La prognosi - OMCeOMI
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La prognosiSabato 5 aprile 2014
ore 8.15-13.30
Aula didattica Corso di Laurea in Infermieristica(Edificio Ciceri 1°Piano)
A.O. Fatebenefratelli e OftalmicoP.zza Principessa Clotilde 3 – Milano
CoordinatoreDott. Alberto Scanni
Primario Emerito di OncologiaA.O. Fatebenefratelli e Oftalmico – Milano
Consigliere dell’ Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri di Milano
Programma
8.15-8.45 Registrazione Partecipanti
8.45-9.00 Saluto delle AutoritàSaluto del Presidente dell’Ordine dei Medici Chirurghi e Odontoiatri di Milanoo di altro Consigliere da lui delegato
9.00-9.20 Prof. Giorgio CosmaciniDocente di “Teoria e Storia della Medicina” – Università Vita-SaluteSan Raffaele – MilanoStorico e filosofo della medicinaLa prognosi nella storia della medicina
9.20-9.40 Prof. Giovanni Battista AgusProfessore Ordinario di Chirurgia Vascolare – Università degli Studi diMilano Presidente del Comitato di Bioetica AIUC
Prognosi: divinazione o processo razionale
9.40-10.00 Prof. Federico E. PerozzielloPneumologo – storico e filosofo della medicinaBuona e cattiva prognosi
10.00-10.20 Prof. Claudio RugarliProfessore Emerito di Medicina Interna – Università Vita-Salute San RaffaeleMilanoIl valore clinico della prognosi
10.20-10.40 Discussione
10.40-11.00 Intervallo
11.00-11.20 Dott. Roberto Carlo RossiMMG a MilanoPresidente dell’Ordine dei Medici Chirurghi e Odontoiatri di Milano
Comunicare la prognosi
11.20-11.40 Dott. Luigi ValeraConsigliere Nazionale della Società Italiana di PsiconcologiaPrognosi e riflessi psicologici
11.40-12.00 Dott. Alberto ScanniAccettazione della prognosi
12.00-12.20 Dott. Umberto GenoveseRicercatore Confermato in Medicina Legale e delle AssicurazioniUniversità degli Studi di MilanoLa “prognosi” della prognosi: riflessioni e spunti medico-legali
12.20-13.00 Discussione
13.00-13.30 Conclusioni e compilazione schede di valutazione e di verifica
Prognosi: divinazione o processo razionale
Prof. Giovanni Battista AgusProfessore Ordinario di Chirurgia Vascolare Università degli Studi di MilanoPresidente del Comitato di Bioetica AIUC
Πρό= in precedenza +γνωσίς= conoscenza = pronostico
Uno degli aspetti fondamentali dell’attività clinica che consiste nel prevedere
l’ulteriore decorso della malattia in ogni singolo caso sono elementi essenziali della
prognosi l’etiopatogenesi e l’anatomia patologica della malattia; le condizioni del
malato al momento dell’esame; la possibilità e la frequenza delle complicazioni e
associazioni morbose; il carattere evolutivo o meno del processo morboso; l’esistenza di
tare organiche o funzionali, personali o familiari; l’età, il sesso; i vari momenti
fisiologici particolarmente nella donna, pubertà, mestruazioni, gravidanza,
allattamento, climaterio; le abitudini di vita, le condizioni ambientali [Ippocrate !];
la possibilità di attuare misure terapeutiche efficaci, in rapporto anche alla precocità o
meno della loro istituzione; la costituzione individuale endocrino-umorale del soggetto,
la quale ultima è forse l’elemento più importante nel determinismo del decorso del
processo morboso e quindi del suo esito finale).
La prognosi per tale molteplicità di fattori che la condizionano, è soggetta, forse più
che tutti gli altri momenti dell’attività del medico, a cause di errore che dipendono
appunto dall’estrema variabilità individuale dei suoi elementi costitutivi. [da Giuliano
Rossi, Semeiotica Medica, Università di Roma. Enciclopedia Medica Italiana, Sansoni Ed.
Scie., Firenze, 1955]
Divinazione. Arte con cui si presume di indovinare il corso degli avvenimenti futuri (o
presenti, ancora ignoti), attraverso segni mostrati dalla divinità.
Razionalità. La capacità di pensare e agire secondo i principi della ragione. Processo
razionale nelle decisioni.
Decisione clinica ed etica. Da de-cidere= tagliare via Per scegliere una via, questa
deve essere selezionata tra le altre. Processo decisionale identificato anche con
locuzione della lingua inglese, decisionmaking.
Queste parole chiave, dal titolo, che ha la sua vera radice nel primato della razionalità,
non sarebbero complete e utili oggi senza la decisione clinica ed etica.
La prognosi infatti, probabilmente in tanti medici e talvolta nello stesso pubblico, ha
perso l’aspetto di momento fondamentale dell’attività clinica a causa dell’odierna utopia
della medicina infallibile, semmai più interessata a outcome che a previsioni di decorso
di malattia. Di più, negli ultimi 10-20 anni si vanno verificando tali mutamenti a carico
dei sistemi sanitari sotto il profilo dell’evoluzione culturale e organizzativa, e non
meno, economica, con una metamorfosi che riguarda di conseguenza l’incremento
esponenziale dell’informazione biomedica e le sue ricadute quotidiane, lo sviluppo delle
tecnologie informatiche, da internet a smartphone e tablet; infine la crescita della
domanda e dei costi sanitari, tutti fattori che aprono spazi a decisionalità determinate
da tools basati su score.
Nello stesso periodo si è affacciata la evidencebased medicine (EBM), benemerita per
certe risposte alle nuove esigenze, ma, esaltando la ricerca sistematica in letteratura
quale gold standard per l’iter decisionale, via via andava svalutando l’importanza
dell’intuizione, della ricerca clinica non sistematica e del razionale fisiopatologico, quali
terreni di confronto per la decisione clinica, tutti fattori ricompresi nella definizione di
prognosi. Finalmente si comprese che la ricerca della evidence da sola non è sufficiente al
fine di prendere una decisione clinica e il modello clinico-decisionale della EBM mutò
definizione in “l’integrazione della miglior evidence disponibile con l’esperienza clinica e
le attitudini del paziente”, riunificante l’insieme dei fattori interagenti tra loro,
suddetti. [cfr. Haynes RB, Devereaux PJ, Guyatt GH. Clinical expertise in the era of
Evidence-based Medicine and patient choice. ACP J Club 2002; 136: A11-4]
Sembra incredibile, ma la decisione clinica è ampiamente disattesa nella medicina
d’oggi. E’ stato acutamente osservato che “di un bravo chirurgo viene comunemente
celebrata l’abilità tecnica nell’esecuzione degli interventi, ma pochi si soffermano sulle
decisioni che questa attività implica: se operare o meno, quale tecnica chirurgica
impiegare, e così via. Eppure, è questa la dimensione intellettuale della clinica
chirurgica, meno spettacolare, ma ben più raffinata della destrezza manuale che è
necessaria per eseguire bene un intervento”.[cfr. Cosmacini G, Rugarli C. Introduzione
alla medicina. Ed Laterza, Roma-Bari 2000]
La decisione clinica, ormai prepotentemente da affiancarsi con quella etica, richiede una
rinnovato uso dell’esperienza per definire con precisione lo stato clinico e le
circostanze, le preferenze del paziente, la migliore evidenza disponibile.
Comunicare con il paziente, e non solo al paziente, è fondamentale, dato che è oggi
diffuso il desiderio crescente da parte delle persone di essere coinvolte nelle decisioni
che riguardano la loro salute o dei loro cari. “Frequentemente non riflettiamo a
sufficienza sul fatto che basta una parola, una frase mal posta per mettere in crisi un
malato: un conto è dire «vedremo cosa si può fare», altro è dire «faremo tutto il
possibile», frase che esprime determinazione e minore incertezza della prima
[concludendo con la citazione di] Mimnermo, poeta greco del VI secolo avanti Cristo:
«La parola è medicina alle malattie degli uomini»”. [da Alberto Scanni, Le parole che
guariscono. Corriere della Sera, 25 giugno 2011]
Certo, tutto ciò non può essere realizzato come una scelta routinaria o un percorso
obbligato (vedi strumenti decisionali informatici), bensì in maniera più articolata come
promozione di modalità decisionali basate su una individuale solida cultura scientifica e
umanistica, nel senso del primato antropologico.
Ma è ora opportuno risalire alle origini della cultura occidentale che ha da sempre
ricompreso il destino dell’uomo riguardo malattia e salute del corpo. Dunque da
Omero a Ippocrate. L’Iliade notoriamente si apre con la contesa di Achille e
Agamennone per il possesso di una schiava, Criseide, ma dopo i celebri versi proemiali
emergono implicazioni notevoli sulla pratica medica antica e su come è percepita la
figura del medico nell’età contemporanea. La pestilenza in cui versano i Greci è infatti
spiegata dal sacerdote e profeta Calcante, per le origini del male – l’eziopatogenesi
diremmo oggi – motivanti l’ira del dio: Criseide deve essere restituita al padre Crise e
placare la collera malefica di Apollo con opportuni riti sacrificali. Tralasciando
ovviamente per brevità il prosieguo omerico, riconciliatosi Apollo con i Greci, la
narrazione torna a focalizzarsi sul personaggio centrale del poema, Achille e la sua ira,
senza nemmeno soffermarsi sulla fine della pestilenza. Nella mentalità arcaica
fortemente ancorata a una concezione religiosa della vita in cui gli uomini sono spesso
in balìa delle azioni degli dèi, questa idea della malattia e della guarigione è normale e
condivisa. L’epidemia, o più in generale l’insorgere della malattia, è spiegata con un
intervento diretto del dio. Il contagio non si diffonde per la promiscuità di uomini e
animali, ma dalla risposta di Apollo alla preghiera rivoltagli da uno dei suoi sacerdoti,
Crise, che ottenutala rimuove direttamente la causa del male: si ferma l’azione del dio,
cessa quindi la malattia. Questo rapporto tra profezia e medicina, appare certo
singolare alla mentalità contemporanea, ma diventa ovvio e naturale in quella
rappresentata in quei versi. In entrambi i casi l’arte che l’uomo deve mettere in campo
è di pura mediazione rispetto alle prerogative divine: una mediazione resa possibile
dalla pronoia, la “preveggenza”, la capacità di vedere prima, conoscere il futuro e
interpretare il presente. Il profeta Calcante è infatti descritto come colui che sapeva le
cose che furono, sono e saranno. Le stesse doti sono richieste al guaritore, iatér (o ietér,
secondo la forma diffusa nei poemi omerici), dal verbo iaomai che significa cercare di
sanare, guarire e non “curare”, ovvero, con valore traslato, cercare di rimediare, porre
rimedio. Lo iatér è solo un archetipo, sia da un punto di vista linguistico che di funzioni,
dello iatrós, termine più recente del greco antico per la figura del medico che concorre
nella costruzione di gran parte delle parole delle medicina moderna riferite appunto
alla pratica scientifica del medico. Lo iatér peraltro non sembra, almeno in Omero,
necessario o utile in condizioni di particolare difficoltà o pericolo come appunto
un’epidemia che falcia le vite di molti; in questo caso è meglio rivolgersi a un profeta o
un sacerdote. I rimedi di un guaritore non sono quasi mai efficaci o comunque decisivi;
e infatti a fronte delle infinite scene di ferimento nell’Iliade è raro trovarne descritto
l’intervento. Per esempio, un medico interviene per far fronte alla ferita di Menelao,
una freccia deviata dalla cintura e quindi non particolarmente pericolosa perché non
aveva colpito una parte vitale: della ferita s’occuperà lo ietér e ci spalmerà sopra / farmaci
che leniscono gli atroci dolori. Si tratterebbe di interventi che possiamo definire come
chirurgia da campo o medicina di guerra: bendaggi che il più delle volte sono prestati
dagli stessi guerrieri. Diverso il caso della guarigione per cui è necessaria la presenza
di un intermediario rispetto alle origini del male, quasi sempre riconducibile
all’intervento divino: appunto il sacerdote. Il racconto dell’ecatombe offerta ad Apollo e
della liberazione di Criseide, cui si è accennato, esemplificano la concezione arcaica del
rapporto dell’uomo con la malattia. La guarigione iniziava quando il dio era placato dai
canti e dalle preghiere degli uomini, da rituali religiosi e poetico-musicali in cui si
intonava il canto in onore di Apollo, noto appunto come paiàn, «peana», che significa
canto della guarigione o della liberazione dai mali. La pratica scientifica della medicina
inizia quando questa idea della malattia e della guarigione, legata a un potere religioso
(o politico), è superata. Per capire meglio questo passaggio può risultare utile un breve
confronto con altre forme di medicina antica. In particolare il linguaggio dei trattati
medici assiro-babilonesi risente fortemente di questa logica in cui la presenza della
malattia risulta come il cambiamento di una condizione di normalità su cui occorre
intervenire con azioni ben definite: se insorge questo disturbo, bisogna fare questo, un
modulo espressivo che corrisponde ad altri, tipici di quella cultura, del tipo se un suddito
fa questo, sarà punito.
Ben diversa la concezione che emerge già negli scritti ippocratici più antichi, fin da
subito orientati a una mentalità laica e scientifica in cui si nota una significativa
attenzione alla malattia come un processo irreversibile – ma proprio per questo
conoscibile e valutabile – di trasformazione di un soggetto che incorre in una specifica
patologia, e di cui è possibile classificare il decorso in termini di maturazione,
parossismo e crisi. I moduli ippocratici sono quindi orientati a espressioni come se
insorge questa malattia, allora il malato soffre queste cose. Il tentativo di allontanare il male
e la malattia è appannaggio dei guaritori; ma la guarigione è una delle forme della
purificazione. Per il medico ippocratico invece la guarigione non è certa; non è mai
certa. Lo scopo principale della scienza ippocratica è classificare e descrivere malattie e
sintomi. Solo da questa analisi sistematica può prodursi una prognosi, peraltro quasi
mai favorevole. Ma proprio in questa accettazione dell’incapacità di intervenire, a
fronte di una comprensione del fenomeno, risiede l’essenza stessa del medico rispetto al
guaritore. Si realizza così il passaggio dal sapere profetico, come tale derivato dal dio,
all’idea stessa di prognosi che significa “conoscere, sapere prima”, nell’esclusiva sfera di
pertinenza dell’uomo: conoscere il decorso di una malattia e non annunciare o
prescrivere – il profeta è “colui che parla prima”, o “parla al posto del dio” – le azioni,
rituali, da intraprendere per arrivare a una guarigione. Il sapere medico presso i Greci
nasce quindi come sapere dell’uomo, sapere umanistico sia come organizzazione
scientifica e razionale del discorso sia come sviluppo di una pratica fondata
sull’osservazione e riduzione dei fenomeni a segni – semeiotica si direbbe oggi –
decodificabili e classificabili dall’uomo. In questo contesto sono fondamentali le
categorie di tendenza e probabilità nel decorso delle malattie; categorie che affrancano la
medicina scientifica dall’idea di guarigione e profezia legate alla sfera di Apollo.
I risultati eccezionali ottenuti dallo sviluppo contemporaneo delle scienze mediche – e
in particolare delle discipline chirurgiche e radio-diagnostiche – hanno forse
contribuito a una diffusa suggestione per cui il concetto stesso di prognosi sembra
comunque richiamare un esito quasi necessariamente favorevole, come dimostra, per
contrasto, l’uso distorto di espressioni quali prognosi riservata che invece di riferire una
epoché, consapevole sospensione di un giudizio, sono talora utilizzate, ed equivocate nei
termini di una profezia di guarigione, anche parziale, che non può ancora essere
dichiarata. Nel sapere medico contemporaneo – o meglio nell’orizzonte di attese del
pubblico del sapere medico, dai pazienti ai giornalisti che ne scrivono, spesso
soffermandosi su episodi negativi o sfortunati – si corre talora il rischio di tornare al
vaticinio profetico apollineo, piuttosto che a una scientifica pronoia o gestione fallibile
(come tutto ciò che è davvero scientifico) della previsione. A livello di opinione
pubblica va infatti diffondendosi la pericolosa aspettativa di un principio di infallibilità
dell’azione medica: al medico non in grado di guarire il paziente è così spesso
erroneamente attribuita la causa del decorso infausto della patologia. Da questa idea –
che forse gli stessi medici hanno in una certa misura contributo a diffondere – nasce
l’equivoco rischioso della medicina difensiva, in cui le azioni mediche sembrano quasi
doversi rapportare al continuo, inevitabile processo cui rischiano di essere sottoposte,
appunto nei casi di prognosi infausta. L’infallibilità è propria della magia e della
religione, non della scienza.
Un grande filosofo contemporaneo, Karl Popper, ha da tempo chiarito che la logica
della scienza risiede appunto nella sua fallibilità: un discorso è scientifico appunto nella
misura in cui è confutabile da un altro discorso, successivo o semplicemente
alternativo. In definitiva, la rilettura degli scritti ippocratici e della stessa Iliade aiutano
a ripensare alla pratica medica (e alla ricerca medica) in termini popperiani di fallibilità;
una fallibilità che non derivi certo da insipienza o peggio trascuratezza, ma che sia
piuttosto un paradigma in cui declinare ogni possibile azione diagnostica, clinica e
terapeutica e diventi quindi garanzia dell’efficacia delle cure prestate. [da Alessandro
Iannucci, La fallibilità del medico come garanzia dell’efficacia della cura. Appunti su medici,
profeti e guaritori. Nautilus 2013; 7: 32-4]Dunque l’infallibilità del medico nel prevedere
l’esito della sua opera non starebbe nella de-sacralizzazione della malattia tout court:
“…lontano dall’acropoli, dove gli asclepìadi esercitavano nel tempio della salute la
sacra cura degli dèi, il medico ippocratico esercitava la profana arte della cura nella
bottega artigianale vicina alla piazza del porto o del mercato. La malattia non era
affatto qualcosa di soprannaturale che veniva dall’alto. Per capirne la vera natura era
necessario de-sacralizzarla, secondo ragione”. [da Giorgio Cosmacini, Il mestiere di medico.
Raffaello Cortina Ed., Milano 2000; Il Sole-24 Ore 10 settembre 2000]
E’ proprio questa conclusione – secondo ragione– che meglio precisa il passaggio
dall’antichità da de-sacralizzare al più ampio significato del curare medico: “ Se per
desacralizzare la malattia si intende liberarla da incrostazioni e credenze dovute
all’ignoranza e alla magia per meglio diagnosticarle e curarle, diciamo subito che
nessuno più dei cristiani – e la storia stessa della sanità è lì a mostrarcelo – può essere
fautore di simile processo. Inaccettabile invece sarebbe la proposta secondo la quale per
capire la natura della malattia – e in questo senso, anche della morte che ne è
l’espressione culmine – bisognerebbe espungervi il nesso drammatico ed obbligato col
senso religioso …e questo non è per nulla senza ragione.
E’ infatti irrinunciabile esigenza della ragione cogliere il nesso tra significato della
malattia/morte e senso ultimo della vita …”.[cfr. Angelo Scola, Se vuoi puoi guarirmi.
La salute tra speranza e utopia. Ed. Cantagalli, Siena 2001] Altre voci laiche nello stesso
mondo medico ed etico hanno ribadito tale visione:«Ogni giorno, durante l’orario di
ambulatorio, mi trovo oggi a combattere contro la medicina organica classica.
La medicina scientifica ha infatti radicalmente impedito di rendersi conto che il senso
della malattia consiste nel condurre chi ne è colpito al senso della vita». [cfr. Viktor von
Weizsäcker, celebre medico citato da Karl Jaspers, Il medico nell’età della tecnica. Raffaello
Cortina Editore, Milano 1991 Non deve mai essere dimenticato che se è il corpo malato
l’elemento oggettivo, è però “il soggetto ad essere in gioco” davanti al medico; e non
basterà un approccio scientifico/tecnologico dilagante da circa duecento anni in
medicina, ma senza la possibilità di disgiungere il primo dal secondo, rispettivamente
nell’ambito del sapere speculativo e in quello del sapere pratico. Perché senza
rispondere per intero alla domanda di salute del paziente non si può porre un atto
terapeutico adeguato e prevederne le possibilità di diversi esiti.[cfr. Hans Jonas,
Tecnica,medicina ed etica. Einaudi Ed., Torino1997] Dovrà pure essere ricordato come il
termine latino salus, rispetto all’italiano salute, mantiene tutta la portata di integralità
che ritroviamo in salvezza. Ed allora non ci si scandalizzi, oggi, al ruolo di Gesù
guaritore quando risponde alle sorelle di Lazzaro: “Questa malattia non è per la morte,
ma per la gloria di Dio” (Gv 11,4). Ma una gloria che coincide con la tenerezza e la
misericordia, rinunciando a pensare come ha fatto spesso “colpevolmente” l’Occidente a
Dio come giudice, innescando il meccanismo “escludente” della colpa/punizione.
La salvezza non si esaurisce nella grammatica del verdetto/condanna, bensì proprio
nell’altro volto di Dio, il Dio medico, terapeuta, il Dio che soccorre, che guarisce, a cui
ci si appella “ora e qui” e con “attività medica presente e non escatologica”, come
dimostra la lettura di tutti e quattro i Vangeli ove si può agevolmente vedere che Gesù
ha trascorso il suo tempo a curare e guarire molta gente. [cfr. Daniel Bourguet, Il Dio
che guarisce. Claudiana Ed., Torino 2013]“Concretamente – riflette Angelo Scola [op. cit.]
–, se intendiamo con cura quell’insieme di relazioni interpersonali che sono tese alla
salute del paziente, con arte terapeutica lo studio e l’attuazione di tutti i mezzi idonei
alla cura, con atto clinico [decisione clinica ed etica] ogni azione medica a base tecnico-
sperimentale, allora possiamo dire che la cura, che identifica la specifica relazione
interpersonale tra medico e paziente, è quel luogo in cui l’atto clinico si fa “sacramento”
dell’atto terapeutico …in una visione della salute che sa assumere, senza deliri di
onnipotenza [l’infallibilità] ma in modo simpateticamente coinvolto e tecnicamente
rigoroso, tutta la domanda del paziente: Guariscimi, e rendimi la vita”.
Recenti sono le parole forti in questo senso, e chiarificatrici contro strade fallaci che
anche la medicina può intraprendere [de-cidere, tagliare-via; che richiama parole
collegate come re-cidere, uc-cidere].«Abbiamo dato inizio alla cultura dello “scarto”
che addirittura, viene promossa. Non si tratta più semplicemente del fenomeno dello
sfruttamento e dell’oppressione, ma di qualcosa di nuovo: con l’esclusione resta colpita,
nella sua stessa radice, l’appartenenza alla società in cui si vive, dal momento che in
essa non si sta nei bassifondi, nella periferia, o senza potere, bensì si sta fuori.
Gli esclusi non sono “sfruttati” ma rifiuti, “avanzi”». «La situazione socio-demografica
dell’invecchiamento ci rivela chiaramente questa esclusione della persona anziana,
specie se malata, con disabilità, o per qualsiasi ragione vulnerabile. Si dimentica, infatti,
troppo spesso che le relazioni tra gli uomini sono sempre relazioni di dipendenza
reciproca …Alla base delle discriminazioni e delle esclusioni vi è però una questione
antropologica: quanto vale l’uomo e su che cosa si basa questo suo valore.
La salute è certamente importante, ma non determina il valore della persona. La salute
inoltre non è di per sé garanzia di felicità: questa, infatti, può verificarsi anche in
presenza di una salute precaria. La pienezza a cui tende ogni vita umana non è in
contraddizione con una condizione di malattia e di sofferenza. Pertanto, la mancanza di
salute e la disabilità non sono mai una buona ragione per escludere o, peggio, per
eliminare una persona; e la più grave privazione che le persone anziane subiscono non è
l’indebolimento dell’organismo e la disabilità che ne può conseguire, ma l’abbandono,
l’esclusione, la privazione di amore».[cfr. Papa Francesco, Evangeliigaudium, 2013, 53;
Messaggio a Pontificia Accademia per la Vita, 19 febbraio 2014]
Mi torna in mente il Philip Roth di Everyman – il salto da Omero a Roth è forte –,
storia di un morto, fin dall’incipit del romanzo, dopo una vita professionale di successo,
ma caratterizzata da lunga malattia cardiovascolare. Il corpo umano ne è protagonista
e il tema viene trattato attraverso l’esperienza di “uno come noi”,che terrorizza tutti.
Ma, tutti, coloro che non credono nell’Aldilà, pensano a Dio come un’invenzione e la
prospettiva della vecchiaia, alla fine della vita, rappresenta «l’imponente rassegnazione
al deterioramento fisico e alla tristezza finale e quell’attesa che è attesa del nulla».
Il corpo martoriato da una sequenza di decisioni mediche che portano il protagonista ad
una incredibile serie di operazioni – alle arterie coronarie, alle femorali, alle renali, alle
carotidi, impianto di pacemaker–, ovunque. Forse anche senza consenso realmente
informato negli avanzati USA. Libro terribile? Probabilmente sì, ma a parte
l’eccellenza della scrittura, c’è molto spazio per pianto e domande ad un approccio
diverso della malattia e della morte, catartico. Ecco, le parole precedenti questa
memoria letteraria recente, affrontano a pieno il valore della persona, contro la “cultura
dello scarto” a cui ogni medico degno di questo nome dovrebbe opporsi.
Si è preferito privilegiare nel discorso alcune citazioni che fanno parte del patrimonio culturale
dell’Autore, quanto di ogni medico, in tal senso evitando l’uso finale abituale quale bibliografia.
Buona e Cattiva prognosi
Prof. Federico E. PerozzielloPneumologo – storico e filosofo della medicina
“neanche gli dei combattono contro il Fato”Simonide di Ceo (550-467 a. C.)
Fragmenta, 4.20, Diehl
La definizione più accettata della prognosi medica verte su di una previsione relativa al
decorso clinico ed all'esito di uno stato patologico. L’accuratezza della prognosi e la sua
rilevanza speculativa in campo sanitario è divenuta progressivamente meno influente,
in un certo senso quasi aleatoria negli ultimi decenni, in quanto l’attenzione dei
ricercatori e dei clinici pare essersi concentrata sui test diagnostici e sui trattamenti.
Nonostante qualche piccolo errore di valutazione, che si possono sempre verificare, se è
vero che in uno studio su 504 malati terminali seguiti da 365 medici solo il 20% delle
valutazioni prognostiche risultavano accettabili. Il 63% di quelle riportate nel lavoro
citato si rivelarono essere troppo ottimistiche ed il 17% troppo pessimistiche sulla
sorte dei pazienti affidati alle cure dei sanitari. (1)
Parlare di prognosi ed in particolare di “buona” prognosi e di “cattiva” prognosi
significa andare a rintracciare le origini stesse del mestiere del medico. Al termine
dell’intervento del medico chiamato ad assistere un paziente assistiamo di solito a due
conclusioni operative nei confronti del malato:
• la definizione di una diagnosi
• l’intervento terapeutico
invece …
• la prognosi viene lasciata spesso in un’area più indefinita, magari formulata solo in
seguito ad una precisa domanda … che non tarda comunque ad essere rivolta ai
sanitari.
Mentre la diagnosi si basa sul riconoscimento delle cause che hanno provocato lo stato
patologico, la scelta della terapia nella medicina moderna è conferita sempre meno
all’interpretazione creativa del medico. La prognosi conserva ancora dei margini di
libertà espressiva e concettuale che sono legati alla sua storia ed al suo significato più
profondi. La concezione socioculturale del medico e del suo ruolo professionale è
mutata radicalmente negli ultimi anni ed è ancora in continuo cambiamento.
Il medico visto come fonte autorevole di un sapere scientifico non discutibile e
dispensatore di cure certe è ormai un’immagine non attuale. Nell’era di Internet e della
comunicazione globale il paziente non è più un passivo recettore di diagnosi e terapie,
ma parte attiva e spesso critica del processo diagnostico e terapeutico. Tuttavia il
rapporto tra medico e paziente rimane di tipo asimmetrico. Il medico dovrebbe riuscire a
mantenere uno status di maggior esperto sull’argomento salute per poter essere una
guida efficace nel percorso di cura e di guarigione del paziente ed essere in grado di
suscitare una piena fiducia. Il curante cerca di rivestire, in modo più o meno
consapevole, una posizione di controllo, di guida e naturalmente di maggiore
conoscenza dell’evento morboso rispetto al paziente. Tuttavia questi suoi intenti
entrano in contrasto con il moltiplicarsi delle nozioni a riguardo di qualsiasi aspetto
della medicina e con la libertà di accesso ad esse che il pubblico oggi possiede.
Si può affermare che la caratteristica unificante dell’intervento del medico appare
fondata sul suo tentativo di opporsi allo strapotere della casualità. La malattia e la
morte segnano un’irruzione della casualità nell’esistenza dell’individuo.
Il Caso o Kaos per gli antichi greci era uno dei fattori di massimo potere sulla realtà.
Costituiva un elemento di angoscia e di terrore profondi, tanto che venne creata nella
simbologia mitologica una divinità che gli facesse da contraltare. Un’entità che servisse
a bilanciarlo ed a controllarne parzialmente gli effetti destabilizzanti. A questa dea
venne dato il nome di Necessità, in greco antico Nemesi o Anànché.
La ricerca dell’uomo intorno al miglioramento delle proprie condizioni di vita tende a
ridurre gli effetti della casualità, rendendoli il più possibile ininfluenti. Le morti
accidentali vengono definite dagli organi di informazione come morti assurde, perché
non sono interpretabili attraverso una sequenza razionale di eventi.
Si cerca sempre di rintracciare qualche comportamento doloso, oppure di semplice e
colpevole incuria, che possa giustificare il perché una disgrazia abbia avuto luogo.
Un’indagine spesso inutile, che serve tuttavia a delimitare l’angoscia ed a far si che si
possa continuare convinti che le deroghe ad una saggia e rassicurante prevedibilità dei
comportamenti umani e di quelli delle forze naturali siano un evento raro e fortuito.
La Necessità aveva un grande potere, serviva a contrastare il Caso, a delimitare il suo
effetto di disordine, incertezza, ansia e insicurezza sulla vita degli uomini.
L’Anànche era quindi un fattore di controllo dell’angoscia esistenziale, che permetteva
di dare un senso all’esistenza e di sopportare la malattia e la morte o almeno di farsene
una ragione legata alla loro ineluttabilità. Nella tragedia greca il caso è connesso al
concetto di colpa, di peccato e di deviazione da un retto comportamento. Una colpa che
richiede una punizione cui consegua un ristabilimento dell’ordine. Una sequenza di
eventi come quella raccontata da Eschilo (525-456 a.C.) nell’Oresteia, che ha la funzione
di rassicurare gli individui sul ruolo ricoperto nel contesto sociale di riferimento.
La vicenda di Oreste e del compito assegnatogli di vendicare l’uccisione del padre
Agamennone risulta devastante per l’esecutore di tale vendetta, ma serve a rimediare
ad un omicidio sacrilego avvenuto da parte della madre Clitemnestra e del suo amante
Egisto che non poteva essere lasciato impunito.
All’angoscia generata dall’irrompere della malattia e della morte nella vita degli
uomini poteva e doveva fare da contrappeso una visione della natura considerata in
senso positivo ed esteticamente gratificante. Nell’opera di Aristotele di Stagira (384-
322 a.C.), che non era medico, ma amava la medicina e la biologia ed era figlio lui
stesso di uno ἰατρός, Nicomaco, troviamo una considerazione positiva degli eventi
naturali che ha segnato la storia della cultura occidentale. Poiché la natura sembrava
essere governata da un’armonia generale ed ammirevole, Aristotele ne derivava come
essa costituisse una barriera alle forze distruttrici del Kaos:
“… Non si deve dunque nutrire un infantile disgusto verso lo studio dei viventi più umili: in
tutte le realtà naturali vi è qualcosa di meraviglioso […] Pertanto occorre affrontare senza
pregiudizi l’indagine su di ognuno degli animali, perché in ciascuno di essi vi è qualcosa di
naturale e di bello. Non è il caso infatti, che è presente nelle opere della natura, ma la finalità e
questa, in gran copia: il fine è ciò in vista del quale esse sono state create o si sono formate ed
esso occupa la regione del bello …”
Aristotele, Sulle parti degli animali, 645 a, 15-25
Ribadiva Aristotele, in un altro passo della sua sterminata opera filosofica, in cui
accenna a quello che è forse il problema cruciale del destino dell’uomo, la presenza di
un fine preordinato nella vita di ognuno:
“… dal momento che tali cose [della natura] sembrano generarsi o per fortuita coincidenza o
per una causa finale, se non è possibile che esse avvengano né per fortuita coincidenza, né per il
caso, allora accadranno indubbiamente in vista di un fine […] pertanto, nelle cose che in
natura sono generate ed esistono è presente una causa finale …”
Aristotele, Fisica, 199 a, 2-8
La finalità, o almeno l’aspettativa della presenza di questa componente nell’esistenza, è
uno dei più potenti ansiolitici che si possano utilizzare nel percorso della vita di ogni
persona. La fede religiosa fornisce degli strumenti potenti per poter accettare un
destino anche ingiusto e doloroso. Tutti noi sappiamo che, prima o poi, saremo
costretti a soffrire per delle cause materiali come le malattie e la morte, oppure morali e
legate alle ingiustizie quotidiane. Subiremo delle sopraffazioni, le quali avranno come
esito il non verificarsi delle nostre aspettative nei confronti dell’esistenza.
Jacques Monod (1910-1976), che ottenne il Premio Nobel per la medicina nel 1965 e fu
direttore dell’Istituto Pasteur di Parigi, si è interrogato sul senso ultimo della scienza
e sui rapporti di questa con la società e la storia. La sua riflessione filosofica è stata
raccolta in un libro dal titolo di Il caso e la necessità, che reca il sottotitolo di Saggio
sulla filosofia naturale della biologia contemporanea. (2)
Monod descrisse nel suo libro come il trionfo della scienza moderna avesse migliorato
le condizioni materiali dell’uomo, ma lo avesse allo stesso tempo costretto a prendere
atto della distanza che separava una scienza fine a sé stessa da alcuni valori che
rassicuravano l’orizzonte esistenziale della vita. La conseguenza principale di questo
processo era stata l’angoscia, un sentimento che attraversava tutta la cultura del XX
secolo. Un’angoscia a cui l’ideale socialista aveva cercato senza riuscirvi di porvi
rimedio. Lo scienziato francese evidenziò l’intervento del caso come fattore costitutivo
dell’evoluzione. Piccole variazioni, avvenute casualmente, avevano provocato i loro
effetti all’interno della doppia elica del DNA. Il codice genetico così mutato aveva
trasmesso alle cellule figlie i caratteri acquisiti, facendo prendere alla vita degli
organismi viventi differenti direzioni. Per accettare con la minore angoscia possibile
questa visione materialistica Monod sostenne la presenza di una teleonomia, vale a dire
di una finalità intrinseca alla materia stessa delle strutture viventi.
Queste sembravano essersi costituite come delle autentiche macchine biochimiche,
programmate per una direzione ben definita da raggiungere.
La teleonomia delle strutture biologiche diveniva una proprietà intrinseca degli
organismi di cui occorreva prendere atto senza connotazioni necessariamente di tipo
religioso.
La conoscenza scientifica moderna aveva rotto quella che Monod definì con il nome di
antica alleanza, il patto costituitosi tra le grandi religioni e l’individuo e basato sulla
fede nel trascendente. Mediante questo accordo le credenze religiose si facevano
interpreti e potevano alleviare l’angoscia esistenziale ed il terrore della malattia e della
morte che pervadevano da sempre l’animo umano. Le religioni, come pure molte teorie
filosofiche e la scienza stessa, se erano vissute queste ultime due con adesione fideistica,
potevano farsi mediatrici del tentativo dell’umanità di negare la propria contingenza e
la propria precarietà esistenziale. Permettevano soprattutto di accettare un destino od
una prognosi infausta.
Scrisse Monod:
“… Se è vero che l’esigenza di una spiegazione totale è innata, che la mancanza di tale
spiegazione è fonte di profonda angoscia; se la sola forma di spiegazione in grado di alleviare
l’angoscia è quella di una storia totale che riveli il significato dell’uomo assegnandoli un posto
necessario nei piani della Natura; se, per sembrare vera, significativa, soddisfacente, la
«spiegazione» deve fondersi nella lunga tradizione animistica, si comprende allora per quale
ragione ci siano voluti tanti millenni perché nel regno delle idee apparisse l’idea della
conoscenza oggettiva come unica fonte di verità autentica …”
da Jacques Monod, Il caso e la necessità, Milano, 2009
La scelta che l’uomo poteva compiere di vivere eticamente il sapere scientifico era una
scelta radicale. Attraverso questa decisione l’individuo si accordava ad un principio di
ragionevolezza connaturato alla propria essenza umana. Un principio posto alla base di
una nuova forma di umanesimo, un umanesimo di tipo scientifico che sarebbe riuscito
dove il sogno dell’utopia socialista aveva fallito. Si trattava di una visione idealistica e
lo stesso Monod, da uomo lucido ed intelligente quale era, lo riconobbe.
Tuttavia questa era per lui la sola possibilità che veniva offerta all’umanità di vincere
l’angoscia esistenziale e di accettare il proprio destino nel mondo, la propria prognosi di
sopravvivenza generale come specie.
Le conclusioni del saggio di Monod volevano essere rassicuranti. Aprivano tuttavia
altri interrogativi di inquietudine irrisolta:
“… Questa è forse un’utopia. Ma non è un sogno incoerente. E’ un’idea che si impone grazie
alla sola forza della propria coerenza logica. E’ la conclusione a cui necessariamente conduce la
ricerca dell’autenticità. L’antica alleanza è infranta; l’uomo finalmente sa di essere solo
nell’immensità indifferente dell’Universo da cui è emerso per caso. Il suo dovere, come il suo
destino, non è scritto in nessun luogo. A lui la scelta tra il Regno e le Tenebre.”
da Jacques Monod, Il caso e la necessità, Milano, 2009
La richiesta di salute avanzata dal paziente non vive solo in questo ambito. Richiede
soluzioni efficaci al mutamento della propria condizione di uno stato disagevole e
doloroso. L’accettazione della prognosi è legata ad una diversa e radicale concezione
del tempo che si è chiamati a vivere. Per l’Antichità Classica e le Religioni orientali il
tempo dell’uomo era di tipo circolare, era spesso legato alla mitica figura del serpente
che si afferra tra le fauci la coda, riaffermando la ciclicità periodica del tempo e di tutte
le vite ed i destini: l’ οὐροβόρος ὄφις (il serpente uroboro).
per l’Antichità Classica e le Religioni orientali, il tempo dell’uomo eradi tipo circolare: il serpente uroboro.
(Codice alchemico della fine del XV secolo)
Il Cristianesimo, in quanto religione storica, ha introdotto nel pensiero occidentale il
criterio di un tempo rettilineo, legato ad un percorso verso una meta, che per il credente
consiste nella salvezza dell’anima. Il filosofo che maggiormente ha dato il proprio
contributo a questa visione ideologica è stato S. Agostino.
Il pensiero filosofico medievale ne è stato profondamente influenzato, tanto da
immaginare l’esistenza stessa dell’uomo come un cammino che il viator doveva
compiere nel proprio tempo terreno.
Per Agostino il concetto di Tempo cambiò radicalmente. Il tempo non esisteva nella
visione di Dio, a cui ogni cosa era ed appariva come totalmente contemporanea. La
stessa valutazione semantica della parola salute è legata all’idea del viaggio. Deriva dal
latino salutem, che può significare “salvezza” oppure “salute “ ed è dotata della stessa
radice linguistica di salvus, che vuol dire appunto “salvo “. Può inoltre acquistare diversi
significati, indicando la salute come una condizione psico-fisica dell’organismo oppure
la salute intesa come benessere.
Il termine salute riveste infine anche un significato letterario, inteso come salvezza,
benessere spirituale, salute in forma di un saluto o di un augurio. Il verbo salutare derivava
dal nome della casta sacerdotale dei Salutari, di origine etrusca ed in seguito
trapiantata a Roma,. Queste figure di ministri di culto avevano il compito di
raccomandare la buona sorte a quanti si mettevano in viaggio o comunque a chi si
allontanava da un certo luogo per recarsi altrove.
Con la nascita della scienza moderna nel XVII secolo assistiamo ad una diversa
valutazione, oltre che della metodologia scientifica, anche nelle aspettative nei
confronti di ciò che può essere risolto dalla scienza stessa. Esemplari sono a questo
proposito due visioni filosofiche diverse ed entrambe complesse, che serviranno a
riflettere sul significato prognostico in termini speculativi.
La prima si rifà al pensiero di Baruch Spinoza (1632-1677). Il filosofo olandese criticò
la visione cartesiana del mondo, che aveva segnato la separazione tra la materia (res
extensa) e la mente ed il pensiero (res cogitans). Nel pensiero di Spinoza Dio assume ogni
potenzialità nella costruzione del mondo e della natura che lo anima, facendo si che
anche il tempo debba sottostare alla conoscenza assoluta del creatore. L’uomo non è in
grado di apprendere ogni tipo di causalità della materia e da questo punto di vista non
può nemmeno morire del tutto, ma vedere ricomprendere la propria sorte individuale
all’interno del divenire complessivo.
Gottfried Leibniz (1646-1716), il suo rivale filosofico, elaborò invece una concezione
differente intorno al destino dell’uomo. L’interpretazione di Spinoza, che pure
segretamente ammirava, gli parve aver escluso il libero arbitrio dalle possibilità
umane. La sua soluzione fu di introdurre un fattore costituito dalla provvidenza, capace
di rendere il mondo dell’uomo il migliore dei mondi possibili. Uno scenario terreno
costituito in tal modo da Dio stesso a priori, come ragione sufficiente del bene ed anche
del male e del dolore che le persone avrebbero incontrato nella propria esistenza.
Questa differenza di interpretazione della prognosi esistenziale dell’uomo ha
attraversato in modo dialogico i secoli dell’Età moderna.
L'eretico Spinoza, emarginato sia dalla propria comunità ebraica di origine che da
quella cattolica e protestante, propose una concezione di Dio adatta all'universo della
scienza moderna. Un mondo regolato da leggi naturali senza una finalità complessiva
rintracciabile, né un progetto discernibile in assenza di una fede religiosa. Fu
considerato deviante ed allontanato dall’ambito religioso. Oltretutto Spinoza aveva
avuto l’impudenza di sostenere in pieno XVII secolo un progetto di governo laico,
liberale e democratico, rispettoso delle libertà di pensiero. Il cortigiano del principe di
Hannover, Gottfried Leibniz, amante dei lussi e degli agi delle reggia, finì invece con il
sostenere una risposta conservatrice alla modernità scaturita dalla scienza. Una
soluzione che osserviamo ancora nel mondo contemporaneo. Incapaci di accettare la
perdita della propria centralità nell'universo molte persone cercano significati nascosti
nell’esistenza. Immaginano la presenza di misteri trascendentali, di disegni intelligenti
e di principi antroposofici, come in fondo ipotizzò Leibniz. (5)
Questa dicotomia nell’affrontare una prognosi ed il proprio destino non può essere
separata dagli influssi della scienza e della fisica moderne. Il fisico austriaco Ludwing
Boltzmann (1844-1906) è stato uno dei maggiori fisici teorici di tutti i tempi. Alcune
sue ipotesi sembrano anticipare di qualche anno perfino le conclusioni di Albert
Einstein. L’apporto maggiore e più originale di Boltzmann riguardò la termodinamica
ed i fondamenti delle sue leggi di base. Dimostrò che qualsiasi fosse stata la
distribuzione iniziale delle singole velocità delle molecole di un gas riscaldato, tali
cinetiche, per effetti delle collisioni molecolari, tendevano a distribuirsi secondo una
legge probabilistica universale. Per misurare questa funzione Boltzmann ideò una
formula matematica, scolpita sulla sua tomba in un cimitero di Vienna dopo la tragica
morte dello scienziato. Questi, che soffriva probabilmente di un disturbo bipolare, si
tolse la vita durante una vacanza a Duino, sul litorale triestino, cedendo ad un
momento di depressione. La formula di Boltzmann venne da lui così descritta:
S = k log W
dove S è l’entropia (vale a dire una misura del disordine presente in un sistema fisico,
che si indica con la lettera “S”), W è la probabilità dello stato di dispersione molecolare
e k una costante, detta appunto costante di Boltzmann. L’evoluzione della termodinamica
portò ad una radicale differenziazione nel modo di intendere i fenomeni fisici.
Alla fisica macroscopica, osservabile direttamente con sicurezza, si contrappose in
modo sempre più importante una fisica delle particelle e della realtà microscopica,
governata dalla probabilità. La suggestione esercitata dal fatto che il corpo umano
fosse un sistema a temperatura relativamente costante e che consumasse energia per
mantenerla lo esponeva ad essere soggetto a quelle stesse leggi fisiche e chimiche che
concettualmente si sforzava di oltrepassare. (7)
Molti studi vi sarebbero da compiere sugli effetti delle variazioni di temperatura sui
comportamenti delle cellule e sulla biodisponibilità dei farmaci. Tuttavia, prima ancora
dei risultati eclatanti della fisica moderna e del loro costringerci a riflettere sulla
indeterminatezza intrinseca di ogni tipologia di prognosi, il reverendo Thomas Bayes
(1702-1761), un matematico inglese vissuto nel XVIII secolo, fu autore di un teorema
di grande importanza nell’interpretazione dei quesiti scientifici. Bayes era un pastore
presbiteriano di carattere anticonformista ed un po’ eccentrico. Lasciò inediti i suoi
scritti più importanti, che furono affidati ad un esecutore testamentario e vennero resi
noti solo dopo la morte. Bayes è conosciuto soprattutto per il Teorema sulla probabilità
condizionata, pubblicato postumo nel 1763. L’originalità statistica di Bayes consisteva
nell’utilizzare a riguardo dell’esame di una nuova informazione le probabilità basate su
precedenti acquisizioni, per comparare la probabilità a priori con quella a posteriori.
Questa procedura del calcolo delle probabilità ha reso il contributo di Bayes
estremamente interessante per la medicina e per la formulazione di una prognosi. Non
esisteva una sola risposta ad un quesito se ci si muoveva in condizioni d’incertezza
quali si sarebbero verificate nel decorso di un evento morboso e nel conseguente
intervento terapeutico del medico. Il Teorema di Bayes dimostrava quanto le
convinzioni a priori, espresse quantitativamente come distribuzioni di probabilità,
fossero modificate dalle nuove informazioni raccolte. Veniva adottato, anche in modo
inconsapevole nel ragionamento diagnostico e finiva con l’influenzare la prognosi.
Questo teorema venne così formulato:
P(A|B) = P(B|A) x P(A)/P(B)
Dove la probabilità relativa P(B/A), denominata verosimiglianza di A rispetto a B,
esprimeva il grado di credenza che il soggetto avrebbe avuto nel verificarsi di B, nel
caso in cui avesse saputo che A era vera. A era la probabilità a priori (ipotesi) e B
costituiva l’evidenza sperimentale che stavamo esaminando. Il risultato del teorema di
Bayes poteva venire espresso affermando che la probabilità finale di un’ipotesi P(A/B)
o A era direttamente proporzionale alla sua probabilità iniziale ed alla sua
verosimiglianza P(B/A), mentre era inversamente proporzionale alla probabilità
iniziale P(B) dell’evidenza B.
Questa formulazione permetteva di tenere conto dell’esperienza precedente
nell’aspettativa di un esito prognostico. Immaginiamo che il nostro paziente abbia la
polmonite. La probabilità attesa che egli guarisca sarà allora correlata e direttamente
proporzionale sia all’uso degli antibiotici che all’evidenza sperimentale, la quale
confermava l’utilità degli stessi. Vale a dire che si basava sull’esperienza precedente ed
era inversamente proporzionale all’evidenza B, cioè all’astensione dal trattamento. La
pratica della medicina rende consapevoli di quanto ogni risultato possa dipendere da
alcuni fattori certi, come da eventi imprevedibili. Il lavoro del matematico di Bayes
spiegava in modo teorico la ragione di tanti risultati incerti in ambito medico e legati
alla prognosi ed alla terapia.
Un tentativo di evitare il senso di instabilità concettuale generato da questa situazione
è stato quello costituito dalla Fuzzy Logic e dalla sua ambizione di attenuare
l’imprecisione e l’inadeguatezza che la Logica Binaria di origine aristotelica poteva
presentare quando veniva applicata ai fenomeni biologici. Nel 1965 Lofti A. Zadeh, un
professore di matematica dell’Università di Berkeley originario dell’Azerbajian, elaborò
l’idea che gli elementi chiave del pensiero umano non fossero di tipo numerico preciso,
ma etichette di insiemi fuzzy, cioè gruppi di concetti indeterminati. Tra due termini in
opposizione, come ad esempio alto e basso, oppure salute e malattia, sarebbe stato
possibile pensare a un concetto intermedio che rappresentasse un passaggio tra questi
due estremi. La parola fuzzy significava letteralmente “nebbia”, “nebbioso”. In questo
contesto venne a prendere la definizione di «indeterminato». Quindi la Logica Fuzzy si
potrebbe definire come la Logica dell’indeterminatezza, dello sfumato, per usare una
parola italiana molto efficace.
Una delle capacità più sorprendenti del cervello umano, difficilmente riproducibile
dall'intelligenza artificiale, è infatti quella di riassumere le informazioni a partire da
descrizioni complesse.
Un riassunto è costituito da un'approssimazione, dalla condensazione in una struttura
verbale definita di una vicenda contenuta in un sistema narrativo e comunicativo più
ampio. Il riassunto deve per ragione di cose limitarsi a trasmettere il senso di una
vicenda, piuttosto che riprodurla in modo strettamente identico.
Il cervello umano trae vantaggio da questa tolleranza all’imprecisione attraverso la
codificazione delle informazioni più rilevanti rispetto a una determinata necessità,
racchiudendo queste informazioni in alcuni gruppi di insiemi fuzzy, che vengono
successivamente etichettati e catalogati dal pensiero. Per questo motivo, la Logica
Fuzzy rappresenterebbe un efficace strumento di gestione della polivalenza e della
vaghezza del linguaggio naturale, pur conservando una propria struttura formale
complessiva. Questa ne permetterebbe una successiva rappresentazione numerica,
attraverso una sequenza di equazioni descrittive. Per fare un esempio di Logica Fuzzy
possiamo considerare un gruppo di persone all’interno del quale vogliamo operare un
controllo di appartenenza di un insieme di singoli individui basandoci sull’altezza come
elemento di misura. Troveremo delle persone alte e delle persone basse. Ci sarà anche
un insieme di persone che avremo difficoltà a definire alte oppure basse, dal momento
che ci sembreranno non propriamente basse, ma neppure di alta statura. La classica
degli Teoria degli Insiemi ci permette di affermare che X appartiene all'insieme delle
persone alte o che Y appartiene all'insieme delle persone basse, ma non consente a un
elemento Z di essere alto e non alto allo stesso tempo e quindi di far parte
contemporaneamente dell'insieme delle persone alte e di quello delle persone basse.
L'unico modo per risolvere questo problema senza violare i principi della logica
bivalente consisterebbe nel definire un valore arbitrario di soglia, che renda possibile
circoscrivere senza ambiguità gli insiemi descritti. Nell'esempio che stiamo
considerando, se adottiamo la soglia di 170 cm., definiremo due insiemi: quello delle
persone basse, la cui altezza è inferiore a 170 cm e quello delle persone alte, con
un'altezza superiore a 170 cm. Il rigore di tale metodo può lasciare però insoddisfatti,
dal momento che la precisione della logica ha annullato il valore e la ricchezza
semantica del nostro linguaggio, che avrebbe saputo descrivere certamente meglio
questa situazione di transizione tra i due gruppi considerati. Il concetto di prognosi si
presta bene ad una definizione di tipo fuzzy e risente della difficoltà di un
inquadramento entro determinati e precisi parametri. Questo concetto possiede
un’ambivalenza ed una ambiguità che sono difficili da definire in assoluto: prognosi
buona e/o cattiva rispetto a cosa? In che orizzonte temporale?
Una variabile prognostica importante è pertanto conferita dal tempo e dalla durata in
cui dovremo valutare la condizione di un individuo. Una variabile, quella temporale,
che condiziona pesantemente tutto il contesto di misurazione e che è legata a criteri
anche di tipo ideologico e culturale, oltre che scientifico.
Il passaggio da una prognosi buona ad una cattiva presenta delle problematiche che è
difficile circoscrivere utilizzando la Logica binaria aristotelica.
Pensiamo agli stadi patologici irreversibili, in cui si può verificare una condizione
clinica dove un essere umano viene o meno dichiarato in coma irreversibile in base al
rilevamento di alcuni parametri e dopo questa valutazione può essere soggetto
all’espianto degli organi. Oppure la decisione di non continuare una terapia che
potrebbe essere giudicata come inutilmente accanita perché senza speranze di recupero
ad una vita definita come di tipo normale. Infine, per argomentare in modo meno
drammatico, focalizziamo la nostra attenzione sui livelli di colesterolemia suscettibili di
essere curati con una terapia farmacologica, valori ematici che sono mutati nel corso
degli anni in base ad acquisizioni cliniche ed epidemiologiche. Come non accennare poi
ai valori della pressione arteriosa diastolica considerati normali oppure patologici, su
cui continua a essere aperto un confronto generato dalla necessità di dover instaurare
una terapia lunga e costosa, con i relativi controlli clinici e strumentali a carico dei vari
Sistemi Sanitari.
Gli scenari che abbiamo descritto si verificano perché la mutabilità continua delle
caratteristiche biologiche degli esseri viventi si scontra con la necessità di
classificazione richiesta dalla metodologia scientifica sperimentale. Bisogna porsi
l’interrogativo se tale problematica possa essere affrontata con gli strumenti della
logica aristotelica, cioè attraverso il principio di esclusione e quello di non
contraddizione.
Risulta evidente come in molte problematiche e previsioni prognostiche la Logica
Binaria del tutto o nulla non riesca a dare una risposta esauriente agli interrogativi a cui
ci si può trovare di fronte e risulti pertanto inadeguata. (7, 8)
Come si esce da questa specie di gabbia esistenziale in cui l’uomo moderno viene
sospinto quando si trova a confrontarsi con un destino prognostico sfavorevole?
Un essere umano che proviene da un contesto sociale che da un lato gli chiede di
esistere, dimenticando la possibilità di una infermità grave o della stessa morte per non
influire sul consumo e sui mezzi di produzione e dall’altra, quando questa arriva, lo
obbliga a nasconderla, a liberarsene in fretta perché non intralci la vita produttiva
degli altri. Una possibile soluzione è quella di ritornare a formare alla filosofia ed alla
compassione il personale sanitario, come una componente ineludibile del rapporto tra
curante e malato, da esercitarsi attraverso l’empatia. Occorre dedicare tempo e risorse
a questo compito, non relegarlo in un ambito di aneddotica complementare alla
professione medica, la quale interpretata in senso tradizionale e limitativo si trova
drammaticamente disarmata davanti a certe scelte. Pensiamo all’esercizio consapevole
della compassione ed all’idea che di questa ne aveva un filosofo come Arthur
Schopenhauer:
“ … Quello che pertanto la bontà, l’amore e la nobiltà possono fare per gli altri, è sempre
nient’altro che l’alleviare i loro mali. Ciò che per conseguenza può indirizzare alle buone
azioni e alle opere dell’amore, è sempre e soltanto la conoscenza del dolore altrui, divenuto
comprensibile attraverso il proprio, di dolore e messo a pari di questo. Da tutte queste
considerazioni risulta infine che il puro amore (agape, caritas) è, per sua stessa natura,
compassione …”
A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione (9)
Si tratta di un impegno complesso e tuttavia irrinunciabile. Non vi è nulla di
completamente scontato od assolutamente prevedibile in una formulazione
prognostica, tranne l’umanità necessaria per comunicarla.
Bibliografia essenziale
1. Christakis N. A. , Lamont E. B., Extent and determinants of error in doctors’ prognoses in
terminally ill patients: prospective cohort study. BMJ, vol. 320, 19 february 2000.
2. Monod J., Il caso e la necessità, Mondadori, Milano, 2009.
3. Spinoza B., Opere, Mondadori, Milano, 2007.
4. Leibniz G., Saggi di Teodicea sulla bontà di Dio, la libertà dell'uomo e l'origine del male,
Bompiani, Milano, 2005.
5. Matthew S., Il cortigiano e l'eretico. Leibniz, Spinoza e il destino di Dio nel mondo moderno,
Feltrinelli, Milano, 2007.
6. Perozziello F. E., Storia del Pensiero Medico. IV Volume, Dalla Psicoanalisi al Codice
Genetico. Le risposte senza domande. Mattioli 1885, Fidenza (PR), pag. 368, 2010. ISBN:
978-88-6261-112-1.
7. Kosko B., Il fuzzy pensiero. Teoria ed applicazioni della logica fuzzy. Baldini e Castoldi,
Milano, 1995.
8. Veronesi M., Visioli A., Logica Fuzzy. Fondamenti teorici ed applicazioni pratiche, Franco
Angeli, Milano, 2003.
9. Schopenhauer A., Il mondo come volontà e rappresentazione, Laterza, Bari, 1968.
Il Valore clinico della prognosi
Prof. Claudio RugarliProfessore Emerito di Medicina InternaUniversità Vita-Salute San Raffaele Milano
La prognosi, insieme alla terapia, è uno degli obiettivi dei clinici quando fanno una
diagnosi. Vi è stato anche un momento in cui la prognosi fu il solo obbiettivo dei
clinici. Questo avvenne nella seconda metà del secolo XIX quando la medicina clinica
divenne scientificamente fondata. Non fu un processo facile e dei ritardi ci furono
soprattutto in Italia quando, come rilevato criticamente dalle più importanti riviste
mediche dell’epoca, e ripreso in una bell’articolo di Giuseppe Remuzzi sul Corriere
della sera del 23 aprile 2011, il conte di Cavour fu trattato per la malaria che aveva
contratto nelle risaie del vercellese con salassi tanto generosi da condurlo a morte.
Con l’avvento della medicina scientificamente fondata i medici si accorsero che in
pratica non avevano a disposizione terapie efficaci e a loro non restava che fare delle
buone prognosi. Ne è testimonianza ne “La ricerca del tempo perduto” di Proust il
racconto della visita di Dieulafoy alla nonna del narratore. La prognosi comincia a
essere costruita più razionalmente, non solo con una osservazione metodologicamente
più attenta, ma anche con i progressi della nosologia. Si prese coscienza del fatto che
una definizione più puntuale di quell’insieme di ammalati che costituiscono una classe
nosologica, rende anche più accurata la prognosi.
Si cominciò a esprimere la prognosi in termini temporali, ossia indicando la quantità di
tempo intercorrente tra la diagnosi della malattia e qualche evento importante che ne
sarebbe conseguito, distinguendo tra prognosi quoad vitam e prognosi quoad
valetudinem.
E, tuttavia, anche al giorno d’oggi, la prognosi pone due problemi importanti: la sua
esattezza e la sua comunicazione. Perché la prognosi non può che essere approssimata.
Nei testi, parlando della prognosi di una malattia, solitamente la prognosi quoad
valetudinem viene menzionata solamente quando si prevede una menomazione lunga o
permanente, e generalmente si dà maggiore importanza alla prognosi quoad vitam.
Se la malattia non prevede esiti importanti, di regola si parla di decorso.
Generalmente, si dice che la prognosi è buona, salvo imprevisti, quando l’aspettativa di
vita di un paziente con una determinata malattia non è accorciata e più ancora se la sua
qualità non è menomata se non per brevi periodi.
Ma, gli ammalati sono diversi l’uno dall’altro, per età e sesso, per costituzione genetica,
per condizioni economiche e sociali, per stile di vita e anche per accadimenti casuali.
Per questa ragione la prognosi può essere espressa solo in termini statistici relativi ai
riferimenti temporali, di solito riferiti alla mortalità o alla sopravvivenza dopo un
certo lasso temporale. Come si vedrà dal punto di vista psicologico non è la stessa cosa
esprimere la prognosi nell’uno o nell’altro modo.
Per ora basti dire che solitamente la prognosi non è espressa con valori medi perché i
valori singoli, le durate temporali, non hanno una distribuzione normale,e per questa
ragione è più in uso, specialmente in oncologia, impiegare i valori della mediana.
Questo significa ammettere che possono esservi casi insolitamente gravi, o
insolitamente favorevoli, indipendentemente dalla prognosi dichiarata.
La prognosi pone problemi di comunicazione con i pazienti e i loro familiari e perciò va
trattata con prudenza. Questo non è un argomento trascurabile perché una corretta
comunicazione fa parte del metodo clinico. Esistono problemi psicologici legati, come
già si è detto, al modo di presentare la prognosi, come esemplificato da Daniel
Kahneman nel suo “Pensieri lenti e veloci” (Mondadori, 2013). Secondo una ricerca
presentata da questo autore, in un campione di medici posti di fronte alla decisione tra
due terapie, parlare di sopravvivenza a un mese del 90% è risultato più accettato che
dire che nel primo mese si registra un tasso di mortalità del 10% (pag. 405).
Le due formulazioni sono logicamente equivalenti, ma dal punto di vista emozionale
“mortalità” è un termine negativo, mentre “sopravvivenza è un termine positivo.
In linea di massima è raccomandabile un certo ottimismo prognostico perché è stato
sostenuto che al medico è più facilmente perdonata una prognosi buona che viene
smentita piuttosto che una prognosi cattiva che non si avvera.
Esistono, comunque, degli argomenti fondati per non negare una qualche speranza
anche a pazienti con una prognosi negativa, magari resi particolarmente ansiosi
dall’aver consultato Internet . La necessità di almeno una speranza è testimoniata dal
libro (“In attesa di esecuzione”) che Stewart Alsop, affetto da una leucemia acuta,
scrisse nel 1974 descrivendo la sua malattia. Prima di tutto va ricordato che i dati
riportati nella letteratura e sulla rete si riferiscono ai valori mediani (per esempio, di
sopravvivenza a un certo intervallo di tempo) e perciò non sono escluse evenienze
particolarmente favorevoli.
Inoltre, deve essere aggiunto che attualmente i progressi della medicina sono molto
rapidi ed è possibile che la prognosi della malattia a loro diagnosticata divenga più
favorevole grazie a questi avanzamenti, come ho osservato io stesso in due casi di
tumori a cellule germinali.
Infine, deve essere rilevato che la prognosi è molto importante nell’influenzare le
decisioni che debbono essere prese dai medici. E’ ben noto che tutti gli interventi
terapeutici debbono essere attuati considerando il bilancio tra benefici e rischi, questi
ultimi connessi con moltissime terapie. Se la prognosi è cattiva, sarà lecito da parte del
medico accettare rischi maggiori di quanto si farebbe con una prognosi migliore.
Il caso più evidente è quello delle terapie anti-neoplastiche, nella quali vengono
impiegati farmaci con una elevata tossicità che è accettata tenendo conto della prognosi
infausta di queste malattie in assenza di terapie appropriate. Scopo della terapia è
influenzare positivamente la prognosi e in questa direzione sono già stati ottenuti
notevoli successi.
Al’estremo opposto è il caso di malattie con prognosi buona indipendentemente da un
trattamento, per le quali può essere giustificato non prescrivere alcun farmaco.
In conclusione, una buona valutazione della prognosi è una parte importante della
sapienza clinica.
Dott. Roberto Carlo RossiMMG a Milano
Presidente dell’Ordine dei Medici Chirurghi e Odontoiatri di Milano
Non si può insegnare niente ad un uomo. Si può solo aiutarlo a scoprire ciò che ha dentro di sé.
Galileo Galilei
Uscita che fu l'infermiera, passò un quarto d'ora di completo silenzio. Sei piani, sei terribili
muraglie, sia pure per un errore formale, sovrastavano adesso Giuseppe Corte con
implacabile peso. In quanti anni, sì, bisognava pensare proprio ad anni, in quanti anni egli
sarebbe riuscito a risalire fino all'orlo di quel precipizio? Ma come mai la stanza si faceva
improvvisamente così buia? Era pur sempre pomeriggio pieno. Con uno sforzo supremo
Giuseppe Corte, che si sentiva paralizzato da uno strano torpore, guardò l'orologio, sul
comodino, di fianco al letto. Erano le tre e mezzo. Voltò il capo dall'altra parte, e vide che le
persiane scorrevoli, obbedienti a un misterioso comando, scendevano lentamente, chiudendo il
passo alla luce.
Dino Buzzati – Sette piani
Paziente:“Non sono più un bambino, quindi… Se ho qualcosa di grave me lo puoi dire!”
Medico:“Tu hai un neoplasma”
P “Ah, bene, bene,… meno male... e che cos’è?”
M “Una proliferazione di cellule, … o se preferisci un cancro”
P “Come?”
M “Tu hai un cancro al fegato”
P “Ha haha, …un cancro io?”
M “In una fase molto avanzata!”
P “He, he…”
M “Oggi però, sai…. Queste cose…... Sigaretta?”
Il paziente schiaffeggia il medico ed esce dallo studio.
dall’episodio “Il Dottore” ne “Il fantasma della libertà” di Luis Buñuel
Comunicare la prognosi
Amelia è stato il mio primo caso, poi ne sono seguiti altri. Amelia era una bella signora
di 70 anni. Buon livello sociale. Buona proprietà di linguaggio, buona cultura. Per
diversi mesi seguì pazientemente le indicazioni dei medici. All’inizio erano solo le mie
indicazioni: fare questo o quell’esame. Poi subentrarono oncologi e chirurghi. Amelia
era affetta da un tumore ovarico in fase piuttosto avanzata. Le vennero infine
programmate alcune sedute di chemioterapia. Lei si informò sulle probabilità di
successo e sugli effetti collaterali. Un giorno mi chiamò a casa. Non era (ancora) in
condizioni di non venire in studio, anche se già l’astenia la limitava molto nella vita di
tutti i giorni. Semplicemente, voleva uno spazio e del tempo per parlare con calma con
il suo medico. Passammo alcuni minuti a rivedere le informazioni che aveva avuto dagli
specialisti. Lei voleva essere sicura di aver capito bene. Poi parlammo della sua
situazione clinica e di quanto poteva avere da vivere.
Come faccio sempre, le chiarii che, nella mia vita professionale, avevo visto pazienti
dati per spacciati, vivere molti anni e pazienti che, sulla carta, sembrava avessero buone
chance di sopravvivenza a lungo termine e che, invece, in pochi giorni,andavano
incontro ad un tracollo che poi li avrebbe portati rapidamente a morte. Infine
toccammo l’argomento relativo agli effetti collaterali di un’eventuale terapia e, per
contro, alle complicanze che la storia naturale della malattia le avrebbe fatto affrontare
di lì a poco. Alla fine del colloquio, Amelia decise con fermezza di non curarsi. Ovvero
di non fare la chemioterapia. In quei minuti trascorsi con il medico aveva preso la sua
decisione. Mi chiese “solo” di sostenerla dal punto di vista del dolore e della stenia nelle
settimane e nei mesi che sarebbero seguiti e così io ho fatto.
Fino a circa la prima metà del Novecento, la comunicazione di prognosi costituiva il
momento più importante e professionalmente impegnativo della comunicazione
medica. L’evoluzione naturale dei processi patologici era già stata ben codificata ma era
ancora scarsamente modificabile dalle cure mediche. “Nel corso del ventesimo secolo, alla
storia naturale della malattia si è andata sostituendo la storia clinica della malattia, cioè la
descrizione del processo patologico modificato dal miglioramento delle condizioni igieniche e
sociali della popolazione, dalla maggiore precocità e precisione della diagnosi legate a una
tecnologia più raffinata, e infine dalla scoperta di terapie capaci di risolvere o comunque di
curare patologie in precedenza considerate a prognosi infausta. Si è così assistito ad una
progressiva riduzione dell'importanza del giudizio prognostico, mentre passavano al primo
posto in ordine di importanza la comunicazione di diagnosi e soprattutto la prescrizione
terapeutica” (da G. Bert - Recenti Progressi in Medicina, Vol. 92, N. 11, Novembre
2001, Il Pensiero Scientifico Editore, Roma).
Si consideri l’Harrison, o il Cecil o qualche altro manuale su cui si sono formate e si
formano le generazioni dei medici laureati dagli anni Ottanta in avanti: non si parla
quasi mai di prognosi e, di solito, in poche righe, quasi con fastidio.
Tutto è concentrato sulla diagnosi e la terapia: elementi, questi, molto più rassicuranti
e ben codificati dagli studi e dai trial. Del resto, appunto, la prognosi sfugge a rigide
previsioni meccaniciste e, come si è già detto, espone il medico a commettere errori
clamorosi.
A complicare la faccenda, sta anche la diversa percezione del futuro da parte del medico
e del paziente. Il futuro, per il medico, è fatto di probabilità di guarigione e/o della
puntuale descrizione dell’evoluzione del processo patologico. Il futuro, per il paziente,
coinvolge sempre le sue abitudini di vita, il suo lavoro la sua famiglia, il dipanarsi della
vita quotidiana; in ultima analisi il futuro del paziente inferisce principalmente sulla
valutazione di quanto la malattia influenzerà (o meno) la propria vita di relazione.
Quante volte ci sentiamo infastiditi dal paziente che ci assilla con domande e
affermazioni considerate dal clinico poco logiche e un poco indisponenti? “Dottore, mi
guarisca subito, perché lunedì devo prendere l’aereo” è una frase che talvolta ci sentiamo
dire e che suscita nel clinico (con ragione) un’istintiva ripulsa.
Il fatto è che il cursus di studi non forma più i medici a studiare in maniera oggettiva e
scientifica la prognosi e tantomeno a fronteggiare l’imponderabile e l’incerto insito nel
prevedere in quanto tempo e come un determinato processo patologico evolverà.
Inoltre, si consideri che per comunicare e spiegare la prognosi, sia di un’influenza che
di una frattura che la prognosi quoadvaletudinem e quoadvitam di un grave processo
morboso, ci vuole tempo ed è necessario un forte rapporto medico-paziente.
Oggi il “paziente” non è più tale: è diventato un “esigente” per dirla con Ivan Cavicchi.
Vuole delle risposte ben precise anche sulla SUA prognosi e le vuole SUBITO.
Risposte che la medicina non gli può dare. Per evitare la rottura della relazione
medico-paziente, è quindi necessario che il medico sia più preparato da un punto di
vista tecnico sulla prognosi e da un unto di vista umano sul modo di comunicarla.
D’altra parte è anche necessario che il paziente, all’interno di un forte rapporto di
alleanza terapeutica con il suo medico, capisca l’indeterminatezza insita e intrinseca
agli eventi di natura biologica e sia anche educato alla cultura dell’incertezza.
Prognosi e riflessi psicologici
Dott. Luigi ValeraConsigliere Nazionale della Società Italiana di Psiconcologia
La consapevolezza è quella capacità di essere presente con i propri sensi e pensieri a
quello che si sta svolgendo fuori e dentro di noi. Sentirsi presente in ogni atto che si
sta svolgendo è un passo verso il tentativo di passare da una valutazione estrinseca ad
una intrinseca.
Generalmente la mente tende a avere il sopravvento sul corpo imponendo la propria
supremazia come se l’aspetto del soma fosse qualche cosa di scontato, tranne quando
siamo adolescenti, anziani o ammalati poiché il fisico e la sua efficienza rappresentano
un elemento importante per la nostra “carta d’identità”.
Lo stato di salute di un essere umano si esprime e può essere colto attraverso la: forza,
la grazia, il ritmo, la fluidità, l’intensità del contatto dell’organismo col suo ambiente;
però tutto questo si ribalta al contrario nel caso di una malattia grave.
La consapevolezza della propria malattia dipende dai limiti e dallo stato di sofferenza
che il fisico esprime in rapporto alla propria personalità e dell’ambiente affettivo
famigliare e sociale. Corpo e Mente sono sempre intrecciati tra di loro, ma non
sempre dialoganti in funzione dell’accettazione del senso del limite a cui non
siamo allenati. La psiche si difende dallo stato d’impotenza e soprattutto nella
percezione della possibilità concreta della propria morte, che rappresenta il limite
supremo per l’essere umano. Per questo ci si aspetta dalla medicina farmaci e tecniche
sponsorizzanti l’eterna efficacia ed immortalità inseriti in un’aspettativa di una malattia
tecnologica onnipotente che sconfigge ogni tipo di malattia.
La comunicazione si definisce traumatica quando il contenuto spezza la continuità
e tranquillità della propria esistenza, producendo uno stato psicologico regressivo
con conseguenti paure e ansie, stati di disperazione e rabbia, spesso con la presenza
anche della colpa. La conseguenza è il blocco della progettualità per il futuro.
La mente non tollera una comunicazione del tipo “non c’è più niente da fare” perché
produce impotenza e questa produrrà quei meccanismi difensivi che si sono già
sperimentati in altre circostanze difficili in passato.
Le modalità più frequenti sono: la razionalizzazione dove si legge la realtà solo
cognitivamente evitando le emozioni associate, lo spostamento della propria
attenzione su un disagio che non riguarda direttamente la gravità della malattia ma un
sintomo collaterale, oppure la maniacalità nel rincorrere a continue ed estenuanti
terapie che promettono la guarigione, e nei casi di maggior fragilità la mente si
difende con la negazione della realtà dove la consapevolezza di quello che sta
accadendo è assente. E’ successo che un medico radiologo guardando le lastre dei
propri polmoni gravemente compromessi dalla malattia oncologica abbia commentato
che non vedeva alcuna presenza di metastasi.
La comunicazione della prognosi a seguito dell’aggravamento di una malattia con
esito infausto è una comunicazione traumatica che rappresenta per il paziente e la
sua famiglia uno strappo alla continuità e alla fiducia dati al medico e all’istituzione
sanitaria a cui si erano fidati ed affidati delegando anche il loro bisogno di sicurezza ed
onnipotenza. Tutta la famiglia si “ammala “
La Paura s’insidia e s’impone nelle vite del paziente e della sua famiglia, accompagna
e precede come un’ombra il paziente nel suo percorso di malattia non tanto rispetto
alla morte ma al dolore cronico ed annichilente che spesso si associa alla malattia
oncologica, quindi un dolore da soffrire e che fa soffrire. La percezione del tempo viene
alterata, non ci sono più le stagioni ma solo gli intervalli di tempo tra gli esami e le
visite di controllo, oppure congelata.
Le conseguenze psicologiche sono l’aumento dell’ansia e della depressione
causate dalle paure per il futuro e dalle varie perdite che il paziente si prepara ad
affrontare, partendo dalla propria identità ruolo all’interno della propria famiglia e di
quello lavorativo e con il tempo anche per le prestazioni fisiche e della propria
autonomia.
F.Kafka nel suo romanzo la Metamorfosi ha ben descritto le reazioni psicologiche del
signor Gregorio Samsa che svegliandosi una mattina si trova trasformato nel corpo di
uno scarafaggio. Questo racconto esprime pienamente lo sconvolgimento emotivo alla
percezione traumatica del cambiamento del Sé, che passa anche attraverso il corpo, la
propria funzionalità e il proprio ruolo sociale e familiare. Da questo momento vi è la
tendenza della persona ammalata a prepararsi sempre al peggio.
Risultato è un forte senso di irritabilità nella quale la persona non si riconosce più
quella di prima ed anche i familiari stentano a capire e a trovare una modalità di
dialogo. Da questo momento diventa prioritaria la figura del care-giver, colei/lui che
verrà maggiormente coinvolta nell’assistenza in ordine di coinvolgimento psicologico e
pratico. La coppia paziente-care giver si trova come su un tandem, tutto ciò che viene
detto all’uno si riverbererà sull’altra parte, per questa ragione è importante valutare le
capacità del care giver di reggere i pesi dell’assistenza, cosa che diventa difficoltoso
come nel caso di un famigliare anziano o con la presenza in famiglia di figli minori.
La figura dei Curanti
La relazione si crea nell’incontro tra Curanti-Curato è una relazione sbilanciata tra chi
sa e chi non sa, tra chi da e chi chiede, pertanto si richiede una competenza, dove la
spontaneità deve lasciare il posto al senso di responsabilità.
Pertanto nella comunicazione della prognosi è fondamentale la modalità e quindi la
preparazione dei curanti nel prendersi cura del paziente tra oggettività e
soggettività attraverso l’intersoggettività.
1° Fase: Presa in carico paziente-care giver. Nella relazione curato-curanti è
importante cogliere i segni che vengono dal linguaggio non verbale, questi si
comprendono nell’essere presenti al paziente con un ascolto attivo ed interessato,
ampliando la una valutazione che sia estrinseca ma anche intrinseca che
comprenda la conoscenza della storia del paziente i valori e i legami che hanno
guidato la sua vita ed anche la rete di sostegno.
2° Fase: La Digestione Psichica. Le parole che vengono dette dovrebbero essere
semplici e chiare, cercando una comunicazione circolare, dove il nostro parlare con-
segue quello del paziente e del care-giver, utilizzando quando è possibile degli esempi o
metafore che seguono quelle espresse dal paziente stesso. Quando la coppia paziente-
care giver non è in sintonia su quanto viene detto, sarebbe opportuno non amplificare
il conflitto, ma trovare una mediazione del tipo “un colpo al cerchio ed una alla botte ”
cercando le alleanze alla relazione ed evitando le resistenze.
Il paziente ha diritto di sapere, ma anche di non sapere perché la verità a volte
può essere troppo forte per essere guardata in faccia.
3° Fase: L’adattamento. Fondamentale è darsi il tempo necessario per permettere
alla mente di digerire, così come fa uno stomaco per un cibo indigesto.
Sarebbe opportuno comunicare la prognosi in due tempi: il primo per la
comunicazione e le reazioni a caldo e nel secondo per raccogliere i pensieri e i dubbi
sorti dopo il loro ritorno a casa. Importante è cogliere l’occasione per organizzare una
comunicazione del tipo “ passare dal sintomo alla relazione” restituendo al paziente
un ruolo attivo a cui spesso aveva rinunciato nella posizione di dipendenza per
facilitare il compito dei curati. Importante è mantenere uno sguardo attento alle
reazioni non verbali ed alla coerenza tra quello che viene detto e fatto.
4° Fase: l’Accompagnamento. Importante per il paziente-care giver non sentirsi
sconfitti ed impotenti e pertanto alla comunicazione della cattiva notizia dovrà
seguire un messaggio di forza, coraggio e fiducia nel proseguire le cure anche quelle
palliative.
L’equipe curante dovrà essere addestrata ed assistita nel lavoro di squadra per
accogliere i sentimenti di spaesamento del paziente e del suo contesto
mantenendo una mentalità del pensare positivo, una manualità sicura ed uno
sguardo dove ci si possa rispecchiare la speranza e la fiducia.
Accettazione della prognosi
Dott. Alberto ScanniPrimario Emerito di OncologiaA.O. Fatebenefratelli e Oftalmico – Milano
Consigliere dell’ Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri di Milano
Formulare una prognosi è gesto difficile in cui conoscenze scientifiche,capacità
psicologiche e sensibilità individuali vengono messe in gioco a tutto tondo
nell’interesse di un paziente.
Il comprenderne fino infondo il significato e le responsabilità individuali che sono in
gioco è obiettivo determinante.
Parlare di buona o cattiva prognosi significa per un malato impattare col proprio
futuro e con la possibile messa in crisi di aspetti sociali,affettivi ed economici.
E’ un tema difficile ma ricco di significati se approfondito e arricchito da esperienze
individuali e da conoscenze umane e morali.
Importante a tale proposito è ,quando richiesto, il modo di comunicarla.
E’ vero, negli ambulatori dei nostri ospedali si è strozzati dalla routine, dai carichi di
lavoro, dai budget, dai direttori generali che vogliono produttività, dagli obiettivi e
dalle regole regionali ma, anche se i tempi sono ristretti, bisogna sforzarsi ad usare
bene le parole.
Comunicare a un malato la sua diagnosi o le cure a cui si deve sottoporre è un atto
delicato e quando vuole chiarimenti sulla sua prognosi la cosa si fa più complessa.
Quando si parla con un malato si ha di fronte una persona debole che ha paura di tutto,
in una condizione psicologica di inferiorità, e che pende dalle labbra del medico.
Il timore che la salute possa vacillare fa paura. e se le malattie sono gravi questa è
ancora più forte. Bisogna dunque con dolcezza usare bene le parole, infondendo
speranza, affermando la propria vicinanza anche se la situazione è pesante, evitando la
drammatizzazione, lavorando per una visione del futuro positiva in nome quella
alleanza terapeutica di cui tanto si parla nei convegni, ma che spesso nella prassi viene
dimenticata.
Ricordando che essere bravi tecnici non basta per essere bravi medici!
Bisogna stare di più a “parlare” ,a confortare e se bisogno a consolare .
La “prognosi” della prognosi:riflessioni e spunti medico-legali
Dott.Umberto Genovese, Dott.ssa Sara Del SordoLaboratorio di Responsabilità SanitariaSezione Dipartimentale di Medicina LegaleUniversità degli Studi di Milano
Il requisito essenziale della medicina legale è rappresentato dall’inquadramento della
res medica sub specie juris, vale a dire dalla collocazione del fenomeno medico in esame in
un contesto giuridico, esaminandone dunque i profili e le implicazioni normative ad
esso correlati.
La fondamentale distinzione tra il ragionamento medico-legale ed il ragionamento
clinico si basa sul fatto che il primo – inevitabilmente – implica una valutazione
retrospettiva su eventi passati, mediante analisi dei dati documentali a disposizione, dei
dati obiettivi e, secondariamente, dei dati anamnestico-circostanziali riferiti; non
mancano comunque specifiche circostanze nelle quali il medico legale è chiamato ad
esprimere egli stesso un giudizio prognostico, dotato di caratteristiche peculiari.
Il ragionamento clinico, invece, riconosce uno stampo prettamente deduttivo, in cui le
informazioni sintomatologiche, semeiologiche, laboratoristiche e strumentali si
inseriscono in un albero diagnostico.
Atteso dunque che l’analisi della documentazione sanitaria rappresenta un passaggio
fondamentale dell’attività del medico legale (quale che sia l’ambito di riferimento–
penalistico o civilistico, assicurativo privato o previdenziale), risulta imprescindibile
che il professionista sanitario chiamato a “certificare” un determinato evento biologico
sia pienamente consapevole della portata medico-legale della certificazione stessa.
Benché il certificato medico rappresenti una “attestazione scritta di fatti obiettivamente
rilevati e di natura tecnica, dei quali l’atto è destinato a provare la verità”1, è inevitabile che
la formulazione clinica di un giudizio prognosticorichieda delle valutazioni ancorate
quanto più possibile a dati solidi: il ragionamento sotteso all’espressione della prognosi
dovrebbe essere necessariamente condotto con prudenza, dati sia l’elevato margine di
incertezza insito in qualsiasi apprezzamento probabilistico sia la possibilità di diretta
verifica di quanto formulato nell’evoluzione degli stessi fatti biologici.
1ZANGANI P. et al., Medicina Legale e delle Assicurazioni, Morano ed., Napoli, 1990.
Un esempio emblematico di correlazione tra l’applicazione della norma giuridica e la
valutazione medica prognostica – la cui correttezza diviene quindi garanzia per il
rispetto della legge penale– è rappresentato dal reato di lesioni personali.
L’elemento cardine di tale fattispecie di reato è la produzione di una “malattia2 nel
corpo o nella mente”, l’identificazione - dal punto di vista medico - della cui durata è
essenziale per la graduazione - dal punto di vista giuridico – della gravità del reato e,
conseguentemente, della commisurazione della pena da infliggere al reo. Difatti, in
base alla durata della malattia si riconoscono le lesioni personali “lievissime”, in cui la
malattia ha durata non superiore a venti giorni, le lesioni personali “lievi”, in cui la
malattia ha durata ricompresa tra ventuno e quaranta giorni, le lesioni personali
“gravi”, in cui la malattia ha durata superiore a quaranta giorni (giungendo comunque
a guarigione) e le lesioni personali “gravissime”, in cui la malattia risulta certamente o
probabilmente insanabile (pertanto, il processo patologico risulta indefinitamente
attivo dal punto di vista biologico e l’eventuale approccio terapeutico – pur potendone
rallentare il decorso o sfumarne la sintomatologia – non potrà determinarne la
cessazione).
Risultano quindi fondamentali due aspetti, che necessariamente il medico legale deriva
dalle formulazioni prognostiche espresse dal clinico: da un lato, il riconoscimento del
carattere evolutivo del processo morboso, attesa la necessità di distinguere la
“malattia” dall’eventuale esito stabilizzato (sia di guarigione, sia di permanenza di
postumi, sia – paradossalmente – di morte); dall’altro, l’identificazione della durata
della malattia, atteso il rigido inquadramento previsto dal legislatore a fronte di
circostanze che – di regola – si esauriscono gradualmente, rendendo così complesso
identificare l’esatto momento di cessazione del processo patologico, il cui decorso è
peraltro influenzato da numerose variabili, quali – a titolo esemplificativo –
l’adeguatezza e l’osservanza delle cure.
2 Data la centralità che il concetto di “malattia” riveste nella caratterizzazione del delitto di lesionipersonali, fondamentale è la sua definizione: a riguardo, l’elaborazione giurisprudenziale e dottrinale(giuridica e medico-legale) si trova ormai concorde nel ritenere la malattia un processo patologicoevolutivo nel tempo. Secondo una definizione del Gerin, è da intendersi per malattia una “modificazionepeggiorativa dello stato anteriore a carattere dinamico, estrinsecantesi in un disordine funzionale apprezzabile, diparte o dell'intero organismo, che determina una effettiva limitazione della vita organica e, soprattutto, della vita direlazione e richiede un intervento terapeutico, per quanto modesto”. Attenzione alla componente funzionale èdata anche dalla definizione espressa dalla Corte di Cassazione Penale (sentenza 10643 del 09/12/1996),secondo cui “il concetto clinico di malattia richiede il concorso del requisito essenziale di una riduzione apprezzabiledi funzionalità, a cui può anche non corrispondere una lesione anatomica, e di quello di un fatto morboso inevoluzione, a breve o lunga scadenza, verso un esito che potrà essere la guarigione perfetta, l’adattamento a nuovecondizioni di vita oppure la morte”; ed ancora, “costituisce malattia qualsiasi alterazione anatomica o funzionaledell’organismo, ancorché localizzata, di lieve entità e non influente sulle condizioni organiche generali, onde lo statodi malattia perdura fino a quando è in atto il suddetto processo di alterazione, malgrado il ritorno della persona offesaal lavoro” (Cassazione Penale, sentenza 5258 del 06/06/1984).
Appare dunque chiaro come, nell’ambito del reato di lesioni personali, la prognosi
formulata dal sanitario possa assumere notevole rilevanza nell’evoluzione del
procedimento giudiziario.
Tuttavia, in un’ottica puramente medico-legale, il problema della “durata” esige
un’impostazione specifica in base alla situazione giuridica in esame, dovendosi valutare
– ad esempio - le implicazioni che una determinata alterazione patologica comporta in
relazione alla possibilità di attendere alle ordinarie occupazioni, alla capacità al lavoro,
allo svolgimento di attività quotidiane lecite e non lucrative. Ne deriva l’essenzialità di
una adeguata certificazione da parte del clinico – in termini di completezza, chiarezza e
veridicità sia della registrazione dei reperti obiettivi sia della formulazione del giudizio
prognostico – che consenta, a posteriori, una ricostruzione il più fedele possibile della
vicenda clinica e quindi agevoli l’applicazione della metodologia medico-legale.
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