La rassegna stampa diOblique - Oblique, artigianato per l ... · – Roberto Cerati e Antonio...

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Mettete insieme due scrittori, un poeta e tre giornalisti e avrete un’idea di che cosa siano la meschinità, la gelosia e l’invidia. Loredana Lipperini, «La critica fai da te» la Repubblica, 2 giugno 2009 3 Maria Serena Palieri, «J.D. contro J.D., chi ha ragione?» l’Unità, 4 giugno 2009 5 Paolo Di Stefano, «L’abbandono delle biblioteche nazionali» Corriere della Sera, 7 giugno 2009 6 Pippo Ciorra, «Libri in piazza» il manifesto, 10 giugno 2009 8 Giorgio Vasta, «Cosa raccontano i giovani scrittori» la Repubblica, 10 giugno 2009 10 Simonetta Fiori, «L’Italia dei romanzi post-gay» la Repubblica, 11 giugno 2009 12 Claudio Siniscalchi, «Kaputt, il ritorno di Malaparte. C’era un Littell in Italia ma nessuno lo diceva» Libero, 12 giugno 2009 15 Rick Moody, «Moody e McGowan, voci della nuova America» Corriere della Sera, 12 giugno 2009 17 Benedetta Marietti, «Va’ dove ti porta il titolo» la Repubblica, 12 giugno 2009 19 Luca Briasco, «“Tall tale” alla Sedaris» Alias del manifesto, 13 giugno 2009 21 Maurizio Bono, «Così cresce il mio impero editoriale» la Repubblica, 13 giugno 2009 24 La rassegna stampa di dal primo al 30 giugno 2009 O blique Luigi Mascheroni rs_giugno09.qxp 01/07/2009 15.10 Pagina 1

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Mettete insieme due scrittori, un poeta e tre giornalisti e avrete un’idea di che cosa siano la meschinità, la gelosia e l’invidia.

– Loredana Lipperini, «La critica fai da te»la Repubblica, 2 giugno 2009 3

– Maria Serena Palieri, «J.D. contro J.D., chi ha ragione?»l’Unità, 4 giugno 2009 5

– Paolo Di Stefano, «L’abbandono delle biblioteche nazionali»Corriere della Sera, 7 giugno 2009 6

– Pippo Ciorra, «Libri in piazza»il manifesto, 10 giugno 2009 8

– Giorgio Vasta, «Cosa raccontano i giovani scrittori»la Repubblica, 10 giugno 2009 10

– Simonetta Fiori, «L’Italia dei romanzi post-gay»la Repubblica, 11 giugno 2009 12

– Claudio Siniscalchi, «Kaputt, il ritorno di Malaparte. C’era un Littell in Italia ma nessuno lo diceva»Libero, 12 giugno 2009 15

– Rick Moody, «Moody e McGowan, voci della nuova America»Corriere della Sera, 12 giugno 2009 17

– Benedetta Marietti, «Va’ dove ti porta il titolo»la Repubblica, 12 giugno 2009 19

– Luca Briasco, «“Tall tale” alla Sedaris»Alias del manifesto, 13 giugno 2009 21

– Maurizio Bono, «Così cresce il mio impero editoriale»la Repubblica, 13 giugno 2009 24

La rassegnastampa di

dal primo al 30 giugno 2009Oblique

Luigi Mascheroni

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– Roberto Cerati e Antonio Baravalle, «L’Einaudi non pubblica a scatola chiusa»la Repubblica, 17 giugno 2009 26

– Pietro Citati, «L’irresistibile leggerezza di Zia Mame»la Repubblica, 17 giugno 2009 27

– Oreste Pivetta, «Goffredo Fofi: “Gli intellettuali italiani? Vil razza omologata”»l’Unità, 18 giugno 2009 30

– Stefano Garzonio, «Ai margini della Russia»il manifesto, 18 giugno 2009 32

– Roberto Calasso, «Il vero editore infrange il tabù del pubblicabile»Corriere della Sera, 20 giugno 2009 35

– Stefano Salis, «Il Giovane Holden va in tribunale»Il Sole 24 Ore, 20 giugno 2009 38

– Tommaso Pincio, «L’ultimo di Pynchon»il manifesto, 20 giugno 2009 40

– Jay McInerney, «L’ultima sfida del narratore: difendere il valore dell’umiltà»Corriere della Sera, 22 giugno 2009 43

– Giuseppe Genna, «Fallo, Leo: ti prego»Vanity Fair, 24 giugno 2009 45

– Marco Romani, «Roma, la carica degli editori. Crescono e sfidano Milano»Il Venerdì della Repubblica, 26 giugno 2009 47

– Antonio Scurati, «La letteratura al tempo della cronaca»la Repubblica, 26 giugno 2009 49

– Alfonso Berardinelli, «Ecco un libro che spiega bene tutti i veri problemi della nostra letteratura»Il Foglio, 27 giugno 2009 51

– Luigi Mascheroni, «Tempeste letterarie»il Giornale, 27 giugno 2009 53

– Alfredo D’Agnese, «Il manager dei libri»la Repubblica Napoli, 28 giugno 2009 55

– Paolo Mauri, «Qualcuno fermi il Premio Strega»la Repubblica, 30 giugno 2009 57

– Massimiliano Parente, «Questi piccoli editori che non crescono mai»Libero, 30 giugno 2009 59

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L a mail arriva nella casella postale di coloro che si sono iscritti aInternet Bookshop, una delle più celebri librerie online italiane, einvita a diventare critici letterari. È facile: basta entrare nella sche-

da del libro prescelto, riempire l’apposita scheda con un massimo di set-tecento caratteri e premere il bottone “Invia la tua recensione al Piccolocritico”. Stavolta, oltre alla consueta pubblicazione su Ibs, la recensioneviene letta a Radiodue, nel programma Caterpillar.

Un gioco, certo: ma anche una spia interessante della curiosità, e anchedella golosità, con cui il mondo editoriale guarda a Internet, e al semprecitato, ma ugualmente misterioso, “potere del passaparola”. In altri ter-mini, ci si chiede quanto la Rete aiuti a vendere. La risposta non c’è,come ovvio: dipende dal libro, dal momento, dal caso. Sicuramente,però, Internet ha rilanciato la discussione letteraria sottraendola ai mediatradizionali.

Tutto è cominciato, già diversi anni fa, con i cosiddetti lit-blog, chehanno finito col prendere il posto delle riviste cartacee: blog di singoliautori, o vere e proprie e-zine come Nazione Indiana, Carmilla, primoamore, hanno ricoperto una duplice funzione di approfondimento epubblicazione di inediti. Su Nazione Indiana Roberto Saviano ha posta-to i primi stralci di quello che sarebbe divenuto Gomorra. Su Carmilla ènata e si sviluppa la discussione sul New Italian Epic. Il primo amoresegnala con regolarità scrittori e poeti giovani e giovanissimi.

Poi sono apparsi siti e blog, da Vibrisse (dell’editor Mozzi) fino alapoesiaelospirito. Ad allargare ulteriormente la discussione, è cre-

sciuto aNobii. Tecnicamente,una libreria virtuale: o meglio,l’insieme di molte librerie virtua-li che vanno a intrecciarsi l’unacon l’altra, grazie alla segnalazio-ne automatica dei livelli di com-patibilità dei singoli proprietari(basso, medio, alto, molto alto,super). In poche parole: chi è unappassionato di Ian McEwan edespone nel proprio scaffale tutti isuoi libri, riceve suggerimenti suchi possiede gusti simili ai pro-pri, e può scegliere di dare agliaffini lo status di “vicino” (o diamico, nel caso lo conosca perso-nalmente). Qualcosa che potreb-be essere definito come il Meeticdella carta, dove ad incrociarsinon sono single in cerca di amore(come sul celebre sito d’incon-tri), ma lettori desiderosi di con-fronto sui testi che prediligono odetestano.

LA CRITICA FAI DA TELoredana Lipperini, la Repubblica, 2 giugno 2009

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Un’idea semplice e subito popolarissima: aNobiinasce nel 2005 a Hong Kong per iniziativa di GregSung, prende il nome dal tarlo della carta (Anobiumpunctatum), e si basa sul principio cardine dei socialnetwork. Ovvero, mettere in rete sé stessi e i proprigusti e incontrare, parlare, scambiarsi idee. In questocaso, l’individuo si identifica con i propri libri: suaNobii appaiono, naturalmente, solo le copertine (siimmettono inserendo il titolo: e se questo manca, sipuò aggiungere il volume digitandone il codice Isbn).In più, però, ci sono decine di informazioni: la data diinizio e di fine lettura, l’eventuale abbandono di queltesto, le sensazioni che si provano pagina dopo pagi-na (riportabili nelle “note a margine”), oltre al voto(da una a quattro stelline) e all’eventuale recensione.Volendo, inoltre, il libro in questione può esserescambiato con altri utenti, o venduto.

Partecipano al gioco centinaia di migliaia di utentiitaliani (in tutto, i libri presenti su aNobii sono oltreundici milioni), che si distribuiscono nei numerosissi-mi gruppi di discussione. Ne esistono sul cyberpunk,gli scrittori del Sud, i romanzi storici, il fantasy, ilnoir. Ci sono gruppi dove si svolgono sfide letterarieo ci si cimenta con la scrittura creativa. Il più popola-re (oltre 4500 iscritti) si chiama “Il ghetto dei lettori”e offre mensilmente un vero e proprio passaparolache si chiama “Lettura collettiva”: il primo iscrittoconsiglia il secondo, il secondo consiglia il terzo e cosìvia… Nel gruppo “Gli imperdibili” (circa 3000 iscrit-ti), si trova anche una classifica, votata dagli utenti,dei migliori romanzi del 2008. Nell’ ordine: La solitu-dine dei numeri primi di Paolo Giordano, HarryPotter e i doni della morte di J.K. Rowling, Kafka

sulla spiaggia di Haruki Murakami, Firmino di SamSavage, Lo spazio bianco di Valeria Parrella.

E questo riporta alla domanda iniziale: aNobii aiutaun libro a vendere oppure fornisce visibilità a libriche già hanno ottenuto un discreto successo?Risposta difficilissima. Il riscontro più ovvio dovreb-be essere nel numero di stelline e nelle presenze nellelibrerie. Per esempio, Gomorra è in 7688 librerie,con voto massimo. L’eleganza del riccio ha tre stelli-ne ed è in quasi settemila scaffali. Twilight ha quasiquattro stelline ed è stato letto da quattromila utenti.Titoli che sono presenti anche nelle classifiche uffi-ciali. E proprio le critiche in rete, positive e negative,hanno contribuito a costruire alcuni “casi”: Saviano(subito appoggiato e promosso), i Wu Ming, e laMeyer (anche molto stroncata ma discussa). Eppurenon sempre tutto corrisponde. Per esempio: un fan-tasy come Bryan di Boscoquieto di FedericoGhirardi ha venduto, stando alle cifre di NewtonCompton, ventimila copie, ma su aNobii è poco pre-sente, mentre Pan, di Francesco Dimitri, amatissimodagli utenti del sito, non vanta, secondo Marsilio,cifre di vendita paragonabili.

Dunque? Dunque, ancora una volta, non semprequel che vale fuori della rete è riportabile al suo inter-no: Internet non regge il confronto con altri mezzicome piattaforma di lancio per bestseller. Ma, appun-to, è uno strumento formidabile di confronto: a volte,in grado di far cambiare idea a chi non si avvicinereb-be mai a un determinato romanzo, e che grazie all’en-tusiasmo di altri utenti scopre strade letterarie chenon immaginava. In televisione, o su carta, questo èimpossibile.

Oblique Studio

Dai libri al web ecco il popolo dei recensori.Blog, Internet Bookshop e il recente aNobii:

crescono gli iscritti ai gruppi letterari.Che esaltano o stroncano le opere

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Q uali possibilità ha il giovanotto che si cela dietro il nome di J.D.California – J.D., cioè John David, come J.D., cioè Jerome DavidSalinger – di pubblicare Coming trough the Rye, il suo romanzo

in cui appare il protagonista di The Catcher in the Rye, HoldenCaulfield, nei panni di Mister C., settantaseienne in libera uscita dall’ospi-zio? Nessuna. E allora perché John David California si è messo in questaimpresa? Perché è devotamente ingenuo al personaggio salingeriano diculto o per farsi pubblicità? Eccoli qui gli interrogativi che nascono dallavicenda di questi giorni: California, nom de plume del giovane biondo diorigini sembra svedesi del quale ai giornali viene diffusa l’immagine,annuncia la pubblicazione in autunno del «sequel» del Giovane Holden.Si tratta di un seguito non autorizzato. E infatti i legali di Salinger fannoricorso a Manhattan contro la Windupbird Publishing, un’oscura casaeditrice con sede a Londra, la Nicotext, una casa editrice svedese, e ladistribuzione, Scb, con sede a Gardena, California. Ora, siccome dal1965, quando si è autorecluso nel suo cottage di Cornish, NewHampshire, Salinger ha comunicato col mondo solo per vie legali controquelli che considerava attacchi alla sua privacy – memorabile l’unica suaapparizione dal vivo, nel 1986, in tribunale contro il biografo non auto-rizzato Ian Hamilton – era impossibile non prevedere che si sarebberivoltato contro lo «scippo»: così lo hanno definito i suoi legali.

Ma di chi sono i personaggi romanzeschi? Appartengono all’autore dallacui fantasia sono nati – o agli eredi nei settant’anni successivi alla suamorte – oppure, entrati nell’immaginario collettivo, divengono proprietàdi chiunque? «Sono di proprietà dell’autore. È lui a dover autorizzarel’utilizzo di un personaggio riconoscibile. Così è in Italia, ma così è quasidappertutto» spiega Stefania Ercolani, dirigente della Siae, autrice di untesto sull’argomento (Il diritto d’autore, i diritti connessi, Giappichelli) edocente di diritto dell’informazione alla Sapienza. In questo caso, osserva,non si tratta neppure di un plagio nascosto, ma dell’utilizzo di HoldenCaulfield come traino economico per l’opera. La legislazione statunitensesul piano del diritto economico è uguale a quella italiana. La nostra,aggiunge l’esperta, è poi più dettagliata per ciò che concerne il «dirittomorale» di autori o eredi o, nel caso questi manchino, la presidenza delConsiglio, a non vedere storpiata l’opera. Esempio limite: degli ultrasusano Va’ pensiero per sbeffeggiare gli avversari, palazzo Chigi li querelaper danno a un bene patrio…

Il «sequel» è classicamente usatodall’industria cinematografica. Nel-l’editoria i «seguiti» rimandano auna produzione di mercato, nonautoriale. Dumas padre che fabbri-cava i sequel di sé stesso, dopo i Tremoschettieri, Vent’anni dopo, Ilvisconte di Bragelonne, intrattenevacol pubblico il rapporto che hannocon esso i bestselleristi di oggi. Negliultimi anni i casi più celebri disequel, nel mondo del libro, sonostati i due «dopo» di Via col vento,Rossella di Alexandra Ripley uscitonel 1991 e Il mondo di Rhett diDonald McCaig uscito nel 2008.Ma, in entrambi i casi, le redinierano saldamente nelle mani deglieredi di Margaret Mitchell, chehanno scelto gli autori. Hanno eso-nerato dal compito un altro incarica-to, Pat Conroy, autore del Principedelle maree, che si era preso la liber-tà di mettere del sesso tra Rhett eAshley, e si sono adoperati per bloc-care un romanzo di Alice Randall lacui voce narrante era una figlia della«mammy» di Rossella e uno diEmma Tennant, Tara, perché consi-derato «troppo inglese». Insomma,Tara e il suo mondo sono nostri efino al 2019 – settant’anni dallamorte della Mitchell – ce li gestiamonoi… E Holden Caulfield è di J.D.Salinger e, oggi e per un settanten-nio dopo la sua dipartita, altri non cimettano le mani.

J.D. CONTRO J.D., CHI HA RAGIONE?ECCO DI CHI È IL GIOVANE HOLDEN

Di chi è Holden Caufield, del suo autore o dei suoi lettori? Dopo il nuovo caso Salinger, parliamo del fenomeno dei «sequel» che, dal cinema, dilaga nella narrativa.E della normativa che lo regola Maria Serena Palieri, l’Unità, 4 giugno 2009

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L e cifre, nella loro brutalità, dicono già molto. E confrontando, atitolo di esempio, gli stanziamenti dello Stato italiano per le dueBiblioteche nazionali centrali, di Roma e Firenze, con quelli france-

si per la famosa Bibliothèque Nationale (BnF) di Parigi, si rimane inter-detti. Il rapporto è di circa uno a venti: per la sola gestione, 4,5 milioniall’anno da noi contro i cento milioni francesi. Eppure, quanto a dota-zioni, i due istituti italiani nel loro complesso equivalgono a quello pari-gino. Siamo attorno ai 12-14 milioni di «unità bibliografiche». Ma è sullaquestione del personale che si sono concentrate le più recenti polemicheitaliane dovute alla minacciata (e in parte già realizzata) chiusura di alcu-ni servizi al pubblico delle nostre due maggiori biblioteche: meno di 500impiegati tra Roma e Firenze, 2600 a Parigi. Un rapporto di 1 a 5.

Per capirci qualcosa nel dedalo delle biblioteche italiane è necessarioun breve excursus storico. Che Paolo Traniello, docente di Biblio-teconomia a Roma 3 e autore di numerosi saggi sull’argomento, ha benchiaro: «Con l’Unità le varie biblioteche esistenti furono assorbite nel-l’amministrazione statale e oggi la situazione è rimasta quella ottocente-sca». Bisogna distinguere due grandi gruppi: le biblioteche pubblichedello Stato e le biblioteche gestite dagli enti locali, che sono diversemigliaia e la cui consistenza varia, dalla Sormani di Milano alle minusco-le realtà rionali, in netta crescita. Le statali, che fanno riferimento alministero dei Beni culturali, sono 36, tra cui istituti di grandissimo pre-gio (dalla Braidense alla Marciana, all’Angelica): «Nove» ricordaTraniello «portano ancora sulla carta la definizione di nazionali, perché

svolgevano funzione nazionale neirispettivi stati preunitari e diversesono le biblioteche universitarie,che si trovano negli antichi atenei,da Pavia a Padova a Pisa».

Sono due, invece, le Nazionali atutti gli effetti, ovvero le Nazionalicentrali, quella di Firenze, che nac-que nel 1861, e quella di Roma,fondata nel 1875. Che cosa signifi-ca «a tutti gli effetti»? Significa chehanno compiti che le altre nonhanno: conservare l’intero patri-monio bibliografico italiano (i librie i periodici, oltre al ricchissimotesoro dei fondi antichi), acquisiree catalogare le nuove pubblicazio-ni (un flusso di 50-60mila novitàlibrarie e circa 300mila numeri ditestate all’anno), informare il pub-blico attraverso bollettini comple-ti. Per le nuove acquisizioni vige inItalia il diritto di deposito legale,per cui l’editore è tenuto a inviare

L’ABBANDONO DELLE BIBLIOTECHE NAZIONALI

A Roma e Firenze 14 milioni di volumi, come a Parigi.Ma l’Italia stanzia venti volte meno per la gestione

Paolo Di Stefano, Corriere della Sera, 7 giugno 2009

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alle due Centrali copia delle sue produzioni. In-somma, le Biblioteche nazionali rappresentano, comeovunque nel mondo, la cultura del Paese, la custodi-scono e la tramandano alle generazioni future. «Ilnumero abnorme di biblioteche statali» precisaTraniello «è un gravame notevole sulle spalle dell’am-ministrazione, specie per il personale, che assorbe lagran parte degli stanziamenti».

Nasce da qui il recente casus belli. Se da una partele entrate per la gestione sono state decimate, è anchevero che da un decennio circa gli impiegati dei dueistituti sono progressivamente diminuiti (quasidimezzati), e i direttori faticano a mantenere gli stes-si orari di servizio al pubblico. Così, dopo Roma,anche Firenze ha deciso che da luglio chiuderà ladistribuzione pomeridiana, a differenza di quel cheaccade a Parigi, dove il servizio funziona fino alle ottodi sera, domenica compresa. Due giganti moribondie abbandonati. L’ultima preoccupazione dei politici,in questo momento. Anche se le due Nazionali ospi-tano quotidianamente studenti, ricercatori, studiosi:sui 700mila in totale.

Forse sarebbe una passo avanti se l’anomalia italia-na della doppia Nazionale fosse rivista: in fondo neglialtri Paesi ne basta una. Ida Antonia Fontana dirige lasede di Firenze: «È difficile razionalizzare un sistemacosì stratificato. Anche in Germania ci sono una sedecentrale a Francoforte, una distaccata a Lipsia e unasezione audiovisiva a Berlino. Caduto il Muro, i variStati dell’Est misero a disposizione enormi finanzia-menti per costruire bellissime biblioteche nazionali:in Croazia, in Estonia… Erano la dimostrazione fisi-ca dell’indipendenza». E da noi? «Si potrebbe direche Roma, dove confluirono i fondi dei conventi e deimonasteri soppressi, è la biblioteca della cultura reli-giosa, mentre Firenze è la cultura civile. Come si fa ariunirle?».

La direttrice Fontana risale piuttosto a una «scelle-rata» legge del ’79 per mettere a fuoco i problemiattuali: riempirono di organici i cosiddetti giacimenticulturali, facendo pervenire giovani in esubero, e daallora non sono più state fatte assunzioni». Il risulta-to è che il personale è invecchiato, e negli ultimi tre-dici anni sono andati via 150 impiegati senza esseresostituiti: «La loro esperienza e i loro saperi sonoandati perduti e non sono stati trasmessi a nessuno,

gli ultimi lavoratori hanno sui sessant’anni… Così si ècreata una cesura incolmabile nel passaggio di com-petenze e si sono prodotti problemi quotidiani urgen-ti per mancanza di persone che possano fare anche ilavori pesanti richiesti da una struttura come lanostra, nei cui magazzini arrivano tra i 70 e i centopacchi al giorno». Il risultato è un arretrato preoccu-pante nella catalogazione: 150mila volumi e la metàdelle 15mila testate in arrivo continuo.

C’è poi il capitolo informatico: le schede digitali dacompilare, un sistema SBN che offre informazionionline su un catalogo unico nazionale, il «Tesaurus»da implementare ogni sei mesi, la consapevolezza chele schede elettroniche sono più deperibili della carta.Resta il sospetto che si possa verificare uno spreco dienergie se Roma e Firenze catalogano gli stessi volu-mi: «Già adesso le due biblioteche interagiscono» os-serva Fontana «e presto andranno ad agire come polounico, in modo che la catalogazione nostra serva aRoma e viceversa. In futuro Roma dovrebbe lavoraresoprattutto sulla fruizione e noi sulla catalogazione».Anche Traniello ritiene inutile un’eventuale riduzio-ne a una sola Nazionale ma dice: «Potrebbero tra-sformarsi in una sola struttura pur mantenendo ledue sedi: la cosa più importante è che le altre biblio-teche vengano trasferite agli enti locali e le universita-rie alle rispettive università, in modo da sgravare ilministero. È la formula adottata con successo in Spa-gna, dove la gestione di trenta biblioteche è passataalle comunità autonome».

Sulla enorme sproporzione finanziaria rispetto aglialtri paesi insiste Osvaldo Avallone, da sei anni diret-tore della Biblioteca nazionale di Roma. Avallonelamenta la riduzione del personale da 400 a 280 unità:«Andando avanti così fra dieci anni non ci sarà piùnessuno e la trasmissione di saperi si perderà deltutto». Se dovesse parlare con il ministro competen-te? «Chiederei il ripristino delle risorse che c’eranonel 2001, in modo da recuperare la piena funzionali-tà della Biblioteca. Come funzionario posso solo direche a differenza dell’Alitalia noi rappresentiamo lavera identità nazionale, la memoria storica, le radici,il presente e il futuro». Si ricade sulle colpe della poli-tica. Con un’avvertenza: «La tradizione di insensibili-tà per le biblioteche è una costante di tutti i governi,senza eccezioni».

Rassegna stampa, giugno 2009

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Per comprendere quanto siacambiato e stia ancora cam-biando negli ultimi decenni

il concetto architettonico e urba-nistico di biblioteca basta con-frontare un’immagine molto fami-liare, quella dell’austera Bibliotecanazionale di Castro Pretorio aRoma, con l’ultimo strillo di attua-lità in fatto di biblioteche pubbli-che urbane, il progetto recentissi-mo del gruppo olandese Mecanooper la nuova sede della bibliotecadi Birmingham. Le differenzesono eclatanti.

Dal concorso romano del 1960,vinto da un gruppo guidato daCarlo Melograni, emerge un’ideadi biblioteca che ha ben poco ache fare sia con gli odierni «edifi-ci-piazza» che con la spettacolareagorà immaginata due secoliprima da Boullée per Parigi. I librie gli spazi di lettura sono infatticustoditi in una specie di fortiliziointroverso, ipersorvegliato e cir-condato da alte mura che ben siinseriscono nel contesto di caser-me nel quale è ricavato il lotto perla nuova sede dell’istituzione. Trail primo controllo al cancello el’ingresso vero e proprio all’edifi-cio c’è poi un’interminabile «terradi nessuno», guardata a vista, chesolo chi ha veramente bisogno diaccedere a «quel» libro, periodi-co, incunabolo rarissimo, troveràil coraggio di attraversare.

Per Birmingham il gruppo olan-dese segue oggi una strategiaopposta. Il progetto proponeinfatti un hyperbuilding da 213milioni di euro, interamente tra-sparente, capace di ospitare fino adiecimila utenti al giorno, permea-bile ai percorsi e ai flussi urbani,pieno di negozi, ristoranti, luoghi

per spettacoli ed eventi, dove allamaggior parte dei libri/film/riviste(e relativi meccanismi per il presti-to e la restituzione) il visitatorepuò arrivare da solo, senza l’assi-stenza di un addetto.

VVoolluummii aassiimmmmeettrriiccii ee iinnqquuiieettiiAncora una volta, come ai tempiremoti di Alessandria o nelle spe-culazioni visionarie di Boullée,l’architettura si conferma come uningrediente essenziale dell’identitàdi una biblioteca: governa il movi-mento delle persone, rende com-prensibile lo spazio, ne determinail tono più o meno monumentale,chiarisce quale deve essere il ruolodell’istituzione rispetto allo spaziopubblico e alla città in genere.

Viene da chiedersi insomma sele biblioteche possano davveroessere i musei del prossimo decen-nio, le grandi architetture urbanesu cui le città debbono concentra-re gli sforzi nella nobile competi-zione per un cultura diffusa, aper-ta e accessibile. Le prove a favoredi questa visione non mancano:non solo quella specie di madre ditutte le biblioteche di cui abbiamodetto a Birmingham ma anchealtri edifici che fanno del luogo diconservazione e consultazione dilibri e altri prodotti editoriali ilcentro di un sistema di spazi e ser-vizi molto più complesso, «piaz-ze» indoor fortemente integratenella sequenza degli spazi pubbli-ci della città. Luoghi insommadove le «collezioni» perdono cen-tralità e importanza in favore dialtre funzioni, come avviene neimusei contemporanei. Così è peresempio il caso del complesso Teadi Herzog & De Meuron aTenerife, una specie di piastra

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urbana bassa ed extra large che contiene una interaparte della città e dove la biblioteca è uno degli ele-menti più aperti e a contatto con l’esterno, la strada,la vita.

Non sempre però i progetti più interessanti sonoquelli più faraonici e glamour. Gli stessi autori delprogetto di Birmingham, gli olandesi Mecanoo, sonoi progettisti di una delle più belle biblioteche univer-sitarie europee, costruita a Delft a metà degli anniNovanta, basata su un dolce piano inclinato verde epraticabile che favorisce un’integrazione perfetta nelpaesaggio. A Londra, se si ha la pazienza di allonta-narsi un po’ dal centro, si può vedere la deliziosaPeckam Library realizzata da Alsop nel 1999, unvolume asimmetrico e inquieto che riesce comunquea dare una sensazione di enorme apertura e accessibi-lità rispetto al quartiere. Oppure, andando ancoraindietro, troviamo la notissima Carré d’Art diNorman Foster a Nimes, deliziosamente integrata sianell’area archeologica che nella confusione delle ban-carelle del mercato.

RRiicccchhii ee ppoovveerrii,, zziinnggaarrii ee ccaarrddiinnaalliiSe continuiamo a scavare nel passato recente non èdifficile individuare gli episodi che hanno in qualchemodo segnato il passaggio dall’idea di bibliotecacome tempio silenzioso e selettivo agli odierni malldel sapere, dell’informazione e della cultura visiva.Prima di tutto il concorso per la «Très GrandeBibliothèque» di Parigi, del 1989, importante nonsolo per il progetto vincitore di Perrault, con la smi-surata terrazza urbana affacciata sulla Senna e i quat-tro giganteschi «volumi aperti» di vetro che per laprima volta trasformavano i depositi in spazi spetta-colari e visibili, ma anche per la bellissima propostadi Koolhaas, col suo cubo trasparente e pixelato. Poil’ambizioso concorso per la ricostruzione in Egittodella mitica Bibliotheca Alexandrina, inaugurata nel2002 con un progetto non particolarmente convin-cente ma certamente molto monumentale del grupponorvegese Snøhetta.

Tra i progetti più recenti ce ne sono alcuni nei qualila metafora biblioteca/piazza o strada è particolar-mente esplicita (ed efficace). È il caso dell’urbanissi-ma strada coperta della Public Library realizzata a

Salt Lake City da Moshe Safdie nei primi anni deldecennio: un vero e proprio pezzo di città attraversa-bile e animato che del vecchio «museo di libri» haveramente poco. O della Salaborsa di Bologna, dovelo spazio architettonico già c’era, ma dove l’enfasiposta sulla natura di «piazza coperta» fa sì che labiblioteca sia veramente quello spazio iperfrequenta-to e aperto a tutti, «a disposizione di grandi e picco-li, ricchi e poveri, zingari e cardinali».

UUnnaa nnuuoovvaa mmaacccchhiinnaa uurrbbaannaaPer chi ha passioni architettoniche più intense vannoricordati due capolavori recenti. Il primo, almeno inordine di tempo, è la sublime mediateca di Toyo Itoa Sendai, una smisurata vetrina urbana che permetteallo sguardo del passante di venire a contatto conogni singolo spazio interno e quindi con le singolefinzioni dell’edificio. La natura e la «trasparenza»della «mediateca» servono anche a corroborare l’ideache forse è la stessa denominazione di biblioteca damettere ormai in discussione, almeno in alcune speci-fiche situazioni. L’altro edificio che va assolutamentecitato, proprio perché incarna perfettamente quellamacchina urbana di cui cerchiamo di tracciare i con-notati, è la biblioteca recentemente realizzata aSeattle da Rem Koolhaas. Da un lato una specie dimetafora di una pila di libri disordinatamente accata-stati, come in un’opera di Kiefer; dall’altro un sistemadi spazi urbani messi insieme in modo che nessunoappaia chiuso in sé stesso e tutti si sforzino di esalta-re il rapporto con lo spazio della città, invitato a«continuare» dentro la biblioteca, ancora una voltaaperta a flâneur e perdigiorno tanto quanto a chicerca incontri interessanti, un posto dove studiare inpace, o un libro introvabile.

Ito e Koolhaas sono importanti soprattutto perchéci ricordano il potere «urbano» della forma, l’urgen-za che l’architettura comunichi chiaramente qualevogliamo che sia il ruolo della nostra biblioteca nellacittà, l’immagine capace di esprimere non solo ildesiderio di non disperdere il vecchio patrimonio disapere (per questo forse andavano bene anche le«vecchie» biblioteche), ma anche l’ansia di con-struirne ogni giorno uno nuovo, connesso al suotempo.

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Q uando usiamo espressioni come “la mia generazione”, “la nostragenerazione” – spesso pronunciandole con orgoglioso autocom-piacimento o con sottintesa recriminazione, sempre calcando sul

possessivo che delimita i confini e marca le differenze – stiamo facendouna mappatura del tempo. Lo distinguiamo in zone cercando di ricono-scere, nella filiazione o nel contralto tra le diverse generazioni, una dia-lettica e dunque un cambiamento.

Rappresentazioni di questo genere valgono anche in ambito letterario:la generazione degli scrittori che hanno una quarantina d’anni, la “mia”generazione di scrittori, esiste in fuga. Nel senso che si allontana da qual-cosa e procede verso qualcos’altro: non lo fa serenamente – e del restonessuno lo pretende – e neppure con una consapevolezza inscalfibile,semmai come scappando da un’esplosione. C’è il fungo di terra che sisolleva e incombe ombrelliforme, detriti e fiamme che compongonoun’immagine di potenza e caos, e da questo sfondo si materializzano lefigure di chi scappa dalla deflagrazione. Perché la mia generazione fuggeda un’esplosione che si è fatta monumento, una produzione di energialetteraria ferocissima che corrisponde a un numero di autori cospicuo ea un’altrettanto cospicua qualità. Questi autori sono Pasolini, Moravia,Morante, Calvino e gli altri scrittori monumentali del secondoNovecento italiano.

Il rilievo che alla mia generazione di scrittori viene mosso, un rilievoche spesso assume le proporzioni di un’accusa, è che questi autori sonoquello che noi non siamo. Detto in altri termini, noi non siamo loro.Dovrebbe essere un semplice truismo ma non lo è. Loro sono l’esplosio-ne mineralizzata, un’architettura di voci memorabile che riduce a sussur-ri, a mormorii se non a biascicamenti i nostri tentativi di scrittura. Ildebito contratto con la loro generazione è inestinguibile: quello che pos-siamo permetterci è lavorare di rosicchio nutrendoci del credito immen-so e insuperabile che chi ci ha preceduto è riuscito ad accumulare.

Da tutto ciò discende una conseguenza impressionante: considerareun’epoca della letteratura italiana – all’incirca quella che va dagli anniNovanta a oggi – come un tempo limbico, sospeso e inefficace, e una opiù generazioni come epigonali, effetti secondari delle generazioni fortidel passato (si ammette l’esistenza, al limite, di scrittori già attivi duran-te gli anni Ottanta, da Tondelli a Busi a Del Giudice), oggetto di undiscorso critico e quasi mai soggetto attivo e incidente. Scrittori intersti-ziali, interlocutori, a tempo determinato, se non del tutto invisibili.

A partire da questo scenario – e con l’obiettivo di arrestare almeno perun momento la fuga, fermarsi e reagire – provo a contrapporre due obie-zioni. La prima di metodo, la seconda di merito.

Il modello generazionale, sepure dal punto di vista della sto-ria della letteratura, ha una suautilità cartografica, tende a ripro-porre uno schema che nel tempoè diventato sempre inservibile.Perché la logica padri-figli – conl’idea implicita di un passaggiodel testimone inteso oggi comeimprobabile se non impossibile,qualche edipismo, Geppetto ePinocchio, i nani sulle spalle deigiganti, Enea e Anchise – nontenendo conto di un contesto sto-rico-sociale nel quale la trasmis-sione dei saperi avviene in termi-ni diversi rispetto al passato, sem-bra poter condurre soltanto aun’infantilizzazione a oltranza,quella stessa ostinata infantilizza-zione che l’ambiente nel qualenon soltanto alcune generazionima un intero Paese si trova aristagnare.

COSA RACCONTANO I GIOVANI SCRITTORI

Giorgio Vasta, la Repubblica, 10 giugno 2009

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Intrappolati in uno schema ormai sterile, nel ricattoche ci obbliga a essere figli perenni incapaci di esserepadri, sperimentiamo la preclusione dell’età adulta. El’età adulta, riuscire a essere disperatamente adulti inquesto tempo informe, è adesso per noi necessario einderogabile.

La seconda obiezione prova a concentrarsi su quel-li che mi sembrano i nostri caratteri peculiari.Attraversando gli anni Settanta Ottanta e Novanta,siamo cresciuti nella percezione non semplicementedella fine del nostro presente quanto del presentecome fine, obiettivo e conclusione, il tempo nel qualetutto si genera e contro cui tutto si arresta. Diver-samente da quanto è accaduto agli scrittori del dopo-guerra, quando la meditazione sul presente si connet-teva in maniera imprescindibile a quella sul passato ea un impulso verso il futuro, la coscienza acuta delpresente ha determinato in noi un’incapacità pro-spettica. Scorniciati dalla storia, in caduta libera den-tro un tempo immobile, abbiamo dovuto trasformareil limite in vantaggio, l’incapacità in risorsa, facendodella nostra esitazione – intesa come il modo in cui sireagisce all’incertezza – la prospettiva dalla qualeosservare il mondo.

L’esitazione alla quale mi riferisco è quella che spe-rimenta il Piero deandreiano di fronte al nemico,quell’indugio che nel concedersi il rischio di esserevulnerabili genera uno spazio di civiltà trasformandol’esitazione in valore. In coraggio. Perché se il nostroconnotato è l’incertezza – lo spaesamento non comeanomalia ma come costante sentimento del reale –allora diventa fondamentale non fare dell’incertezzaun alibi ma uno strumento di conoscenza. Avere ilcoraggio dell’incertezza.

Privi di riferimenti forti, non autorizzati dai padri,esausti della condizione di figli eterni, la mia genera-zione di scrittori è quella di chi – a ogni frase, a ognivisione – fruga in questo presente incerto e mi inse-gna che la complessità non è eccezione ma condizio-

ne dell’umano, e in quanto condizione dell’umanonon va temuta ma attraversata ed esplorata, ininter-rottamente restituita al mondo.

In Italia, adesso – da anni o da alcuni mesi o persinoda alcuni giorni e tra alcuni giorni e mesi e anni – cisono scrittori che si impegnano ad annodare tra loroparole e a comporre frasi e a connettere le frasi perdare forma a romanzi e a racconti, scrittori che condi-vidono una fiducia ostinata nel linguaggio come orga-no di senso (dove senso vuole risuonare in tutte le suepossibili accezioni). Questi scrittori, per fare alcuni trai nomi possibili, si chiamano Giorgio Falco, MichelaMurgia, Paolo Nori, Aldo Nove, Antonio Pascale,Valeria Parrella, Mauro Covacich, Ugo Cornia,Andrea Bajani, Babsi Jones, Wu Ming, LetiziaMuratori, Nicola Lagioia, e ancora Giulio Mozzi,Laura Pariani, Sandro Veronesi, Vitaliano Trevisan,Edoardo Nesi, Antonio Moresco, Michele Mari, DarioVoltolini.

Ascolto le loro scritture, la forma del loro lessico edella loro sintassi, la prospettiva delle loro visioni, eso che queste sono a loro volta scritture in recipro-co ascolto e in ascolto del mondo. Da questa gene-razione di scrittori io quotidianamente apprendo, escopro che a interessarmi non è la messa a fuocodella mia generazione di scrittori, il confronto tra lediverse foto di gruppo, ma l’immersione nella miagenerazione di scritture, nella loro germinazione, inquesto moltiplicarsi di voci che carezzano il tempocontropelo e scartavetrano la storia e dilatano lenostre possibilità di percezione e conoscenza. Così –ed è detto senza provocazioni – la scrittura diGadda si intreccia a quella di Giuseppe Genna,quella di Landolfi a quella di Tiziano Scarpa, Man-ganelli a Laura Pugno, cortocircuitando in uno spa-ziotempo meticcio che ha come obiettivo il recupe-ro, attraverso la parola letteraria, di un sentimentonel quale letteratura ed esperienza siano definitiva-mente sinonimi.

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Le storie di un gruppo eterogeneo che va dalla Parrella a Voltolini.

«Il mondo della nostra generazione»

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L’ITALIA DEI ROMANZIPOST-GAY

Così è cambiata la narrativa omosessuale

La definizione è di Leavitt:storie quotidiane che possono parlare a tutti.Adesso il fenomeno arriva anche qui

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N on più sensi di colpa, atmosfere umbratili emorbose, l’omosessualità come malattia o soli-tudine sentimentale. Oggi la narrativa italiana

d’ambientazione gay celebra la “fine della disapparte-nenza”. I nuovi racconti di Giancarlo Pastore ritrag-gono coppie omosessuali immerse nella quotidianitàdel “manca il latte: lo prendi tu o lo prendo io?”. Maanche l’ultimo reportage da Dubai di Walter Sitirestituisce una normale (o quasi) storia d’amore tra ilprotagonista e il suo fidanzato palestrato, relazioned’impronta assai distante dai paradisiaci inferni evo-cati in passato dallo scrittore. Pur nella sostanzialediversità di stile, Io non so chi sei di Pastore (InstarLibri) e Il canto del diavolo di Siti (Rizzoli) sono sol-tanto due titoli d’un affollato scaffale che ospita unaletteratura di tema omosessuale radicalmente modifi-cata rispetto al decennio precedente. Personaggi chenon pensano necessariamente al suicidio, amano esoffrono come chiunque, e – se proprio devono cre-pare – muoiono d’incidente d’auto, non di Aids.«Non più macchiette o stereotipi, ma persone», sin-tetizza Pastore, abile artefice di trame prive d’enfasi.«Non più intrecci cupi e dolenti, ma storie quotidia-ne di affetti e relazioni», dice Daniele Scalise, curato-re in passato di antologie omosessuali per gli OscarMondadori. «Scrittori finalmente liberi di raccontar-si in modo esplicito», li definisce l’editor BenedettaCentovalli, testimone d’una svolta editoriale che fissanel Duemila il proprio spartiacque, con ampia fiori-tura di collane, riviste, case editrici specializzate.

Da Mario Fortunato a Ivan Cotroneo, da Matteo B.Bianchi a Gilberto Severini, da Gianni Farnetti adAndrea Demarchi, da Alessandro Golinelli a FabioBo, appare oggi piuttosto nutrita la schiera di scritto-ri omosessuali – eterogenea per anagrafe e provenien-za culturale – uniti dalla scoperta di «un sorprenden-te senso di legittimazione a stare al mondo», comedice un personaggio di Io non so chi sei. Se per alcu-ni anni sono prevalsi l’orgoglio rivendicativo o l’alte-rità identitaria di Men on Men, l’annuale antologia diracconti curata fino al 2006 da Scalise, oggi sembra-no trionfare la naturalezza, quasi il desiderio di con-fondersi con gli altri, «l’aspirazione all’assimilazione,all’omologazione, a una maggiore visibilità all’internodella società», dice Francesco Gnerre, autore di accu-rati saggi sulla cultura gay come L’eroe negato(Baldini & Castoldi Dalai) e Noi e gli altri (Il Dito ela Luna). «Non c’è più bisogno di inalberare nella

scrittura i diritti sacri della cittadinanza», sostieneScalise, che con l’Oscar Mondadori scoprì la pentolain ebollizione della letteratura omosessuale.

Il ghetto è solo un incubo del passato. Lunarmentedistanti appaiono le censure che ancora negli anniOttanta colpivano Aldo Busi o Pier Vittorio Tondelli.Consegnati alla storia i processi contro Pier PaoloPasolini e Giovanni Testori, addirittura alla preistoriale dissimulazioni di Aldo Palazzeschi o UmbertoSaba. Ancora negli anni Cinquanta un autore comeCarlo Coccioli era costretto a pubblicare all’estero ilsuo Fabrizio Lupo e Sandro Penna vincitore delViareggio suscitava lo sdegno dei giurati benpensan-ti. L’eroe negato, almeno in àmbito letterario, è ap-parso negli anni finalmente sdoganato. Oggi addirit-tura normalizzato?

In America David Leavitt, protagonista del comingout novel con Ballo di famiglia e La lingua perdutadelle gru, ha già coniato un neologismo: letteratura“post-gay”, per indicare appunto una letteraturasganciata da qualsiasi legame identitario, finalmentelibera di parlare a tutti, omosessuali e no, capace diraccontare storie e personaggi non appiattiti sullescelte sessuali. «Una letteratura che rivendica il pro-prio statuto di letteratura», dice Andrea Bergamini,fondatore cinque anni fa di Playground, la casa edi-trice che ha rilanciato Edmund White e fatto cono-scere in Italia il marocchino Rachid O. «Se primas’avvertiva la necessità d’una narrativa che desse vocea una comunità negata, oggi c’è l’urgenza di superaregli steccati. I grandi scrittori americani gay stannorecuperando un sentimento collettivo che prima nonesisteva. Ken Harvey nel suo Ragazzo di zuccheroevoca la morte di Kennedy: un ricordo condiviso dal-l’intera comunità americana, non solo da una suaparte. Allo stesso modo la canadese HelenHumphreys ne Il giardino perduto torna indietrocon la memoria alla seconda guerra mondiale, perio-do storico non particolarmente significativo per lacollettività gay, ma fondamentale per l’identità ameri-cana. In altre parole: è radicalmente cambiato il rap-porto con la comunità nazionale».

Se in America la letteratura “post-gay” è il segnod’un mutamento del costume, in Italia cultura lette-raria e storia politica raramente coincidono. Lanostra narrativa “post-gay” restituisce più un’aspira-zione o un desiderio che un traguardo conquistato.«Negli Stati Uniti», spiega Francesco Gnerre, «tra

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gli anni Settanta e Ottanta c’è stata una vera lettera-tura gay, che ha dato voce a un immaginario scono-sciuto o represso. Questi scrittori hanno partecipatoa un processo emancipativo che ha ottenuto rilevan-ti conquiste civili. È anche per questo motivo cheoggi i personaggi omosessuali possono permettersi illusso di vivere serenamente insieme agli altri». Danoi una letteratura gay non ha avuto la stessa fioritu-ra segnata negli Usa dai Leavitt, dai White, daiCunningham. O, meglio, c’è stata più o meno neglistessi anni la carica liberatoria di Pier VittorioTondelli e Aldo Busi, ma – dice Gnerre – «è manca-to un movimento letterario definito». Molti scrittori(anche a ragione) hanno rifiutato l’etichetta di auto-ri gay. «Più recetemente in Italia il coming out novelha trovato un interprete ironico e divertente inMatteo B. Bianchi con Generation of lovers, «ma ununico libro non fa tendenza. Noi siano approdatidirettamente alla letteratura “post-gay”, senza avervissuto fino in fondo il passaggio precedente. Il pro-blema è che il nostro paese sul piano dei diritti èrimasto al paleolitico. E la letteratura “post-gay”sembra raccontare più un’illusione di normalità cheun vissuto reale».

Ancora oggi può capitare che l’Avvenire stronchi ilnuovo romanzo di Nicola Lecca – Il corpo odiato –perché a differenza della canzone di Povia restituiscel’omosessualità nella sua complessità, non come malat-tia da sanare con una brava moglie. Contro pregiudizie omofobia s’imbattono i personaggi narrati daPastore, gli stessi che aspirano a una vita semplice evengono ricacciati nel recinto da uno sguardo ostile.«Quel che ho cercato di catturare nei miei racconti è laschizofrenia delle nostre esistenze», dice Pastore. «Daun lato una società sempre più aperta, genitori prontia mettersi in discussione, giovani omosessuali e lesbi-che che finalmente crescono convinti di essere in gradodi costruire e mantenere legami affettivi, una sorta disdoganamento a tutti i livelli dell’immaginario gay, e,soprattutto, una legittimazione del desiderio, mollafondamentale dell’esistenza; dall’altra, una politica chenega questa normalità, costringendo gli omosessuali avivere una regolarità solo apparente». In un paese cul-turalmente arretrato, anche la letteratura “post-gay”rischia di apparire una frontiera troppo avanzata.«Fino a quando saranno in molti a pensare che la paro-la gay sia un insulto», è la malinconica conclusione diPastore, «forse vale la pena ripeterla e sottolinearla».

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guerra […] Il protagonista principale è Kaputt, que-sto mostro allegro e crudele. Nessuna parola, megliodella dura, e quasi misteriosa parola tedesca Kaputt,che letteralmente significa “rotto, finito, andato inpezzi, in malora”, potrebbe dare il senso di ciò chenoi siamo, di ciò che ormai è l’Europa: un mucchio dirottami». Malaparte apre la narrazione con un dialo-go con il principe Eugenio di Svezia. Parlano di variecose, di giornate tranquille, di sole, di aria pulita. Poi,improvvisamente, lo scrittore affonda la lama e cam-bia registro. Malaparte ha seguito da vicino la guerradei tedeschi, combattuta sul fronte orientale. Ma della

N el terzo volume della imponente Storia euro-pea della letteratura italiana, dedicato a “Laletteratura della Nazione”, Alberto Asor Rosa

inserisce fra i migliori esempi del giornalismo lettera-rio Curzio Maltese, odierna firma di la Repubblica.

In realtà intendeva riferirsi allo scrittore prateseCurzio Malaparte. Errore grave. Ma ciò che è davve-ro imperdonabile è il fatto che Asor Rosa consideriCurzio Malaparte un autore discutibile, e tutto som-mato degno di scarsa considerazione.

Malaparte invece è stato un grande scrittore italia-no. E visto che lo studio di Asor Rosa è dedicato allatrattazione della letteratura italiana in una prospettivaeuropea, ebbene se c’è stato scrittore di levatura euro-pea, questo è proprio Malaparte. Purtroppo il giudi-zio critico e storiografico di Asor Rosa è l’indizio diuna diffusa mentalità. Difficile trovare nelle storiedella letteratura italiana considerazioni di spessoresullo scrittore pratese; e anche la saggistica critica sudi lui è assai scarna. Alla fine chi è intenzionato adorientarsi deve far ricorso alla bella biografia diGiordano Bruno Guerri, L’arcitaliano, un lavoro del1980 rieditato lo scorso anno.

CCrruuddeellttàà ee ddiissssoolluuzziioonneePer capire quanto grande e attuale sia la scrittura diquesto irregolare protagonista del Novecento euro-peo, basta leggere la prima parte del romanzo scrittoda Malaparte tra l’estate del 1941 e il settembre del1943, Kaputt, ripubblicato nella classica ed eleganteedizione Adelphi (a cura di Giorgio Pinotti, pag. 476,22 euro). Già nella secca premessa Malaparte rivela leproprie intenzioni: «Kaputt è un libro crudele. La suacrudeltà è la più straordinaria esperienza che io abbiatratto dallo spettacolo dell’Europa in questi anni di

KAPUTT, IL RITORNO DI MALAPARTE.

Claudio Siniscalchi, Libero, 12 giugno 2009

C’ERA UN LITTELL IN ITALIA MA NESSUNO LO DICEVA

Le ristampe di Adelphi ci restituiscono un autore di livello europeo.Sottovalutato, se non proprio ignorato, dai critici e dalla scuola

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guerra – promette – non vuol dir nulla. Dovendoperò rispondere alla domanda se è vero che i tedeschisono terribilmente crudeli, ci arriva diritto: «“La lorocrudeltà è fatta di paura” risposi “son malati di paura.Sono un popolo malato, un krankes Volk”». E pocooltre prosegue: «Ammazzano gli inermi, impiccanogli ebrei agli alberi nelle piazze dei villaggi, li brucia-no vivi dentro le loro case, come topi, fucilano i con-tadini e gli operai nei cortili dei kolchoz e delle offi-cine. Li ho visti ridere, mangiare, dormire all’ombradei cadaveri dondolanti dai rami degli alberi». Poinarra di un colloquio avuto con un ufficiale nazista,fedelissimo a Hitler. Malaparte gli racconta che i sol-dati russi pur di non morire di fame mangiavano icadaveri dei loro compagni morti. E l’ufficiale ride,sonoramente, trascinando l’ilarità dell’intera tavolata,dicendo: «Li mangiavano con gusto?».

La crudeltà, la dissoluzione, l’annichilimento, ladistruzione della guerra totale, di conquista e di eli-minazione del nemico. Questo ha visto Malaparte, equesto trasfigura, rimodellando la realtà attraversol’arte della scrittura. Prima descrive con parole pianee secche i corpi dei soldati russi affondati nella neve,immobili, con il braccio disteso a indicare la strada.Ma come fanno a sopravvivere al freddo? Semplice,gli risponde il nazista in macchina con lui: sono abi-tuati al freddo, ridendo. I soldati sono morti. Primaammazzati e poi affossati nella neve. Il freddo man-terrà intatti i loro corpi, rigidi, e serviranno comesegnavia. Il nazista ride ancora: «Bisogna pure che iprigionieri russi servano a qualcosa». E poche paginedopo, come a un rapido diradarsi di nebbia, Mala-parte cambia decisamente registro un’altra volta; lascrittura si fa elegante, non è difficile sentire il ricor-do della Parigi di Proust, Apollinaire, Matisse,Picasso. Curzio Malaparte aveva capito il lato oscurodell’uomo in guerra, come Joseph Conrad in Cuoredi tenebra all’epoca delle avventure coloniali.Sessant’anni dopo la pubblicazione di Kaputt,

Jonathan Littell ne Le benevole darà una fisionomiaall’uomo nuovo prodotto dal totalitarismo, intento adare la morte con la stessa freddezza, o indifferenza,diffusa in tanti carnefici disseminati nel romanzo diMalaparte. Lo scrittore italiano, molto meglio delcomunista André Malraux, o del “fratello” fascistaPierre Drieu La Rochelle, ha saputo scandagliarenelle viscere di una civiltà ritratta nell’atto supremodella decomposizione, piena di carcasse umane, ani-mali o meccaniche, poco importa. L’Espoir diMalraux, romanzo dedicato alla guerra di Spagna, èconsiderate un capolavoro della letteratura di argo-mento bellico; Kaputt non gli è certo inferiore.

LLee nnuuoovvee eeddiizziioonniiPer mettere a punto la lingua dei carnefici Littell hadovuto compiere una breve incursione nel territoriofascista, nel suo Il secco e l’umido, addentrandosinell’opera del belga nazista Leon Degrelle. In Kaputtla lingua dei carnefici è già ben strutturata. Tedeschi,ungheresi, polacchi, russi, romeni: idiomi diversi,usati in abbondanza da Malaparte, fanno da corolla-rio alle nevi della Russia disseminate di cadaveri, alghetto di Varsavia, o al terribile pogrom avvenuto aIasi il 9 giugno 1941, con i romeni impegnati a mas-sacrare 13mila ebrei. Per concludere, è davvero unafortuna che Malaparte sia diventato un autore dellacasa editrice Adelphi. L’accademia delle lettere con-tinua a rifiutarlo, a sorvolare sulla sua opera. A partei contributi di Luigi Baldacci, non c’è molto altro, eMalaparte a lungo ha avuto più ammiratori all’esteroche in patria. In molte antologie scolastiche, è pocopiù di una nota a pie’ di pagina. Sintomatico chel’edizione critica pubblicata da Adelphi sia curata –ottimamente – da Giorgio Pinotti, editor capo pro-prio presso la casa editrice. Così questa preziosaristampa, che ci restituisce un grande libro, è ancheun gesto critico importante. Ma i critici di professio-ne che fanno? Forse sono Kaputt.

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R ick Moody e Heather McGowan si sono conosciuti nel 1999 inuna colonia di artisti nello Stato di New York. Lui, nato nel 1961a New York, era già un narratore famoso. Aveva scritto

Tempesta di ghiaccio e Rosso americano (Bompiani), che gli eranovalsi l’ammirazione dei critici. Lei stava scrivendo quello che nel 2001sarebbe diventato il suo romanzo-rivelazione, Schooling (Nutrimenti).Riservatissima sulla sua vita (si sa che è nata in America negli anni ’70,che ha trascorso l’adolescenza tra Francia, Belgio e Inghilterra, chevive a Brooklyn), Rick Moody la notò perché «era la scrittrice più mal-vestita che io avessi mai visto». Diventati amici, gli mostrò il primocapitolo di Schooling. «Con mia grande sorpresa» racconta Moody,«mi è piaciuto incondizionatamente. Di solito, ho delle riserve. Invece,ho capito subito che quella era la voce di una grande scrittrice». Eaveva ragione. Quando Schooling uscì, fu riconosciuto il miglior librodel 2001 da molte testate, compresi Newsweek e The New YorkTimes. Dopo la sceneggiatura del film Tadpole di Gary Winick, nel2006 McGowan ha pubblicato Duchessa del nulla. «È uno di quei libriche all’ inizio, come Quel che resta del giorno di Ishiguro, ti prendo-no in modo molto sottile, non capisci bene che cosa ti stia accadendofinché non li hai finiti» dice Rick Moody. «È un’esperienza di letturache si ricorda per tutta la vita». Il romanzo ora esce in Italia, edito daNutrimenti. Nell’articolo sotto, Rick Moody intervista l’amica,Heather McGowan: parlano di Duchessa del nulla e del loro mestieredi scrivere.

Rick Moody: Heather, dea della prosa, puoi parlarci del modo in cuisenti la prosa nella tua mente? Perché suppongo che tu la senta dentrodi te, prima di stenderla sulla pagina.

Heather McGowan: Temo chenon riuscirò a spiegarlo senzarisultare pomposa, ma ci proverò.La triste verità è che è la narratri-ce di Duchessa del nulla ad averparlato a me, o piuttosto, attraver-so di me. Dopo essermi gingillataper circa tre anni con delle pessi-me versioni del libro, è stato ilpersonaggio a imporsi e in granparte a dettarmelo. Cominciavouna frase senza avere idea delladirezione che avrebbe preso. Erail ritmo a determinarne il corso, espesso il risultato mi sorprendeva,al punto che a volte mi succedevadi scoppiare a ridere.

R. M.: Pensi che il tuo modo discrivere abbia caratteristichemusicali? H. McG.: Certamente. Come te,sono follemente ossessionata dalritmo della frase. Prima di conse-gnare il manoscritto, lo leggo adalta voce. È l’unico modo percogliere i difetti. La mia speran-za, con Duchessa, era riuscire a

MOODY E McGOWAN, VOCI DELLA NUOVA AMERICA

L’autore di «Diviners» incontra la scrittrice di «Duchessa del

nulla», romanzo ambientato inItalia appena edito da Nutrimenti

Rick Moody (traduzione di Maria Sepa), Corriere della Sera, 12 giugno 2009

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cullare il lettore con la musicalità del monologo, erendere la lettura piacevole anche quando la narra-trice poteva risultare antipatica.

R. M.: Viene prima il personaggio, o è la prosa adavere la precedenza e a contribuire alla creazione delpersonaggio? H. McG.: Prima viene una vaga idea del personaggio,ma questo prende forma veramente solo quandocomincio a giocare con la lingua, quando cerco dicapire quali parole userebbe, quale è il ritmo del di-scorso e come lui o lei racconterebbe una storia. Lalingua per me è come la creta, è lo strumento più faci-le per creare un particolare personaggio.

R. M.: Perché l’Italia? Prima, una sceneggiatura conun titolo italiano, e ora questo libro ambientato inItalia: che cosa ti dice l’Italia? H. McG.: Ammetto di avere con Roma una relazionepredatoria: prendo molto e do molto poco in cambio.La mia idea di Roma viene dai film di Pasolini e diFellini. Nella mia mente, è un luogo strano e meravi-glioso dove la gente va in giro in bianco e nero. InDuchessa del nulla volevo che la città sembrasse piùuno sfondo che un luogo riconoscibile. Doveva ancheessere un’ ambientazione che la narratrice trovassepatriarcale, quasi opprimente in senso religioso, sto-rico ed estetico.

R. M.: C’è un momento, in una storia, in cui non saiancora se diventerà una sceneggiatura o un roman-zo? O tieni i due generi del tutto separati? H. McG.: Ho un’idea per un personaggio e capiscosubito se la storia debba essere raccontata con la pro-spettiva ravvicinata e la profondità della narrativa ose sarebbe più interessante svilupparla in modo piùoggettivo, con una sceneggiatura.

R. M.: Preferisci la narrativa europea o americana? H. McG.: Sei perfido. Europea. Penso che la que-stione si colleghi alla musicalità di cui parlavi. Hopassato l’infanzia in Europa, e la prosa che sentodentro mi sembra provenire da strade anguste e davecchie case.

R. M.: Che cosa c’è dietro l’ossessione per le relazio-ni tra vecchi e giovani? È la dinamica di potere che

trovi affascinante? Oppure è il desiderio di infrange-re un tabù descrivendolo con simpatia? H. McG.: Mi interessano le bugie che diciamo a noistessi e le storie che inventiamo per poter affrontare ilmondo. I bambini non hanno ancora avuto il tempodi dotarsi della corazza protettiva degli adulti e diacquisire i loro meccanismi di difesa. Mi affascina lacombinazione di candore e intensa sensibilità deibambini, soprattutto quando mette in crisi la natura-le insincerità degli adulti. Sia in Schooling che nellaDuchessa del nulla le dinamiche di potere mutanocontinuamente e spesso sono gli adulti a rivolgersi aibambini per averne l’approvazione, e i bambini adimostrarsi le presenze più mature.

R. M.: Puoi darci qualche indicazione sui tuoi pro-getti futuri? H. McG.: Un libro sugli americani ambientato inAmerica. Vedremo come andrà. Ma parliamo un po’di te. Il tuo ultimo romanzo, Diviners. I rabdomanti(uscito in Italia da Bompiani, ndr), era di quasi 600pagine. Si dice che anche il tuo nuovo libro sia monu-mentale. Sai già, prima di cominciare, quanto sarà piùo meno lungo il tuo libro, quanto ti ci vorrà per nar-rare la vicenda? O ti si aprono nuove vie mentre scri-vi? Che musica ascoltavi quando scrivevi Diviners?Musicisti diversi per passi diversi? Chi mi consigli diascoltare? R. M.: Effettivamente, il mio nuovo romanzo è moltolungo. Anche se da 901 pagine l’ho portato a qualco-sa come 845 in una stesura successiva. Un bel taglio.Non so quanto sarà lunga una storia. Mi faccio pren-dere dall’entusiasmo e continuo a scrivere. A poste-riori, penso di aver tagliato troppo Diviners. Quindiper il nuovo libro ho deciso di continuare a scriverefino alla fine. Trovo che la narrazione possa avereinfinite tappe, fermarsi è difficile. Anche Coltranediceva di non sapere come finire i suoi assolo (finchéMiles Davis non gli disse: «Smetti semplicemente disoffiare nello strumento»). Sulla musica, vediamo,ora sto ascoltando il nuovo album dal vivo diLeonard Cohen, perché non ho avuto la fortuna divederlo in tour. E The Necks, quel fantastico gruppoaustraliano. Ho anche scoperto di recente l’In-credible String Band, un bel gruppo proto-hippiedella swinging London. E mi piacciono anche abba-stanza Panda Bear e gli Animal Collective.

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T ranne rare eccezioni, un titolo è per sempre. Ma quando approdain libreria, ha spesso poche settimane a disposizione per incuriosi-re il lettore indeciso e sopraffatto dal sempre più frenetico turnover

di novità. Così a un anno dalla vittoria del premio Strega La solitudinedei numeri primi resta uno dei più riusciti, celebrati e citati. Anche se,come spesso ha raccontato l’autore, Paolo Giordano (un milione e300mila copie vendute in Italia), doveva chiamarsi Dentro e fuori dal-l’acqua. Fu l’editor Antonio Franchini a cambiarlo. E a inventare unmarchio, per un ottimo esordio.

Ma qualche regola esiste?«Un titolo buono si trova dentro il libro, comenel caso di Giordano», sostiene Antonio Riccardi, direttore editoriale diMondadori. «L’importante è che sia sincero e che rispetti il contenutodell’opera». Su questo, tutti gli addetti ai lavori sono d’accordo: nonoccorre cercare lontano, il titolo è quasi sempre nascosto tra le pagine. Ein genere è compito dell’editor di riferimento scovarlo, ovviamente d’ac-cordo con l’autore. Ma spesso il travaglio è lungo, tanto che tra le primebozze di presentazione dell’opera e la definizione finale le cose possonocambiare. Paolo Repetti, responsabile con Severino Cesari di EinaudiStile libero, ricorda infinite discussioni in casa editrice: «Il titolo giusto èquello che senti immediatamente come forte, solo allora il libro è prontoper la pubblicazione». Basti pensare che un bestseller come Romanzocriminale di Giancarlo De Cataldo si intitolava in origine Storiaccia, «manon suonava, così abbiamo continuato a cercare». O che Gioventù can-nibale, l’antologia horror degli anni ’90 trasformatasi in etichetta lettera-

ria, avrebbe dovuto chiamarsiSpaghetti splatter.

Ma non sempre i titoli dei libriappartengono alla cosiddetta cuci-na editoriale, spesso e volentierisono gli scrittori a essere eccellen-ti copywriter di sé stessi. ComeSusanna Tamaro che ha inventatoil famosissimo Va’ dove ti porta ilcuore aprendo così la stagione deltitolo emotivo, che si rivolge diret-tamente al lettore dandogli del tu.O come Niccolò Ammaniti e ilsuo Io non ho paura (passatoprima per il poco incisivo Buonviaggio, piccolo re), che ancoraprima di Giorgio Faletti, creatoredi Io uccido e Io sono Dio, hadato il via al titolo forte e perento-rio, che punta sulla soggettività.Riusciti sono anche i titoli condoppio significato semantico: Ilgiorno dell’indipendenza diLetizia Muratori e L’ubicazione

VA’ DOVE TI PORTA IL TITOLO

Qual è il segreto per una copertina di successo? «La solitudine dei numeri primi» sarebbe diventato un bestsellerse si fosse chiamato «Dentro e fuori dall’acqua»?

Benedetta Marietti, la Repubblica, 12 giugno 2009

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del bene di Giorgio Falco (entrambi decisi dagliautori), forse i due più belli del 2009.

«I titoli migliori sono quelli che parlano al lettore,interpretano un’epoca, esprimono un esserci. Se coin-volto, il lettore comincia a leggere fin dal titolo», spie-ga Alberto Rollo, direttore letterario di Feltrinelli, chequalche anno fa rimase folgorato dal titolo di unmanoscritto finito sulla sua scrivania: era Tre metrisopra il cielo, vero e proprio titolo-slogan che ha fattoinnamorare una generazione di giovani lettori. Un po’come 100 colpi di spazzola prima di andare a dormi-re di Melissa P., che prima di vendere un milione epassa di copie ha colpito Simone Caltabellota, alloraeditor di Fazi e oggi a Elliot, che conferma: «Il titoloperfetto a priori non esiste». Del resto, un autore da15 milioni di copie come Andrea Camilleri è da sem-pre affezionato al modulo tradizionale: sostantivo piùcomplemento di specificazione (da La voce del violi-no fino all’ultimo La danza del gabbiano).

Analogo il caso dei romanzi stranieri. Se necessario,il titolo si cambia. Il Giovane Holden insegna. In ori-ginale era l’intraducibile The Catcher in the Rye.«Calvino diceva che certi eccellenti romanzi comecerti eccellenti vini non possono viaggiare, cioè esse-re tradotti», puntualizza Luigi Brioschi, presidente diGuanda. «Lo stesso vale per i titoli». Ecco perché,nonostante un buon titolo originale (In the begin-ning), per il primo romanzo di Catherine Dunne èstato coniato il fortunatissimo La metà di niente. Untitolo decisivo per il successo di una sconosciuta esor-diente irlandese, che secondo Brioschi «ha acceleratoil passaparola dei lettori».

Per Giuseppe Russo, direttore editoriale di NeriPozza, «il segreto di un titolo sta nel suono armonio-so; se poi riassume anche il contenuto del libro, allo-ra diventa eccezionale». E cita La rilegatrice di libriproibiti dell’inglese Belinda Starling. «Se avessimotradotto fedelmente The Journal of Dona Damage,non avremmo venduto 60mila copie».

Casi esemplari di libri vincenti fin dal titolo sonoIl dio delle piccole cose e Uomini che odiano ledonne. Ma se nessun editore al mondo si è maisognato di modificare il titolo del bel romanzo diArundhati Roy, nel caso di Larsson gli anglosassonihanno optato per un più soft The Girl with theDragon Tatoo (La ragazza con il tatuaggio a formadi drago), in nome del politically correct. L’ultimovolume della trilogia, La regina dei castelli di carta,è uscito invece da Marsilio con un titolo diverso: inoriginale era Luftslottet som sprängdes ovveroCastelli in aria che esplodono nel cielo, poco com-prensibile per il pubblico italiano. Nei saggi un casofamoso fu La banalità del male con cui il libro dellaArendt uscì in Italia. Nella versione originale era ilsottotitolo.

Ma accanto a scelte azzeccate, si ricordano anchequelle meno felici. Ask the Dust (Chiedi alla polve-re) di John Fante venne inizialmente tradotto daVittorini con Il cammino nella polvere, in perfettostile neorealista ma assai lontano dallo spirito dellibro. Quando però Calvino propose di intitolare ilprimo romanzo di Rigoni Stern Arriveremo a baita?,Vittorini si rifiutò, come si legge nel suo carteggio. Econiò il celeberrimo Il sergente nella neve.

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«Non occorre cercare lontano,il titolo è quasi sempre nascosto tra le pagine»

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«TALL TALE» ALLA SEDARIS

Luca Briasco, Alias del manifesto, 13 giugno 2009

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Q uando siete inghiottiti dalle fiamme(Mondadori «Strade Blu», tr. di MatteoColombo, pp. 300, euro 17,00) è il sesto libro

di David Sedaris, e rappresenta, vista anche la suanatura miscellanea e meno organica rispetto ai volu-mi precedenti, un’introduzione ideale a uno degliautori più irriverenti e creativi del panorama lettera-rio americano. Figura atipica, certo, anche in consi-derazione dell’itinerario particolarissimo che l’haportata al successo, ma al tempo stesso perfettamen-te inserita tanto nel contesto di una tradizione remo-ta e tutta statunitense, quanto nel milieu che ha pro-dotto, forse, la miglior narrativa degli ultimi anni.

Dopo un’adolescenza costellata di insuccessi scola-stici e una serie di lavori spesso improbabili (uno sututti: il travestimento da elfo per le feste natalizie inun grande magazzino, immortalato nelle esilarantipagine di Ciclopi, il suo primo libro tradotto inItalia), Sedaris viene notato mentre, in un club diChicago, legge sul palcoscenico alcune pagine deldiario che aggiorna quotidianamente dal 1977, eviene chiamato a replicare i suoi monologhi prima suuna radio locale, poi, nel 1992, sulla National PublicRadio. Il successo è immediato, così come quasi im-mediata è la decisione di trasporre le sue irresistibiliperformance in una serie di pezzi giornalistici(Sedaris collabora regolarmente con Esquire e con ilNew Yorker) e soprattutto nelle sue raccolte, che apartire dal 1994 sono sempre rimaste in stampa enelle classifiche dei bestseller. Quello che forse rima-ne il suo capolavoro, lo strepitoso Me parlare belloun giorno, ha portato Sedaris a venir nominato«umorista dell’anno» dal Time Magazine e a vincereil Thurber Prize for American Humour.

«Umorismo» e «Thurber» sono le prime due chiavidi volta per una corretta collocazione di Sedaris den-tro le tradizioni americane che più gli competono. Inprimo luogo, quella del «tall tale» da frontiera, fon-dato su una deformazione per eccesso di fatti auten-tici, su un’oralità debordante, sulla rappresentazionegrottesca di una tipologia umana da frontiera chericorda da presso i caratteri della commedia dell’ar-te. In secondo luogo, la tradizione che si fonda sulmatrimonio complesso e felice tra nuovi media e let-teratura, a partire dal giornalismo che, nel caso diThurber come in quello di Damon Runyon, ha sapu-to prestare le sue voci più originali e iconoclaste almondo della narrativa e della saggistica. Si tratta diuna linea che attraversa in profondità tutta la culturaamericana, e che dal giornalismo si estende all’intrat-tenimento radiofonico, alla performance cabarettisti-ca, al talk show televisivo e allo stesso cinema. Nonesiste un solo medium legato in varia misura allospettacolo e all’intrattenimento che non abbia regala-to alla letteratura autori importanti. «Strade blu» – lacollana che ospita in esclusiva l’opera di Sedaris – neha proposti più d’uno: da Al Franken, celeberrimoconduttore del Saturday Night Live, al MichaelMoore di Stupid White Men. Si tratta però di scrit-tori nei quali la polemica politica, spesso estempora-nea, e le regole della militanza prevalgono sull’inven-zione linguistica e sull’elaborazione letteraria. Sonoinvece gli autori che si collocano all’intersezione traspettacolo e forma scritta a risultare molto più vicinia Sedaris, per forza di stile e raffinatezza di impianto:l’irriverente e provocatorio Lenny Bruce di Comeparlare sporco e influenzare la gente, esempio anco-ra insuperato di monologo e performance tradotti in

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L’ossessione per l’igienismo e le anticaglie, la vicina bisbetica,un viaggio in Giappone per smettere di fumare…

L’umorismo autobiografico di David Sedaris tutto nel solco del «tall tale» americano:

i fatti distorti dall’eccesso

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forma saggistica; Eric Bogosian – che molti hannoimparato a conoscere attraverso Talk Radio diOliver Stone ma che, oltre a essere uno straordinarioperformer, è autore di alcune delle pièce teatrali piùsarcastiche e inventive degli ultimi anni; SpaldingGray, con i buffi e raffinati monologhi postmodernidi A nuoto in Cambogia.

Non si tratta di un elenco casuale: in molti degliautori citati è il monologo, teatrale o radiofonico, asubire un’opera di trasposizione e mediazione stilisti-ca. La torrenzialità della viva voce, i ritmi del recitatosi distendono nella scrittura e, nei migliori casi, nonperdono nulla della loro forza corrosiva, arricchendo-si anzi, attraverso la mediazione della pagina, di ulte-riori sfumature, comiche e no. È il caso, in Quandosiete inghiottiti dalla fiamme, dei brani in cui piùdiretta è la filiazione dalla performance: «È contagio-so», irresistibile elenco di ossessioni igienistiche, o«Quello che ho imparato», trascrizioni quasi verba-tim di un irresistibile e buffonesco discorso tenutoalla Princeton University, nel quale Sedaris si scatenain una satira a tutto campo delle università IvyLeague e delle classi agiate che le frequentano.

Sedaris è tutto questo, ma è anche molto di più.Nelle sue raccolte alterna sapientemente stile e moda-lità narrative, muovendosi con ammirevole disinvoltu-ra tra il diario, il racconto, la divagazione saggistica.Lo sfondamento deliberato dei confini tra fiction enonfiction viene esplicitato fin dalla nota d’autorepremessa a Quando siete inghiottiti dalle fiamme.«Gli avvenimenti descritti in questi racconti sono rea-listicheggianti. Alcuni personaggi hanno nomi e carat-teristiche identificative fittizie». Sedaris accarezza ilmemoir, mette in scena sé stesso come io narrante epersonaggio, affrontando con dosi quasi bulimiche diironia la propria omosessualità, il vizio del fumo, lefobie, le fissazioni più grottesche (come la passioneper le cose antiche che, in «Questa vecchia casa», loporta a vivere con simulata felicita in un’autenticatopaia). E attraverso le proprie (dis)avventure costrui-

sce un campionario umano che non ha nulla da invi-diare a quello dei migliori e più apprezzati autori dellasua generazione: bifolchi tanto raffinati nel vestirequanto volgari nelle loro esternazioni; tassisti immi-grati che cercano nella potenza sessuale una forma diautoaffermazione; baby sitter che somigliano a ceffi dagalera e schiavizzano i bambini loro affidati. L’elencopotrebbe proseguire all’infinito, e dovrebbe comun-que includere quanto meno la famiglia Sedaris che,con la sua straniata e buffonesca umanità, è il verocentro motore dell’intero libro e di quasi tutti quelliche lo precedono. Nei confronti di tutti questi perso-naggi, l’ironia di Sedaris non sconfina mai nello scher-no, e tende ad ammantarsi invece di un afflato umanoche, nello splendido «That’s Amore» – incentrato suHelen, una vicina di casa bisbetica e vitale, insoppor-tabile e umanissima – tocca le corde di una commo-zione autentica.

Per la varietà delle forme stilistiche e delle strutturenarrative adottate (merita una menzione anche«Spazio fumatori», lo straniato e divertentissimo dia-rio di un viaggio in Giappone intrapreso per liberar-si dal tabagismo), per il misto di satira a tratti corro-siva e toccante umanità, per le scorribande continuetra il regime della finzione narrativa e quello dell’au-tobiografia, tra racconto e saggio, Sedaris appartienea pieno titolo a quel piccolo gruppo di scrittori che,partendo dall’eredità del postmoderno e da una fre-quentazione quotidiana e priva di preconcetti dellacultura di massa nell’era della televisione e di inter-net, hanno saputo dare alla letteratura americananuove priorità e soprattutto un nuovo sguardo, nelquale l’autoconsapevolezza critica si sposa a un’im-pensabile ricchezza tonale ed emotiva. Il DavidFoster Wallace di Una cosa divertente che non faròmai più e di Considera l’aragosta, o il GeorgeSaunders di Pastoralia e di Il megafono spento nesono forse gli esponenti esemplari, ma non c’è dub-bio che, accanto a loro, le irresistibile miscellanee diDavid Sedaris meritino un posto d’onore.

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I l mestiere di editore di libri in tempi di crisi e di strapotere dell’indu-stria culturale? Fantastico, a farlo sul serio. E peccato per chi non sela sente: autori e lettori vanno là dove ci si crede ancora. Stefano

Mauri, 48 anni, da dieci alla testa della Longanesi e da quasi quattro pre-sidente e amministratore delegato del Gruppo editoriale Mauri Spagnol,in sigla Gems, dieci marchi editoriali (Longanesi, Guanda, Salani, Tea,Corbaccio, Garzanti, Nord, Ponte alla Grazie, Vallardi, Duomo Edi-ciones in Spagna), più due partecipati (Superpocket e Chiarelettere) euno (Bollati Boringhieri) da mesi dato quasi sicuramente in arrivo, sorri-de rassicurante a chi gli parla di recessione mondiale e fine dell’eraGutemberg: «Guardi, per i libri la crisi non c’è. La flessione generale delmercato della prima parte del 2009 rispetto al 2008 corrisponde, in copiee valore, a cinque mesi di vendite mancate dell’ultimo Harry Potter, chequest’anno non c’era. Ma nei prossimi mesi arriveranno un Dan Brownda Mondadori, il nuovo romanzo di Falcones e l’ultimo di Crichton danoi. Risultato prevedibile: crescita. Vede quanto cantano i bestseller?».

Con i bestseller Mauri ha la consuetudine che porta all’affetto, o forseè il contrario: se li ami ti premiano. Certo è che lo scrigno di Gems stra-ripa di gioielli un po’ vistosi come Wilbur Smith, James Patterson, CliveCussler, Bernard Cornwell, ma anche portabili nella buona società lette-raria come Ian Rankin e i citati Crichton e Falcones. Mentre Guanda simuove sulla scacchiera del romanzo letterario straniero (due perle pertutti, Jonathan Safran Föer e Nick Hornby), Garzanti tiene insieme i

saggi di Claudio Magris e i roman-zi lacustri di Andrea Vitali e cia-scuna delle altre sigle applica laregola del mix a modo suo: «Iosono un editore, non un finanzie-re e non un direttore editoriale.Cioè sono un imprenditore cheaiuta le direzioni editoriali a svi-luppare i progetti loro e prima ditutto degli autori, mettendo adisposizione i vantaggi industrialie commerciali di un gruppo pervalorizzarli».

Prendiamo Garzanti: «Quandol’abbiamo acquisita, era tecnica-mente fallita per i debiti accumu-lati e perdeva due milioni di euroall’anno. Nel 2003 ha perso300mila euro e dal 2004 ne guada-gna uno-due milioni. E quandoun’impresa assaggia il dolce fruttodell’autonomia economica efinanziaria il clima cambia in

COSÌ CRESCE IL MIO IMPERO EDITORIALECon la sua strategia di espansione

basata sulle acquisizioni di marchi storici,il Gruppo Gems ora fa concorrenza

ai grandi del libro Mondadori e Rcs.Parla Stefano Mauri

Maurizio Bono, la Repubblica, 13 giugno 2009

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meglio: restituisce l’orgoglio di curare un prodottoculturale che fa anche quadrare i conti e dà soddisfa-zione anche ai più disinteressati all’aspetto commer-ciale. In cambio, il gruppo difende i contenuti di queiprodotti, senza neppure bisogno di condividerli».

La novità è che l’applicazione sistematica del prin-cipio negli ultimi tempi sta dando risultati eclatanti sudiversi e a volte minati terreni: l’altro ieri l’ingresso diAlmeno il cappello di Vitali (Garzanti) nella cinqui-na Strega. Ventiquattr’ore prima, una joint ventureparitaria con Giunti di Emmelibri, “sorella” di Gemscontrollata dalla stessa casa madre Messaggerie, perallargarsi ancora nel campo della distribuzione allelibrerie (Messaggerie è già leader), nell’ingrosso, nel-l’online e nei punti vendita, con una potenziale cate-na di 147 negozi. Infine, da qualche mese, Gems si èritrovata a comprare e pubblicare titoli controversi acui gli editori concorrenti avevano dovuto rinunciareper “prudenza”: Guanda ha stampato il saggio diMarco Belpoliti Il corpo del capo, che Einaudi avevaritenuto politicamente imbarazzante. Longanesi haaperto le braccia al libro inchiesta Affari di famigliadi Filippo Astone, rifiutato da Rizzoli perché tra irampolli di cui si analizzava la carriera c’erano figli eparenti di alcuni suoi azionisti industriali. Senza con-tare l’intero aggressivo catalogo di Chiarelettere(Gems al 49 per cento), da Travaglio a Pietro Ricca.E così, quando l’agente di Saramago ha passato aBollati Boringhieri l’ultimo libro del Nobel, quelloche dà a Berlusconi del “mafioso” e perché, di nuovo,Einaudi non aveva accettato, molti ne hanno dedottoche dietro ci fosse Mauri, e che dunque il passaggiodell’editore torinese di Freud e Jung al gruppo Gemsfosse cosa fatta.

Lui smentisce: «Nessuna novità. Naturalmentel’ipotesi resta logica e interessante, visto che di BollatiBoringhieri siamo già distributori». Ma conferma:«Se l’agente di Saramago Il quaderno l’avesse offertoa me, l’avrei preso al volo. Non per antiberlusconi-smo, ma perché faccio l’editore. Einaudi invece,

quando ha deciso di avere un problema a pubblicarelibri che parlano male del suo proprietario, secondome ha smesso di farlo. Almeno nel modo in cui lointendo io».

Il modo in cui lo intende gira intorno a una convin-zione: «In libreria, in Italia, non c’è nessun regime,tranne che per chi ce l’ha in testa. C’è spazio per tutti,come dimostrano le alte vendite di libri critici conpremier e governo… Come editore non mi interessase siano di destra o di sinistra, io lavoro per garantirele migliori condizioni a chi scrive e ai tanti che leggo-no. E i libri in democrazia hanno la funzione di unanticorpo, come e perfino più dei giornali, potendoandare in profondità nelle cose».

A chi ironizza sul fatto che l’editore di tanti libri diintrattenimento stia diventando editore di battaglia,replica serio: «Ho fatto un master in editoria negliStati Uniti e nel corso di “Etica dell’editore” si inse-gnava che la liberta di stampa è indispensabile perchéla verità dei fatti, quale che sia, alla fine prevalga sullamenzogna. E che le cronache giudiziarie servono acontrollare sia gli imputati che i giudici. Ma per resta-re in Italia, a difendere i princìpi basta la CorteCostituzionale, e se non basta c’è la Corte Europea.Non viviamo nei tempi bui, Mondadori stessa pub-blica tranquillamente Gomorra e politici di sinistra».

A ben vedere, lo stesso postulato che a far più danniè la paura è stato la bussola di Mauri anche durantele polemiche sullo Strega: «Contro lo strapotere deigrandi gruppi e il sospetto di pressioni sui giurati,abbiamo detto che stava agli “Amici della domenica”agire diversamente. Abbiamo mandato un autoreforte, venduto e capace di conquistarsi consensispontanei da solo. Ci siamo rifiutati di fare lobby, la-sciando eventualmente agli altri la responsabilità diescluderlo. E infatti Vitali è entrato in cinquina». Peril rotto della cuffia, però: 35 voti contro i 59 diTiziano Scarpa… «Appunto, diciamo che Vitali èentrato in cinquina in bicicletta, diversi altri in moto-rino. Ci va bene così: che si noti».

Rassegna stampa, giugno 2009

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Caro Direttore, negli ultimi tempi l’Einaudi è stata oggetto di unagrande, diciamo, attenzione. Non solo per i libri che pubblica, macome casa editrice in sé, come gruppo di decisione editoriale e

redazionale, come gruppo di redattori e autori. Per questo, senza volerneanche entrare in polemica con chi ritiene di essere in grado di darelezioni di editoria a destra e a manca come è accaduto nel pezzo-inter-vista a firma di Maurizio Bono apparso sabato scorso su queste pagine,pensiamo che sia utile fare un po’ di chiarezza. Anche per rispetto deilettori. Negli ultimi dieci anni l’Einaudi, perché è solo di questa Einaudiche vogliamo per una volta parlare, pur non trascurando la letteraturadi intrattenimento, si è impegnata soprattutto a portare più vicino algrande pubblico autori di alto valore letterario e saggistico: i Pamuk, iFranzen, i D.F. Wallace, i Saramago, i Littell, gli Yehoshua, gli Adiga eper quanto riguarda gli italiani basti rileggere, a mero titolo di esempio,l’articolo che qualche tempo fa Giorgio Vasta, autore non Einaudi, indi-cava come i migliori della sua generazione proprio su Repubblica. Èquesto il metodo Einaudi: li pubblichiamo anche se non tutti hannotirature da bestseller affinché diventino longseller. Per la saggistica l’im-pegno è equivalente: più di ottanta libri all’anno, di formazione, diricerca e di discussione. Certo, crediamo che ciò che a volte ci viene ino-pinatamente rimproverato, e cioè di voler leggere e discutere i libri conl’autore prima di mandarli dalla stampa in libreria, sia compito essen-ziale dell’editore. Crediamo che i primi ad esserne contenti sianoappunto gli autori. Facciamo così da sempre e con tutti, per esempiocon Gustavo Zagrebelsky e Carlo Bonini, con Paul Ginsborg e IgnazioMarino, con Rossana Rossanda e Adriano Prosperi, con GiovanniBianconi e Luciano Gallino, con Sergio Luzzatto ed Enzo Bianchi, conRoberto Esposito e Marco Revelli, con Alberto Asor Rosa ed EugenioScalfari. Nessuno di questi autori viene pubblicato da Einaudi a scato-la chiusa perché è di destra o di sinistra. Se ne sentirebbero, e a ragio-ne crediamo, offesi. Li si pubblica perché scrivono buoni libri, chemolto spesso diventano bestseller senza nascere come bestseller. Loabbiamo ripetuto in diverse occasioni: ridurre agli schemi della politicail momento della scelta editoriale vuol dire impoverire quest’ultima el’intero mestiere dell’editore. È un imbarbarimento far “guidare” la cul-tura dalla politica, prestare alla prima il lessico della seconda. Anche inmomenti aurei della discussione, figuriamoci dunque in questo. Unlibro, a nostro parere, è “buono” quando riesce ad allargare, anche dipoco, la nostra visione del mondo. A farci cambiare le parole, le catego-rie concettuali e, perché no?, sentimentali per interpretarlo. Sono tral’altro i libri che, alla lunga, vendono di più. Basta dare un’occhiata

oltre l’angusto presente, un’oc-chiata su conti e cultura, che sonole cose che una casa editrice comenoi l’intendiamo deve sempretenere in considerazione. E venia-mo alle questioni degli ultimimesi. Il caso Saramago per primo.Forse non tutti coloro che avreb-bero preso il libro “al volo” lohanno letto. Lo possono fare,però, tutti i lettori perché il libroè costruito con i testi che Sara-mago pubblica sul suo blog. Aciascuno il suo giudizio, motivatomagari. Noi, come editore, abbia-mo deciso di non pubblicarlo, loabbiamo detto in primis all’auto-re, rimanendo con ciò invariate lanostra amicizia e stima nei suoiconfronti, perché, pur rivendi-cando autonomia di scelta e liber-tà di critica, non condividiamo ilgesto di dare del “delinquente” aqualsivoglia personalità politicadi destra come di sinistra. Quantoallo Strega, che ci ha visto fin dasubito, fin da prima che si deci-desse di partecipare, oggetto disospetti e attacchi da parte diequivalenti gruppi editoriali, c’èpoco da dire. Gli “Amici delladomenica” leggeranno e decide-ranno sulla base della qualità dellibro. Non devono votare un edi-tore, ma un libro. Sanno che è quie non altrove che si gioca la lorocredibilità. E loro sì che leggeran-no. Torniamo alle questioni dimerito, per favore. Siamo laici. Apensarci bene, forse è questa lapolitica migliore.

L’EINAUDI NON PUBBLICA A SCATOLA CHIUSARoberto Cerati e Antonio Baravalle, la Repubblica, 17 giugno 2009(Gli autori sono rispettivamente presidente e amministratore delegato della Giulio Einaudi editore)

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Q uando (nel 1955) Zia Mamedi Patrick Dennis vennepubblicato negli Stati Uniti,

vendette due milioni di copie (oggisarebbero almeno cinque), e rimaseper 122 settimane nelle classifichedei bestseller. Mi auguro che unsuccesso simile benedica l’edizioneitaliana (Adelphi, a cura di MatteoCodignola, pagg. 380, euro 19,50).

Zia Mame incanta, seduce, diver-te sia i lettori colti sia la grandemassa dei cosiddetti lettori comuni.

Da molti anni non ridevo tanto.Patrick Dennis abolisce (sembraabolire) tutto ciò che è pensiero,sentimento, dolore; e si abbando-na a una grandiosa esaltazione eglorificazione del comico, come senulla d’altro esistesse nella vita.Quasi sempre i libri che fannoridere sono belli: perché il riso èuna delle massime divinitàdell’esistenza e della letteratura.Qui sono presenti quasi tutte leforme del comico: il rabelaisano, ildickensiano, la farsa, il vaudeville,il film con le torte in faccia, sebbe-ne quella dickensiana sia di granlunga preponderante. Ora ZiaMame è una torta di marzapane,piena di liquori e di marmellate:una torta pesantissima, che all’im-provviso balza nell’aria e vola velo-cissima e senza peso. Ora è un

L’IRRESISTIBILE LEGGEREZZA DI ZIA MAME Pietro Citati, la Repubblica, 17 giugno 2009

Tradotto in Italia il romanzo di Dennis,uscito nel ‘55 negli Usa, che ha venduto due milioni di copie.Protagonista una donna sfavillante e mai virtuosa degli anni Venti

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timido squillo: il riso sembra vergognarsi di sé stesso,e poi si scatena, viola qualsiasi limite, e ci lascia esau-sti e con gli occhi pieni di lacrime.

Patrick Dennis ama moltissimo le chiacchiere deisuoi personaggi: i dialoghi dissennati, che non fini-scono mai; i passi dove la lingua è più mobile, vivacee assurda. “Grandi sorsate di parole sono per lui”(Chesterton lo diceva di Dickens) “come grandi sor-sate di vino, pungenti e rinfrescanti”. “Quando rac-conta, continua a parlare: pensa che il racconto siauna forma superiore di conversazione, e cerca dicomunicarci l’estro della parola parlata, il suo vaga-bondare, perdersi, dimenticarsi, esplodere. Sebbenenon lo dica mai chiaramente, cerca di persuadere isuoi lettori che la vita è una cosa infinitamente alle-gra, lieta e festosa. Sa benissimo che è una menzogna:molto di rado la vita è lieta, e non lo fu certo per lui,se andò a finire in un ospedale psichiatrico. Ma, pertutto il libro, persevera eroicamente nella sua menzo-gna, facendo sobbalzare ogni forma di riso.

Fino ad oggi, certo per mia colpa, non avevo maisentito parlare di Patrick Dennis. In realtà, aveva unnome molto più pomposo, Edward Everett TannerIII, che lo faceva assomigliare a un imperatore delSacro Romano Impero. Lui lo sveltì e lo alleggerì.Non era quel che si chiama uno scrittore di professio-ne: non apparteneva al corteo di geni che da Omeroconduce sino a Proust e a Kafka. Era una di quellefigure pittoresche, così frequenti negli Stati Uniti, chevivono contemporaneamente nel mondo dell’edito-ria, del teatro, del giornalismo, della letteratura e delcinema, e sembrano badare soltanto a far soldi. Soloche, per lui, fare soldi era una cosa estremamenteseria e grave, e impegnava il suo grande talento e lasua cultura.

Dopo aver combattuto in Italia nella seconda guerramondiale, Patrick Dennis entrò in un’agenzia lettera-ria, dove preparava schede di lettura. Lavorò per unapiccola casa editrice. Scrisse, a nome di altri, romanzie raccolte di aneddoti. Preparò articoli serissimi peruna rivista serissima come Foreign Affairs, e un librosulle tattiche del comunismo. Quando scrisse ZiaMame, il libro venne rifiutato da diciannove editori,che lo giudicavano invendibile, e che dovettero ricre-dersi amaramente quando rimase per più di due anninella classifica dei bestseller. Trasformato in comme-dia, e interpretato a Broadway da Rosalind Russell,Zia Mame ebbe un grandissimo incasso. Poi Dennis

compose l’autobiografia di una diva del burlesque, delmuto, di Broadway e di Hollywood, col titolo BellePoitrine; e Genius, dove si prese gioco dei film trop-po colti. Tentò il suicidio: venne ricoverato d’urgenzain un ospedale psichiatrico: si diede il nome diPsychopatrick: si trasferì a Città del Messico, gestì unagalleria d’arte, e finalmente fece il maggiordomo,certo squisito e competentissimo, col nome di EdwardTanner. Quanto mi sarebbe piaciuto vederlo.

Sullo sfondo di Zia Mame, appare la fine degli anniVenti: quel periodo folle e leggendario, che Dennisrievoca con grande fedeltà e precisione. Tutti, allora,erano (o sembravano) ricchi: tutto era ostentata e smi-surata ricchezza; ma questo eccesso di vita e di oggettiassume, nel libro, una graziosa e futile leggerezza. Erail mondo di Zia Mame, che ne trasse il suo nutrimen-to. Ora Zia Mame ci appare come una signora dagliocchi sfavillanti, avvolta in una mantella spagnola, econ una rosa dietro l’orecchio: ora come una bambo-la giapponese, coi capelli cortissimi, la frangetta drittache lambisce l’arco accentuato delle sopracciglia, conun abito di seta a ricami d’oro, pantofoline d’oro, eunghie lunghissime coperte da un delicato smaltoverde acqua: ora indossa un abito scarlatto e ha i polsiavviluppati in spire di braccialetti indiani; ora sembrauna romantica signora del Sud, con organza e balze,crinolina e orchidee. Passa la giornata in un turbine diacquisti, intrattenimenti, feste in casa e fuori, adeguatialla rutilante moda dell’epoca: sempre a teatro,specialmente nei teatri sperimentali, o a cene offerteda signori molto à la page, o in gallerie di statue edipinti quasi incomprensibili.

Zia Mame è incantevole. Dal principio alla fine dellibro, incanta l’autore, che a tratti si confonde con lei,le domestiche nere e irlandesi, i bambini, i vecchi, gliamericani del Nord e del Sud, gli stranieri e, natural-mente, incanterà tutti i lettori. Nessuno resiste al suofascino. Appena la vede, ciascuno cade ai suoi piedicome una vittima indifesa, e farebbe qualsiasi sacrifi-cio per lei. È polimorfa. Recita col massimo estro tuttela parti possibili, tranne quella della donna virtuosa.Non sta mai ferma: sia gita, si sposta: è quasi sempreallegra e ridente; ma, se piange, uno non riesce aimmaginare che un corpo umano possa conteneretante lacrime. Adora gli altri esseri umani; ed è sempreprontissima ad abbandonare la propria vita per gettar-si a capofitto in quella di un altro. Come PatrickDennis, chiacchiera in modo insaziabile. Impersona la

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parte della vittima innocente, meglio ancora dell’inno-cente brutalizzata, mentre macchina di nascosto le piùefferate malvagità. Nessuno direbbe che è candida oingenua: eppure lo è; e proprio questo candore e unagenerosità commovente la legano per sempre a tutticoloro che incontra.

Quando esplose la grande crisi del 1929-1930, ZiaMame non aveva mai fatto niente: salvo lavorarecome ballerina di fila in un riadattamento della rivistaChu Chin Chow. Colla crisi perse tutto. Di buona ocattiva voglia, dovette lavorare (cosa terribile) e lofece con lo spirito, i successi e le catastrofi di EdwardEverett Tanner III. Venne assunta a Vanity Fair,diventò lettrice di un editore: si occupò di decorazio-ni d’interni in stile rococò: divenne una fervida soste-nitrice del Bauhaus: aprì un punto vendite, “dedicatoa tutto ciò che è coraggioso, sperimentale, elet-trizzante, nuovo, moderno”: lavorò come vendeusedi vestiti: aprì un locale estremamente esclusivo, conuno chef francese, un’orchestra inglese, un portiereirlandese, un capocameriere italiano e una ballerina

spagnola; vendette porta a porta pentole d’alluminio:si impegnò come segretaria di un venditore di strin-ghe: scrisse una tragedia greca in trenta scene, con uncoro di duecento voci; vendette pattini nel repartogiocattoli di un grande magazzino. Infine sposò unbellissimo gentiluomo del Sud, Beauregard JacksonPickett Burnside, che discendeva da quattro generalisudisti, e possedeva petrolio texano, zucchero diCuba, moltissime azioni a New York, e miniere inCanada.

Per la gioia dei suoi lettori, le avventure di ZiaMame non finiscono qui. Non oserei mai raccontarletutte. La vediamo per l’ultima volta vestita da princi-pessa indiana, con un sari elaboratissimo, i capellicolor pervinca, molto kohl intorno agli occhi, e unsegno di casta sulla fronte. Non sappiamo cosa farà:forse si incarnerà in altre zie Mame, immaginate daaltri scrittori. Certo non morirà mai, immortale comeShahrazade: mentre Edward Everett Tanner III,ovvero Patrick Dennis, era morto nel 1976, a soli cin-quantasei anni, “facendo conversazione”.

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N el libro-intervista di Oreste Pivetta a Goffredo Fofi La vocazioneminoritaria. Intervista sulle minoranze (pp. 154, euro 12, Edi-tore Laterza 2009) c’è l’Italia non tanto impoverita economica-

mente ma soprattutto culturalmente. È il paese dei paradossi, dovehanno convinto i poveri ad amare i ricchi e sono evidenti le complicitàdegli intellettuali nell’imporre l’omologazione. Che spazio hanno in que-sto paese le minoranze etiche? È la domanda a cui il libro cerca dirispondere suggerendo quello che oggi appare un paradosso: «Ribellar-si contro l’ingiustizia»

È forse vero che, vittime o complici, gli intellettuali sono stati tutti tra-volti da un’onda che ne ha mortificato ruoli, avvilendo prima di tutto lacultura. È vero anche che la maggior parte è stata connivente, s’è pre-stata al gioco consumistico, nell’epoca in cui a certificare resistenza e lafunzione basta una comparsata televisiva. Ma non tutti gli intellettualisono così, allo stesso modo latitanti.Gaetano Salvemini si arrabbiava moltissimo quando gli dicevano: «Gli ita-liani sono fatti così…». E rispondeva: «Finché c’è un italiano che non èfatto così, non è vero che tutti gli italiani sono fatti così». E per fortunaneanche tutti gli intellettuali sono fatti così. Ma, quasi tutti, non sono maistati tanto conformisti come oggi, e così scarsi di idee, di visioni, di proget-to; non sono mai stati meno eccentrici e non sono mai stati, invece, piùconcentrici, più proiettati verso un centro dove il potere esercita i suoi ritie ha bisogno dei suoi propagandisti e cantori. Non riesco a considerarecome eccezioni probanti neanche certi miei amatissimi amici o conoscentiche hanno scritto e detto cose importantissime, ma dall’alto di una distan-za dalle pratiche e dal concreto di qualche applicazione seria delle proprieidee che sa di viltà e non di coraggio; molto meglio, allora, i modesti pro-fessori che continuano piuttosto nell’ombra a cercare di tirar su degli allie-vi seri, in ogni ordine di scuola. Pochi, certo, ma ce ne sono e ne conoscotanti, e solo vorrei – è un sogno – che si collegassero di più tra di loro e conpersone altrettanto motivate di loro in altri settori. Diciamo che siamo, tuttinoi, dentro una stessa epoca soffocata, segnata dalla riaffermazione di unmodello unico di gestione del potere, finanziario, capitalistico, industriale,

politico, culturale, di cui l’Italia èparte integrante. Del modello occi-dentale si vanno discutendo nelmondo le basi, ma soprattutto quel-le tecniche e non quelle morali, e leseconde solo per riaffermarne ilvalore, la legittimità e la superioritàrispetto ad altri modelli; e bisognaanche ricordare che, in giro per ilmondo, di idee nuove e di analisilungimiranti non è che ce ne sianotante e convincenti. Ma proprio perquesto ci appaiono così deprimentie colpevoli la superficialità e il con-formismo di chi parla e scrive pub-blicamente. Le convinzioni dei no-stri predicatori e dei nostri studiosiappaiono così fragili, pretestuose eintercambiabili, e così inserite nelsolco degli interessi personali e cor-porativi e delle mode, che non siavverte quasi mai in esse una since-rità, la molla di una radicata e radi-cale persuasione.

Ammesso che le cose stiano così,che compito dovrebbero porsi,allora, gli intellettuali?Per chiudere con questo antipaticoargomento, io credo che gli intellet-tuali, nel rispetto del proprio ruolo,dovrebbero avere l’obbligo morale,determinato dalla possibilità chehanno di studiare e capire più e me-

GOFFREDO FOFI:«GLI INTELLETTUALI ITALIANI? VIL RAZZA OMOLOGATA»L’anticipazione. «Non sono mai stati così conformisti come oggi,così scarsi di idee, di visioni e di progetto».Ecco un estratto dal libro-intervista dell’ultimo dei «critici militanti» edito da Laterza

Oreste Pivetta, l’Unità, 18 giugno 2009

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glio degli altri, di osare esser minoranza, di scegliere diesser minoranza, di mostrare una diversità reale, di lega-re la propria ricerca a una qualche forma di interventosociale. A quelli tra loro che tengono alla propria autono-mia di pensiero toccherebbe anche di agire, mettendosidalla parte delle minoranze proprio nello spazio dellacultura (e dell’arte), pensando allo specifico contestoattuale, spezzando il circolo viziosissimo tra chi produce,chi diffonde, chi giudica, chi consuma: come, per esem-pio, succede nella letteratura, dove chi scrive, chi scegliee edita, chi distribuisce, chi recensisce e persino chilegge, sembra ormai essere una stessa persona, in tutto ilmondo.

Certo, ma per «curare le anime» occorre una voca-zione. Come occorre per curare i corpi.Sì, la responsabilità nasce da una vocazione, il fondoè sempre quello che i nostri maestri chiamavano«kantiano». Sopra il mio letto, tengo la riproduzionedi un quadro famoso di Caravaggio, quello che rap-presenta la vocazione di Matteo, che sta a San Luigidei Francesi a Roma, dove Gesù, nella penombra diuna volgare osteria, indica con il dito l’esattore delletasse Matteo, e quello gli si rivolge stupefatto e sem-bra dire: «Chi, io, proprio io?». Non succede semprecosì, nella realtà, e nessun Dio scende dalle nuvoleper chiamare a nuovi doveri. È la tua coscienza, latua intelligenza, la tua capacità di ragionamento sulmondo che ti inducono verso una strada, che ti con-vincono a dedicare la tua esistenza a qualcosa chenon appartiene alla sfera della sopravvivenza, delsuccesso o dell’arricchimento, alla sfera della co-siddetta felicità privata, ma a qualche cosa che diavalore e sostanza all’idea dell’uomo che tu ti fai e chel’umanità si è fatta nei momenti migliori della suastoria. […] Rimane il ricordo della dignità dell’uo-mo, di cosa l’uomo è stato capace nei suoi momentimigliori. Ed è questo che ci deve servire da punto diriferimento: la memoria delle opere belle di cui l’uo-mo è stato capace, di cui sono stati capaci gli uominimigliori nei momenti in cui c’era più bisogno di loro.

In che termini giustificheresti opzioni di questogenere?Non sono scelte che si possono giustificare in terminirazionali. Siamo ancora di fronte a una sfida, alla sfi-

da, a una scelta che non può che essere poco raziona-le. Mi rifaccio ancora al mio Capitini, che diceva sem-plicemente «non accetto». Ecco il brano che conside-ro centrale nel suo insegnamento: «Quando incontrouna persona, e anche un semplice animale, non possoammettere che poi quell’essere vivente se ne vada nelnulla, muoia o si spenga, prima o poi, come una fiam-ma. Mi vengono a dire che la realtà è fatta così, ma ionon accetto. […] Una realtà fatta così non merita didurare. È una realtà provvisoria, insufficiente, e io miapro a una sua trasformazione profonda, a una sualiberazione dal male nelle forme del peccato, deldolore, della morte. Questa è l’apertura religiosa fon-damentale, e così alle persone, agli esseri che incon-tro, resto unito intimamente per sempre, qualunquecosa loro accada, in una compresenza intima, di cuifanno parte anche i morti. […] La religione è sempli-cemente un insieme di pensiero e di azione, di princì-pi e di atti (che possono anche accrescersi e variare)allo scopo di preparare e formare in noi l’aperturareligiosa. Ma ciò che conta non è di avere sempre reli-gione, ma che venga una libertà liberata checomprenda tutti; e perciò incontriamo ogni persona,ogni essere, senza l’apprensione che possa finire, econ la gioia di essere in seguito sempre più uniti ecooperanti, verso delle realtà aperte che non pos-siamo descrivere» (Religione aperta, Neri Pozza1964). Ecco, il messaggio è questo, e non è soltantosociale, contingente, storico. Non accetto. Mi diconoche sempre il pesce grande mangerà il pesce piccolo,che ci saranno sempre la malattia e la morte, che l’uo-mo non potrà mai metter le ali, e che questa è la real-tà, la sua pesantezza, la pesantezza della storia, chequesta è la condizione umana, che questo è il mondo.Ebbene: a me non va giù che il mondo debba esserequesto, io non ci sto. Io mi rivolto – o meglio, mirivolto in nome di un «tutti», diceva Capitini, mentreCamus elaborava la grande formula «mi rivolto, dun-que siamo» (Mi rivolto, dunque siamo, Eleuthera2008). La vera formula di una vera rivoluzione,credo. E non deve certo scandalizzarci la parola “ri-voluzione» intesa in questo modo e non in chiavepolitico-golpista, alla bolscevica. Bisognerebbe torna-re a dare il significato originario e il valore che meri-tano a parole come rivoluzione, socialismo, perfinocomunismo!».

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AI MARGINI DELLA RUSSIA

Stefano Garzonio, il manifesto, 18 giugno 2009

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B ender (in russo Bendery) è una città delPridnestrov’e (Transnistria), piccola repubblicasulle rive del Dnestr, incuneata tra Moldavia e

Ucraina. Dopo la disgregazione dell’Unione Sovieticasi è autoproclamata indipendente e, nonostante nonsia stata riconosciuta dalla comunità internazionale, lasua autonomia è stata garantita dalla Russia all’indo-mani di un tentativo di annessione da parte dellaMoldova sfociato nel 1992 in un conflitto armato. Intempi meno recenti Bendergrad – antica fortezzastrappata dai Russi agli Ottomani nel 1770, crogiuolodi nazionalità (russi, moldavi, ucraini, ebrei, bulgari,gagauzi...), centro di una sollevazione rivoluzionarianel 1919 contro l’intervento romeno – rimase con ilnome di Tighina sotto il controllo della Romania finoal 1940, quando insieme al resto della Bessarabia fuoccupata dalle truppe sovietiche. Negli anni dellaguerra ritornò ad essere Tighina sotto il controllo ger-manico-romeno per essere infine nuovamente ricon-quistata dai sovietici nel 1944.

È questo il luogo dove è ambientato il romanzoEducazione siberiana di Nicolai Lilin, affresco fanta-sioso di un’infanzia violenta vissuta contemporanea-mente negli anni della disgregazione della società sovie-tica e nell’atemporale dimensione epica della vita degliUrca, presentati dall’io narrante come mitico popolo dibanditi siberiani, custodi di antiche e crudeli tradizionidi vita e di lotta, cui il narratore stesso apparterrebbe,essendo stati i suoi progenitori deportati dalla Siberia inTransnistria da Stalin negli anni ’30.

Una circostanza poco credibile visto che a quel-l’epoca Bender era, come si è detto, sotto il controlloromeno. È vero però che la città tra le due guerre sitrovava sul confine segnato dal fiume Dnestr, e leautorità sovietiche potrebbero avere inviato alloranelle zone di frontiera anche dei malavitosi, sebbenenon sia chiaro come questi sarebbero sopravvissutiall’occupazione romeno-germanica nel periodo diguerra e tanto più sarebbero rimasti in loco al ritornodell’armata rossa. Certo è invece che molti detenuti

furono inviati in prima linea a combattere l’invasoretedesco nei «battaglioni punitivi», gli strafnye bata-l’ony: esiste tra l’altro una canzone: Urca – rodinysoldat, «L’urca soldato della Patria» – che tratta deldestino dei detenuti comuni i quali, contravvenendoalla legge dei cestnye vory, i ladri onesti, accettaronodi combattere per lo stato.

MMaallaavviittoossii dd’’aannttaannGli Urca – meglio urki – non sono comunque unpopolo (tanto meno riconducibile ai fantomaticiEfei); l’espressione, nel linguaggio della mala, si rife-risce invece ai delinquenti di professione. E la tradi-zione della fenja non è siberiana, ma risale al gergodei venditori ambulanti del medioevo russo, chiama-ti ofeni, e si è poi evoluta nel gergo della mala russa(le prime descrizioni linguistiche risalgono all’iniziodel ventesimo secolo, la cosiddetta blatnaja muzyka)con il contributo di una significativa componenteebraica. La parola urka potrebbe derivare dal lessemaurok, «lavoro, compito», qui relativo al campo dilavoro (in questa accezione lo utilizza Dostoevskijnelle Memorie di una casa di morti) e dunque signi-ficare «persona esperta della vita del carcere».

In ogni caso, Educazione siberiana è la curiosa e atratti disarmante opera prima di un simpatico tatuato-re russo residente in Piemonte, forse criminale reden-to, forse scrittore maledetto, forse solo ottimo promo-tore della sua arte di kol’scik (forma slang per tatuato-re, parola resa nota da una chanson di Misa Krug). Adapparire fuorviante è piuttosto il fatto che l’opera siastata presentata come un testo documentario. Quelladi Lilin è forse dal suo punto di vista una testimonian-za autentica (per tradizione familiare o di clan?), mapiù probabilmente una ricostruzione post-moderna eastorica del mondo della subcultura malavitosa russanella sua complessa articolazione. Così, per esempio,l’abbigliamento degli eroi di Fiume Basso con fufajka,vos’miklinnaja kepka, kosovorotka, tel’njaska, ricor-da quello dei giovani malavitosi besprizorniki degli

Ambientato tra gli Urca, presentato come popolo di banditi deportati daStalin e depositari di antiche e crudeli tradizioni di vita e di lotta,

Educazione siberiana di Nicola Lilin per Einaudi, più che una testimonianza sul terribile mondo delinquenziale russo, è un affrescofantasioso che ha come sfondo la disgregazione della società sovietica

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anni ’20 immortalati nel primo film sonoro sovieticoPutëvka v zhizn’, (Una strada per la vita, di NikolajEkk) e la canzone sul «cappello a otto triangoli» ripor-tata con qualche imprecisione nel libro è Vos’miklinkarisalente alla fine degli anni ’50 e reperibile in qualsia-si antologia di canzoni blatnye.

Insomma il libro non può essere recepito come unpo’ ingenuamente ha fatto Roberto Saviano recensen-dolo sulla Repubblica dove ha scritto, per esempio:«Nicolai Lilin non ha fatto altro che affacciarsi, fuoridalla casa in cui è nato, dentro la sua stessa vita e rac-contare ciò che ha visto, sentito, il mondo in cui èstato educato». Né si può certo accettare la letturaapologetica del codice morale dell’«educazione sibe-riana» operata da Saviano: «Tra gli Urca non si stu-pra, non si fanno estorsioni, non si fa usura. Si puòrapinare e uccidere, ma solo in presenza di un validomotivo». Qui basterà notare come risulti poco credi-bile la distinzione tra una organizzazione criminale«onesta», quella siberiana degli Urca, e quella delin-quenziale russa della Cernaja mast’.

LLaa SSiibbeerriiaa ppeerrdduuttaaDifficilmente quindi Educazione siberiana può esse-re annoverato tra le tante testimonianze sul terribilemondo penitenziario e delinquenziale russo (si pensiper esempio agli scritti di Salamov e Juz Aleskovskijo ai più recenti Cristi tatuati di Eduard Limonov).Senza contare che viene da chiedersi come abbia fattouno nato nel 1980 a vivere di persona tutte le espe-rienze riportate: dalla lotta per bande di Bendery alcarcere minorile, dalla guerra in Cecenia ai corsi yogain India, dalla ricerca di un lavoro a Pietroburgo allavita da pescatore in Irlanda e infine ai tatuaggi in pro-vincia di Cuneo. E perché non si trova traccia signifi-cativa degli eventi bellici del ’92, quando Bender fu alcentro del conflitto della Transnistria?

Il libro di Lilin si articola in racconti che riportanole gesta dei «siberiani» di Bender, abbozza ritratti divecchi e giovani malavitosi di sicuro impatto artistico-emotivo (come nel capitolo dedicato alla giovane auti-stica Ksjusa), illustra le regole di una rigida leggemorale che si manifesta nelle credenze, nei gesti, nellaritualità, nella sacralità del tatuaggio, dipinge laSiberia come un’ideale patria perduta dopo una resi-stenza secolare ai russi – agli zar prima, ai comunisti,poi – in un’atmosfera sciamanica e in una ricostruzio-ne storica fantasiosa che non regge ad alcuna critica.

E se il lettore potrà inoltrarsi con piacere nei meandridell’intreccio e apprezzarne lo stile efficace (a tratticosì vivido da dover ipotizzare il decisivo intervento diun coautore o redattore), di maniera risulta la parterelativa all’esaltazione delle armi, della «picca», dellepresunte primigenie regole d’onore siberiane. Come non pensare a certa letteratura romantica od’appendice di fronte agli stereotipi di personaggi esituazioni che sembrano discendere anche dal pulptanto diffuso nella letteratura di massa e nel cinemacontemporaneo russo? Tra le citazioni letterarie, tut-tavia, alcune sono più genuine. Mi riferisco, ad esem-pio, a quando il giovane Nicolai recita per zio Kosticuno spezzone della lirica di Puskin Il prigioniero. Lalirica penetrata poi nel folclore è tradizionalmente dif-fusa nel mondo carcerario russo, dove il grande poetacondannato all’esilio è sempre stato sentito come«uno di noi» (on tozhe sidel si direbbe in russo).

SSccrriittttii ttrraa ppeennnnaa ee llaammaaDa notare, d’altro canto, come i realia sovietici nonsiano sempre precisi: se il riferimento alla canzoncinasull’isola di Cunga-Canga è calzante, il CoccodrilloGena (leggi Ghena, da Gennadij) di EduardUspenskij, caro a tutti i bambini sovietici, diventa inve-ce il Coccodrillo Zhena (sic! da Evgenij). Analoga-mente, non convince sempre la descrizione del viverequotidiano, del byt della provincia russa e sovietica.Purtroppo non è possibile dedurre tutte le espressionigergali utilizzate da Lilin e verificarne l’adeguatezza.Certo quelle riportate in russo sono molto diffuseanche al di fuori del mondo blatnoj, malavitoso, noncerto catalogabili come «siberiane» e facilmernte veri-ficabili sui dizionari del gergo. Anche il lettore italianopotrà controllare molti dati sul dizionario enciclopedi-co di Jacques Rossi (quello sì autentico, avendo tra-scorso l’autore tanti anni nel gulag), uscito tempo fa intraduzione (Jacques Rossi, Manuale del gulag.Dizionario storico, L’Ancora del Mediterraneo, 2006).

Sembra che Lilin sull’onda del successo del suo librostia preparando adesso un6 volume anche sulla suaesperienza cecena. Vedremo se lo scrittore di penna e«di lama» riuscirà a liberarsi dai tanti e minacciosi cli-ché. La fortuna aiuta gli audaci. Aspettiamo un nuovoscoop per i felici abitatori dell’isola di Cunga-Canga. Enel frattempo converrà leggere questo libro per quelloche è, un intrigante e talvolta commovente raccontosull’infanzia negata, tra incanto e spudoratezza.

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O ggi più che mai l’editoria potrebbe porsi come uno dei suoi primiobiettivi quello di spostare la soglia del pubblicabile, includendofra le cose fattibili molto di ciò che al momento è escluso. Sarebbe

una sfida enorme, avvicinabile a quella degli inizi, quando Manuzio ope-rava a Venezia. Sensibilità e gusto oltre le barriere ideologiche.

Non soltanto da Google dovrebbe guardarsi l’editoria, ma da sé stes-sa, dalla sua sempre più flebile convinzione nella propria necessità. In-nanzitutto nei Paesi anglosassoni, che sono la punta di lancia dell’edito-ria, dato il predominio della lingua inglese. Se si entra in una libreria diLondra e di New York, è sempre più difficile riconoscere i singoli edi-tori presenti sul tavolo delle novità. Con alta discrezione il nome dellacasa editrice è spesso ridotto a una o più iniziali sul dorso del libro.Quanto alle copertine stesse, sono tutte diverse – e in un certo sensotroppo simili. Ogni volta offrono un tentativo di impacchettamento, più

o meno riuscito, di un testo. E cia-scuno vale per sé, in obbedienza alprincipio dello one shot. Quantoagli autori, i loro libri si incontra-no sotto il marchio di una certacasa editrice e non di un’altra in-nanzitutto in conseguenza delletrattative fra l’agente dell’autore equel certo editore nonché deirapporti personali fra l’autore eun certo editor. Mentre la casaeditrice in quanto tale divental’anello tendenzialmente super-fluo della catena.

IL VERO EDITORE INFRANGE IL TABÙ DEL PUBBLICABILEAdelphi non nacque da una costola dell’Einaudi.Sensibilità e gusto oltre le barriere ideologiche

Roberto Calasso, Corriere della Sera, 20 giugno 2009

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Ovviamente sussistono notevoli differenze di quali-tà fra le case editrici, ma all’interno di un ventaglioche presenta a un estremo il molto commerciale(associato alla volgarità) e all’altro estremo il moltoletterario (associato alla sonnolenza). Ciò che sta inmezzo è una serie di gamme dove si situano i varimarchi. Cosi Farrar, Straus and Giroux sarà più vici-no all’estremo «letterario» e St. Martin’s all’estremo«commerciale», ma senza che questo implichi qual-che considerazione ulteriore – e soprattutto senza chesiano escluse invasioni di campo: l’editore letterariopotrà occasionalmente essere tentato dal titolo com-merciale, nella speranza di far fiorire i suoi conti, el’editore commerciale potrà sempre essere tentato,poiché l’aspirazione al prestigio è una malerba checresce ovunque, dal titolo letterario.

Ciò che è penoso in questa suddivisione – che poicorrisponde a un certo assetto mentale – è innanzitut-to il fatto che è falsa. Nel ventaglio che ho appenadescritto è chiaro che Simenon o una sua ipoteticareincarnazione attuale, per dare solo un esempio, do-vrebbero essere inclusi nella zona altamente commer-ciale – e perciò non passibile di valutazione letteraria;ed è chiaro che molti appartenenti alla funesta cate-goria degli «scrittori per scrittori» dovrebbero essereautomaticamente assegnati all’estremo letterario.Questo va a danno sia del divertimento sia della let-teratura. Il vero editore – poiché tali strani esseriancora esistono – non ragiona mai in termini di «let-terario» o «commerciale». Se mai, nei vecchi terminidi «buono» e «cattivo» (e si sa che molto spesso il«buono» può essere trascurato e non riconosciuto). Esoprattutto il vero editore è quello che ha l’insolenzadi inventare uno slogan come questo: «I libriDiogenes sono meno noiosi» (lo inventò qualcheanno fa Daniel Keel, editore di Diogenes, e questeparole si potevano leggere tutt’intorno al suo standalla Fiera di Francoforte).

Circa un secolo fa nascevano o muovevano i primipassi alcune fra le più importanti case editrici delNovecento: Insel, Gallimard, Mercure de France.Avevano due elementi in comune: erano state costi-tuite da un gruppo di amici, più o meno abbienti – eaccomunati da certe inclinazioni letterarie; e, primadi diventare case editrici, erano state riviste letterarie:Die Insel, La Nouvelle Revue Francaise, il Mercurede France. Poi dai vari gruppi si era distaccata la figu-ra di colui che sarebbe stato l’editore: Anton Kippen-

berg, Gaston Gallimard, Alfred Vallette. Oggi unasimile esperienza sarebbe impensabile, perché sonomutati i presupposti. Fra l’altro, è venuta a mancare– o almeno ha perso la sottile e delicata rilevanza cheaveva – la categoria stessa della rivista letteraria.L’unica pubblicazione periodica che abbia oggi unaautorevolezza e un’influenza indubitabile è la NewYork Review of Books, che si presenta come unarivista di recensioni, perciò non corrispondente aquella forma che forse raggiunse il picco della perfe-zione intorno al 1930 con i ventinove numeri diCommerce, sotto le ali invisibili e protettive diMarguerite Caetani.

Se ci si chiede che cosa tenesse insieme così forte-mente quei piccoli gruppi di amici agli inizi delNovecento, la risposta non è data tanto da ciò chevolevano (spesso piuttosto confuso e indeterminato),ma da ciò che respingevano. Ed era una forma delgusto nel senso che Nietzsche dava alla parola, quin-di un «istinto di autodifesa» («Non vedere, non sen-tire tante cose, non farsene avvicinare – prima accor-tezza, prima prova che non siamo un caso, ma unanecessità»). Doveva trattarsi di una misura davveroaccorta, se ha dato prova di essere tanto efficace.Oggi, a distanza di cento anni e di due generazionidal fondatore, Gallimard è la prima casa editrice diFrancia e si distingue tuttora per un certo «gustoGallimard», che permette di percepire con buonaapprossimazione se un libro può o non può essereGallimard. Quanto al Mercure de France e a Insel,l’una è stata acquisita da Gallimard e l’altra daSuhrkamp, ma entrambe le case editrici continuano aesistere con un loro profilo netto, che si collega allaloro storia. Anche se tutto è cambiato nel circostante,la fisiologia del gusto che teneva insieme quei piccoligruppi di amici sarebbe anche oggi un ottimocontravveleno, quando in certe case editrici soprav-vengono periodiche angosce circa la propria evane-scenza o appannata identità. Ma a quel punto si rive-lerebbe anche che è venuto in larga parte a mancarequel tessuto di sensibilità che avvolgeva il gusto – oalmeno è diventato una superficie dove gli squarcisono più vasti del tessuto stesso.

Questo non dovrebbe però deprimere. Certo,sarebbe più duro e poco praticabile oggi avviare unacasa editrice sulla base delle inclinazioni di un picco-lo club di amici. Ma al tempo stesso l’editoria – sesolo volesse, se solo osasse – avrebbe davanti a sé

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potenzialità che un tempo non sussistevano. Negliultimi cento anni si è immensamente allargata l’areadel pubblicabile, se appena si pensa alla enormequantità di materiali antropologici, scientifici, storici,letterari che si sono accumulati nel Novecento easpettano soltanto di trovare una nuova forma edito-riale. Non solo la Biblioteca, ma tutti i libri Adelphi,fin dall’inizio, si fondavano su questo sottinteso. Erail tentativo di far confluire i testi e i materiali piùdisparati e più remoti in quella ampia, turbinosa cor-rente che trascina con sé tutto ciò che una mentedesta e agile può desiderare di leggere. Di fatto, oggipiù che mai l’editoria potrebbe porsi come uno deisuoi primi obiettivi quello di spostare la soglia delpubblicabile, includendo fra le cose fattibili molto diciò che al momento è escluso. Sarebbe una sfidaenorme, avvicinabile a quella degli inizi, quandoManuzio operava a Venezia. E forse sarebbe ilmomento di ricordare quale fu la carta fondatricedell’editoria. Era un foglio volante stampato dallostesso Manuzio e sopravvissuto fortunosamente sinoa oggi in una copia incollata alla legatura del di-zionario greco della Biblioteca Vaticana. Stampatointorno al 1502, quel foglio conteneva il testo di unpatto fra studiosi che preparavano edizioni di testiclassici greci per la casa editrice di Aldo. Nelle paro-le di Anthony Grafton, «essi concordavano di parla-re soltanto in greco quando si trovavano fra loro, dipagare multe se venivano meno all’impegno e diusare il denaro (in caso ne accumulassero) per offrireun simposio: una generosa cena che doveva esseremolto migliore di quel che usualmente avevano damangiare i lavoranti di Aldo. Altri “filelleni” avrebbe-ro potuto essere accolti nella cerchia, nel corso deltempo». Non è dato a oggi accertare se le regole diquella Nuova Accademia di Aldo Manuzio siano maistate applicate. Ma si può ricordare che anche lenovantacinque tesi di Lutero e la dichiarazione deidiritti dell’uomo e del cittadino del 26 agosto 1789furono in origine fogli volanti. Detto questo, è ovvioche la tendenza del mondo e dell’editoria finora stapuntando in direzione opposta. Così continua arestringersi il campo di ciò che si ritiene si possa fare.«Sarebbe bello, ma non si può»: è una fase molto fre-quente nel mondo editoriale, ovunque.

Quanto ad affinità e disaffinità, aggiungo soltantouna glossa: Adelphi non nacque «da una costola di

Einaudi», come hanno ripetuto a sazietà gli ignari e ifalsi benevoli, ma i suoi presupposti e la sua fisiologiaerano antitetici a quelli dell’ideologia einaudianadegli anni Cinquanta. Bazlen fu consulente diEinaudi dal 1951 al 1962, ma i suoi suggerimenti ven-nero puntualmente disattesi (con l’eccezione non tra-scurabile dell’Uomo senza qualità di Musil); Collipubblicò presso Einaudi due magistrali traduzionicommentate (l’Organon di Aristotele e la Criticadella ragion pura di Kant), ma si vide rifiutare il gran-dioso progetto di una edizione critica di Nietzsche,non già per ragioni di fattibilità ma perché Einaudi(giustamente, nella sua prospettiva) si rese conto cheil progetto avrebbe mutato il carattere della casa edi-trice; Foa fu segretario generale di Einaudi dal 1951al 1961, ma se ne andò anche perché si accorse che lacasa editrice avrebbe definitivamente e irrevocabil-mente seguito la linea di Giulio Bollati. Inoltre, puressendo diversissimi fra loco, Bazlen e Colli erano deltutto refrattari alla visione d’insieme einaudiana, conla quale ben poco avevano da spartire, anche seentrambi ammiravano la qualità e il nitore della casaeditrice. Quanto a Foa, che pure partecipò appassio-natamente alle vicende di Einaudi e ne trasse un inse-gnamento decisivo, inclinava senza esitazioni dallaparte di Bazlen e di Colli.

Anche se nella forma più illuminata e duttile, Einaudiprosperava sotto la cappa di quel sovietismo ottunden-te che gravava su tutta la sinistra culturale in Europa.L’asse della casa editrice era contrassegnato dal Lukácsdella Distruzione della ragione, che additava comenemico primario quanto di meglio la cultura europeaaveva prodotto da Schopenhauer in poi; e da Gramsci,del quale veniva apprezzato e assimilata soprattutto laperniciosa teoria dell’intellettuale organico.

Con Adelphi ovviamente si respirava altra aria. Equesto ci dava anche qualche vantaggio pratico per-ché, per alcuni anni, i libri che cercavamo noi non licercava nessun altro (poi, ahimè, i tempi cambiaronoe certi autori venivano cercati da altri proprio perchésembravano ovviamente adelphiani). Non ci preoccu-pavamo di avere alcun asse, ma l’opera di Nietzschesarebbe bastata a far capire in quali direzioni ci muo-vevamo. Come la Clarisse di Musil, avremmo volutoavviare un «anno Nietzsche», in contrasto con tutte leAzioni Parallele che altrove si tessevano. Quell’annoper noi dura ancora.

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A gli eredi di Victor Hugo andò male. L’alta corte di Parigi, non piùdi due anni fa, sancì il diritto di François Cérésa di continuare –secondo la sua propria fantasia – nientemeno che I Miserabili,

resuscitandone (anche letteralmente, almeno nel caso di un personaggiomorto “per mano” di Hugo, l’ispettore Javert, il nemico numero uno diValjean, protagonista del romanzo) storie e figure in due altri libri, scrit-ti ispirandosi a stile e trame del classico francese. Dapprima i discenden-ti avevano chiesto ben 685mila euro di risarcimento sul diritto moraled’autore, in seguito si ridussero fino a un simbolico euro, giusto pertenere alto l’ideale. Manco quello: il giudice parigino stabilì che Cérésa«pur non pretendendo di avere lo stesso talento di Hugo, è comunquelibero di seguire la sua personale espressione, che non necessariamentegiungerà ai livelli ai quali Hugo poteva arrivare». E dunque: tenetevistretta la memoria del grande avo, ma di soldi o di “tutela dell’opera”non se ne parla. I libri di Cérésa sono regolarmente in vendita. Certo nonraggiungeranno mai il successo dell’originale.

Nel caso Hugo c’erano però di mezzo i 70 anni dalla morte dell’auto-re, passati i quali le opere diventano di pubblico dominio. Il “giochetto”della causa, invece, è riuscito a parenti di scrittori per i quali il fatidicotermine non è scaduto. Giusto dieci anni fa capitò all’italiana Pia Perache, per avere scritto e pubblicato il Diario di Lo (Marsilio) – vita dellaceleberrima Lolita raccontata da lei medesima, e non da quell’ossessio-nato di Humbert Humbert – si vide costretta in tribunale dal figlio di

Nabokov, Dmitri (quello che perun po’ di tempo si è barcamenatonel dubbio se pubblicare ilromanzo che il papà gli aveva inti-mato di bruciare: lo pubbliche-rà…) che ne voleva impedire latraduzione in America. L’accordofu raggiunto sulla base, pare, di uncinque percento dei ricavi del ven-duto del libro della Pera negli Sta-ti Uniti. Con tanti saluti alla difesadella moralità (e pochi introiti, sipresume).

Gli eredi di Beckett non sononuovi a uscite bizzarre. Impe-discono rappresentazioni di opere“che non li soddisfano”: bisognasaper aspettare Godot come dico-no loro, evidentemente, e la leggesta dalla loro parte. Stephen JamesJoyce, unico erede dell’autore diUlysses, ogni tanto assolda gliavvocati (se lo può ben permettere:

IL GIOVANE HOLDEN VA IN TRIBUNALE

Salinger fa causa per difendere il suo romanzo da un seguito taroccato. I libri come le borse?

Stefano Salis, Il Sole 24 Ore, 20 giugno 2009

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ogni anno di royalties arrivano mezzo milione di dolla-ri) contro case editrici e accademici per tutelare, a suodire, il buon nome del nonno. Gli eredi di Steinbeck,nel 2006, si videro dare ragione da un tribunale cheimpose alle case editrici di rinegoziare le percentualidei diritti d’autore. Quando nel 1938 siglò il contrattocon Penguin non poteva sapere quanto i suoi libriavrebbero fruttato all’editore: dopo 68 anni l’accordoè stato rivisto. Potenza della letteratura. Che vende.

Quella che non ha successo finisce presto nell’oblio.È proprio per questo che i classici (contemporanei ono) attirano così tanti i lettori. Tanto che, a volte, ilettori, i classici li vogliono riscrivere, o integrare ovedere che ne è dei personaggi quando il libro è fini-to. È successo ora a J.D. California (evidente pseudo-nimo di tale Fredrik Colting) che vorrebbe dare allestampe un sequel non autorizzato del GiovaneHolden di J.D. Salinger. Il quale, essendo notoria-mente un uomo poco simpatetico con i suoi simili,non ha fatto buon viso a cattivo gioco. Il libro sidovrebbe intitolare Sessant’anni dopo: tornando nelcampo di segale (The catcher in the Rye è il titolooriginale di Holden), nel quale Holden Caulfield è unvecchio vagabondo di 80 anni che vaga per NewYork, dopo essere fuggito da un ospizio. Salingerche, nonostante i suoi 90 di anni ha grinta da vende-re, non ci ha pensato un attimo e ha minacciato que-rele e azioni legali per difendere il suo diritto a nonveder violata la sua proprietà intellettuale. Il giudicedi New York (il libro dovrebbe essere pubblicato asettembre da un editore svedese, in America uscireb-be dal piccolo editore Windupbird) ha già agito: si èpreso dieci giorni, nei quali deciderà se il personaggioHolden può tornare o no in romanzi che non sianofrutto della penna di Salinger.

Dall’alto dei, si dice, 70 milioni di copie vendute intutto il mondo dal 1951, quando il libro uscì, diven-tando subito un caso letterario, Salinger non teme

probabilmente danni economici e non specula dicerto su questo aspetto. Del resto ha rifiutato anchetrasposizioni cinematografiche che sarebbero statemilionarie, come quella di Steven Spielberg. La sua èuna battaglia di difesa del romanzo, ma che si esten-de alla possibilità generale di utilizzare personaggidivenuti iconici al di là delle opere per i quali sonostati concepiti.

Un po’ come è successo con la Rossella O’Hara diVia col vento. Il suo personaggio è stato una specie dispin-off del romanzo principale nella ri-scrittura(autorizzata dagli eredi di Margaret Mitchell) diAlexandra Ripley che vendette circa sei milioni dicopie, molto distanti dall’originale, né fece moltomeglio Rhett Butler’s People di Donald McCaig,pure autorizzato dagli aventi diritto a farci avere la«versione di Rhett» di come fossero andate poi lecose, dopo che aveva smesso di infischiarsene delmondo.

Continuare un’opera altrui, in ogni caso, non èquasi mai vincente, né dal punto di vista commercia-le né da quello strettamente letterario e praticamen-te nessuno scrittore di vaglia rimetterebbe mano amateriali di altra mano. Molto meglio, piuttosto,continuare – se si intravede la possibilità di ulterioriconferme in libreria – i propri personaggi. Come hafatto quel furbone di Dan Brown. Il suo prof.Langdon, eroico cercatore di templari ed eterni fem-minini nel Codice Da Vinci, il 15 settembre sarà dinuovo in tutte le librerie americane. Il titolo delsequel è The Lost Symbol, la tiratura iniziale sarà di6,5 milioni di copie: la più importante mai realizzatada Random House per la prima edizione di un libro.Non ci saranno cause di plagio, come per il prece-dente, ma, siamo pronti a scommetterlo, nemmeno ilsuccesso sarà lo stesso del Codice. Sebbene quandosi parla di milioni di copie nessun sequel può essereun fiasco.

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guerra mondiale. In questi tre tumultuosi decenni siintrecciano trame e destini di decine e decine di perso-naggi dai buffi nomi, individui quasi sempre fuori dalcomune impegnati nelle attività più disparate.Plutocrati, terroristi, spie, pistoleri, avventurieri, viag-giatori, ingegneri, ciarlatani, chiaroveggenti, scienziati,maghi, matematici, seduttrici, qualche cammeo comeNikola Tesla e Bela Lugosi, e perfino un cane di nomePugnax che si diletta nella lettura di Henry James.Troppi personaggi perché uno di essi possa ambire altitolo di protagonista. Il numero degli scenari è di pocominore. Abbiamo una ventosa Chicago illuminata a

S arà di certo una coincidenza involontaria, maContro il giorno, il romanzo con cui ThomasPynchon ha interrotto un silenzio letterario che

durava da quasi un decennio, è sbarcato nelle librerieitaliane il 16 giugno scorso. Per tutti i patiti di Joycequesta data corrisponde al Bloomsday, vale a dire ilgiorno in cui lo scrittore dublinese e la sua futuramoglie Nora Bernacle si dettero il primo appuntamen-to nonché quello in cui si concentrano le azioni narra-te nell’Ulisse. La coincidenza non consiste semplice-mente nel fatto che i due autori vengono spesso acco-stati per ricchezza linguistica e complessità della loroopera. Per molti versi, Contro il giorno è una sorta diprequel del capolavoro indiscusso di Pynchon, L’ar-cobaleno della gravità, le cui pagine iniziali contengo-no similitudini troppo palesi con l’Ulisse per esserecasuali. Il legame tra i due romanzi è simbolicamentesancito nell’ultima riga di Contro il giorno: «Infor-cheranno gli occhiali affumicati per la gloria di ciò chesta arrivando a dividere il cielo», parole che fanno ilverso al celeberrimo incipit dell’Arcobaleno dellaGravità: «Un grido attraversa il cielo». Quale sia ilnesso tematico è presto detto. Il romanzo con cui ilgrande recluso della letteratura americana vinse ilNational Book Award nel 1973 trovava il suo scenarionel cuore di tenebra del Novecento, i mesi terminalidel secondo conflitto mondiale. L’altro, il più recente,quello che da qualche giorno è possibile leggere nellatraduzione di Massimo Bocchiola (Rizzoli, pp. 1127,euro 32), racconta gli eventi che hanno preceduto eposto le premesse a quelle insensate violenze.

IIll nnoocccciioolloo rruuoottaa iinnttoorrnnoo aall tteemmppooContro il giorno copre un lungo arco di tempo che vadal 1893 agli anni immediatamente successivi la prima

L’ULTIMO DI PYNCHONTommaso Pincio, il manifesto, 20 giugno 2009

Mentre è annunciato per agosto il nuovo romanzo in salsa noir dello scrittore americano,è appena uscito da Rizzoli Contro il giorno, che copre tre decenni, a partire dal 1893.Vi si intrecciano diversi scenari, trame e destini di decine di personaggi, e con grande disappunto della critica, la condanna del capitalismo e la fedeltà ai sogni degli anni ‘60

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festa per il quattrocentesimo anniversario dello sbarcodi Colombo nel continente americano, un selvaggioWest sul viale del tramonto, il Messico rivoluzionario,la Londra vittoriana di Jack lo squartatore, la Gottingadella celeberrima facoltà di matematica, i perenne-mente instabili Balcani, una Venezia dove il campani-le di piazza San Marco crolla alla maniera delle TorriGemelle, le foreste siberiane di Tunguska rase al suolonel 1908 dalla violenta esplosione di un asteroide,l’Hollywood del cinema muto e l’utopistico regno diShangri-La, che il mito vuole situato tra le innevatevette del Tibet. Un atlante geografico formato roman-zo, insomma.

A ben guardare, però, il nocciolo della questionenon è lo spazio ma il tempo. Di tanto in tanto, infatti,fanno capolino viaggiatori del tempo, gente in fuga daun futuro poco ospitale, che sarebbe poi il presente dinoi lettori. Costoro tentano di spingersi ancora piùindietro nel passato per trovare riparo in epoche piùsicure, più lontane dai nefasti lumi del capitalismo edalle continue rivoluzioni industriali dei tempi moder-ni. Può succedere allora di scorgere reminescenze diun noto romanzo di fantascienza dell’epoca vittoriana,La macchina del tempo, dove il viaggio nel futuro ser-viva da pretesto per lanciare un monito contro losfruttamento della classe operaia. In quel libro, H.G.Wells ipotizzava un mondo a venire dove i lavoratori,costretti a trasferirsi sottoterra, si evolvono in unanuova specie, mentre i ricchi, impigriti dalle comodi-tà offerte dalla tecnologica, continuano a vivere insuperficie diventando sempre più deboli e dipendentidall’operosità di coloro che per secoli hanno sfruttatoed emarginato nelle viscere del pianeta.

Contro il giorno si muove però su un piano diversodal socialismo pessimisticamente rivisitato da Wellsin chiave darwiniana. Pynchon non è certo un fanati-co dell’economia di mercato. I cattivi del romanzo –i capitalisti e i loro sgherri – vengono chiaramenterappresentati come gli antenati delle odierne corpo-razioni e di quei potenti interessati a una globalizza-zione che giova soltanto a pochi. I buoni – ovverosiail composito esercito di minatori fuorilegge, anarchi-ci bombaroli, scienziati eretici, antesignane dell’amo-re libero e via dicendo – hanno immancabilmentel’aria di hippy ante litteram. E siccome tra i vezzi diPynchon c’è pure quello di immaginare che i suoipersonaggi facciano tutti parte di un unico grandealbero genealogico, il principale filone narrativo di

Contro il giorno racconta la raminga saga deiTraverse, in tutta probabilità bisnonni degli stessiTraverse da cui discende Zoyd Wheeler, lo sconclu-sionato hippy che in Vineland – romanzo del 1990 –non si trovava esattamente a suo agio nell’Americadel riflusso reaganiano.

Webb Traverse è un sindacalista dei minatori delColorado. La sua indole anarchica lo induce a dilet-tarsi negli attentati dinamitardi, e siccome questooriginale passatempo risulta alquanto sgradito a uncerto magnate, Webb viene eliminato in manieraspiccia e animalesca da un paio di sicari. Con anda-mento peripatetico Contro il giorno racconta che nesarà dei quattro orfani del sindacalista. Tre di loro, imaschi Frank, Kit e Reef, stanno forse a simboleggia-re le tre dimensioni conosciute. Lake, la femmina, èprobabilmente un’evocazione della quarta, sulla cuinatura non v’è ancora certezza scientifica: può esse-re il tempo o magari una qualche invisibile entità spi-rituale, mutevole, comunque inafferrabile. Allamaniera di molte eroine pynchoniane fatalmente at-tratte da uomini che dovrebbero evitare come lapeste, Lake sposerà uno degli assassini di suo padre.Frank, determinato invece a vendicarne la morte,finisce per unirsi alla rivoluzione messicana. AncheReef, baro e pistolero, ha sete di vendetta, ma a forzadi seguire le tracce delle tentacolari attività diScarsdale Vibe, il magnate mandante, migra in Eu-ropa dove, tra un intrigo e l’altro, incontra Yash-meen Halfcourt, fanciulla alquanto lasciva e con unostraordinario talento per la matematica. Il destino diKit segue percorsi non meno tortuosi: fa una sorta dipatto col diavolo accettando che Vibe finanzi i suoistudi a Yale, dopodiché se ne va pure lui in Europa,prima a Gottinga e quindi a Ostenda, dove entra incontatto con un gruppo di matematici dalle idee nonproprio ortodosse che hanno fondato una sorta disetta denominata Quaternion e bazzicata dalla bellis-sima Yashmeen.

SSoottttoo ll’’oocccchhiioo ddii aannggeelliicchhee ccrreeaattuurreeTutto ciò limitatamente alle vicende di terra, perchéparte del romanzo si svolge in cielo a bordo di unaaeronave all’idrogeno pilotata da una combriccola dieterni adolescenti nota come i Compari del Caso.Questi giovanotti si spostano da un luogo all’altro delpianeta con fini esplorativi. Talvolta portano soccorso,ma lo fanno sempre rispettando una regola di non

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interferenza con le faccende di terra che ricorda moltola «mitica» prima direttiva di Star Trek. Un po’ angeli,un po’ aspiranti extraterrestri, i Compari del Casoassurgono così allo stato di creature angeliche cheosservano dall’alto le disgrazie di chi vive sulla Terra. Aforza di peregrinare, la banda viene a sapere dell’esi-stenza di una sostanza cristallina che ha il potere di rad-doppiare la «sottostruttura della realtà» e aprire varchiche portano a mondi paralleli.

In questo ingarbugliato e monumentale universo,pieno di universi ulteriori, si agitano fantasmi di ognisorta, a cominciare da quelli prodotti dalla paranoia.I personaggi di Pynchon rimangono fatalmenteintrappolati in giochi più grandi di loro che alla fineli annienteranno. Per un verso o per l’altro, i buonihanno sempre la peggio e sono destinati alla sparizio-ne, mentre i perfidi e gli infidi lavorano nell’oscurità,arricchendosi e guadagnandosi l’effimera quanto im-meritata immortalità che li fa passare alla Storia.

Va detto che Contro il giorno non è stato accolto abraccia aperte dalla critica statunitense. In moltihanno accusato l’autore di fare il verso a sé stesso, diaccartocciarsi su vezzi e temi fuori del tempo. Adispetto delle palesi storture e i reiterati crolli finan-ziari, stigmatizzare il capitalismo è oggi un eserciziomalvisto, tuttavia è proprio questo che Pynchonseguita a fare restando fedele ai sogni contestataridegli anni Sessanta. In altre parole, quel che i detrat-tori non gli perdonano è di non avere abiurato, diessere rimasto un vecchio hippy sporcaccione che,invece di mettere la testa a posto, insiste nel raccon-tare strane storie in cui, tra grandi fumate di canapa epratiche sessuali eccentriche, si farnetica di gigante-schi complotti ai danni dell’umanità e si inveisce con-tro il Sistema malefico che li avrebbe orditi.

Chissà cosa diranno questi detrattori il 4 agosto pros-simo, quando negli Stati Uniti uscirà Inherent Vice, ilnuovo romanzo di Pynchon ambientato proprio nellaCalifornia degli anni Sessanta e descritto dall’editorePenguin come un libro «in parte noir, in parte psiche-delico». Protagonista un certo Doc Sportello, un inve-stigatore privato che si imbatte con una sua ex fidanza-ta, tale Shasta, e si ritrova fare i conti con una macchi-nazione per il rapimento di un miliardario. Il bizzarrointreccio vede coinvolti surfisti, puttane, rocker, unusuraio omicida e un truffatore con una svastica tatua-ta e una passione per Ethel Merman, stella del musicalpassata alla storia come la Gran Dama di Broadway.

Le bozze hanno già cominciato a circolare e, standoa chi ha avuto il privilegio di leggerle, pare che lo stilericordi parecchio quello degli hard-boiled conditi disurreale umorismo alla Elmore Leonard. Fa un qual-che effetto l’idea che uno degli autori più ostici eaudaci d’America decida di cimentarsi con un genereletterario considerato di serie B. È altresì vero che lacosiddetta crime-story costituisce da sempre una ten-tazione cui anche gli scrittori più elitari faticano aresistere. Recentissima è l’uscita di Nobody Move(Farrar, Straus and Giroux, pp. 208, $ 23) di DenisJohnson. La copertina è tutto un programma: unfondo rosso sforacchiato da proiettili.

Originariamente pubblicata a puntate sulla rivistaPlayboy questa nuova fatica dello scrittore, che soloun paio di anni fa si è visto assegnare il National BookAward per un ambizioso romanzo sulla guerra delVietnam, propone il classico motivo del fallito che sitrova nei guai per aver contratto un debito con la per-sona sbagliata. Sparatorie, donne fatali e qualchefrase di lirica bellezza. È quello che ci regalerà ancheil nuovo Pynchon in salsa noir?

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L’ orgoglio viene prima della rovina, ma è anche vero che segue ungrande successo. È una virtù oltre che un peccato, e questo creadei problemi diagnostici. C’è un confine sottile fra il giusto orgo-

glio e la superbia, così come i suoi malevoli figliastri: la presunzione, lavanità e l’arroganza. E il suo aspetto esteriore può dimostrarsi illusorio:a volte lo si indossa come maschera. In letteratura e nella vita, un’aria dieccessiva autostima è il più delle volte una proiezione dovuta a una para-lizzante insicurezza.

Anche se l’orgoglio non sembrerebbe mai scarseggiare, espressionicome Gay Pride e Black Pride, Orgoglio Omosessuale e Orgoglio Nero,lasciano intendere che, storicamente, alcuni gruppi umani ne hanno sof-ferto la mancanza, e che l’orgoglio è un aspetto vitale della dignità dell’in-dividuo. Un senso ipertrofico dell’orgoglio è la virtù caratteristica dellacosiddetta Hip Hop Nation, una repubblica basata sulla spavalderia e lespacconate. Il giusto orgoglio può essere un concetto relativo, deter-minato dal contesto culturale e storico. Sarebbe interessante decidere a

che punto decidiamo di accusaredi superbia un rapper come 50Cent o Eminem.

Il concetto greco di hybris,anche se non è identico a quellocristiano di superbia, senz’altrocopre in parte lo stesso terreno. Iltrattamento brutale che Achilleriserva nell’Iliade al corpo diEttore è un atto di hybris, cheAristotele definiva come l’umilia-zione della vittima al fine dell’esal-tazione di sé stessi. Ma il concettodi hybris si estende anche a un cri-mine senza vittime come il volo diIcaro, che col suo gesto usurpa il

L’ULTIMA SFIDA DEL NARRATORE:DIFENDERE IL VALORE DELL’UMILTÀ

Jay McInerney (traduzione di Martina Testa), Corriere della Sera, 22 giugno 2009

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territorio e le prerogative degli dèi. Nella gerarchiacristiana del peccato come si sviluppò agli albori dellastoria della Chiesa, la superbia è il più importante frai peccati capitali. Sono la superbia di Lucifero e il suodesiderio di competere con la preminenza di Dio chelo portano alla caduta e alla trasformazione in Satana.Dante definisce la superbia come l’amore di sé per-vertito in odio e disprezzo per il prossimo. Quasi tuttigli altri peccati si possono considerare derivati daquesta condizione.

Nell’Inghilterra georgiana, la questione dell’orgogliosembrava essersi ridotta quasi a una questione di gala-teo. I lettori contemporanei potrebbero far fatica adistinguere il giusto orgoglio dalla superbia in unadelle più famose testimonianze letterarie sull’argomen-to, Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen. Quando loincontriamo per la prima volta a un ballo campestre,l’altolocato signor Darcy ostenta un atteggiamentosuperbo: in mezzo alla folla di provinciali ignora tutticoloro che non conosce già da prima e parla addirit-tura male di Elizabeth Bennet, la vivace protagonistadel libro. In seguito, dopo averle chiesto la mano perla seconda volta, le spiega: «Sono sempre stato unegoista, di fatto, se non per principio. Da bambino miinsegnarono ciò che è giusto, ma non mi insegnaronoa correggere il mio carattere. Mi diedero sani princì-pi, ma mi lasciarono seguirli come mi dettavano l’or-goglio e la presunzione. Fui viziato dai miei genitoriche, pur essendo brave persone […] mi permisero,m’incoraggiarono, m’insegnarono addirittura adessere egoista ed altero, a non curarmi di nessunoall’infuori della mia cerchia familiare, a disprezzaretutto il resto dell’umanità, o quantomeno a desidera-re di disprezzare il senno e il valore altrui a paragonedel mio».

Per la Austen, a quanto pare, l’orgoglio per la pro-pria posizione sociale, in questo caso per il proprio

lignaggio, non era in sé qualcosa di disdicevole: lanoncuranza di Darcy per gli altri – che rasenta ildisprezzo – a trasformare il suo orgoglio in super-bia. I lettori americani contemporanei, che vivonoin un contesto relativamente meritocratico, potreb-bero avere difficoltà a comprendere questo orgogliodi nascita, che la Austen sembra dare per scontato.Va benissimo che Darcy sia orgoglioso della propriafamiglia, sembra dire l’autrice, ma non fino a quelpunto. Per i contemporanei della Austen era senzadubbio più facile capire la posizione di Darcy sul-l’orgoglio familiare. Per i lettori americani di oggi,come fonte di orgoglio sono più accettabili le con-quiste individuali.

Gli osservatori della società americana contempora-nea potrebbero chiedersi se è probabile che in unprossimo futuro la superbia venga declassata e de-pennata dalla lista dei sette peccati capitali, più omeno nello stesso momento in cui i suoi opposti, ilpudore e l’umiltà, scivolano verso l’estinzione. Irecenti sondaggi mostrano che molti giovani america-ni considerano la fama come il massimo traguardo acui può aspirare l’esistenza umana. Una società diquesto tipo esalta la celebrazione di sé, la proiezionee l’amplificazione dell’ego, a discapito dei tradiziona-li valori giudaico-cristiani. Nel mondo secondoDonald Trump e 50 Cent, la superbia è la massimavirtù e una debolezza e il pudore è roba da sfigati.Tale sembrerebbe la situazione della cultura dimassa, almeno sulla nostra sponda dell’Atlantico. Frale molte sfide che si prospettano al narratore contem-poraneo, nel suo porsi come una specie di interme-diario fra la cultura di massa e la tradizione letteraria,fra le esigenze in continua accelerazione del momen-to storico attuale e la saggezza accumulata della sto-ria, c’è quella di mantenere vivi nel nostro tempo iconcetti di superbia e di pudore.

McInerney: «No a un mondo dove il pudore rischi l’estinzione»

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Unite la follia di Fight Club, il genio di Pulp Fiction, il ritmo

di E.R.: e avrete Vedi di non morire,

il folgorante romanzodi Josh Bazell.

Racconta di un ex killerdella mafia che lavorain ospedale. Diventerà

un film: li vedrestebene Tarantino e Di

Caprio insieme sul set?

Il peggior ospedale di Manhattan, la corsia vista dallo sguardo di uninternista che non è il Dr. House: è un killer della mafia. Ma è moltopiù brillante del Dr. House. Se il medico zoppo del serial tv è brillan-

te, l’internista mafioso Peter Brown allora è fluorescente. Un esempio?Questo: «L’Anadale Wing, il piccolo reparto di lusso dell’ospedale, sisforza di sembrare un hotel. La reception ha un pavimento di linoleumin simil legno e uno scemo in smoking che strimpella il pianoforte. Sefosse davvero un hotel, comunque, offrirebbe un’assistenza sanitariamigliore. Secondo voi basta essere pieni di soldi per ricevere un’assisten-za sanitaria superiore alla media? Date un’occhiata a Michael Jackson».

Questo cinico, esilarante, imperdibile protagonista di Vedi di non mori-re, esordio narrativo di Josh Bazell, è il personaggio letterario americanopiù memorabile dai tempi di Tyler Durden, lo schizoide di Fight Club,bestseller di Chuck Palahniuk. E Vedi di non morire è il nuovo FightClub. Chi ha amato il libro di Palahniuk o il film che ne ha tratto DavidFincher deve assolutamente leggere il romanzo di Bazell. È urgentissimo,altrimenti rischiate troppa noia. Rimediate a questo disastro che è lavostra vita: Josh Bazell vi tirerà su il morale e l’umore. Anzitutto perché,scrivendo Vedi di non morire, il morale se lo è tirato su da solo: l’ha scrit-to durante i turni di notte nell’ospedale in cui lavora.

Uno si dice: «Toh, un medico ha scritto un libro!». No: Bazell ha due-cento lauree, tra cui quella in letteratura inglese, e si sente. Arriva davve-ro al livello del miglior Palahniuk, che ultimamente è sceso al livello delpeggior Palahniuk. Ha scritto sul serio un mezzo capolavoro, che riten-

go imperdibile, e che con FightClub condivide la sorte. Anzituttoperché si stanno contendendo idiritti di pubblicazione all’estero acolpi di offerte che sembranotransazioni di Gordon Gekko inWall Street. E poi perché, come lacoppia Brad Pitt & EdwardNorton ha portato su grandeschermo il personaggio di Pala-hniuk, così pare imminente che ainterpretare l’indimenticabile kil-ler ospedaliero Peter Brown saràLeonardo Di Caprio, innamorato-si del romanzo (fallo, Leo: ti sup-plico). Si sussurra sul web cheQuentin Tarantino dirigerà que-sto incredibile e sganasciantethriller. Scelta opportuna, soprat-tutto per Tarantino: Vedi di nonmorire ha lo stile e la trama piùprossimi a Pulp Fiction che mi siacapitato di incontrare in anni difaticosa ricerca.

FALLO, LEO: TI PREGOGiuseppe Genna, Vanity Fair, 24 giugno 2009

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Peter Brown secondo l’anagrafe si chiamerebbePietro Brwna e, secondo la mafia del clan Locano, sichiamerebbe Orso. Figlio di padre italiano (non sicu-lo!) e di madre ebrea polacca americana hyppie, estato allevato dai nonni, che lui ha trovato in teneraetà massacrati nel salotto di casa. La sua famiglia èdiventata quindi un’altra: quella, appunto, deiLocano, che sono più cruenti ma anche più surrealidei Soprano. Noi inconsapevoli lettori troviamo que-sto accrocchio semiumano, ipercinico e violentissimoma anche caritatevole (a modo suo), in qualità diinternista connesso a un programma di recupero dalcarcere. Peter Brown è La Cosa dei FantasticiQuattro abitata dallo spirito di David Letterman. Edisincantato e competentissimo nelle diagnosi e nelleterapie allucinanti che effettua, svelando il dietro lequinte che mai e poi mai vorreste conoscere (e inve-ce lo volete conoscere tantissimo, non solo io chesono un noto ipocondriaco): ciò che accade davveronel luogo in cui ci curano, cioè l’ospedale. Siamo a

livello di E.R. girato col Marlon Brando del Padrino.È Grey’s Anatomy dove tutti hanno preso l’Lsd.

Peter Brown ha un tormentone: è la GrandeMietitrice, cioè la morte. È evocata ovunque, ed èprevedibile se un omicida mafioso sta in corsia. Nonè prevedibile invece che, tra i pazienti, gli capiti unmembro della famiglia Locano, con il cancro in faseterminale. Il tumorato riconosce l’Orso e gli crea unproblema paradossale: se muore, i trascorsi di PeterBrown riemergeranno e sarà per lui una fine lenta edolorosa. Taccio dei trascorsi di Peter Brown con lafamiglia mafiosa, per evitare di rovinare la supremasuspense del romanzo di Bazell.

Da anni cercavo un autore che mi facesse catapulta-re dalle risate e pensare a questo modo, ridandomiquello che Palahniuk e Tarantino non mi hanno piùdato. Beh: l’ho trovato. Se non leggete Vedi di nonmorire, attenti a quando sarete ricoverati in qualcheospedale: potrei essere il vostro infermiere e non avròpietà.

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La Capitale fa il sorpasso (per numero di marchi).E organizza una nuova Fiera (dal 5 luglio).

Anche se il fatturato non è in questione,i romani strappano bestseller ai grandi

C on Milano la sfida è ancora aperta. E non è solo questione di aero-porti o di chi per primo organizza le ronde. La competizione si èspostata anche sul settore editoriale e quest’anno il fenomeno è

diventato visibile durante le selezioni dei romanzi per il Premio Strega.Cinque dei dodici semifinalisti, infatti, sono libri prodotti nella Capitalee nella cinquina che giovedì si contenderà il riconoscimento al Ninfeo diVilla Giulia due sono made in Rome: L’istinto del Lupo di MassimoLugli (Newton Compton) e L’ultima estate di Cesarina Vighy (Fazi).Certo quest’anno, dopo l’autoesclusione di Mondadori (che però gareg-gia con il marchio Einaudi) e di Feltrineili, era tutto un po’ più facile.

Per numero di editori, Roma ha compiuto il sorpasso su Milano (con788 marchi rispetto al 782) anche se, per quanto riguarda le novità libra-rie, la Lombardia continua a produrne quattro volte quelle del Lazio(23.525 rispetto a 6.612) e il volume d’affari non è neanche paragonabi-le. Eppure il grande successo di alcuni marchi capitolini sta diventandouna spina nel fianco dei grandi colossi del Nord, perché ormai questi rie-scono a piazzare i loro titoli in classifica e, un po’ a sorpresa, pare cheabbiano trovato anche la chiave per scovare bestseller. Donzelli, peresempio, con Il curioso caso di Benjamin Button di Francis ScottFitzgerald, ha venduto oltre trentamila copie. «Alla Mondadori» diceCarmine Donzelli «forse non si erano accorti che il racconto faceva partedella raccolta L’età del jazz, che avevano in catalogo ma da anni nonveniva più ristampata. Visto che i diritti erano liberi, e sapendo che stavaper uscire il film, l’ho riportato in libreria». Facendo il botto.

Occhio lungo e un po’ di fortu-na anche per la minimum fax, chegià nel 2003 aveva pubblicatoRevolutionary Road di RichardYates. Dopo l’uscita del film conLeonardo Di Caprio e KateWinslet il libro ha toccato le tren-tamila copie. Ancora più eclatanteè il caso di Twilight di StephenieMeyer, pubblicato da Fazi Edito-re. Appena uscito negli StatiUniti, nel 2005, il libro sul vampi-ro romantico è stato rifiutato damolti editori italiani e per questo idiritti sono stati acquistati «asaldo» da Fazi per soli ventimilaeuro. Il blockbuster con RobertPattinson ha fatto però volare levendite a quota due milioni.

«Indipendenti» e «vivaci» sonogli aggettivi che piacciono di piùagli editori romani per descrivere ilfermento che si sta vivendo nellaCapitale. Per dargli visibilità

ROMA, LA CARICA DEGLI EDITORICRESCONO E SFIDANO MILANO

Marco Romani, Il Venerdì della Repubblica, 26 giugno 2009

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Federlazio ha deciso di organizzare Roma si Libra, cheda domani fino al 5 luglio (dalle sei alle undici di sera)occuperà piazza del Popolo con 52 stand dei maggiorieditori capitolini, una grande libreria con i marchi piùpiccoli e tanti appuntamenti con scrittori, artisti e atto-ri, da Massimo Carlotto a Mario Monicelli, da AscanioCelestini a Moni Ovadia e Franco Ferrarotti. L’unicadefezione è quella di Fazi, che però giura di mancaresolo perché nessuno in casa editrice era disposto a pre-sidiare lo stand.

«Roma si Libra» dice Enrico Iacometti, responsabi-le del settore editoria di Federlazio e amministratoredelegato della Armando, «non sarà una sagra di pro-dotti tipici perché le nostre imprese stampano libri direspiro nazionale e internazionale. Siamo una realtàviva che, tra lavoratori e collaboratori esterni, impie-ga circa cinquemila persone e che, grazie alle dimen-sioni ridotte, può permettersi piccole tirature».

Non sempre la quantità va d’accordo con la qualitàe «Roma» dice Elido Fazi «rispetto a Milano ha ilvantaggio di avere degli editori in carne e ossa chenon si sono ancora trasformati in anonime holding fi-nanziarie». Piccolo è bello? «No» dice Marco Cas-sini, fondatore di minimum fax «piccolo è piccolo. Enon sempre è sinonimo di qualità, ma il fatto che cisiano tanti editori aiuta a salvaguardare la libertà dipensiero».

Qualche effetto negativo c’è. Per Carmine Donzelli,infatti, la superfetazione di sigle e di titoli impedisceai piccoli, ma professionali, di emergere. «Questo

mestiere non ha bisogno di dilettanti allo sbaraglio,ma di imprenditori scafati e professionali con il col-tello tra i denti». Negli ultimi anni molti marchi edi-toriali romani si sono consolidati e da «piccoli» sisono trasformati in «medi». È il caso di e/o, Fazi,Newton Compton, Donzelli, Fanucci. C’è poi chi hapuntato sulla multimedialità. Fandango, nata comecasa cinematografica e televisiva, è entrata con forzanel mercato librario, mentre minimum fax ha apertoai documentari letterari, come A quattro mani diCarlo Lucarelli e Andrea Camilleri o quello, ancorain preparazione, su Salgari.

Dal Nord è arrivata Ginevra Bompiani, figlia diValentino, tra i più grandi imprenditori italiani dilibri. Quando nel 2002 ha deciso di dar vita aNottetempo ha scelto Roma proprio perché è lapatria della piccola editoria. «Mi piace molto farparte della categoria degli indipendenti. Qui si riesceanche a creare una rete di amicizie e di collaborazio-ni fra colleghi che porta a organizzare iniziativeimportanti come quella di piazza del Popolo». Iromani fanno gola ai grandi gruppi? «Siamo moltoappetibili» dice Bompiani, che con Mal di pietre diMilena Agus ha sfiorato le 200mila copie «e ricevia-mo tante offerte. Ma, purtroppo per loro, non siamoin vendita». Anche Marco Cassini ha dovuto dire noalle avance finanziarie. «C’è anche chi si è presentatodirettamente con la valigetta di banconote di piccolotaglio». Roma ha però deciso di restare piccola. Eindipendente.

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U n angelo con gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. Losguardo fisso, rivolto al passato: un’immane catastrofe accumularovine ai suoi piedi. Senza tregua. Lui vorrebbe trattenersi, desta-

re i morti, ricomporre l’infranto. Ma le sue ali dispiegate, impigliate inuna tempesta che spira dal paradiso, lo spingono verso il futuro, cuivolge le spalle. La tempesta è ciò che un tempo chiamavamo progresso,l’angelo è l’angelo della storia di Walter Benjamin. La narrativa contem-poranea deve, forse, chiedersi: che ne è stato di quell’angelo nuovo?Stando a François Hartog, le società pensano il rapporto tra passato,presente e futuro in modi diversi. Nella nostra, dopo che fino agli anni’60 ha prevalso un orientamento al futuro, è subentrato il “presentismo”,un regime di storicità caratterizzato dall’egemonia del presente. Il chepone la domanda: come si racconta il presente quando non c’è che quel-lo? La letteratura – quell’idea nata con l’età moderna votandosi al cultodegli antichi e alla promessa, mai mantenuta, dei posteri – deve oggiaccorciare le distanze. Si vede spinta nella zona di contatto con il presen-te. Tutto il passato sembra averci dimenticati e il futuro non dura più alungo. Impazienza assoluta.

Già per questa china, la narrativa contemporanea diventa narrativa delcontemporaneo. Entrano, allora, in crisi le poetiche dello scarto otto-nove-centesche. Il secolo della Storia, radicalmente futurista, si era imposto discartare a ogni costo e a tutto campo: dal linguaggio ordinario, dall’ideo-logia dominante, dal tempo presente. Ma l’obbligo di aderenza impone,oggi, la fuoriuscita da quell’idea moderna di contemporaneità. Tantodall’inattualità nicciana quanto dalla negatività adorniana. Insomma, ilVentesimo è stato, nelle arti, nel pensiero e in letteratura, un secolo disistematico smarcamento. Il Ventunesimo si apre all’insegna del marca-mento a uomo, asfissiato e asfissiate, sul presente.

Personalmente, avverto questo “presentismo” declinarsi in “cronachi-smo”. Sotto la pressione dei linguaggi mediatici, l’orizzonte ampio dellaStoria e delle sue storie si frantuma in cronaca di un oggi assoluto, e per-ciò deprivato della possibilità di entrare in un racconto grande, sia essomagari anche racconto del Male. Il risultato è un triste cronicizzarsi del-l’esistenza, individuale e collettiva. La vita, se letta nelle pagine dei gior-

nali o vista in tv, scade a teatro difattacci e fatterelli. Finisce conl’apparirci come una malattiainguaribile di lungo decorso.Un’illusione che per dare prova diautenticità si cala sempre più neitoni crudi, nel sangue, nello sper-ma, rimesta nel torbido, nel trivia-le, nel sozzo. Ogni giorno un delit-to e un delitto al giorno. Questa laregola della miopia cronachistica.E non si tratta di un “ritorno allarealtà”. Sul modello degli spetta-coli gladiatori, il mondo dellacomunicazione trionfante è qual-cosa di finto che per essere credu-to ha bisogno di un eccesso direaltà. La nostra maggiore, obbli-gata aderenza al reale è, insomma,del tipo del cerotto sulla ferita.Fino alla cauterizzazione dello spi-rito, fino all’indifferenza e allacecità assolute.

Nella mia pratica di scrittore, hosempre alternato romanzi storico-epici a romanzi scritti in un corpoa corpo con la cronaca. Sono, perme, due fasi di oscillazione di unostesso pendolo impazzito. Con ilmio ultimo libro, Il bambino chesognava la fine del mondo, hopreso i frantumi di molti delittinarrati, in modo slegato e disper-so, dalle cronache di questi anni e

LA LETTERATURA AL TEMPO DELLA CRONACAAntonio Scurati: cosa significa scrivere in un mondo ripiegato sul presenteAntonio Scurati, la Repubblica, 26 giugno 2009

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ci ho costruito un racconto d’invenzione che li ricapi-tolasse tutti in un’unica figura discernibile del Male.Per farlo, ho perfino utilizzato molti articoli di com-mento che avevo scritto, non senza disagio, per laStampa. È stato il mio tentativo di sfuggire allaprigione della cronaca seguendo il consiglio di Genet:per sottrarti all’orrore, sprofondaci dentro.

Ma è stato anche un modo di mettere in pratica treprincìpi di una narrazione del contemporaneo.Esercitare un’intelligenza delle superfici (divenire su-perficiali per profondità; atterrirsi, come astronauti inricognizione lunare, allineando l’occhio alla superfi-cie desolata e scabra dell’immediato). Stabilire unrapporto di vicinato con il proprio qui e ora (nonnecessariamente di buon vicinato; si tratta, anzi, diuna rivalità mimetica, di scendere sul suo terreno,rischiando risposte parzialmente isomorfe; di farsisotto, come in una bagarre pugilistica, per piazzare ilproprio colpo). Sapersi prigionieri di una bolla d’im-manenza (e non più quella della concezione postmo-derna del linguaggio come prigione di segni, ma quel-la di un tempo senza vie d’uscita).

La versione aggiornata al tempo della cronaca delvecchio angelo della storia – angelo caduto – viaggiain utilitaria. Tiene sempre gli occhi spalancati maora, imprigionato nel presente, la sua postura è

curva, la spina dorsale inarcata sul volante, le aliripiegate. Nessun vento del paradiso a sospingerlo,solo un motore a scoppio. Costretto in quell’angustospazio in movimento, il suo mondo è governato dallarelatività ristretta: qualunque gesto, anche il piùampio, non ha vera grandezza perché relativo alsistema di riferimento di un piccolo abitacolo. Presodentro la sua bolla d’immanenza, deve avanzarerivolto al futuro di un nastro d’asfalto, l’angelo dellacronaca, frontale, diretto, ma l’orizzonte è vuoto, lasuperficie è glabra, il parabrezza opaco. Deve guar-dare avanti ma non si vede a un passo. Oppure puòindirizzare lo sguardo a un rimbalzo retrogrado.L’occhiata obliqua non gli restituisce, però, nessungrandioso spettacolo di rovine. Solo piccole porzionidi un mondo in decomposizione nello specchiettoretrovisore. Frantumo di frantumi. L’eco dei crolli sirichiude sulle ruote posteriori come la scia di un’eli-ca. Una scritta a lettere maiuscole gli ricorda la rego-la della prossimità obbligata: “Objects in the mirrorare closer than they appear”. La nebbia è fitta, lastrada, però, sembra sgombra. Si può, forse, tentareperfino un salto di corsia. Ma l’istinto del trauma gliconsiglia prudenza. Ciò che sta per piombarti addos-so si trova sempre nel punto cieco dello specchiettoretrovisore.

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L’ estetica in tutte le applicazioni ci divora e non sappiamo piùcos’è. Questo libro di Massimo Fusillo, Estetica della letteratura(Il Mulino, pp. 225, euro 13), è esauriente e chiaro, riformula in

breve tutti i problemi antichi e attuali e ci lascia liberi di vivere nellanostra incertezza e perplessità fra un’opzione e l’altra. È vero che l’og-getto è qui limitato: è la letteratura. Ma è anche vero che la letteratura è(è stata) uno degli oggetti privilegiati e più indagati dall’estetica, dallepoetiche, dalle teorie, dalla critica. Da tempo viviamo in regime di eclet-tismo, perciò alla domanda “Che cos’è la Letteratura?” non troveremorisposte definitive e soddisfacenti per tutti: né in questo libro né altrove,negli innumerevoli volumi e saggi che Fusillo elenca in una cinquantinadi pagine, fra note ai singoli capitoli e bibliografia finale.

Prima, intorno alla metà del Novecento, andò in frantumi l’esteticafilosofica. Alle definizioni sintetiche di che cos’è l’Arte in generale, sisostituirono le indagini tecniche sulle singole arti: musica, pittura, archi-tettura, teatro, cinema, letteratura, urbanistica, televisione ecc. Più tardinacque e regnò per circa un ventennio la Teoria della Letteratura,accompagnata dalle diverse metodologie, il più possibile scientifiche, perl’analisi dei testi.

All’inizio del Novecento il singolare classicismo intuizionistico e fram-mentistico dell’estetica filosofica di Benedetto Croce (una delle estetichepiù note e influenti del secolo scorso) trovò il “quid” che distingueva lapoesia dalla non-poesia (o semplice letteratura) e questo quid era la pura“intuizione lirica”: un’esperienza mentale originaria e quindi spoglia di

elementi concettuali, costruttivi,pratici, un’esperienza che avevapotere di produrre senza media-zioni tecniche l’espressione forma-le adeguata, irripetibile e perfetta.

La ricerca di questo quid distin-tivo che avrebbe permesso di ren-dere più specifico e scientifico lostudio letterario, definendo checos’è che rende letterario un testo,fu una ricerca che andò molto piùin là dell’estetica di Croce, senzasmettere di somigliare all’esteticadi Croce. I Formalisti russi delprimo Novecento dissero che l’in-teressante della letteratura era lasua essenza, la “letterarietà”. Unmodo di usare la lingua del tuttoparticolare, che separava la linguad’uso dall’uso poetico della lingua:un uso straniante, ricco di artifici eorientato a valorizzare più la fone-tica che la semantica. Negli anniSessanta, il più linguista dei

ECCO UN LIBRO CHE SPIEGA BENE TUTTI I VERI PROBLEMI DELLA NOSTRA LETTERATURA

Alfonso Berardinelli, Il Foglio, 27 giugno 2009

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Formalisti, Roman Jakobson, teorizzò una “funzionepoetica del linguaggio” separabile dalle altre funzioniperché autoreferenziale. L’intuizione lirica di Croceaveva preso un nome diverso, era uscita dalla specu-lazione filosofica e dal quadro delle facoltà mentaliper entrare nella dimensione della linguistica struttu-rale. Ma altri linguisti e filosofi del linguaggio dimo-strarono che niente permetteva di isolare quel parti-colare uso della lingua che sarebbe esclusivo dei testiletterari.

La vicenda naturalmente è più complicate di quan-ta risulta da questo riassunto telegrafico. Era solo perricordare gli ultimi tentativi di “reductio ad unum”dei fenomeni e dei prodotti letterali. Tramontato ilprogetto di costruire una teoria scientifica della let-teratura, ci si è all’improvviso ricordati che la lettera-tura non è fatta solo di testi: ha bisogno di autori, dilettori, viene prodotta e letta in certe circostanze, perscopi variabili, rinasce all’interno di culture moltodiverse e spesso non omogenee, i diversi generi let-terari esistono, anche se variano: per esempio la lette-ratura secondo la teoria e la pratica di Tolstoj non hamolto a che fare con la letteratura secondo Mallarmé,tra Solgenitsin e Paul Celan c’è poco in comune, nonsi può scrivere un romanzo seguendo i criteri esteticidella poesia lirica e infine soprattutto, è assurdo pen-sare che tutte le epoche letterarie, da quella di Omeroa quella di Baudelaire, abbiano prodotto opere defi-nibili in teoria con le stesse categorie.

Se alla letteratura appartengono sia Montaigne cheWilliam Blake, sia Manzoni che Rimbaud, sia de Sadeche Dickens, ecc., viene voglia di dire che la lettera-tura è un territorio abitato da individui troppo diver-si per essere considerato un solo habitat o bioma.

Massimo Fusillo non è propriamente un filosofo néun teorico, anche se conosce bene filosofie e teorieletterarie. È un comparatista che spazia dalla Greciaantica alla postmodernità e per costruire il suo pano-rama dell’“Estetica della letteratura” esamina congrande scioltezza idee di ogni provenienza. Non usasolo Aristotele, Vico, Kant, Hegel, Nietzsche, Croce,Freud e i teorici strutturalisti: usa abbondantementeanche critici letterari e scrittori, da Diderot a

Friedrich Schlegel a Baudelaire, da Dostoevskij aLukács e Bachtin, Proust, Benjamin, Blanchot,Barthes. Tramontata l’estetica filosofica e la teoriastrutturalista ora l’estetica torna in forme eclettiche epolimorfe, è più empirica che trascendentale nel ten-tativo di descrivere (o giustificare) una dimensioneletteraria dilatata e in continua metamorfosi tecnicacome quella attuale.

Leggendo un tale libro, si torna fatalmente a ricon-siderare le proprie convinzioni. La prima, per quantami riguarda, è quella che sottolinea la coppiaMitopoiesi e Stile, che mi sembra abbastanza utileper individuare in prima approssimazione due tipi diautori. Sono “mitopoietici” gli scrittori che inventanoun vasto e originale mondo immaginario, parallelo ospeculare rispetto a quello in cui viviamo: scrittori incui prevale la creazione di personaggi e di storie,come Dante, Cervantes, Shakespeare, Molière,Dickens, Melville, Dostoevskij. Sono piuttosto “stili-stici” gli scrittori che esprimono e comunicano emo-zioni e pensieri intensificando il gioco linguistico:poeti e saggisti come Petrarca, Montaigne, Donne,Keats, Kierkegaard. I due coetanei Leopardi ePushkin, per esempio, sono due dei più grandi poetiromantici: ma Pushkin, più mitopoietico, ha inventa-to la storia di Onieghin, mentre Leopardi, più sti-listico, ci ha detto che cosa sentiva e pensava. La liri-ca e la saggistica sono raramente o moderatamentemitopoietiche (in Leopardi le Operette morali losono più dei Canti). Il romanzo e il teatro sono mito-poietici quasi fisiologicamente, per necessità.

È solo un tentativo come un altro per semplificareun po’ la meravigliosa varietà dei fenomeni. Di fron-te alla saturazione delle definizioni di letteratura, let-terarietà e specifico letterario, una volta esaurita lacuriosità giovanile per i concetti, mi succede ognitanto di ricorrere alla più brutale e premoderna dellesemplificazioni e mi ripeto che in fondo: “Letteraturaè dire nel modo migliore qualcosa di interessante chesi preferisce rileggere e conservare per la rilettura”. Ose preferite: “Dire nel modo più interessante cose checredevamo di sapere e invece scopriamo di nuovo ocapiamo meglio”.

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I l «Grinzane Cavour» – che per anni ha assistito a un chiassoso magnamagna e poi a un silenzioso fuggi fuggi da parte di scrittori, politici, edi-tori, giornalisti – è franato sotto i colpi di una maxi-inchiesta giudiziaria,

mentre la Fondazione Epokè e la Fiera del libro di Torino se ne contendo-no le spoglie: Enrico Stasi, nominato dal tribunale di Torino liquidatoredell’impero culturale di Giuliano Soria, sta vagliando in questi giorni le dueofferte. Poi si svolgerà l’asta, funebre.

Lo «Strega» – che si trascina sempre stancamente fra attese, proteste, rab-bie, rivalità, autocandidature e svendite a pacchetti – è in fase di stallo, alme-no a leggere il Corriere della Sera di qualche giorno fa, con gli «Amici delladomenica» che vorrebbero chi rifondarlo, chi ripensarlo, chi ripulirlo, chifermarlo per un anno… Mentre proprio ieri Dagospia pubblicava un’inter-vista (postuma e inedita: è del luglio 2007) di Nunzia Penelope ad AnnaMaria Rimoaldi, mai abbastanza compianta domina del premio, la qualemette in fila uno dopo l’altro i grandi editori («Della qualità se ne fregano,pubblicano solo per fare quattrini»), editor («A fine anno ognuno devedimostrare quanto ha fatto guadagnare alla ditta: se anche avesse trovatodieci libri bellissimi, ma che non vendono abbastanza, verrebbe messo daparte»), scuole di scrittura («Non le capisco. L’invenzione, la narrativa: o cel’hai o non ce l’hai»), autori («Bevilacqua? Orrendo… Parrella? Bei raccon-ti, ma il romanzo è un’altra cosa… Mazzucco? Lavora di fretta e si vede…Baricco? Mai amato… Scurati? Una lagna pazzesca»).

Da parte sua il «Viareggio», che fino al 2004, sotto la guida pruden-te di Gabriella Sobrino e la «protezione» di Cesare Garboli, era riusci-to a rimanere lontano dai guai, ultimamente ne ha viste di tutti i colo-ri, sino alla clamorosa spaccatura dell’estate di due anni fa, con la raf-fica di dimissioni di giurati contro la presidentessa Rosanna Bettarini,una «fronda» dalla distorta eco mediatica di cui la manifestazione con-tinua a pagare i postumi. Mentre al «Campiello» non si sono ancoraripresi dalle divisioni interne che hanno lacerato l’ultima edizione,quella passata alla storia come la «guerra delle quote rosa», quando lagiuria decise di selezionare una cinquina di sole donne, senza però riu-scirci: sparì Melania Rizzoli, spuntò Paolo Di Stefano, arrivarono lebenefiche polemiche.

E questo per stare ai più noti ed esclusivi dei circa 1600-1700 premi let-terari censiti in Italia (esclusi quelli che proliferano in Internet). Per quan-to riguarda i minori, invece, non c’è che l’imbarazzo della scelta, a parti-re dal premio «Citti di Ostia» assegnato una decina di giorni fa – nonsenza prevedibili contestazioni – a Licio Gelli, noto benemerito delleLettere e della Repubblica italiane…

Ormai da tempo ogni volta che danoi si pronuncia la parola «premioletterario» iniziano ad alzarsi venti ditempesta: forse per mettere un po’di pepe su un piatto – la cultura –solitamente insapore e indigesto; oforse perché non c’è nulla di più pet-tegolo e litigioso di un salotto intel-lettuale. Mettete insieme due scritto-ri, un poeta e tre giornalisti e avreteun’idea di che cosa siano la me-schinità, la gelosia e l’invidia. Totemdi un tempo e di un mondo che nonesistono, i premi letterari mostranoormai gli stessi limiti e scontano glistessi «brevi» orizzonti mentali dellepagine letterarie dei quotidiani: unpernicioso e snobistico elitarismo,una eccessiva autoreferenzialità maibilanciata da pessimi tentativi di«massificazione» culturale (bestsel-lerismo imperante, overdose festiva-liere, divinizzazione dell’autore«contro»), un’infatuazione autodi-struttiva per i temi e i personaggidella cultura light, ossia quella chenon annoia, quella dis-impegnata: iMoccia&Muccino, l’arte falsamenteprovocatoria, le antologie di poesieper gli innamorati… E la spettacola-rizzazione della letteratura: il premiomigliore è quello che ha la sua sera-ta in diretta tv.

Certo, i premi ci mettono del loro(ce ne sono troppi, raramente vinceil migliore, si esagera con i favori e ivoti di scambio), e ci mettono delloro anche i giornali. Non moltotempo fa Martino Sinibaldi si chie-deva sconsolato se ci fosse qualcosa

TEMPESTE LETTERARIEDAL GRINZANE ALLO STREGA:COSÌ NAUFRAGANO I PREMI

Luigi Mascheroni, il Giornale, 27 giugno 2009

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di serio nelle polemiche intorno ai premi letterari: «Forseno, forse sono solo le fibrillazioni di un sistema mediati-co che ha bisogno di rendere tutto spettacolare e possi-bilmente scandaloso per riempire i giornali. E come vole-te che il mondo dei libri e della letteratura arrivi nelleprime pagine se non perché qualcuno insinua, qualcunotrama, qualcuno tradisce?». Ma il dubbio è che il pro-gressivo e inarrestabile naufragio, in autorevolezza e cre-dibilità, dei premi letterari non sia che l’altra faccia (insie-me allo svaccamento dei salotti intellettual-giornalistico-editoriali) della costante degradazione della cultura italia-na. Una decadenza che rispecchia la condizione dellatelevisione, sia di Stato che privata, dove la stessa parola«cultura» è bandita per statuto; dell’editoria, che privile-

gia l’instant-book, il bestseller, i libri dei comici e dellestarlette, il «caso editoriale» americano, il thriller usa-e-getta; della stessa scuola e dell’università, che livellanosempre più conoscenze e obiettivi verso il basso, sempli-ficando, chiedendo sempre di meno ai propri insegnantie ai propri studenti, riducendo i programmi. La tenden-za dominante a mettere ai margini la «Cultura», ghettiz-zarla, lasciarla in mano a pochissimi tecnici, poiché sipensa che non serva o molto poco rispetto agli investi-menti necessari per crearla e diffonderla; insomma la sisnobba, la si dimentica, la si de-potenzia. Il risultato? Unasocietà più volgare e ignorante e ampie fasce della popo-lazione affette da analfabetismo di ritorno. Che poi, comefanno a leggere i libri che vincono i premi letterari?

In un Paese come l’Italia dove le competizioni letterarie sono più numerose degli scrittori, il «Pen Club» si ponecome una sorta di anti-premio, al di là di lobby, cordate, favoritismi. E ciò grazie alla formula ideata da Lucio Lami,uno dei grandi inviati del giornalismo italiano, che lo fondò nel ’91: «Il Pen, nato come premio indipendente, èdiverso perché facendo votare solo i soci-scrittori si eludono giochetti e camarille. Il nostro è un voto al merito –lo slogan è “Lo scrittore votato dagli scrittori”– dal quale le case editrici rimangono escluse». Da poco è stata resanota la cinquina finalista del 2009: Elena Loewenthal, Conta le stelle, se puoi; Giorgio Montefoschi, Le due ragaz-ze con gli occhi verdi; Stefano Rodotà, Perché laico; Flavio Soriga, L’amore a Londra e in altri luoghi; CesareViviani, Credere all’invisibile. Il vincitore sarà scelto il 5 settembre nel castello di Compiano (Parma). È cambiato qualche cosa nel mondo dei premi letterari dopo le vicende del «Grinzane» e le polemiche in altripremi che vanno per la maggiore? «Non molto. I premi hanno ormai poco a che vedere con il riconoscimento del valore culturale. Servono agli edito-ri, che se li spartiscono litigando, per dare lustro agli autori sui quali puntano commercialmente. I partiti, a lorovolta, esercitano il loro protettorato attraverso i finanziamenti, fatti arrivare per vie istituzionali e concedendo onegando le riprese tv. Premiopoli rappresenta la sintesi di una concezione politico-commerciale della sotto-cultura».E il Pen, come si finanzia?«Cercando sponsor privati, stando alla larga dai partiti e ignorando le case editrici. 1350 scrittori-soci del Pen vota-no con scheda anonima aperta dal notaio al momento della premiazione. Per questo il premio, pur prestigioso, èperennemente a corto di soldi. In vent’anni è costato la sesta parte di quanto il “Grinzane” spendeva in un anno».Proporrebbe questa ricetta anche per gli altri premi?«Non così spartana. Per risparmiare noi organizziamo la manifestazione in un antico borgo del Parmense,Compiano. L’habitat è molto letterario, ma i giornalisti preferiscono località celebri e alberghi a cinque stelle. Sonostati pasturati da premi che per invogliarli li portavano a New York o a Mosca. I loro giornali, poi, appartengonospesso agli stessi editori che pubblicano libri e che esigono ampi servizi dai premi nei quali hanno le mani in pasta».Di voi però, si parla…«A fatica: ci considerano degli utopisti. Il nostro è un evento controcorrente: niente damazze, niente sfilata di ono-revoli, niente tv. E non siamo “istituzionali”: in 20 anni, mai visto un ministro della cultura…».Ricette per migliorare la situazione?«Non ridurre tutto a un fatto commerciale e cercare la qualità. Ricordo quando veniva in visita alla Mondadori,dove lavoravo, Stefano D’Arrigo, l’autore di Horcynus Orca, destando brontolii tra gli amministrativi per gli anti-cipi su un’opera che non terminava mai. Il vecchio Arnoldo rintuzzava tutti: “Ogni tanto bisogna anche fare cul-tura, senza pensare agli incassi”».

«È ORA DI LIBERARSI DALLA TIRANNIA DELLE CASE EDITRICI»Luigi Mascheroni intervista Lucio Lami, il Giornale, 27 giugno 2009

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L’ ultimo libro che sta leggendo è La fortuna non esiste di MarioCalabresi.«La cosa che mi attrae di più è la sua filosofia» dice.«Secondo l’autore non è importante il se e il quando, ma il come

riesci a rialzarti da una difficoltà». Luigi Morra, 45 anni il prossimo ago-sto, un matrimonio felice, tre figli e una vita trascorsa tra i libri, è l’im-magine esatta di chi ce l’ha fatta da solo.

Da ragazzo voleva fare il musicista. Ma è rimasto un sogno. Ha incon-trato il lavoro presto, era necessario. È diventato invece l’uomo che hapartecipato alla creazione e ha diretto per Feltrinelli il megastore di piaz-za de’ Martiri. «Il mio rapporto con il libro? È una passione senza mor-bosità che mi ha permesso di fare sempre cose interessanti. È un con-fronto in cui mi metto continuamente in discussione», dice seduto nelsuo ufficio quasi nascosto al primo piano del multistore. Quella che erauna passione gli è rimasta incollata all’anima, come un adesivo. «Quandosono a casa suono e ascolto musica. Sono un discreto chitarrista. Ho tra-smesso ai miei figli questa predilezione, Qualche volta la sera accompa-gno mia figlia Federica, che ha 18 anni e sta scoprendo il fascino dellavoce. Suoniamo classici del rock».

Da un anno è responsabile nazionale del formato Travel che ha il mar-chio La Feltrinelli Express, un progetto ambizioso che prevede l’apertu-ra di grandi librerie nelle principali stazioni italiane. La prima aprirànella Stazione centrale di Napoli, nel prossimo autunno. Gli altri puntivendita – che si sviluppano tra i mille e i 2500 metri quadrati – sorgeran-no a Torino Porta Nuova, Milano Centrale e nei principali scali ferrovia-ri italiani. «Apriremo dalle 7 alle 22 per 365 giorni l’anno. Avremo ancheun’edicola e un’attenzione maggiore all’home design e alla cartoleria».

L’ingresso di Morra nel mondo dei libri è avvenuto a 18 anni. PrimaAricò, poi Guida e infine la Libreria Scientifica. Una partenza dal basso.«Il mio segreto? Non ho mai dato nulla per scontato. Quegli anni sonostati un’esperienza straordinaria. Gli imprenditori napoletani del settoresono trasversali e allo stesso tempo ibridi. Nelle loro librerie si fa ditutto: si ha l’opportunità di conoscere l’intera filiera. Alla fine di questopercorso avevo già raggiunto ruoli decisivi».

L’incontro con Feltrinelli è avvenuto dopo la frequentazione di uncorso per Librai a Milano per conto della scuola di Venezia, alla vigiliadell’apertura di uno spazio a Salerno, figlio di una scommessa e di unazzardo. «Ho scritto una lettera all’azienda dichiarando che sarei stato

disposto a lavorare per loro, masolo in qualità di direttore». Inmolte circostanze una tale richie-sta sarebbe stata accantonata.Morra invece è stato chiamato asostenere un colloquio e dopoqualche settimana assunto. Comedirettore. «Ho trascorso sei mesi aBologna nella libreria di piazzaRavegnana studiando su temi pre-valentemente gestionali e direttivi.Il 25 ottobre del 1991 abbiamoinaugurato la libreria. È stata unadelle prime nelle province italiane.Perché proprio Salerno? CarloFeltrinelli durante il periodo dinaja è stato proprio lì. Durante laleva un suo compagno gli ha chie-sto dove poter acquistare I verset-ti satanici di Rushdie. Così hacompreso che mancava un’offertaadeguata al bisogno reale. Quellospazio ci ha fatto comprendere chesi poteva investire anche nelle pic-cole città universitarie».

L’esperienza è durata quattroanni. Sono arrivati personaggicome Benni e Pennac che nonavevano mai visitato la provinciasalernitana. Morra e i suoi cinquecollaboratori hanno raggiunto gliobiettivi dell’azienda con unocchio alle grandi firme e l’altro alterritorio. La squadra è cresciuta ea Milano non è sfuggito quel diret-tore sempre in prima linea. Nelgennaio del ’95 è stato chiamato a

IL MANAGER DEI LIBRISfida bis: dopo piazza de’ Martiri presto il megastore nella stazione.Vinta la scommessa nel salotto della città, il responsabile per il Sud della Feltrinelli è pronto al nuovo investimento commerciale

Alfredo D’Agnese, la Repubblica Napoli, 28 giugno 2009

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dirigere la libreria di via san Tommaso d’Aquino aNapoli. «È stata una sfida. Si trattava di gestire unodei luoghi più importanti del Mezzogiorno, croceviadi intellettuali e praticato dall’intellighenzia parteno-pea. Ho portato la voglia di lavorare in maniera piùmoderna, applicando le logiche aziendali, cercandodi catturare anche i lettori deboli. E ho soprattuttopuntato all’apertura sette giorni su sette. È stata unarivoluzione, difficile da gestire. Abbiamo dovuto vin-cere più di una resistenza. Ma alla fine ce l’abbiamofatta. In parte ci ha aiutato il Rinascimento napo-letano, l’aria nuova che si è respirata dal ’94 in poi.C’è stata una spinta motivazionale, ci siamo sentitipartecipi di qualcosa di positivo».

All’inizio del nuovo millennio è arrivata l’ultimaspallata al regno delle vecchie librerie cittadine,l’apertura di piazza de’ Martini, preceduta da nuoviincarichi in azienda. Morra è diventato il responsabi-le di tutte le librerie del Sud. «Ho imparato a far cre-scere le persone, a curare il vivaio. La parola chiaveè: fiducia. Io l’ho acquisita sul campo. Solo così tiaccorgi che di fronte a te la scena è in perpetuomutamento».

Il lavoro non ha distolto Morra dalle sue passioni.Innanzitutto la famiglia. «Quando c’è la possibilitàmi piace sfruttarla viaggiando tutti insieme. Negliultimi anni, dopo una lunga stagione procidana,abbiamo scoperto il fascino del visitare altri luoghi.Siamo stati in Grecia, in Francia, l’anno scorso aLondra, nelle isole Cicladi».

La Feltrinelli Libri e Musica ha scoperto una nuovavocazione dell’azienda milanese, quella per l’intratte-nimento. Dopo 50 anni il suo core business resta sem-pre il libro esplorando nuovi mercati partendo dalleconoscenze della musica vista l’acquisizione dellaRicordi avvenuta nel ’95. «L’idea di base» dice «èstato di creare luoghi in cui trascorrere del tempo epoter trovare musica, cinema, cartoleria, bar, bigliet-teria per teatri e concerti. L’obiettivo era di diventarel’agorà della città, un luogo aperto, non solo per gliappassionati. Napoli è stato l’esperimento pilotanazionale, grazie al fatto che il nuovo top manage-ment ha creduto nelle sue potenzialità. È stata una

scommessa con cui abbiamo dato il via e intensifica-to il processo desacralizzazione del libro e della cul-tura. In città sembra che siano appannaggio solo dipochi eletti. La stessa borghesia non è molto genero-sa, c’è un certo tipo di avarizia intellettuale a condi-videre le conoscenze. Dopo quasi dieci anni credoche la sfida sia stata vinta. Siamo diventati un model-lo per l’azienda».

Mettere piede nella bomboniera della città non èstata un’azione indolore. In quegli anni la concorren-za del multistore a piccoli negozi di dischi e di libri èstata micidiale. Molti hanno gettato la spugna. Altrihanno provato a rispondere alla concorrenza cercan-do un nuovo rapporto con la clientela. E nel frattem-po sono scese in piazza anche Fnac, Mondadori,Gruppo Messaggerie. «Riflettendo con il senno dipoi è stato un arricchimento per tutti. Oggi ospitiamocirca 2500 eventi all’anno, gratuitamente, e possiamodire che i nostri negozi non hanno nulla da invidiareai concorrenti europei e americani», dice con orgo-glio alla vigilia di un nuovo passo in avanti. Morra hatrascorso gli ultimi mesi in viaggio tra i cantieri diNapoli, Milano e Torino. «L’azienda a un certopunto mi ha chiesto di fare cose che a me piacevanodi meno ma che erano necessarie. Ho contribuito afar nascere una serie di progetti, ho coordinato un’a-rea sempre vasta. Sono diventato un dirigente. Intutto questo ti accorgi che l’esperienza è come il pet-tine per i calvi perché lo scenario ancora una volta stacambiando e servono nuove conoscenze».

Nonostante i cambiamenti Morra non ha rinuncia-to al footing sul lungomare. «Tre volte la settimanacorro di primo mattino. È una bella cosa ed è neces-saria per il benessere psicofisico», dice. E nemmenoal fascino della cucina. «Mi piace stare ai fornelli, sene ho il tempo. I miei cavalli di battaglia sono la tortacaprese e le polpette di melenzane».

Il direttore con la valigia sta scommettendo ancora.Il nuovo format di negozio nascerà nelle stazioni dellagrandi città. «Apriremo otto librerie e Napoli, anchestavolta, sarà la prima, diretta da FrancescoNapolitano. Inizia un nuovo ciclo e Feltrinelli nonpuò fermarsi».

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A llora, chi vince lo Strega? L’editore Elido Fazi, che mi riceve nelsuo ufficio romano alle spalle di piazza Fiume, sorride: «Parla delvincitore di quest’anno o di quello dell’anno venturo?» E chi

sarebbe quello dell’anno venturo? «Alessandro Piperno, sembra giàtutto deciso».

Torniamo a quest’anno.«Beh, per quest’anno non sarà facile, per non dire impossibile battere lamacchina della Mondadori-Einaudi. A Segrate dispongono di 140 voti edi certo non se li faranno sfuggire».

Dunque vincerà Tiziano Scarpa…«È molto probabile. La Fazi entra in cinquina per la prima volta e conun bel libro: di questo sono contento. Difenderemo L’ultima estate diCesarina Vighy, l’esordiente settantenne che non è piaciuta a FamigliaCristiana perché dichiara esplicitamente di essere atea. Pero l’Avvenirel’ha trattata bene».

Dunque giovedì sera vi difenderete.«Non credo all’appello di Scurati che telefona a tutti per avere quelloche lui chiama un voto utile, utile a lui si intende. Tra l’altro, sa che illibro della Vighy è l’unico che si vende bene insieme a quello di AndreaVitali?».

Lo Strega, si sa, può incrementaremolto bene le vendite, anche se ilcaso di Paolo Giordano è un po’eccezionale.«Gli editori non possono trascu-rare il lato commerciale, sarebbeun controsenso. Comunque chipartecipa allo Strega sa bene qualisono le forze in campo ed è inuti-le fare polemiche ingenue. Sa qualè la novità delle ultime ore? Cheforse può vincere Massimo Lugli,l’inviato di Repubblica. Sembrache abbia più di cento voti.Comunque io sono per il votobello, non per il voto utile. Dun-que continueremo a sostenere laVighy, ma senza fare giri di telefo-nate e di preghiere. Mi sembre-rebbe indecoroso».

Le faccio notare che non c’èStrega senza polemiche, anzi.

QUALCUNO FERMI IL PREMIO STREGAFazi: «Già deciso il vincitore del 2010»

Paolo Mauri, la Repubblica, 30 giugno 2009

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Quest’anno si è cominciato persino prima che siaprissero i termini per le candidature, con la borda-ta di Mario Fortunato sulla vittoria annunciata diDel Giudice, che poi, come si sa, non si è nemmenopresentato.«Il problema sono gli equilibri. Se addirittura già siprenota il vincitore dell’anno prossimo, vuol dire chetutto e previsto in partenza».

Lei è d’accordo con l’appello di La Capria e Russo,che vorrebbero un cambio di giuria, non più i quat-trocento «Amici della Domenica», ma un drappellodi critici scelti, e magari una pausa di riflessione?«Non credo che i quattrocento giurati abbiano letto ilibri in concorso: forse i veri lettori sono stati solo uncentinaio. A me piacerebbe che si discutesse pubbli-camente su come riformare lo Strega, magari al pros-simo Salone del Libro di Torino, con un bel conve-gno dove tutti potrebbero dire la loro, lasciando a DeMauro di valutare le indicazioni. E non sarei nemme-no contrario all’idea di un anno sabbatico. Il Premiosi ferma, si aggiorna e poi riparte. Dico questo noncerto in polemica con De Mauro e Petrocchi chestanno facendo un ottimo lavoro. Si potrebbe anchepensare a qualche giuria estera. Sa che in Germania,gli allievi di una scuola, collegati allo Strega, hannoscelto proprio il romanzo della Vighy e ne parlavanocon grande competenza? Tra l’altro con una cono-scenza ottima della lingua italiana».

Il Booker Prize ha una giuria di critici che cambiaogni anno. «L’importante sarebbe garantire anche a editori menograndi di arrivare non solo in cinquina, ma magarianche di vincere. La Rimoaldi ogni tanto riusciva acombinare qualcosa, a creare, appunto, equilibri».

Quest’anno ci sono ben due editori romani in cin-quina, voi e la Newton Compton. Per poco non èentrato anche un terzo editore romano, la minimunfax. Possiamo dire che ormai esiste un’editoriaromana, visto che in questi giorni si autocelebra apiazza del Popolo? E come si colloca rispetto almonopolio del Nord?«Sta un po’ succedendo quello che negli anni Venti eTrenta è capitato tra Firenze e Milano. A Roma c’è

anche la e/o, c’è la Donzelli, la Voland, oltre a noi eai marchi già ricordati. Se lei guarda i fatturati vedeche c’è un terremoto geografico: molti al Nord per-dono in maniera consistente mentre noi, per esempio,guadagniamo e abbiamo addirittura raddoppiato».

Grazie ai vampiri della Meyer?«Non soltanto. La Fazi ha diverse collane che vannobene e adesso, per esempio, stiamo pensando di pun-tare sui libri per ragazzi. Siamo pur sempre il paese diPinocchio, no? Quella è un’area che mi interessamolto».

Non cercate un’altra Melissa P.?«No. Come può immaginare dopo il successo dei 100colpi di spazzola che solo in Italia ha venduto unmilione e mezzo di copie, siamo stati subissati dimanoscritti pieni di sesso. Ma non ho intenzione dicontinuare su quella strada».

La Fazi era partita, quindici anni fa, con un cospicuointeresse per la letteratura in lingua inglese. Avevatepubblicato John Fante, tra l’altro. Ora le cose sonocambiate?«Keats resta il mio autore prediletto, ma col tempogli interessi editoriali si sono moltiplicati».

Cosa pensa degli scrittori italiani di oggi?«Sono di buon livello e riscuotono interesse ancheall’estero. Una volta non era così».

Le faccio un’ultima domanda: se lei fosse stato ildirettore editoriale della Einaudi, avrebbe pub-blicato il libro di Saramago che dà giudizi pesanti suBerlusconi?«Sì, credo proprio di sì… ma pensandoci un minutole dico che non è possibile mettersi fino a questopunto nei panni di un altro. No, preferisco non pro-nunciarmi. Quello che le dico, invece, è che comeFazi ho fatto all’agente di Saramago un’offerta e sareidisposto a rilevarne tutta l’opera, anche investendocimolto. Mi piace Saramago, non solo per come scrive,ma anche per quello che pensa. D’altra parte mi piac-ciono gli scrittori radicali, se no non avrei pubblicatoGore Vidal, che da Saramago è diversissimo, ma nonmeno estremo».

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Qui a Roma, per qualche giorno, cioè fino al 5 luglio, piazza delPopolo è invasa dagli stand e dai gazebo a forma di trulli postmo-derni e post mortem, dove tutti se la cantano e se la suonano co-

me gli strimpellatori intorno alle trattorie, e in particolare, tra i 788 edi-tori presenti, spiccano sempre gli stessi che si accaparrano il microfono.Io non sapevo neppure che ci fosse questa Fiera dell’editoria romana,piccola e media rispetto ai grandi gruppi milanesi, passavo di lì per caso.«Ma cos’è?» chiedo a un vigile, per avere un’informazione istituzionale.«La festa della piccola editoria». «Cos’hanno da festeggiare?». Il vigile faspallucce. Secondo me un cazzo, secondo loro molto. Basta sentire leloro dichiarazioni.

Elido Fazi, in primis, che ho incontrato il tempo di fuggire a gambelevate, quando si vantava di aver scalato le classifiche di vendita conTwilight, di Stephenie Meyer, così come anni fa fece con Melissa P, einfatti la sua unica ossessione è la classifica di vendita. Gli portano tabu-lati su tabulati, peggio dei sondaggi consegnati a papi, e lui: «La prossi-ma settimana siamo in classifica», e in genere ci prende. La sua formulaè “young-adult”, libri che vadano bene sia ai giovani sia agli adulti, ossiaminestrine buone per ogni bocca, da cui magari sarà tratto il film. (Laprima volta che mi parlò per mezz’ora di Young-adult io, pur trattenen-do gli sbadigli, credevo fosse un autore tedesco e mi chiedevo come mainon l’avessi mai sentito nominare).

Secondo Marco Cassini la piccola editoria aiuta «a salvaguardare lalibertà di pensiero», e ha ragione perché per fortuna non c’è solo la mini-

mum fax, altrimenti il pensierosarebbe solo il loro e si andrebbepoco lontano, e inoltre, web sitedixit, non ricevono neppure piùmanoscritti in lettura, tanto perchésia chiara la differenza tra i piccolidi oggi e editori veri come Schei-willer, tanto perché sia chiaro che,se ci fosse un Wallace italiano dascoprire, loro comunque non loriceverebbero. E in ogni caso c’è lafesta dell’editoria romana e i pic-coli editori romani d’oggi, insom-ma, tirano fuori l’argenteria, e qualè l’argenteria? Per minimum fax idocumentari di Lucarelli e Ca-milleri, per Voland la solita Noth-omb e gli “autori dell’Est”.

La Nottetempo di Ginevra Bom-piani si compiace del successo diMilena Agus e rilancia con SilviaRonchey e Sandra Petrignani e noncontenta manda in libreria pure unlibrino di Carofiglio.

QUESTI PICCOLI EDITORICHE NON CRESCONO MAI

EX GURU E VISIONARI MIOPI ORA IMITANO (MALE) I COLOSSI.

Massimiliano Parente, Libero, 30 giugno 2009

DA LITTELL A MALAPARTE,NOVITÀ E RISCOPERTE ORIGINALI

ESCONO PER I GRANDI.SEGNO CHE FAZI, MINIMUM FAX E ALTRI RINUNCIANO A PROPORRE E INNOVARE

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Non poteva mancare Alberto Gaffi Editore in Ro-ma, il sosia di Mussolini, che a piazza del Popolo faleggere il racconto fantapolitico di Carmine Fotia Larovina romana, ambientato nel 2016, perché ognipaccottiglia delirante di autore respinto prima o poi,se la respinge anche la Hacca, la pubblica AlbertoneGaffi. Il quale Gaffi, tuttavia, nel suo essere tratto dauna commedia italiana anni Settanta, nel suo sembra-re la caricatura di tutti, è il migliore di tutti, tenendoconto che Fandango, ormai, sono Baricco e Veronesi.

Alla Castelvecchi non c’è più l’altro legittimo Al-bertone (ora fuso con Aliberti – come tempo fa conCooper, che adesso è Cooper senza Castelvecchi –nell’ennesima mutazione Aliberti-Castelvecchi), e incompenso, al suo posto, è stata insediata, ad interim,l’ex moglie di Alberto, tale Alessandra Gambetti, fin-ché la sventurata andava d’amore e d’accordo conPietro d’Amore, boss della Vivalibri srl, finché, causadissapori poco amorosi, non è stata sostituita da unnuovo direttore editoriale, che nel bene e nel malenon sarà mai il mitico Alberto.

Comunque sia, grandi o piccoli, hanno scalpitatotutti per lo Strega, Fazi mandando Cesarina Vighy,Newton Compton Massimo Lugli, minimum fax ci haprovato con Vasta, insomma sono tutti contrari ai

premi, agli inciuci e ai Ninfei editoriali solo perchénon vincono loro. Intanto romanzi e libri importantidell’ultimo decennio, come Le benevole, l’ultimoVollmann o il Moresco di Canti del caos e Lettere anessuno, li hanno fatti rispettivamente Einaudi,Mondadori (per volontà di Antonio Franchini) eancora Mondadori e Einaudi (per volontà di SeverinoCesari). La medesima Einaudi che non ristampa laTrilogia di Beckett, non ristampata, in ogni caso, nep-pure dai piccoli, e a dare a Curzio Malaparte il postoche merita ci ha pensato l’Adelphi di Roberto Calasso:quindi c’è poco da festeggiare.

Una favola della morale c’è, il ribaltamentodell’orgoglio storico del piccolo, che era di fare cosebuone che i grandi non facevano. Se i piccoli editorifossero ristoratori, oggi si vanterebbero di aver sfor-nato un Big Mac identico al Mc Donald’s, sbat-tendosene di finire sul Gambero Rosso e puntandodritti alla cassa, avendo capito che il Gambero Rossodell’editoria italiana sono i critici che sono tutt’unocon le classifiche, almeno a breve termine, perché poila storia è spietata. Quindi assaltano le classifiche divendita e se ne vantano, e buon per loro.

E se falliscono, alla fine, poiché se tanto mi dà tantonon è poi tanto, poco male, cazzi loro.

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