La via dei misteri · 2019. 5. 28. · La via dei misteri racconti A cavallo del tempo Via...

33

Transcript of La via dei misteri · 2019. 5. 28. · La via dei misteri racconti A cavallo del tempo Via...

  • 1

    La via dei misteri

    racconti

    A cavallo del tempo Via Francigena, dal passato al futuro

    Progetto educativo-didattico per i giovani studenti, volto alla conoscenza del territorio toscano.

    Itinerario Letterario Incontro con la scrittrice Elena Torre

    Lettura del libro Il segreto dei custodi della fede Scrittura di racconti

    Istituto Comprensivo “Leonardo Fibonacci” Pisa Scuola Secondaria

    Autori: IIA

    Coordinamento: Prof.ssa Mariangela Rampulla

  • 2

  • 3

    PREFAZIONE C'è un amuleto dotato di magnifici poteri, chi lo indossa può oltrepassare i muri; ci sono mucchi di cadaveri accatastati in un chiostro; ci sono ladri sul cammino di Santiago. C'è anche Sigerico di ritorno da Roma e il suo prezioso diario tempestato di pietre preziose; ci sono molti soldi che devono giungere fino alla tomba del Santo. Ci sono piante che curano e monaci disposti a tutto e ancora monasteri, ospitali, nuove identità in questa appassionata raccolta di racconti scritta con grande cura dagli studenti della II A dell'Istituto Comprensivo L. Fibonacci di Pisa che capitanati dalla Professoressa Rampulla hanno saputo dare vita a personaggi, eventi e luoghi in un medioevo che si tinge oltre che di sangue anche di nuovo fascino.

    Elena Torre

  • 4

  • 5

    IL CUSTODE DELL’AMULETO Oliver era un ragazzo di 10 anni, molto furbo e coraggioso, aveva i capelli marroni e corti, gli occhi verdi ed era di media statura; lui viveva, insieme alla sua famiglia, in una locanda alla periferia di Strasburgo, in Francia.

    Un giorno, poiché voleva liberarsi dei suoi peccati, decise di intraprendere un viaggio lungo la Via Francigena fino a Roma.

    Ora, ritornato a casa, ha deciso di raccontare le sue avventure, quasi per liberarsi dall’angoscia che ormai lo accompagna. Questo è il suo diario.

    Giovedì,14 novembre 1302, Strasburgo.

    Le 6:30. Pronto per partire! Devo solo salutare la mia famiglia, mi mancherà tantissimo, però devo affrontare questo viaggio da solo.

    Io so di doverlo fare, non posso vivere avendo sulle spalle il rimorso per quei soldi che ho rubato pochi mesi fa a quel poveruomo!

    Iniziai un viaggio lungo e faticoso. Avanzai per molti chilometri fino ad uscire dalla provincia di Strasburgo, fermandomi a pernottare in alloggi di fortuna. Giunsi a Basilea; ero esausto, non credevo fosse così dura e cercai un ospizio.

    Giovedì, 21 novembre 1302, Basilea.

    Dormii per molte ore, poi ripresi il cammino. Volevo portare a termine prima possibile il mio progetto.

    Intorno a me c’erano campagne circondate da alberi spogli e il terreno era sabbioso: sotto ai miei piedi potevo sentire i piccoli granelli di sabbia attaccarsi al tallone.

    Ad un certo punto vidi qualcosa luccicare, mi avvicinai e lo presi.

    Aveva una struttura ottagonale con un ornamento di foglie d’oro disposte a spirale che circondavano una pietra azzurra, probabilmente uno zaffiro: sembrava un oggetto prezioso, un amuleto.

    Me lo misi al collo e continuai a guardarlo per ore e ore.

    Dopo un paio di giorni, mi imbattei in un gruppo di pellegrini. Erano tutti intorno a qualcosa; mi feci strada tra le persone e vidi che era un cadavere.

    Mi raccontarono che l’uomo era stato ucciso quella notte. Erano spaventati e mi consigliarono di unirmi a loro, viaggiare da solo era molto pericoloso. Accettai.

  • 6

    Ci fermammo in un monastero dove passammo la notte.

    Mi stesi sul letto e iniziai a dormire…Un urlo! Mi svegliai. Sentivo il mio cuore esplodere ed ero in un bagno di sudore.

    La porta era socchiusa e guardai attraverso una fessura. Vidi tre uomini vestiti di nero, sembrava che cercassero qualcosa. Avevo paura. Mi rintanai sotto al letto e per tutta la notte non riuscii a prendere sonno.

    La mattina dopo uscii dalla mia stanza e scesi le scale che portavano al cortile. Arrivato lì, non trovai nessuno, quegli uomini dovevano essersene andati, ma provai una sensazione strana.

    Avanzai e davanti ai miei occhi si presentò una scena inquietante: circa 40 corpi esanimi erano ammassati al centro del giardino.

    Cercai immediatamente una via di uscita, ma l’unica che trovai era chiusa a chiave.

    Improvvisamente vidi una luce azzurra provenire dal mio petto, guardai verso il basso e vidi splendere l’amuleto; sulla porta apparvero delle scritte proiettate dalle foglie d'oro.

    Provai a toccare le parole, ma la mia mano, come se fosse immateriale, attraversò la porta. Feci un passo avanti e mi ritrovai fuori dal monastero.

    Continuai il viaggio verso la Lombardia.

    Mercoledì, 15 dicembre 1302, Pavia

    Dopo tanto cammino e dopo tante notti passate all’aperto e al freddo, trovai rifugio in una locanda della città.

    Entrando, vidi una ragazza: aveva dei lunghi capelli biondi raccolti in una treccia e dei lucenti occhi azzurri, non sembrava superarmi né in altezza né in età e si chiamava Angelica.

    Mi presentai e le chiesi se lavorasse lì, lei annuì e mi offrì un posto per dormire.

    Mi affacciai alla finestra e vidi tre sagome nere che si aggiravano nella notte, proprio come quelle del monastero.

    Mentre mangiavo, sentii dei pesanti passi avvicinarsi alla mensa. Una di quelle losche figure gridò:

    “Sto cercando qualcosa di importante per me e so che qualcuno potrà accontentarmi”.

    Presi per mano Angelica e mi diressi verso la parete, azionai l'amuleto e la attraversai.

  • 7

    Subito scappammo con il primo cavallo che trovammo.

    Mentre galoppavamo, le raccontai tutta la mia avventura e dei poteri magici dell'amuleto.

    Continuammo il viaggio.

    Giovedì, 20 dicembre 1302, Passo della Cisa

    Finalmente arrivammo in un ospizio dove passare la notte.

    Io non dormii perché non mi sentivo al sicuro; infatti, mentre ero sdraiato nel letto, vidi da una fessura della porta alcune persone vestite di nero camminare avanti e indietro. Ero immobilizzato dalla paura e non ebbi il coraggio di uscire dalla stanza.

    La mattina, appena mi svegliai, controllai se ci fosse ancora traccia di questa gente, ma non trovai neanche l'ombra.

    Io e Angelica riprendemmo il cavallo e continuammo il viaggio.

    Dopo poco incontrammo alcuni mercanti intenti a trasportare merci, chiedemmo aiuto; loro rifiutarono, ma ci donarono un arco.

    Mercoledì, 23 dicembre 1302, Luni.

    Passarono alcuni giorni.

    Eravamo accampati in una zona vicino a Luni. Mi tenevo l'arco sempre vicino.

    Ad un certo punto sentii dei pezzetti di roccia ruzzolarmi sulla spalla, alzai lo sguardo e vidi uno degli uomini in nero.

    Incoccai una freccia, ma era troppo tardi: il coltello stava già volando verso di me.

    All'improvviso Angelica si tuffò nella mia direzione per proteggermi e in un attimo cadde a terra: un pugnale le spuntava dal petto.

    Scagliai la freccia che raggiunse l’assassino in pieno occhio uccidendolo, così scivolò a terra fino a raggiungere i miei piedi.

    Gli tolsi il cappuccio: sulle guance aveva dei tatuaggi che rappresentavano il Foro Romano.

    Affranto dal dolore, seppellii Angelica per non lasciare nessuna traccia e raggiunsi, insieme al mio cavallo, il luogo indicato dal tatuaggio.

    Prima di partire, presi la mantella nera dell’assassino e me la misi addosso. Avevo molto freddo.

    Martedì, 29 dicembre 1302, Roma.

    Arrivai fino al Foro Romano.

  • 8

    Ad accogliermi trovai due uomini, complici del misfatto, coperti con delle lunghe tuniche scure; probabilmente mi avevano seguito. Poi, con aria truce, dissero: “Hai qualcosa che ci appartiene”.

    “Certo, ma ora vorrei donare quello che ho trovato a voi, capo”.

    Tesi la mano come se volessi cedergli qualcosa, azionai l'amuleto e trafissi con l’avambraccio il suo petto. Lui cadde a terra privo di vita, l'altro complice, in preda al terrore, iniziò a scappare.

    Per un tratto lo inseguii, poi scagliai una freccia che con precisione attraversò l’uomo. Avevo centrato il cuore. Era morto sul colpo.

    Allora capii che coloro che avevano ucciso tutto il gruppo nel monastero erano questi uomini, coloro che avevano ucciso Angelica e che avevano l'intenzione di uccidere anche me erano loro e tutto questo soltanto per impossessarsi dell’amuleto di cui conoscevano i poteri.

    Mercoledì, 31 dicembre 1302, Roma.

    Oggi riaffronto il viaggio sulla Via Francigena con il mio fedele cavallo e torno a casa dalla mia famiglia. Questa esperienza rimarrà sempre impressa nel mio cuore.

    Mi sono liberato di quel peccato commesso, ma una parte di me ormai è morta, mi manca Angelica.

  • 9

    IL DIARIO ASSASSINO Sigerico, alla fine del X secolo, arrivò a Roma per essere ordinato arcivescovo di Canterbury da Papa Giovanni XV.

    Dopo la cerimonia religiosa, era pronto a ripartire in compagnia del suo novizio Enzo e del suo amico Domenico per tornare a casa. Il 10 febbraio del ‘990 si misero in cammino per tornare nel proprio paese percorrendo la via Francigena. Sigerico portava con sé un diario tempestato di pietre preziose e con fogli di pergamena su cui annotava tutti i luoghi di sosta in cui si fermava durante il lungo viaggio.

    Dopo circa una settimana, arrivarono a Chiusi, in Toscana, e si fermarono in un monastero del luogo. Era imponente e, visto dall'esterno, sembrava molto antico. Entrando sembrava ancora più grande, con sale ampissime, ma molto rudimentali e quasi vuote, a parte qualche mobile antico qua e là.

    Chiusi, un piccolo paesino etrusco, aveva un'importanza assai rilevante poiché era collocata sull'arteria che collegava Roma all'Etruria settentrionale; per la sua posizione favoriva il commercio e i trasporti.

    Quella sera Sigerico e i suoi compagni di viaggio andarono a dormire presto, consapevoli del fatto che il giorno dopo sarebbero dovuti ripartire.

    La mattina successiva, però, quando si svegliarono, Domenico non c'era e il diario era sparito. La brutta notizia si diffuse in tutto il monastero; le porte furono chiuse e il numero di guardie aumentato.

    Sigerico e Enzo decisero di cercare il diario, nella speranza di trovare anche Domenico.

    I due stavano per iniziare le ricerche quando Sigerico fu bloccato da un monaco, il quale lo invitò a partecipare ad una riunione importante. Sigerico era un po' irritato, ma accettò senza nemmeno voler sapere cosa riguardasse la riunione; a Enzo affidò l'incarico di proseguire le ricerche.

    Il ragazzo rifletté. Dove poteva essere il diario?

    Decise di provare a guardare in biblioteca: dato che il diario era molto simile ad un libro, probabilmente il ladro lo aveva nascosto lì.

    Iniziò a scorrere gli scaffali: c'erano libri di tutti i tipi e di tutte le epoche, ma del diario non c'era traccia.

    Dopo aver guardato dappertutto, vide una porta socchiusa. Entrò e lì, su un tavolino, c'era il diario. Era felicissimo di averlo trovato e voleva

  • 10

    farlo sapere al suo maestro: “Il dia...”. Non fece in tempo a terminare la frase che cadde a terra, morto.

    La riunione fu interrotta dall' urlo e Sigerico, pensando che il ragazzo fosse in pericolo, iniziò a cercarlo. Disperato, cercò aiuto e un monaco gli disse che lo aveva visto andare in biblioteca.

    Sigerico si precipitò lì, ma non vide nessuno. Lo cercò girando tra le librerie e poi scorse la porta. Entrò e vide il ragazzo a terra con la schiena insanguinata e vicino a lui un coltello, anch'esso coperto di sangue. Rimase sconvolto, una lacrima rigò il suo viso. Era in preda al panico, ma riprese subito il controllo e iniziò a perquisire la stanza, in cerca di indizi.

    Dopo aver guardato dappertutto, decise di provare da un'altra parte, ma quando arrivò sulla soglia della porta vide, sulla maniglia, un pezzetto di stoffa, con attaccato un bottone: faceva parte di una tunica da monaco.

    Organizzò una riunione per capire a chi apparteneva il pezzo di stoffa.

    Quando i monaci si riunirono, Sigerico osservò le tuniche. Si rese conto che a due persone mancava un bottone. Prese in considerazione solo loro, li interrogò, ma nessuno dei due voleva parlare.

    Chiamò le guardie per farli rinchiudere nelle segrete ma, quando il primo monaco si girò, Sigerico vide sulla sua manica una macchia di sangue. Sembrava che l'uomo avesse provato a cancellarla senza risultati. Fermò le guardie. Il monaco si girò nuovamente, Sigerico lo guardò dritto negli occhi cercando una risposta.

    Il monaco cedette: “L'ho fatto per le pietre. Un diario così prezioso vale tantissimo. Domenico era mio complice, ma poi è scappato come un coniglio!”

    “E la morte di Enzo?” chiese Sigerico in preda alla collera.

    “Era di intralcio” rispose.

    Sigerico lo colpì e l'uomo cadde a terra: aveva il naso sanguinante per la potenza del pugno.

    Il monaco fu portato sul rogo. Erano pronti per bruciarlo vivo, ma poi... Domenico spuntò fuori dal nulla.

    Sigerico gli chiese subito spiegazioni, ma l'altro parlò rivolto al monaco in procinto di morire: “Tu mi hai ingannato! Volevi che prendessi il diario per dividere il bottino, ma non era così!

    Ora verrai punito e io ti guarderò soffrire”.

  • 11

    Il fuoco fu appiccato ed il monaco scontò la sua pena davanti agli occhi di tutti.

    Il giorno dopo Sigerico ripartì, questa volta da solo. Non aveva perdonato Domenico, il quale rimase al monastero per espiare le sue colpe.

    Sul diario annotò questo luogo; accanto al nome disegnò una croce per ricordare la morte del suo allievo.

  • 12

  • 13

    I SOLDI MACCHIATI DI SANGUE Ci fu un momento della mia vita in cui girovagavo tra le strade di Roma derubando i ricchi.

    Non ero solo, ma in compagnia di altre otto persone le quali mi aiutavano in questi atti di brigantaggio.

    La persona che mi era più fedele era Ginepro, uomo forte e coraggioso, ma anche sensibile.

    In una calda giornata di agosto stavamo rubando all'interno della casa di un nobile. L'abitazione era spettacolare: c 'era oro da tutte le parti, posate, calici, gioielli preziosi, coperte in seta, vestiti di lino, quadri di illustri pittori che decoravano le pareti.

    Mentre noi contemplavamo con stupore tanta magnificenza, due guardie del padrone di casa si accorsero dal giardino di un movimento sospetto, così entrarono a controllare e notarono che un mio compare stava rubando dei gioielli preziosi.

    Lo arrestarono e il malcapitato, dopo tanto sofferenze, confessò che in casa c 'erano altri suoi compagni, tra cui io, ma non riuscì a salvarsi la vita.

    Subito dopo ci catturarono e, per non essere uccisi, accettammo di diventare servi del nobile.

    Dopo qualche tempo, conquistammo la sua fiducia e ricevemmo l'incarico di consegnare dei soldi in beneficenza al priore di Santiago di Compostela.

    Così partimmo accompagnati da due guardie che ci sorvegliavano.

    Viaggiavamo a piedi con a fianco un carro trainato da cavalli dove era custodito il denaro.

    La prima notte ci ospitarono in un monastero, furono molto gentili: fummo accolti dall'abate, ci lavarono mani e piedi, pregammo, leggemmo la parola di Dio e poi ci ritirammo nei dormitori.

    L 'arredo era composto da un letto imbottito di paglia, una ciotola piena d'acqua per lavarci la mattina, un crocifisso come simbolo di cristianità.

    La mattina seguente, al primo cantar del gallo, mi svegliai primo tra i miei compagni e trovai una brutta sorpresa: due amici erano stati assassinati. Iniziai a urlare e a chiedere aiuto e tutti si svegliarono di colpo.

    Rattristati, scavammo una buca e li salutammo per l'ultima volta. Quindi proseguimmo il viaggio.

    Dopo tre giorni, arrivammo al Passo della Cisa e fortunatamente trovammo un ospizio dove riposare.

  • 14

    Durante la notte, sentii un grido preoccupato, mi alzai insieme ai miei compagni e vedemmo Alfredo, uno dei nostri, che a stento disse: “Mi ha ucciso...” e poi ci abbandonò.

    Quella notte non fu più tranquilla e nessuno riuscì a dormire.

    Al mattino seguente sembrava che nessuno di noi fosse più amico dell'altro: eravamo diventati diffidenti e ognuno stava più attento ai movimenti degli altri.

    Riprendemmo il cammino e ci accorgemmo che le provviste di cibo stavano per esaurirsi. Così, prima del calar del sole, ci dividemmo in tre gruppi per procurarci da mangiare.

    Io ed alcuni miei compagni cacciammo un cervo e trovammo dei funghi. Altri non trovarono molto, solo degli asparagi e del rosmarino. Il terzo gruppo, però, non tornava; perciò ci preoccupammo.

    Dopo qualche minuto, Ginepro decise di andare a controllare; tornò portando tre compagni privi di vita. Ginepro camminava a stento, aveva una ferita nella coscia e ci disse che era stato assalito da un cinghiale; una volta soccorso, ci accampammo per la notte.

    La mattina seguente proseguimmo lungo la costa e, a causa di un cambiamento di confine, fummo costretti a prendere la via del mare. Dato che le nostre disponibilità economiche erano buone, ci permettemmo di comprare una goletta per arrivare a Marsiglia.

    Il viaggio durò alcuni giorni durante i quali io ragionai sulla causa di tutte queste morti. Iniziai a ripercorrere le giornate precedenti cercando indizi e persone sospettabili. Scartai le guardie per la loro lealtà al ricco signore; rimanevano quattro compagni, uno di loro era sicuramente l 'assassino! Durante la prima notte di viaggio, il mare in tempesta non favorì il sonno; verso le tre, un grido mi svegliò di colpo, trovammo un corpo. Dall’abbigliamento credemmo si trattasse di Ginepro perché l’assassino aveva deciso di mettergli un sacco in testa per soffocarlo. Non avemmo il coraggio di guardarlo in faccia e buttammo il corpo a mare, la barca era diventata più leggera, mentre il numero dei possibili assassini diminuiva sempre di più.

    La mattina dopo, all'alba, arrivammo a Marsiglia; le guardie erano già pronte da un po' di tempo, una di loro sembrava indossasse un elmo non suo perché appariva stretto, il che era strano.

    Non appena fummo scesi dalla barca, ci inoltrammo nella città per trovare la via per proseguire il viaggio; trovammo una carrozza e la affittammo.

    Dopo alcuni giorni, arrivammo ai piedi dei Pirenei e sostammo per riposarci; poi cominciammo a scendere le montagne, ma ci imbattemmo in una frana, così decidemmo di aggirarla.

    A tarda sera arrivammo a valle e ci accampammo per la notte in un prato sotto delle querce. All'alba eravamo pronti per partire, ormai mancava poco e infatti la sera arrivammo a destinazione. Aspettammo la mattina seguente per consegnare i soldi al parroco della chiesa di Santiago di Compostela.

  • 15

    Entrati, il religioso ci guardò con un’aria strana dato che, secondo gli accordi, saremmo dovuti arrivare in undici.

    Gli consegnammo le offerte ed io iniziai a parlare: “Veniamo da Roma, incaricati dal nostro signore di portare questo denaro in beneficenza; siamo partiti in undici e arriviamo in tre perché durante il viaggio uno di noi ha ucciso i suoi compagni. Io ho riflettuto su questi atroci fatti, ho indagato e sono arrivato alla conclusione che l'assassino è Ginepro, il quale si nasconde dentro l’armatura di una guardia.

    Lui tentò di scappare, ma venne raggiunto; così ripresi a parlare:

    “Quando ci siamo fermati nel bosco per rifornirci di cibo, tu sei andato a cercare i compagni che non tornavano; li hai riportati privi di vita e ci hai detto che ti eri ferito alla gamba con la zanna di un cinghiale. Ma non era stato un cinghiale a colpirti, io conosco bene il taglio provocato da questo animale perché, anni fa, durante una battuta di caccia, ne sono stato aggredito. Tu hai assassinato i tuoi amici e poi ti sei tagliato da solo con un coltello provocandoti una ferita superficiale.

    I miei sospetti sono stati confermati quando mi sono accorto che la persona morta in barca non eri tu, perché non aveva la cicatrice alla gamba. Hai ucciso la guardia, hai indossato la sua armatura, tra cui l’elmo stretto per la tua grossa testa, ma non hai potuto fare a meno di zoppicare ed io questo l’ho notato”.

    Ginepro venne condannato all’impiccagione per aver tentato di rubare i soldi che dovevano essere dati in beneficenza alla chiesa e per aver ucciso otto persone.

    Non era riuscito a perdere la sua natura di ladro.

  • 16

  • 17

    LE PIANTE CURATIVE Un senso di terrore e un silenzio misterioso incombevano su quel tratto della via Francigena lungo la Valle dell'Elsa. Gli uccelli volavano in tondo, quasi portatori di un messaggio codificato che nessuno avrebbe potuto comprendere.

    I pellegrini si erano fermati e nei volti degli uomini si leggeva la paura e l’incertezza. Erano stati trovati privi di vita Fra’ Giuseppe Belgallia e Fra’ Lorenzo Deviatore, i loro corpi giacevano in una pozza di sangue. Adesso le salme erano coperte da un telo bianco macchiato di sangue fresco.

    I due fratelli appartenevano al monastero di Monte Oliveto Maggiore, tra Siena e Arezzo, dove vivevano assieme ad altri monaci minori che custodivano con cura il convento. Il monastero era aperto ai pellegrini di passaggio, dando loro ospitalità, ristoro e un giaciglio su cui dormire. Si trattava di un luogo in cui tutti avrebbero voluto soggiornare, data la gentilezza e la cortesia dei frati che lo gestivano.

    Sul luogo del delitto arrivò immediatamente Antonio Peravecchia, un arguto abate pisano dell'ordine dei Cavalieri di Santo Stefano, soprannominato "Occhi di ghiaccio" per via del suo sguardo gelido che terrificava chiunque lo guardasse. Era uno dei migliori investigatori del luogo, molto conosciuto e apprezzato per avere già risolto in passato casi complicati. Ma adesso la situazione appariva abbastanza difficile e nessuno riuscì a proferire parola.

    L’uomo voleva porre sotto sequestro il monastero, ma i frati si opposero, proprio nel rispetto dei due frati uccisi, questi ultimi avrebbero senz'altro voluto che il monastero rimanesse aperto ai pellegrini: i frati, infatti, erano portatori di un messaggio evangelico che annunciava un vero e proprio impegno nei riguardi del prossimo.

    Antonio Peravecchia ordinò ai suoi uomini di compiere i rilievi sui corpi dei due uomini defunti e chiamò a raccolta tutti i frati del convento. Si trattava di 20 monaci, ancora scossi per quello che era accaduto. Emerse che le due vittime erano a capo del monastero, avevano un carattere autorevole e scrupoloso nell'organizzazione, ma erano animati da un forte spirito di fratellanza; mai avrebbero lasciato un pellegrino fuori dalla porta.

    “Bene”, disse l'abate pisano, “vorrei conoscere dettagliatamente la vostra organizzazione e le mansioni di ciascun appartenente a questo monastero. Vi prego di non omettere nessun particolare, anche quello

  • 18

    che vi pare più insignificante. Potrebbe essere comunque utile a fini dell'indagine”.

    I frati singhiozzavano, i loro volti segnati dall’angoscia. Non riuscivano a parlare e balbettavano. A un certo punto, l'abate per scuotere i loro animi, batté un pugno sul tavolo e alzò la voce dicendo:

    “Signori, capisco tutto e comprendo il vostro dolore, ma se volete che sia fatta giustizia per i vostri due fratelli, dovete farvi forza e parlare. Se potessi, interrogherei gli uccelli! Dannazione, parlate!”

    I frati spalancarono gli occhi e finalmente iniziarono a spiegare all'abate che i due fratelli uccisi si occupavano anche della coltivazione di un piccolo campo dietro la cappella che custodivano gelosamente e al quale era vietato accedere.

    Il resto dei frati, invece, si occupava delle mansioni giornaliere: la pulizia, la preparazione dei pasti e l'accoglienza dei viandanti. Ad un certo punto un frate, giovane e calvo, con voce tremolante aggiunse:

    “Abate, lei deve sapere che Fra’ Belgallia e Fra’ Deviatore si occupavano anche dei pellegrini malati, li portavano in una stanza del monastero e... non so cosa facessero... ma... ma… i viaggiatori uscivano da lì guariti”.

    “Va bene”, aggiunse l'abate.

    Poi continuò: “Ora mostratemi questo appezzamento di terra”.

    Nel frattempo si avvicinarono all'investigatore i suoi uomini che avevano avuto l'ordine di fare rilievi e riferirono ciò che avevano trovato sul luogo del delitto: una conchiglia di San Giacomo. Sicuri di sé, dissero:

    “Il caso è risolto! Gli spagnoli hanno dimenticato la conchiglia sul luogo del delitto, sono stati poco accorti... quindi ormai è certo che sia stata opera dei soldati spagnoli”.

    L'abate, quasi seccato e stizzito per tanta superficialità, rispose:

    “Anche nel caso in cui fossero stati gli spagnoli, e io nutro molti dubbi, non vi chiedete il perché? Continuate a vivere nella vostra arroganza. C'è sempre una spiegazione a tutte le cose!”.

    Scuotendo la testa, con aria ormai rassegnata dinanzi alla superficialità dei suoi uomini, seguì i frati verso quell'appezzamento di terra. Era molto piccolo e si trovava dietro la cappella del monastero, ma poco rimaneva di quel luogo: erbe sradicate, zolle di terra sollevate e uccelli che volavano in tondo. Tutto era stato distrutto.

  • 19

    Al di là del terreno, Peravecchia scorse una porticina e chiese ai frati cosa ci fosse dentro. Essi si guardarono attoniti e, senza battere ciglio, condussero l'investigatore all'interno. Appena entrati, tutti rimasero stupiti da tanta bellezza: mobili in legno massiccio e una biblioteca ricca di libri disposti con estrema cura. La stanza era inondata da un profumo particolare.

    Quella era la stanza a cui i due frati tenevano sopra ogni cosa.

    L'investigatore, stupito nonostante il suo forte temperamento, volle osservare meglio quei libri. La sorpresa fu grande. Si trattava di manoscritti sulle virtù e sui benefici di particolari erbe realizzati dai due monaci. Tutti catalogati in ordine alfabetico. Vi era l'erba che curava la lebbra, quella che guariva il diabete, un'altra che faceva abbassare la febbre. Lì dentro, insomma, vi era un'inestimabile ricchezza. Era un luogo di studio e di sapienza.

    “Bene”, pensò l'investigatore, “il caso comincia a prendere una piega e il movente sta proprio in questa stanza. Ma chi? Maledizione! Chi è l'artefice di così tanta ferocia? Perché mai lasciare sul luogo del delitto la conchiglia di San Giacomo? Gli spagnoli? No, no…” disse l'abate.

    Poi continuò: “Sì tratta senza dubbio di un depistaggio”.

    Il Peravecchia alzò gli occhi in cielo, quasi a invocare l'aiuto di Dio. Stanco, ma soprattutto contrariato dal fatto di non riuscire a rispondere alle sue stesse domande, Antonio decise di recarsi in un'osteria non poco distante dal monastero. Si sedette e chiese da bere. Sperava che un buon bicchiere di vino lo avrebbe illuminato o magari stordito e non avrebbe pensato alla vicenda. Tutti lo guardavano intimoriti, ma non osavano disturbarlo.

    I giorni passavano inesorabili e sembrava ormai che l'abate fosse lontano dalla soluzione. Le persone avevano dimenticato ciò che era accaduto ed erano tornati alla normalità della vita quotidiana.

    Ma Antonio Peravecchia, l'investigatore, non voleva, anzi, non poteva arrendersi: auspicava che fosse fatta giustizia per i due monaci uccisi e poi la sua fama ne avrebbe risentito. Cosa avrebbero detto se non avesse risolto il caso?

    Intanto le morti per lebbra in Italia erano sempre più frequenti. Appena si arrivava in città, si sentiva l'assordante rumore delle campanelle che annunciavano la presenza di malati; in ogni angolo delle strade, moribondi disperati chiedevano aiuto.

    Ormai girare in città voleva dire andare incontro al pericolo di contagio ed erano diminuiti i pellegrini che viaggiavano lungo la Val d'Elsa.

  • 20

    Soltanto la città di Firenze sembrava immune, anzi, vi fu un notevole aumento demografico.

    L'investigatore Peravecchia, allora, insospettito, si recò immediatamente nella città del giglio al monastero di Santa Maria Maddalena dei Pazzi. Una volta dentro, fece un veloce giro di perlustrazione, ma senza tralasciare i particolari. Notava che i monaci avevano un'aria scossa e turbata e cercavano di evitarlo.

    Peravecchia fu ad un certo punto investito da un odore familiare. Come ipnotizzato, si lasciò guidare dal profumo. Giunse di fronte ad una porticina. Era di un legno marrone scuro laccato.

    Stentò ad aprirla. Alla fine, ciò che vide davanti a sé fu proprio quello che si aspettava. Accennò un sorriso e, tra sé e sé, pensò: “Lo sapevo!”.

    Vide una piccola quantità di erbe, quelle stesse che aveva visto nella abbazia senese. Non poté fare a meno di fare una riflessione: i monaci fiorentini non sono stati così furbi! Sì, hanno rubato le erbe, ma non hanno i libri in cui sono contenute tutte le informazioni necessarie.

    Improvvisamente un monaco fiorentino apparve alle spalle dell'investigatore, con gli occhi spalancati e incapaci di pronunciare parola. I due si guardarono.

    Peravecchia era felice, si sentiva libero, senza più quel peso allo stomaco che lo tormentava.

    Abbandonò il monastero in silenzio con aria apparentemente indifferente, ma con una gioia dentro che avrebbe voluto condividere con qualcuno.

    Peravecchia aveva intuito che i colpevoli erano stati i monaci fiorentini e avevano lasciato la conchiglia per allontanare da loro i sospetti. Adesso aveva due possibilità: poteva riferire l'accaduto alla chiesa, ma temeva che il Papa avrebbe punito i colpevoli che però avevano agito solo per strappare alla morte i loro concittadini. Probabilmente non volevano commettere un omicidio, si era trattato di un incidente.

    Oppure, e questa fu la strada che scelse, far conoscere a tutti la sapienza dei due fratelli senesi e divulgare l'efficacia delle erbe curative per salvare la popolazione. Era sicuro che i due frati uccisi sarebbero stati d’accordo, a loro non piaceva la vendetta!

  • 21

    SANGUE AL MONASTERO Bernardo, un frate astuto dell’ordine benedettino, era partito da Vicenza in pellegrinaggio sulla Via Francigena per recarsi a Roma insieme a due suoi confratelli. Tutti e tre avevano un lungo mantello nero leggermente sfilacciato sull’orlo, le scarpe erano consumate sulla punta. Il bastone era il loro sostegno e la loro unica arma di difesa.

    I frati camminavano a stento ostacolati dalla neve fitta e dalla nebbia e, inoltre, dal peso della faticosa giornata. Scorsero tra gli alberi una vecchia canonica abbandonata e così si trascinarono fin lì.

    Era una stanza unica, buia e fredda. Per terra, in un angolo, un po’ di paglia sporca e resti di poveri cibi. I tre, seduti sulla paglia, dopo aver recitato la preghiera vespertina e mangiato un pezzo di pane duro e cacio presi dalla loro sacca, si addormentarono esausti.

    La mattina seguente, all’alba, un raggio di sole li colpì da una piccola finestra. Si alzarono, bevvero un po’ d’acqua e ripresero il cammino durante il quale si imbatterono in alcune frane e torrenti in piena che rendevano ancor più faticoso il percorso.

    Alla sera, finalmente, giunsero al monastero di Altopascio. La strada, in quel punto, era lastricata e conduceva all’entrata. Sopra il portone si trovava una croce e un muro circondava il complesso religioso. I tre monaci bussarono; dopo qualche secondo le porte si aprirono e vennero accolti da un frate sorridente e di piccola statura che si presentò come frate Cassio e li condusse nelle stanze riservate agli ospiti. Lasciate le proprie sacche, i tre si diressero insieme ad altri pellegrini al refettorio e, recitata la preghiera, cenarono. Subito dopo si ritirarono nelle proprie stanze a dormire.

    Ma, ecco, un urlo spezzò il silenzio della notte.

    Frate Bernardo si svegliò di colpo e si precipitò giù verso il portone d’ingresso. Anche altri monaci furono svegliati dal rumore e tentarono di aprire la porta, ma con sorpresa si accorsero che era stata chiusa dall’esterno. Solo dopo diversi tentativi, riuscirono nell’impresa e scorsero un frate impiccato all’ingresso del monastero. Il monaco più anziano si avvicinò al cadavere. Lo osservò terrorizzato: inginocchiandosi, riuscì solo a sussurrare con un fil di voce: “Frate Cassio…!”

    Rimossero con cautela il corpo, lo vegliarono tutta la notte in preghiera e all’alba Bernardo, con l’aiuto di un giovane pellegrino di nome Pietro, suo compagno di stanza, decise di indagare sul delitto.

  • 22

    Apparentemente sembrava a tutti un suicidio, ma a Bernardo qualcosa non tornava: come poteva un monaco così sereno e devoto fare ciò?

    Inoltre frate Cassio aveva nel petto una ferita da pugnale…Strano modo di suicidarsi!

    Si avviarono così verso il luogo del delitto e, mentre stavano esaminando il cadavere, Bernardo notò che Pietro aveva sulla mano destra una fascia che cercava di nascondere sotto la manica.

    “Cosa nascondi sotto la fascia?” domandò Bernardo.

    “Do un aiuto in cucina, ieri ero di turno …” e, alzando la mano ferita, aggiunse “Mi sono tagliato”. Poi si sistemò la benda.

    La sera, a cena, frate Bernardo pose al monaco altre domande, ma lui tagliò corto:

    “Per me il povero frate Cassio si è suicidato! E la sua anima va lasciata in pace!”

    La mattina successiva alcuni frati di turno in cucina entrarono in cantina, ma ne uscirono di corsa e terrorizzati.

    Intanto era arrivato frate Bernardo e, vedendoli in quello stato, chiese loro cosa fosse successo: avevano trovato una tunica dentro un’anfora piena d’acqua. Tirata fuori la veste, notarono che era macchiata di sangue e l’acqua ormai aveva un colore rossastro.

    Il pomeriggio Bernardo, recandosi in Chiesa, incontrò Pietro:

    “Salve fratello, Dio ti benedica! Mi sembra”, disse Bernardo con tono polemico, “che in questi ultimi due giorni tu non ti sia dedicato al caso come d’accordo: mi nascondi forse qualcosa?”

    Pietro, con incertezza, rispose:

    “Ma no! Non ti lascerei mai solo a svolgere questo compito assai importante, interessa anche a me scoprire chi è che ha compiuto tale misfatto”.

    “Mmh…ah fratello, mi toglieresti una curiosità? Sei per caso mancino?”

    “No, sono destro…anche se non capisco il senso di questa domanda…”

    E così ognuno andò per la propria strada.

    Ma, ad un certo punto, un frastuono metallico, seguito da una serie di passi frettolosi, ruppe il silenzio; Bernardo si voltò di scatto e si mise ad inseguire il fuggitivo che però svanì nel buio.

    Dopo cena, tutti i monaci erano riuniti nella Sala del Capitolo, dove erano soliti radunarsi ogni giorno per ascoltare un passo della regola.

  • 23

    Era una stanza ampia con grandi finestre sulle pareti laterali; sulla parete di fondo c’era su un lato il Crocifisso e sull’altro una tavola di legno con raffigurata la Madonna col Bambino. Al centro della stanza una lunga fila di panche e di fronte ad esse un tavolo in legno dove sedeva colui che doveva parlare. Vicino al tavolo, su una grossa sedia in legno, sedeva l’abate, sul lato opposto stava seduto Pietro.

    Bernardo aveva preso posto al tavolo di legno e così iniziò a parlare:

    “Vi ho convocato qui per svelare chi ha ucciso frate Cassio!” Fece un sospiro e disse:

    “È stato Pietro. L’ho capito da alcuni suoi comportamenti strani, anche se all’inizio non sospettavo di lui. Infatti mi ha nascosto una ferita alla mano destra che all’inizio non aveva. Ho chiesto spiegazioni e mi ha risposto che se l’era procurata in cucina. Ma allora perché nasconderla? Inoltre, ho scoperto che Pietro non è mancino, quindi la ferita doveva essere sulla mano sinistra.

    Ancora, la veste sporca di sangue trovata nell’anfora è stata vista da un frate addosso a Pietro prima dell’omicidio. L’ha riconosciuta da un evidente rammendo sulla manica destra.

    Infine ieri sera, mentre camminava, gli è cascato il pugnale. Io ho sentito il rumore metallico, sono uscito dalla mia cella, l’ho inseguito e, anche se non sono riuscito a raggiungerlo, l’ho riconosciuto dalla camminata.

    Pietro intervenne:

    “Sì, lo ammetto, sono stato io! Mentre stavo scappando perché avevo rubato delle monete a dei miei compagni, frate Cassio mi ha scoperto e, per paura, l’ho ucciso. Nel far ciò mi sono ferito la mano”.

    “Per ciò che hai fatto, meriti il rogo!” gridò l’abate.

    E così il colpevole fu condannato a morte.

  • 24

  • 25

    UN’ ALTRA IDENTITÀ Era il tardo pomeriggio di un bel giorno di primavera e, al calar della nebbia, lungo la Via Francigena, all’altezza della località di Monginevro, una carrozza, condotta da Duccio e trainata da due cavalli robusti e dal mantello di colore nero, trasportava un passeggero particolare: Guglielmo da Boscaiola, un ricco mercante che aveva l’incarico di portare al re di Francia una sciabola incastonata di diamanti appartenente a un imperatore egizio.

    Mentre la carrozza procedeva con difficoltà lungo l’impervio percorso, il cocchiere si guardava intorno con attenzione e ansia.

    Quando si fece buio, Duccio si fermò per quella che avrebbe dovuto essere una breve sosta. Con un balzo saltò giù e con fatica aprì lo sportello della carrozza. Il corpo senza vita del mercante cadde pesantemente ai suoi piedi. Duccio, sorpreso dalla scena che gli si era presentata, indietreggiò e con fare nervoso stese Guglielmo per terra. Si chinò sul corpo per valutare la situazione, lo fissò per alcuni minuti e con entrambe le mani si coprì la faccia lanciando un grido di disperazione.

    Armato di bordone, si avviò a piedi verso il più vicino centro abitato per cercare aiuto. Faceva freddo, il tratto da percorrere non era lastricato e si procedeva con difficoltà.

    Lungo il cammino incontrò alcuni pellegrini diretti a sud, andavano a Roma. Tra loro c’era anche un monaco fermo al margine della strada immerso nella lettura.

    Dopo aver camminato per un bel po’, da lontano vide avvicinarsi un gruppo di viaggiatori scortati da soldati a cavallo. Una volta vicini, Duccio raccontò frettolosamente e senza entrare in particolari l’accaduto e, data la gravità di ciò che era successo, chiese di poter essere accompagnato al villaggio più vicino.

    Una volta arrivato, domandò ai paesani indicazioni per il posto di guardia. Le uniche due guardie, Oswald e Josué, gli si avvicinarono e subito si mostrarono interessate al suo racconto. Dopo un breve interrogatorio (che a dire il vero insospettì le guardie per le molteplici contraddizioni) si avviarono a cavallo verso il luogo dove Duccio aveva lasciato la carrozza.

    Nonostante la velocità dei cavalli, a Duccio parve che il tempo non passasse mai, gli si strinse lo stomaco per la paura e si pentì di aver denunciato il fatto.

  • 26

    Oswald era la guardia a cui tutti volevano bene. Era un robusto padre di famiglia, aveva i capelli castani, gli occhi marroni ed una ferita sulla guancia. Era intelligente e astuto.

    Josué, al contrario, era un tipo più scomposto e disordinato, aveva i capelli rossastri e la barba incolta. Non era contento del suo lavoro e si affidava all’intuito di Oswald.

    Raggiunto il luogo stabilito, mentre Oswald iniziava ad esaminare il corpo, Josué chiacchierava con i pellegrini che nel frattempo, incuriositi, si erano fermati. Poco distante Duccio faceva di tutto per distrarre e confondere la guardia che, seccata per il comportamento di colui che si dichiarava innocente, proseguiva con scrupolosità nel suo lavoro. Qualche istante dopo Oswald trovò sul corpo del mercante quella che poteva essere una ferita provocata da una spada. Il taglio era ben nascosto e sembrava che fosse stato camuffato per fare in modo che non sembrasse un omicidio.

    Il cocchiere, all’ udire le parole di Oswald, rimase stupito dal fatto che la guardia in poco tempo avesse non solo trovato il taglio, ma anche capito il tipo di arma usata per il delitto.

    Oswald comunque non era convinto di molte delle cose che Duccio aveva raccontato e decise che avrebbe rimandato l’investigazione al giorno successivo. Decisero di fermarsi per la notte al vicino Ospizio di Santa Maria della Rosa e le guardie, dopo essersi consultate, stabilirono che avrebbero dormito tutti in un’unica stanza.

    All’alba erano già in piedi; era una mattina tranquilla, il sole rischiarava la vallata, si poteva sentire solamente il canto degli uccelli. Le guardie decisero di ripercorrere insieme a Duccio il tracciato della carrozza dal luogo in cui l’avevano trovata fino alla località da cui il cocchiere diceva di essere partito.

    Inaspettatamente, pochi chilometri dopo, il silenzio venne interrotto da un ripetersi di urla provenienti dai piedi della montagna. Oswald ordinò di fermare i cavalli, Duccio rimase pietrificato per la paura e Josuè cadde rotolando per il pendio facendosi male.

    Mentre Oswald soccorreva l’amico, si accorse che poco lontano c’era, legato ad un albero, un uomo che, terrorizzato, si dimenava. Tremante e con qualche taglietto sulla faccia, l’uomo era stremato dal freddo. Mentre Oswald lo slegava, il poveretto, parlando velocemente e mangiandosi le parole, urlava: “Mi chiamo Ruberto, sono un cocchiere, stavo accompagnando un mercante alla corte francese, sono stato rapito da un signore che si è appropriato della mia carrozza!”

  • 27

    Oswald, capendo tutto, si voltò verso Duccio che, udendo quelle parole, aveva iniziato a correre verso il fitto bosco. Josué zoppicante si precipitò di corsa dietro il finto cocchiere. Anche Oswald si mise all’inseguimento dell’assassino e, lanciandogli la sua spada tra i piedi, lo fece cadere. Le guardie gli si scagliarono contro e riuscirono ad immobilizzarlo legandogli mani e piedi.

    Insieme al povero Ruberto fecero ritorno al luogo dove avevano lasciato la carrozza.

    Arrivati lì, Oswald iniziò ad ispezionare con maggiore cura l’ambiente per trovare l’arma del delitto. Il goffo Josué, nel frattempo, decise che poteva occuparsi della carrozza: ci saltò pesantemente sopra rovesciandola di lato senza volere.

    Sotto la carrozza era legata l’arma. Avevano risolto il caso!

    Duccio, consapevole di essere ormai stato scoperto, rimase impietrito, ma con coraggio spiegò ai presenti cosa aveva fatto ed il motivo per cui aveva commesso il delitto:

    “Innanzitutto io sono figlio di un mercante; mio padre, tempo fa, fu accusato ingiustamente dal re di Francia di avere sottratto delle stoffe preziose; per fortuna riuscì a scappare, ma fu costretto a nascondersi. Da tempo ho architettato questo piano; inizialmente ho rapito il vero cocchiere legandolo ad un albero e ho indossato i suoi vestiti mentre il passeggero dormiva. Successivamente sono salito sulla carrozza per dirigermi verso l’ospizio più vicino e lì ho ucciso Guglielmo per impossessarmi del prezioso tesoro che portava con sé. Era l’unica possibilità per curare mio padre il quale è gravemente malato.”

    Dopo aver portato Duccio in prigione, le due astute guardie scortarono il vero cocchiere fino al confine con la Francia.

  • 28

  • 29

    INDICE DEI RACCONTI

    Prefazione ……………………………………………………….Pag. 3

    Il custode dell’amuleto ………………………………………….Pag. 5

    Il diario assassino …………………………………………. …..Pag. 9

    I soldi macchiati di sangue …………………………………….Pag. 13

    Le piante curative ………………………………………………Pag. 17

    Sangue al monastero …………………………………………..Pag. 21

    Un’altra identità …………………………………………………Pag. 25

  • 30

  • 31

    AUTORI DEI RACCONTI

    Aouche Samuele

    Bolgarelli Elisa

    Bracaloni Ginevra

    Cariello Marta

    Carrara Francesca

    Catalanotti Riccardo

    Celati Pietro

    Di Maso Davide

    Fiorito Lorenzo

    Fuschi Elena

    Guerrini Luca

    Guglielminetti Rosa

    Inserillo Alice

    Lami Francesco Lorenzo

    Mangione Carlo

    Meucci Angela

    Morano Elias

    Mucci Filippo

    Picchi Matilde

    Puglielli Francesco

    Raco Benedetta

    Savoia Lucrezia

    Sorbello Gianluca

    Southern Benjamin

  • 32