isolati rispetto alle loro frazioni»209. In altri termini, «le dinamiche di un radicale sconvolgimento, di una vera rottura nei modi di vita, già avviate negli anni ’50, prendono in realtà vigore solo col successivo decennio, man mano che fattori e processi inediti (…) consentono la definitiva fuoriuscita da modelli e standard di una società segnata dalla «povertà materiale» ed immettono in quella cosiddetta dei consumi»210.

208 C. Felice, Il disagio di vivere, cit. p. 316.209 Camera di Commercio, cit. p. 87.210 C. Felice, Il disagio di vivere, cit. p. 316.

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4. gLI AnnI sessAntA: verso LA socIetà deI consUmI

4.1. L’avvio di una crescita rapida e concentrata

Le immagini dai colori un po’ sbiaditi si aprono su una strada sterrata costeggiata dalla vegetazione; per qualche istante le riprese si fissano su questo panorama apparentemente banale. La strada è deserta, nessun elemento particolare sembra giustificare l’attenzione dell’osservatore; poi, all’improvviso, una nuvola bianca inizia a scorgersi all’orizzonte, in lontananza. Il cineamatore - con instabili movimenti della cinepresa - la cattura con curiosità, la segue, fino a quando la polvere bianca si trasforma in una corriera che avanza lentamente, arrancando tra i ciottoli della polverosa mulattiera di campagna. L’occhio del cineamatore filma l’arrivo del mezzo nel suo paese, Monticelli - una frazione dell’entroterra teramano - soffermandosi su alcuni particolari: le ruote - con i cerchioni che brillano ai raggi del sole - il nome della compagnia di viaggio inciso sulla fiancata laterale e sulla parte posteriore. Su quella stessa strada si avvicendano, poco dopo, un carretto di legno trainato da un bue e condotto da una donna vestita nei tradizionali abiti contadini, un gregge di pecore, un altro carro trasportato da due buoi con a bordo un uomo e un bambino, tre donne con grembiuli e fazzoletto in testa che fanno ritorno a casa211. Siamo nei primi anni ’60: il cineamatore Vincenzo Renzi, con la sua cinepresa, costruisce in modo inconsapevole la metafora filmata della modernizzazione che avanza in Abruzzo. Una modernizzazione dai tratti inediti e per certi aspetti contradditori che nel corso degli anni ’60 inizia ad investire la realtà locale, seguitando a convivere accanto ad evidenti elementi di resistenza al cambiamento. Ancora nel 1960, ad esempio, La Settimana Incom propone un’immagine folcloristica della regione e della sua gente, in continuità con un passato immobile, quasi arcadico. Nel servizio dedicato all’elezione de La più bella e la più brava ragazza d’Abruzzo e Molise, le riprese si concentrano sulle ragazze impegnate nelle più disparate prove di abilità e in particolare sulle «gare di bellezza e di folclore, di gastronomia e di lavoro, di canto e di recitazione, di gentilezza e di bontà»212. L’anno successivo, un documentario realizzato dall’Istituto Luce - e dedicato all’Abruzzo - diffonde un’immagine della campagna simile a quella catturata dalla cinepresa amatoriale di Vincenzo Renzi, un luogo in cui «la vita moderna non ha distrutto quella antica e in cui insieme ai trattori vivono ancora i buoi, simbolo di una gente tenace, forte e laboriosa»213. In realtà, le rappresentazioni amatoriali, e in parte anche quelle pubbliche, non restituiscono la complessità dei processi economici e culturali in atto nella regione in questi anni. Processi dai contorni spesso incerti che, tuttavia, avviano una serie di trasformazioni sotto il profilo strutturale e sociale, facendo sì che l’Abruzzo «cominci ad assumere quelle caratteristiche che lo fanno distaccare dal Mezzogiorno» e che ne plasmano un’immagine nuova, di una «regione che non è completamente meridionale e che si incerniera al blocco delle regioni centrali»214.

211 AAMA, Fondo Famiglia Renzi, Monticelli, primi anni ’60, dvd 9, durata 57 minuti. La descrizione delle immagini che segue, ove non specificato, è tratta dal medesimo fondo.

212 AIL, La Settimana Incom 01943, Italia: eletta la più bella e la più brava ragazza d’Abruzzo e Molise, 08/07/1960, durata 46 sec. La medesima rappresentazione si ritrova nel già citato cinegiornale della Settimana Incom del 1953 sempre dedicato all’elezione della più bella e più brava ragazza d’Abruzzo (cfr. nota n. 191).

213 Id. Documentario Luce, L’unione fa la forza, 1961, regia di Giulio Morelli, durata 9 minuti e 55 sec. 214 G. Corazziari, Lo sviluppo industriale nel secondo dopoguerra, in “Trimestre”, XXIII, n. 3 - 4, p. 317; inoltre, P. Landini, Fra centro e mezzogiorno

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Continuando a scorrere le immagini realizzate da Renzi nei primi anni ’60, infatti, è possibile notare come la modernizzazione si rifletta solo timidamente in alcuni dettagli della vita locale. La cinepresa ci offre scorci suggestivi che incorniciano le prime automobili parcheggiate sotto casa accanto a un gregge di pecore che pascola a poca distanza. Sulla strada percorsa poco prima dalla corriera, un’auto e un carretto trainato da un cavallo si affiancano per un attimo, cristallizzando in una sequenza fugace la mescolanza di elementi vecchi e nuovi che si fondono reciprocamente. Vicino al carretto, un uomo in canottiera e un bambino scalzo in calzoncini si offrono alla cinepresa: i loro volti si confondono, e quasi si sovrappongono, alle immagini degli anni ’40. Altre riprese - realizzate sempre dallo stesso Renzi - ci mostrano invece un contadino per strada mentre trascina un ariete alla corda; l’inquadratura si allarga poi leggermente per svelare, a pochi passi dai due, la presenza di un’auto 500 parcheggiata215. Le rappresentazioni amatoriali della vita locale sembrano dunque restituire quasi un riflesso stemperato delle trasformazioni in corso. A marcare con più evidenza la lenta ma inesorabile crescita economica dell’Abruzzo sono invece le cifre: nel decennio 1961 - 1971 la popolazione attiva agricola della regione si riduce drasticamente di oltre il 40%, passando da 179.945 a 106.215 unità. Il settore industriale, nello stesso periodo, guadagna posizioni importanti nel numero degli addetti che aumentano di oltre il 60%, passando da 49.554 a 79.389216. Diamo ora uno sguardo alla provincia di Teramo217: ancora nel 1959 ci si interroga sulle sue sorti, poiché essa è annoverata dalla stampa locale come la «provincia italiana più depressa», a causa di uno scarso incremento del reddito individuale rispetto a tutte le altre realtà territoriali italiane218. A pesare negativamente sull’innalzamento dei redditi contribuiscono le caratteristiche geografiche del territorio, contrassegnato da un’elevata percentuale di terreno montuoso e da un’economia fondamentalmente agricola da cui dipende il 37,6% del reddito totale prodotto219.A partire dal 1960, tuttavia, la situazione muta completamente e l’economia della provincia inizia a registrare i primi segnali di «una improvvisa tendenza all’espansione» che fa ben sperare per «la fuoriuscita di essa dal circolo del sottosviluppo». La crescita si manifesta principalmente nel reddito totale prodotto (+11,6%) - rispetto all’anno precedente - e nel reddito pro capite che passa da 139.696 a 162.073 lire. Incrementi consistenti vengono rilevati anche nei singoli comparti produttivi, in particolare quello legato alle attività industriali e terziarie (+ 16,4%), seguito dall’agricoltura (+13,1%) e dalla pubblica amministrazione (+11,4%). Cominciano a capovolgersi i tradizionali assetti produttivi

d’Italia, in Abruzzi e Molise, Novara, Istituto Geografico De Agostini, 1983. 215 AAMA, Fondo Famiglia Renzi, Teramo, Campli, Monticelli, 1966 - 1967, Dvd 6, 1 ora e 3 minuti.216 Cfr. C. Cosenza, L’Abruzzo, cit. pp. 208 - 210. Inoltre, Svimez, Rapporto sull’economia del Mezzogiorno 1974, Roma, 1976. 217 Sullo sviluppo economico dell’Abruzzo a partire dagli anni Sessanta si vedano anche G. Mauro, L’asimmetria Abruzzo - Mezzogiorno, cit. pp. 67 - 123;

C. Cosenza, L’Abruzzo, cit. pp. 207 - 210.218 Per quanto concerne il reddito globale, infatti, la provincia di Teramo passa, nella graduatoria delle 92 province, dall’81° posto nel triennio 1951

- 1953 all’89° posto (cioè al quartultimo) nel triennio 1957 - 1959. Per il reddito prodotto per abitante, inoltre, passa dal 71° posto occupato nel triennio 1951 - 1953 al 79° posto dell’ultimo triennio. L’arretratezza economica della provincia si fa più evidente se si considera che mentre nell’intero territorio italiano il reddito individuale subisce dal 1951 al 1959 un incremento globale del 60,5% (pari al 7,5% annuo), il corrispondente incremento della provincia di Teramo si mantiene nei più modesti limiti del 35,5% globale e del 4,4% annuo. Ritmi di crescita inferiori non solo a quelli che si verificano nello stesso periodo di tempo nell’Italia meridionale (53,3%), ma anche a quelli che si verificano nella regione abruzzese - molisana dove il reddito subisce negli anni considerati un incremento del 58,7%. Dati tratti da G. Passamonti, Teramo è veramente una «provincia depressa»?, in “Notiziario economico” (a cura di) Camera di Commercio, Industria, Agricoltura di Teramo, marzo 1961, pp. 3 - 5.

219 Id. p. 4.

e il settore industriale inizia ad incidere con oltre il 40% sul totale del reddito provinciale, rispetto all’agricoltura che arretra al 36,8%220.Ulteriori indicatori degli importanti progressi che il teramano va realizzando in quegli anni sono costituiti dal miglioramento del livello d’istruzione della popolazione, dall’incremento della natalità e dalla diminuzione della mortalità. Per quanto riguarda l’alfabetizzazione, infatti, le persone fornite di titolo di studio passano, fra il 1951 e il 1961, da 133.872 a 157.504 (+17,7%), determinando una decisa diminuzione dell’incidenza degli analfabeti sul totale della popolazione residente (si passa dal 22% del 1951 al 16,5% del 1961). A registrare l’incremento più forte sono in particolare i licenziati della scuola media inferiore (+85,3%), seguiti da quelli della scuola elementare, che passano da 120.561 nel 1951 a 135.947 nel 1961 (+12,8%)221.La natalità, invece, registra il suo picco più elevato nel 1964 con 5.269 nati vivi rispetto ai 4.736 del 1963 e un saldo naturale - che tiene conto della mortalità - di 3.064 unità a confronto delle 2.283 dell’anno precedente222. Alla crescita economica, culturale e sociale avviata nel 1960, tuttavia, la provincia non accompagna un contestuale aumento di alcuni consumi “primari” che si attesta sullo 0,25, una percentuale molto bassa rispetto al totale regionale (1,63)223. A frenare la propensione al consumo è soprattutto «il forte grado di ruralità, cioè l’elevato rapporto esistente tra l’ammontare della popolazione sparsa in paesi e frazioni e l’ammontare della popolazione accentrata in città»224. Molti dei filmati raccolti nell’archivio ci conducono proprio in quelle campagne in cui viveva una parte significativa della popolazione. La cinepresa della famiglia Verni, ad esempio, ci porta nella frazione agricola di Miano, a qualche chilometro da Teramo. La vita del borgo - a metà degli anni sessanta - sembra coinvolta solo in misura molto marginale dal processo di modernizzazione. Le immagini della quotidianità paesana non si discostano molto da quelle degli anni precedenti: ad animare le strade ritroviamo ancora una volta gli animali da cortile e le anziane donne - vestite di scuro, nei tradizionali abiti contadini - affacciate alle finestre delle case o sedute davanti alle loro abitazioni a prendere il sole225.

220 Tutti i dati sono tratti da A. A. Sul reddito prodotto in provincia di Teramo nel 1960, in “Notiziario economico”, cit. febbraio 1962, pp. 3 - 5. La crescita della provincia appare particolarmente significativa se messa a confronto con quanto accade, nello stesso anno, nelle altre province d’Abruzzo: Pescara (il cui reddito aumenta del 2,9%), L’Aquila (+5,1%) e Chieti (- 1,5%). L’aumento del reddito della provincia, inoltre, acquisisce ulteriore valore se paragonato a quello conseguito nello stesso anno dall’Italia Settentrionale (+10,7%), dall’Italia Centrale (+7,8%) e dall’Italia Meridionale - Insulare (+5,5%). Id. p. 5. Tuttavia, per tutto il corso degli anni sessanta, la crescita economica del territorio, pur procedendo a ritmi costanti e sostenuti, non riuscirà mai ad avvicinarsi a quella registrata nelle aree più industrializzate del Paese. Nel 1962, ad esempio, il reddito pro - capite supera per la prima volta le 200.000 lire, portandosi al livello di 219.012 lire: una cifra ancora molto lontana dalla media italiana che ammonta a 356.483 lire. Tra il 1963 e il 1966, inoltre, il reddito per abitante della provincia di Teramo aumenta del 29,2%, una percentuale superiore a quella dell’Abruzzo nel suo complesso (+22,6%) e dell’Italia (+22,9%) e che consente alla provincia di piazzarsi al 74° posto nella graduatoria delle 92 provincie in base al reddito pro capite (nel 1965 era al 77°). Tuttavia continua a sussistere il divario fra la cifra nazionale del reddito netto per abitante che è di 569.988 lire nel 1966 e la cifra regionale che si attesta a 390.594. Cfr. Il reddito prodotto in provincia di Teramo nel 1962, in “Notiziario economico”, ottobre 1963, p. 11; F. Camillini, Aspetti evolutivi di alcune componenti dell’economia in provincia di Teramo, in “Notizie dell’economia teramana”, anno XXII, n. 2, febbraio 1968, pp. 1 - 2.

221 In valori assoluti l’incremento più sensibile si registra proprio tra coloro che sono riusciti a conseguire la licenza elementare, aumentati, rispetto al 1951 di circa 15 mila unità. Tutti i dati sono tratti da A. Aiardi, Situazione e sviluppo del grado di istruzione in provincia di Teramo, in “Notiziario economico” aprile - settembre 1964, pp. 7 - 9. L’autore dell’articolo prende in considerazione i dati relativi ai due censimenti del 1951 e del 1961.

222 L’economia della provincia di Teramo nel 1964, in “Notiziario economico” maggio 1965, pp. 3 - 4.223 La provincia di Teramo, in particolare, risulta all’ultimo posto nella graduatoria regionale per i radio - abbonati su 1.000 abitanti (101,2), sale al

terzo nella spesa per tabacchi (6.124), in quella per gli spettacoli (1.075), ritorna all’ultimo nel consumo di energia elettrica per illuminazione (27,3), mentre sale al secondo posto per l’indice della motorizzazione (363,0). Dati tratti da A. A. Teramo e l’Abruzzo fra due censimenti in particolare dei consumi e del risparmio, in “Notiziario economico”, dicembre 1962.

224 A.A., Indici economici delle provincie abruzzesi, in “Notiziario economico”, settembre 1962, pp. 35 - 37.225 AAMA, Fondo Famiglia Verni, Miano, parte prima, 1965 - 1966, durata 38 minuti.

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Altre riprese amatoriali realizzate nella località di Monticelli in occasione dell’uccisione del maiale ci svelano invece come in molti paesi del teramano persista in quegli anni, a dispetto delle trasformazioni in corso, un retaggio antico legato alla tradizionale economia basata sull’autoconsumo. Retaggio che si esplicita in un “rito” al quale partecipa l’intero parentado: da un lato gli uomini, mentre lavano l’animale morto; dall’altro le donne, impegnate a ripulire le scale di casa226. Tornando alla crescita economica, è possibile notare come essa continui a ritmi regolari anche negli anni successivi: nel 1961 il reddito complessivo prodotto aumenta ancora del 10,6%, con un incremento costante e bilanciato della produttività nei diversi settori, in particolare nell’industria (+12,7%)227. Ad avvalorare il buon andamento delle attività industriali sono gli stessi dati sulla disoccupazione che confermano le maggiori possibilità di lavoro: si passa infatti da 4.789 disoccupati nel 1961 a 4.079 nel 1962228. Tuttavia è il 1963 l’anno più florido per la provincia di Teramo, che consegue l’incremento più alto nei redditi dell’industria e del commercio (+20,9%) rispetto alle altre province abruzzesi; tale aumento si attesta anche come il più elevato rispetto a tutti gli anni precedenti229. La singolare accelerazione del processo di industrializzazione ci viene restituita dalle cronache della “Corona Cinematografica” che nel 1966 dedica un cinegiornale della rubrica d’informazione “Cinemondo” all’inaugurazione - presieduta da Aldo Moro - dell’avveniristico stabilimento industriale della Società Italiana Vetro a San Salvo (Siv)230, uno dei «due grandi complessi industriali di matrice esterna» (il secondo è costituito dalla Siemens a L’Aquila) la cui realizzazione rappresenta «il primo grande momento di rottura con un Abruzzo concepito in termini di serbatoio di forza lavoro per il Nord e di componente “povera” del Mezzogiorno d’Italia»231. Un filmato amatoriale del 1965, invece, rimanda ad un’immagine molto tradizionale della realtà abruzzese, in aperto contrasto con quella - proposta da più parti - di un territorio avviato verso la modernità e il progresso. Le immagini amatoriali, infatti, documentano la “festa” della trebbiatura del grano consumata, come ogni anno, nel podere di campagna della famiglia. La cinepresa riprende i contadini al lavoro sui campi, in diversi momenti, circondati da bambini festanti che corrono tra le macchine agricole. Seguono le riprese delle donne che - come nella tradizione più antica - offrono il pranzo agli uomini in un momento di pausa dei lavori232. Il pasto si svolge nell’aia, dove per l’occasione è stato apparecchiato un lungo tavolo su cui sono stati disposti i piatti con le diverse pietanze.

226 Id. Fondo Famiglia Renzi, Monticelli, anni sessanta.227 A.A. Sul reddito prodotto in provincia di Teramo, in “Notiziario economico”, ottobre 1962, n. 10, pp. 4 - 6.228 Congiuntura economica in provincia di Teramo anno 1962, in “Notiziario economico”, maggio 1963, p. 11. Ad incrementare la produttività delle

industrie teramane contribuiscono sia le maggiori produzioni realizzate dalle industrie già esistenti, sia l’entrata in funzione di diversi stabilimenti nuovi, insieme al completamento di diversi ampliamenti. Id. p. 10. A svilupparsi maggiormente sono i settori dell’«edilizia e costruzioni», del «tessile e abbigliamento» (tra il 1961 e il 1967 conosce un incremento del 224%), del «legno e affini» (+255%) e della «metallurgia e macchine» (+246%). Dati desunti da A. Aiardi, Occupazioni e retribuzioni nell’industria in provincia di Teramo (1961 - 1967),in “Notizie dell’economia teramana” a. XXIII, n. 1, gennaio 1969, pp. 2 - 3.

229 Il reddito industriale delle altre provincie abruzzesi aumenta, in quello stesso anno, del 18,9% (Chieti), del 12,0% (L’Aquila), del 16,4% (Pescara). Cfr. Il reddito prodotto in provincia di Teramo nel 1963, in “Notiziario economico”, ottobre 1964, pp. 9 - 11.

230 AIL, Cinegiornale Cinemondo CN035, Inaugurazione del nuovo stabilimento della Società Italiana Vetro a San Salvo, 1966, durata 1 min. e 59 secondi.231 G. Mauro, L’asimmetria Abruzzo - Mezzogiorno, cit. p. 79; inoltre anche G. Bodo, La grande svolta: Mezzogiorno nell’Italia degli anni Novanta, Roma,

Donzelli, 1997. 232 La trebbiatura «era un periodo delicato dell’anno lavorativo che doveva ricompensare la fatica profusa dal contadino a partire dall’aratura dei terreni

nel settembre precedente. Per questo si configurava, altresì, come un periodo festivo straordinario, nel quale era previsto il consumo in abbondanza di beni alimentari di qualità che mitigassero la dura fatica dei falciatori. Questi ultimi giungevano nei campi dalle zone limitrofe per essere assoldati dai proprietari terrieri. Venivano loro offerti pranzi “da festa”, con minestre, pastasciutta e vino messo da parte per l’occasione», in A. Socciarelli, Trasformazioni sociali e innovazioni nella ritualità festiva, Cerchio, Settore promozione culturale, 2006, p. 54.

Contribuisce ad enfatizzare il significato delle immagini - la cui realizzazione commissionata ad una mano “estranea” alla cerchia familiare tradisce il desiderio di filmare la trebbiatura per preservare una tradizione altrimenti destinata negli anni a scolorire tra i ricordi - una colonna sonora aggiunta dai toni marcatamente nostalgici233. Quest’ultima non è un’assoluta novità per quegli anni, ma conferisce alle riprese quella patina “mitica” che concorre ad attribuire al mondo agricolo i tratti di un’apparente immutabilità. “Voci” diverse, dunque, rappresentano in modo contraddittorio le dinamiche dei primi anni ’60 che traghettano l’Abruzzo verso la modernità. I dati economici e i filmati pubblici sono portati a proporre l’immagine di un territorio e di una società lentamente in cammino verso il progresso, mentre nei film amatoriali la modernizzazione sembra restare sempre sullo sfondo. A dominare è la quotidianità, la ripetizione di realtà sociali che, apparentemente, sembrano non essere percorse da fragorosi mutamenti, ma che mostrano, piuttosto, una storia locale fatta di continuità e di permanenze. È solo all’interno delle famiglie - tra le pareti domestiche, tra nuovi oggetti, comportamenti ed abitudini di consumo - che la trasformazione degli anni ’60 sembra esplicitarsi maggiormente, iniziando ad assumere forme tangibili che consentono di cogliere meglio i processi di cambiamento in atto, l’importanza delle novità intervenute, ma anche la consistenza delle conservazioni che permangono.

4.2. Modernizzazione e identità familiare

Le mura domestiche si trasformano, nel corso degli anni sessanta, in scenari privilegiati delle autorappresentazioni familiari, luoghi in cui le cineprese amatoriali sembrano muoversi con particolare disinvoltura. Ad essere protagoniste di molte riprese sono le abitazioni dei cineamatori modernamente arredate ed abbellite, spie sensibili di un rinnovato stile di vita e di una nuova organizzazione sociale e domestica scandita sempre più dai tempi della produzione e del consumo234. In quel periodo, infatti, proliferano in Italia le mostre e le manifestazioni dedicate alla casa e all’arredamento; i cinegiornali dell’epoca restituiscono resoconti fedeli «di quanto fa parte dell’arredamento della casa in tutti i suoi molteplici aspetti»235, a dimostrazione di una nuova sensibilità per gli spazi abitativi legata anche ad una maggiore disponibilità economica. I servizi cinegiornalistici dettano alle famiglie «lezioni di arredamento della casa» per rendere le abitazioni belle, accoglienti e funzionali, concentrandosi soprattutto su «ambienti e mobili d’oggi per l’uomo d’oggi, ma anche per la donna, naturalmente, regina della casa e soprattutto della cucina». Grande attenzione è riservata anche alle “novità” come i «mobili da cucina termoplastici, economici e resistenti», televisioni, lavatrici automatiche «dalla linee eleganti e moderne in accordo con i mobili della cucina», modelli di cucine a gas «di linea modernissima». Le cronache, inoltre, non mancano di sottolineare «il continuo miglioramento estetico della produzione e la possibilità per il consumatore di acquistare mobili dalla linea aggraziata a basso costo».

233 AAMA, Fondo Famiglia De Santis, Trebbiatura, 1965, durata 7 minuti. Il filmato, ambientato nelle campagne del teramano a Valle Vignale di Notaresco, è stato eseguito da un fotografo professionista chiamato per l’occasione dalla famiglia. L’importanza delle immagini in esso contenute acquisisce ulteriore valore se si considera che nel 1965 il reddito prodotto dall’agricoltura sul totale provinciale ammonta a solo il 28,9%, con un arretramento, nel giro di pochi anni, di ben 8 posizioni (ammontava al 36,8% nel 1961). Cfr. Reddito della Provincia di Teramo nel 1965, in “Notizie dell’economia teramana”, a. XXI, n. 1, gennaio 1967, p. 40.

234 Nel 1951 Teramo era compresa tra le sette provincie con percentuale di consumi più bassi; nel 1966 ne è esclusa. Cfr. Aspetti evolutivi, cit. p. 4.235 AIL, Cronache del mondo CM301, “La mia casa”. A Milano inaugurata “La mia casa”, rassegna dell’arredamento, 1961, durata 2 min. e 17 secondi.

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Un accento particolare viene posto sui nuovi materiali utilizzati per costruire i complementi di arredo come ad esempio «le lampade in plexiglass, luminose, sobrie e di buon gusto adatte per tutti gli ambienti eleganti e raffinati» o - per l’arredamento del soggiorno - «divani componibili con diversi tipi di elementi realizzati in legno e metallo che permettono sempre un’ambientazione appropriata»236. Le rappresentazioni dei filmati familiari sembrano quasi sovrapporsi alle cronache pubbliche di questi anni, documentando - attraverso la ripresa degli interni domestici - l’arredamento delle abitazioni, ma anche gli oggetti e gli accessori che le compongono e in cui iniziano a materializzarsi i primi segnali di un modesto benessere. Una prima sequenza di immagini realizzate nel 1965, ad esempio, ci introduce all’interno dell’abitazione della famiglia Verni. L’occasione per “aprire le porte di casa” e filmare i diversi ambienti è data dalla ricorrenza del Natale; l’occhio meccanico si sofferma dapprima in camera da letto - arredata con il letto e il grande armadio in legno - poi passa in cucina dove l’anziana suocera è indaffarata nei preparativi del pranzo. La donna - che sembra quasi ignorare la presenza di chi la sta riprendendo - è seguita dalla cinepresa nei più piccoli gesti, mentre si accosta davanti ad uno degli elettrodomestici “simbolo” del miracolo economico, il frigorifero, o mentre lancia uno sguardo fugace alle sue spalle. Seguono immagini della sala da pranzo, con la tavola apparecchiata, e della grande televisione - collocata in un angolo della stanza - su cui la cinepresa indugia un attimo. Un secondo filmato, girato nel 1969 dallo stesso Verni, torna nuovamente sui particolari dell’appartamento arricchitosi, nel frattempo, di nuovi complementi d’arredo: alle riprese della televisione, infatti, si affiancano quelle di alcuni vasi e soprammobili, del moderno lampadario in plastica e di qualche quadro appeso alla parete237.In alcuni casi le immagini amatoriali delle abitazioni si trasformano in una vera e propria forma di ostentazione del benessere raggiunto. Un filmato di quegli anni, infatti, dedica una lunga sequenza alle riprese del soggiorno di casa, con molta probabilità rinnovato di recente. L’occhio del cineamatore si sofferma sulla grande cristalliera in legno appoggiata alla parete, sul tavolo con le sedie, sul divano, sulle tende, sul lampadario a candelabri. Ogni piccolo elemento della stanza è passato in accurata rassegna, con un’attenzione maggiore verso alcuni dettagli “preziosi”: il tessuto in velluto che riveste le sedie, il tavolino basso sovrastato dalla specchiera dorata e su cui sono poggiati due candelabri d’argento238. Un altro filmato realizzato nei primi anni sessanta entra all’interno di un appartamento per riprendere un gruppo di amiche che prendono il the - servito in un elegante servizio di porcellana - e chiacchierano, sorridendo di tanto in tanto alla cinepresa239. È dunque lecito chiedersi se queste siano solo immagini casuali - catturate dalle cineprese semplicemente come passatempo - o possano costituire anche documenti indiretti di un nuovo atteggiamento di consumo e di nuovi desideri che in passato non potevano essere soddisfatti dalle famiglie. Uno sguardo ad alcuni dati ci aiuta forse a capire meglio.

236 Id, Radar R0005, “Italia - Una lezione di arredamento della casa”, 1965, durata 1 min. e 30 secondi; Radar R0001, “Italia - Bella, accogliente e funzionale la casa moderna”, 1965, durata 1 min. e 22 secondi; Caleidoscopio Ciac C1659, Obbiettivo sulla cronaca - Milano, Salone del mobile, 1964, durata 53 secondi; Cronache del Mondo CM347, Per la casa. Inaugurata la II mostra del Mobile Italiano alla presenza del Ministro Colombo, 1962, durata 1 min. e 55 secondi; Id. CM346, Novità per la casa, 1962, durata 2 min. e 24 secondi; Id. CM399, Italia - Tutto per la casa al III Salone del mobile italiano, 1963, durata 2 min e 07 secondi; Id. CM400, Italia - A Milano III Salone del mobile italiano, 1963, durata 1 min. e 48 secondi

237 AAMA, Fondo Famiglia Verni, In casa, 1965, 1969.238 Id. Fondo Famiglia Transi, In casa, anni Sessanta.239 Id. Fondo Famiglia Ortolani, Un the fra amiche, primi anni sessanta.

È sempre la Camera di Commercio di Teramo a rilevare, nel 1962, i primi segnali di un’«espansione delle attività commerciali (…) in relazione ad un ampliamento dei consumi (…) e una maggiore tendenza a diversificare la preferenza negli acquisti, specie per i beni di uso durevole», in particolare per quelli legati all’arredamento delle abitazioni e all’elettrodomestica240. Tra il 1961 e il 1962, infatti, la percentuale destinata alle spese per “abitazione” aumenta, in provincia, di oltre il 10%, passando da 59,10 a 69,44 e registrando gli incrementi più consistenti rispetto ad altri capitoli di spesa (alimentazione: +4%; abbigliamento: + 5%; elettricità e combustibili: + 3%)241. La propensione delle famiglie abruzzesi ad investire nelle abitazioni piuttosto che in altri beni è confermata dai consumi regionali registrati nel 1965, il 31,2% dei quali riservati ad «alimentari, bevande e tabacchi» (con un valore assoluto pari a 200 miliardi e 596 milioni) e il 9,1% (circa 59 miliardi) destinati ad «abitazioni» e costi ad esse connessi (arredamento). Segue, all’ultimo posto, la spesa per gli altri «beni e servizi a carattere ricreativo e culturale» che assorbono 40 miliardi, pari al 6,3% del totale dei consumi privati242.Ad ogni modo, le riprese amatoriali degli interni domestici, oltre ad affermare volutamente la conquista di un nuovo status da parte delle famiglie, fanno emergere involontariamente - nel contrasto con gli esterni, con ciò che rimane fuori dalla soglia di casa - i tempi diversi della trasformazione. È il caso, ad esempio, dei filmati effettuati dal cineamatore Renzi nel 1968 sul «panorama di Monticelli, campagne e dintorni»: la collocazione ci è fornita dal commento sonoro aggiunto che - in apertura - specifica che «l’obbiettivo è su casa Renzi». In un primo momento, infatti, la cinepresa si muove in casa, in uno spazio modernamente arredato composto dalla televisione, dalle sedie in plastica dalla forma aggraziata, dal telefono appoggiato su di un mobile in legno in un angolo della sala. Subito dopo le immagini si spostano all’esterno per riprendere la vita del paese, nella quale non è possibile scorgere i segni di una modernizzazione che si limita ad arredare le mura domestiche. Le riprese sulla strada, benché a colori, si confondono infatti con quelle più antiche: la cinepresa osserva la vita semplice dei diversi compaesani. E così davanti all’obbiettivo di Renzi sfilano «Marietta e Francesco in panchina che gustano un buon sorso di vino»; «Berardo col suo tipico carretto trainato dall’inseparabile Mù»; una donna, «Scolastica, che porta al pascolo il suo piccolo gregge», un’altra con una cesta in testa e una bottiglia in mano. «Nella campagna, intanto, fervono i lavori dei campi»: un aratro tirato da buoi dissoda la terra con l’aiuto del contadino243. Sono immagini in cui la dicotomia tradizione/modernizzazione - evidente nello scarto tra interno ed esterno domestico - sembra essere ulteriormente enfatizzata dal commento aggiunto che le accompagna.I film di famiglia ci mostrano anche come all’interno delle abitazioni vi siano «altri consumi “vistosi”, eppure di uso più quotidiano, che al loro primo apparire entrano a far parte dell’iconografia familiare. Innanzitutto la radio e poi la televisione, che negli anni Sessanta troneggia in tante cucine o tinelli, (…) affiancandosi o sostituendosi a grandi ritratti di famiglia o altarini vari». Alle volte, in alcuni filmati si vede bene come la televisione «quasi assume il ruolo di capotavola nei pranzi di famiglia» e di sfondo nelle pose familiari244.

240 Congiuntura economica in provincia di Teramo anno 1962, in “Notiziario economico”, giugno 1963, pp. 12 - 13.241 Id. p. 14.242 I conti economici dell’Abruzzo, in “Notizie dell’economia teramana”, anno XXI, n. 1, gennaio 1967, p. 43.243 AAMA, Fondo Famiglia Renzi, Monticelli, 1968, Vhs 1. In corsivo e tra virgolette il commento sonoro aggiunto.244 C. Saraceno, Interni (ed esterni) di famiglia, in G. De Luna et al. L’Italia del Novecento, cit. pp. 67 - 68.

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Ciò è evidente, ad esempio, nelle immagini del cineamatore Transi, che riprende la moglie seduta al tavolo di casa mentre mangia in compagnia della televisione accesa in un angolo del soggiorno245; o ancora in quelle di Vincenzo Renzi che ci offre uno scorcio suggestivo della sua quotidianità domestica “popolata” da nuovi oggetti di consumo. La cinepresa entra in cucina per fissarsi sulla figlia, la piccola Adriana, seduta sul tavolo; accanto a lei l’inquadratura larga ci fa intravedere la nonna mentre lavora a maglia. Adriana si offre divertita davanti all’obbiettivo del padre che - tra una posa e l’altra della bambina - non manca di rimarcare il possesso della televisione, concentrando le riprese sullo schermo acceso che rimanda immagini in bianco e nero, quasi a completare l’arredamento della stanza modernamente ammobiliata. Seguono infatti riprese del telefono e della bambina attaccata alla cornetta246. L’apparecchio televisivo torna ad essere protagonista di successive riprese che ritraggono la famiglia a tavola, durante la cena: sulla televisione accesa, in un angolo, la cinepresa si concentra spesso, distogliendo l’attenzione dai commensali; l’elettrodomestico sembra accompagnare il pasto della famiglia, a dimostrazione della sua funzione di oggetto che «richiama dentro la famiglia, che invita a un consumo familiare»247. Il possesso di questi nuovi beni viene spesso documentato con fierezza dalle famiglie nei loro filmati248; «soprattutto l’automobile costituisce lo sfondo, o forse il centro»249 di molte autorappresentazioni e la sua esasperata riproduzione nei filmini degli anni Sessanta - non è un caso che l’auto risulti quasi sempre fotogenica - ne manifesta il suo valore simbolico quale segno di ricchezza e di potere, più che di crescita reale.Nel corso degli anni sessanta l’Abruzzo rientra tra le regioni meridionali con i più elevati livelli di motorizzazione, tanto che nel 1973 si trova ad occupare il quarto posto per tassi di incremento automobilistico, preceduta solo da Molise, Basilicata, Sardegna250. Per quanto riguarda la provincia di Teramo, in particolare, già nel 1961 essa risulta al secondo posto nella graduatoria regionale per indice di motorizzazione (363 auto ogni 1000 abitanti) e mantiene questa posizione nel corso degli anni successivi: nel 1964 gli autoveicoli privati circolanti salgono a 16.922 rispetto ai 13.776 del 1963, mentre nel 1967 girano in provincia di Teramo ben «24.265 autovetture di cui 24.025 per uso privato, 222 per servizio di rimessa e 18 per servizio di piazza»251.

245 Id. Fondo Famiglia Transi, In casa, anni ’60.246 Id. Fondo Famiglia Renzi, In casa, Dvd 6, metà anni ’60.247 Id. Fondo Famiglia Renzi, Cena in famiglia, Dvd 6, 1966; L’Italia del Novecento, cit. p. 68. Negli stessi anni in cui i filmati delle famiglie si concentrano

sui nuovi oggetti di consumo che arredano le abitazioni, i cinegiornali continuano a dedicare svariati servizi ai moderni elettrodomestici. È il caso, ad esempio del Cinegiornale “Caleidoscopio Ciac” C1744, Obbiettivo sulla cronaca. Milano - Tecnica in cucina, 1966 (durata 1 min. e 18 secondi), che dedica il servizio alla nuova lavastoviglie Candy brevettata dall’ing. Fumagalli e presentata alla mostra di Milano, all’interno di uno scenario che ricostruisce la quotidianità di una cucina. Le immagini, infatti, mostrano dei tecnici che sistemano la lavastoviglie in cucina e la donna di casa che, sorridente, ripone le stoviglie nei diversi scomparti della macchina.

248 È del 1966 l’indagine della Banca d’Italia sul reddito, risparmio e strutture della ricchezza delle famiglie italiane. Secondo l’inchiesta - che si concentra anche sulla diffusione di alcuni beni durevoli per classi di reddito - il 59,5% delle famiglie dispone di un televisore; il 59,5% di un frigorifero; il 32,2 di una lavatrice e l’1,5% di una lavastoviglie. Tra coloro che hanno un reddito «fino a 600 mila lire annue» solo il 25% possiede un televisore contro l’85% delle famiglie con entrate di «oltre 3 milioni e 500 mila». Il 31% delle famiglie dispone di un’automobile, ma tale valore scende al 6,3% per quelle a più basso livello di reddito, mentre è pari al 68,7% per quelle a più alto livello di reddito. Nel 1968, al termine del periodo di maggiore diffusione di beni durevoli, solo il 27% delle famiglie possiede contemporaneamente un’auto, un televisore e una lavatrice. Cfr. Banca d’Italia, Risparmio e struttura della ricchezza delle famiglie italiane nel 1968, Roma, 1970. I dati sono citati anche da C. D’Apice, L’arcipelago dei consumi, cit. p. 52.

249 L’Italia del Novecento, cit. p. 69.250 F. Paolini, Un paese a quattroruote, cit. pp. 137 - 8 e 172.251 Tutti i dati sono tratti da Teramo e l’Abruzzo fra due censimenti, cit., p. 12; L’economia della provincia di Teramo nel 1964, cit. p. 8; F. Camillini, Il punto

sulla situazione degli autotrasporti nel 1967, in “Notizie dell’economia teramana”, anno XXII, n. 9 - 10, settembre - ottobre 1968, p. 9.

I filmati familiari registrano i primi effetti di questa crescita mostrandoci le automobili sullo sfondo di molte rappresentazioni. Una giovane coppia di fidanzati, ad esempio, passeggia insieme ad alcune conoscenti lungo le strade di Teramo preceduta dalla cinepresa che la riprende. Siamo nella prima metà degli anni sessanta: a fare da contorno materiale della camminata dei protagonisti sono le auto parcheggiate, in fila ordinata, ai due lati delle strade252.Una seconda sequenza degli stessi anni, ma in bianco e nero, ci offre una visione ancora più suggestiva: a svelarci l’inizio della motorizzazione di massa, infatti, sono i primi passi incerti compiuti per strada dalla figlia del cineamatore che sgambetta tra le auto parcheggiate vicino al marciapiede253.A spiegare il successo commerciale dell’auto è «la natura stessa dell’oggetto che non ha rappresentato soltanto un mezzo di locomozione e un prodotto della tecnologia capace di rivoluzionare i trasporti terrestri, ma è stato attore della trasformazione sociale, simbolo, allo stesso tempo, di libertà, indipendenza, benessere e progresso»254.Le riprese amatoriali contribuiscono ad una maggiore comprensione delle motivazioni culturali che sono alla base dell’acquisto e dell’“esibizione” delle automobili. Lo fanno in tutte quelle immagini in cui la vettura non si trova più sullo sfondo, non costituisce più un oggetto involontario catturato dalla cinepresa, ma passa in primo piano, viene mostrata, divenendo la protagonista principale - se non esclusiva - delle riprese. Il cineamatore Plebani - in visita in Sicilia dai suoceri nei primi anni sessanta - non esita a catturare sulla sua pellicola a colori le immagini dell’utilitaria con la quale ha compiuto il lungo viaggio dall’Abruzzo. All’auto e alla targa egli dedica sequenze intense e prolungate nelle quali sembra quasi incarnarsi la riaffermazione del suo status e dalle quali sembra sprigionarsi il suo senso di appagamento255. «Le auto vengono “coccolate” (…) sono come un’estensione della propria personalità (…) L’auto è un simbolo manifesto di successo, e vi sono ancora molte persone che, avendo comprato per la prima volta un’auto, hanno in realtà appena comprato la prima prova di essere “arrivate”»256.È il caso, quasi certamente, di Vincenzo Renzi che nei filmini riprende spesso le auto dei suoi compaesani parcheggiate in paese e che - una volta riuscito anche lui ad acquistarne una - la filma con cura davanti alla propria abitazione257.La visibilità dell’auto appare strettamente correlata al fatto che essa rappresenta nell’immaginario delle famiglie «il simbolo del benessere e della libertà individuale in contrapposizione con i valori tradizionali e oppressivi della società pre-bellica». Inoltre, soprattutto per i ceti di modesta estrazione, «possedere la macchina significava testimoniare agli altri il raggiungimento di uno status sociale più elevato. Si acquistavano le automobili non solo perché queste erano un comodo mezzo di trasporto, ma anche per testimoniare agli altri il raggiunto benessere, per emulare il vicino di casa o il parente che aveva appena acquistato una 600 e per non sentirsi esclusi da quella nuova società dei consumi che andava rapidamente affermandosi»258.

252 AAMA, Fondo Famiglia Fumo, Passeggiata - seconda parte, prima metà anni sessanta.253 Id. Fondo Famiglia Ortolani, Primi passi, primi anni sessanta.254 F, Paolini, Un paese a quattroruote, cit. p. 142.255 AAMA, Fondo Famiglia Plebani, Sicilia, Dvd 1, primi anni sessanta.256 E. Dichter, Gli oggetti ci comprano: manuale delle motivazioni del consumatore, Milano, Ferro, 1967, pp. 289 - 290.257 AAMA, Fondo Famiglia Renzi, Monticelli, Dvd 8, metà anni sessanta.258 F. Paolini, Un paese a quattroruote, cit. p. 155.

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La riaffermazione del prestigio sociale attraverso le riprese ripetute delle caratteristiche tecniche ed estetiche della macchina torna in un’altra sequenza del 1967. L’occasione per filmare la nuova Alfa Romeo è data al cineamatore dal figlio, seduto sul cofano della vettura: l’obbiettivo, in un primo momento, si fissa sul bambino per essere attirato, subito dopo, dai particolari cromati del nuovo «elettrodomestico di uso comune»259. Seguono immagini del bambino che sale in macchina e fa finta di guidare, imitando gesti visti compiere dal padre260. Nello stesso anno, un’inchiesta promossa da «L’Automobile» e svolta fra ragazzi del Mezzogiorno mette in luce come per la grande maggioranza degli interpellati la macchina rappresenti «l’avanguardia del progresso», in grado di «trascinarsi dietro una civiltà più moderna, tecnologicamente evoluta e (…) più confortevole, più agevole»261.L’importanza culturale dei nuovi oggetti simbolo del “miracolo economico” viene confermata dalle immagini di due filmati girati dalla stessa cinepresa, ma in anni diversi. Le riprese sono ambientate a Campli, un piccolo paese della collina teramana, durante la tradizionale “Sagra della Porchetta”. La prima sequenza, realizzata nel 1966 in occasione della terza edizione della manifestazione, si apre sulla piazza, al centro della quale è stato montato un palchetto. La cinepresa inquadra più volte i premi della lotteria: un’Autobianchi 112 e una motocicletta. Immagini successive realizzate nel 1967 - in occasione della medesima sagra - si ripetono identiche alle precedenti: la cinepresa si sofferma nuovamente sui premi in palio, costituiti da una lavatrice e ancora una volta da un’automobile, a dimostrazione del fatto che l’auto - sebbene in rapida diffusione - continua ad essere vissuta da molti come un premio da mettere in palio, come la materializzazione di un sogno, di un desiderio che si può realizzare grazie ad una vincita fortunata262.L’automobile, in più, diventa negli anni sessanta «uno degli “attori” di quella radicale trasformazione sociale che contribuisce a mettere in discussione i valori e le gerarchie della società tradizionale»263 con conseguenze anche all’interno delle stesse famiglie.I filmati amatoriali, in questo senso, eleggendo la casa e la famiglia come luoghi privilegiati delle riprese, sembrano restituire uno spaccato documentario unico, e allo stesso tempo suggestivo, delle dinamiche di permanenza e di mutamento in atto all’interno dei nuclei domestici e più in generale della società. Nelle classiche “scene di famiglia” è possibile cogliere quel cambiamento dei ruoli di genere - collegato ad un più ampio rimescolamento delle funzioni e delle gerarchie familiari - che si avvia nel corso degli anni sessanta. Già nel 1964 un filmato della Settimana Incom dal titolo I casalinghi dà conto delle trasformazioni che iniziano ad investire le famiglie dall’interno, realizzando una breve inchiesta «in un paese dell’Emilia dove gli uomini sbrigano le faccende domestiche e le donne vanno a lavorare». Nel servizio si sottolinea come «gli uni e le altre sono soddisfatti di come vanno le cose»264.Tale rimescolamento, tuttavia, non sembra cancellare completamente i retaggi tipici della famiglia rurale che le cineprese amatoriali ci svelano con involontaria ingenuità.

259 Id. p. 149.260 AAMA, Fondo Famiglia Verni, Valerio - seconda parte, 1967.261 Auto no, auto sì, in “L’Automobile”, n. 53, 1967; Id., Consumo: quindi esisto. Le nuove generazioni del Sud faccia a faccia con il progresso, n. 54 - 55,

1967. 262 AAMA, Fondo Famiglia Renzi, Sagra della porchetta di Campli, Dvd 6,1966 - 1967.263 F. Paolini, Un paese a quattroruote, cit. p. 170.264 AIL, La Settimana Incom 02468, I casalinghi, 1964, durata 1 min. e 47 secondi.

Due sequenze differenti di filmati familiari, girate a metà degli anni sessanta, ci aiutano a capirlo meglio: ciascuna di esse ci restituisce l’immagine diversa - e sotto molti aspetti antitetica - di un’identità femminile che sembra essere sospesa, stretta tra processi opposti che la spingono verso il mutamento, ma al tempo stesso la trattengono dentro i rigidi confini della tradizione.Le prime riprese si aprono in un cortile domestico, con le immagini più tradizionali: la moglie del cineamatore che fa il bucato al lavatoio e la suocera - negli abiti contadini - in posa dinanzi alla cinepresa. Sullo sfondo, alle spalle dell’anziana, s’intravede l’auto 500 parcheggiata. Seguono le riprese delle giovani figlie, le sorelle Verni, che insieme ad un gruppo di amiche accendono alcune sigarette e fumano con disinvoltura, sorridendo divertite all’obbiettivo del padre che le riprende265. È una sequenza che condensa nell’arco di pochi istanti la metafora del faticoso percorso compiuto dalle donne per la conquista di uno spazio autonomo. Sono immagini, altresì, che oltre a restituirci la suggestiva ripresa di ragazze che vivono all’insegna di un incipiente anticonformismo, materializzato nella sigaretta che pencola dalle labbra, ci dicono molto sul doppio binario seguito dalla modernizzazione. In esso, l’affermazione di nuovi consumi e costumi, il cambiamento delle mentalità e della cultura, procedono di pari passo al permanere di situazioni materiali legate alla tradizione.La tradizione torna ad essere protagonista indiscussa in un altro filmato girato negli stessi anni nella cucina di casa Renzi: una donna imbocca una bambina, mentre altre due donne, con i grembiuli indosso, preparano su un tavolo poco distante la pasta all’uovo. L’obbiettivo insiste molto sulla preparazione della specialità gastronomica e la volontà di filmare la tradizione - per timore che essa possa scomparire e perdersi nel tempo - si esplicita nelle riprese ripetute del rito culinario, al quale partecipano - ma solo come osservatori - alcuni uomini266.Queste immagini acquisiscono un valore più profondo se accostate alle parole di un articolo comparso nel 1965 sul quotidiano “Il Tempo”, in cui si traccia «il ritratto, piuttosto singolare, dell’uomo teramano fatto dalla presidente dell’Udi nel corso di una conferenza - dibattito sui problemi femminili» e nel quale si sottolinea come «l’uomo abruzzese teme, se la moglie lavora, di dover rinunciare alle scrippelle ‘mbusse»267. D’altronde, in quegli anni, «la casa e la famiglia formano (…) la cellula costitutiva che identifica uno spazio forte entro cui si possono misurare le cariche positive e negative, le resistenze alla trasformazione, le possibilità di riconoscimento e le disgregazioni irreversibili dei valori comuni»268.In tal senso, sono sempre i filmati tratti dall’archivio dei ricordi di Renzi a proporci una rappresentazione statica dell’identità femminile, chiusa in rigide divisioni di ruoli familiari e sessuali. L’occasione per filmare è data, anche in questo caso, da un pranzo in famiglia a cui partecipano solo uomini: le donne sono presenti, ma in ruoli defilati. Esse sembrano non prendere parte al momento conviviale; si limitano, piuttosto, a servire le diverse pietanze agli uomini seduti a tavola. Il loro momento di socializzazione lo

265 AAMA, Fondo Famiglia Verni, Miano - parte seconda,1967. È importante sottolineare che tutte le donne della famiglia Verni erano iscritte all’Udi (Unione Donne Italiane), associazione per l’emancipazione femminile fondata tra il 1944 e il 1945 su impulso del Partito Comunista Italiano. Sull’Udi e sulla sua attività si rimanda a: C. Liotti (a cura di), Volevamo cambiare il mondo: memorie e storie delle donne dell’Udi in Emilia Romagna, Roma, Carocci 2002; M. Michetti, Udi: laboratorio di politica delle donne. Idee e materiali per una storia, Rubbettino, Soveria Mannelli, 1998; P. Gabrielli, Il club delle virtuose: Udi e Cif nelle Marche dall’antifascismo alla guerra fredda, Ancona, Il lavoro editoriale, 2000; M. Casalini, Le donne della sinistra (1944 - 1948), Roma, Carocci, 2005.

266 AAMA, Fondo Famiglia Renzi, Pranzo in famiglia, dvd 8, metà anni ’60.267 “Il Tempo”, Non vuole la donna che lavora perché gli piace la buona tavola, 6 ottobre 1965. 268 G.Brunetta, Il cinema legge la società italiana, cit. pp. 802 - 805.

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vivono altrove, nel loro spazio, la cucina, «il luogo per eccellenza d’incontro, scambio», tra i fornelli e la cura dei figli, «una sorta di piazza e di luogo comune dove (…) si produce un’immediata socializzazione dei sentimenti, dei sogni, delle aspirazioni, delle convinzioni dei soggetti che ne fanno parte»269. Continuando a scorrere i filmati amatoriali, inoltre, è possibile rendersi conto di come anche le immagini «più domestiche, più intime, possono voler documentare una particolare rappresentazione di sé, dell’individuo e della famiglia»270.Nei Super8 girati da Vincenzo Renzi, ad esempio, i momenti di convivialità tornano molte volte ad essere protagonisti privilegiati. Il nucleo domestico è spesso ritratto in sala da pranzo, intorno al tavolo, intento a consumare ricchi pasti sulle cui diverse portate la cinepresa indugia con fierezza. Quasi sempre nei filmini dei pranzi è presente il sacerdote del paese, a dimostrazione dell’importanza che gli è attribuita dalla famiglia. Era lo stesso prete, infatti, a scrivere per Renzi gli enfatici commenti sonori di frequente aggiunti alle immagini realizzate271. Il parroco, dunque, partecipava attivamente alla vita dei Renzi, rafforzandone il senso di coesione e strutturando una precisa autorappresentazione degli stessi. Nel corso degli anni sessanta, lo scenario delle rappresentazioni familiari si sposta sempre più oltre i confini casalinghi; ciò «è dovuto anche al fatto che pezzi di vita familiare si svolgono in misura crescente fuori (…) in gita, in viaggio, in vacanza»272. Le nuove abitudini delle gite brevi e delle vacanze iniziano a diventare uno dei fulcri attorno a cui si definisce sempre più l’identità familiare, poiché «anche tra i ceti sociali popolari cresce la voglia di viaggiare e di fare le vacanze come forme nuove di impiego del tempo libero»273. Le pellicole in Super8 di questi anni restituiscono questa nuova realtà attraverso l’impressionante quantità di immagini - generalmente a colori, talvolta in bianco e nero - delle vacanze trascorse dalle famiglie prevalentemente al mare.Lo scenario per eccellenza è quello delle spiagge, dove i figli si dividono tra castelli di sabbia, bagni in acqua, corse scatenate verso l’obbiettivo delle cineprese, mentre le mogli si rilassano a poca distanza, distese sulla riva a prendere il sole274. Ricorrenti sono anche le immagini delle passeggiate sul bagnasciuga affollato di turisti, dove gruppi di donne - le madri in costume intero, le figlie in bikini - si aggiustano i costumi e sorridono mostrandosi orgogliose alla cinepresa275. «Sono spiagge che si assomigliano tutte nei film; il prototipo è quella costa adriatica che comincia allora a definire le sorti del turismo di massa»276.Altre volte, le immagini amatoriali possono svelarci le trasformazioni in corso. Quando le famiglie non sono ritratte sotto gli ombrelloni - accomodate sulle sdraio e sugli asciugamani stesi al sole - o in mare a fare il bagno - tra canotti di gomma e materassini gonfiabili - le troviamo raccolte in momenti di relax intorno ai tavolini dei primi stabilimenti balneari o, addirittura, sul terrazzo delle case prese in affitto,

269 Id. p. 805.270 C. Saraceno, Interni ed esterni di famiglia, in L’Italia del Novecento, cit. pp. 4 - 12.271 Questa informazione è stata fornita dal figlio di Vincenzo Renzi, Claudio, invitato a rivedere e commentare le immagini realizzate dal padre.272 C. Saraceno, cit., p. 70.273 La società in posa, in L’Italia del Novecento, cit. p. 91.274 AAMA, Fondo Famiglia Ortolani, Al mare, 1962 - 1963; Fondo Famiglia Plebani, Al mare, dvd 2, 1961.275 Id., Fondo Famiglia Fumo, Al mare - seconda parte, 1960 - 1965.276 C. Malta, La famiglia e la sua immagine, cit. p. 550.

segno della diffusione progressiva della cosiddetta “villeggiatura lunga” legata ad un incremento dei redditi e dei consumi277. Ancora nel 1958 la Settimana Incom, in uno dei suoi servizi, parla di «come arrangiarsi per la villeggiatura dato che il reddito medio degli italiani è di circa 60.000 lire al mese»278; a metà degli anni ’60, invece, possiamo vedere, attraverso le immagini girate dalle famiglie, come la situazione sia radicalmente mutata e come anche gli stabilimenti balneari e le case di vacanza inizino ad essere filmate poiché rappresentano «i simboli di quel nuovo stile di vita, dove lo svago, anche se fabbricato in serie, è alla portata di tutti»279.A favorire il diffondersi del turismo familiare concorrono diversi fattori, riconducibili alle più generali trasformazioni economiche, ma anche alla costruzione di nuove attrezzature ricettive e all’incremento della motorizzazione280.Alcuni dati sulla provincia di Teramo ci aiutano a comprendere meglio la crescita dei consumi turistici cominciata a partire dai primi anni sessanta.Già nel luglio 1960 «la stagione balneare costituisce il fattore più importante dell’attività turistica provinciale, per l’affluenza di molti villeggianti nelle accoglienti spiagge del litorale teramano. Esse sono state arricchite di nuovi e moderni esercizi alberghieri, di ritrovi stagionali, di stabilimenti balneari, al fine di rendere sempre più confortevole il soggiorno dei forestieri ed incrementare l’affluenza»281. Tale rilancio della risorsa turistica trova alcune prime conferme incoraggianti nel 1962, definito come «l’anno boom del movimento turistico per la provincia di Teramo» favorito dall’«espandersi delle attrezzature alberghiere che sono entrate in funzione in particolare lungo l’intera fascia costiera»282. In quello stesso anno, anche le zone montane iniziano ad essere valorizzate: a Prati di Tivo, ad esempio, viene costruito «un piccolo nuovo albergo che non rappresenta che l’inizio di decisive e più importanti realizzazioni»283. Negli anni successivi, infatti, le attrazioni naturali di quel luogo vengono scoperte e apprezzate sia dal governo che dalle famiglie. Nel 1966 viene inaugurata la nuova seggiovia alla presenza del Ministro Natali; la struttura rappresenta «una premessa indispensabile per un maggior potenziamento delle attrezzature ricettive e turistico - sportive della località284. L’anno dopo un cinegiornale realizzato a L’Aquila, in occasione del IV Convegno sul Turismo invernale, definisce Prati di Tivo una «tipica stazione per il turismo invernale»285. Le immagini pubbliche realizzate in quell’occasione - che riprendono le varie fasi del congresso - sembrano quasi sovrapporsi a quelle girate, nella medesima occasione, da un cineamatore locale, che con la sua cinepresa riprende il cartello

277 AAMA, Fondo Famiglia Plebani, Vacanze al mare, Dvd 2, metà anni sessanta; Fondo Famiglia Berardocco, Vacanze al mare Dvd2 - 3, 1966 - 1969.278 AIL, La Settimana Incom 01664, E per finire le vacanze degli italiani, 1958.279 C. Malta, La famiglia, cit. p. 550.280 Cfr. V. Cao Pinna, Le regioni del Mezzoggiorno, cit. p. 114 - 5; P. Battilani, Vacanze di pochi, vacanze di tutti, cit. p. 238.281 Note sulla situazione economica della provincia, luglio 1960, in “Notiziario economico”, cit., agosto 1960, p. 17.282 Nel 1962, in particolare, l’aumento delle presenze interessa sia gli italiani, che passano da 8,9 a 15,2, sia gli stranieri che salgono ad una media di

7,1 rispetto a quella di 3,4 dell’anno precedente. Il trend positivo vissuto dal comparto turistico della provincia è confermato dai dati degli anni successivi: nel 1966 il turismo provinciale supera infatti il milione di presenze, inserendo Teramo tra le province a più alta vocazione turistica; nel 1969 le presenze superano abbondantemente i 2 milioni. Tutti i dati sono tratti da Congiuntura economica in provincia di Teramo anno 1962, cit. pp. 10 - 11; La situazione economica della provincia di Teramo nel 1966, in “Notizie dell’economia teramana”, anno XX, n. 12, dicembre 1966, p. 7; F. Camillini, La situazione economica della provincia di Teramo nel 1969, in “Notizie dell’economia teramana”, anno XXIII, n. 12, ottobre 1969, p. 13.

283 Id., p. 11.284 La nuova seggiovia di Prati di Tivo, in “Notizie dell’economia teramana”, anno XX, n. 5, maggio 1966, p. 6.285 AIL, Cinegiornale “Sette G” S0032, Vacanze d’estate e d’inverno, 13/03/1967

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sul quale si legge “IV CONVEGNO SUL TURISMO INVERNALE IN ITALIA (6 - 7 MARZO 1967) per poi concentrarsi su uno dei relatori286. In questi stessi anni, alcuni filmati in super8 ci restituiscono il fascino esercitato dalle nuove realtà montane sulle famiglie che proprio in questi luoghi compiono escursioni e vacanze, sia in estate che in inverno: «l’Abruzzo dimostra che anche l’inverno può essere una stagione di vacanze, di riposo, di viaggi alla scoperta di luoghi suggestivi»287.I filmati realizzati dal cineamatore Plebani proprio ai Prati di Tivo documentano lo sviluppo turistico vissuto dalla località nel giro di breve tempo. Le riprese iniziano da lontano, da una strada innevata occupata ai lati da una lunga fila di auto parcheggiate; seguono panoramiche dall’alto del piazzale antistante i campi da sci gremito di vetture. L’occhio della cinepresa si sofferma con curiosità su queste vedute inedite e non manca di sottolineare il suo stupore nella ripresa di un cartello sul quale si legge a chiare lettere la scritta: “BENVENUTI SUL GRAN SASSO”. La camera si concentra poi sui nuovi impianti di risalita presi d’assalto da un folto numero di sciatori e solo in ultimo, al termine del filmato, Plebani riprende la sua famiglia, impegnata in giochi sulla neve e passeggiate nel bosco innevato288. In gita ai Prati è invece il titolo di un filmino realizzato da un altro cineamatore che filma un’escursione estiva nella località di montagna, non mancando di offrire - oltre ai giochi dei suoi figli sui prati - gli scorci suggestivi delle montagne e del paesaggio circostante289.Tuttavia, ad incentivare ed intensificare le pratiche vacanziere tra le famiglie è soprattutto la motorizzazione. Nel 1963, un’indagine del mensile automobilistico “Quattroruote” rivela che il 56,3% degli italiani ha acquistato un’automobile per «raggiungere più comodamente il lavoro» e il 46,4% «per divertimento e per gite», a dimostrazione del fatto che «all’indomani del “miracolo economico” le gite nei week end (…) e le vacanze in automobile erano diventate una delle nuove irrinunciabili abitudini»290 delle famiglie italiane. Le immagini dei filmati familiari sembrano evidenziare con chiarezza lo stretto rapporto esistente fra la crescita della motorizzazione privata e la graduale diffusione delle gite fuori porta e più in generale del turismo di massa. Il possesso di un’auto, infatti, «permetteva anche scampagnate e passatempi nell’arco di una sola giornata»291, come nel caso della famiglia Renzi, che filma - recita il commento sonoro aggiunto - la scampagnata a Crognaleto e la sosta per mangiare nella “Trattoria del Turista” oltre alla gita al Ceppo, uno dei più belli e suggestivi posti delle montagne del nostro Abruzzo292. Sono frequenti inoltre in molti filmini, le riprese - in certi casi a colori, in altri in bianco e nero - dei picnic consumati dalle famiglie sui prati, all’ombra di qualche albero, su tavolini di legno insieme ad amici, oppure delle passeggiate tra i sentieri ed i campi293. In alcune di queste immagini - spesso sullo sfondo, a fare da cornice ai pranzi all’aperto, altre volte quasi in primo piano, accanto alle famiglie - si scorgono le 500 e le 600 parcheggiate sul ciglio delle strade294,

286 AAMA, Fondo Famiglia Renzi, IV Convegno sul turismo invernale, dvd 6, 1967.287 AIL, Cinegiornale “Sette G” S0032, cit.288 AAMA, Fondo Famiglia Plebani, Prati di Tivo, dvd 2, 1966.289 Id., Fondo Famiglia De Giorgis, In gita ai prati, dvd 2, anni sessanta.290 F. Paolini, Un paese a quattro ruote, cit. p. 146 e p. 151. Nel 1964 la percentuale di chi utilizza la macchina per raggiungere i luoghi della villeggiatura

è salita al 50%, Id. p. 152.291 La società in posa, cit. p. 93.292 AAMA, Fondo Famiglia Renzi, Gite in montagna, vhs 1, 1968.293 Id., Fondo Famiglia Plebani, In montagna, dvd 2, primi anni sessanta. 294 Id. Fondo Famiglia Transi, Gita in montagna, anni sessanta; Fondo Famiglia Renzi, Gite dvd 6, 1966 - 1967.

le utilitarie del tempo libero «grazie a cui stavano prendendo forma i sogni di riscatto e di promozione sociale di molti»295.Ma i filmati amatoriali, oltre a consentire una rilettura delle trasformazioni della società, ci permettono anche di comprendere in che modo le tradizioni più antiche sopravvivano ai cambiamenti indotti dal progresso. I“riti di passaggio”296, in questo senso, costituiscono i luoghi privilegiati di rappresentazione e di riproposizione, spesso in chiave rivisitata, delle consuetudini popolari. Sono topoi iconografici per eccellenza che si modificano o si ripetono in relazione alle mutazioni e alle reiterazioni della struttura familiare e sociale e in cui, proprio per tale ragione, l’antico e il moderno sembrano spesso continuare a coesistere l’uno accanto all’altro. Nel nostro archivio ci sono molti filmati dedicati alle nozze; si consideri, infatti, che dagli anni ’50 e sino alla metà del decennio successivo si assiste a una continua crescita della frequenza dei matrimoni (dai 331 mila del 1951 ai 420 mila del 1963) con un conseguente progressivo innalzamento del tasso di nuzialità dal 7 all’8,2 per mille. Tale valore, nel corso della particolare congiuntura positiva del 1961 - 1964 si incrementa ulteriormente tra il 7,9 e l’8,2 per mille297.Nei filmati sono ovviamente gli sposi ad occupare il posto principale della scena visiva, sono loro a risaltare rispetto a tutti i presenti - sia durante la celebrazione in chiesa che durante il ricevimento - e l’arrivo in chiesa della sposa è quasi sempre la prima immagine ad essere documentata. «Accanto alla celebrazione delle nozze, con tutto il suo corredo di invitati, addobbi, cortei di accompagnamento e così via, un altro evento, (…) vero e proprio rito di nozze che accompagna sempre più «obbligatoriamente» la celebrazione è il pranzo»298. Nelle sequenze in bianco e nero di un matrimonio del 1966299 si ritrovano tutti questi elementi: dall’uscita di casa della sposa - accompagnata dal padre e festeggiata da alcune amiche che le lanciano del riso - al suo ingresso in chiesa, fino al ricevimento al ristorante dove gli sposi - seduti insieme ai parenti più stretti in un tavolo separato dal resto degli invitati - si lasciano filmare esponendo e consumando sulla scena pubblica un evento importante della loro vita privata300. In molti casi, il ricevimento di nozze costituisce «la prima occasione in cui le due famiglie si incontrano. Ed è un modo, a partire dalla definizione della lista degli invitati, di affermare l’appartenenza a una comunità o a più cerchie significative»301.La ripetitività di queste immagini potrebbe tuttavia indurre ad una lettura semplicistica, portando a concludere che documentano solo il significato festivo dell’evento in sé. In realtà anche questi ricordi familiari possono costituire delle tracce involontarie attraverso cui rileggere in controluce una storia più ampia, sospesa fra elementi di tradizione e di innovazione, e nella quale si esprime l’atteggiamento generale di un gruppo, la sua natura, le sue qualità, le sue debolezze302. Continuando a scorrere le immagini di alcuni filmati realizzati nel corso degli anni sessanta, è possibile comprenderlo meglio.

295 La società in posa, in G. De Luna et al., L’Italia del Novecento, cit. p. 94.296 Sui “riti di passaggio” si rimanda al testo di A. Van Gennep, I riti di passaggio, Torino, Bollati Boringhieri, 1996.297 Dati tratti da G. Vecchio e G. Blangiardo, La famiglia 1860 - 1980, in “Famiglia Oggi”, anno XVII, n. 11, novembre 1994.298 C. Saraceno, Interni (ed esterni) di famiglia, cit. p. 23.299 AAMA, Fondo Famiglia Berardocco, Matrimonio, dvd 3, 1966 - 1967.300 G. Fiorentino, Gli occhi del luogo in L’Italia del Novecento, cit. p. 92. 301 C. Saraceno, Interni (ed esterni) di famiglia, cit. pp. 27 - 28.302 M. Halbwachs, Memorie di famiglia, cit. p. 35

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Una prima sequenza di immagini in bianco e nero, realizzate nel 1961, ci introduce direttamente all’interno di una chiesa, dove una coppia si sta scambiando la promessa di matrimonio. L’attenzione della cinepresa è interamente fissata sugli sposi, mentre amici e parenti compongono solo la cornice di un evento apparentemente consumato nel solco della tradizione. Il rinnovamento rispetto al passato è presente nell’abito della sposa dal taglio corto e moderno che lascia le gambe scoperte. Il vestito, probabilmente, è stato confezionato in quel modo per essere riutilizzato in seguito: su di esso le riprese successive si soffermano con curiosità in occasione della classica posa di gruppo con gli invitati303.All’insegna della modernità sembra essere celebrato un altro matrimonio, nel quale la sposa, pur non rinunciando all’abito lungo, veste in rosa, quasi a voler sottolineare la necessità di identificarsi in un’immagine di donna diversa dalla tradizione, un’immagine che rompa con il passato e intorno alla quale, in quegli stessi anni, l’identità femminile inizia a definirsi304. Solo qualche anno prima, infatti, «gli abiti nuziali rifuggono dalle novità. Come sempre, quel che conta sono i metri e metri di serica stoffa e i proporzionali conti in banca dei padri»305. Un filmato familiare del 1967 sembra confermare l’accelerazione di fenomeni e tendenze in atto all’interno della società. Le immagini in questione documentano infatti il matrimonio civile di una coppia di Teramo celebrato all’insegna della semplicità e della sobrietà. Le riprese si discostano con forza dalle scene più classiche: la cinepresa non filma nessun corteo di parenti, nessun ricevimento di nozze, nessuna “messa in scena” di gruppo degli sposi insieme alle famiglie. Tutto si svolge in un’atmosfera informale, con la coppia ritratta nel cortile di casa e poi mentre chiacchiera con i parenti - che sembrano quasi ignorare la presenza della cinepresa - accomodati all’aperto su alcune sedie di legno306.Sono immagini che non stupiscono se si tiene conto del fatto che proprio a partire dalla metà degli anni sessanta prende avvio «un debole ma significativo impulso a quel processo di laicizzazione delle scelte nuziali che avrà modo di manifestarsi in tutta la sua pienezza nel corso del ventennio successivo»307. La progressiva crescita dei matrimoni civili (dal 1965 al 1970 la loro percentuale aumenta, passando da 1,3 a 2,3) costituisce il «segno di un graduale scollamento tra le tradizioni religiose e di costume e la cultura diffusa»308. Contemporaneamente, cominciano a diminuire i matrimoni: a fotografare la nuova tendenza in atto è, in quello stesso anno, la “Corona Cinematografica” che realizza un servizio speciale incentrato proprio su quel tema309. In esso si spiegano le ragioni, economiche, sociali e culturali alla base del fenomeno, prime fra tutte le onerose spese da affrontare per la cerimonia e l’acquisto di una nuova casa. Non tutte le famiglie, tuttavia, sembrano essere attraversate dalle trasformazioni: in tre diversi filmati,

303 AAMA, Fondo Famiglia Ortolani, Matrimonio, 1961.304 Id. Fondo Famiglia Renzi, Matrimonio, dvd 9, 1960 - 1965.305 AIL, La Settimana Incom 01623, Il mondo delle donne, 1958, durata 2 min. e 39 secondi.306 AAMA, Fondo Famiglia Verni, Matrimonio della zia Martina - parte seconda, 1967.307 G. Vecchio, G. Blangiardo, La famiglia, cit, p.16. 308 I matrimoni civili, infatti, dopo la firma del Concordato del 1929 erano sempre rimasti oscillanti attorno a percentuali tra l’1,5% ed il 2,5% sul totale

dei matrimoni; dopo il 1968, con i mutamenti del costume e l’innescarsi di un generale processo di laicizzazione, iniziano gradualmente a salire fino al 1971 (3,8%). La legge sul divorzio (1970) contribuisce inoltre ad enfatizzare ulteriormente il fenomeno, tanto che nel 1972 la percentuale di matrimoni civili è del 7,3%, con aumenti progressivi negli anni seguenti: 10,5% nel 1977; 12% nel 1979; 14,2% nel 1983. Tutti i dati sono tratti da G. Vecchio, G. Blangiardo, La famiglia, cit. p. 17.

309 AIL, Cinemondo CN038, Numero speciale. Le nostre inchieste. Indagine statistica ed interviste sul tema del calo dei matrimoni in Italia, 1967, durata 7 min. e 7 secondi. È solo intorno alla metà degli anni settanta, tuttavia, che si assiste a una repentina e brusca accelerazione della diminuzione dei matrimoni che scendono di colpo al 6,7 per mille nel 1975, per decrescere ulteriormente in modo sempre più rapido (6,4 nel 1976, 6,2 nel 1977, 5,9 nel 1978) Cfr. G. Vecchio, La famiglia, cit.

ad esempio, la tradizione pare addirittura prevalere sulla modernità. La continuità con il passato è rintracciabile nelle immagini in cui la sposa, dopo la celebrazione del rito, si avvicina all’altare per deporvi un mazzo di fiori, un gesto antico compiuto per “implorare” la pace coniugale sulla coppia310. In un secondo filmato, invece, le riprese si svolgono nella casa della sposa, prima della celebrazione del rito. Le immagini catturano la compresenza di elementi moderni e antichi condensati in una rapida sequenza. La donna, infatti, vestita con un moderno abito ampiamente scollato sul davanti, è in soggiorno e mostra con orgoglio alla cinepresa i regali di nozze ricevuti - posate d’argento, piatti in porcellana - esposti su un tavolino in un angolo della stanza. Il gesto, nell’affermare il raggiungimento di un certo benessere, non riesce tuttavia a cancellare retaggi antichi che, anziché scomparire con il tempo, ritornano in primo piano, accentuandosi forse con più forza rispetto alle trasformazioni dei contesti. È il caso di un altro filmato del 1971 dove a fare da cornice alla sposa, che esibisce alla cinepresa i regali ricevuti, sono i parenti più giovani vestiti secondo i dettami della moda anni settanta. I volti “antichi” dei più anziani e il loro abbigliamento, tuttavia, sembrano essere slegati dal contesto temporale di riferimento. Rimandano, al contrario, verso un passato contadino, scandito dalle tradizioni e dalle fatiche quotidiane del lavoro nei campi. Una sequenza fugace cristallizza, in un istante, la persistenza di questo passato nel presente, lo materializza nell’intensità dei volti dei più anziani accostati a quelli dei giovani e dei bambini; quasi espressioni di un legame e di una solidarietà che congiungono fra loro le diverse generazioni. I frammenti di un passato che emerge di continuo, inoltre, accompagnano i primi passi della sposa fuori dalla casa paterna, con il simbolico e tradizionale taglio del nastro bianco sulla soglia dell’abitazione che pare marcare, formalmente, il passaggio della donna da un microcosmo familiare ad un altro311. Osservando le immagini dei matrimoni celebrati nei piccoli paesi, inoltre, è possibile cogliere la differenza tra le famiglie contadine e quelle del mondo urbano, notando come in questi contesti la cinepresa difficilmente riesca ad isolare i protagonisti dell’evento in primo piano. Le nozze, infatti, vengono vissute dalle comunità dei piccoli centri in modo corale, «sempre presente in forma di sguardi diffusi, massa di persone, magari assembrata davanti alla chiesa»312. È così nelle immagini realizzate, nella metà degli anni sessanta, in occasione di un matrimonio a Poggio Umbricchio: sono chiaramente nozze “popolari”, la cui semplicità è iscritta negli abiti indossati dai parenti e dagli abitanti del paese che circondano la sposa fin dalla soglia di casa. I presenti accompagnano la donna in una lunga processione che si snoda lungo le vie del borgo, fino alla chiesa, all’esterno della quale restano in attesa numerose persone313. A fianco dei filmati del matrimonio ci sono anche quelli dei battesimi, delle prime comunioni, dei compleanni, rituali che - al pari delle nozze - vengono documentati dalle cineprese. È soprattutto la tradizione a dominare: essa si perpetua ad esempio nelle immagini a colori delle feste di battesimo in casa - in cui l’intera parentela brinda offrendosi alla cinepresa314 - in passato prevalentemente festeggiate in campagna dove «la festa consisteva in un pranzo che veniva dato in allegrezza del neonato a cui

310 AAMA, Fondo Famiglia Alessandrini, Matrimonio, 1969.311 Id., Fondo Famiglia De Giorgis, Un matrimonio, 1969; Fondo Famiglia Valeriano, Matrimonio di Emidio, 1971.312 G. Fiorentino, Gli occhi del luogo, cit. p.134.313 AAMA, Fondo Famiglia De Giorgis, Un matrimonio, dvd 1, metà anni sessanta.314 AAMA, Fondo Famiglia De Giorgis, Festa di battesimo, dvd 2, anni sessanta.

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partecipava tutta la famiglia e i parenti»315. Ma anche nelle suggestive riprese - in bianco e nero e a colori - dei battesimi celebrati nelle case, in cui si vedono i salotti trasformati per l’occasione in inusuali luoghi di culto dove il prete impartisce il sacramento battesimale al neonato316. In quegli stessi anni in un piccolo paese del teramano si rispetta invece la tradizione della “quarantena”, secondo la quale la puerpera non poteva partecipare al rito del battesimo perché “impura” e dunque impossibilitata a varcare la soglia di casa per un periodo di quaranta giorni dopo il parto. La cinepresa ci svela questa consuetudine mostrandoci le immagini di una giovane donna che, nell’accompagnare l’anziana suocera con in braccio il neonato, si arresta sulla soglia di casa317. I filmati delle prime comunioni, al contrario, documentano l’iniziazione dei bambini alla comunità degli adulti, «attraverso una cerimonia e una festa di gruppo che li vede per la prima volta nella loro giovane vita, al centro dell’attenzione al di fuori della famiglia». Nelle riprese spesso si vedono le bambine - assimilate nell’abbigliamento a piccole spose - sfilare in processione fino alla chiesa318; «alla liturgia religiosa (…) segue il banchetto della festa»319. Il cineamatore Plebani, ad esempio, filma la festa della prima comunione dei suoi figli in casa, senza mancare di farci intravedere, in una sequenza rapida, la presenza di un cameriere chiamato per l’occasione a servire a tavola, a conferma della condizione economica agiata della famiglia320. In ogni caso «sono i bambini gli attori principali della scena, mentre gli adulti, i genitori e gli amici completano la coreografia ai lati prima di riconquistare, anch’essi, una posizione non più defilata (…) che ricompone l’unità familiare e parentale»321. Le stesse feste di compleanno rappresentano per le famiglie un’occasione unica per aprire la porta di casa alla cinepresa ed ostentare, tra i festeggiamenti, consumi ed oggetti nuovi in passato mai posseduti. È così, ad esempio, nel filmato realizzato in occasione del compleanno della piccola Adriana Renzi, in cui si vede la bambina avvicinarsi alla cinepresa del padre e mostrare con orgoglio il regalo ricevuto dai genitori: «una bella sedia a dondolo - sottolinea il commento sonoro aggiunto - che Adriana fa funzionare sorridente e soddisfatta»322. Ma anche nelle pose affettate dei parenti seduti sulle poltrone del confortevole soggiorno in legno su cui la cinepresa si concentra con maggior attenzione rispetto alla vera protagonista del filmato, una bambina, che solo alla fine viene mostrata alla camera accompagnata per mano dal padre323.

315 Cisf, Le stagioni della famiglia, cit. p. 314.316 AAMA, Fondo Famiglia Ortolani, Battesimo in casa, anni sessanta; Fondo Famiglia Berardocco, Battesimo in casa, dvd 3, 1966 - 1967. Il battesimo

eseguito in casa - oltre ad essere giustificato in passato da questioni puramente pratiche legate ai numerosi casi di mortalità neonatale - sembrerebbe rappresentare nelle famiglie che continuano a praticarlo anche nel corso degli anni sessanta un retaggio di origine popolare secondo il quale «il battesimo fatto in casa nel giorno stesso della nascita, libera un’anima dal Purgatorio», in G. Finamore, Tradizioni popolari abruzzesi, Cerchio, Adelmo Polla Editore, 1997, p. 95.

317 AAMA, Fondo Famiglia De Giorgis, Battesimo, dvd 3, metà anni sessanta.318 AAMA, Fondo Famiglia Renzi, Prima comunione, dvd 9, 1960 - 1965; Fondo Famiglia De Giorgis, Prime comunioni, dvd 1 e 2, anni sessanta.319 La società in posa, in G. De Luna et al., L’Italia del Novecento, cit., p. 65 - 66.320 Id., Fondo Famiglia Plebani, Festa di prima comunione, dvd 3, fine anni sessanta.321 La società in posa, in G. De Luna et al., L’Italia del Novecento, cit., p. 67. 322 AAMA, Fondo Famiglia Renzi, Compleanno di Adriana vhs 1, 1968.323 Id., Fondo Famiglia Berardocco Compleanno, dvd 3, anni sessanta.

4.3 La precarietà della modernizzazione Nel 1964 alcuni studenti teramani realizzano un filmino in bianco e nero dedicato all’“Anno scolastico 1964 - 1965”. Le immagini non sono ambientate interamente in una scuola, ma restituiscono uno scorcio più ampio e soggettivo del modo di vivere di un gruppo di giovani liceali abruzzesi all’inizio degli anni sessanta. Il filmato, infatti, si apre all’interno di una casa dove è in corso una festa per il diciottesimo compleanno: compagni di scuola dai volti spensierati - appartenenti alla buona borghesia teramana (i ragazzi in giacca e cravatta, le ragazze in abiti alla moda) - si divertono in giochi di abilità e balli scatenati. L’autore delle riprese porta la cinepresa anche nella scuola, un liceo classico, filmando una giornata di lezioni all’interno di un’ordinata aula scolastica. L’obbiettivo si fissa dapprima su un professore seduto in cattedra mentre interroga alcuni studenti, per poi offrire una visione panoramica dell’aula e dei banchi di legno disposti ad anfiteatro su cui siedono - divisi in due ali organizzate - ragazzi e ragazze. Sono immagini che, anche in questo caso, riaffermano con forza la specificità delle memorie amatoriali prive - per la maggior parte delle volte - di contraddizioni o tensioni e piene di «personaggi sorridenti», antidoti alla durezza della vita vissuta e in deliberata antitesi con tutto ciò che minaccia la coesione dei ricordi personali324. A ravvivare la “pittura a tinte rosa” del filmato, non a caso, contribuiscono colonne sonore costituite da musiche originali degli anni sessanta325. È ovvio, dunque, che queste brevi sequenze non sono in grado di restituirci i più generali fermenti sociali e culturali di quegli anni: costituiscono semmai la messa in scena di un gruppo, ma non rappresentano la società abruzzese che, sebbene lanciata verso il progresso, sembra seguitare ad essere attraversata da fragilità endemiche del tessuto economico, materiale e sociale. In altri filmati amatoriali, infatti, bisogna soffermarsi proprio sulle sfumature per riuscire a rintracciare la rappresentazione involontaria e suggestiva delle “conservazioni” in vario modo presenti in alcuni contesti sociali. Tali conservazioni, al pari dei conflitti e delle tensioni, possono risultare importanti per contribuire ad enfatizzare - come si vedrà più avanti - il carattere effimero e disomogeneo della modernità abruzzese, le cui propaggini non arrivano evidentemente ovunque.Ma andiamo per ordine. Già nel 1950 l’Abruzzo è investito da «scioperi per il capoluogo»326, cui fanno da contorno le «proteste degli studenti a L’Aquila, a causa della totale mancanza di università»327. A partire dal 1963, le agitazioni iniziano ad assumere un’intensità crescente, legandosi strettamente a due questioni essenziali per le sorti dello sviluppo regionale e per il superamento dello storico isolamento dell’Abruzzo: le università328 e le autostrade. Un cronista locale, non a caso, proprio sul nascere dei movimenti di protesta osserva che: «le genti d’Abruzzo vivono un periodo di agitazioni che sono il simbolo

324 M. Smargiassi, La famiglia foto-genica, cit. p. 399.325 AAMA, Fondo Famiglia Picucci, Anno scolastico 1964 - 1965. 326 “Il Tempo”, L’Aquila in sciopero, isolata da blocchi stradali, 1 febbraio 1950.327 Id. Intransigenza delle aspiranti ai capoluoghi di Abruzzo e Calabria, 3 febbraio 1950.328 Per quanto riguarda le vicende delle università abruzzesi esse hanno inzio in seguito alla decisione, nel dicembre 1961, del Consiglio superiore

della pubblica istruzione di istituire per l’Abruzzo un’unica università statale con sede a L’Aquila. Questa scelta scatena una battaglia campanilistica tra l’Aquila - interessata a mantenere sul proprio territorio il primato dell’università statale - e Pescara, Chieti e Teramo che desiderano ottenere a loro volta il riconoscimento governativo di una propria università. Cfr. A. Mutti, Il particolarismo come risorsa, cit. pp. 134 - 5; G. Crainz, Il paese mancato, cit. pp. 92 - 93.

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e la sintesi di una vitalità nuova e soprattutto di una volontà di rinascita che trae la sua forza da un passato troppo lungo di inerzia e di abbandono, di apatia e di rinunce»329. Proprio il desiderio di non tornare a tale passato, frammisto al timore di restare fermi, ai margini del processo di sviluppo, sembra essere alla base dei tumulti che segnano la regione negli anni sessanta e che continuano anche nel decennio successivo. Nel medesimo desiderio di non tornare indietro ma di restare al passo con i tempi delle tumultuose trasformazioni si cela la consapevolezza degli abruzzesi della fragilità delle nuove dinamiche in atto, della precarietà di una modernizzazione che continua ad essere vissuta come un processo dai contorni labili ed incerti. Le agitazioni, quindi, avvengono in sintonia con la comunità locale. I primi a scendere nelle piazze, nel 1963, sono «gli alunni delle scuole medie teatine» che attuano una serie di «scioperi a catena per il mancato riconoscimento dell’università abruzzese»330. Ad essi rispondono con prontezza gli studenti aquilani che consci della straordinaria opportunità offerta all’Aquila organizzano, insieme ai colleghi pescaresi, una «piccola pacifica marcia su Roma» «per il riconoscimento dei liberi corsi universitari dell’Aquila e l’istituzione dell’Università di Stato in Abruzzo». L’obiettivo dei manifestanti è quello di «essere ricevuti dal ministro Gui ed esporgli l’importanza e l’urgenza dell’ateneo abruzzese», a riprova di come «gli studenti aquilani e dell’intera regione sentano e vivano il problema come una questione vitale per il divenire dell’Abruzzo»331. Contemporaneamente iniziano a sorgere un po’ ovunque “Comitati cittadini di agitazione permanente” ai quali aderiscono «tutte le organizzazioni sindacali, commerciali, economiche e professionali delle città, oltre ad una delegazione di studenti universitari e delle scuole medie superiori»332. La stessa città di Teramo è attraversata in quel “dicembre caldo” da «centinaia di studenti che in corteo attraversano le principali vie della città. Una colonna di almeno 100 macchine - si legge nel resoconto giornalistico - con manifestanti a bordo e con i clacson in azione, ha espresso pacificamente l’insoddisfazione e la protesta delle masse studentesche di Teramo (…) “Ministro Gui, basta con le chiacchiere”, “Non siamo gli zingari della cultura”, “Vogliamo l’università in Abruzzo”, queste le frasi che si potevano leggere sui cartelli portati dai manifestanti»333. Sempre a Teramo, gli studenti delle scuole superiori protestano «contro le condizioni della scuola, dove mancano i professori, l’inadeguatezza dei programmi didattici, la manutenzione della struttura scolastica più simile nell’interno ad un qualsiasi ricovero animale che ad un luogo destinato ad accogliere giovani che devono essere formati per costituire la futura classe dirigente in una società vasta e moderna»334.Negli anni successivi le battaglie per le università proseguono, aumentando in intensità e forza: il timore di restare esclusi dai circuiti culturali - e più in generale dal progresso - è grande e non mancano per questa ragione occupazioni delle sedi universitarie, come quella di Pescara - per il riconoscimento delle facoltà di economia e di lingue e lettere straniere - e quelle dell’Aquila e Teramo, per il riconoscimento delle facoltà di ingegneria e giurisprudenza335.

329 “Il Tempo”, È dannosa per tutto l’Abruzzo la lotta tra i quattro capoluoghi, 17 dicembre 1963 (il corsivo è mio).330 “Il Tempo”, Una buona occasione per far festa: l’Università per gli studenti di Chieti, 7 dicembre 1963.331 Id. “La marcia su Roma” dei goliardi aquilani, 9 dicembre 1963. Id. Conclusa dopo cinque giorni la marcia degli studenti aquilani, 15 dicembre 1963. 332 Id. Costituito a Chieti per l’Università un comitato di agitazione cittadino, 15 dicembre 1963.333 Id. L’Abruzzo in agitazione per il problema dell’Università; Anche a Chieti e Teramo imponenti manifestazioni, 18 dicembre 1963.334 Id. Protestano gli studenti del V B Geometri di Teramo, 13 dicembre 1963. Il corsivo è mio.335 “Il Tempo”, Un appello ritenuto intempestivo rivolto agli universitari abruzzesi, 6 gennaio 1965; Id. Occupata di nuovo la sede universitaria, 21 gennaio

1965; Una dimostrazione di studenti per il riconoscimento di “Economia”, 9 ottobre 1965; Viene liberata oggi l’università di Pescara, 1 febbraio 1969; Aperti contrasti fra gli studenti durante l’occupazione dell’ateneo, 6 febbraio 1969; Cresce la confusione in tutte le università, 7 febbraio 1969; Sgomberata l’università aquilana, 17 febbraio 1969.

Non meno movimentate risultano le vicende delle autostrade la cui realizzazione «finisce con l’assumere una potente valenza simbolica di rottura dell’isolamento e di prerequisito irrinunciabile per lo sviluppo»336. Nel 1965 lo scoppio della prima mina per la costruzione dell’ “autostrada d’Abruzzo” - destinata a collegare Teramo a L’Aquila - «segna la fine di un’emarginazione secolare e l’avvio del sospirato processo di trasformazione economica»337. Non appaiono casuali, in questa prospettiva, le sequenze a colori del 1966 realizzate da un cineamatore a passeggio per la città di Teramo. La cinepresa si sofferma più volte ad inquadrare il cartello appeso all’esterno del Convitto nazionale “Delfico” che annuncia lo svolgimento del Convegno sulla viabilità e lo sviluppo del territorio, quasi a voler sottolineare l’importanza e la portata dell’iniziativa per la modernizzazione della provincia nel suo complesso338. Ancora nel 1964, infatti, il sistema viario del teramano risulta carente sotto molteplici punti di vista: soprattutto in montagna «poche sono le strade e per lo più recenti, tutte intese a collegare centri isolati» e molte strade devono essere ancora costruite «nella parte pedemontana della zona sud della catena del Gran Sasso» che include numerosi piccoli comuni339. Agitazioni sociali - in cui ad essere protagonisti sono nuovamente gli studenti - non tardano a verificarsi anche per le autostrade, in particolare dopo la «decisione di escludere la Marsica, la Valle Peligna e la Valle Pescara dal percorso dell’autostrada d’Abruzzo»340. In questo caso, la possibilità di essere tagliati fuori dal nuovo circuito viario che si va realizzando coincide con la certezza - fortemente avvertita - di essere esclusi dal più generale processo di sviluppo economico. «Ogni città - si legge nelle cronache di quel periodo - rivendica il diritto di non essere trascurata dalla grande arteria in costruzione (…) E il senso delle divisioni, delle fratture, delle lotte si ha in maniera palese quando nel panorama di questa economia arretrata si inseriscono quella parola e quel concetto moderno che è “autostrada”. Su questa parola e su questo concetto, l’Abruzzo si è infiammato e le divisioni tra città e città sono divenute burroni»341. Solo nel 1968, contestualmente all’avvio dei lavori per il traforo del Gran Sasso, le richieste di Chieti e Pescara vengono accolte con l’inizio dei lavori dei tratti autostradali congiungenti Roma a Pescara e Avezzano a Pescara. Le immagini dei cinegiornali dell’Istituto Luce ci riportano all’atmosfera di quei giorni, descrivendo il 15 maggio del 1968 come «un giorno di festa per la gente d’Abruzzo e la fine di un lungo isolamento della Regione assediata dalle montagne». Nelle riprese che documentano i lavori, infatti, si sottolinea come «la nuova autostrada che da Roma porterà a Pescara (…) colmerà finalmente un’altra divisione economica e geografica che tormenta l’Italia, non meno autentica di quella esistente fra Nord e Sud (…) a dimostrazione della volontà della gente di questa regione di uscire da un periodo di isolamento economico e di difficoltà»342. L’anno successivo, inoltre, con l’inaugurazione del nuovo tratto autostradale

336 A. Mutti, Il particolarismo, cit. p. 131.337 “Il Tempo”, Con lo scoppio delle prime mine nasce oggi l’autostrada d’Abruzzo, 2 ottobre 1965.338 AAMA, Fondo Famiglia Renzi, A passeggio per la città, dvd 6, 1966.339 E.R. La viabilità turistica in provincia di Teramo, in “Notiziario Economico”, febbraio 1964.340 “Il Tempo”, Una imponente manifestazione di protesta degli studenti sulmonesi per l’autostrada, 10 ottobre 1965; Continuano a Sulmona le proteste per

l’autostrada, 30 ottobre 1965.341 Id. L’Autostrada della discordia, 24 ottobre 1965.342 AIL, Documentario Luce, Italia allo specchio: Abruzzo e Molise, 1968, durata 2 min. e 16 secondi; Cinegiornale Cinemondo CN063, Numero speciale:

le strade d’Abruzzo. “Abruzzo: le nuove autostrade abruzzesi”, 1967, durata 7 min. e 34 secondi; Cinegiornale “Sette G” S0105, Inaugurati i lavori di due autostrade che metteranno fine all’isolamento dell’Abruzzo, 22/05/1968.

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l’Aquila - Avezzano «si chiude un’epoca, una nuova civiltà e addio terroni! (…) Questo asfalto è il primo passo verso una dimensione nuova della vita abruzzese»343.Tuttavia, accostando le cronache pubbliche di questi anni alle immagini di alcuni filmati amatoriali è lecito chiedersi se sia proprio così: è davvero il “nuovo” ad avanzare in Abruzzo, oppure elementi preesistenti continuano a reiterarsi in un contesto in rapido mutamento, senza per questo riuscire a cancellare dal volto della regione i suoi tratti più arcaici e tradizionali? Cosa si nasconde dietro le conservazioni? E quanto fragili si rivelano i processi di cambiamento in atto?La precarietà della modernizzazione abruzzese sembra iscriversi con tratti più marcati che altrove proprio nei filmati amatoriali in cui ad essere protagoniste sono, ancora una volta, le rappresentazioni della vita locale e delle famiglie all’interno dei piccoli contesti comunitari. Per molte famiglie sparse nelle periferie il possesso della prima automobile si associa ancora, nel corso degli anni sessanta, alla mancanza dei più elementari servizi, come l’acqua corrente all’interno delle case. È così nelle immagini in bianco e nero del cineamatore Renzi che, nel riprendere la nuova auto parcheggiata nel cortile sterrato dell’abitazione, segue con l’obbiettivo i lavori domestici della moglie che, con una bacinella tra le braccia, scende le scale di casa per attingere l’acqua dal pozzo accanto al quale è parcheggiata la Cinquecento. La cinepresa, inoltre, non manca di catturare i passi di un’altra donna che, su quella stessa aia, sfila scalza dinanzi all’obbiettivo con le scarpe in mano344. Sequenze quasi uguali si ritrovano in altri filmati degli stessi anni: in un primo filmato, le immagini - questa volta a colori, si fissano dapprima sull’utilitaria parcheggiata sotto casa e sulla targa (TE 15844) per poi spostarsi sui gesti semplici compiuti da una donna che, sul terrazzo di casa, lava i piatti dentro a una bacinella345. In un secondo filmato, invece, le riprese casuali della vita quotidiana di una piccola comunità di montagna - arroccata tra le case in pietra del borgo di San Giorgio di Crognaleto, alle pendici del Gran Sasso - aprono uno scorcio più ampio sulle condizioni materiali e sociali degli abitanti. La cinepresa si fissa con particolare insistenza sulle donne del paese: le più anziane sedute dinanzi alla soglia delle case, altre in grembiule per strada. L’attenzione dell’obbiettivo è catturata in alto, dove dalla finestra di una delle abitazioni in pietra si scorge una donna intenta a lavare qualcosa in una bacinella, segno della mancanza di acqua corrente in casa. A sottolineare ulteriormente questo aspetto è la presenza di un anfora in rame appoggiata su un mattone, fugacemente inquadrata dall’obbiettivo del cineamatore che tenta di seguire le varie azioni dei compaesani. Seguono infatti le riprese dei bambini del paese: alcuni, scalzi, giocano tra le vie sterrate, un altro si offre alla cinepresa stringendo tra le braccia una gallina; un altro ancora risale la strada in pietra con il suo gregge di pecore. La modernità continua a rimanere alle spalle dei protagonisti delle riprese; come l’auto parcheggiata sul ciglio della strada, appena percepibile sullo sfondo del paese. In primo piano restano tradizioni, arretratezze, ritardi non ancora colmati346.Sono immagini che trovano conferme in alcuni importanti dati di quegli anni poiché nel 1963 - 1964 «per alcuni consumi - come ad esempio l’energia elettrica e l’illuminazione - la provincia di Teramo si presenta senz’altro su posizioni ancora molto arretrate, mentre l’indice di motorizzazione è il secondo tra le province abruzzesi»347 e un articolo de “Il Tempo” sottolinea che «ancora nel 1967 le frazioni di

343 Id. Cinegiornale “Sette G” S0105, Inaugurati il nuovo tratto autostradale l’Aquila - Avezzano, 24 /09/1969, durata 3 min. e 4 secondi. (il corsivo è mio)344 AAMA, Fondo Famiglia Renzi, In paese, dvd 9, anni sessanta.345 Id. Fondo Famiglia Plebani, Sicilia, dvd 2, primi anni sessanta. 346 AAMA, Fondo Famiglia Transi, In paese, anni sessanta.347 Il reddito prodotto in provincia di Teramo nel 1963, in “Notiziario economico”, ottobre 1964, p. 11; I conti della provincia di Teramo nel 1964, in

“Notiziario economico” novembre 1965, pp. 5 - 7. Per quanto riguarda, nello specifico, i consumi dei comuni montani fino alla fine degli anni

montagna non sono fornite da acqua corrente (…) e le popolazioni sono costrette all’approvvigionamento idrico per mezzo di autobotti»348. Non stupisce, quindi, che nel 1965 alcune riprese amatoriali si concentrino sulle immagini del primo fontanile pubblico da poco costruito all’ingresso di uno di questi paesi di montagna. Nelle brevi sequenze in cui si vedono alcuni bambini raccolti intorno alla fontana in pietra è racchiuso tutto il desiderio di conservare sulla pellicola il ricordo storico di un evento tanto importante per il paese, atteso da tutta la popolazione349.Immagini come queste, inoltre, la dicono lunga sull’incapacità della provincia di Teramo - e più in generale della regione - ancora sul finire degli anni sessanta, di possedere «una capacità propulsiva adeguata ad accelerare il suo ritmo di sviluppo». Bisognerà attendere il decennio successivo per vedere superate alcune “strozzature” responsabili di quella «sfasatura persistente tra quello che la provincia è e quello che potrebbe essere»350.

sessanta, «a parte Pietracamela che presenta un indice superiore alla media nazionale giustificato dalla caratteristica di primo comune turistico montano della provincia, tutti gli altri comuni si trovano al di sotto della media nazionale, giungendo ad una differenza in meno di quasi il doppio (…) Ciò sta a significare, almeno in via generale, che il gettito dell’imposta di famiglia è in difetto rispetto alle possibilità economiche», in “Notizie dell’economia teramana”, I comuni del teramano alla luce di alcuni indicatori statistici, anno XXIII, n. 2, febbraio 1969, pp. 2 - 3. I valori più bassi (compresi tra 0 e 1,00) per quanto concerne la dotazione infrastrutturale, i servizi sociali e le condizioni di vita, inoltre, si registrano proprio nelle piccole frazioni dell’Abruzzo interno (Ancarano, Arsita, Cermignano, Fano Adriano, Isola del Gran Sasso, Notaresco, Penna Sant’Andrea, ecc.). Per il dettaglio dei dati si rimanda alle tabelle statistiche contenute in C.R.E.S.A., Analisi degli squilibri territoriali in Abruzzo, pp. 19 - 78.

348 “Il Tempo”, Nelle frazioni del capoluogo finirà presto la “grande sete”, 24 settembre 1967.349 AAMA, Fondo Famiglia De Giorgis, In paese - fontanile pubblico dvd 2, 1968. Il cineamatore Vincenzo De Giorgis, autore delle riprese, racconta che

«ancora nel 1964 la strada per salire in paese (a Poggio Umbricchio) non c’era, l’acqua non c’era, le fognature non c’erano, tantomeno i bagni, sostituiti dalle stalle. Ciascuna famiglia aveva un asinello con cui ogni giorno andava ad attingere l’acqua alla fonte più vicina, a 3 chilometri dal paese. Il primo fontanile pubblico arriva solo nel 1965, grazie alla costruzione di una tubatura di 4 chilometri che dalla montagna capta l’acqua e la porta fino all’ingresso del paese». Testimonianza orale raccolta il 26 aprile 2008. Dal censimento del 1961, d’altronde, risulta che il numero di abitazioni nella sola provincia di Teramo sfornite di acqua potabile e latrina è di 247 ogni mille abitazioni. Cfr. A. Aiardi, Analisi del livello e della dinamica di sviluppo della provincia di Teramo, in “Notizie dell’economia teramana”, anno XXII, n. 1, gennaio 1968, p. 2.

350 Id., p. 3.

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5. svILUppI e contrAddIzIonI degLI AnnI settAntA

In Abruzzo nel corso degli anni Settanta si assiste alla prosecuzione e all’ulteriore potenziamento di una serie di dinamiche di sviluppo e di crescita innescatesi nel decennio precedente e che solo in parte, fino ad allora, avevano consentito alla regione di guardare al di fuori del sottosviluppo meridionale. A partire dal 1970, infatti, il quadro muta sostanzialmente e per la prima volta l’attenzione degli osservatori del contesto abruzzese è catturata non più da elementi etici ed antropologici permeati di arcaicità - che scolorano lentamente sullo sfondo - ma da uno sviluppo economico senza precedenti351. Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, in particolare, una nuova realtà denominata “Terza Italia” arricchisce il panorama economico produttivo del Paese. La “Terza Italia” - che ha nella piccola impresa diffusa il cardine del proprio sviluppo352 - scompagina ulteriormente i precedenti assetti produttivi basati sul dualismo Nord / Sud ponendosi come «nuovo modello territoriale di sviluppo, alternativo alla crisi della grande impresa»353. Essa comprende le regioni centrali e nord orientali che si distinguono da quelle del nord - ovest, di più antico insediamento industriale e da quelle del Mezzogiorno arretrato. In queste aree - in cui rientra anche l’Abruzzo - l’industrializzazione conosce caratteristiche nuove, mai registrate in precedenza: a trainare lo sviluppo sono infatti, in molte zone, unità produttive di piccole dimensioni e a diffusione capillare, che operano in settori di tipo “tradizionale” come l’abbigliamento, le calzature, il mobilio, le ceramiche, il pellame. Proprio il carattere pervasivo di queste piccole fabbriche fa sì che la crescita industriale non si prefiguri come una prerogativa assoluta delle principali città, ma si diffonda anche nei centri minori e addirittura nelle campagne limitrofe. «Industrializzazione diffusa e campagna urbanizzata - scrive Ginsborg - divennero termini largamente usati per descrivere questo modello di crescita economica. Città e campagna moltiplicarono i loro legami reciproci, fino a formare dei veri e propri distretti industriali, in genere specializzati in un singolo ramo della produzione»354. La ridefinizione delle geografie industriali e di sviluppo operata dal sistema economico della Terza Italia viene messa bene in luce dal XIII Rapporto Censis del 1979 in cui si afferma per la prima volta il superamento della dicotomia arretratezza/sviluppo associata alla storia del Mezzogiorno e l’emergere «di un nuovo tipo di insediamento industriale a “pelle di leopardo”, con una presenza diffusa di piccola impresa, che sostituisce l’insediamento concentrato tipico della grande impresa»355.Tale è la fisionomia assunta dalla crescita abruzzese, avviatasi a partire dal 1963: il primo segnale della trasformazione in corso viene proprio dalle campagne dove diminuiscono gli occupati nell’agricoltura. Fra il 1961 e il 1971 il lavoro agricolo si riduce di oltre il 40%: nel 1963 contribuisce alla produzione complessiva per poco più di un quarto (26,12%); nel 1968 tale apporto si riduce ulteriormente (19,32%), toccando la percentuale minima del 15,90% nel 1975. Contemporaneamente, nello stesso

351 U. Dante, L’Abruzzo contemporaneo, cit., p. 193.352 Lo studio di riferimento che pone in evidenza le nuove articolazioni territoriali indotte dallo sviluppo economico è quello di A. Bagnasco, Tre Italie,

cit.353 G. De Matteis, Le trasformazioni territoriali e ambientali, in Storia dell’Italia Repubblicana, cit. pp. 674 - 681.354 P. Ginsborg. cit. p. 317.355 Cfr. Censis, Rapporto sulla situazione sociale del paese 1979, Roma, Franco Angeli, 1979, citato anche in F. Barbagallo, La modernità squilibrata, cit.

pp. 56 - 57.

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Mezzogiorno. Dati tratti da C. Cosenza, L’Abruzzo, cit., p. 226; G. Mauro, L’asimmetria Abruzzo - Mezzogiorno, cit. p. 80; Id. Struttura produttiva, saperi locali e sviluppo economico: il caso dell’Abruzzo, Pescara, Tracce, 2002, p. 141.

365 Favorita in parte dall’insediamento di grandi stabilimenti esterni (come la Fiat), in parte dalla valorizzazione delle piccole imprese locali a tradizione artigianale (soprattutto nell’area della Val Vibrata). Nel febbraio 1971, in tal senso, viene firmata a Sulmona la convenzione per l’installazione del «secondo complesso automobilistico in Abruzzo (…) che dovrà inserire l’Abruzzo nel tessuto produttivo più valido della nazione», in «Il Messaggero», Con la Fiat si aprono nuove prospettive per la Valle Peligna, 14 febbraio 1971.

366 Per le analisi sullo sviluppo abruzzese degli anni ’70 si rimanda, oltre al volume monografico della Storia delle Regioni edito da Einaudi e dedicato all’Abruzzo, anche a: C. Cosenza, L’Abruzzo, cit., pp. 226 - 28; G. Mauro, L’asimmetria Abruzzo - Mezzogiorno, pp. 80 - 82 e 103 - 105; A. Mutti, Il particolarismo come risorsa, cit. pp. 133 - 34; pp. 138 - 142; G. Corazziari, Lo sviluppo industriale dell’Abruzzo, cit. p. 337; Aa. Vv., Storia dell’Abruzzo, cit. pp. 102 - 112.

367 Rdr (Raccolta documenti regionali), L’evoluzione dell’economia abruzzese con particolare riferimento ai problemi dell’occupazione: relazione presentata dal Presidente della Regione, Anna Nenna D’Antonio al Consiglio Regionale nella seduta del 10. 2. 1982, L’Aquila, Ufficio Stampa della Giunta Regionale, 1982, p. 3.

368 Nel periodo 1974 - 1980 il tasso medio annuo di crescita del prodotto lordo per abitante del Mezzogiorno (1,8%) ha contribuito ad attribuire un carattere di eccezionalità al tasso di crescita del prodotto lordo pro - capite dell’Abruzzo (2,9%); allo stesso modo il tasso annuo di incremento delle forze di lavoro non occupate, molto più elevato per il Mezzogiorno (4,4%) ha contribuito a diffondere un’immagine positiva della regione, per la quale una disoccupazione in lieve diminuzione ( - 0,6%) riflette comunque una situazione ancora difficile, evidenziata da un tasso di disoccupazione pari al 9,0% nel 1981, il cui significato negativo si attenua solo in parte se si constata un livello notevolmente inferiore a quello della media del Mezzogiorno (12,2%). Nel 1980, inoltre, il prodotto lordo per abitante dell’Abruzzo raggiunge un livello superiore del 18,2% rispetto alla media del Mezzogiorno, ma comunque ancor al di sotto della media nazionale (19,4%). Dati tratti da L’evoluzione dell’economia abruzzese, cit. p. 4. Sulle

periodo di riferimento, inizia la fioritura dell’industria manifatturiera, che guadagna spazi crescenti nella determinazione del prodotto interno della regione: essa passa dalla percentuale del 27% del 1963, al 30,92% del 1968 fino al 31,90% del 1975. «Molto più marcato è l’incremento di questo settore se lo consideriamo dal punto di vista degli addetti; in base ai dati del censimento del 1961 e 1971, infatti, troviamo che gli addetti all’industria in senso stretto sono rispettivamente 49.554 e 78.398 con un aumento del 60%»356. Seppur in ritardo rispetto al boom nazionale, le dinamiche di crescita degli anni Sessanta contribuiscono a distanziare l’Abruzzo dalle aree più povere del Mezzogiorno e traggono dalle politiche infrastrutturali attuate dai leader della Dc, Lorenzo Natali e Remo Gaspari, la loro maggiore vitalità. A partire dalla metà degli anni Sessanta, Natali e Gaspari gettano le basi per la creazione di opere essenziali, nella convinzione che solo la fuoriuscita della regione dalla situazione di isolamento in cui versa possa davvero accorciare le distanze socio - economiche con la parte più sviluppata del Paese357. Accanto agli interventi infrastrutturali i due esponenti politici incentivano la costituzione di nuclei di industrializzazione diffusa nelle aree del teramano, vastese, avezzanese, pescarese: questa azione ha come risultato quello di rendere dinamico il tessuto imprenditoriale locale, portando allo sviluppo di attività industriali di tipo manifatturiero lungo la costa teramana e nei comuni pedemontani358. L’industria inizia a produrre finalmente più dell’agricoltura. La fase espansiva resta sostenuta anche nei primi anni Settanta, trainata dalle piccole imprese manifatturiere: fra 1970 e 1974 l’occupazione nel comparto raggiunge un tasso medio annuo (3,8%) mai toccato in precedenza, superiore a quello del Sud (1,7%) e del Centro - Nord (0,5%)359 Negli anni Settanta, in particolare, accanto alle aziende locali di dimensioni ridotte e operanti nei settori più tradizionali (alimentare, tessile, abbigliamento, pelletteria), colonne portanti del tessuto produttivo, iniziano ad insediarsi imprese esterne di medie e grandi dimensioni, alimentate dall’intervento pubblico e dal decentramento produttivo delle aziende del Nord360. «Si consolida così in Abruzzo un’area di prevalente industrializzazione endogena e diffusa, comprendente il teramano (la Val Vibrata) con propaggini nell’area di Chieti - Pescara»361. Tali dinamiche di sviluppo trovano conferma, all’inizio degli anni Ottanta, negli indicatori economici dell’Abruzzo che segnano positivo e che collocano la regione al vertice del panorama meridionale per quanto concerne i progressi compiuti362, spingendo Gaspari a sottolineare che l’Abruzzo è diventato ormai il «Nord del Sud», un’«isola felice» nel mare del sottosviluppo meridionale363. Alla luce di questi dati molti economisti, nell’interpretare i progressi compiuti dalla regione nel decennio Settanta hanno parlato di una riduzione del ritardo economico rispetto al resto del Paese, considerando come indicatori privilegiati l’innalzamento progressivo del prodotto interno pro capite e del Pil364; un

356 Traggo i dati da C. Cosenza, Abruzzo, cit., pp. 207 - 8; inoltre Unioncamere, Evoluzione della struttura produttiva abruzzese, 1974 - 1975; Svimez, Rapporto sull’economia del Mezzogiorno 1974, Roma, 1976. La citazione è invece in C. Cosenza, cit. p. 210.

357 Il Tempo, “Il traforo del Gran Sasso è ora tra i fatti concreti”, 28 gennaio 1967; Id. “Costituiranno una sola area industriale i due nuclei di Teramo e Ascoli Piceno”, 22 novembre 1968; Id. “Per Natali tra cinque o dieci anni l’Abruzzo sarà una «nuova regione»”, 7 gennaio 1969; Id. “Una superstrada per unire Teramo all’adriatico”, 7 gennaio 1969. Inoltre, Cresa, L’assetto infrastrutturale in Abruzzo, L’Aquila, Japadre, 1974.

358 A Mutti, cit. pp. 130 - 138.359 C. Felice, Da obliosa contrada, cit.; Cresa, L’industria manifatturiera in Abruzzo, L’Aquila, Japadre, 1974.360 P. Landini, Localizzazione industriale e sentieri di sviluppo locale: l’Abruzzo adriatico negli anni Ottanta, Pescara, Ud’A, 1993. 361 A. Mutti, cit, p. 141362 G. Mauro (a cura di), Imprenditorialità e sviluppo regionale: tendenze e prospettive dell’industria in Abruzzo, Pescara, Libreria universitaria, 1990.363 “Il Tempo”, Gaspari: portiamo in bilancio il miracolo del «Nord del Sud», 26 giugno 1983; Id. Gaspari: abbiamo una marcia in più, 9 aprile 1984. 364 Nel quinquennio 1970 - 1975 il prodotto interno pro - capite dell’Abruzzo passa da 69,7 a 73,9, con un aumento di oltre 4 punti; inoltre, dopo il

1970 il tasso di crescita del Pil si accelera notevolmente, aumentando nell’arco di 50 anni del 33% e trasformando l’Abruzzo nella prima regione del

consolidamento delle trasformazioni pregresse, attraverso il completamento dei lavori autostradali che consentono alla regione di dotarsi di una fitta rete infrastrutturale e di uscire dall’isolamento; l’affermazione di un modello di industrializzazione diffusa365 che avrebbe permesso il superamento degli squilibri territoriali e dei vari campanilismi. Questi elementi porterebbero a considerare la regione come interessata da un processo di crescita tumultuoso ed omogeneo che la abilita, finalmente, a varcare con passo sicuro la soglia che la introduce alla società del benessere366.Se però non consideriamo solo le variabili economiche ma anche altri aspetti, sociali e culturali, la realtà di quegli anni pare assumere contorni diversi. Sarebbe infatti estremamente riduttivo fermarsi alle sole cifre del reddito regionale, in lenta ma costante ascesa, per dipingere un sistema socio economico armonioso e compatto nel quale il processo di sviluppo ha portato, man mano, all’unificazione delle composite differenze, al superamento delle difficoltà del territorio e dei localismi più radicati, colmando ritardi e azzerando l’isolamento delle popolazioni. Se è vero, infatti, che nel periodo in questione lo sviluppo socio - economico accelera il suo cammino, acquistando una fisionomia più definita e consentendo così di individuare meglio alcune “strozzature”, è vero anche che esso non riesce comunque a fornire un contributo decisivo alla soluzione dei delicati problemi che affliggono l’Abruzzo. Per comprendere meglio questo aspetto è necessario inserire il progresso conseguito negli anni ’70 all’interno di un «sistema economico senz’altro in fase evolutiva, ma ancora non completamente dotato delle caratteristiche di autopropulsività di una economia avanzata, in grado di sostituire le spinte esterne con spunti propulsivi autonomi generati all’interno del sistema»367. I caratteri di “eccezionalità” e di “spontaneità” assunti dal processo di sviluppo economico della regione, in altri termini, appaiono tali solo se li si iscrive nel quadro dell’economia del Mezzogiorno il cui decollo verso il progresso si configura, ancora nei primi anni Ottanta, come piuttosto stagnante. Proprio la staticità del Meridione attribuisce al tasso di crescita abruzzese quei caratteri di eccezionalità e di straordinarietà con cui si presenta agli osservatori nel corso di quegli anni368. L’Abruzzo, quindi, esibisce una situazione relativamente buona se confrontata con le altre regioni meridionali; tuttavia, non appena viene comparato con le più generali dinamiche dell’economia italiana, lo sviluppo abruzzese si

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ridimensiona, presentandosi nelle sue vere peculiarità, con sfumature che mettono in luce gli squilibri alla base della crescita. Basti pensare, ad esempio, all’andamento della popolazione: negativo fino ai primi anni settanta, si contraddistingue per l’enfatizzazione di un processo avviato già a partire dall’immediato dopoguerra che conduce ad un progressivo depauperamento della montagna e ad una graduale espansione della costa. Esso riprende a crescere però a partire dal 1972, con un aumento pari al 4% fra il 1971 e il 1975. A tale incremento demografico, tuttavia, non corrisponde un aumento dell’occupazione, anzi l’ampliamento della popolazione si traduce in un aggravamento della già precaria situazione occupazionale, determinando un’ulteriore espansione dei disoccupati. La ripresa demografica - legata in parte anche al ritorno dall’estero di emigranti nei paesi d’origine o nei capoluoghi di provincia - e la difficoltà del mercato del lavoro di assorbire una domanda crescente rispecchiano bene alcune contraddizioni dello sviluppo squilibrato della regione. Uno sviluppo dagli andamenti alterni e contraddittori che, nel corso degli anni ’70 - ‘80, porta al consolidamento dell’immagine dell’Abruzzo come regione dai due volti, come realtà nella quale accanto a zone in progressivo depauperamento (quelle interne) coesistono vere e proprie aree di sviluppo dalla crescita vorticosa e incontrollata (la costa ed alcune aree montane di interesse turistico)369.Osservando l’andamento economico della provincia di Teramo degli anni Settanta si rintracciano tutte le dinamiche della “crescita senza sviluppo” dell’intero contesto regionale. Una crescita che fa la sua apparizione sotto le sembianze di un certo livello di benessere socio economico, in consumi più voluttuari e in stili di vita inediti per molte famiglie, ma che, dietro l’esteriore equilibrio economico e sociale, nasconde squilibri di fondo ancora lontani dall’essere sanati. Se, infatti, fra il 1951 e il 1971 il progressivo miglioramento del tenore di vita in provincia sembra essere fuori discussione, esso, tuttavia, «non è sufficiente per raggiungere adeguati traguardi di espansione economica e di benessere sociale»370. Nel corso di tutti gli anni Settanta, l’evoluzione complessiva della crescita teramana - sulla quale si riverberano i riflessi della più generale recessione internazionale - si mantiene sempre «stazionaria», «sostanzialmente al margine dei grandi fatti innovativi» che hanno investito l’economia italiana, con una propensione al «ristagno produttivo e della domanda» e ad un «minore flusso di investimenti»371. A pesare sulle sorti dell’economia teramana è soprattutto l’impossibilità di «far fronte solo in parte alla sempre costante richiesta di nuovi posti di lavoro», con conseguente innalzamento della disoccupazione, che appare come «uno degli aspetti più preoccupanti della situazione economica»372.

tendenze economico - sociali della Regione dal dopoguerra ai primi anni ’70 si rimanda a A. Aiardi, Scheda economico - sociale della Regione Abruzzese, in “Notizie dell’economia teramana”, anno XXVI, n. 2, febbraio 1972, pp. 8 - 10; A. Aiardi, Teramo: provincia all’avanguardia dello sviluppo industriale nel contesto meridionale, in “La Voce Pretuziana”, anno IV, n. 1, 1975, pp. 10 - 12.

369 “Abruzzo Oggi”, P. Mauro, Abruzzo in cifre, anno VI, sabato 23 luglio 1977. La stessa quota destinata all’industria (19,5%) appare ancora nel 1975 - negli stessi anni in cui si parla di “decollo industriale” della Regione - di gran lunga inferiore in confronto alle altre zone del paese (32%). Dati tratti da “Abruzzo Oggi”, P. Mauro, Abruzzo terziarizzato?, anno VI, sabato 22 ottobre 1977.

370 Nel ventennio in esame l’incremento del reddito medio pro capite in provincia si attesta al 479,2% rispetto a quello medio nazionale (414,3%), in F. Camillini, Evoluzione del reddito in un ventennio 1951 - 1971 con particolare riferimento alla provincia di Teramo, in “Notizie dell’economia teramana”, anno XXVII, n. 8, agosto 1973, pp. 5 - 8; A. Aiardi, Situazioni e tendenze dello sviluppo industriale nel teramano, in “La Voce Pretuziana”, anno I, n. 1, 1972, p. 14.

371 L’andamento economico della provincia di Teramo nel 1970, in “Notizie dell’economia teramana”, gennaio 1971, p. 3; A. Aiardi, Situazioni e tendenze, cit. p. 17; Situazione economica della Provincia di Teramo nel 1972, in “Notizie dell’economia teramana”, anno XXV, n. 1, gennaio 1973; F. Camillini, Riflessioni sull’andamento del reddito in provincia di Teramo, in “Notizie dell’economia teramana”, n. 6 - 7, 1976; Congiuntura economica abruzzese, gennaio - marzo 1975, estratto dal periodico trimestrale «Congiuntura economica abruzzese», anno I, n. 1, trimestre ’75, pp. 47 - 56.

372 L’economia teramana nel 1971, in “Notizie dell’economia teramana”, anno XXVI, n. 1, gennaio 1972, p. 1; F. Camillini, Il reddito prodotto in provincia

Le maggiori carenze derivano proprio da quel «settore industriale» protagonista del successivo “miracolo” abruzzese che, pur costituendo il fattore più rappresentativo dell’economia provinciale (nel 1971 gli addetti all’industria si sono elevati al 37,61%), appare, nei primi anni ’70, ancora inadeguato a soddisfare le esigenze occupazionali del teramano. Ciò è dovuto anche al carattere “spontaneo” e non “programmato” dell’industria abruzzese e alla prevalenza di “piccoli opifici” che assorbono un limitato numero di addetti - dibattendosi tra difficoltà e battute d’arresto373. Gli stessi consumi non alimentari riferiti ad ogni singolo abitante continuano ad essere molto inferiori rispetto all’indice nazionale374.Il quadro si precisa ulteriormente se alle analisi più tradizionali si affiancano ancora una volta le documentazioni ricavate dai filmati familiari e amatoriali. Le pellicole in Super8 realizzate nel decennio di più impetuoso e contraddittorio sviluppo della regione, infatti, possono contribuire a fissare in istantanee dai colori vividi e definiti lo spessore e il significato dei mutamenti avvenuti. Le immagini quotidiane e spesso involontarie realizzate dalle famiglie e nelle famiglie possono altresì contribuire ad evocare - anche se per squarci parziali e talora impressionistici - la contraddizione di fondo della società abruzzese negli anni Settanta: la sua collocazione nei moderni processi, ma la sopravvivenza - nella sua coscienza, nel suo territorio, nei suoi valori, nei suoi scenari e nelle sue mentalità - di alcune strutture culturali e materiali precedenti che il benessere o le trasformazioni non sono comunque riuscite a scalzare.

5.1. Il consolidamento del benessere fra luci e ombre «1970: una domenica a Roma». La frase del commento sonoro scandita con strascicato accento abruzzese ci introduce immediatamente nel filmato realizzato da Vincenzo Renzi per documentare una giornata diversa trascorsa con la sua famiglia nella capitale. La cinepresa si concentra sulle riprese del gruppo familiare in visita a Piazza San Pietro per poi

di Teramo dal 1963 al 1970, in “Notizie dell’economia teramana”, anno XXVI, n. 7, luglio 1972, p. 6; Situazione economica in provincia di Teramo nel 1973, in “Notizie dell’economia teramana”, anno XXVII, n. 8, agosto 1973, pp.12 - 13.

373 Questo nonostante, a partire dal 1972, inizino a delinearsi in alcune località della provincia (la Val Vibrata in primis, situata nella parte settentrionale della provincia di Teramo, ai confini con le Marche e comprendente 12 comuni) veri e propri “distretti” o “nuclei” industriali, caratterizzati dalla presenza di piccole imprese modernamente attrezzate e specializzate in particolari lavorazioni: quelle del legno a Mosciano S.Angelo, «dove numerose aziende artigiane per la produzione di mobili costantemente si ampliano e si potenziano fino ad assumere le caratteristiche di piccole industrie; quelle della lavorazione delle pelli e prodotti affini ad Alba Adriatica, nonché per la produzione di maglieria, camiceria ed indumenti intimi per donna a S. Egidio alla Vibrata ed a Nereto». Le aziende del nucleo, pur mantenendo positivi ritmi operativi rispetto alle difficoltà generali, non sono ancora in grado, nel primo biennio degli anni ’70, di innescare un’azione trainante e provocare un significativo decollo dell’economia provinciale. Solo a partire dal 1973, anno che segna anche la punta massima di investimenti industriali in provincia di Teramo, i “nuclei” industriali cominciano a decollare: in quell’anno le attività industriali di Sant’Egidio occupano 1056 operai, circa il 90% del totale degli addetti all’industria nella zona (1.182); i mobilifici di Mosciano Sant’angelo danno lavoro a circa 440 operai (70% del totale degli addetti all’industria); i borsettifici di Alba Adriatica occupano circa 650 addetti (il 90% dei lavoratori dediti all’industria). Le aziende della Val Vibrata continueranno ad espandersi negli anni successivi divenendo punti di eccellenza produttiva e trainando, in particolare dal 1976, lo sviluppo e la ripresa della struttura industriale abruzzese che andrà ad incastonarsi all’interno del quadro del cosiddetto “Mezzogiorno emergente”. Cfr. G. Marconi, Iniziative e finanziamenti industriali in provincia di Teramo nel 1972, in “Notizie dell’economia teramana”, anno XXVI, n. 11 - 12, novembre - dicembre 1972, pp. 3 - 8; G. Mauro, L’asimmetria Abruzzo - Mezzogiorno, cit. pp. 103 - 105; A. Aiardi, Situazioni e tendenze, cit., p. 15; Attività per il nucleo di industrializzazione di Teramo, in “Notizie dell’economia teramana”, anno XXVI, n. 1, gennaio 1972, p.16. Per i dati del 1973 si rimanda a G. Marconi, Iniziative e finanziamenti in provincia di Teramo nel 1973, in “Notizie dell’economia teramana”, anno XXVII, n. 11 - 12, novembre - dicembre 1973, pp. 5 - 15. Sullo sviluppo del distretto della Val Vibrata si rimanda a: I distretti industriali in Abruzzo: individuazione ed articolazione territoriale, Chieti, IARES, 1995; G. Mauro, Distretti industriali e crescita economica: il caso dell’Abruzzo, L’Aquila, CRESA, 2005.

374 Nel 1970, ad esempio - tra parentesi i valori nazionali - ogni abitante del teramano spende per le radiodiffusioni 1.713 lire (2.258), per tabacchi 14.305 lire (16.811), per spettacoli 2.473 lire (5.707); il consumo di energia elettrica per illuminazione si attesta a 78,5 Kwh (159,6), l’indice di lettura evidenzia la spesa di 159,1 lire per abitante (277,3), mentre per ogni 100 abitanti le autovetture, motocicli e ciclomotori sono 14,5 (19,5). Dati

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tratti da F. Camillini, Il reddito prodotto in provincia di Teramo dal 1963 al 1970, cit. pp. 2 - 3. Nel 1976 tali scarti tra la provincia e il Paese non si sono ancora ridotti e permangono immutati: per le radiodiffusioni si spendono 3.737 lire (4.378), per i tabacchi 28.979 lire (16.811), per gli spettacoli 7.048 lire (11.863); il divario riguardante l’indice di lettura per abitante si è addirittura ulteriormente ampliato: 280,3 lire (453,9), mentre per ogni 100 abitanti le autovetture, motocicli e ciclomotori sono 24,1 (29,3). Dati desunti da Id. Nord e Sud: diversi profili di crescita, con particolare riferimento alla provincia di Teramo, in “Notizie dell’economia teramana”, p. 23. Nel 1977 tra le province abruzzesi, e del meridione in genere, soltanto Pescara presenta un valore dei sei indici di consumo molto vicino a quello della media nazionale. Per la provincia di Teramo, invece, la media dei suddetti indici per abitante è del 76%, denotando un’inferiorità in quanto a tenore di vita del 24% rispetto a quello medio nazionale, in F. Camillini, Riflessioni sul dinamismo economico della provincia di Teramo, in “Notizie dell’economia teramana”, n. 8 - 9, 1979, pp. 16 - 21.

375 AAMA, Fondo Famiglia Renzi 1, cit, 1970.376 AIL, Notizie Cinematografiche N0191, L’autostrada Roma - l’Aquila, 1/1971, durata 2 min. e 25 secondi. Sullo stesso argomento anche Tempi Nostri

T1171, Inaugurazione ufficiale dell’autostrada Roma - l’Aquila, 1 min. e 18 secondi. 377 Cfr. B. Vespa, L’Aquila- Roma a volo di cardillo, in “L’Automobile”, dicembre 1970.378 AAMA, Fondo Famiglia Berardocco 1, Gita a Roma, cit., anni Settanta; Fondo Famiglia Di Giuseppe 1, Visita allo zoo di Roma, 1975.379 Sull’evento si vedano anche gli articoli comparsi su “Il Messaggero”: L. Natali, L’autostrada dell’economia abruzzese, 12 dicembre 1970; L’autostrada apre

una nuova direttrice rompendo l’isolamento dell’Abruzzo, 12 dicembre 1970; C. Mariani, Andiamo a prendere il caffè all’Aquila, 12 dicembre 1970.380 R. Scarpa, Due realtà, p. 3, in Abruzzo - Molise ’79: sintesi sugli sviluppi dell’economia, del commercio dell’industria, del turismo, dell’edilizia, dell’artigianato,

del trasporto delle regioni Abruzzo e Molise, Roma, 1979. 381 “Il Messaggero”, Lauricella, Il turismo ne trarrà grande beneficio, 12 dicembre 1970. 382 AAMA, Fondo Famiglia Berardocco1 - 2, Gite a Firenze, Loreto, Venezia cit., anni Settanta; Fondo Famiglia Di Giuseppe 1, Vacanze a Pugno Chiuso,

Isola d’Elba e Pisa, 1974 - 1979.

nascondersi tra la folla di persone accorse per ascoltare l’Angelus del Pontefice affacciato dalla finestra del palazzo papale375. La “domenica a Roma” filmata da Renzi è soprattutto una giornata speciale e insolita: per questo va riposta nel cassetto dei ricordi più cari, accanto ai matrimoni, alle prime comunioni e ai battesimi. In quello stesso 1970 la voce incisiva e cadenzata di uno speaker della rubrica d’informazione “Notizie cinematografiche” annuncia il completamento di un’altra tappa significativa nell’opera di realizzazione del sistema autostradale abruzzese. «Il ’70 - afferma il cronista - segna una svolta per la Regione (...): la nuova autostrada Roma - L’Aquila (...) segna l’ingresso dell’Abruzzo in Italia (...). La regione più remota della penisola ha spaccato le montagne e l’isolamento (...) l’Abruzzo di ieri accanto a quello di oggi: i paesi raccolti sul cucuzzolo dei monti (...) le immagini del passato sullo sfondo delle nuove strutture»376. L’inaugurazione del tratto autostradale Roma - L’Aquila, infatti, rappresenta per la regione, per secoli tagliata fuori dal cuore dell’Italia, il completamento di un processo di sviluppo iniziato negli anni ’60 con la creazione della Società autostrade romane, nata negli stessi anni in cui la parte settentrionale del Paese viveva il suo miracolo economico mentre l’Abruzzo non sapeva ancora cosa fosse. La nuova infrastruttura viaria consente finalmente di «portare l’Abruzzo dietro la porta»377 e le prime gite in una capitale tutta da scoprire - in visita ai monumenti o agli animali dello zoo - che le famiglie imprimono sulla pellicola378 si costituiscono in ricordo a colori di un avvenimento che per la regione assume, in realtà, un significato più profondo legato alla caduta di un diaframma che rompe l’antico isolamento dell’Abruzzo379. Il miglioramento della comunicazione viaria e le maggiori possibilità economiche contribuiscono a proiettare l’Abruzzo «nel più vasto circuito dello sviluppo nazionale»380. Figlie della nuova «maglia di arterie comode e veloci»381 e di un benessere crescente e abbastanza diffuso sono ad esempio le vacanze fuori regione compiute da molte famiglie nel corso degli anni Settanta. Gli obiettivi delle cineprese restituiscono l’impatto dell’autostrada sull’immaginario di ceti fino ad allora esclusi da alcuni luoghi di villeggiatura o di pellegrinaggio artistico; i cineamatori riprendono con curiosità i panorami inediti di località turistiche come Pugno Chiuso, l’isola d’Elba, e anche città d’arte come Perugia, Pisa, Firenze, Venezia, Verona si trasformano in scenari naturali nei quali le famiglie esibiscono e consumano una prosperità faticosamente conquistata382.

In alcuni casi, i cineamatori non si limitano ad immortalare gli scorci suggestivi delle località visitate, ma catturano con i loro obiettivi - celebrando implicitamente la fine dell’isolamento territoriale e il benessere individuale - le autostrade che conducono fisicamente ai luoghi prescelti. È il caso dei coniugi Renzi che, sempre nei primi anni Settanta, in occasione della visita al figlio Enrico nella caserma degli allievi finanzieri «si sono recati a Predazzo con la loro auto»383. Al commento sonoro che sottolinea l’importanza dell’evento, seguono lunghe riprese dell’autostrada, effettuate dall’interno della macchina in viaggio ed enfatizzate dal parlato che di tanto in tanto, nello spiegare che «l’auto s’immette sull’autostrada del Brennero e l’operatore riprende i punti più salienti del lungo tragitto», fornisce elementi spazio - temporali precisi. A palesare la volontà di Renzi di costruire una vera e propria cronaca filmata, non tanto della visita al figlio quanto del tragitto compiuto sulle nuove arterie stradali, è il montaggio eseguito sulle immagini in un secondo momento. Le riprese iniziali, infatti, si aprono su Predazzo - meta ormai raggiunta - per poi tornare indietro e ripercorrere le diverse fasi del percorso di andata, scandito dalla «sosta della famiglia nei pressi di Bologna in un motel per fare colazione», o dai primi piani della cinepresa sui cartelli direzionali dell’A14 (Bologna - Pescara)384. Accanto ai viaggi fuori regione non mancano in quegli anni le riprese più tradizionali delle vacanze nelle località dell’Abruzzo, a conferma del favorevole andamento del turismo abruzzese385. In questo caso saltano all’evidenza le congruenze e le discrepanze esistenti tra le rappresentazioni private della regione effettuate in quegli anni dalle famiglie e quelle pubbliche riportate dalle cronache della stampa e dai servizi cinegiornalistici. Tra gli anni Settanta e Ottanta, infatti, sia tra i cineamatori che tra i fotografi professionisti sembra consolidarsi la tendenza a «volgersi dall’uomo al paesaggio, allo spazio, quasi a riconoscere ad esso un valore maggiore rispetto al primo, a vedervi (...) qualcosa che sopravvive all’uomo, che è più concreto dell’uomo, che racchiude non i segni labili delle vite individuali, ma delle strutture costanti che determinano nel tempo i modi di vivere della società nel suo insieme». Se, tuttavia, nelle cineprese amatoriali la società dei consumi - con i suoi panorami consolidati e con il suo sistema di valori - continua ad essere immortalata, in alcuni casi con ironia, per essere esibita o certificata agli occhi di se stessi e degli altri, le rappresentazioni pubbliche, al contrario, colgono della stessa anche le sue alterazioni. È il caso del «paesaggio, percepito come soggetto ideale per mostrare le condizioni attuali

Nel 1979, inoltre, un’indagine svolta su tutto il territorio nazionale, posto pari a 100 il livello della prosperità media italiana, presenta per il Sud e le Isole, Pescara al primo posto a quota 120, Teramo al quarto posto a 114, Chieti al sesto a quota 112, l’Aquila al settimo a 110. Dati tratti da Abruzzo - Molise ’79, cit. p. 3.

383 Nel 1974 gli autoveicoli in circolazione in provincia di Teramo sono aumentati del 10%. In confronto all’anno precedente (54.266) sono divenuti 60.183, per cui la densità di circolazione - intesa come numero di abitanti per autoveicolo - che nel ’73 era di 4,81 passa nel ’74 a 4,36 riducendo quindi la distanza dallo stesso indice medio nazionale che è di 3,60. Dati tratti da F. Camillini, Panorama degli autotrasporti nazionali con particolare riferimento alla provincia di Teramo, in “Notizie dell’economia teramana”, n. 1 - 2, 1976, p. 27.

384 AAMA, Fondo Famiglia Renzi 3, Caserma degli allievi finanzieri di Predazzo, primi anni Settanta.385 Per l’intero decennio Settanta uno degli aspetti più favorevoli della situazione economica regionale si ravvisa proprio nell’entità del turismo. Nella

sola provincia di Teramo, ad esempio, tra il 1969 ed il ’70 le presenze globali (alberghiere ed extralberghiere) aumentano nella misura percentuale di + 31,70; di queste, sensibilmente più favorevoli appaiono le presenze di stranieri (+82,40%), mentre quelle dei connazionali sono in crescita del 27,41%. Nel 1974, inoltre, un’indagine ISTAT sulle vacanze degli italiani svela che il maggior afflusso di turisti nel “nuovo” Abruzzo che ha abbattuto le sue barriere naturali proviene proprio dal Lazio: su 100 giornate trascorse in Abruzzo, il 40% all’incirca vi è trascorso da residenti del Lazio. Cfr., A. Tancredi, Turismo d’Abruzzo: prospettive di sviluppo, in “La Voce Pretuziana”, anno IV, n. 1, 1975, p. 8; F. Camillini, Il reddito prodotto in provincia di Teramo dal 1963, cit., p. 6; ISTAT, Indagine speciale sulle vacanze degli italiani, nella collana Note e Relazioni, n. 33 del luglio ’67, n. 43 del novembre ’69, n. 51 del luglio ’74.

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del vivere, lo straniamento dell’uomo rispetto al suo ambiente, l’inevitabilità di un destino fatto di disordine, di luoghi che non lasciano più spazio alcuno per il libero operare dell’individuo»386. All’inizio degli anni Settanta, un’indagine svolta dall’Istat sulle vacanze degli italiani rivela che esse «sono concentrate nel mese di agosto per il 46,3%, nel mese di luglio per il 35,8% e nei mesi di giugno e settembre per il 13,3%. Gli studenti e le casalinghe rappresentano il 45,1% degli italiani che vanno in vacanza. Ad essi spetta il primato della vacanza più lunga (in media 22 giorni rispetto ai 14 giorni degli operai ed ai 19,6 giorni degli impiegati e dirigenti). Gli italiani, inoltre, spendono oltre 3.800 miliardi per le spese facoltative (spettacoli, divertimenti, villeggiatura, libri). Di questa cifra si calcola che quasi 1/3 sia direttamente coinvolta nel fenomeno delle vacanze di massa. In pratica almeno il 4% dei consumi privati viene dedicato al capitolo vacanze»387. Qualche anno dopo, Vincenzo Renzi propone un’immagine della «sempre più esplosiva cittadina balneare adriatica di Giulianova» che, nel frattempo, da meta di pellegrinaggio per turisti di ogni ceto sociale si è trasformata in luogo dove ha sede l’albergo “Riviera”, «uno dei più lussuosi» e nel quale lavora uno dei figli di Renzi come cameriere stagionale, «integrando utilmente le sue vacanze con l’anno scolastico». Nella rappresentazione di Renzi il turismo si associa al progresso e al benessere e la possibilità che uno dei suoi figli presti servizio presso una delle strutture della nuova società dei consumi sembra essere vissuta come elevazione della propria posizione sociale. Al commento sonoro, infatti, si accompagnano riprese ripetute del giovane Renzi che serve i turisti accomodati ai tavoli all’aperto dell’hotel388. Il progresso “positivo” torna ad essere protagonista in due differenti filmati successivi: nel primo, la famiglia Renzi accompagna ai Prati di Tivo alcuni parenti di Venezia giunti in Abruzzo per trascorrere un breve periodo di vacanza invernale. Oltre a soffermarsi sulla suggestiva cartolina del Gran Sasso innevato, la cinepresa non può fare a meno di effettuare ripetute panoramiche su «i magnifici alberghi sorti sotto la montagna, nuova risorsa turistica» e sui cartelli “BAR TAVOLA CALDA, BENVENUTI SUL GRAN SASSO, TUTTO PER LO SCI” che costeggiano la strada, cogliendo involontariamente, nella passeggiata della famiglia con i parenti veneti, quel divario di stili di vita e di consumi incarnato negli abiti delle donne di Venezia, avvolte in eleganti cappotti e pellicce, in contrasto con le giacche più sobrie e modeste dei Renzi389. Nel secondo filmato, invece, la famiglia Visini è in visita in uno dei luoghi turistici per eccellenza della regione in quegli anni: il Parco Nazionale d’Abruzzo. Del posto, la cinepresa afferra con curiosità gli aspetti più “incontaminati” e vacanzieri - appositamente ricostruiti per le famiglie in visita allo zoo - «dove si possono ammirare animali di rara bellezza»390, concentrandosi sulle riprese del cartello “BENVENUTI NEL PARCO” e delle indicazioni turistiche “MUSEO, ZOO, BAGNI”. In un prato della vicina Pescasseroli, allo stesso modo, la famiglia consuma un picnic su sedie e tavolini, quasi incurante del traffico di automobili in fila sulla strada alle sue spalle e nel quale sembra svelarsi la visione di un territorio specchio di una realtà caotica che le cineprese amatoriali tendono ad escludere dal loro sguardo391.

386 U. Lucas e T. Agliani, L’immagine fotografica 1945 - 2000, in Storia d’Italia. L’immagine fotografica, Torino, Einaudi, pp. 40 - 41.387 “Il Messaggero”, G. Colomba, I nuovi tempi delle vacanze, 6 dicembre 1970.388 AAMA, Fondo Famiglia Renzi 3, Giulianova, albergo Riviera, 1977.389 Id. Fondo Famiglia Renzi 5, Visita in Abruzzo dei parenti di Venezia, 1979.390 AIL, Caleidoscopio CIAC C2345, Obbiettivo sulla cronaca. Pescara, vacanze al mare, 1978, durata 1 min. e 41 secondi.391 AAMA, Fondo Famiglia Visini, Pescasseroli e Parco, 1979.

Cinegiornali, stampa ed opinionisti, invece, focalizzano l’attenzione su un turismo che può rivelarsi anche espressione di tendenze speculative, su un paesaggio in cui si manifestano «elementi di una modernità povera o degradata», su «realtà economiche e sociali spurie, in cui domina il senso della precarietà, dell’improvvisazione»392. Voci diverse richiamano l’attenzione sugli scempi ambientali perpetrati - già a partire dagli anni ’50 - in quel Parco Nazionale dove le famiglie trascorrono piacevoli soggiorni, ma che è «oggetto di un crescente e massiccio processo di sfruttamento residenziale e turistico che non ha operato un reale sviluppo economico per le popolazioni locali»393. Nei cinegiornali dell’epoca si pone soprattutto l’accento sulla grave situazione urbanistico - edilizia della zona del Parco dove «il cemento armato in forma massiccia è arrivato fin qui; enormi edifici simili a quelli delle periferie delle grandi città sono sorti illegittimamente (...) le costruzioni continuano, mentre per i nuovi ricchi si è addirittura creata una Svizzera fasulla, con villette alpine anacronistiche. (...) La conca di Pescasseroli è stata così snaturata, mentre sono in programma e saranno perpetrati altri scempi per permettere agli sciatori della domenica di sgranchirsi le gambe (...) L’antica Pescasseroli sembra rimanere estranea alle brutture che la circondano; la sua conca è purtroppo compromessa. Dopo la seconda macchina, i bravi borghesi hanno voluto la seconda casa e se la son fatta qui»394.Le alterazioni dei luoghi e del paesaggio si scolorano nei filmati amatoriali che, oltre alle vacanze, tornano in questi anni negli interni delle case per riprendere in primo piano i nuclei famigliari ritratti nella loro quotidianità o in occasioni speciali. A dominare in entrambe le situazioni è il benessere diffuso, quasi che nelle riprese volesse materializzarsi quel miglioramento degli stili di vita e dei consumi vissuto nel giro di qualche anno dalle famiglie395.E così nelle pellicole in Super 8 prende forma l’immagine dell’«abruzzese «medio» come persona che spende abbastanza per mangiare, prediligendo però la buona cucina casalinga, che veste decisamente bene, che è parco nella spesa per i divertimenti in genere e che ama stare a casa specie se accogliente e bene arredata»396. Nella convivialità a tavola, in particolare, le nuove situazioni di agiatezza trovano una vetrina importante per mostrarsi tra le pieghe della spensieratezza familiare: la famiglia Renzi, ad esempio, conferisce al banchetto in casa organizzato in occasione della prima comunione della figlia un significato che trascende i tradizionali festeggiamenti. Nelle riprese della «nuova ampia sala da pranzo» - come recita il commento sonoro - Renzi condensa elementi diversi che servono a certificare, agli occhi della

392 U. Lucas e T. Agliani, cit., p. 45.393 M. Santucci, Turismo, uso del territorio ed occupazione in Abruzzo, in “Notizie dell’economia teramana”, n. 11 - 12, 1975, pp. 25 - 26. W. Putaro, L’uomo,

il parco, la tv, in “Abruzzo d’Oggi”, n. 2, 19 febbraio 1972; “Il Messaggero”, M. De Monte, La Regione in Abruzzo comincia dal Parco, 3 giugno 1970. 394 AIL, Radar R0400, Italia. A Pescasseroli si discutono le sorti del Parco Nazionale d’Abruzzo, 1970, 3 min. e 30 secondi; Id. R0487, Italia. I nostri servizi

speciali: facciamo il punto sul Parco Nazionale d’Abruzzo, 1972, durata 7 min. e 27 secondi.395 Fra il 1970 e il 1976 il reddito pro capite in Abruzzo passa da 700,7 lire a 1.861,2 lire; quello in provincia di Teramo, nello stesso periodo, da 671,8 lire

a 1.729,1 lire. Dati tratti da G. Tagliacarne, «Il reddito prodotto nelle province italiane» e riportati in “Notizie dell’economia teramana”, n. 5 - 6 - 7, 1979.

396 L. Cecchini, Quanto spendono gli abruzzesi, in “La Voce Pretuziana”, anno V, n. 1, 1976, pp. 16 - 17. Nel breve articolo vengono analizzate le spese sostenute dagli abruzzesi nel 1975 per l’acquisto di beni di consumo, per l’uso di certi servizi e per la ricreazione e lo svago, così come emergono dalla pubblicazione dell’Istat relativa a “I Consumi delle Famiglie”. Nel 1975 la famiglia abruzzese spende in media mensilmente 98.200 lire per l’acquisto di beni alimentari e 135.200 lire per consumi non alimentari. Tra i consumi alimentari spiccano la carne (29.600 lire), il latte, le uova, i formaggi (11.500 lire), pane e pasta (11.200 lire), frutta e ortaggi (10.500 lire) e bevande (9.800 lire). Per quanto attiene invece ai consumi non alimentari, le voci più importanti sono quelle per il vestiario e calzature (31.400 lire), per l’abitazione (25.600 lire), per i trasporti e comunicazioni (21.000 lire) e per i mobili e articoli per la casa (18.500 lire). Per i divertimenti, infine, la famiglia abruzzese spende la somma mensile di 14.000 lire. Cfr. “I Consumi delle famiglie”. Supplemento al Bollettino mensile di statistica, anno 1975, n. 3. “Le regioni in cifre”, ISTAT, ediz. 1975.

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famiglia e di coloro che in seguito rivedranno il filmino, il raggiungimento di un certo tenore di vita. L’obbiettivo della cinepresa, infatti, non esita a «ficcare il suo naso in cucina per mostrarci le gustose vivande che saranno servite», per poi tornare in sala da pranzo e concentrarsi non sui presenti, ma su alcuni elementi che contribuiscono ad impreziosire l’arredamento della stanza: la carta da parati, il lampadario in cristallo. Ma il momento più solenne del convivio deve ancora arrivare e si materializza poco dopo, nella «sorpresa per nonna Maria: le nuore hanno voluto farle dono di un bell’anello d’oro». L’obbiettivo registra tutta la scena - nel corso della quale il gioiello viene infilato al dito dell’anziana donna tra i battimani dei presenti, quasi che la conservazione su pellicola del prezioso regalo possa contribuire ad accrescerne prestigio ed importanza397.Il medesimo desiderio di certificare la nuova immagine dell’abruzzese si ritrova in un successivo filmato effettuato sempre da Renzi in occasione del «Capodanno 1978, festa in casa Renzi con i parenti da Venezia». Nuovamente la cinepresa torna a concentrarsi su un lungo tavolo apparecchiato al centro della sala sul quale sono disposte numerose pietanze; un clima di gaiezza pervade tutto l’ambiente. Alcune riprese, tuttavia, rivelano - diversamente dalle intenzioni del cineamatore - particolari che relativizzano il benessere abruzzese di quegli anni e che restano impressi nelle sequenze che ritraggono alcune coppie che ballano. Nell’eleganza discreta degli abiti indossati dai parenti di Venezia prende forma, ancora una volta, la disuguaglianza di stili di vita tra famiglie che abitano in contesti territoriali differenti. Le parenti venete, strette nelle danze e fasciate in vestiti dai particolari curati, si voltano e sorridono alla cinepresa; i Renzi fanno lo stesso in una mise più semplice e casalinga398. Nel corso degli anni Settanta, tuttavia, non sempre è necessario uscire fuori dall’Abruzzo per cogliere i segni di un progresso che stenta ad assumere caratteri omogenei. È possibile misurare le diverse velocità della trasformazione anche all’interno della stessa area regionale, frantumata fra zone più sviluppate e zone più arretrate: e così mentre molti cineamatori consumano le loro pellicole per ritrarre i figli che sguazzano sorridenti nelle vasche di bagni domestici puliti e confortevoli399, in frazioni dell’entroterra teramano, se non addirittura nel capoluogo in alcuni casi, mancano ancora i più elementari servizi. Nel 1972, ad esempio, un breve reportage giornalistico pubblica alcune fotografie che «illustrano le impossibili condizioni di vita di alcune delle centinaia di famiglie che a Teramo sono costrette a vivere in locali vecchi, pericolanti, umidi e malsani. (...) In questi appartamenti nemmeno gli animali da cortile potrebbero trovare facile condizione di vita: si cucina, si mangia e si dorme nello stesso locale; una stanza spesso ospita tutta la famiglia»400. Nel 1970, inoltre, vengono appaltati «i lavori di costruzione del primo lotto dei serbatoi per i centri urbani», di cui beneficeranno tredici frazioni dell’entroterra teramano401, ma qualche anno dopo è sempre un abitante di una di queste contrade a denunciare «lo stato di abbandono che arriva fino al punto che non solo mancano i più elementari servizi (...) ma l’amministrazione comunale democristiana non si preoccupa neanche di dare uno sbocco ai rifiuti fognanti che sfociano all’aperto in mezzo alle abitazioni e vanno a finire in un pantano tra i campi circostanti»402.

397 AAMA, Fondo Famiglia Renzi 2, Prima comunione di Adriana Renzi, 1972.398 Id. Fondo Famiglia Renzi 5, Capodanno 1978, 1978.399 Id. Fondo Famiglia Tornese, Bagnetto neonata, anni Settanta; Fondo Famiglia Di Giuseppe 1, Bagno di Paola, 1976. 400 “Abruzzo d’Oggi”, Teramo, una vergogna per la città, anno 1, n. 13, sabato 5 agosto 1972, p. 11. Gli alloggi di cui nell’articolo si denunciano le

degradate condizioni abitative si trovano nel centralissimo quartiere di Santa Maria a Bitetto e in via D’Annunzio.401 “Il Messaggero”, Realizzati dal “Ruzzo” tredici nuovi serbatoi, 7 giugno 1970. 402 “Abruzzo d’Oggi, Mancano anche le fognature, anno 1, n.11, sabato 8 luglio 1972, p. 11.

5.2. Spopolamenti e popolamenti

Gli squilibri e le disomogeneità economico - sociali dei comuni montani abruzzesi rispetto alle città capoluogo emergono in controluce anche dalle sequenze amatoriali che ritraggono le trasformazioni e i cambiamenti vissuti dalle città403. Esse tendono a tacere il carico di contraddizioni che questi processi tumultuosi trascinano dietro di sé, pur non riuscendo comunque a nasconderlo del tutto: la velocità e le incoerenze della crescita sembrano fissarsi nelle riprese insistite dei nuovi scenari e nelle ambientazioni che da centri sovraffollati si spostano su periferie in graduale decadimento. Molti obbiettivi amatoriali sembrano essere attratti dalle sembianze moderne che nel corso degli anni Settanta i maggiori centri urbani e alcune località costiere vanno progressivamente acquisendo404. Il passaggio del «55° Giro ciclistico d’Italia a Teramo» - annunciato da un cartello - didascalia confezionato nel montaggio dal cineamatore - fornisce a Renzi lo spunto per effettuare riprese della piazza centrale della città invasa da auto e persone radunatesi per assistere al transito dei ciclisti. Le sequenze a colori si concentrano per qualche istante su questa rappresentazione di Teramo traboccante di vita, per poi disperdersi in inquadrature disordinate come il pubblico tra le vie, dopo la corsa dei ciclisti405. Qualche anno dopo, la cinepresa di Renzi torna ad osservare la città da una prospettiva diversa: il punto da cui vengono effettuate le riprese è infatti la collina di fronte al centro abitato, posizione panoramica ideale che consente di cogliere, nel loro insieme, le moderne costruzioni in cemento raggrumate in un agglomerato compatto su cui l’obbiettivo zooma di tanto in tanto406. La nuova veste urbana indossata di Teramo si ripresenta in filmati diversi, ma dalle riprese quasi simili. La dilatazione degli spazi tradizionali, ad esempio, è protagonista nelle immagini che, sempre dall’alto di una collina, fissano il volto di una città che si sta trasformando, nella quale il verde sta lasciando spazio al cemento e dove, tra grigie costruzioni standardizzate spiccano edifici antichi che rimandano alla storia della città. E così alle riprese della cattedrale medievale si susseguono quelle dell’avveniristica struttura in vetro e cemento del nuovo ospedale che, inaugurato da poco, domina la città dall’alto di una collina; o quelle effettuate nel quartiere Gammarana, alle spalle della stazione ferroviaria, dove fervono i lavori di costruzione di alcune abitazioni, spia della trasformazione di un’area che da zona industriale, fra gli anni ’50 e ’60, si trasforma nel corso degli anni ’70 in zona residenziale407. L’occhio amatoriale non si limita a scrutare paesaggi esterni in rapida evoluzione; talvolta si sposta negli interni delle abitazioni in cemento che popolano la città, per fissarne la sostanza più domestica.

403 Nel corso degli anni ’70 assume dimensioni sempre più rilevanti l’esodo di popolazione dalle zone di montagna verso le zone collinari e la fascia costiera. Allo stesso tempo, la popolazione va spostandosi dai piccoli agglomerati agricoli e dalle case sparse verso i centri urbani. L’inurbamento diviene così una delle caratteristiche di maggiore rilievo della mobilità demografica nella provincia di Teramo, dove si possono individuare, due aree di insediamento intensivo: quella del comune di Teramo e quella della fascia costiera, aree “favorite” in cui si addensano, in misura crescente, le attività industriali. Cfr. A. Aiardi, Situazioni e tendenze dello sviluppo industriale nel teramano, in “La voce Pretuziana”, anno I, n. 1, 1972, pp. 14 - 16.

404 Fra i due censimenti del 1961 e del 1971 la popolazione residente a Teramo capoluogo passa da 41.899 abitanti a 47.878, con una variazione assoluta di + 5.979 e una variazione percentuale media annua del + 13,32. Nel medesimo arco di tempo anche un altro comune della costa teramana, Roseto degli Abruzzi, vede incrementare il numero dei residenti in misura crescente: la cittadina costiera passa infatti da 15.159 abitanti a 18.313, con una variazione assoluta di + 3.144 e una variazione percentuale media annua del +18,78. Al contrario, la popolazione residente nei comuni montani della provincia di Teramo fra i due censimenti diminuisce in modo cospicuo, passando da 43.004 abitanti a 34. 326, con una variazione assoluta di - 8.678 e una variazione percentuale media annua del - 22,44. Dati desunti da F. Camillini, La provincia di Teramo alla luce del recente censimento, in “Notizie dell’economia teramana”, anno XXVII - n. 2, febbraio 1973, p. 8 e p. 10.

405 AAMA, Fondo Famiglia Renzi 1, 55° giro ciclistico d’Italia, 1972.406 Id. Fondo Famiglia Renzi 10, Panoramica di Teramo, metà anni Settanta.407 Id., Fondo Famiglia Berardocco 1, Teramo, panoramica, anni Settanta; Fondo Famiglia Verni, Teramo, 1973.

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La cinepresa di Renzi, in tal senso, entra in casa di alcuni amici non prima di aver effettuato prolungate panoramiche degli alti palazzi che circondano la casa in cui è ospite. Ogni singola stanza viene passata in rassegna con minuzia: lo sguardo si posa sulla cucina e sugli elettrodomestici che la compongono (il mobile con i fornelli a gas, il televisore, il frigorifero); sul soggiorno abbellito da un armadio a vetrina - all’interno del quale si scorgono piatti e bicchieri - da divani e poltrone in velluto, da un ricco lampadario in ottone e vetri di murano, dalla carta da parati riccamente decorata, dai tendaggi in pizzo che pendono dalle finestre. Le ultime sequenze sono dedicate alle camere da letto, arredate con lo stesso gusto delle altre stanze, e nuovamente all’esterno per fissare l’alto condominio di cui l’appartamento fa parte408. I filmati amatoriali tendono quindi a restituire un’immagine sostanzialmente positiva delle modificazioni urbane di questi anni, cui fanno da corollario condizioni di vita decisamente migliorate per le famiglie che abitano i capoluoghi409. Tuttavia, i panorami catturati dalle cineprese non sempre trovano riscontri in tutti i contesti cittadini: le cronache dei giornali, ad esempio, non mancano di portare alla luce i ritardi da colmare nei centri abitati in forte espansione. È il caso di Pescara, dove vengono denunciate, nel 1972, le

condizioni disumane degli abitanti delle “case minime” (...) abitazioni che alla fine della guerra accolsero gli sfollati, sono oggi il “campo di concentramento” di 162 famiglie condannate a vivere in tuguri umidi e cadenti, ai margini di una città con uno sviluppo edilizio superiore a quello di Torino, con 4.000 appartamenti inutilizzati. (...) Qui intanto si continua a vivere in sette in una stanza (...) né la cucina, che con il bagno completa “l’appartamento”, è in condizioni migliori (...) L’umidità ha corroso tutti i muri (...) numerosissimi sono gli impianti igienici guasti o inutilizzabili per cui (...) il liquame non defluisce nella rete fognante, ma invade l’abitazione410.

Le cineprese ci restituiscono anche le immagini di alcuni “borghi” della costa che, nel giro di breve tempo, conoscono uno sviluppo ed un’espansione senza precedenti. È il caso di Roseto degli Abruzzi che - al pari di altri paesi rivieraschi abruzzesi - si trasforma, fra la fine degli anni ’60 e ’70, in una vera e propria città delle vacanze in cui hanno sede attività ricettive e terziarie di vario genere. Alle spalle della figlia e della moglie impegnate in giochi di sabbia sul bagnasciuga, un cineamatore riprende anche gli stabilimenti balneari e alberghi che connotano il nuovo volto turistico della località411. Più o meno negli stessi anni, il tumultuoso sviluppo di un’altra località costiera abruzzese, Montesilvano, viene catturato con maggiore consapevolezza dagli osservatori dell’epoca che denunciano «di pari passo con la crescita dell’attività turistica ed industriale, problemi determinati anche dalla mancanza

408 Id., Fondo Famiglia Renzi 3, Una cena da amici, 1973.409 Fra i due censimenti del 1961 e del 1971 il numero delle famiglie a Teramo capoluogo aumenta, passando da 9.694 a 12.215, mentre la loro

composizione media diminuisce, facendo registrare un’effettiva tendenza verso le famiglie meno numerose. Il numero medio dei membri, infatti, passa da 4,32 del 1961 a 3,91 nel 1971 (con una variazione della composizione media di 0,41), a dimostrazione del fatto che laddove il reddito è più elevato si riscontrano famiglie meno numerose e viceversa. Sempre nello stesso arco di tempo, Teramo è interessata da uno sviluppo edilizio che determina migliori condizioni abitative: l’insieme delle stanze (51.175) supera il numero degli abitanti (47.878). Dati desunti da F. Camillini, La provincia di Teramo, cit. p. 8 e pp. 11 - 14.

410 “Abruzzo d’Oggi”, S. Santamaita, Il “lager” di Pescara, anno 1°, n. 12, sabato 22 luglio 1972, p. 10.411 AAMA, Fondo Famiglia Di Giuseppe 1, Vacanze a Roseto, 1974.

di un disegno coordinato di impiego del territorio e quindi da uno sviluppo edilizio tumultuoso e a lungo andare controproducente (...) Alla consistente attrezzatura alberghiera, moderna, funzionale, veramente all’avanguardia sulle spiagge adriatiche centromeridionali si contrappone tutta una serie di opere pubbliche collegate al turismo e non ancora realizzate o appena in fase di attuazione: anzitutto gli indispensabili ammodernamenti ed ampliamenti della rete idrica, del sistema fognario, della viabilità e di alcuni altri servizi pubblici»412.Spostandosi dai grandi centri urbani alle piccole periferie di montagna e di campagna gli squilibri divengono più grandi e difficili da colmare. Ancora nel 1971, il comitato provinciale della Dc ribadisce che «la montagna teramana si trova in una situazione di grave squilibrio nei confronti del rimanente territorio provinciale e (...) ha beneficiato in misura del tutto marginale e spesso irrisoria della complessa trasformazione sociale che ha interessato tutti gli altri settori della vita economica (...). A tutt’oggi vi è carenza nei settori montani di servizi civili, di scuole primarie (...) di assistenza sanitaria (...) mancano persino le comunicazioni stradali»413. In questo senso, le cineprese amatoriali continuano ad offrire spaccati di vita paesana, fissando i loro obbiettivi su borghi in pietra adagiati tra le rocce o su paesi di campagna in cui l’esistenza degli abitanti sembra scorrere in modo sonnolento. Nelle riprese è possibile leggere i segni della prosecuzione di quel graduale processo di abbandono ed esodo dalle aree periferiche avviatosi a partire dagli anni ’50. Le immagini dedicate alle piccole comunità depauperate sembrano voler fissare sulle pellicole le continuità della vita materiale o dei legami familiari che resistono nonostante tutto, di contro alla disgregazione e allo spopolamento dei luoghi414. È così, ad esempio, nelle riprese dei lavori di costruzione di una casa tra le colline di Monticelli. Le opere - come spiega la didascalia introduttiva aggiunta nel montaggio - vengono iniziate nell’aprile 1976 e terminano nel gennaio 1977. Il cineamatore segue le diverse fasi della costruzione dell’abitazione - probabilmente di proprietà di un emigrante che ha investito in quella costruzione i soldi guadagnati all’estero e che chiede a Renzi di filmare l’andamento dei lavori - riprendendo gli operai tra mattoni, caterpillar e betoniere415. Un secondo filmato, realizzato a Poggio Umbricchio, ci offre invece l’abbraccio del nonno ai suoi due nipotini nella piazzetta deserta del paese o la compattezza del gruppo familiare raccolto dinanzi alla cinepresa come se si trovasse nello studio di posa di un fotografo416. A spingere molti ad abbandonare i luoghi d’origine sono i divari sempre più profondi fra periferie e centri. Disuguaglianze presenti nel territorio, nell’economia, nei sistemi di convivenza sociale e nei modelli

412 Abruzzo - Molise ’79, cit., S. Maggiore, Il borgo diventa città, pp. 51 - 55.413 “Il Messaggero”, Chiesti adeguati provvedimenti per risolvere i problemi dell’occupazione e della montagna, 13 gennaio 1971; Id., La viabilità montana

ha bisogno di un urgente intervento statale, 29 dicembre 1970.414 Tra il 1961 e il 1971 la popolazione residente della provincia di Teramo passa da 260.687 unità a 256.589; la maggiore tendenza alla diminuzione

si registra proprio nei comuni montani (13 in provincia di Teramo), incapaci di produrre per il sostentamento delle popolazioni locali. Nel 1971 il comune montano meno popolato della provincia risulta Pietracamela - situato nello stesso comprensorio territoriale del paese di Poggio Umbricchio - dove tra i due ultimi censimenti la consistenza demografica passa da 716 unità a 518 (tasso di decremento medio annuo del 32,09%). Nello stesso tempo s’intensifica il fenomeno della concentrazione degli abitanti all’interno dei quattro comuni capoluogo di provincia: limitando lo sguardo al comune di Teramo esso passa da 38.643 abitanti nel 1951 a 41.839 nel 1961 e 47.804 nel 1971. Nel solo comune di Teramo, inoltre, nel decennio 1961 - 1971 vengono costruite 4.456 nuove abitazioni per 20.242 stanze. Dati tratti da F. Camillini, La provincia di Teramo, cit. pp. 7 - 9; L. Cecchini, L’agricoltura: considerazioni nostalgiche, fenomeno sociale e dati statistici, in “Notizie dell’economia teramana”, n. 3 - 4, 1976, pp. 53 - 54.

415 AAMA, Fondo Famiglia Renzi 3, Lavori di costruzione di una casa, 1976 - 1977. 416 Id., Fondo Famiglia De Giorgis 3, Vita in paese, primi anni Settanta.

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culturali separano infatti coloro che abitano i capoluoghi dai pochi rimasti nell’entroterra417. Basta dare uno sguardo alla situazione dell’elettrificazione rurale come si presenta nel 1971 per comprendere meglio quanto detto: in provincia di Teramo, a quella data, risultano «non elettrificate 447 case abitate da 458 famiglie, complessivamente composte da 2.278 persone (...) il problema dell’elettrificazione rurale appare anche influenzato dalle caratteristiche del terreno prevalentemente montuoso»418. A ciò si aggiungano le condizioni di arretratezza e di isolamento che continuano a caratterizzare la maggior parte dei piccoli comuni. A Macchia Vomano, ad esempio, «coloro che hanno resistito, che sono rimasti, sono costretti a sacrifici e ad “eroismi” veramente anacronistici, in tempi nei quali si progettano e si realizzano autostrade e superstrade a destra e a manca. A Macchia Vomano (...) si può arrivare soltanto a piedi o a dorso di un asino, la “vettura” come è ancora chiamata dai nostri nonni»419. Né va meglio a Mosciano, il borgo svelatoci alla fine degli anni ‘40 dalle suggestive immagini in bianco e nero dell’emigrante americano. A distanza di trent’anni, quasi nulla sembra essere cambiato poiché «molte famiglie abitano ancora in “pinciaie”, misere casupole costruite con fango e terriccio impastato con paglia tritata, squadrate alla meglio e coperte con travi di legno grezzo e “coppi”, a volte sprovviste perfino di un pavimento in mattoni a secco (...) La pinciaia testimonia lo squallore e la miseria di molti, in contrasto con l’agiatezza dei possessori di certe ville della zona, recintate con giardini pieni di mille ricercatezze. Mancano case popolari, alloggi per gli strati più poveri»420.Stupiscono dunque, alla luce di questi ritardi, le riflessioni nostalgiche di un osservatore dell’epoca che, sul finire degli anni ’70, continua a indicare nella montagna «con la sua gente laboriosa, profondamente sana, uno dei pochi capisaldi di serenità ed equilibrio morale in un mondo come quello di oggi che vede le città sprofondare sempre più nel caos spirituale e sociale»421.

5.3. Disgregazioni e conservazioni

In realtà, il ritorno ai valori umani dei tempi passati che «minacciano di essere travolti dall’irrompere di un progresso disordinato e dal diffondersi di un benessere instabile e disuguale»422, sembra essere nella società abruzzese degli anni settanta più che un semplice richiamo di qualche nostalgico. Sia le città che i

417 Nei sei comuni della Laga, appartenenti al comprensorio della montagna teramana, in particolare sono stati individuati alcuni indicatori socio - economici che li diversificano dal comune di Teramo: popolazione residente (24 mila abitanti nel 1971) superiore alla popolazione presente (20.000 abitanti nel 1971); grado d’istruzione inferiore a quello provinciale (52% senza titolo di studio contro il 46,5% dell’intera provincia); popolazione non attiva di 10 mila persone e 700 persone in cerca di prima occupazione con una percentuale (3,6%) superiore a quella dell’intera provincia (2,8%); 3.700 abitanti temporaneamente assenti (15,5% della popolazione), contro l’8,6% provinciale; popolazione attiva nell’agricoltura (37%) e nell’edilizia (20%) superiore alle percentuali provinciali (28% e 16%); elevata quota di abitazioni non occupate (20,6%) e di abitazioni sprovviste di servizi (13,5%); rilevante movimento migratorio (dai 34 mila abitanti del 1951 ai 20 mila del 1971, con una diminuzione complessiva del 40%). Cfr. G. Orsini, Aspetti sociali dello sviluppo del comprensorio della Laga, in “Notizie dell’economia teramana”, n. 8, 1980, pp. 8 - 15.

418 F. Camillini, Panorama statistico - economico (con particolare riguardo alla provincia di Teramo), in “Notizie dell’economia teramana”, anno XXVII, n. 9 - 10, settembre - ottobre 1973, pp. 10 - 12. L’autore desume i dati riguardanti la provincia di Teramo e l’Abruzzo in generale dalla “Seconda indagine sulla situazione dell’elettrificazione rurale in Italia” pubblicata dall’Enel. Nel breve saggio si specifica anche che la provincia di Pescara ha il minor numero di case non elettrificate (291), l’Aquila ne ha 751 e Chieti presenta il valore più elevato (930).

419 “Abruzzo d’Oggi”, A. Alfani, Dieci chilometri di mulattiera, anno 1°, n. 15, sabato 16 settembre 1972, p. 7.420 Id., B. Mancini, Le pinciaie che piacciono al sindaco, anno 1°, n. 16, sabato 30 settembre 1972, p. 7.421 L. Di Pietro, Gli antichi e sconosciuti Monti della Laga: il difficile passato, l’incerto presente, qualche proposta d’intervento, in “Notizie dell’economia

teramana”, n. 3 - 4, 1978, p. 15.422 La giornata del risparmio 1971, in “La voce Pretuziana”, anno I, n. 1, 1972, pp. 39 - 40.

piccoli centri dell’entroterra sono infatti attraversati da processi complementari e opposti che, coesistendo nei medesimi spazi, conducono lentamente allo sfilacciamento della coesione del tessuto collettivo e alla disgregazione dell’unità di quel mosaico sociale che è alla base dei legami comunitari. Da un lato i contesti urbani segnati dalle tensioni sociali e dal deterioramento dei tradizionali valori e modelli culturali di riferimento; dall’altro, le periferie scavate da abbandoni inesorabili che rischiano di sbriciolare i vincoli coesivi fra coloro che restano. Ancora una volta, i filmati familiari e amatoriali sembrano restituire solo in parte la complessità delle dinamiche sociali in atto, svelandoci in che modo le famiglie e le piccole comunità locali filtrano e rielaborano, nella loro quotidianità, i vari modelli culturali e le scosse provenienti dai contesti in rapida trasformazione. Nel corso degli anni Settanta, in particolare, la regione compie «i primi passi ufficiali sul cammino della sua costituzione»423 attraverso la scelta del capoluogo; tale processo, tuttavia, si rivela più complesso e doloroso del previsto e determina uno stato di agitazione permanente fra le popolazioni di l’Aquila e Pescara (le due candidate al titolo) che degenera, in più di un’occasione, in scioperi e violenti tumulti di piazza. Fra il 1970 e il 1971 le due città concorrenti vengono paralizzate da giornate drammatiche fatte di blocchi stradali, cortei, manifestazioni generali, guerriglie notturne tra dimostranti e forze dell’ordine, che ne trasfigurano i volti “normali” e che finiscono per svelare l’esistenza, alla base dei disordini, di numerosi problemi strutturali ancora irrisolti424. Ancora una volta, cioè, gli scontri per il capoluogo si legano alle sorti dello sviluppo e al più generale assetto geopolitico della regione: l’Aquila e Pescara «rappresentavano rispettivamente l’Abruzzo montano e quello costiero e il prevalere dell’una o dell’altra avrebbe segnato una direttrice di sviluppo incentrata su uno dei due aspetti e la soluzione di una lotta per la supremazia che si svolgeva da tempo»425. A queste agitazioni, alle quali partecipano tutte le categorie sociali, si aggiungono poi quelle degli anni successivi che vedono in prima fila i contadini che manifestano «contro la politica agraria del padronato e del governo, per la grave situazione in cui versa l’agricoltura abruzzese»426 e i giovani che scendono in piazza «scandendo richieste precise e concrete. Al primo posto: l’occupazione»427.Il quadro appena delineato sembra dunque rimandare all’immagine di una società abruzzese in profonda crisi, stretta fra fenomeni di trasformazione e da contestazioni generalizzate che ne sconvolgono i

423 “Il Messaggero”, F. Isman, L’Abruzzo alla ricerca della “piccola capitale”, 16 giugno 1970.424 Una puntuale ricostruzione degli eventi legati al capoluogo è possibile scorrendo le cronache de “Il Messaggero” e in particolare: F. Isman, “Rivolta”

a Pescara per il Commissario. Abruzzo: la Regione nasce fra gravi contrasti, 24 giugno 1970; Oggi sciopero generale per il capoluogo, 25 giugno 1970; La notte più lunga per 3.000 pescaresi, 25 giugno 1970; Pescara: nuovi scontri. Grave stato di tensione, 29 giugno 1970; La città in stato di assedio, 29 giugno 1970; Guerriglia notturna per le vie di Pescara, 30 giugno 1970; Ha suonato il campanile civico. Gli aquilani scendono in piazza per il capoluogo, 16 dicembre 1970; Il Pci propone ufficialmente un compromesso per il capoluogo. Gli esercenti aquilani interrompono i rapporti commerciali con Pescara, 18 dicembre 1970; La città paralizzata per un’ora dallo sciopero per il capoluogo, 23 gennaio 1971; Sciopero generale all’Aquila di tutte le categorie sociali, 27 gennaio 1971; G. Volpe, Sciopero compatto a l’Aquila: aperte soltanto le chiese e la farmacia di turno, 28 gennaio 1971; La folla assedia i consiglieri regionali, 27 febbraio 1971; Una scelta per il futuro della Regione, 28 febbraio 1971; Una giornata di violenza, 28 febbraio 1971; Continua la “guerriglia urbana”. Ancora barricate e incendi, 1 marzo 1971; Il dolore di una città ferita, 1 marzo 1971; Appello del sindaco ai cittadini, 2 marzo 1971; A. Sterpellone, Le radici dell’ira, 16 marzo 1971. Contributi storiografici sulla questione si trovano invece in: G. Crainz, Il Paese mancato, cit. pp. 470 - 479 (anche sulla rivolta di Reggio Calabria); A. Mutti, Il particolarismo come risorsa, cit., pp. 141 - 142; U. Dante, L’Abruzzo contemporaneo, cit. pp. 176 - 180; Aa. Vv., Storia dell’Abruzzo, cit. pp. 89 - 93; E. Fimiani (a cura di), L’Abruzzo dalla ricostruzione alla regionalizzazione, L’Aquila, Istituto abruzzese per la storia della resistenza e dell’Italia contemporanea, 2002, pp. 21 - 218.

425 A. Di Ferdinando e A. Sangiovanni, Sistema elettorale e sistema politico in Abruzzo, in Storia dell’Abruzzo, cit. pp. 92 - 93.426 “Abruzzo d’Oggi”, Grande giornata di lotta dei contadini abruzzesi, anno 1, n. 20, sabato 2 dicembre 1972. Nell’articolo si specifica anche che «in

Abruzzo dal 1961 al 1971 sono state costrette a lasciare l’agricoltura 72.813 unità lavorative; è stato ridotto il terreno coltivato di 82 mila ettari aggravando la piaga dell’emigrazione e della disoccupazione e scaricando sulla società costi sociali enormi».

427 Id., Quel 20 dicembre a Pescara, 29 gennaio 1977.

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tradizionali assetti. A mostrarci il volto opposto e complementare di questa stessa società sono invece i filmati amatoriali nei quali le famiglie, con i loro rituali, abitudini, comportamenti, tornano a prendere forma. Tali materiali restituiscono, ovviamente, un aspetto “normale” alle realtà locali, senza comunque riuscire a tacere i riflessi delle disgregazioni culturali e sociali contemporaneamente in atto. A fare da contrasto alle immagini dei disordini di piazza di quegli anni si inseriscono, ad esempio, la solennità e la compostezza che dominano nella piazza immortalata dalla cinepresa di Renzi nel 1972 e nella quale si sta svolgendo l’inaugurazione di un monumento ai caduti. L’obbiettivo si sposta velocemente ad inquadrare tutte le autorità presenti: dal «presidente nazionale dell’ONIG - come recita il commento aggiunto - al sindaco, al vescovo», senza mancare di cogliere il pubblico presente assiepato intorno al monumento sul quale alcuni militari depositano, poco dopo, una corona di fiori428. Una folla meno ordinata ma festosa torna invece ad essere presente nelle immagini del carnevale tipico di Castorano, piccolo paese adagiato tra le colline marchigiane. Ad animare la festa in strada, dal carattere popolare e spontaneo, sono gli stessi abitanti che, riversati disordinatamente tra le strade, inscenano sfilate e scenette farsesche percorrendo tutte le vie del paese. La cinepresa si sofferma su alcune maschere riunite in piazza e divise in gruppi, ciascuno dei quali riproduce una scena a tema. Le tematiche dalle quali prendono spunto i travestimenti carnevaleschi attingono in parte ad elementi della realtà di quegli anni: s’intravedono, così, uomini travestiti da ballerine di can can, diavoli con il forcone che rincorrono falsi medici, carretti su cui sono adagiati finti ammalati che sbeffeggiano la malasanità con cartelli dalle scritte ironiche, abitanti travestiti da poveri contadini che si lanciano in danze scatenate dinanzi all’obbiettivo amatoriale. Come se la riproduzione sarcastica delle contraddizioni che frammentano la realtà di quegli anni - ma che la comunità locale di Castorano mette in scena per creare un momento di forte aggregazione - possa contribuire in qualche modo a mitigare, o esorcizzare, gli impatti negativi delle stesse sul corpo sociale429. È proprio nei piccoli paesi in lento declino ed abbandono che sembrano dispiegarsi con maggiore forza le resistenze ai processi di dissolvimento e di dissoluzione, i tentativi da parte delle comunità locali di difendere il corpo - paese dalla fuga anche con risposte culturali. In tal senso, «l’attaccamento al luogo, il senso dell’appartenenza, il legame religioso ostacolano spesso la dissoluzione dell’abitato»430. Il pericolo di veder perdere le tradizioni più antiche, insieme ai legami comunitari è presente anche nelle cronache dei cinegiornali che dedicano un servizio «all’idillica eterna quiete delle montagne d’Abruzzo e a Pescocostanzo, un paese non corrotto dalle cosiddette civiltà delle macchine, rimasto un gioiello rinascimentale dell’Appennino aspro e maestoso. Le donne da secoli fanno merletti e ricamano al tombolo (...). È una tradizione di alto artigianato (...) che l’automazione non è riuscita a soffocare, ma fino a quando?»431.I riti, le feste, le piccole celebrazioni che gli obbiettivi delle cineprese amatoriali catturano in questi anni nei diversi borghi dell’entroterra teramano sembrano poter essere interpretabili come qualcosa di più che semplici elementi del passato e della tradizione. «Sono anche questo, ma sono costruzioni recenti, sono riti che ci appartengono, postmoderni. Raccontano vicende seguite all’esplosione e alla

428 AAMA, Fondo famiglia Renzi 3, Inaugurazione monumento ai caduti, 1972. 429 Id., Fondo Famiglia Schiavoni, Castorano - Carnevale, 1976 - 1977.430 V. Teti, Il senso dei luoghi. Memoria e storia dei paesi abbandonati, Roma, Donzelli Editore, 2004, p. 74.431 AIL, Radar R0456, Italia. Un gioiello rinascimentale sulle montagne d’Abruzzo, 1971, durata 1 min. e 6 secondi.

frantumazione dell’universo antico (...) inseguono e affermano un legame tra un passato che non passa e un futuro che non si riesce a progettare»432. Essi vengono dispiegati e ripetuti per scongiurare lo sfilacciamento delle relazioni comunitarie, per rinsaldare, come fossero potenti collanti, una coesione che si va lentamente staccando. È così nelle immagini dei matrimoni celebrati nel solco delle tradizioni dove la festa nuziale si trasforma in una festività collettiva a cui partecipano paesi interi e dove i tradizionali pranzi o “ricevimenti” si svolgono - anziché in moderni ed impersonali ristoranti - a casa di un compaesano, se non nella rimessa di campagna dello sposo, con contorno di uomini e donne del luogo che, in grembiuli da cucina, si adoperano nella preparazione delle pietanze. Al pranzo seguono poi i festeggiamenti, allietati dai suonatori di ‘ddu botte, «lo strumento del saltarello che diventa essenziale nei cortei nuziali quelli fatti alla maniera antica»433, che invitano sposi e presenti a cimentarsi in balli di gruppo sull’aia434.Il forte senso di partecipazione comunitaria domina anche nelle processioni sacre e profane che animano le strade dei borghi. I filmini di Renzi, ad esempio, non si limitano a documentare tali eventi, ma sembrano rivelare - nelle parole del commento sonoro aggiunto - la necessità di filmare l’innocenza di un mondo per poterlo contrapporre alla corruttibilità di un altro. Ecco allora che nel 1971 «in ossequio all’annuale tradizione, il cineoperatore Vincenzo Renzi fissa sulla pellicola il carnevale dei bambini dell’asilo per le strade del paesello». I piccoli sfilano in maschera, sulle strade sterrate del paese, dinanzi all’obbiettivo della cinepresa accompagnati dalle note del «suonatore di ‘ddu botte che trae dallo strumento con impareggiabile leggiadria e precisione, le note delle più svariate canzoni». Il filmato si chiude con riprese varie dei bambini in posa e con l’esclamazione del commento sonoro che recita: «se il carnevale dei grandi avesse almeno un pizzico di questa santa innocenza, oh, come il mondo andrebbe meglio!». L’anno prima Renzi non manca di riprendere una delle celebrazioni religiose del suo paese - in occasione della consacrazione del nuovo altare parrocchiale e della Festa dell’Ascensione - alla quale partecipano molti compaesani, anche rientrati da fuori435. Ciò a dimostrazione del fatto che «le processioni (...) in paesi spesso tutti uguali, anonimi, diventano forme di riconoscimento, di auto rappresentazione, di identificazione per persone che arrivano da luoghi diversi»436. Un discorso a parte e di diversa natura va fatto, al contrario, per momenti di aggregazione comunitaria che non trovano quasi mai rappresentazione nelle immagini familiari e amatoriali, se non per occasioni straordinarie: i filmati dei funerali, o della morte in genere, «più rari, a meno che non abbiano rilevanza pubblica e non contribuiscano a rafforzare l’immagine pubblica della persona e della famiglia coinvolta»437.

432 V. Teti, Il senso dei luoghi, cit. p. 41 e 37.433 L. Braccili, L’artigianato che resiste, in “Notizie dell’economia teramana”, n. 8 - 9, 1979, p. 45.434 AAMA, Fondo Famiglia De Giorgis 3, Un matrimonio, anni Settanta; Fondo Famiglia Schiavoni, Matrimonio di Adriano e Assunta Del Prete, 1978 e

Matrimonio di Gino, 1981.435 Id., Fondo Famiglia Renzi 1, Carnevale dei bambini, 1971; Consacrazione del nuovo altare e festa dell’ascensione, 1970.436 V. Teti, Il senso dei luoghi, cit., p. 20.437 C. Saraceno, Interni ed esterni di famiglia, cit., pp. 4 - 12. Motivate dalla rilevanza pubblica sono, in questo senso, le immagini del filmato amatoriale

realizzato nel 1956 dal cineamatore abruzzese, Tommaso Casticci, a Manoppello - piccolo paese del teatino - in occasione dei funerali delle vittime di Marcinelle. Il filmato in questione, dimenticato in soffitta per 43 anni, è stato utilizzato all’interno del documentario realizzato da G. Giannotti dal titolo: Marcinelle, memorie del sottosuolo, prodotto da RaiTre nel 1999. Le immagini amatoriali ci regalano un affresco della provincia italiana degli anni Cinquanta, riprendendo in 8mm i funerali solenni tributati alle salme dei minatori di Marcinelle riportate al paese d’origine.

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A differenza della tradizione fotografica, infatti, le cineprese amatoriali evitano di fissare gli occhi dei loro obbiettivi sugli avvenimenti luttuosi; a motivare tali “assenze” non è tanto il sentimento di pietas nei confronti di tali eventi, quanto il potenziale disgregativo insito in rappresentazioni di questo tipo che rischiano di spezzare l’armonia e l’unità delle famiglie oltre che del tessuto sociale.Tra i numerosi filmati presenti in archivio, tuttavia, esistono eccezionali immagini che contraddicono, in qualche modo, questa ipotesi interpretativa, dimostrando come sia possibile, in alcuni contesti, trasformare la morte in un momento di riunione e di ricomposizione della comunità locale frantumata dalla perdita. La prima sequenza di filmati è ambientata a Poggio Umbricchio nel 1973: la pellicola sottrae alla consunzione del tempo il funerale di una bambina di pochi mesi, la cui piccola bara bianca scoperchiata viene portata in processione da quattro bambine vestite di bianco negli abiti della prima comunione e con ghirlande di fiori tra i capelli. Un quinto bambino sorregge tra le braccia il coperchio della bara. La cinepresa si sofferma più volte ad inquadrare il corpicino della morta, quasi che le ripetute riprese potessero sottrarre la breve esistenza della bambina all’oblio. In posizione defilata rispetto allo strazio della scena in primo piano s’intravedono i genitori della piccola seguiti, in un dolore composto, dall’intero paese: le donne con i capi coperti da fazzoletti, gli uomini in abiti scuri. Il mesto corteo percorre il tragitto che separa la chiesa dal cimitero, sfilando silenziosamente per le vie del paese438. I fotogrammi sgranati che fissano il dolore di un’intera comunità appaiono, rivisti a distanza di trentacinque anni, come testimonianze visive uniche di un mondo scomparso che probabilmente nessun’altra fonte avrebbe potuto restituire con la medesima forza ed intensità. Essi, inoltre, dimostrano come nei piccoli contesti «le morti individuali siano sempre morti collettive», poiché ogni rito di cordoglio colpisce non solo la famiglia che partecipa al lutto, ma tutti i membri che compongono un aggregato sociale439.Un secondo filmato, realizzato dalla medesima mano negli stessi anni, si fissa sul luogo di un incidente stradale dove è stato appena investito un anziano del paese. L’occhio amatoriale riprende, in maniera quasi morbosa, la “scena del delitto”, concentrandosi sull’autocarro fermo e sulle vistose chiazze di sangue lasciate sulla strada dalla povera vittima. Ai lati della visuale di ripresa s’intravedono gli abitanti del borgo che, storditi e attoniti, assistono alla scena440. Un ultimo filmato è invece ambientato nella frazione teramana di S. Nicolò, interamente stretta intorno al dolore di un giovane vedovo e dei suoi due figli. La cinepresa segue il tragitto compiuto dal corteo funebre dalla chiesa fino al cimitero, non mancando di soffermarsi lungamente sui particolari

438 Nel 1970 in Abruzzo la mortalità infantile è ancora molto alta pur essendosi gradualmente ridotta rispetto al 1951. Essa risulta di 23,1 nati morti ogni mille nati rispetto alla media italiana che si attesta a 15,4 (nel 1951 era di 41,6). Solo a partire dal 1976 l’indice di natimortalità inizia a diminuire significativamente (13,2 di contro al dato nazionale di 10,2). In provincia di Teramo, in particolare, nel 1978 i morti nel primo anno di vita sono 49 (con un indice di natimortalità per mille nati di 8,3). Nel 1976 i morti nel primo anno di vita raggiunsero le 63 unità: ciò vuol dire che nel breve periodo, dal ’76 al ’78, la diminuzione della mortalità infantile è risultata di 14 unità, cioè del 22,2% che corrisponde ad una flessione media annua dell’11,1%. Dati desunti da: F. Camillini, Sulla mortalità infantile, in “Notizie dell’economia teramana”, n. 11 - 12, 1979, pp. 47 - 50. Cfr. Istat, La mortalità infantile in Italia (1947 - 1978), Roma, 1979.

439 V. Teti, Il senso dei luoghi, cit., p. 106.440 AAMA, Fondo Famiglia De Giorgis 3, Morte figlia di Francesco, 1973; Morte di Filippo, primi anni Settanta. La scenografia che compone il funerale

della neonata trova parziali riscontri in alcune antiche tradizioni popolari abruzzesi relative ai rituali funebri. Per quanto concerne, in particolare, la morte di bambini, pur non risultando casi di funerali infantili celebrati a bara scoperta, si parla comunque di «bambini che vengono vestiti da angioletti con sul capo una ghirlanda e nelle mani un mazzolino di fiori. I piedi restano nudi (…). In molti dei nostri piccoli comuni, le famiglie popolane accompagnano la bara dalla casa alla chiesa, e poi da questa al camposanto, col seguito dei parenti e degli amici (…) Nel corteo funebre i parenti del morto indossano abiti di colore scuro, per lo più di lana; una volta nei paesi di montagna portavano, anche d’estate, le cappe (…). Le donne coprono il capo con un fazzoletto nero, oppure di altro colore, ma sempre vi si sovrappone un velo pure nero». Cfr. G. Finamore, Tradizioni popolari abruzzesi, Adelmo Polla Editore, 1997, pp. 111 - 119 (1^ edizione 1903).

che compongono il triste rito e sulla compattezza del nucleo familiare colpito dal lutto, come a voler rinsaldare simbolicamente quell’unità familiare spezzata dalla morte441.In tutti e tre i filmati sembra che l’atto di filmare la morte costituisca un modo per rafforzare ed attestare l’unità e la solidarietà del paese intorno ai suoi membri colpiti dal lutto. I Super8 del dolore, in questo senso, «svolgono una funzione di “retroguardia” nel senso di dare voce a coloro che non sono mai stati ascoltati e che non potranno più parlare»442. La partecipazione corale a tali avvenimenti dolorosi, inoltre, sembra acquisire - se filmata - un significato ancora più profondo: oltre a confermare il forte senso di partecipazione e di condivisione presente nella quotidianità paesana - e che si ravviva in caso di eventi funesti - pare testimoniare anche che «la voglia di esserci è tanto più forte e decisiva là dove si sono vissute le esperienze del perdersi, dove sembrano prevalsi il vuoto, la fine» come nel caso del paese di Poggio Umbricchio che negli anni ’70 inizia a spopolarsi definitivamente. Questo perché «ogni abbandono comporta una ricostruzione, ogni scomparsa, pure drammatica e dolorosa, prelude a una nuova presenza»443.

5.4. Vecchi e nuovi miti

L’ambiguità dei processi in atto nella società abruzzese degli anni Settanta si dispiega ulteriormente nella compresenza di vecchi e nuovi “miti” che interagiscono e si compenetrano nei luoghi, nei consumi, nelle abitudini delle famiglie e nelle forme diverse del tempo libero.Nel 1977 il documentarista abruzzese Piero Turchetti conduce all’esplorazione della regione attraverso la riproposizione filmata di stereotipi antichi e moderni che contribuiscono a definire l’identità dell’Abruzzo. Di esso Turchetti ricorda «il destino segnato dalle montagne (...) il perdurare di antiche, antichissime tradizioni» e la perdita «solo adesso, e con difficoltà, di un certo carattere per così dire cantonale, profondamente radicato negli animi». Nel documentario, il volto più primitivo della regione e quello più attuale oscillano dalla retorica della tradizione a quella della modernità, alternandosi in un gioco incrociato di sguardi: si parla così di «Pescara, la faccia ricca, moderna e mercantile dell’Abruzzo. Ma basta allontanarsi di poco per ritrovare il volto di un Abruzzo più antico (...) antiche macchine e antichi mestieri»444.Le medesime suggestioni evocate da Turchetti si ritrovano in molti filmati familiari che esplorano la realtà di quegli anni con gli occhi ingenui, curiosi e alle volte nostalgici delle cineprese amatoriali. Una parte di queste riprese è infatti ambientata nelle campagne attraversate da dinamiche profonde di cambiamento che ne ristrutturano l’immagine, ridefinendo al loro interno ruoli e funzioni.I filmati in super8 restituiscono una rappresentazione del mondo agricolo venata da sfumature diverse, nelle quali sembra potersi intravedere l’alternanza di processi opposti che dividono le campagne fra immutabilità ed innovazione. Nel 1971, ad esempio, la cinepresa di Renzi nel filmare i «Lavori agricoli» nei campi del suo paese si fissa con stupore su una realtà che sta cambiando ed evolvendosi rapidamente sotto i suoi occhi. L’obbiettivo

441 AAMA, Fondo Famiglia Scarpone 1, Un funerale, anni Settanta.442 V. Teti, Il senso dei luoghi, cit., p. 97.443 Id., cit. p. 5.444 AIL, Documentario Istituto Luce, Abruzzo? Prendilo è tuo… 1977, regia di P. Turchetti, durata 51 minuti circa.

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si concentra inizialmente sulle riprese più tradizionali in cui si vedono in primo piano uomini e donne - dai volti “antichi” - impegnati ad ammucchiare il grano già mietuto in covoni «che in gergo locale - sottolinea il commento aggiunto - diconsi cavallette». A distogliere l’attenzione di Renzi, tuttavia, è ciò che accade in uno dei campi vicini dove una «mietitrebbia meccanica, ultimo ritrovato della scienza tecnica agricola» guidata dai «baldi giovani della ditta Procacci» procede «per immense distese di frumento e quasi quasi, con un tocco magico, lascia dietro di sé i sacchi di grano pieni e ben sistemati». A queste immagini seguono riprese di alcuni bambini scalzi e in abiti sdruciti in posa sulla strada. Tali fotogrammi, a colori, potrebbero essere sovrapposti a quelli in bianco e nero di un ventennio prima se non fosse per il commento sonoro che rigetta l’immagine della miseria presentando «alcuni dei bimbi dei Procacci quasi nudi all’aria e al sole che li renderà più sani e robusti». La cinepresa ritorna, poco dopo, a fissarsi sui contadini che lavorano i campi con la mietitrebbia meccanica e le cui «mani incallite saranno quelle che Dio benedirà a differenza di coloro ai quali ogni fatica pesa perché dalla vita vogliono solo gioie e fiori»445. Renzi non si limita a filmare la meccanizzazione del mondo agricolo: accanto «alle macchine trebbiatrici dove l’imbarazzo è solo nella scelta» egli desidera imprimere sulla sua pellicola - per timore che scompaiano - anche usi e tradizioni antiche che resistono ai progressi tecnologici. E così, fra le donne che trasportano sulla testa gerle cariche di frutta o carretti di legno trainati da coppie di buoi si riconosce «Liberata che, nella sua semplicità, ama la sua capanna e il suo campicello». Il ritorno alla tradizione - in una campagna oramai proiettata nella “civiltà delle macchine” - è protagonista anche nelle immagini che chiudono il lungo filmato dedicate al rituale pranzo offerto ai contadini dalle donne. Nelle riprese delle «donne in cucina affaccendate per preparare agli operai un bel piatto di pastasciutta e un bel tocco di carne», sembrano riaffermarsi la divisione dei sessi e il ruolo stereotipato della donna come “padrona della casa”. Non è un caso, infatti, che Renzi faccia sfilare le donne che portano le pentole di pasta ai contadini sulle note della canzone: « e qui comando io e questa è casa mia...»446.Lo stravolgimento dei tradizionali assetti produttivi nelle campagne ritorna, qualche anno più tardi, nelle riprese di altri lavori agricoli ambientati sempre nel teramano. Anche in questo caso la cinepresa propone immagini sulla raccolta del grano già catturate in precedenza da altri obbiettivi amatoriali: uno sguardo superficiale a queste sequenze potrebbe far pensare che nulla è cambiato nell’arco di qualche decennio. È invece vero il contrario: nulla è più come prima, sono cambiate le campagne e con esse anche i contadini. Le trasformazioni avvenute si leggono proprio nei luoghi - dove ai tradizionali attrezzi agricoli si sono sostituite macchine di ultima generazione447 - e nei volti di chi partecipa ad uno dei

445 Le parole del commento sonoro aggiunto lasciano chiaramente intuire l’autore dello stesso: il parroco del paese, di cui si è già avuto modo di parlare nelle pagine precedenti.

446 AAMA, Fondo Famiglia Renzi 1, Lavori agricoli, 1971.447 Uno sguardo ad alcuni dati sulla consistenza del parco motoristico agricolo alla fine del 1976 riferiti all’Abruzzo possono aiutarci a capire la portata

dei cambiamenti in atto nelle campagne. La maggiore consistenza del parco delle macchine agricole si ha nella provincia di Chieti, (45,5% sul totale regionale). Seguono le provincie di Teramo (20,3%), di L’Aquila (19,2%) e di Pescara (15%). Per quanto concerne lo specifico della provincia di Teramo essa registra il maggior numero di motofalciatrici. Dati desunti da G. Marconi, La meccanizzazione agricola in Italia e nelle province della Regione Abruzzo, in “Notizie dell’economia teramana”, n. 8 - 9, 1977, p. 22. Sempre in provincia di Teramo, il numero delle trattrici agricole s’impenna vertiginosamente passando da 330 nel 1953 a 6101 nel 1977; lo stesso dicasi per altre macchine agricole addirittura sconosciute prima del 1960 (motocoltivatori, motofalciatrici, mototrebbiatrici, motoagricole). Dati tratti da L. Pezzatini, La meccanizzazione agricola in provincia di Teramo, in “Notizie dell’economia teramana”, n. 5 - 6, 1978, pp. 64 - 70.

più antichi riti del mondo agreste. Talora, le macchine sono rimaste uguali più a lungo delle facce dei contadini. Tra coloro che lavorano intorno alla trebbiatrice tradizionale, infatti, si scorgono molti ragazzi che, nella vita di tutti i giorni, non svolgono il mestiere dei campi: per l’occasione, tuttavia, essi prendono parte all’evento, per dare il proprio contributo ad un lavoro che non costituisce più l’occupazione principale della famiglia448. Nei filmati ambientati nelle campagne, inoltre, sembra potersi scorgere una delle contraddizioni che le caratterizzano: la modernizzazione dei processi agricoli - che migliora le condizioni lavorative - e la contemporanea prosecuzione dell’inarrestabile depauperamento demografico dei luoghi.Le immagini mostrano come i ragazzi che lavorano e che studiano altrove tornino in campagna per dare una mano nelle emergenze. Qualcuno - con non poca retorica - nel volgere lo sguardo ad «una vita agreste che è scomparsa senza essere sostituita» ricorda come

le forze di lavoro giovani e integre non esistono più e il braccio degli anziani s’è fatto ormai stanco e non regge lo sforzo di certi attrezzi d’un tempo (...) Si dice che non c’è vita senza gioventù. In quella dei campi i giovani non ci sono più. Sono andati a lavorare nella vicina fornace, nella fabbrica di borse, nel mobilificio, nella tipografia (...) Sui campi sono rimasti gli anziani ed i vecchi, ma sono pochi e impotenti. Guardano con tristezza le campagne che si spopolano e mangiano senza gusto un “raccolto” che non è il loro e che proviene da chissà quale Paese449.

Qualcun altro, invece, affermando che «il “cafone” non c’è più», delinea le nuove “figure” che emergono nelle campagne in seguito alle trasformazioni sociali ed economiche. Innanzitutto:

l’operatore agricolo (...) un tipo di contadino che ha acquistato spesso attraverso duri sacrifici rilevanti quantità di terra (...) Investe capitali per avere un parco macchine efficiente, così da ridurre i tempi e le fatiche di lavorazione ed aumentare la produzione. (....) Poi c’è la figura del contadino “classico”, possessore di appezzamenti di media grandezza. (...) Utilizza manodopera solo per lo stretto necessario. Molta parte della sua attività è dedicata a coltivare con i suoi mezzi meccanici i terreni dei piccoli proprietari costretti a dipendere in maniera quasi esclusiva dalle attrezzature degli altri (...) L’ultima categoria è quella del bracciante. È il classico manovale della terra e dei lavori più umili e faticosi. La sua prestazione è ormai preziosa perché il loro numero si è notevolmente ridotto. Sono comunque demandate a loro ma soprattutto alla manodopera femminile, le operazioni manuali ancora necessarie alla coltura dei prodotti agricoli. Anche questa figura è “part - time”, infatti, nei periodi in cui il lavoro agricolo è fermo, a parte le donne, gli uomini li ritroviamo come manovali nell’edilizia450.

448 Id., Fondo Famiglia Di Luigi, Raccolta del grano, anni Settanta.449 Nelle parole di Cecchini si colgono anche riferimenti a tutti quei contraddittori processi di trasformazione che stanno cambiando il volto dell’Abruzzo

negli anni settanta: urbanesimo e industrializzazione di alcune aree, spopolamento delle zone interne, esodo massiccio delle famiglie contadine verso i settori terziari. D’altronde se nel 1951 i contadini della provincia di Teramo erano 70.401, nel 1961 si riducono a 45.253 per poi arrivare a 24.047 nel 1971. Cfr. L. Cecchini, L’agricoltura: considerazioni nostalgiche, cit., pp. 50 - 56.

450 “Abruzzo d’Oggi”, G. De Stefano, Il “cafone” non c’è più, anno VI, sabato 23 aprile 1977. Si potrebbe poi aggiungere un’ulteriore figura, quella del “metalmezzadro”, che lavora in agricoltura solo nei ritagli del tempo libero, chiedendo il contributo degli altri membri della famiglia nei momenti di punta dei lavori agricoli.

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Nel corso degli anni Settanta, le cineprese amatoriali si spostano dalle campagne alle città: i luoghi e le ambientazioni cambiano, ma resta intatto, nelle realtà urbane più sviluppate, l’intreccio indissolubile fra vecchi e nuovi “miti”, che si affaccia nelle riprese dei consumi familiari e nelle inedite modalità di fruizione del tempo libero. Certe volte, anzi, le continuità sembrano essere più forti delle rotture.Il benessere conquistato dalle famiglie, ad esempio, viene benedetto dal parroco al pari della nuova automobile recentemente acquistata, un’Autobianchi 112. La tradizione ci aveva abituati alle benedizioni del mondo contadino, impartite su raccolti ed animali. In città, invece, le cineprese filmano e consegnano ai ricordi la consacrazione degli oggetti della modernità contribuendo, in questo modo, a circondarli di una sacralità che affonda le sue radici nei rituali religiosi più antichi451. Nelle stesse riprese dei compleanni festeggiati in casa - topoi iconografici classici delle autorappresentazioni familiari - dove la scenografia e le pose sembrano sempre mantenersi uguali nel tempo (il festeggiato, la torta, le candeline, il gruppo parentale raccolto intorno al tavolo), si innestano elementi di novità che accompagnano la celebrazione dell’evento, fondendosi all’interno degli scenari più tradizionali. Nel riprendere la figlia che taglia la torta circondata dagli invitati, un cineamatore non può fare a meno di allargare l’ottica della cinepresa fino ad inquadrare la televisione accesa, al centro della stanza del festeggiamento, che raccoglie magneticamente attorno a sé un gruppo di adulti. L’obbiettivo torna poi sul compleanno, ma tra una ripresa e l’altra interseca il proprio sguardo con quello proveniente dallo schermo televisivo che, sintonizzato su un programma musicale, costituisce il sottofondo per immagini del contesto celebrativo452. L’ibridazione fra vecchio e nuovo è una costante anche delle riprese dei luoghi di vacanza e del tempo libero: roulotte, tende da campeggio, auto parcheggiate tra il verde dei campi fanno da cornice ai quadretti domenicali delle famiglie adagiate sui prati a consumare i picnic, rappresentandosi come i segni più vistosi di una nuova società dei consumi che ha ormai trovato un proprio spazio definito fra le abitudini e le modalità di comportamento più consuete. La modernità sembra non riuscire a scalzare del tutto il retaggio delle tradizioni che tornano a manifestarsi sotto forme diverse. È il caso, ad esempio, della coppia di donne seduta su un lenzuolo steso sull’erba - a due passi dal luogo in cui si sta consumando il picnic - che avvolge una matassa di lana: una sequenza tanto suggestiva - riaffiorano dalla memoria le immagini delle popolane che portano i lavori domestici sull’uscio di casa per sfruttare, quanto più possibile, la luce del giorno - quanto surreale, poiché alle loro spalle non si scorgono scenari di paese, ma lunghe teorie di auto parcheggiate in fila indiana453.

451 AAMA, Fondo Famiglia Scarpone 1, Benedizione auto, primi anni Settanta. Nel 1973 aumenta in Abruzzo la circolazione sia di autovetture che di autoveicoli industriali; in particolare tra il 1972 e il 1973 si notano indici che

dimostrano una crescente diffusione dei veicoli rispetto al numero degli abitanti. Così per fornire una misura del dinamismo del fenomeno si osserva che, mentre nel ’72 esisteva un veicolo ogni 5,04 abitanti e un’autovettura ogni 5,54 abitanti, nell’anno successivo questi indici divengono di 4,73 e di 5,18 denotando una maggiore densità alla motorizzazione. Dati desunti da F. Camillini, Situazione automobilistica 1973 in “Notizie dell’economia teramana”, n. 1 - 2, 1975, pp. 21 - 23.

452 AAMA, Fondo Famiglia Schiavoni, Compleanno di Fabiola, 1977. La presenza della televisione nella quotidianità e nella “straordinarietà” domestica può essere considerata, ad esempio, un indice della diversa

concentrazione reddituale, poiché, ancora negli anni Settanta, le zone relativamente più ricche presentano generalmente indici di diffusione dei televisori più elevati (come avviene lungo la fascia costiera e le zone collinari della Vibrata), mentre l’indice appare meno significativo nei tredici comuni montani della provincia di Teramo, meno progrediti in quanto ad ammontare di reddito pro - capite. Così l’indice più alto, nel 1972, si registra nella località adriatica di Silvi (80,88 abbonamenti ogni 100 famiglie), quello più basso nella zona montana di Valle Castellana (28,25). Cfr. F. Camillini, Diffusione degli apparecchi radiotelevisivi in provincia di Teramo, in “Notizie dell’economia teramana”, anno XXVII, n. 3 - 4, marzo - aprile 1973.

453 AAMA, Fondo Famiglia Visini 1, Picnic sul prato, 1977.

Ai panorami paesaggistici più abituali si sostituiscono, inoltre, quelli dei paesi stranieri, scoperti grazie alla diffusione, nel corso degli anni Settanta, del turismo all’estero, quando «nuove coste si affacciano sul mercato turistico cercando di occupare il segmento medio - basso fino ad allora a quasi esclusivo appannaggio delle località italiane. Spagna, Jugoslavia, Grecia, Libano e Turchia intraprendono massicce campagne promozionali su tutte le aree di generazione della domanda»454.L’attrattiva esercitata sulle famiglie dalle nuove mete di vacanza - pericolosi competitori con cui l’Italia inizia a confrontarsi - si condensa nei ricordi in Super8 delle vacanze a Palma di Maiorca della famiglia Visini. Nel lungo filmato la cinepresa si fissa su una dimensione della vacanza mai sperimentata prima di allora; a svelarci l’unicità dell’esperienza sono le stesse riprese che, dall’aereo in fase di decollo e poi in volo, alla passeggiata della famiglia confusa fra i molti turisti, fino alle sequenze della costa iberica e delle spiagge bianche punteggiate di ombrelloni di paglia, compongono un racconto vivo che non conosce discontinuità455. Non meno affascinanti i filmati realizzati da un altro cineamatore nei suoi viaggi compiuti, negli stessi anni, in Tunisia e nell’Unione Sovietica456. Nella prolungata carrellata di immagini a colori che restituiscono i volti sconosciuti di Tunisi e Mosca - raffigurati in paesaggi, strade, case basse, mercanti e bancarelle, monumenti e luoghi simbolo delle località visitate - emerge in primo piano il desiderio tutto privato e soggettivo di ricercare e scoprire le tradizioni, le tipicità, le atmosfere più disparate dei paesi di accoglienza. Un modo per riaffermare - anche nello scarto con la diversità altrui - la propria identità forte457.

5.5. Culture e mentalità

È proprio nell’ambito di identità emergenti che si formano i quadri generali all’interno dei quali si plasmano e si modellano una nuova cultura e una nuova mentalità. I cambiamenti della vita economica e sociale trovano una loro rappresentazione precisa all’interno dei filmati che, nel rapido susseguirsi di immagini a colori, spesso mosse e sgranate, sembrano restituire l’affermazione di nuove abitudini di consumo accanto al mutamento dell’immagine della donna e all’emergere di un nuovo modo di essere coniugi.Capiamo che qualcosa è cambiato all’esterno della società abruzzese dalle immagini realizzate all’interno dei nuclei familiari. Il filmino della famiglia Berardocco girato in occasione del Natale 1973, ad esempio, sembra racchiudere un significato più profondo che va oltre la ripresa di una delle ricorrenze più tradizionali. Accanto all’albero di Natale riccamente addobbato che troneggia al centro del soggiorno, al pranzo che riunisce tutti i commensali intorno al tavolo, l’obbiettivo fissa le fasi più concitate dello scambio dei doni tra i familiari. Ognuno, scartato il proprio regalo, lo esibisce con orgoglio alla

454 P. Battilani, Vacanze di pochi, vacanze di tutti, cit., pp. 232 - 233.455 AAMA, Fondo Famiglia Visini 4, Vacanze a Palma di Maiorca, 1979.456 La tendenza delle famiglie abruzzesi a rivolgere la loro preferenza verso mete estere è confermata dai dati sui passaporti individuali e collettivi

rilasciati fra il 1970 e il 1976: si passa dai 1.570 passaporti individuali del 1970 ai 2.047 del 1976. Fra il 1973 e il 1974 inoltre, le giornate di permanenza all’estero oscillano tra 54 e 64, di contro alle 27 del 1970. Dati desunti da Commercio e Turismo, in “Notizie dell’economia teramana”, n. 9 - 10, 1978, p. 10.

457 Id., Fondo Famiglia Tornese, Vacanze in Tunisia, 1978 - 1979; Viaggio a Mosca, anni Settanta.

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cinepresa, rappresentando nell’inconscia ingenuità dell’esposizione, la diffusione tra la maggior parte delle famiglie di un’etica consumista segnalata, in quegli anni, da diversi contemporanei458. A favorire l’affermazione del consumismo contribuiscono, ovviamente, le maggiori disponibilità economiche e il miglioramento generale delle condizioni di vita. Le une e le altre si esprimono nei filmati delle famiglie sotto forme differenti di cui sembrano beneficiare, principalmente, i bambini; nelle riprese più ricorrenti del primo giorno di scuola o in quelle più sconosciute di un’infanzia che danza sulle punte - esibendosi con raffinate coreografie nei saggi di danza classica - possono scorgersi i segni di una progressiva evoluzione sociale e culturale che coinvolge costumi e mentalità. «La piccola Adriana Renzi vestita di tutto punto in costume scolastico» - come recita il commento sonoro aggiunto - si mostra con orgoglio all’obbiettivo della cinepresa paterna che la riprende in occasione del suo primo giorno di scuola nella scuola elementare di Monticelli. Renzi realizza queste immagini perché costituiscono la testimonianza di un avvenimento rilevante per la storia della sua famiglia. Oltre a restituire una breve traccia visiva del crescente processo di alfabetizzazione della società abruzzese459, esse paiono svelare - nelle riprese della maestra che arriva «con la sua utilitaria davanti all’edificio scolastico»460 - la progressiva conquista, da parte delle donne, di uno spazio maggiore di autonomia461.Le stesse sequenze dedicate ai balletti di danza classica dei figli - che iniziano ad occupare sempre più spazio - indicano l’affermazione tra le famiglie di una nuova sensibilità legata alle forme dello svago e del tempo libero462. A danzare nei teatri, in tutù e costumi da ballo variopinti, non sono soltanto bambine e adolescenti463, ma anche bambini e ragazzi, a dimostrazione del fatto che la danza comincia ad essere considerata non più come esclusivo appannaggio femminile, ma accessibile a tutti, allargandosi anche ad una fruizione

458 Id., Fondo Famiglia Berardocco 1, Natale 1973, 1973. Nell’esortare alla «riscoperta della buona cucina teramana», un osservatore dell’epoca, ad esempio, segnala il pericolo di «dimenticare i valori delle

cose di un tempo» legato ad un «mondo in fermento per la ricerca di cose nuove» e ad un «consumismo che brucia sempre più frettolosamente le tappe del dispendio». Alla riscoperta della buona cucina teramana, in “Notizie dell’economia teramana”, n. 9 - 10, 1975, pp. 48 - 49.

459 Nel 1976 un’inchiesta condotta da un giornalista locale sulle pagine del quindicinale “Abruzzo d’Oggi”, dal titolo L’analfabeta e il professore, mette in luce la situazione del processo di scolarizzazione - con tutti i suoi squilibri - nelle diverse zone dell’Abruzzo. Nel rilevare la tendenza alla diminuzione generale dell’analfabetismo, l’indagine svela anche la contraddizione più appariscente dell’Abruzzo: «una regione nella quale i livelli più alti d’istruzione vengono toccati da un numero relativamente elevato di persone e dove, al tempo stesso, il fenomeno dell’analfabetismo e del semi - analfabetismo investe una fascia di popolazione assai più larga che in altre regioni». In particolare, i laureati rappresentano l’1,5% della popolazione e i diplomati il 7,1%; gli alfabeti privi di titolo (360 mila circa) rappresentano il 34,1% della popolazione (indice tra i più elevati del Paese), mentre gli analfabeti sono più di 90 mila (8,5%). Passando ai dati disarticolati a livello provinciale si chiariscono gli squilibri esistenti all’interno del territorio: la provincia dell’Aquila è quella nella quale risiede il maggior numero di persone fornite di titolo di studio (63,7%), seguita da Pescara (59,4%), Chieti e Teramo (53,5%). Inoltre, su più di 450 mila persone del tutto prive di qualsiasi titolo di studio, quasi i 2/3 si trovano dislocati nei comuni della fascia montana e collinare. Ma è soprattutto considerando la popolazione femminile che emergono chiaramente gli squilibri esistenti in queste zone: le persone di sesso femminile totalmente sfornite di titolo di studio costituiscono il 47,5% della popolazione femminile complessivamente residente nella fascia montana. Cfr. “Abruzzo d’Oggi”, E. Anchini (a cura di), L’analfabeta e il professore, anno V, sabato 15 maggio 1976, pp. 14 - 18.

460 AAMA, Fondo Famiglia Renzi 1, Primo giorno di scuola, 1970.461 Un rapporto del Censis, inoltre, evidenzia che dal 1952 al 1966 si è avuto un incremento globale di 85.400 insegnanti maschi e 168.000 insegnanti

femmine; ciò vale a dire che per ogni 100 insegnanti di sesso maschile sono entrati in servizio 197 elementi femminili. Nel 1966 il totale degli insegnanti era costituito per il 65% da femmine e per il 35% da maschi. L’inchiesta e i dati da essa tratti sono citati in Considerazioni sul lavoro femminile, in “Notizie dell’economia teramana”, giugno 1970, pp. 1 - 5. Nell’articolo - che riflette sulle più generali trasformazioni del ruolo della donna nella società - si fornisce anche una spiegazione del fenomeno affermando che «la scuola si femminilizza perché è per la donna l’occupazione rifugio, l’occupazione che permette il più idoneo compromesso tra lo svolgimento di una attività extra domestica e la cura della famiglia», p. 3.

462 Fra il 1970 e il 1975 la spesa del pubblico per i “balletti” e le rappresentazioni in genere passa da 534 lire a 2.412 lire nel capoluogo teramano; da 894 lire a 2.809 lire nella provincia (con una punta massima di 4.602 lire nel 1974). Dati tratti da Istruzione, educazione, ricreazione, in “Notizie dell’economia teramana”, n. 1 - 2, 1978, p. 8.

463 AAMA, Fondo Famiglia Renzi 1, Saggio di danza classica, 1973.

maschile. In alcuni filmati, il ballerino spicca decisamente nelle esibizioni, poiché costituisce l’unico elemento maschile all’interno di corpi di ballo composti esclusivamente da bambine464. Il superamento delle rigorose distinzioni di ruoli a favore di una cultura che sposa ruoli più aperti e intercambiabili costituisce il preludio per concepire diversamente anche l’immagine della donna e la sua condizione.In particolare, nei filmati degli anni Settanta che riproducono il mondo femminile, sembrano reiterarsi quelle tendenze più generali che spingono le donne a dibattersi fra le contraddizioni del ruolo tradizionale di “angelo del focolare” e quello più “reale” di donna emancipata, con una parità coniugale finalmente conquistata e uno spazio di rappresentazione proprio all’interno della vita sociale465.La figura della «donna moderna, emancipata, che ha proprio deciso di essere bella e, se non possiede la materia prima, di essere “personale”»466 è presente, ad esempio, nelle immagini realizzate sulle spiagge dai cineamatori dove, ad affollare gli arenili, si scorgono silhouette femminili coperte da bikini succinti e dai colori vivaci467. Allo stesso modo, altre sequenze amatoriali cristallizzano in piccoli particolari la donna italiana tipo che in quegli anni sta cambiando - sollecitata da spinte opposte provenienti dalla società - e che soprattutto vuole cambiare. È così ad esempio nei Super8 di Verni dove la figlia maggiore - in compagnia del figlio minore - si esibisce in pose disinvolte e spiritose davanti alla cinepresa porgendo per gioco il suo pacchetto di sigarette al fratello e sottraendolo poco dopo per accendersi una sigaretta468. Qualche anno prima, inoltre, diverse giovani della provincia di Teramo interpellate nell’ambito di un’inchiesta sull’istituzione del divorzio giudicano la possibilità di interrompere una relazione coniugale infelice come «segno di civiltà che contribuisce a sistemare sul serio molte famiglie»469. Negli stessi anni un’altra indagine realizzata dalla Doxa sul territorio nazionale rivela che «mentre gli uomini contenti aumentano in Italia, le donne diminuiscono. (...) Infatti mentre nel ’56 gli uomini di buon umore erano il 47 per cento e le donne il 49 per cento, quattordici anni dopo si hanno posizioni completamente invertite. Gli uomini salgono al 63 per cento, le donne si arrestano al 52»470.

464 Id., Fondo Famiglia Di Giuseppe 1, Balletto della cugina Anna, primi anni Settanta; Fondo Famiglia Alessandrini 1, Saggi di danza di Patrizio, 1980 - 1981.

465 Una spia di queste tendenze generali è rintracciabile sulla stessa stampa femminile italiana che in questi anni inizia a cambiare radicalmente. Settimanali femminili come “Amica” a “Annabella” scelgono di occuparsi, a partire dal 1971, di temi diversi, abbandonando i sogni e i romanticismi per innescarsi di più nella realtà. Dunque, non più «regine e amori principeschi; non più attrici e cantanti mogli, madri e amanti contente; non più la “ricettina” per la felicità sessuale e coniugale: su queste riviste oggi si dibatte di occupazione femminile, crisi degli alloggi, asili nido, liberalizzazione dell’aborto, parità effettiva dei diritti fra uomo e donna», in “Abruzzo d’Oggi”, Rosa macchiata di rosso, anno V, sabato 10 aprile 1976. Il periodico riporta l’intervista realizzata a Cristiana Di San Marzano, redattrice di “Annabella”. Sulle diverse rappresentazioni per immagini della famiglia nei rotocalchi italiani e dei ruoli maschili e femminili nella realtà sociale dell’Italia contemporanea si rimanda ai saggi di T. Agliani, La famiglia italiana nei rotocalchi, in L’Italia del Novecento, cit., vol. III, pp. 285 - 322 e S. Salvatici, Uomini e donne sulla pubblica scena, in Id., vol. II, pp. 147 - 240.

466 “Il Messaggero”, N. Calandri, La donna 1970: bellezza e personalità, 24 giugno 1970.467 AAMA, Fondo Famiglia Di Giuseppe 1, Vacanze a Roseto, 1974.468 Id., Fondo Famiglia Verni, Valerio e la sorella, 1973 - 1974.469 “Il Messaggero”, Favorevole parere dei teramani sull’istituzione del divorzio, 2 dicembre 1970. Si tenga presente, inoltre, che in Abruzzo fra il 1973

e il 1974 si assiste, come nel resto del Paese, ad una diminuzione generale del numero dei matrimoni (che passano da 8.840 a 8.535) e ad un contemporaneo aumento del numero dei matrimoni celebrati con rito civile (da 376 a 444). Dati tratti da Congiuntura economia abruzzese, gennaio - marzo 1975, in “Notizie dell’economia teramana”, n. 8, 1975, p. 60.

470 I risultati dell’indagine sono riportati su “Il Messaggero”, A. Frullini, Divisa tra due opposte mistiche quella del sesso e quella dell’attivismo affaristico la donna - tipo nel nuovo decennio, gennaio 1971. L’articolo, inoltre, nel delineare l’identikit delle donne - tipo del 1971 afferma che «i corredi non li ricamano più (…) per essere madri non occorre avere figli: basta un marito o un amante».

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Accanto a questa patina di pseudo - modernità, altri filmati amatoriali sembrano rivelare la permanenza di una concezione di vita basata su rapporti sociali arretrati che sottolineano l’inferiorità e la subordinazione della donna.La riproposizione dell’immagine della donna “angelo del focolare”, “regina della casa”, “donna madre”, “donna sposa” torna nei filmati familiari realizzati soprattutto da Renzi nel contesto paesano. In essi, l’icona più antica del ruolo femminile è dominante ed appare - agli occhi di osservatori esterni - quasi anacronistica ed inadeguata rispetto alle trasformazioni socio - culturali in atto che, tuttavia, sembrano non aver scalfito lo status quo dei ruoli familiari dei Renzi. Nei pranzi in casa la cinepresa ripropone la medesima iconografia degli anni precedenti, con gli uomini seduti a tavola - tra cui il parroco del paese - e le donne, in piedi intorno a loro, che ascoltano in silenzio i discorsi in dialetto teramano e badano ai bambini. Il ruolo defilato della casalinga ricorre in questi filmati anche negli anni successivi: la signora Renzi non siede mai a tavola con gli altri famigliari, ma è indaffarata a servire loro il cibo per poi ritirarsi a mangiare, in un angolo della cucina, vicino ai fornelli471. Tali rappresentazioni sembrano far emergere una mentalità che sopravvive in molti contesti della regione. Nei filmati di Renzi sembra prevalere lo schema della femminilità tradizionale riassunta in “Chiesa, cucina, bambini” e il lavoro domestico non è considerato una schiavitù, ma un mezzo per creare l’atmosfera di famiglia, per approfondire i legami affettivi, per favorire la comprensione reciproca fra i diversi membri472. Sotto la superficiale cristallizzazione delle donne nei ruoli più tradizionali, le cineprese amatoriali, tuttavia, possono anche svelare le trasformazioni nel modo di essere coniugi. Tali cambiamenti lasciano intuire che qualcosa, a dispetto delle apparenze, è cambiato o sta cambiando nelle mentalità femminili, ma non solo in esse.A mutare è il senso del pudore fra le giovani coppie: le mogli non si vergognano più di offrirsi alla cinepresa per esibirsi in tenere effusioni con i mariti; nelle occasioni più svariate (pranzi, compleanni, matrimoni) cercano l’obbiettivo per cementare dinanzi ad esso la solidità del proprio legame coniugale473. Ma a mutare è anche la vita in due, con la tendenza ad affrontarla in modo molto semplice e con reciproca collaborazione, a partire dalla cura della prole: non stupiscono, quindi le riprese dei mariti ritratti negli inediti panni di padri affettuosi, che partecipano alla pappa o ai momenti di gioco con i figli474.

471 AAMA, Fondo Famiglia Renzi 3, Un pranzo in famiglia, 1970; Fondo Famiglia Renzi 10, In famiglia, metà anni Settanta; Fondo Famiglia Renzi 5, Visita in Abruzzo dei parenti di Venezia, 1979.

472 È importante tenere presente che ancora nel 1973 le donne occupate in Abruzzo rappresentano un’esigua minoranza: su 100 ragazze dai 16 ai 25 anni intervistate a Pescara, il 50% appartiene alla categoria delle studentesse, il 30% a quella delle casalinghe, solo il 20% lavora. Inoltre, su 100 donne dei quartieri popolari quasi l’80% è casalinga con un titolo di studio che va in media dalla III alla V elementare. Dati tratti da “Abruzzo d’Oggi”, P. Vitti, La “questione femminile” in Abruzzo, anno 2, n. 13, sabato 8 settembre 1973, p. 7. Nonostante questo, nel corso degli anni Settanta la stampa locale dibatte con insistenza sui riflessi negativi indotti dalle trasformazioni sociali e culturali sulla solidità familiare e sul ruolo della donna. Da più parti si chiede un “ritorno della donna alla famiglia”, privata della tradizionale figura dalla crescente emancipazione femminile e si imputa il motivo della crisi dei valori morali ed educativi delle famiglie al lavoro della donna. Cfr. “Abruzzo d’Oggi”, G. Valente, Gli angeli non scioperano, anno 1, n. 20, sabato 2 dicembre 1972, p. 7; “La Voce Pretuziana”, C. Gambacorta, Restituire la donna alla famiglia, anno III, n. 1, 1973, pp. 14 - 15; Id., G. Saverioni, Società senza padre, società senza madre, anno III, n. 2, 1974, pp. 53 - 54.

473 AAMA, Fondo Famiglia Schiavoni, Un pranzo in famiglia; Compleanno di Erica; Matrimonio di Adriano e Assunta Del Prete, 1976 - 1978.474 Id., Fondo Famiglia Renzi 10, In famiglia, metà anni Settanta; Fondo Famiglia Visini 2, Compleanno di Emiliano, 1979.

Negli stessi anni, d’altronde, un’indagine «rivela nel nuovo costume coniugale la garbata e disinvolta partecipazione del marito a certe faccende domestiche. I giovani mariti non si vergognano più di portare a spasso il proprio bambino in carrozzina o di fare la spesa; e d’altro canto, le mogli sanno di poter contare in casa sulla presenza del marito, sentono che è una “spalla”, non un capo - famiglia autoritario ed esigente»475.

475 G. Orsini, L’inserimento della donna nella vita sociale, in “Notizie dell’economia teramana”, n. 8 - 9, 1979, p. 59.

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Emigranti in posa:luoghi e immagini

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Le possibilità degli home movies di essere utili per la conoscenza e per la ricostruzione storica non li rende - come si è detto - delle fonti complete, attendibili, oggettive. Sarebbe allora più opportuno, per non svilire il valore d’uso e le potenzialità di racconto comunque racchiuse in essi, inserire i filmati familiari in una sorta di “storiografia familiare”. Quest’ultima, al pari di quella ufficiale, può rivelarsi importante per costruire “racconti” sulla cultura delle famiglie, narrazioni che evidenzino la percezione che esse hanno avuto della società in cui sono vissute e degli avvenimenti che in essa sono accaduti, contribuendo nel contempo a far emergere i valori di riferimento che sono stati alla base di determinate realtà e contesti.Fra i numerosi filmati presenti nella raccolta dell’Università di Teramo, alcuni ci parlano direttamente del mondo dell’emigrazione, vissuto e ricordato soprattutto attraverso le pellicole di tre famiglie diverse che fra la fine degli anni Quaranta e la metà degli anni Settanta abbandonano l’Abruzzo per emigrare in Canada, si recano oltreoceano per far visita a parenti ed amici stabilitisi lì da tempo, fanno ritorno nei luoghi natii per riallacciare molteplici legami con il proprio passato.È stato detto che l’emigrazione italiana può rientrare a pieno titolo nel cosiddetto «autoritratto della nazione, in quanto riassume ed evidenzia i connotati antropologici di strati e ambienti sociali altrimenti relegati nell’ombra, illumina zone periferiche, ma parimenti costitutive dell’identità nazionale e delle sue auto rappresentazioni collettive»476. Se è così, i “racconti” suggeriti dai filmati amatoriali degli emigranti possono apparire strategici per rafforzare tali possibilità. Al pari delle fonti orali, infatti, anche i filmati in formato ridotto realizzati nei contesti di emigrazione possono rappresentare «un importante punto di riferimento soprattutto per una storia sociale antropologicamente orientata» e «indicare strade diverse da percorrere, realtà nascoste in via di oblio da approfondire»477. Storie che muovono dal basso, spesso accidentate ed irte di insidie, ma che possono anche condurre ad affacciarsi su nuovi ed interessanti orizzonti di ricerca dove a dominare sono situazioni sociali poco considerate dalla storiografia tradizionale e che nei filmini trovano voce attraverso le lenti d’ingrandimento della quotidianità e dell’agire individuale. I filmini realizzati dagli emigranti con le loro cineprese hanno infatti svolto, oltre all’inevitabile funzione sociale di ricordo, un ruolo più importante legato alla conservazione della memoria storica di gruppi familiari che hanno vissuto in prima persona l’esperienza di rifondare la propria esistenza in un nuovo continente. In alcuni casi, le cineprese sono state utilizzate per non recidere del tutto i legami di appartenenza con le comunità di origine: è il caso, ad esempio, di un emigrante originario di Poggio Umbricchio. Negli anni Cinquanta l’uomo, da qualche anno in America, ritorna nel suo paesino di montagna e porta con sé una cinepresa con la quale realizza alcuni filmati. Prima di ripartire, però, egli decide di colmare la sua assenza affidando ad uno dei compaesani il suo strumento dei ricordi. Sarà lui a continuare a filmare, negli anni successivi, la vita del paese e ad inviare periodicamente in America le pellicole realizzate perché l’emigrante possa rivederle478.

476 A. De Clementi, Caratteri storico - antropologici dell’emigrazione italiana, in O. De Rosa, D. Verrastro (a cura di), Appunti di viaggio. L’emigrazione italiana tra attualità e memoria, Bologna, Il Mulino, 2007, p. 27.

477 D. Perco, L’uso delle fonti orali per una storia dell’emigrazione italiana in Brasile: un primo bilancio, in C. Grandi (a cura di), Emigrazione, memorie e realtà, Provincia Autonoma di Trento, 1990, pp. 407 - 413.

478 Si fa qui riferimento ai filmati del fondo De Giorgis. Le informazioni sono state fornite direttamente da Vincenzo De Giorgis, autore dei filmati, e “custode” della memoria dell’emigrante. De Giorgis racconta che molte volte i filmini realizzati per l’emigrante divenivano un’occasione di incontro e di svago per l’intero paese. Spesso, infatti, venivano proiettati pubblicamente in chiesa e alle proiezioni partecipava l’intera comunità.

In altri casi, invece, i filmati degli emigranti possono essere addirittura considerati come veri e propri “documenti di fondazione” delle loro nuove vite, poiché attestano visivamente l’ingresso degli abruzzesi in una società diversa da quella lasciatasi alle spalle. La stessa possibilità di tornare a rivedere all’interno della cerchia familiare le immagini racchiuse nelle pellicole può avere avuto in qualche modo una funzione di consolidamento dei processi di identificazione culturale fra i componenti della famiglia e fra questi ultimi e il mondo esterno. Ecco allora che vecchie e nuove identità - legate a specifiche auto rappresentazioni - s’intrecciano in queste “memorie selettive”.Non bisogna dimenticare, d’altronde, che «ciò che muoveva gli emigranti a farsi fotografare (ma anche filmare, n.d.r.) era in molti casi proprio l’esigenza di sottolineare, di volta in volta, la stabilità di un’identità che è anche la stabilità degli affetti al di là della distanza, e i mutamenti (se possibile i miglioramenti) conseguenti all’emigrazione»479.

479 P. Ortoleva, Una fonte difficile. La fotografia e la storia dell’emigrazione, in “AltreItalie”, n. 5, a. III, aprile 1991, p124.

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6. Le pArtenze

All’indomani del secondo conflitto mondiale anche le tradizionali geografie migratorie risultano scompaginate. Accanto ai consueti paesi europei se ne affacciano altri, come il Canada, l’Australia, il Venezuela, prima quasi assenti dagli scenari più abituali.Gli italiani in Canada, in particolare, si configurano come una «collettività di nuova formazione»: appena 15 mila prima della guerra, aumentano di 230 mila unità negli anni ’50, 170 mila negli anni ’60 e di altre 70 mila dal 1970 al 1987 (per un totale di oltre 480 mila unità). Coloro che emigrano - in un primo tempo agricoltori, poi addetti all’edilizia e ai settori industriali - provengono prevalentemente dal Meridione; un’alta percentuale di forza lavoro viene fornita dall’Abruzzo (11,7%), preceduto solo dalla Sicilia (18%) e dalla Calabria (17,9%) e la maggior parte dei nuovi arrivati sceglie di stabilirsi a Toronto (70%)480. Nell’arco di poco più di un ventennio, dunque, la comunità italiana in Canada quasi triplica, passando dalle 150.000 unità del 1951 alle 450 mila del 1971; a determinare tale crescita sono «le capacità espansive dell’economia canadese, avviata verso una rapida e profonda industrializzazione e impegnata in una radicale opera di creazione di infrastrutture. Ciò rese il mercato del lavoro assai ricettivo e in grado di riassorbire quella quota di immigrazione europea cui la limitazione delle entrate negli Usa sembrava aver chiuso in faccia le porte del continente americano»481 La maggioranza della popolazione italo canadese, come si è detto, si concentra nelle aree metropolitane di Toronto, Montreal e Vancouver482. È il caso, ad esempio, della famiglia Scarpone: emigrata alla fine degli anni Sessanta in Canada, vi resta per qualche anno stabilendosi a Montreal. I filmati realizzati in quell’arco di tempo ci restituiscono, in qualche modo, il significato di un’esperienza vissuta come un “cambiamento”483. Cambiamento di paese, patria, lavoro, comunità, lingua, abitudini, spazi, ritmi: nei filmati tutto questo si cristallizza in una vera e propria ambivalenza culturale. Da un lato, infatti, è possibile scorgere i tentativi della famiglia di integrarsi, assimilarsi, adattarsi alla nuova società di accoglienza attraverso strategie diverse; da un altro, rimane vivo il desiderio di mantenere intatte le proprie radici culturali e identitarie, pur nella consapevolezza di dover inserire la propria appartenenza etnica in una società dove tutto è nuovo e diverso484.

480 Dati tratti da P. Bacchetta, R. Cagiano de Azevedo, Le comunità italiane all’estero, Torino, Giappichelli , 1990, pp. 46 - 168 - 174 - 75. I dati riguardanti la provenienza regionale e la scelta del luogo in cui stabilirsi sono relativi agli anni 1982 e 1985. Inoltre, A. De Clementi, Caratteri storico - antropologici, cit., p. 29; .A.a. V.v., L’emigrazione italiana negli anni ’70, Roma, Centro Studi Emigrazione, 1975, p. 34. Alcuni dati relativi proprio all’Abruzzo fanno meglio comprendere l’incidenza del fenomeno migratorio nella regione, che passa da 1.277.000 abitanti nel 1951 a 1.206.000 nel 1961, con un decremento di 71.000 abitanti. Nel decennio successivo il movimento migratorio continua: la popolazione passa infatti da 1.206.000 abitanti a 1.163.000 nel 1971, con una diminuzione complessiva di 42.932 unità e una diminuzione annua della popolazione, nell’arco di un ventennio, del 3%. Cfr. E. Giancristofaro, Cara moglia…Lettere a casa di emigranti abruzzesi, Lanciano, Editrice Rocco Carabba, 1984, p. 44; A. Aiardi, L’emigrazione in Abruzzo con particolare riguardo a Teramo e alla politica meridionale, in “Notizie dell’economia teramana”, anno XXVIII, n. 1 - 2- 3, gennaio - febbraio - marzo 1974, pp. 11 - 13. Inoltre, G. Bolino, La “spopolazione” dell’Abruzzo. Aspetti sociologici dell’emigrazione regionale, Lanciano, Editrice Itinerari 1973.

481 A. Martellini, L’emigrazione transoceanica fra gli anni quaranta e sessanta, in P. Bevilacqua, A. De Clementi, E. Franzina (a cura di), Storia dell’emigrazione italiana, Partenze, Roma, Donzelli, 2001, pp. 373 - 4. G. Rosoli, Le popolazioni di origine italiana oltreoceano, in “AltreItalie”, n. 2, a. I, novembre 1989, p. 15.

482 Id., p. 16. Nel 1971 c’erano 730.820 canadesi di origine italiana in Canada: 160 mila italiani “etnici” vivevano a Montreal e 271.755 a Toronto. Cfr., J.E. Zucchi, La presenza italiana in Canada, 1840 - 1990, in “AltreItalie”, luglio - dicembre 1992, n. 8, p. 29.

483 Le descrizioni delle immagini che seguono, ove non specificato, sono tratte dal medesimo fondo, composto da una miscellanea di filmati ambientati a Montreal e realizzati fra il 1968 e la metà degli anni ’70.

484 John W. Briggs, ad esempio, parla di un ruolo “attivo” svolto dagli immigrati italiani negli Stati Uniti, che lungi dall’essere completamente assimilati dalla società d’origine, hanno portato in quella di accoglienza elementi che sono diventati punto d’incontro fra la cultura di partenza e quella di arrivo. Cfr., J.W. Briggs, An Italian Passage. Immigrants to Three American Cities, 1890 - 1930, New Haven and London, Yale U.P., 1978, pp. 272 - 78.

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Il risultato - derivante dalla compresenza di queste due dimensioni - è l’insorgenza di un’identità “italo canadese”: un processo che i filmati documentano in vari modi, mostrandoci come l’emigrazione sia un «cambiare-lasciare e contemporaneamente un cambiare-prendere, cambiare per inserirsi, pena l’emarginazione e l’esclusione sociale»485. Il lavoro gioca un ruolo importante per integrarsi nel paese straniero ed è proprio a partire dal mondo del lavoro che gli italiani fanno sentire la loro presenza nella società che li ospita. Nei Super8, ad esempio, sono contenute suggestive riprese effettuate proprio sui luoghi del lavoro quotidiano della famiglia Scarpone: il marito impiegato come muratore in un cantiere edile, la moglie come inserviente all’interno di una mensa. L’obiettivo amatoriale dedica lunghe sequenze alle attività dei due coniugi: dapprima ci porta all’interno di una cucina dove la signora, insieme ad altre colleghe, si mostra sorridente alla cinepresa fra una mansione e l’altra. La presenza della cinepresa non sembra turbare la normale attività: le donne sbucciano patate, puliscono macchinari, preparano vassoi di cibo da servire ai tavoli; solo alla fine dedicano qualche minuto alla “presenza esterna” facendosi ritrarre in pose spiritose. In un secondo filmato, invece, l’ambientazione cambia e la cinepresa si sposta all’esterno della città, per seguire il marito nel cantiere edile in cui lavora, mentre spala e trasporta materiali di scarto, o mentre impasta il cemento ammiccando all’obbiettivo486. Sono filmati abbastanza inediti perché raramente negli autoritratti degli emigranti si trovano immagini dedicate al lavoro: prevalgono semmai rappresentazioni che «attestano la “fortuna”, o comunque il miglioramento del proprio status economico, e quelle che rappresentano l’unità familiare»487. In realtà la loro realizzazione - e la scelta di inserirli nell’album dei ricordi della vita in Canada - è coerente con la funzione fondamentale svolta dal lavoro nell’esistenza degli emigranti: un momento centrale di integrazione nella vita industriale di Montreal, un momento che segna effettivamente l’inizio del processo di assimilazione. Un’opportunità di socializzazione, ma anche e soprattutto un’occasione per celebrare il “riscatto” rispetto a coloro che sono rimasti in Abruzzo. Ciò vale, allo stesso modo, per le immigrate italiane: proiettate dai lavori domestici (svolti in Italia) a quelli extradomestici, esse hanno la possibilità di emanciparsi dai ruoli a loro tradizionalmente assegnati, svolgendo attività che contribuiscono a migliorare le condizioni economiche delle loro famiglie. Questa opportunità - proprio perché inedita - tende ad essere certificata dall’obbiettivo amatoriale488.

Sull’oscillazione degli emigranti fra assimilazione ed etnicità si rimanda inoltre al saggio di C. Brusa, Gli Italiani negli Stati Uniti: fra “assimilazione” e “etnicità”, pp. 519 - 534.

485 M.A. Lucariello, Identità, cambiamento e nostalgia nell’emigrante, in Appunti di viaggio, cit., p.212. 486 Gli studi dedicati al tema del lavoro degli emigrati confermano che gli occupati italo canadesi si concentrano soprattutto nel settore manifatturiero,

delle costruzioni e del commercio al minuto; gli uomini, in particolare, entrano in massa nell’industria edilizia degli anni cinquanta, come lavoratori semi specializzati e non specializzati. Si calcola che a Toronto, 15.560 italiani vennero impiegati nell’edilizia: ciò rappresentava un terzo dell’intera forza lavoro del settore; nell’edilizia residenziale essi costituivano l’85% dei lavoratori della città. Secondo dati del Ministero degli affari estero italiano disponibili per il 1982, inoltre, gli operai specializzati italiani in Canada rappresentavano il 47,7% della popolazione. Le donne, invece, trovano posti come inservienti o lavoratrici a domicilio. Per tutto il XX secolo, in particolare, Toronto e Montreal hanno offerto alla manodopera femminile occupazioni all’interno dell’industria tessile e dell’abbigliamento e in altri settori “cosiddetti leggeri” della loro economia. Dati tratti da: J.E. Zucchi, La presenza italiana in Canada, cit., p. 31; F. Iacovetta, Scrivere le donne nella storia dell’immigrazione: il caso italo - canadese, in “AltreItalie”, n. 9, gennaio - giugno 1993, p. 11; P. Bacchetta, Le comunità italiane all’estero, cit., p. 178; G. Rosoli, Le popolazioni di origine italiana, cit., pp. 16 - 17. F. Colantonio, Nei cantieri di Toronto, Isernia, Ioannone, 2000.

487 P. Corti, Percorsi familiari e grande emigrazione transoceanica, in L’Italia del Novecento, cit., pp. 256 - 57.488 Spesso alle italiane, ma anche alle altre immigrate, mancava la conoscenza dell’inglese e dunque venivano impiegate come manodopera per lavori

a bassa o nulla specializzazione nell’industria e nei servizi domestici. Nel 1961, circa il 57% delle più di 32 mila lavoratrici italiane erano impiegate nelle manifatture. Molte di loro si trovavano nelle industrie dell’abbigliamento, dei cibi e delle bevande. F. Iacovetta, Scrivere le donne, cit., pp. 11 - 14. Sul ruolo svolto dalle donne nel favorire l’integrazione nelle nuove società si veda anche F. Alberoni - G. Baglioni, L’integrazione dell’immigrato nella società industriale, Bologna, Il Mulino, 1965, p. 277.

Accanto alla quotidianità lavorativa, i filmati della famiglia Scarpone testimoniano anche il passaggio da uno status all’altro, da una società arcaica ad una moderna, attraverso le riprese dedicate alla loro abitazione, una costruzione in stile tipicamente americano situata in un’area urbana. All’interno di essa iniziano a materializzarsi i primi segni di un benessere raggiunto grazie soprattutto al lavoro489. La cinepresa ci fa spesso intravedere fugaci vedute esterne della casa americana, quasi per documentare concretamente la condizione di relativo benessere vissuta dalla famiglia. Alcuni filmati sono riservati a lunghe panoramiche del quartiere, perché «è stato lì, in quel quartiere che (la famiglia) ha sentito forte la tentazione di aprirsi a nuovi modi di pensare e di agire, che ha visto più o meno lentamente consolidarsi nuove abitudini e ritmi di vita»490. Altri filmati, invece, si soffermano con maggiore attenzione sui particolari interni del nuovo spazio abitativo, come accade in quegli stessi anni nelle riprese effettuate dai connazionali rimasti in Abruzzo. E così i primi passi della figlia costituiscono per il cineamatore un buon pretesto per introdurre la cinepresa fra le mura domestiche, nel corridoio d’ingresso, dove la bambina sgambetta con passi incerti accompagnata dalle immagini in bianco e nero della tv accesa. Oppure in camera da letto per riprendere la piccola, vestita come una bambola, in posa sul letto matrimoniale. Altre volte sono le ricorrenze più tradizionali, come la Pasqua o il Natale, ad offrire all’emigrante la possibilità di concentrare l’obbiettivo della cinepresa sugli oggetti del benessere che arricchiscono la sua abitazione. Il pranzo consumato nel “salotto di parata” - oltre a confermare il clichè iconografico della grande famiglia felice attorno al tavolo imbandito491 - si trasforma anche in contorno conviviale dei ninnoli in argento esposti in ordine sparso sui vari mobili che arredano la stanza. Manifestazioni diverse di un riscatto sociale finalmente raggiunto, ma anche dell’introduzione, all’interno della comunità degli emigranti, di valori «come quello estetico del “bello” che, ovviamente, non aveva spazio nell’universo tradizionale contadino, dominato dalla ricerca dell’essenziale e del pratico utilizzabile». I filmati, in questo modo, sembrano restituire anche un riflesso stemperato dei nuovi modelli di vita e di consumo, all’insegna della modernità e dell’agiatezza, che si affermano fra gli emigranti. «Nelle “case degli americani” non mancava mai il salotto di parata che serviva a “far figurare” chi la possedeva e ad inserirlo in un minuzioso organigramma di rango e di gradi. Questo ambiente (...) traboccava di colonnine di legno con vasi di piante sempreverdi, di arazzi con scene tratte dalle più celebri opere liriche, di specchiere nella cui cornice venivano infilate cartoline illustrate con grattacieli, ponti, transatlantici»492.Continuando a scorrere i filmati degli Scarpone, inoltre, è possibile rendersi conto di come spesso l’emigrazione, oltre a comportare l’acquisizione di nuovi stili di vita, abbia funzionato anche da «supporto della tradizione, perché della modernizzazione si accettano solo la vernice, gli oggetti materiali, le manifestazioni esteriori, ma si conserva immutato l’impianto culturale»493. Gli italo - canadesi, in tal senso, sembrano mantenere un forte senso della propria identità rispetto ad

489 Alcuni dati confermano la “vocazione urbana” della comunità italo - canadese: il 95% degli italocanadesi, infatti, vive in aree urbane e il 74% risiede in centri di oltre 50 mila abitanti (contro il 41% della popolazione canadese). Cfr., G. Rosoli, Le popolazioni, cit., p. 16. Il censimento del 1980 conferma il carattere prevalentemente urbano della migrazione italiana: a quella data, l’88,2% degli italoamericani vive nelle Standard Metropolitan Areas. Cfr., P. Gastaldo, Gli Americani di origine italiana: chi sono, dove sono, quanti sono, in Aa. Vv., Euroamericani, Torino, 1987, p. 157.

490 F.P. Cerase, L’onda di ritorno: i rimpatri, in Storia dell’emigrazione italiana, vol. II, Ritorni, cit., p. 119.491 J. Pivato, La famiglia smembrata nella letteratura e nella filmografia italo - canadese, in “AltreItalie”, n. 14, gennaio - dicembre 1996, p. 20.492 P. Silveri (a cura di), L’Americ’annalla’. Microstorie di un paese d’Abruzzo, Chieti, Vecchio Faggio Editore, 1989, pp. 17 - 18. 493 E. Giancristofaro, Cara moglia, cit., p. 18.

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altri gruppi etnici, ispirando la propria socializzazione familiare ad abitudini, valori e norme di origine italiana494. Le tradizioni e le suggestioni culturali dei luoghi di appartenenza vengono riproposte dagli emigranti sotto forme diverse sia in quegli stessi spazi abitativi arredati secondo il gusto americano, sia nella convivialità, nelle feste e nella vita di tutti i giorni. La famiglia Scarpone, ad esempio, tenta di mantenere vivo il legame con il mondo che si è lasciato alle spalle portando nella casa moderna di Montreal oggetti che gli testimoniano il passato da cui proviene, come la caffettiera napoletana appoggiata sopra il fornello della cucina. La stessa religiosità trova nelle abitazioni degli emigranti una rappresentazione particolare: la ripresa prolungata di un’immagine del patrono dell’Abruzzo, San Gabriele, appesa al muro della cucina pare racchiudere in sé un significato profondo che si lega al nuovo ruolo assegnato alla religione dalle famiglie emigrate. Non più inserita in una dimensione sacrale, ma in una dimensione identitaria; una religiosità, dunque, «essenzialmente formalistica, recepita per l’ereditarietà della tradizione» e riproposta più per riaffermare una precisa identità, all’interno di una società sostanzialmente estranea, che per fervore cattolico495.Altre volte, non sono gli oggetti a ricondurre la famiglia alla sua originaria etnicità, ma alcune forme della vita sociale riprodotte nel nuovo ambiente. «Il contadino italiano (...) si sentiva sollevato quando poteva ritrovarsi fra italiani del suo stesso paese e fra questi poteva riprodurre alcune forme di vita sociale, rapporti di vicinato, funerali, feste che la nuova società non gli offriva»496. Non stupiscono, in questo senso, le riprese di un pranzo in famiglia consumato insieme ad altri amici abruzzesi sulle note di una fisarmonica; o quelle più spiritose di un’anziana donna che, nell’atto di coprirsi il capo con un fazzoletto scuro, pare voglia richiamare alla mente il tradizionale abbigliamento che ancora caratterizza, in quegli stessi anni, molte donne abruzzesi che vivono nei paesi dell’entroterra.In altri filmati, la famiglia Scarpone è in compagnia di amici di origine italiana, con i quali trascorre momenti di svago, festa o divertimento: nelle diverse occasioni, i vari presenti si offrono sorridenti alla cinepresa abbracciandosi l’uno con l’altro. Un modo ulteriore per rinforzare il senso di identità «che viene ricercato spontaneamente e che si consolida attraverso l’altro simile a sé, a partire dalla configurazione fisica, colore della pelle», poichè «il gruppo dei connazionali consente un consolidamento identitario in un momento di crisi di identità o di minaccia all’identità»497. Osservando questi filmati con uno sguardo più attento, tuttavia, è possibile comprendere anche come le reti familiari e parentali attivate dagli emigranti nei paesi di accoglienza si configurino in realtà non solo come un retaggio delle tradizionali società locali lasciate in Italia, ma anche come «il risultato di

494 C. Gorlier, La memoria e l’emigrazione: le ricerche della Fondazione Giovanni Agnelli negli Stati Uniti e in Canada, in “AltreItalie”, pp. 11 - 17.495 M. Sanfilippo, Emigrazione italiana: il dibattito storiografico nel nuovo millennio, in “Studi Emigrazione”, XXX, n. 150, 2003, pp. 394 - 395; G. Bolino,

La “spopolazione” dell’Abruzzo, cit., pp. 67 - 68; G. Rosoli, Chiesa ed emigrazione meridionale, in G. Crainz (a cura di), L’emigrazione abruzzese e molisana (secoli XIX e XX), in “Trimestre”, 1994, pp. 569 - 570; Id., Devozioni popolari e tradizioni religiose degli emigrati italiani oltreoceano, in Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, La preghiera del marinaio. La fede e il mare nei segni della Chiesa e nelle tradizioni marinare, Roma, 1992, pp. 872 - 888; A. Grumelli, Il comportamento religioso degli immigrati, in Sociologia del cattolicesimo, Roma, Ave, 1965.

496 F. Alberoni - G. Baglioni, L’integrazione dell’immigrato, cit., pp. 20 - 21. Inoltre, O. Handlin, Gli sradicati, Milano, Comunità, 1958; L.F. Pisani, The Italian in America, New York, Exposition Press, 1957.

497 M.A., Lucariello, Identità, cit., pp. 200 - 201.

un continuo processo di trasformazione e di rielaborazione dei ruoli, delle gerarchie domestiche, dei rapporti generazionali» all’interno dello stesso istituto familiare498. A dominare in tali auto rappresentazioni, quindi, non sono soltanto gli elementi di continuità, ma anche i lenti e impercettibili mutamenti dei comportamenti che sfociano nell’adozione di modelli identitari ibridi, tipicamente italo - canadesi. Gli incontri e le mescolanze fra vecchie e nuove culture si possono cogliere in modo particolare nelle immagini delle celebrazioni, ma anche in quelle della quotidianità dove, sotto la superficie dell’apparente ordinarietà, prendono forma i cambiamenti dei ruoli familiari, dei rapporti di genere e delle identità. Scambi e mutamenti in atto si nascondono, ad esempio, fra le riprese di un matrimonio celebrato a metà fra lo stile italiano e quello americano. In una prima sequenza, la sposa si offre all’obbiettivo della cinepresa insieme a quattro damigelle vestite tutte uguali, ricalcando in questo modo «le movenze dei riti matrimoniali delle massificate società urbane di arrivo»499. Nella sequenza successiva, invece, la giovane donna compie un atto che rimanda direttamente alla ritualità delle tradizioni paesane italiane: taglia con le forbici il nastro bianco sulla soglia di casa, sotto lo sguardo compiaciuto e un po’ incuriosito di parenti ed amici. Per un attimo Abruzzo e Canada si sovrappongono l’uno sull’altro e la linea di confine che separa culture di partenza e culture di accoglienza si fa più sottile e sfumata.In un secondo filmato realizzato in occasione di un barbecue in giardino, il cineamatore si sofferma, al contrario, sui cambiamenti degli stili di vita che coinvolgono i diversi membri della famiglia: i figli, ritratti in atteggiamenti di scherzosa irriverenza nei confronti dei genitori; la moglie, in calzoncini corti, che con disinibita semplicità afferma davanti all’obbiettivo la sua nuova identità di donna emancipata e apparentemente integrata nella nuova realtà. In queste immagini, quindi, la socializzazione familiare “tradizionale” e quella “moderna” proposta dalla società americana sembrano quasi integrarsi, evocando due tesi storiografiche. Da un lato, quella secondo cui al «cambiamento fisico, oggettivo (degli emigrati) corrisponde, con tempi diversificati, il cambiamento soggettivo, interiore, talvolta del tutto inconscio, cambiamento - ridefinizione dell’identità (...) che sollecita fortemente le funzioni psichiche coinvolgendo fluttuazioni nella memoria»500. Da un altro, quella per cui «gli italiani apparentemente “divennero italiani” mentre “diventavano americani”: in questo caso, gli immigrati separarono nettamente la loro lealtà culturale nei confronti di famiglia, regione d’origine e Italia dalla loro lealtà civica, nazionale e politica in quanto cittadini del paese ricevente (...) In tal modo, per molti italiani la doppia appartenenza costituiva più una regola che l’eccezione»501.

498 Per un bilancio sulle posizioni storiografiche su questi temi si rimanda a M. Sanfilippo, Problemi di storiografia dell’emigrazione italiana, Viterbo, Sette città, 2005.

499 P. Corti, Percorsi familiari, cit., p. 278.500 M.A., Lucariello, Identità, cit., p. 212; L. e R. Grinberg, Identità e cambiamento, Roma, Armando, 1976, p. 93.501 D. Gabaccia, Per una storia italiana dell’emigrazione in “AltreItalie”, n. 16, luglio - dicembre 1997, p. 10. L’autrice, inoltre, sottolinea come ricerche

recenti suggeriscano che il processo di unione del paese di residenza con quello di origine compiuto dagli emigranti rifletta in qualche modo la dinamica razzista di un mondo anglofono riluttante in prima istanza ad accettare gli italiani come candidati “bianchi” alla cittadinanza, p. 13.

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7. Le vIsIte

I Super8 realizzati in Canada possono caricarsi di valenze diverse quando dietro l’obiettivo della cinepresa c’è lo sguardo di coloro che vanno all’estero a trovare amici e parenti da tempo emigrati. In questo modo, esse ci mostrano come sia possibile guardare al mondo dell’emigrazione anche da una prospettiva differente, in grado di svelare racconti che non tengano conto unicamente della dimensione degli espatriati. È il caso di Vincenzo Renzi che, oltre a filmare l’Abruzzo degli anni Sessanta e Settanta, dedica un discreto numero di pellicole all’“Abruzzo in Canada”, cioè ai numerosi amici e parenti stabilitisi a Toronto con le loro famiglie. Fra la fine degli anni ’60 e la metà degli anni ’70, Renzi compie svariati “viaggi turistici” nel nuovo continente, portando con sé la cinepresa per consegnare ai ricordi non solo i ricongiungimenti con i conterranei, ma anche la scoperta di un mondo e di una realtà diversi da quelli fino ad allora conosciuti in Italia502. A dominare in molti filmati, infatti, è lo sguardo turistico; uno sguardo minuzioso che va alla ricerca di tutto ciò che caratterizza il nuovo ambiente e che allo stesso tempo si carica di curiosità quando si sofferma sui costumi diversi che osserva casualmente in giro per la città.Non possono mancare, quindi, le riprese del castello di Toronto, «uno dei monumenti più caratteristici» - come specifica il commento sonoro - a cui Renzi dedica una «minuta ripresa da tutte le angolazioni», ma anche le vedute su una città molto diversa, «disseminata di aiuole e intersecata da vie ampie e sicure». In seguito, la cinepresa segue la comitiva di parenti ed amici che accompagna Renzi «verso le cascate del Niagara, luogo obbligato come prima meta dei turisti in Canada», riservando nell’«abbondante ripresa panoramica lungo la via», un’attenzione particolare per gli elementi più caratteristici che compongono i luoghi, ad esempio i grattacieli. La consonanza culturale del cineamatore ai principi di un’identità spiccatamente europea - che si richiama idealmente alle tradizioni architettoniche italiane - sembra riaffiorare anche nell’impatto con queste costruzioni, come quella del «nuovo mastodontico palazzo comunale di Toronto, che non rispetta l’arte dei tempi passati, ma pone di fronte allo spettatore - come sottolinea ancora il commento - la fredda, nuda, scheletrica grandiosità della tecnica moderna». La necessità di rintracciare in un luogo apparentemente estraneo radici comuni fra italiani e americani è invece presente nel filmato dedicato alla visita nel “Villaggio dei pionieri” di Black Creek, un sito ricostruito appositamente per i turisti. Il commento enfatizza il significato delle immagini sottolineando la presenza nel villaggio di «tutti gli antichi attrezzi che servirono a dissodare la terra e a costruire le capanne. In questo piccolo villaggio tutto è rimasto come fu costruito da quelli che vennero dalla lontana Europa nel nuovo mondo in cerca di fortuna». La visita all’isola di Long Island, inoltre, fornisce a Renzi l’opportunità di soffermarsi con sguardo malizioso sui costumi diversi delle donne canadesi, sorprese in bikini a prendere il sole in un parco. Tuttavia, a dominare principalmente nei filmati di Renzi, è la ricerca dell’“Abruzzo in Canada”503, cioè la tendenza a ricostruire anche all’estero - nelle riprese delle visite ai parenti e agli amici - gruppi di eguali in cui riconoscersi ed identificarsi. Quasi un tentativo inconscio di consolidare e stabilizzare l’identità

502 La descrizione di tutte le immagini che seguono, ove non specificato, è tratta dal medesimo fondo (Vhs 1, 2, 3).503 Come recita la didascalia che apre uno dei filmati.

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culturale degli amici emigrati rappresentando proprio quei luoghi e quelle forme di socializzazione in cui essi hanno riprodotto una “piccola Italia”, certo inventata, ma meno ostile di quella che li ha spinti a partire. La cinepresa amatoriale documenta come le comunità degli emigrati in Canada tendano tra loro a costituirsi in doppi dei paesi d’origine504, a partire dalla riproduzione, nelle case dei quartieri residenziali, degli “orti” lasciati in Italia e nei quali le famiglie continuano ad allevare animali e a coltivare verdure. Ospite nell’abitazione di alcuni parenti, ad esempio, Renzi non esita a dedicare lunghe riprese ai compaesani che lavorano nell’orto, raccogliendo insalate e biete, come fossero in un contesto agreste. A riportarci in Canada sono sequenze successive in cui si scorgono auto americane parcheggiate sul ciglio della strada prospiciente l’abitazione. Un altro pezzo di campagna abruzzese trapiantato in Canada si ritrova in un filmato successivo realizzato in occasione della visita ad alcuni amici che abitano a Richmond Hill in una casa - come spiega il commento sonoro - «con duemila metri di terreno, dove la signora Filomena può sfogare la sua attività nell’allevamento di molti volatili da forca (...) e curare il suo giardino, mentre nel tempo libero il marito coltiva il suo orto». Ciò a dimostrazione del fatto che «il luogo agisce anche fuori dal luogo. Gli emigrati hanno realizzato una dilatazione del luogo antropologico (...) Il loro nuovo mondo non è banalmente nuovo, ma è anche antico»505.La conservazione delle consuetudini e delle ritualità dei luoghi d’origine è resa possibile dai molteplici reticoli familiari e comunitari creati nel paese d’accoglienza da coloro che sono emigrati. Tali intrecci si scorgono chiaramente nelle numerose riprese effettuate in occasione delle riunioni fra parenti, vecchi amici e nuovi conoscenti chiamati dai quartieri vicini per festeggiare insieme la visita del compaesano venuto dall’Italia. La cinepresa non si fa sfuggire neanche un minuto di queste «incalzanti visite agli amici», scandite da «massime gentilezze e cordialità» da parte di tutti, ma soprattutto da momenti di convivialità incentrati su cibi tipicamente abruzzesi, che rinsaldano i vincoli familiari allentati dalle distanze e rinnovano la continuità con la madrepatria. Ad essere protagonisti non sono soltanto i piatti della tradizione, ma anche la riaffermazione di un orgoglio che i processi di integrazione non hanno cancellato. Le diverse pietanze «genuinamente abruzzesi» - cui la cinepresa dedica sempre lunghe sequenze - sembrano configurare il desiderio di aggrapparsi a un patrimonio di consuetudini e conoscenze che non si vuole abbandonare; si trasformano in anelli di congiunzione tra passato e presente, per far tornare in primo piano un universo che si è andato scolorendo nel tempo. La stessa consumazione di questi cibi ha i caratteri del recupero e del ricordo: recupero dei tratti distintivi dell’ “essere italiani”, ricordo dei luoghi d’origine. D’altronde, «il fenomeno di affermazione-invenzione di identità etnica attraverso il cibo si attua soprattutto a partire dagli anni sessanta quando gli emigrati hanno finalmente accesso in maniera continuata a nuovi beni di consumo e quando abitano una loro casa acquistata a costo di duri sacrifici»506. In questo senso, «la cucina (...) si presenta come canale perfetto per questa riconquista. Il ricordo dei

504 V. Teti, Emigrazione, alimentazione, culture popolari, in Storia dell’emigrazione italiana, cit., p. 592.505 Id., Il senso dei luoghi, cit., p. 20.506 Id., p. 592.

sapori e degli odori è, ovviamente, uno strumento di recupero della storia personale. (...) e nel cibo il gruppo ritrova la sua identità in un rito perpetuamente rinnovabile»507. L’identità ritrovata dal gruppo attraverso il cibo sembra materializzarsi nelle riprese in cui si scorgono i diversi convitati mostrare i frutti-simbolo dell’appartenenza italiana: i fichi e l’uva, portati da Renzi direttamente dall’Italia. L’atto di consumare questi alimenti con i parenti stretti e con gli amici intimi sembra caricarsi in Canada di una dimensione quasi sacrale e religiosa. «“Abbiamo piantato tutto, prodotto tutto, siamo riusciti a fare sottoli, sottaceti, salami, verdure, frutta, abbiamo costruito case, ponti, grattacieli (...) ma non abbiamo potuto far crescere il fico”, sembrano dire gli emigrati. (...) E questa mancanza diventa elemento di orgoglio, di una sorta di senso di superiorità e, paradossalmente, di una spinta all’invenzione e all’integrazione, all’ibridazione, agli scambi»508. Il recupero delle proprie radici attraverso il cibo, infatti, sembra andare di pari passo con l’adattamento alle forme culinarie del nuovo contesto, a dimostrazione del fatto che «americanizzazione e difesa della tradizione non sono termini contraddittori, ma tendenze che si alimentano a vicenda, due aspetti complementari di un’identità culinaria che si rinnova a ogni generazione ma che si immagina radicata in un passato immemorabile»509. Il consumo di carne da parte degli emigrati, in tal senso, rientra tra le abitudini culinarie della società di accoglienza e tra gli aspetti documentati dell’esperienza migratoria. Anche l’obbiettivo di Renzi, allora, «non può mancare di riprendere - come spiega il commento sonoro - le famose bisteccone canadesi alla graticola che si stanno cuocendo per la cena» e che hanno raccolto «attorno tutti i membri della famiglia».A rafforzare questi concetti sono i filmati sulla Little Italy, definita dallo stesso Renzi come «una nota caratteristica e consolante per gli italiani qui numerosissimi, un pezzettino della nostra patria trapiantato in Toronto». La cinepresa si sofferma quasi con orgoglio sulle riprese del quartiere completamente italiano situato nella bassa città, concentrandosi sulle insegne di alcuni bar, ristoranti e spacci dai nomi inequivocabilmente italiani. A dominare, in queste auto rappresentazioni, è chiaramente un Italia artificiosa e fittizia, una sorta di estensione e di dilatazione del paese d’origine fra le strade di Toronto; un’ambientazione ricostruita per connotare etnicamente un quartiere della metropoli che ha perso la sua originaria “spontaneità”, ma anche i suoi caratteri più popolari e paesani510.Nonostante ciò è proprio nella finzione delle Little Italies che «i vecchi “mores” si conservano vitali

507 P. Ortoleva, La tradizione e l’abbondanza. Riflessioni sulla cucina degli italiani d’America, in “AltreItalie”, n. 7, gennaio - giugno, 1992, p. 33. Inoltre, G. Padovani, Il cibo come simbolo culturale. Uso simbolico del cibo, in E. Di Nallo (a cura di), Cibi simbolo nella realtà d’oggi, Milano, Angeli, 1986, pp. 42 - 43. Sul legame cibo - identità si rimanda anche a: J.M. Powers (a cura di), Buon appetito. Italian Foodways in Ontario, Toronto, the Ontario Historical Society, 2000; L. Pennacchio, Italian - Immigrant Foodways in Post - Second War Toronto, “AltreItalie” 24, 2002; D.R. Paolini, T. Seppilli, A. Sorbini, Migrazioni e culture alimentari, Foligno, Editoriale Umbra, 2002; G. Losacco, Wop o mangiacake. Consumi e identità etnica: la negoziazione dell’italianità a Toronto, Milano, Angeli, 2003.

508 V. Teti, Emigrazione, cit., pp. 596 - 597.509 P. Ortoleva, La tradizione e l’abbondanza, cit., pp. 50 - 51.510 All’inizio, nei primi del Novecento, le Little Italies costituivano degli spazi urbani in cui si concentravano la maggior parte degli emigrati italiani e in

cui si viveva in condizioni gravemente precarie sia dal punto di vista della densità e dell’igiene residenziali, che da quello dell’ordine pubblico e delle condizioni economiche degli abitanti. Solo con il passare degli anni - anche in seguito all’aumento dei redditi degli emigrati - queste agglomerazioni sono scomparse per lasciare spazio ad ambienti dall’atmosfera raffinata, con negozi e ristoranti italiani, che degli insediamenti iniziali hanno mantenuto solo l’originaria denominazione. Cfr., C. Brusa, Gli Italiani negli Stati Uniti, cit., p. 527; D. Tricarico, Il quartiere italiano di Greenwich Village: comparsa ed eclissi di un forum etnico comunitario, pp. 257 - 267; L. Villari, Gli Stati Uniti d’America e l’emigrazione italiana, Milano, Treves, 1912, pp. 211 - 222.

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grazie ad un vero e proprio cordone ombelicale con la società d’origine. Ed è grazie alle Little Italies che l’emigrante riesce a restare un contadino pur facendo parte di una grande metropoli»511.È ambientato all’interno di un’associazione di emigrati abruzzesi lo spettacolo folkloristico in costume ripreso dalla cinepresa di Renzi. Nelle immagini si vedono donne e uomini vestiti negli abiti tradizionali ballare e cantare, accompagnati dagli applausi del numeroso pubblico presente in sala. Lo spettacolo si chiude con i figuranti che portano in parata anfore di rame e bandiere italiane, veicolando l’immagine di un Abruzzo ampiamente immaginario ricostruito per offrire agli emigrati un momento di svago, di socializzazione, ma anche un’occasione per rinnovare la propria identità culturale512. Le radici di quest’ultima, infatti, sembrano emergere proprio nella contrapposizione alla diversità del nuovo mondo.Presi nel loro complesso, dunque, i filmati amatoriali sembrano suggerire che l’emigrazione non costituisce solo il passaggio da un paese all’altro, da una cultura ad un’altra, da una lingua ad un’altra, da una società ad un’altra. Fissato nei dettagli della quotidianità, fra le pieghe minute della vita familiare, il Canada di Renzi appare come una sorta di spazio intermedio, una frontiera fra l’Italia d’oltremare (le associazioni di emigranti), l’Italia autoreferenziale e perduta (il cibo e la riproposizione di tradizioni abruzzesi) e la “piccola Italia” (composta dalle reti parentali ed amicali) che si tenta di innestare nel corpo sconosciuto di un’altra nazione. Tale spazio intermedio si configura quasi come un rifugio, una vera e propria “isola” familiare che si staglia al centro di un territorio che per molti - sebbene gli sforzi d’integrazione - continua ad essere recepito come estraneo.

511 F. Alberoni - G. Baglioni, cit., p. 281.512 M. Colucci, L’associazionismo di emigrazione nell’Italia repubblicana, in Storia dell’emigrazione italiana, cit., pp. 415 - 427.

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513 Tutte le descrizioni delle immagini, ove non specificato, sono tratte dal medesimo fondo: Famiglia Fumo, parte prima (Vhs), 1947.514 J. Pivato, La famiglia smembrata, cit., p. 25.

8. I rIentrI

Non di rado, naturalmente, gli emigranti decidono di rientrare per brevi soggiorni nei luoghi d’origine, nei paesi abbandonati anni dietro.Un caso particolare è quello di un abruzzese originario di Mosciano Sant’Angelo che, nell’immediato dopoguerra, dopo anni trascorsi in America, avverte il desiderio di tornare nel suo borgo di campagna per trascorrere con la sua famiglia una vacanza fra i luoghi che hanno segnato la sua giovinezza513. Il suo ritorno, per quanto acuito dalla nostalgia, appare quasi essere regolato dal rapporto fra posizioni acquisite all’estero e condizioni rifiutate in Abruzzo. Fin dalle prime immagini, infatti, si intuiscono la fortuna e il prestigio conquistati dall’uomo che, in abiti eleganti e di buona fattura, ripercorre a bordo di una lussuosa auto americana, le strade del borgo agricolo. La vita del luogo è immersa nell’arretratezza e domina l’indigenza diffusa.Del suo ritorno in Abruzzo l’emigrante costruisce una vera e propria cronaca filmata, affidando ad un professionista il compito di realizzare per lui le riprese del soggiorno italiano. A svelare questo particolare concorrono diversi elementi: primo fra tutti l’ottima qualità delle riprese, opera di una mano evidentemente “esperta”; talora si intuisce quasi un vero e proprio “ciak” dato dal regista all’inizio di alcuni filmati . Il racconto di Fumo si snoda fra ambientazioni diverse: dapprima a Roma, tappa di visita intermedia prima di arrivare in Abruzzo: l’uomo si fa ritrarre in posa davanti ad alcuni monumenti - simbolo della città. Con l’arrivo a Mosciano, lo sguardo della cinepresa pare trasformarsi: nelle ripetute panoramiche delle colline, del cartello con il nome del paese, della piazza affollata di volti vecchi e nuovi sembrano scorgersi i tentativi di tornare a un passato dimenticato e a tradizioni desuete. Le lunghe sequenze degli abitanti impegnati nei mestieri artigianali sembrano svelare la “nostalgia” per una vita paesana idealizzata, fatta di innocenza e di semplicità. A ricordare «la povertà dimenticata, le famiglie divise, la struttura di classe e la politica»514 sono sequenze successive che ritraggono la miseria degli abitanti, fatta di stracci e piedi scalzi, sulle quali l’emigrante si fissa con uno sguardo quasi “straniero” che tradisce il suo disorientamento, la sua curiosità e una sorta di rimozione della miseria compiuta negli di assenza.Lo sguardo si trasforma ulteriormente nelle riprese delle affollate processioni religiose, come quella del Venerdì Santo, in cui l’obbiettivo amatoriale si fissa più sui volti delle persone che animano la sacra rappresentazione che sull’evento in sé. A dominare è il tentativo di tornare alle radici della propria infanzia, inscritte nei visi di coloro che sono rimasti in paese a perpetuare l’immutabilità delle tradizioni. La necessità di ritrovare gli affetti più cari è presente, inoltre, nella visita al cimitero. Raccolto in preghiera davanti alla cappella di famiglia, il protagonista recupera simbolicamente l’antico assetto identitario che l’impatto con la realtà americana non ha cancellato.Ma se la cinepresa è in grado di restituirci le continuità che uniscono chi è partito ai luoghi che ha lasciato, la diversa percezione maturata negli anni di assenza nei confronti del paese che è stato abbandonato, può anche fissare le differenze che connotano il nuovo status degli “americani” e che distaccano i “ritornati” da coloro che sono rimasti.

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515 V. Teti, Emigrazione, cit., p. 577.

Le riprese amatoriali, in questo senso, sembrano cristallizzare tale distanza e sono proprio le mutazioni culturali degli emigranti a sollevare un interrogativo: quanto lo sguardo di chi rientra è uno sguardo di appartenenza e quanto di distacco? Probabilmente una risposta si può trovare solo adottando una prospettiva diversa nei confronti del fenomeno migratorio; una prospettiva che non si appiattisca sulle categorie della “conservazione e della “rottura”, ma che spazi dall’una all’altra con una maggiore flessibilità. In tal modo, i filmati amatoriali, nei loro racconti soggettivi ed episodici, sembrano far emergere la possibilità di superare tale dicotomia, mostrando come in realtà «nel fenomeno migratorio continuità e mutamento, tradizione e innovazione, conservazione e trasformazione convivono, coesistono, s’incontrano e concorrono alla costruzione di un “ordine nuovo” rispetto a quello di origine, che comunque, reale o immaginario, vero o inventato, resta un ineludibile punto di riferimento e di “ritorno”»515.

Appendicee Bibliograf ai

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I prodotti dell’Archivio Audiovisivo della memoria Abruzzese

(una parte di questi materiali si può vedere sul sito:www.unite.it/UniTE/Engine/RAServePG.php/P/39071UTE0610. Ulteriori informazioni e approfondimenti sull’attività dell’Archivio si trovano in:www.filmfamiliari.bogspot.com)

Appuntiperunarchiviodeifilmfamiliari

Anno: 2005 durata: 10 minuti circaregia: Andrea Sangiovanniricerche: Annacarla Valeriano

Montaggio di immagini realizzato per spiegare le finalità e le possibilità di una raccolta dei film familiari. Alle immagini private si intrecciano quelle di alcuni filmati dell’Istituto Luce, a dimostrazione delle opportunità che i film familiari offrono di raccontare l’Abruzzo in modo diverso.

Sguardiincrociati

Anno: 2007genere: video saggio durata: 13 minuti circaregia: Andrea Sangiovanniricerche: Annacarla Valeriano

Racconta le storie di emigranti fra Abruzzo e Canada tra anni ’60 e ’70. Riflette su uno dei periodi più importanti della storia della regione intrecciando tre sguardi distinti ma complementari: quelli di coloro che partono e che non torneranno, quelli di coloro che partono solo per andare a trovare i parenti nella terra d’emigrazione, e infine quelli di coloro che tornano. Il video - che è arrivato finalista alla III edizione del concorso video nazionale Memorie migranti del Museo Regionale dell’Emigrazione Pietro Conti di Gualdo Tadino - si sofferma in particolare sulla memoria che gli emigranti conservano della loro terra natia e che spesso la trasforma in un Abruzzo immaginario.

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Cartolineinmovimento

Anno: 2007 durata: 5 minutiregia: Andrea Sangiovanni e Annacarla Valeriano

È un breve montaggio che, con una semplice idea, presenta dei materiali eccezionali, splendide immagini di Teramo collocabili tra la fine degli anni Venti e i primi anni Trenta. Filmati che riprendono alcuni episodi della vita cittadina teramana e che ci mostrano una città inedita perché in movimento. Fino ad ora, infatti, a quanto abbiamo potuto ricostruire, la Teramo dell’inizio del secolo l’avevamo potuta vedere solo in cartolina.Le pellicole, fortunosamente rinvenute e restaurate, sono probabilmente parte di un girato più ampio che è andato perduto e mostrano scorci della città prima delle trasformazioni urbanistiche volute dal fascismo.

All’ombradeltempo.StoriediPoggioUmbricchio

Anno: 2008genere: documentario durata: 14 minuti circaregia: Andrea Sangiovanniricerche: ricerche Annacarla Valerianoproduzione: Fake Factory

È un promo di un documentario più lungo. Anche in questo caso la memoria gioca un ruolo centrale: è la storia del paese di Poggio Umbricchio, ricostruita attraverso i film amatoriali e familiari che un abitante del luogo gira nel corso di una ventina d’anni, spinto da un emigrante che gli regala una cinepresa chiedendogli di riprendere il paese e di mandargli poi i film. Il video, che è stato realizzato con alcuni studenti dell’Università di Teramo, mette in relazione - e talvolta in tensione - le memorie di tre generazioni arrivando a costruire un’unica voce narrante collettiva, quella dell’intera comunità di Poggio Umbricchio.

Lamemoriadelfuturo

Anno: 2009 durata: 4 minuti circaregia: Andrea Sangiovanni

Èstato realizzato nei giorni immediatamente successivi al terremoto del 6 aprile, in partecipe solidarietà con le popolazioni colpite e al tempo stesso per dare corpo alle riflessioni che si andavano sviluppando sulla ricostruzione. Alcune immagini dell’Aquila prima del terremoto, realizzate negli anni ’60, si trasformano in un breve ricordo/omaggio alla città, ma si pongono anche come primo tentativo di stimolare una ripresa a partire da quello che il sisma non ha distrutto e non potrà distruggere, il ricordo di una città e la sua identità.

All’ombradeltempo.StoriediPoggioUmbricchio

Anno: 2009genere: documentario durata: 38 minuti circaregia: Andrea Sangiovanniricerche: ricerche Annacarla Valerianoproduzione: Fake Factory

Realizzato con la preziosa collaborazione di un gruppo di studenti del corso di laurea magistrale in Comunicazione multimediale e giornalistica dell’Università di Teramo, il documentario ci accompagna per 38 minuti attraverso la storia di Poggio Umbricchio, un paese appollaiato su uno sperone roccioso nella fascia pedemontana tra il Gran Sasso e i Monti della Laga. Un paese come tanti altri delle montagne d’Abruzzo, con una storia di lento abbandono se non fosse che qui un abitante, alla fine degli anni Cinquanta, comincia a riprendere i suoi amici e parenti con una cinepresa lasciatagli da un amico emigrato negli Stati Uniti.A partire da quelle immagini, che per una ventina d’anni registrano nascite e morti, giochi e lavori, partenze e ritorni, momenti di festa e solitarie attese, si snoda il filo della memoria di chi ancora vive in paese o vi torna appena può, stretto da un legame tenace che spesso non riesce ad esprimere a parole. I narratori - fondendo i ricordi con le immagini dei loro film familiari -srotolano il filo della propria memoria, dall’infanzia - povera per i più anziani, libera per coloro che erano bambini negli anni dell’immediato dopoguerra - all’emigrazione, vissuta come momento di abbandono doloroso ma necessario, fino al progressivo abbandono del paese. I racconti si intrecciano e si sovrappongono numerosi, in un racconto corale che mescola le diverse generazioni sul filo del “come si viveva”. È una “voce collettiva”, di volta in volta sorridente e malinconica, armonica nel rievocare ricordi comuni e, allo stesso tempo, talora, contraddittoria, con una apparente incoerenza che mette in risalto il suo essere materia viva: così, ad esempio, il ricordo della guerra è terribile e devastante anche se, come racconta uno dei protagonisti, «noi non l’abbiamo vista perché non c’erano la radio e la televisione». La storia del paese diventa, attraverso i racconti dei suoi abitanti e grazie al contrappunto delle immagini, anche un modo per guardare alle vicende nazionali da un’angolazione particolare. A lungo penalizzato da un forte isolamento, dalla mancanza di servizi e infrastrutture, Poggio Umbricchio rinasce infatti grazie all’opera tenace di un parroco a metà anni ’60: fu quello il suo “miracolo economico”, un “miracolo” ritardato rispetto alla storia nazionale che mette in evidenza l’andamento asincrono di uno sviluppo tumultuoso che non coinvolse allo stesso modo centri e periferie. Allora, come suggerisce la sequenza iniziale, accompagnata da una frase di Cesare Pavese tratta da La luna e i falò («un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via, un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c’è qualcosa di tuo») la storia di Poggio Umbricchio è allo stesso tempo unica e universale, vicenda particolare di un borgo con caratteristiche peculiari e metafora del destino toccato a tanti altri paesi montani, non solo abruzzesi. Destino di abbandono, certo, ma anche di recupero e speranza per un futuro di rinascita grazie ad un senso di profonda appartenenza che anima coloro che oggi stanno riqualificando il borgo e che attraverso questa operazione si adoperano per preservare e mantenere viva la memoria dei luoghi.

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1962, 1963, 1964, 1965, 1968) Notizie dell’economia teramana pubblicazione mensile della Camera di Commercio, Industria, Artigianato e Agricoltura di

Teramo (anni: 1966, 1967, 1968, 1969, 1970, 1971, 1972, 1973, 1974, 1975, 1976, 1977, 1978, 1979, 1980)

siti internet

www.aamod.it/famiglielazialiwww.casentino.toscana.it www.cinematheque-bretagne.asso.fr.www.docineurope.org/superottimistiwww.fotofamilia.itwww.memoriav.chwww.museostorico.tn.it. www.osservatorioreggioemilia.org. www.smalfilmmuseum.nl.

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