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1 Economia Politica – Corso Avanzato La teoria neoclassica della distribuzione e la funzione di domanda di capitale Saverio M. Fratini Maggio 2014 0. Introduzione Come si è già detto nella prima parte del corso, nella teoria neoclassica, prendendo per dati: a) le preferenze dei consumatori; b) le condizioni tecniche di produzione; c) le quantità disponibili dei fattori produttivi, si tenta di giungere alla spiegazione dei prezzi dei prodotti e delle variabili distributive – qui viste come i prezzi per l’uso dei fattori produttivi – in termini di equilibrio tra funzioni di domanda ed offerta. In altri termini, posto che, in ciascun mercato: i) l’eccesso della domanda sull’offerta dipende dal sistema dei prezzi (inclusi i prezzi per l’uso dei fattori), e ii) il prezzo tende a crescere se la domanda eccede l’offerta (eccesso di domanda positivo) ed a decrescere nel caso opposto (eccesso di domanda negativo); allora ci si aspetta che le forze di mercato spingano il sistema dei prezzi verso quel punto che rende nullo ogni eccesso di domanda. L’aspetto più delicato di questo ragionamento, riguarda la costruzione – e quindi le proprietà – delle funzioni di domanda (o di eccesso di domanda) dei prodotti e dei fattori produttivi. Facendo riferimento a quest’ultimi in modo particolare, la teoria vorrebbe dimostrare che la domanda di fattori produttivi non solo è sensibile a variazioni dei sistema dei prezzi, ma l’intensità dell’uso di un certo fattore – ad esempio della terra relativamente al lavoro – varia in direzione opposta al saggio di remunerazione relativo di quel fattore. Come vedremo, il principio della produttività marginale decrescente, se applicabile, garantirebbe il raggiungimento di questi risultati. Tuttavia, e questo è l’oggetto della presente dispensa, tale principio non può essere applicato né ai singoli beni capitale che compongono il capitale tecnico, né all’ammontare di capitale in valore la cui domanda e offerta dovrebbero essere

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Economia Politica – Corso Avanzato

La teoria neoclassica della distribuzione

e la funzione di domanda di capitale

Saverio M. Fratini

Maggio 2014

0. Introduzione

Come si è già detto nella prima parte del corso, nella teoria neoclassica, prendendo per dati: a) le

preferenze dei consumatori; b) le condizioni tecniche di produzione; c) le quantità disponibili dei

fattori produttivi, si tenta di giungere alla spiegazione dei prezzi dei prodotti e delle variabili

distributive – qui viste come i prezzi per l’uso dei fattori produttivi – in termini di equilibrio tra

funzioni di domanda ed offerta.

In altri termini, posto che, in ciascun mercato: i) l’eccesso della domanda sull’offerta

dipende dal sistema dei prezzi (inclusi i prezzi per l’uso dei fattori), e ii) il prezzo tende a crescere

se la domanda eccede l’offerta (eccesso di domanda positivo) ed a decrescere nel caso opposto

(eccesso di domanda negativo); allora ci si aspetta che le forze di mercato spingano il sistema dei

prezzi verso quel punto che rende nullo ogni eccesso di domanda.

L’aspetto più delicato di questo ragionamento, riguarda la costruzione – e quindi le proprietà

– delle funzioni di domanda (o di eccesso di domanda) dei prodotti e dei fattori produttivi. Facendo

riferimento a quest’ultimi in modo particolare, la teoria vorrebbe dimostrare che la domanda di

fattori produttivi non solo è sensibile a variazioni dei sistema dei prezzi, ma l’intensità dell’uso di

un certo fattore – ad esempio della terra relativamente al lavoro – varia in direzione opposta al

saggio di remunerazione relativo di quel fattore.

Come vedremo, il principio della produttività marginale decrescente, se applicabile,

garantirebbe il raggiungimento di questi risultati. Tuttavia, e questo è l’oggetto della presente

dispensa, tale principio non può essere applicato né ai singoli beni capitale che compongono il

capitale tecnico, né all’ammontare di capitale in valore la cui domanda e offerta dovrebbero essere

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portate in equilibrio dagli aggiustamenti del sistema dei prezzi, e del tasso dell’interesse in

particolare.

In questo scritto, in particolare, approfondiremo, da un lato, il ruolo che la produttività

marginale decrescente svolge (o dovrebbe svolgere) nella teoria neoclassica della distribuzione; e,

dall’altro lato, vedremo le difficoltà, se non l’impossibilità, di utilizzare la produttività marginale

nel caso in cui la produzione, oltre ad input primari (lavoro e terra), impieghi anche capitale.

Per semplicità, si assumerà che vi sia un solo bene di consumo (che potrebbe però essere

anche una merce composita). Si inizierà (par. 1), come è tradizione, dal caso in cui i fattori

produttivi siano soltanto lavoro e terra. Si introdurrà poi il capitale, partendo dal caso più semplice,

quello in cui l’unico bene capitale è il bene di consumo stesso (par. 2). Si passerà poi (par. 3) ad un

modello a due settori, con un bene capitale distinto dal bene di consumo.

Passando a modelli con molti tipi di beni capitale (par. 5 e 6), si vedrà, da un lato, la

necessità, al fine di poter utilizzare ancora il principio della produttività marginale decrescente, di

esprimere il capitale tecnico in forma aggregata e, dall’altro lato, l’impossibilità di una simile

aggregazione. Tale impossibilità, come sarà spiegato, comporta la perdita di certezze circa il segno

della relazione tra la domanda di capitale e il tasso dell’interesse.

Infine (par. 6), si prenderà in esame il tentativo di Samuelson di costruire – in un modello

con beni capitale eterogenei – una “funzione surrogata della produzione” che rappresenti il legame

tra l’impiego di capitale in valore ed il prodotto netto come se si trattasse di una relazione di tipo

tecnico. Il successo di questo tentativo, come si vedrà (par. 7 e 8), poggia su una ipotesi fortemente

restrittiva – che contraddice di fatto l’eterogeneità del capitale – in assenza della quale possono

verificarsi i fenomeni del “ritorno delle tecniche” e della “inversione dell’intensità capitalistica

della produzione”.

In tutti i casi che prenderemo in esame in queste pagine, si farà, per semplicità, astrazione

dalle questioni legate alla accumulazione del capitale, di conseguenza si ipotizzerà sempre che

l’intero prodotto netto dell’economia sia costituito fisicamente solo da beni di consumo.

1. La spiegazione marginalista della distribuzione: il caso con lavoro e terra

Vari economisti marginalisti – come ad esempio Jevons, Walras, Wicksteed e Wicksell –

nell’introdurre la loro teoria della distribuzione, trattarono inizialmente il caso con produzione

senza capitale. Facendo riferimento, in particolare, a Wicksell, egli nelle Lectures ([1901] 1934)

inizia considerando una economia in cui l’unico bene di consumo è ottenuto attraverso l’impiego di

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terra e di lavoro secondo una data funzione della produzione con rendimenti constanti di scala Y =

F(T, L).

Siano y e t rispettivamente il prodotto e l’impiego di terra per unità di lavoro, la tecnologia

può essere espressa attraverso la funzione y = f(t) = F(t, 1), che si assume monotona crescente

almeno in un certo intervallo. Questa rappresentazione della tecnologia, come è noto, implica la

presenza di infinite tecniche di produzione del bene di consumo, una per ogni possibile rapporto

terra/lavoro t.

Siano w e ρ il saggio del salario ed il saggio della rendita espressi in termini del bene di

consumo, ciascuna impresa impiegherà terra e lavoro nella proporzione che rende massimo

l’ammontare degli extraprofitti π = f(t) − w − ρt.

Assumendo che la funzione f(t) sia differenziabile, la condizione del primo ordine di questo

problema di massimo è:

[1] f’(t) − ρ = 0.

Inoltre, se la funzione f(t) è concava, cioè f”(t) < 0, allora la condizione [1] è necessaria e

sufficiente per individuare l’impiego ottimale di terra per unità di lavoro dato il saggio della rendita

ρ.

In tal caso, considerando il saggio della rendita ρ come una variabile indipendente,

dall’equazione [1] otteniamo direttamente la funzione di domanda di terra per unità di lavoro: t =

td(ρ). Inoltre, visto che f”(t) < 0, la [1] implica che t deve muoversi in direzione opposta rispetto a

ρ.

Pertanto, il principio della produttività marginale decrescente della terra, cioè f”(t) < 0,1

implica che: i) la domanda di terra per unità di lavoro da parte delle imprese, t = td(ρ), deriva

dall’uguaglianza tra il prodotto marginale della terra f’(t) ed il saggio della rendita ρ; ii) tale

funzione di domanda ha una andamento decrescente, cioè la domanda di terra per unità di lavoro

diminuisce al crescere di ρ.

1 Si ricorda che, per definizione, il prodotto marginale di un fattore è pari all’incremento di prodotto che si ha a fronte di un incremento unitario dell’impiego del fattore, fermo restando l’impiego degli altri. Così, se abbiamo Y = F(T, L), ne segue che dY = FT’ dT + FL’ dL; da cui, tenendo fermo e pari a 1 l’impiego di lavoro, otteniamo che il prodotto marginale della terra è FT’(t, 1) = f’(t).

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Fig. 1 – Prodotto marginale della terra e saggio della rendita di equilibrio

Una volta determinata la funzione di domanda di terra per unità di lavoro, che sarà la stessa

per tutte le imprese, supponendo che l’economia abbia a disposizione una quantità di terra e una

quantità di lavoro (che assumiamo pienamente impiegata), abbiamo che il saggio della rendita di

mercato tenderà a diminuire se la domanda di terra per unità di lavoro è inferiore all’offerta , cioè t

< ; mentre tenderà a crescere nel caso contrario, cioè se t > . Ne risulta che ρ è il livello di

equilibrio del saggio sella rendita se e solo se:

[2] td(ρ*) = .

L’andamento monotono decrescente della funzione t = td(ρ) implica chiaramente che

l’equilibrio ρ* sia unico e stabile, cioè la traiettoria generata dall’equazione differenziale:

[3]

dρdτ

= h[td (ρ)− t ]

converge a ρ* per ogni livello iniziale del saggio della rendita di mercato ρ0.

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Determinato il saggio della rendita di equilibrio, risulta automaticamente determinato anche

il saggio del salario. Si ha infatti:

[4] w* = f( ) − ρ* .

Infine, essendo la funzione della produzione una funzione omogenea di grado 1 (per via dell’ipotesi

dei rendimenti di scala costanti), ovvero:

[5] F(T, L) = FT’ T + FL’ L

visto che i salari sono la differenza tra il prodotto e le rendite, cioè:

[6] w L = F(T, L) − ρ T

allora l’uguaglianza tra il saggio della rendita ed il prodotto marginale della terra implica

l’uguaglianza tra il saggio del salario ed il prodotto marginale del lavoro.

2. L’economia capitalistica con un solo prodotto: Solow

Nel caso del paragrafo precedente, la spiegazione marginalista della distribuzione funziona

perfettamente. Il problema è estendere il ragionamento al caso in cui la produzione, oltre a lavoro e

terra, impiega anche il capitale.

Procedendo in modo da introdurre la complessità gradualmente, iniziamo dall’unico caso col

capitale in cui quanto sopra detto può essere replicato esattamente. Si tratta del modello di

produzione capitalistica immaginato da Solow (1956), in cui il bene di consumo viene usato anche

nella produzione, come unico bene capitale da impiegare insieme al lavoro.

Assumiamo la funzione della produzione Y = F(K, L) con rendimenti costanti di scala, in cui

Y rappresenta la produzione netta (quindi la produzione lorda è Y + K). Siano y e k il prodotto netto

e il capitale impiegato per lavoratore, con y = f(k) = F(k, 1), e siano w e r il saggio del salario in

termini del bene di consumo ed il tasso dell’interesse, ciascuna impresa sceglierà la tecnica di

produzione, ovvero k, in modo tale da massimizzare: π = f(k) − w − rk.

Analogamente a quanto ipotizzato in precedenza circa il prodotto marginale della terra,

anche ora assumiamo che almeno su un certo intervallo si abbia f’(k) > 0 e f”(k) < 0. Questo

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implica che, dato r, l’impiego ottimale di capitale per lavoratore risulti determinato attraverso

l’equazione:

[7] f’(k) − r = 0.

Pertanto, come sopra, il principio della produttività marginale decrescente implica che: i) la

domanda di capitale per unità di lavoro da parte delle imprese, k = kd(r), deriva dall’uguaglianza tra

il prodotto marginale f’(k) ed il tasso dell’interesse r; ii) tale funzione di domanda ha una

andamento decrescente, cioè la domanda di capitale per unità di lavoro diminuisce al crescere di r.

Ne segue che anche in questo caso vi è un unico e stabile equilibrio, determinato

dall’equazione:

[8] kd(r*) =

in cui , con e pari rispettivamente alle quantità disponibili di capitale e lavoro.

Anche qui, determinato r*, il saggio del salario determinato residualmente:

[9] w* = f( ) − r*

risulta pari al prodotto marginale del lavoro.

3. L’economia capitalistica a due settori: Swan

Sotto l’ipotesi della omogeneità fisica tra il prodotto ed il capitale tutto sembra funzionare

ancora bene. Le prime complicazioni, però, già emergono in un modello, come quello di Swan

(1956), in cui il bene di consumo ed il bene capitale sono beni diversi: grano e scatole del meccano.

Indichiamo con Y il prodotto netto dell’economia, che assumiamo composto di solo grano.

La funzione Y = F(M, L) rappresenta la produzione integrata del grano, attraverso l’impiego di

scatole di meccano M e di lavoro.

Come in precedenza, utilizziamo nella nostra analisi le quantità per unità di lavoro. In

particolare, abbiamo: y = f(m) = F(m, 1), in cui y è il prodotto netto di grano per lavoratore e m è

l’impiego di scatole del meccano per lavoratore nell’industria integrata del grano.

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Sia p il prezzo delle scatole del meccano in termini del bene di consumo, ciascun’impresa

sceglierà la tecnica di produzione in modo tale da massimizzare: π = f(m) − w − rpm. Di

conseguenza, il principio della produttività marginale decrescente delle scatole del meccano implica

che in equilibrio:

[10] f’(m) – rp = 0.

L’equazione [10] somiglia alla [7], tuttavia, la presenza del prezzo p genera una rilevante

differenza. Dobbiamo distinguere infatti tra due diverse misure dell’impiego di capitale per

lavoratore: i) l’impiego di scatole del meccano m, e ii) l’impiego di capitale come valore (in termini

del bene di consumo) k = pm. Nella funzione di produzione entra m, ma gli interessi si calcolano su

k. Il capitale anticipato per poter dar luogo al processo produttivo è k, le scatole del meccano sono

soltanto i beni (gli asset) in cui questo capitale è investito. In altri termini, il prezzo che si determina

sul mercato delle scatole del meccano è p, mentre il tasso dell’interesse r è determinato sul mercato

del capitale in valore.

Ci chiediamo quindi se l’equazione [10] implichi o meno una relazione inversa tra k e r.

Visto che per definizione k = pm, differenziando rispetto ad r abbiamo:

[11]

dkdr

=dpdrm+ p dm

dr

in cui il primo addendo è detto “effetto Wicksell di prezzo” ed il secondo “effetto Wicksell reale”.

Infatti, la variazione del tasso dell’interesse ha una duplice influenza sul valore del capitale per

lavoratore: i) fa cambiare il prezzo delle scatole del meccano in termini di grano; ii) fa cambiare

l’impiego di scatole del meccano per unità di lavoro.

Il segno della derivata dk/dr dipende quindi da come cambia il prezzo p al variare di r. In

particolare, se assumiamo che la produzione delle scatole del meccano sia a maggiore intensità di

scatole del meccano rispetto a quella del grano, avremo che p cresce all’aumentare di r, cioè dp/dr >

0.2 In questo caso, l’effetto di prezzo avrà segno positivo e quello reale segno negativo. Infatti, se

2 Il prezzo p del bene capitale in termini del bene di consumo dipende dal costo relativo delle due merci. In particolare, indicando con mc e lc l’impiego di scatole del meccano e lavoro nella produzione del bene di consumo, e con mm e lm il rispettivo impiego nella produzione delle scatole del meccano, abbiamo che:

1 = p mc(1+r) + w lc p = p mm(1+r) + w lm. Da cui segue che:

p =lm

lc + (lmmc − lcmm )(1+ r).

Quindi, la variazione di p al crescere di r dipende dal rapporto beni capitale/lavoro nei dei settori:

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quando r aumenta anche p cresce, allora, per la [10], la produttività marginale decrescente implica

dm/dr < 0. Il risultato è che non abbiamo certezza circa il segno di dk/dr, il risultato dipende dal

prevalere di un effetto sull’altro.

Quindi, mentre la [7] comportava una relazione inversa tra r e k, la [10] non implica che k,

qui inteso come il valore del capitale per lavoratore in grano, diminuisca al crescere di r.

4. Ancora sull’effetto Wicksell

Nel paragrafo precedente abbiamo parlato di “effetto Wicksell di prezzo” e di “effetto

Wicksell reale”. Ora cercheremo di approfondire l’idea che è dietro l’espressione “effetto

Wicksell”.

Consideriamo una economia in cui il prodotto netto consista di una particolare merce,

singola o composita, che chiameremo bene finale. Indichiamo, come abbiamo fatto fin qui, con y il

prodotto netto per lavoratore e con k il capitale impiegato per lavoratore in termini di bene finale

(indipendentemente dalle merce o dalle merci di cui consiste fisicamente). Posto che salari e profitti

esauriscano completamente il prodotto netto, si deve avere:

[12] y = w + rk.

Differenziando la [12] rispetto a r otteniamo:

[13]

dydr

=dwdr

+ k + r dkdr

,

da cui segue che:

[13’]

dy / drdk / dr

= r +1

dk / drdwdr

+ k⎛

⎝ ⎜

⎠ ⎟ .

- se mc/lc > mm/lm, allora p diminuisce al crescere di r; - se mc/lc < mm/lm, allora p aumenta al crescere di r; - se mc/lc = mm/lm, allora p non cambia al crescere di r.

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Quindi, nel caso che stiamo esaminando, il prodotto marginale del capitale, definito qui

come il rapporto (dy/dr)/(dk/dr), può essere pari al tasso dell’interesse r se e solo se dw/dr + k = 0;

e questa condizione, come vedremo, in generale non è soddisfatta. La non uguaglianza, in generale,

tra il prodotto marginale del capitale, così definito, e il tasso dell’interesse, fu osservata già da

Wicksell nelle Lectures, e per questo fu chiamata “Wicksell’s effect”3.

Per verificare che in generale dw/dr + k ≠ 0, riprendiamo il modello di Swan. Tenendo

presente che k = pm, la [12] per il caso di Swan è:

[14] y = w + rpm.

Differenziando la [14] rispetto a r otteniamo:

[15]

dydr

=dwdr

+mp+ rp dmdr

+ rm dpdr

Ora, la condizione del primo ordine [10] implica che:

[16]

e quindi, sostituendo la [16] nella [15], si ottiene:

[17]

dwdr

+ k = −rm dpdr

.

Pertanto, per r ed m entrambi strettamente positivi, affinché la condizione dw/dr + k = 0 sia

soddisfatta, occorre che il prezzo delle scatole del meccano non cambi al variare del tasso

dell’interesse – e di conseguenza del saggio del salario – e ciò potrebbe accadere soltanto se, per

ciascuna tecnica, la produzione di scatole del meccano e quella del bene di consumo impiegassero

sempre beni capitali e lavoro nella stessa proporzione. Ma questo implicherebbe, di fatto, che il

bene di consumo e le scatole del meccano siano la stessa merce, e quindi si tornerebbe al caso di

Solow.

3 Cfr. Uhr (1951), Robinson (1958) e Osborn (1958).

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5. La necessità del capitale aggregato

Fin qui abbiamo considerato due casi – Solow e Swan – molto particolari: in entrambi si

supponeva l’esistenza un solo bene capitale. In realtà, invece, esistono moltissimi beni capitale e ne

vengono inventati sempre di nuovi (in molti casi, il progresso tecnico consiste nell’invenzione di

nuovi tipi di beni capitale).

Nell’estendere l’analisi al caso con un numero qualsiasi n di beni capitale, la prima strada

che ci viene da seguire è quella di inserire nella funzione della produzione le quantità degli n beni di

cui consiste il capitale. Ovvero, continuando ad indicare con y il prodotto netto per unità di lavoro,

che supponiamo essere una quantità di merce 1, scriviamo: y = f(k1, k2, ..., kn), in cui ki è la quantità

impiegata (per unità di lavoro) del bene capitale i, con i = 1, 2, ..., n.

Tuttavia, come fu stabilito già negli anni ‘30 del XX secolo – attraverso un dibattito a cui

parteciparono, tra gli altri, Hicks e Robertson – la trattazione del capitale come un vettore di

quantità di beni capitale è incompatibile con la produttività marginale. Questo perché i beni capitale

sono, salvo eccezioni, input altamente specializzati: vengono inventati per essere usati in un certo

modo (esempio: il cacciavite a stella è inventato per essere usato con le viti a stella). Ciò implica

che il prodotto marginale di un singolo bene capitale, fermi restando l’impiego di lavoro e degli altri

beni capitale, è generalmente nullo.

Quando i beni capitale sono fisicamente specificati, questi sono generalmente

complementari sia tra loro, che con il lavoro. Così, il cambiamento della tecnica richiede che siano

cambiate tutte, o quasi tutte, le quantità dei beni capitale.

La questione può essere illustrata attraverso il noto esempio del “pastore marginale”

utilizzato già da Robertson.

Supponiamo che 10 pastori, con 10 verghe di cm 110, riescano ad ottenere ogni anno un

prodotto netto di 500 agnelli. Se aggiungessimo un pastore in più, ferme restando le verghe, non

avremmo alcun incremento degli agnelli, perché un pastore non è tale senza una verga. Quindi in

questo caso il prodotto marginale sarebbe zero.

Se invece, insieme al pastore, aggiungessimo anche una nuova verga di cm 110, allora: a)

non si potrebbe parlare di prodotto marginale del lavoro, perché starebbe aumentando anche

l’impiego di capitale; b) l’incremento di produzione non sarebbe decrescente (se ci sono rendimenti

costanti di scala, allora ogni pastore con una verga di cm 110, produce 50 agnelli l’anno).

Per avere il prodotto marginale decrescente del lavoro, il capitale deve cambiare di forma

fisica, rimanendo fermo in ammontare: quando l’impiego di lavoro passa da 10 a 11 pastori, il

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capitale fisico si trasforma da 10 verghe di cm 110 a 11 di cm 100 (in entrambi i casi si hanno

verghe per cm 1.100).

Quindi, se nella funzione della produzione mettessimo le quantità degli n diversi beni

capitale, allora le derivate parziali della funzione sarebbero, in generale, nulle (o addirittura la

funzione non sarebbe ovunque differenziabile). Per avere una funzione della produzione le cui

derivate parziali esistono ed esprimono il prodotto marginale, in essa il capitale deve entrare in

forma aggregata, come una quantità singola, in maniera da poter cambiare di composizione fisica

quando cambia la tecnica, rimanendo però fermo in ammontare, così che si possa vedere, ad

esempio, l’effetto sul prodotto derivante dall’incremento dell’impiego di lavoro a parità di capitale.

Ovvero, il che è lo stesso, il capitale aggregato è necessario affinché, di fronte ad un cambiamento

della tecnica e quindi della composizione fisica del capitale, si possa parlare di un incremento (o di

una riduzione) dell’impiego di capitale a parità di lavoro.4

6. Aggregare si, ma come?

Stabilito che il capitale debba apparire nella funzione della produzione in aggregato – cioè

come uno scalare e non come un vettore – il problema è in che modo aggregare il capitale.

Il modo in cui, nella pratica (cioè nella realtà), il capitale è aggregato è il valore, e gli

interessi sono calcolati sul valore del capitale. Dati i prezzi degli n beni capitale p1, p2, ..., pn, il

valore del capitale per unità di lavoro sarà: v = Σ pi⋅ki.

Tuttavia, quando il capitale si presenta aggregato in valore, attraverso i prezzi, il suo

ammontare non risulta espresso in “unità tecniche”, cioè in maniera che si possa stabilire una

relazione non ambigua tra la quantità di esso impiegata ed il prodotto ottenuto.5

Come ha scritto Wicksell: “the productive contribution of a piece of technical capital, such

as a steam engine, is determined not by its cost but by the horse-power which it develops” ([1901],

p. 149). Quindi, un incremento del valore del capitale impiegato per lavoratore v può essere dovuto

ad un mero cambiamento dei prezzi, in questo caso non si dovrebbe avere nessuna variazione di del

prodotto y. Ma una identica variazione di v potrebbe invece essere dovuta ad un incremento 4 Se al variare della tecnica cambia la composizione fisica del capitale, allora senza una misura aggregata del capitale non saremmo in grado di stabilire se l’impiego di capitale aumenta o diminuisce 5 Per chiarire la necessita di esprimere le quantità dei fattori in unità tecniche facciamo un esempio. L’impiego di lavoro può essere misurato in ore di lavoro, e questa è una misura tecnica: aumentando le ore di lavoro impiegate, il prodotto ottenuto aumenta. Se invece misurassimo l’impiego di lavoro in metri, sommando la statura dei lavoratori impiegati, questa non sarebbe una misura tecnica poiché un incremento dei metri di lavoro impiegati non si associa sicuramente ad un aumento del prodotto. Non sappiamo, infatti, se un incremento dei metri di lavoro impiegati sia dovuto ad un aumento del numero dei lavoratori (e quindi delle ore di lavoro) oppure alla mera sostituzione di lavoratori bassi con lavoratori alti, a parità del loro numero.

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dell’impiego di capitale fisico, e quindi dovrebbe far aumentare y. Ecco che il legame tra le

grandezze v e y è ambiguo, così che una funzione del tipo y = f(v) non si può scrivere.

Inizialmente, la teoria marginalista ha utilizzato una concezione della quantità aggregata di

capitale in termini di “periodo medio di produzione”. L’idea era quella di ricondurre l’impiego di

capitale con una certa tecnica all’anticipazione dei salari in periodi diversi, in modo simile a ciò che

fa Sraffa, in relazione al valore di una merce,6 nel cap. VI di Produzione di Merci a Mezzo di Merci.

Trovate, per una certa tecnica, le somme di capitale anticipate alle varie date, i rapporti tra queste ed

il totale del capitale anticipato venivano utilizzati come pesi per calcolare la media ponderata dei

periodi di anticipazione del capitale. Tale media θ veniva quindi considerata come una misura

dell’impiego di capitale con quella data tecnica. Così, il prodotto netto per unità di lavoro ottenuto

era visto come una funzione del periodo medio di produzione y = f(θ).

Il problema, come evidenziato già da Sraffa [cf. Sraffa (1960), pp. 46-48 e 50], risiede nel

fatto che – assumendo la capitalizzazione composta degli interessi, come è normale – questi pesi

non sono indipendenti dalla distribuzione del reddito e, di conseguenza, neppure la media lo è. Così,

come è stato recentemente dimostrato [cf. Fratini (2014)], l’ordinamento di due tecniche sulla base

del periodo medio di produzione può cambiare al variare della distribuzione e, in particolare, la

tecnica col periodo medio più lungo per un certo livello di r può diventare quella col periodo medio

più breve per un diverso valore del tasso dell’interesse. Quindi anche il periodo medio di

produzione non è esente dalle difficoltà di cui si è già parlato a proposito del capitale in valore.7

Quindi, riassumendo:

per avere una funzione della produzione differenziabile, le cui derivate parziali siano

interpretabili come il prodotto marginale di un fattore, il capitale deve essere preso in aggregato,

in modo tale: i) da poter cambiare forma fisica rimanendo fermo in ammontare; ii) che si possa

stabilire se l’impiego di capitale per lavoratore aumenta o diminuisce, anche quando esso cambia

di forma fisica;

servirebbe però che il capitale aggregato fosse espresso in unità tecniche, cioè in modo tale che

un aumento del capitale per unità di lavoro sia inequivocabilmente associato ad un aumento del

prodotto netto per unità di lavoro.

Sono emersi però dei problemi. In primo luogo, il modo usuale di aggregate il capitale, cioè

il valore, non va bene, perché il valore non è una unità di misura tecnica del capitale. In secondo

6 Il capitale impiegato con una certa tecnica può sempre essere visto come una merce composita. 7 Di tutto ciò, i primi economisti marginalisti non si accorsero, poiché utilizzavano nei loro calcoli la capitalizzazione semplice degli interessi e non quella composta [cf. Garegnani (1960)], nel qual caso, il problema sollevato da Sraffa non si verificherebbe. Infatti, se la capitalizzazione degli interessi avviene solo quando il prodotto finale emerge, il rapporto tra l’anticipazione di capitale ad una certa data ed il totale del capitale anticipato non dipende dal tasso dell’interesse, ed anzi risulta pari al rapporto tra l’impiego di lavoro a quella data ed il totale del lavoro incorporato.

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luogo, il modo inizialmente usato dagli economisti marginalisti per trattare il capitale aggregato,

cioè il periodo medio di produzione, risolverebbe il problema solo qualora aggiungessimo ipotesi

fortemente restrittive (prima tra tutte la capitalizzazione semplice degli interessi).

In conclusione, non c’è modo di aggregare il capitale in modo tale da poter avere la funzione

della produzione Y = F(K, L). La teoria rimane così con una concezione dicotomica del capitale. Da

una lato, domanda e offerta di capitale sono espresse in valore. Dall’altro, il capitale tecnico è

disaggregato (beni capitale o lavoro datato) e, pertanto, nella funzione di produzione il capitale

entra come un vettore di quantità. Ne segue che tale funzione risulta sostanzialmente inutile per

avere qualche garanzia circa il segno della relazione tra il tasso dell’interesse e la domanda di

capitale.

6. Ancora un tentativo: la funzione ‘surrogata’ della produzione

L’ultimo tentativo per arrivare ad una funzione della produzione con in capitale espresso come

aggregato è quello di Samuelson del 1962. Il tentativo di Samuelson è quello di partire dal capitale

disaggregato in molti diversi tipi di beni capitale, per poi derivare dal meccanismo della scelta della

tecnica una funzione “surrogata” della produzione che ne sintetizzi i risultati.

Nel modello di Samuelson si assume che vi siano molti diversi tipi di beni: α, β, γ, … .

All’uso di ciascun tipo di bene capitale corrisponde l’uso di una certa tecnica. Preso un certo livello

del tasso dell’interesse è possibile conoscere – come vedremo – la tecnica in uso, il saggio del

salario ed i prezzi. Proprio i prezzi consentono di esprimere il capitale in valore, cioè di

trasformarlo, come dice Samuelson, in una gelatina (‘jelly’), che può cambiare forma fisica.

In questo modello, i cambiamenti del tasso dell’interesse conducono, da un lato, al

cambiamento della tecnica in uso e quindi del tipo dei beni capitale impiegati, e, dall’altro lato, al

cambiamento dell’impiego di capitale-gelatina per lavoratore. Indicando con j l’impiego di gelatina

per lavoratore e con y, come al solito, il prodotto netto per lavoratore, se dalla scelta della tecnica

risultasse che:

i) dy / dr < 0, ovvero la diminuzione del tasso dell’interesse induce il passaggio a tecniche che

danno un maggiore prodotto netto per unità di lavoro (e che quindi devono utilizzare ‘più capitale’

per lavoratore, qualunque cosa significhi);

ii) dj / dr < 0, cioè l’impiego di gelatina per unità di lavoro aumenta al diminuire del tasso

dell’interesse,

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allora avremmo che ogni cambiamento della tecnica che comporti un incremento dell’impiego di

gelatina per lavoratore, comporta pure un incremento del prodotto netto per unità di lavoro. Si può

quindi rappresentare tale risultato attraverso una funzione surrogata della produzione y = f(j), con

dy / dj > 0 che quindi sarebbe un prodotto marginale ‘surrogato’ del capitale-gelatina.

6.1 La curva salario-interesse

Come abbiamo detto, Samuelson ipotizza che vi siano molti tipi di beni capitale: α, β, γ, … , a cui

corrispondono altrettante tecniche. Cominciamo considerando una sola di queste, la tecnica α, cioè

quella che impiega beni capitale di tipo α:

αα unità di bene α & lα unità di lavoro → 1 unità di α

αc unità di bene α & lcα unità di lavoro → 1 unità di c.

Come in precedenza, facciamo pari a 1 l’impiego di lavoro e costruiamo un sistema in cui il

prodotto netto fisico sia costituito solo dal bene di consumo (output finale). Ovvero, indicando con

yα l’output del bene di consumo e con kα l’impiego e l’output di capitale α (entrambi per unità di

lavoro), yα e kα devono essere tali che:

[18]

1= yαlcα + kαlα

[19]

kα = yaαc + kααα

infatti la [18] implica che l’impiego di lavoro sia 1 e la [19] che l’output di beni α sia pari alla

quantità di essi impiegata nei due settori.

Assumendo che: i) si utilizzi la tecnica α; ii) i salari siano pagati posticipatamente; iii) non

ci siamo extra-profitti; il saggio del salario, wα, ed il prezzo del bene α, pα, entrambi in termini del

bene di consumo, associati al tasso dell’interesse r devono essere tali che:

[20]

1=αc pα (1+ r)+ lcαwα

[21]

pα =αα pα (1+ r)+ lαwα .

Possiamo esprimere il saggio del salario wα ed il prezzo pα che risolvono le equazioni [20] e [21]

come funzioni del tasso dell’interesse:

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[22]

wα (r) =1−αα (1+ r)

lcα + (lα ⋅αc − lc

α ⋅αα )(1+ r)

[23]

pα (r) =lα

lcα + (lα ⋅αc − lc

α ⋅αα )(1+ r).

Il grafico della funzione wα(r) nella [22] è detto “curva salario-interesse” per la tecnica α ed

ha le seguenti proprietà:

1) la funzione wα(r) è monotona decrescente (c’è una relazione invera tra wα e r);

2) wα(0) = yα (ovvero, quando il tasso dell’interesse è nullo, il saggio del salario assorbe l’intero

prodotto netto per lavoratore);

3) ∃ Rα tale che wα( Rα) = 0 (visto che la produzione è circolare, c’è una tasso dell’interesse

massimo);

4) la curva è convessa se

αc / lcα >αα / lα ; è concava se

αc / lcα <αα / lα ; è lineare se

αc / lcα =αα / lα .

Per le dimostrazioni di queste quattro proprietà, rinviamo all’appendice.

Fig. 2 – Curve salario-interesse

6.2 L’impiego di gelatina con una data tecnica

Se l’uso della tecnica α comporta, come stiamo assumendo, extra-profitti nulli, allora il prodotto

netto per lavoratore yα deve essere appena sufficiente per coprire il saggio del salario wα(r) e gli

interessi al tasso r sul valore del capitale impiegato per lavoratore: jα(r) = kα pα(r). Ovvero:

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[24]

yα = wα (r)+ r ⋅ jα (r)

da cui segue:

[25]

jα (r) =yα −wα (r)

r.

Fig. 3 – Impiego di capitale con curva convessa

La [25] ci consente di visualizzare graficamente l’impiego di capitale-gelatina per lavoratore

associato ad un certo tasso dell’interesse r’. Partiamo dalla curva salario-interesse. Dato il tasso

dell’interesse r’, individuiamo sulla curva il punto (r’, wα’). Si dimostra facilmente che

l’ammontare di capitale jα(r’) è pari alla pendenza (cambiata di segno) della retta che congiunge il

punto di coordinate (r’, wα’) con il punto (0, yα), cioè il punto in cui la curva incontra l’asse delle

ordinate. Infatti, la pendenza della retta che passa per i punti (r’, wα’) e (0, yα), come è noto, è pari

a (yα - wα’)/(0 - r’).

Pertanto, se la curva salario-interesse è convessa, come nel caso della figura 3, allora jα(r) è

una funzione decrescente del tasso dell’interesse, ovvero il valore del capitale per lavoratore

diminuisce al crescere di r.

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Questo è dovuto al solo effetto Wicksell di prezzo. Infatti, da un lato, l’impiego di capitale

fisico è sempre pari a kα unità di beni capitali di tipo α, e, dall’altro lato, la convessità della curva

salario-interesse è associata al caso

αc / lcα >αα / lα , cioè il caso in cui il prezzo dei beni capitale α

in termini del bene di consumo diminuisce al crescere di r (si veda anche l’equazione [23]).

Fig. 4 – Impiego di capitale con curva concava

Per motivi speculari, se la curva salario-interesse è concava, come nel caso della figura 4,

allora jα(r) è una funzione crescente del tasso dell’interesse, ovvero il valore del capitale per

lavoratore aumenta al crescere di r. Anche in questo caso si tratta solo di un effetto di prezzo.

Infine, se la curva salario-interesse è una retta, allora il valore del capitale per lavoratore con

la tecnica α non cambia al variare di r, ma rimane pari alla pendenza (col segno cambiato) della

retta salario-interesse.

6.3 La scelta della tecnica

Fin qui abbiamo concentrato l’attenzione sulla sola tecnica α, ma tutto ciò che abbiamo detto vale

egualmente per ciascuna delle altre tecniche. Ora si tratta di individuare, dato un certo livello del

tasso dell’interesse, la tecnica più conveniente per le imprese, cioè quella che massimizza gli extra-

profitti.

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Indichiamo con Θ = {α, β, γ, … } l’insieme delle tecniche disponibili e con θ un suo

generico elemento. Dato un tasso dell’interesse r ed un saggio del salario w, le imprese scelgono la

tecnica che massimizza gli extra-profitti, tra quelle disponibili. Ovvero:

maxθ

yθ − r ⋅ pθ (r) ⋅ kθ −w

s.t. : θ ∈Θ.

Impostato il problema di scelta della tecnica, possiamo fare alcune osservazioni che ci

consentono di trovare facilmente la sua soluzione.

Osservazione 1: presa una qualsiasi coppia di tecniche, ad esempio α e β, la scelta tra esse non

dipende dal dato saggio del salario. Infatti, come è chiaro, si ha che

yα − r ⋅ pα (r) ⋅ kα −w > yβ − r ⋅ pβ (r) ⋅ kβ −w se e solo se

yα − r ⋅ pα (r) ⋅ kα > yβ − r ⋅ pβ (r) ⋅ kβ .

Osservazione 2: come conseguenza dell’osservazione 1, il problema di massimo delle imprese può

essere riscritto nella forma:

maxθ

yθ − r ⋅ pθ (r) ⋅ kθs.t. : θ ∈Θ

.

La cui soluzione dipende solo da r.

Osservazione 3: applicando l’uguaglianza [24] ad una qualsiasi tecnica θ, abbiamo che per

definizione:

wθ (r) = yθ − r ⋅ pθ (r) ⋅ kθ , ∀ θ ∈ Θ. Quindi, il problema di massimo diventa:

maxθ

wθ (r)

s.t. : θ ∈Θ.

Ovvero, dato un certo livello del tasso dell’interesse, la tecnica ottimale è quella che permette di

pagare il più alto saggio del salario associato ad extra-profitti nulli. Infatti, come si verifica

facilmente, se al tasso dell’interesse r’ si avesse

wα ( ʹ′ r ) > wβ ( ʹ′ r ), allora al saggio del salario

wα ( ʹ′ r )

l’uso della tecnica α comporterebbe il pareggio di bilancio e quello della β perdite, mentre al saggio

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wβ ( ʹ′ r ) l’uso della β comporterebbe il pareggio di bilancio ma quello della α darebbe extra-profitti.

In entrambi i casi la tecnica α sarebbe la migliore.

Ora, nel suo ragionamento, Samuelson assume – in forma di ipotesi semplificatrice – che le

curve salario-interesse delle diverse tecniche, ovvero wα(r), wβ(r), wγ(r), … , siano delle rette.

Supponendo che per le tecniche α, β e γ le curve siano quelle della figura 5, abbiamo che la

tecnica α è in uso per ogni r ∈ [0, r’], la tecnica β per ogni r ∈ [r’, r”], e la tecnica γ per ogni r ∈

[r’, Rγ]. I livelli del tasso dell’interesse r’ e r” si chiamo “punti di switch”, cioè passando attraverso

questi punti, una tecnica viene spenta ed un’altra accesa.

Fig. 5 – Scelta della tecnica e punti di switch

6.4 La funzione surrogata della produzione

Nel caso delle curva salario-interesse lineari, considerato da Samuelson, le due condizioni che

servono per avere la funzione surrogata ricorrono. Primo, come si vede dalla figura, ogni volta che

al crescere del tasso dell’interesse si cambia la tecnica, si passa sempre ad una tecnica con un più

basso prodotto netto per lavoratore, poiché

yα > yβ > yγ .

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Secondo, ogni volta che al crescere del tasso dell’interesse si cambia la tecnica, si passa

sempre ad una tecnica con un più basso impiego di gelatina per lavoratore. Infatti, come abbiamo

visto, nel caso delle curve salario-interesse lineari, si ha

jθ = −dwθ / dr , e quindi, visto che wα(r) è

più ripida di wβ(r), che a sua volta è più ripida di wγ(r), abbiamo

jα > jβ > jγ .

Fig. 6 – Prodotto netto e impiego di gelatina, per lavoratore

Così, come si vede dalla figura 6, si ha che y e j diminuiscono al crescere di r. Se vi fossero

un continuo di tecniche (tutte lineari), così da avere la differenziabilità delle funzioni y(r) e j(r), si

avrebbe dy/dr < 0 e dj/dr < 0.

Ne seguirebbe, in primo luogo, che esiste una funzione y = f(j), con f’(j) > 0, tale per cui:

ʹ′ f ( j) =dy / drdj / dr

.

In secondo luogo, visto che per l’assenza di extra-profitti y = w + r⋅j, differenziando rispetto a r

otteniamo:

[26]

dydr

=dwdr

+ j + r ⋅ djdr

e visto che nel caso delle curve salario-interesse lineari si ha sempre j = - dw/dr, allora:

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[27]

dy / drdj / dr

= r

che implica l’uguaglianza, nel caso dell’uso della tecnica ottimale, tra il prodotto marginale

“surrogato” del capitale f’(j) e il tasso dell’interesse.

7. Il ritorno delle tecniche

Nel caso delle curve salario lineari, l’idea di Samuelson di una funzione surrogata della produzione

che leghi y e j sembra funzionare. Le riduzioni del tasso dell’interesse comportano l’impiego di

tecniche a maggiore intensità di capitale. In più, tecniche con un maggiore impiego di capitale per

unità di lavoro j, consentono di ottenere un maggior output per unità di lavoro y.

Però, le curve salario rettilinee, come sappiamo, richiedono che i beni capitale siano

impiegati nella stessa proporzione rispetto al lavoro tanto nella produzione del bene di consumo,

quanto nella loro stessa produzione. Questo, a ben vedere, è paradossale: è come se iniziassimo un

processo produttivo senza sapere se alla fine otterremo i beni di consumo o i beni capitale. L’unico

modo per sfuggire a questo paradosso sarebbe quello di assumere che i beni di consumo e i deni

capitale siano la stessa merce, ma allora torneremmo al caso di Solow.

Se invece abbandoniamo questa ipotesi molto particolare, allora i prezzi dei beni capitale in

termini del bene di consumo cambiano al variare del tasso dell’interesse. E questi cambiamenti,

come vedremo, sono molto rilevanti per la scelta delle tecniche.

Supponiamo, per semplicità, che ci siano soltanto due tecniche, ovvero assumiamo

Θ = {α,β } . Abbandonando l’ipotesi delle curve salario rettilinee, può succedere, come vedremo tra

poco, che una stessa tecnica, ad esempio la α, sia in uso per due diversi livelli del tasso di interesse,

ma non per i tassi d’interesse compresi tra questi due. Questo fenomeno è detto “ritorno delle

tecniche” o “reswitching”.

Come abbiamo argomentato nel paragrafo 6.3, dato un certo livello del tasso dell’interesse r,

la tecnica ottimale è quella che consente di pagare il più alto saggio del salario. Di conseguenza,

abbiamo che:

- se wα(r) > wβ(r) ⇒ è in uso la tecnica α;

- se wα(r) < wβ(r) ⇒ è in uso la tecnica β;

- se wα(r) = wβ(r) ⇒ le due tecniche sono simultaneamente in uso.

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Un livello del tasso dell’interesse a cui le due tecniche sono contemporaneamente in uso è

detto “punto di switch”, poiché esso fa da spartiacque tra i livelli di r per cui è in uso una tecnica e

quelli per cui è in uso l’altra.

Nel caso con le curve salario-interesse lineari considerato da Samuelson, è chiaro che un

solo punto di switch è possibile. Tuttavia, in generale, nel caso che stiamo ora considerando, è

possibile che vi siano due punti di switch tra le due tecniche.

Fig. 7 - Reswitching

Cominciamo ricordando che per l’equazione [22], già ottenuta sopra, abbiamo che:

[22]

wα (r) =1−αα (1+ r)

lcα + (lα ⋅αc − lc

α ⋅αα )(1+ r)

e lo stesso ragionamento, applicato alla tecnica β, ci porta a:

[28]

wβ (r) =1−ββ (1+ r)

lcβ + (lβ ⋅ βc − lc

β ⋅ ββ )(1+ r).

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Di conseguenza, un punto di switch è un livello del tasso dell’interesse r tale che:

[29]

1−αα (1+ r)lcα + (lα ⋅αc − lc

α ⋅αα )(1+ r)=

1−ββ (1+ r)lcβ + (lβ ⋅ βc − lc

β ⋅ ββ )(1+ r)

e siccome la [29] è una equazione di secondo grado,8 essa può avere fino a due soluzioni

economicamente significative, cioè con tassi dell’interesse strettamente positivi.

Assumiamo, ad esempio, che con la tecnica α la produzione del bene di consumo sia a

maggiore intensità di capitale rispetto alla produzione del bene α; mentre con la tecnica β sia la

produzione del bene capitale ad essere quella a maggiore intensità di capitale. Sotto questa ipotesi,

per quando detto nel paragrafo 6.1, la curva salario wα(r) sarà convessa (in rosso) e la curva wβ(r)

sarà invece concava (in blu). Così, come si vede nella figura 7, ci sono due punti di switch: r’ e r’’.

Si verifica pertanto il ritorno delle tecniche: la tecnica α è in uso per 0 ≤ r ≤ r’ e per r’’ ≤ r ≤

Rα, ma non per tassi dell’interesse r’ < r < r’’.

8. Le implicazioni del ritorno delle tecniche

La possibilità del ritorno delle tecniche dimostra che i risultati raggiunti da Samuelson sotto

l’ipotesi delle curve salario-interesse lineari non sono valide in generale. Per cui, anche nel

semplice esempio con un solo bene di consumo, ed un solo bene capitale per ogni tecnica, le

condizioni richieste per l’esistenza di una funzione surrogata della produzione possono non

ricorrere.

In primo luogo, infatti, possiamo osservare che, nel caso introdotto nel precedente paragrafo,

è possibile che l’impiego di gelatina per unità di lavoro j aumenti al crescere di r. Questo avviene: i)

in conseguenza dell’effetto di prezzo quando è in uso la tecnica β, la cui curva salario-interesse è

concava; ii) in conseguenza dell’effetto reale in un intorno del tasso dell’interesse r”, in

corrispondenza del quale, il cambiamento di tecnica comporta un salto verso l’alto dell’impiego di

gelatina per lavoratore. Con riferimento a quest’ultimo punto, ricordando che, per la [25], jα = (yα –

wα)/r, e che analogamente jβ = (yβ – wβ)/r, visto che, per r = r’’, wα = wβ, abbiamo di conseguenza

che yα > yβ implica jα > jβ.

8 Se invece le curve salario fossero lineari, l’equazione sarebbe di primo grado e potrebbe avere una sola soluzione.

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Fig. 8 – Curva di domanda di capitale per lavoratore

In secondo luogo, al crescere del tasso dell’interesse è possibile che si passi ad una tecnica

che dia un maggiore prodotto netto per unità di lavoro – e che quindi impieghi, in qualche senso,

“più capitale tecnico”, sebbene in cambiamento del tipo di beni capitale non ci consenta di stabilire

questo. Infatti, quando il tasso dell’interesse aumenta, passando da un livello di poco inferiore a r’’,

ad un livello appena superiore, il prodotto netto per lavoratore aumenta, passando da yβ a yα.

Fig. 9 - Curva del prodotto netto per lavoratore

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Se ne conclude che la presenza di tecniche alternative di produzione e la scelta tra di esse

non implica affatto una relazione inversa tra r e l’intensità capitalistica della produzione. L’intensità

capitalistica della produzione, misurata da j, può infatti aumentare al crescere di r, come mostrato.

In più, anche il prodotto netto per lavoratore y può crescere al crescere di r, dimostrando che il

problema non riguarda meramente il valore del capitale impiegato, ma è un problema con effetti

reali. Il tentativo di Samuelson è quindi fallito: si può costruire una funzione surrogata della

produzione solo quando il prodotto netto ed il capitale sono la stessa merce, ma in questo caso non

ce n’è bisogno.

Appendice

Assumendo che sia in uso la tecnica α, possiamo esprimere il saggio del salario come funzione del

tasso dell’interesse, come nell’equazione [22] del testo:

[A1]

wα (r) =1−αα (1+ r)

lcα + (la ⋅αc − lc

α ⋅αα )(1+ r).

Con riferimento alla funzione wα(r), si dimostreranno quattro proposizioni.

Proposizione 1: la funzione wα(r) è monotona decrescente.

Dimostrazione: differenziando la [A1] rispetto a r otteniamo:

[A2]

dwα

dr=−αα [ c

α + (α ⋅αc − cα ⋅αα )(1+ r)] − [1−αα (1+ r)](α ⋅αc − c

α ⋅αα )[ c

α + (α ⋅αc − cα ⋅αα )(1+ r)]2

che con opportune semplificazioni diventa:

[A3]

dwα

dr= −

α ⋅αc

[ cα + (α ⋅αc − c

α ⋅αα )(1+ r)]2.

Si ha quindi dwα/dr < 0 per ogni livello di r

Proposizione 2: wα(0) = yα.

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Dimostrazione: ponendo r = 0 abbiamo:

[A4]

wα (0) =1−αα (1+ 0)

lcα + (la ⋅αc − lc

α ⋅αα )(1+ 0)=

1−ααlcα + (la ⋅αc − lc

α ⋅αα ).

Ora, come abbiamo visto nel par. 6.1, Ovvero, indicando con l’output del bene di consumo

yα e l’impiego e l’output di capitale α kα (entrambi per unità di lavoro) devono risolvere il sistema

formato dalle equazioni [18] e [19]. Di conseguenza si ha che:

[A5]

kα =αc

lcα + (lα ⋅αc − lc

α ⋅αα )

[A6]

yα =1−αα

lcα + (lα ⋅αc − lc

α ⋅αα )

e pertanto wα(0) = yα

Proposizione 3: ∃ Rα > 0 tale che wα( Rα) = 0.

Dimostrazione: basta dimostrare che esiste Rα > 0 tale che

1−αα (1+ Rα ) = 0 . Questo si verifica

facilmente ponendo

Rα = (1−αα ) /αα

Proposizione 4: se

αc / lcα >αα / lα , allora la curva salario-interesse wα(r) è convessa.

Dimostrazione: abbiamo già calcolato la derivata prima [A3] della funzione wα(r), ora ne

calcoliamo la derivata seconda:

[A3]

d2wα

dr2= 2 lα ⋅αc (lα ⋅αc − lc

α ⋅αα )[lc

α + (lα ⋅αc − lcα ⋅αα )(1+ r)] 3

.

Nella [A3], il denominatore è positivo per ogni livello del tasso dell’interesse 0 ≤ r ≤ Rα, infatti:

[A4]

lcα + (la ⋅αc − lc

α ⋅αα )(1+ r) = lcα [1−αα (1+ r)] + lα ⋅αc(1+ r) .

Di conseguenza, la curva è convessa, ovvero d2wα / dr2 > 0, se e solo se

(la ⋅αc − lcα ⋅αα ) > 0 , cioè

se e solo se

αc / lcα >αα / lα

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