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Viale Kennedy 4 90014 Casteldaccia (PA) www.ingegneriasolazzo.it

LA PRECOMPRESSIONE DEI PONTI IN C.A.

1. Cenni storici della precompressione del calcestruzzo

Un corpo si trova in stato di coazione (Colonnetti 1921) se è sottoposto ad una

distribuzione di sforzi interni pure in assenza di forze esterne esplicitamente applicate.

Una struttura si definisce presollecitata se è stata posta artificialmente in stato di coazione

creando in essa uno stato di tensione. Le tensioni così create modificano le caratteristiche

meccaniche della struttura a vantaggio del suo impiego, ove ne risulti accresciuta la

resistenza a trazione, compressione o taglio, a seconda dello stato di coazione indotto.

Riportiamo di seguito uno stralcio dell’articolo scritto dai ricercatori Umberto Barbisan e

Matteo Guardini riguardante la storia del calcestruzzo precompresso e la figura di uno

dei primi progettisti di c.a.p. Eugène Freyssinet:

"Il concetto della presollecitazione ha origini molto remote. Basti ricordare le botti ove

l’involucro, formato da doghe in legno accostate, non possiederebbero impermeabilità

anche qualora le doghe semplicemente accostate fossero cerchiate da anelli metallici.

Solo producendo una deformazione di compressione iniziale a vuoto delle doghe,

mediante presollecitazione degli anelli metallici, per forzamento ed effetto termico, viene

data al legno del contenitore la capacità di compensare le deformazioni di trazione

conseguendo una tenuta perfetta.

Uno dei primi esempi concettuali di precompressione potrebbe essere la cerchiatura

metallica della ruota di legno; infatti, i carpentieri miglioravano la resistenza alle ruote

lignee a raggi mettendo in forza la cerchiatura metallica esterna, inserita a caldo, che

raffreddandosi imprimeva uno stato di coazione all’intera ruota.

Il materiale da costruzione che si giova particolarmente della presollecitazione artificiale è

il conglomerato cementizio al quale viene conferita la caratteristica di resistenza a sforzi di

trazione previa l’applicazione di una precompressione, prodotta in genere da armature

metalliche poste in tensione.

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Uno dei primi esempi di precompressione fu proposto dallo statunitense P. H. Jackson

nel 1888 che mise a punto un sistema per la costruzione di “pietre artificiali e pavimenti in

calcestruzzo” in cui posizionò nel lembo teso della sezione barre in acciaio, fissate agli

estremi con piastre e viti stringenti.

Nel brevetto depositato da P. H. Jackson il 3 gennaio 1888 si notava chiaramente il

sistema di precompressione del lembo teso della sezione con barre di acciaio rinserrate

agli estremi, da piastre metalliche e dadi stringenti (Vedi Fig.1).

Fig.1

Sempre nello stesso anno, il 1888, ma alcuni mesi dopo, il tedesco C. W. Doehring

depositava a Berlino un brevetto per la realizzazione di piastre e travi in calcestruzzo

rinforzate da fili di acciaio pretesi annegati nel getto. A differenza del brevetto

statunitense, quello tedesco prevedeva la messa in tensione preventiva dei fili metallici

trattenuti da sistemi di contrasto. “Dopo aver messo in tensione i cavi si versava nelle

forme l’impasto di calcestruzzo e quando il materiale si era sufficientemente indurito

venivano asportate le casseforme e tagliati i cavi sporgenti”.

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In questo susseguirsi di proposte e brevetti si inserì l’operato di Freyssinet che, insieme

ad un suo collaboratore, depositò i suoi brevetti per il calcestruzzo armato precompresso

a Parigi nel 1928, ben quarant’anni dopo le prime proposte di Jackson e Doehring.

L’idea di Freyssinet consisteva nel pretensionare barre di acciaio di elevate prestazioni ad

oltre 4.000 kg/cm², prima di colare il calcestruzzo entro la cassaforma, con sistemi di

ancoraggio dei cavi formati da piattello conico e cunei.

Il sistema della post-tensione con i cavi inseriti in guaine sarà brevettato da Freyssinet

solo nel 1940 anche se altri, negli anni precedenti, ne avevano delineato il procedimento.

La storiografia appare quasi concorde nel ritenere che Freyssinet ed il suo collaboratore

Jean Seailles, approntarono i loro brevetti in maniera autonoma rispetto ai contemporanei

sperimentatori ed ai predecessori, senza essere a conoscenza del brevetto statunitense

del 1888; però sarebbe distorcente attribuire al solo Freyssinet il completo merito di

questa innovazione; se non altro è doveroso ricordare il suo collaboratore Seailles, anche

se Freyssinet ha avuto l’acume di sfruttare intellettualmente la coralità del sapere; iniziò fin

dal 1910 a sperimentare lo scorrimento dell’acciaio rispetto al calcestruzzo, analizzò il

problema del rilassamento dell’acciaio, propose l’impiego di calcestruzzo ad alta

resistenza e stati di trazione dell’acciaio fino a 10.000 kg/cm2.

La possibilità di applicare la precompressione si presentò a Freyssinet nel 1911 in

occasione della realizzazione del Pont di Le Veurdre sopra il fiume Allier (Vedi Fig.2), una

struttura a tre arcate in calcestruzzo armato di circa una settantina di metri di luce

ognuna. Alla fine dei lavori e poco prima del collaudo, le grandi arcate di questo ponte

iniziarono a cedere evidenziando l’errore progettuale dello stesso Freyssinet che,

abilmente, lo trasformò in un successo autocelebrativo, inserendo martinetti meccanici

per riportare in assetto le arcate ed indurre uno stato di coazione.

Fig.2 - Pont di Le Veurdre sopra il fiume Allier

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Nonostante il palese insuccesso, il ponte di Le Veurdre diede fama a Freyssinet che negli

anni Venti progettò diversi ponti in calcestruzzo armato e quindi i più noti hangar di Orly

per aeromobili con nervature esterne di irrigidimento.

Nel 1922 Freyssinet completò il ponte sulla Senna a Saint Pierre du Vauvray, che

raggiunse l’allora incredibile luce di 131 metri; era formato da una grande arcata doppia

in calcestruzzo armato messe in forza dai martinetti.

Nel 1930 venne realizzato il grande ponte di Plougastel sopra il fiume Elorn in Bretagna;

Freyssinet progettò tre campate in calcestruzzo armato ognuna delle quali di ben 168

metri di luce libera ognuna, posti in opera con il sistema dei martinetti (Vedi Fig.3).

Comunque Freyssinet non rimase un caso isolato, il calcestruzzo armato precompresso

si diffuse, dagli anni Trenta del Novecento, in Francia, Belgio, Germania, quindi negli Stati

Uniti ad iniziare dal 1936, poi Italia etc., ad opera di numerosi sperimentatori molti dei

quali rimasti ai margini del racconto della storia.

Le applicazioni della precompressione alle strutture cementizio inflesse portarono una

vera rivoluzione nella tecnica del cemento armato, per usare la stessa espressione di

Freyssinet, poiché al vecchio criterio di considerare inerte la zona tesa del conglomerato,

subentra l’altro di produrre uno stato di coazione che rende la sezione in c.a.

completamente reagente.

Fig.3 - Ponte di Plougastel sopra il fiume Elorn in Bretagna

Si potrebbe dire che con questa nuova tecnica costruttiva si è riusciti a raggiungere

un’intesa fra acciaio e conglomerato in quanto in una fase preliminare il primo fornisce al

secondo una capacità di resistere a trazione, attraverso accumulo di energia, mentre in

un secondo tempo, sotto i carichi esterni, questo restituisce via via all’acciaio l’energia

immagazzinata.”

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2. La precompressione del calcestruzzo armato

L’effetto della precompressione è efficacemente posto in evidenza dalla seguente

considerazione.

Nel cemento armato, per tensioni σc prodotte dalle forze deve aversi ovunque:

| σc | < | σc amm |

essendo σc il carico di sicurezza del conglomerato, ma se questo è sottoposto ad una

tensione (precompressione) σc0 , indipendente dai carichi esterni e di segno opposto, può

scriversi:

| σc - σc0 | < | σc amm |

e quindi:

| σc | < | σc amm + σc0 |

La presenza della precompressione σc0 modifica pertanto apparentemente le

caratteristiche di resistenza del materiale, con aumento del carico di sicurezza da σc amm a

(σc amm +σc0).

I metodi di applicazione della precompressione alle strutture in c.a. sono di due tipi:

� Il primo metodo consiste nel porre in tensione le armature con apposite

attrezzature fisse a terra prima di eseguire il getto della struttura. Il sistema allora

viene definito ad armatura pre-tesa o semplicemente sistema pre-teso;

� Il secondo metodo invece ha le armature scorrevoli in guaine all’interno del

conglomerato. La tesatura dei cavi avviene ad indurimento avvenuto, contrastando

direttamente sul conglomerato, ed allora il metodo viene definito ad armatura post-

tesa o semplicemente sistema post-teso.

Con il primo metodo (pre-teso e/o a cavi aderenti) la precompressione si realizza tenendo

a una certa distanza cavi d’acciaio ad alta resistenza conferendo loro la tensione

prefissata a mezzo di dispositivi agli estremi che li ancorano efficacemente.

Si getta quindi attorno ai cavi il calcestruzzo usando casseforme opportune secondo la

forma che si vuole dare alla trave.

Quando il getto è indurito si liberano i cavi che scaricandosi sulla massa che le avvolge

realizzano la precompressione.

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Con il secondo metodo, invece, si prescinde completamente dall’aderenza e i cavi posti

esternamente alla struttura sono liberi di scorrere rispetto alla massa del calcestruzzo.

I prefissi pre e post vanno quindi riferiti al momento dell’indurimento del conglomerato.

Dischinger ha precompresso le travi con grossi cavi a treccia disposti esternamente al

conglomerato. Essi passavano lateralmente alle nervature longitudinali della struttura e

contrastavano sui traversi seguendo un tracciato spezzato. Il tiro alle estremità è stato

effettuato con dei martinetti.

Un esempio di precompressione a cavi esterni è rappresentato dall’originale ponte a

traliccio ad elementi prefabbricati in calcestruzzo, realizzato in Kuwait.

I cavi in questa struttura sono posti esternamente in maniera tale che per effetto del carico

permanente la risultante di pressione passi ovunque in corrispondenza del baricentro

della sezione di conglomerato (Vedi Fig.4 e 5)

Fig. 4

Fig. 5

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3. La prefabbricazione dei ponti

La prefabbricazione dei ponti si è affermata negli ultimi anni assumendo un ruolo

fondamentale nella costruzione degli stessi. Nel periodo successivo all’ultima guerra in

tutta Europa e non solo, durante un periodo di rinascita industriale necessitava di

ricorrere a sistemi più evoluti in grado di fare fronte alle necessità impellenti della

ricostruzione ed ai costi sempre crescenti della mano d’opera e dei materiali.

La convenienza della tecnica della prefabbricazione rispetto alla tradizionale realizzazione

in opera è legata a diversi fattori:

1. dimensione dell’impalcato;

2. situazione orografica del luogo e del tracciato;

3. altezza del piano viario;

4. dimensione dell’intervento: lunghezza del viadotto, numero delle campate, ecc.

5. situazione tecnico economica dell’ambiente in cui si lavora.

Questi parametri condizionano di fatto tutto il progetto del ponte ma in particolare il

progettista deve individuare sia quali sono gli elementi del ponte che conviene

prefabbricare, sia prevedere il procedimento costruttivo più adeguato.

Proprio per questa estrema variabilità e complessità di fattori da valutare è difficile dare

indicazioni univoche da seguire nella costruzione di un ponte che si presenta invece

come una risposta di sintesi, ogni volta diversa, tra esperienze passate, nuove soluzioni

progettuali e tecnologiche, procedimenti costruttivi, disponibilità di risorse e finalità

economiche.

Tra gli obbiettivi principali della prefabbricazione si può elencare:

1. utilizzare il più possibile dei processi di costruzione razionali, organizzati, ripetitivi e

alle volte industrializzati (il peso di industrializzazione dipende dal peso

dell’impiego nel ciclo produttivo delle macchine rispetto all’impiego della mano

d’opera);

2. ridurre l’incidenza della manodopera, soprattutto di quella specializzata;

3. accelerare il processo di costruzione: una volta che gli elementi strutturali sono

stati già preparati in stabilimento, in opera bisognerà “semplicemente” assemblarli

tra loro;

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4. diminuire i costi dell’intervento: i punti precedenti sono tutti orientati ad un

contenimento delle spese, interesse comune sia per il committente che per il

costruttore;

5. gli elementi prodotti in uno stabilimento di prefabbricazione sono di qualità migliore

di quelli prodotti in opera, non risentono delle condizioni atmosferiche esterne che

potrebbero influenzare negativamente il processo di maturazione che, al contrario,

può essere notevolmente accelerato.

In genere lo schema statico dei “ponti prefabbricati” è uno schema isostatico (travi in

semplice appoggio tra le pile oppure travate con selle Gerber); solo utilizzando la

precompressione (a cavi scorrevoli) si ricorre ad uno schema iperstatico di una trave

continua su più appoggi.

Per questa tipologia la massima luce raggiungibile, da un punto di vista economico,

sembra essere intorno ai 150 m della singola campata. Infatti al di sopra dei 120 m il

costo dei dispositivi di collocazione, specialmente dei carri varo, aumentano velocemente

e al tempo stesso aumenta il peso degli elementi prefabbricati. Tuttavia il continuo

progresso dei mezzi di produzione porta a non schematizzare troppo il campo di impiego

di questa tecnologia sia per quello che riguarda il limite superiore, sia per quello inferiore.

I conci prefabbricati sono elementi della lunghezza 3-6 m nella stragrande maggioranza

dei casi ma si possono citare casi di ponti realizzati con conci della lunghezza di alcune

decine di metri. All’interno della stessa opera la loro lunghezza può essere mantenuta

costante ma può anche essere fatta variare in modo da avere sempre elementi di peso

simile. La necessità di far variare lo spessore della travata porta in genere a realizzare

elementi di lunghezza diversa: per i conci in corrispondenza delle pile (che possono

raggiungere anche i 12 metri di altezza) essa è di circa 2 m, mentre per i conci di

campata (molto più bassi) essa può raggiungere anche i 4-6 metri.

La larghezza dei conci è allo stesso modo estremamente variabile. La carreggiata del

ponte può essere realizzata infatti sia accostando due cassoni separati (generalmente

monocellulari) sia realizzando cassoni multicellulari che, in un “unico pezzo”, coprono

l’intera larghezza della sede stradale. Abbiamo quindi un’estrema variabilità della

larghezza dei conci che può andare dai 9-10 m fino a quasi 30 m.

Analogamente il peso degli elementi può oscillare da poche tonnellate, come per i conci

del ponte Castejon sul fiume Ebro in Spagna del peso di circa 10 tonnellate, alle centinaia

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di tonnellate per i conci del ponte sull’estuario della Schelda Orientale in Olanda in cui il

peso del concio d’imposta era di 600 tonnellate.

La prefabbricazione dei conci ha come primo aspetto positivo, rispetto alla loro

realizzazione in sito, la maggiore velocità di realizzazione dell’impalcato: anche 6-8 m al

giorno contro 1-2 m.

Forma della sezione trasversale dell’impalcato

La forma della sezione è, nella quasi totalità dei casi, quella scatolare per alcune ragioni

principali:

a) Da un punto di vista statico, la sezione scatolare presenta una notevole efficienza

tenuto conto dell’eccellente rapporto tra estensione del nocciolo d’inerzia e altezza

della sezione. Inoltre grazie alla presenza di una doppia soletta, questa sezione è

praticamente indifferente al segno del momento flettente e quindi risulta idonea

per l’uso in travi continue. La forma chiusa conferisce poi alla struttura un’elevata

rigidezza torsionale;

b) Da un punto di vista dinamico, l’alto rapporto tra i carichi permanenti e variabili

riduce significativamente l’amplificazione dinamica delle sollecitazioni indotte dal

movimento dei veicoli;

c) Per quanto riguarda i procedimenti di costruzione, le sezioni scatolari si prestano

particolarmente per essere prefabbricate in stabilimento, dove il controllo di qualità

può essere molto efficace, potendo operare senza gli impedimenti dovuti alle

condizioni di temperatura ed umidità del sito;

d) Da un punto di vista estetico, questi ponti si inseriscono molto bene nell’ambiente

circostante, specialmente quando la sezione è ad altezza variabile, generalmente

secondo leggi paraboliche, richiamando così la forma di un arco ribassato;

e) Da un punto di vista economico, c’è la possibilità di sfruttare lo spazio interno del

cassone per farci passare delle tubazioni d’acqua o dei cavi per

telecomunicazioni.

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Tipologie di ponti

La realizzazione con getto di calcestruzzo in opera è una tecnologia che ormai trova

applicazione solo in casi molto particolari e sporadici, ad esempio quando l’altezza delle

pile non supera i 10 m e la costruzione dell’impalcatura non intralcia la zona sottostante il

ponte stesso.

L’inconveniente più grosso del getto in opera è la complessità della preparazione delle

casserature che si traduce di fatto in tempi molto lunghi sia per la posa in opera, sia per il

disarmo.

La tecnologia invece che ha consentito di realizzare strutture a grande luce in tempi

relativamente celeri e con costi contenuti è stata quella della prefabbricazione.

Per i ponti a singola campata, assumendo come variabile principale della progettazione la

luce, questi possono essere classificati in :

a) ponti di piccola luce: fino a 12 m;

b) ponti di media luce: fino a 30 m;

c) ponti di grande luce: oltre i 30 m.

a) Ponti di piccola luce (travi prefabbricate)

La soluzione di prefabbricazione che si adotta per questi tipi di ponti prevede in generale,

la costruzione di impalcati ottenuti accostando fra di loro delle travi di limitata altezza e

completati in opera con il getto della soletta di cemento armato. Le travi vengono

prodotte in appositi stabilimenti di prefabbricazione che non dovrebbero essere troppo

lontani dal cantiere per contenere i costi per il trasporto delle stesse.

Per il montaggio di questi ponti sono sufficienti delle gru o delle autogrù di limitata portata

per via del peso contenuto degli elementi; pertanto anche un’impresa di piccole

dimensioni e con normali attrezzature di cantiere può realizzarli.

b) Ponti di media luce (travi prefabbricate e/o precompresse)

Per questo tipo di ponti la soluzione di prefabbricati più frequente è quella di sezione

costituita da travi isolate irrigidite trasversalmente e/o precompresse e completate dalla

soletta.

Il sistema di montaggio prevede l’utilizzazione di un’autogrù o di un carro varo a causa

delle maggiori dimensioni in gioco.

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Nella realizzazione di ponti di media luce con struttura prefabbricata e precompressa

bisogna tenere conto che:

� la produzione di elementi pre-tesi in stabilimento è condizionata dall’entità della

precompressione che può essere fornita dalle apparecchiature di tiro, inoltre la

dimensione limite degli elementi prodotti è legata alla capacità delle

apparecchiature di sollevamento e trasporto;

� l’uso di elementi prefabbricati in stabilimento diventa sempre meno conveniente

man mano che aumenta la distanza stabilimento-cantiere;

� la convenienza dell’impiego è anche condizionata dall’altezza delle pile e dal

numero di campate.

Le scelte progettuali e di cantiere sono subordinate all’orografia dei luoghi e all’entità

dell’opera da realizzare. Si possono avere due casi limite: ponte basso ma con un

numero notevolissimo di campate e ponte molto alto ma con un numero limitato di

campate. Mentre nel primo caso è più conveniente il montaggio di un carro varo e la

preparazione di un piazzale di prefabbricazione a piè d’opera, nel secondo caso è più

conveniente realizzare le travi prefabbricate in stabilimento e trasportarle a piè d’opera.

Per i ponti di luce media (m. 30) si è al limite di convenienza tra l’impiego della tecnologia

di precompressione per travi a fili aderenti (generalmente trefoli pre-tesi con percorso

rettilineo) oppure travi a cavi esterni post-tesi.

L’uso di cavi aderenti risulta vantaggioso solo per travi di luce fino a 20 – 22 m, mentre

per luci maggiori si preferisce utilizzare una precompressione con cavi esterni. Infatti se

per luci basse l’incidenza del costo degli ancoraggi e la relativa semplicità costruttiva

rendono vantaggioso l’elemento di trave a sezione costante e a cavi rettilinei, per luci

maggiori risulta più conveniente la costruzione di travi dove la tesatura viene effettuata

dopo la messa in opera e prima del getto della soletta.

Inizialmente le sezioni delle travi usate per questi ponti erano a doppio T di media

dimensione con precompressione a fili aderenti, con luci fino a 20 m che venivano poste

ad interasse compreso tra gli 80 e i 130 cm. Col tempo lo sviluppo tecnologico delle

imprese portò a travi più alte e quindi a sezioni costituite da ridotto numero di travi,

distanziate da un interasse maggiore.

Lo sviluppo finale di questi ponti è rappresentato dalle travi a cassone che hanno portato i

seguenti vantaggi:

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� eliminazione dei traversi con abbandono dello schema di struttura a graticcio.

Infatti queste sezioni chiuse hanno un’elevata rigidezza torsionale e quindi non

necessitino del complicato getto in opera dei traversi irrigidenti in quanto da sole

assicurano una buona distribuzione trasversale dei carichi;

� la possibilità di rialzare i cavi, che permette di ottenere la quasi totale

compensazione del peso proprio del ponte all’atto dell’applicazione del tiro di

precompressione;

� semplificazione delle fasi di montaggio e riduzione dei getti con notevole risparmio

nella manodopera.

a) Ponti a grande luce (a cassone prefabbricato o a conci separati)

Per i ponti a grande luce bisogna introdurre nuove limitazioni per quanto riguarda

l’impiego delle strutture a travata.

La soluzione del ponte a travata unica a sezione costante tende a diventare

antieconomico oltre i 30 m di luce.

Per superare luci maggiori si potrebbero inserire nella struttura delle selle Gerber:

facendo uscire dalle pile, degli sbalzi (stampelle) ed inserendo tra di loro, delle travi

tampone. Una tale tecnologia fu impiegata nel 1960 da Moranti per il ponte sul lago

Maracaibo in Venezuela, le cui campate raggiungono i 235 m.

Un’altra possibilità di aumentare questo limite di economicità è quello di variare il

materiale di cui è costituita la sezione, infatti il peso proprio è il fattore preponderante al

crescere della luce, per cui si può ricorrere a sezioni miste con travi in acciaio come è

stato fatto per il ponte Schierstein a Wiesbaden, che ha consentito di raggiungere luci di

205 m.

Quando però si superano determinati valori della luce non è più possibile ricorrere ad

elementi prefabbricati che coprano la totalità o quasi della luce stessa, ma bisogna

passare alla prefabbricazione frazionata della struttura.

Tuttavia occorre ancora distinguere tra ponti fino a 60 m circa di luce e ponti con luci

superiori.

Per i primi non è facile individuare una tipologia economicamente più conveniente di altre

in quanto nel corso dei decenni sono state adottate soluzioni diverse per le stesse luci.

Si possono infatti elencare sia ponti a travata unica costituiti da elementi prefabbricati e

successivamente varati, sia ponti realizzati con l’assemblaggio di conci prefabbricati. Una

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tecnica particolare utilizzata per queste luci è quella della prefabbricazione totale o

“gigante”.

Questa tecnica, valida per luci fra i 30 e i 50 m, consiste nel prefabbricare l’intera

carreggiata con sezione a “cassone” che viene poi trasportata sulle campate

precedentemente realizzate e messa in opera per essere poi varata con l’ausilio di una

struttura metallica di varo. In questi casi diventa fondamentale la presenza di specifiche

apparecchiature e macchinari che, a causa della loro notevole incidenza economica,

devono poter essere riutilizzate successivamente dalle imprese.

Tale fondamentale caratteristica, che si può chiamare “flessibilità d’uso”, è rispettata in

genere dalle apparecchiature di varo dei ponti a travata unica a più campate, in ogni caso

si è visto che questo sistema è conveniente solo per viadotti con un numero notevole di

campate, tale da giustificare la spesa iniziale per le attrezzature e per l’impianto di

prefabbricazione.

Il problema principale per questo tipo di opere rimane quello del sollevamento e del

trasporto, dato che il manufatto può avere un peso che va alle 400 alle 800 tonnellate.

Per il sollevamento generalmente si impiegano due travi d’acciaio che vengano ancorate

al cassone nelle due sezioni di estremità. Il trasporto può avvenire su carrelloni gommati o

su rotaie disposte sopra l’impalcato già costruito. Per il posizionamento si adotta un

congegno formato da una trave di varo disposta direttamente sulle pile e da un portale di

varo che scorra su di essa. Attualmente il ritmo di avanzamento può essere anche di una

campata al giorno.

Con questo sistema, la regola fondamentale per un rapido avanzamento del lavoro sta

nel concetto che, per quanto sia lungo il viadotto, il tempo dedicato al trasporto del

manufatto, al varo in campata ed eventuali lavori di rifinitura in opera, resti inferiore o

uguale al tempo necessario per la prefabbricazione in cantiere, del manufatto costituente

la campata.

In Italia una delle prime opere realizzate con questa tecnica fu il Viadotto su Via Italica a

Viareggio per l’Autostrada Sestri Levante – Livorno, realizzato tra il 1969 e il 1970. il

viadotto ha una lunghezza totale di 352 m, la luce della campata è di 32 m mentre la

larghezza è di 24 m.

Oltre i 60 m di luce, può risultare vantaggioso realizzare campate mediante

prefabbricazione di conci che poi verranno assemblati opportunamente in opera.

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E’ questo il caso di ponti a cassone a conci separati da assemblare in opera con

precompressione a cavi esterni.

4. La precompressione esterna dei ponti

Fig. 6

L’applicazione della precompressione con tesatura a cavi esterni presenta rispetto alla

tradizionale tesatura a cavi aderenti, notevoli vantaggi. Il più importante di essi, e ciò sarà

meglio evidenziato quando parleremo di acciaio precompresso a cavi esterni, è che con

questa tecnica, si estende alle strutture civili, la stessa logica costruttiva delle costruzioni

meccaniche, in cui i componenti della struttura numerati (marchiati) vengono assemblati

secondo un’unica sequenza di fasi e le parti più delicate o più soggette ad usura,

vengono progettate sin dall’inizio, in modo da poter essere facilmente sostituite o riparate

(vedi fig. 6).

Nel caso di un ponte, queste parti sono rappresentate dagli appoggi, dai giunti e dai cavi

di precompressione. Se fino ad oggi la sostituzione di giunti ed appoggi era entrata nella

normale routine, è altrettanto vero che con l’applicazione di cavi interni iniettati con malta

di cemento e resi aderenti in modo continuo alla struttura, la sostituzione dei cavi risultava

del tutto impossibile.

La sostituibilità dei cavi consente di aumentare la vita media del manufatto che,

nell’ambito di una manutenzione ordinaria, può essere di volta in volta “riabilitato”,

almeno nelle sue parti più deperibili, con un sostanziale allungamento della vita media e

con gli ovvi benefici economici, che ne derivano in termini di costo di costruzione e di

manutenzione.

Il portare i cavi di precompressione all’esterno delle nervature, inoltre, facilita senza

dubbio l’esecuzione del guscio di calcestruzzo.

Questo risulta in tutto e per tutto assimilabile ad una normale struttura in calcestruzzo,

debolmente armata, essendo presenti solo le staffe e l’armatura di distribuzione, ma

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mancando l’armatura portante, sostituita per la maggior parte dai cavi esterni in acciaio

armonico (vedi fig. 7).

Fig. 7

Naturalmente questo fatto si traduce in un notevole risparmio sotto il profilo economico, in

conseguenza dei più ridotti tempi di esecuzione; non è necessario infatti predisporre

all’interno della struttura in calcestruzzo tutte le guaine in lamierino metallico della

precompressione tradizionale che, per strutture come i ponti, è un’operazione lunga e

delicata (vedi fig. 7).

Il getto della struttura risulta di molto semplificato e la compattazione con vibratori può

essere eseguita senza il rischio, sempre presente nelle strutture a cavi interni, di

danneggiare le guaine in lamierino. E’ inoltre possibile rispettare al meglio quelle

prescrizioni costruttive e tecnologiche (ricoprimenti, copriferri, sovrapposizioni, ecc.) che

concorrono a rendere il guscio di calcestruzzo più durabile e affidabile nel tempo.

La mancanza delle guaine interne ha un’altra conseguenza fondamentale, consente delle

riduzioni degli spessori della struttura, specie nelle anime dei cassoni. Il

dimensionamento di queste ultime è condizionato più da ragioni tecnologiche e di spazio

che da obbiettive esigenze statiche; le dimensioni sono spesso esuberanti, grazie al

notevole contributo al taglio assicurato dalla componete verticale della precompressione.

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Due sono le condizioni che determinano lo spessore delle anime dei cassoni a cavi

interni: le condizioni di betonaggio e quelle di ancoraggio dei cavi di precompressione

nelle anime in corrispondenza di giunti fra conci successivi.

La messa in opera dei cavi esterni presenta, e ciò sarà reso più evidente nel caso di ponti

in acciaio precompresso, notevoli pregi rispetto alla tecnologia a cavi aderenti e cioè:

� possibilità di utilizzare cavi di diametro più grande con un gran numero di trefoli;

� mancanza di attrito in linea e di riduzione dell’attrito in curva (ricordando che le

perdite d’attrito sono concentrate solo nei punti di deviazione dei cavi);

� la possibilità di seguire visivamente l’andamento del fascio di cavi, consentendo di

aumentarne il numero in modo considerevole senza le controindicazioni tipiche del

ricorso ai cavi interni;

� infine con un opportuno studio della posa in opera dei cavi è possibile ottenere

andamenti con deviazioni limitate a pochi punti, sfruttando appieno le

caratteristiche dell’acciaio armonico.

Tutto questo si traduce nel raggiungimento di valori più alti delle tensioni nei cavi esterni

rispetto ai valori dei cavi interni.

Un’elevata tensione in fase finale, un tempo presentava delle controindicazioni dovute al

rilassamento e alla fatica dei cavi. I moderni trattamenti d’officina dei trefoli con

l’introduzione degli acciai trattati a basso rilassamento, hanno di molto ridotto l’entità

delle cadute dovute a questo fenomeno.. Riguardo invece alla fatica, questo fenomeno è

molto ridimensionato nel caso di cavi esterni, essendo questi non aderenti alla struttura in

calcestruzzo e quindi soggetti a limitate variazioni dello stato tensionale.

Una delle grandi novità, rispetto al caso dei cavi interni, è il modo completamente

differente con cui si iniettano i cavi.

Sostanzialmente nella precompressione esterna i cavi possono essere iniettati o con

malta tradizionale a base di boiacca di cemento e additivo o con prodotti speciali quali

cere o resine.

In entrambi i casi, l’iniezione può effettuarsi sia all’interno di guaine in polietilene ad alta

densità che in tubi d’acciaio all’interno dei quali sono disposti i trefoli nudi.

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fig. 8

Oggi si preferisce usare cavi che sfruttano la tecnica ormai consolidata del trefolo

“unbonded” Con tale tipo di cavi ogni trefolo di cui è composto il cavo è singolarmente

rivestito e iniettato, mentre un ulteriore guaina di protezione, in polietilene pesante,

racchiude il fascio di trefoli (vedi fig. 8).

L’importanza dell’utilizzo dei trefoli “unbonded” sta nella la possibilità di sostituire ove

occorre il singolo trefolo e non tutto il cavo.

E’ ovvio che questa operazione può condursi solamente se i cavi sono stati iniettati con

grasso o cera. Inoltre, in fase di progetto, se si prevede di utilizzare questa tecnologia

bisogna prevedere degli accessi alla struttura, commisurati con le dimensioni delle

attrezzature per la messa in tensione dei cavi, e degli spazi sufficienti affinché questi

vengano facilmente movimentati e posizionati.

Un sufficiente spazio deve essere previsto anche dietro gli ancoraggi per il

posizionamento dei martinetti, mentre i trefoli dovranno sporgere al di la dell’ancoraggio

per una lunghezza che consenta di riattaccarli ai martinetti.

La normativa internazionale oggi, richiede che le nuove strutture siano progettate anche

per la posa in opera di futuri cavi esterni addizionali, per contrastare il potenziale aumento

dei carichi o le eccessive cadute di tensione nei cavi inizialmente previsti (vedi fig. 9).

Viene richiesto infatti di prevedere un numero fissato di cavi addizionali, ad esempio due

per sezione oppure in percentuale della forza iniziale (AASHTO: 10%).

Le nuove Linee Guida Tedesche, impongono ad esempio che:

� per ponti con precompressione totalmente esterna bisogna prevedere la

disposizione di un cavo in più per ogni parete (anima) del concio;

� per ponti a precompressione mista devono essere previsti ulteriori tre cavi in più

per ogni parete del concio.

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fig. 9

Il ricorso a cavi esterni offre il vantaggio che questi possono essere sostituiti nel tempo.

Affinché la sostituzione possa essere effettuata, in fase di progetto bisogna prevedere dei

particolari accorgimenti, riguardo le zone di ancoraggio e quelle di deviazione dei cavi per

potere meglio sfilare i cavi.

5. I ponti moderni a cavi esterni

In definita la tecnologia della precompressione esterna si è evoluta attraverso applicazioni

che si estendono dai semplici ponti a travata, a strutture innovative tipo le travi a cassone,

fino ad arrivare ai ponti in acciaio precompresso, in cui le anime di calcestruzzo sono

state sostituite da travi o cassoni in acciaio.

Nelle moderne realizzazioni di ponti a cavi esterni, diverse sono state le soluzioni adottate

nei riguardi del varo.

Oggi i ponti a cavi esterni vengono realizzati secondo i metodi costruttivi appresso

riportatati:

� La messa in opera di cassoni prefabbricati per intere campate su travature reticolari

di posa;

� La costruzione d’intere campate pre-assemblate su una trave d’assemblaggio e

sollevate successivamente tramite un carro di varo;

� La costruzione in avanzamento per mezzo di conci prefabbricati sostenuti da

tiranti;

� La sospensione della trave intera a conci pre-assemblati.

Una prima classe di ponti a cavi totalmente esterni, è stata quella in cui i cavi corrono

lungo l’intera campata. Nella maggior parte di queste opere si è fatto ricorso alla

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prefabbricazione di intere campate, anche se non mancano realizzazioni di opere gettate

in situ a mezzo di casseformi.

Senza dubbio il principio generale di cablaggio corrente, travata per travata, permette di

arrivare a forme estremamente semplici del lay-out, ma la necessità di sollevare l’intera

campata, prima della messa in opera della precompressione, limita il dominio di impiego

di questa tecnica.

L’ingegnere francese J. Muller fu il primo ad utilizzarla nella costruzione di alcuni ponti in

Florida. Tutte queste opere furono costruite a conci prefabbricati e precompressi per

mezzo di soli cavi esterni.

fig. 10

Nel caso dei ponti Long Key, Channel Five, Niles Channel, i conci di un’ intera campata

sono stati posizionati su delle travature di assemblaggio, e movimentate per mezzo di

piattaforme mobili galleggianti (vedi fig. 10).

Diverso è invece stato il procedimento costruttivo adottato per il ponte Seven Mille; i

conci, posati su una chiatta, sono stati movimentati, sistemati in modo da raggiungere

l’allineamento richiesto e connessi tramite quattro cavi di precompressione temporanea.

fig. 11

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I cavi corrono lungo tutta la campata e sono stati ancorati in corrispondenza dei

diaframmi presenti sulle pile (vedi fig. 11). Il tracciato dei cavi è costituito da una zona

orizzontale al centro della trave, e da una inclinata che risale verso le pile. Per assicurare

la continuità tra una campata e quella successiva, i cavi di una campata si intersecano

con quelli della successiva sulla parte superore della sezione in corrispondenza della pila

comune. In corrispondenza dei giunti di espansione, i cavi sono stati applicati alle anime

del cassone. Nei primi ponti costruiti in Florida e in quelli successivi costruiti secondo

procedimenti similari, la precompressione esterna ha permesso di ottimizzare la sezione

nei riguardi del comportamento longitudinale e trasversale. In particolare, l’uso di anime

più spesse all’estradosso rispetto all’intradosso, ha permesso di innalzare il baricentro

della sezione trasversale aumentandone l’eccentricità e quindi l’efficienza della

precompressione.

Un altro vantaggio di questi ponti è rappresentato dall’utilizzo di giunti a secco tra un

concio e il successivo; questa tecnica, unita all’uso della precompressione esterna, ha

permesso di diminuire sensibilmente i tempi della messa in opera.

Basti pensare, infatti, che per questi ponti, con campate tra i 36 m e i 41 m, i tempi di

costruzione sono stati di tre campate a settimana. In tutte queste opere, i cavi sono

posizionati all’interno di tubi in polietilene ad alta densità e iniettati a getto di cemento.

fig. 12

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fig. 13

fig. 14

Altri esempi di precompressione a cavi esterni sono i doppi viadotti Vallon-es-Fleur e della

Banqiuére (vedi fig. 12). Come per i ponti di Key in Florida, in cui la precompressione è

esterna al calcestruzzo ad eccezione di alcuni cavi di piccola portata composti da 6

trefoli da 13 mm, messi in opera per equilibrare gli sforzi durante la costruzione e lasciati

in opera anche dopo il completamento.

I cavi sono stati ancorati alle pile e deviati nelle nervature verticali; sono stati posizionati

all’interno di tubi ad alta densità e riempiti con l’’impiego di grasso iniettato ad una

temperatura tra i 50 e i 60 0C. Questo metodo di costruzione ha permesso di mettere in

opera, in una sola volta, l’insieme dei cavi di precompressione esterni, dopo il

completamento della travata (vedi fig. 12-13).

Altro esempio di ponte moderno a cavi totalmente esterni al calcestruzzo è il ponte

Bubiyan, in Kuwait. Come per i ponti di Key, anche questo è costruito per campate intere,

ad eccezione del fatto che i conci sono stati sospesi da un’immensa trave di posa

portante una gru di 20000 t (vedi fig. 14).

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La costruzione è caratterizzata da conci in cui le anime sono sostituite da una struttura

spaziale triangolare. L’ordito inferiore è costituito da 4 nervature principali, legate da

piastre sottili. La precompressione, totalmente esterna è disposta lungo i quattro piani

verticali definiti dalle nervature. Nelle zone curve, per evitare la fessurazione del

polipropilene, le guaine sono state rinforzate mettendo all’interno di ciascuna di esse, tubi

metallici ad anelli (vedi fig. 15-16).

Per alcuni di questi ponti però la sostituzione dei cavi non è stata prevista in tempo

durante la progettazione ed è praticamente impossibile eseguirla.

fig. 15

fig. 16

La precompressione esterna nelle strutture da ponte è stata utilizzata in numerosi Paesi,

la maggior parte delle realizzazioni però ha interessato la Francia e gli USA. Le

motivazioni alla base, sono significativamente differenti.

Negli USA, lo sviluppo della tecnica di precompressione esterna, soprattutto usata in

combinazione con il metodo di costruzione per conci, ha avuto come obbiettivo primario

la realizzazione di strutture economicamente vantaggiose. Una delle conseguenze

fondamentali di questa tecnica, la riduzione dello spessore delle anime, ha permesso

infatti la realizzazione di strutture più leggere.

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In Francia invece, lo sviluppo è avvenuto sotto l’influenza dello Stato con il preciso

obbiettivo di migliorare la qualità delle strutture nei riguardi della durabilità.

In sostanza, i punti chiave dell’utilizzo di tale tipo di ponti sono stati, le grandi luci da

superare (L > 30 m.), la riduzione dei pesi per facilitare il varo e diminuire i costi di

costruzione e soprattutto la curabilità, per la facilità con cui si possono riabilitare i ponti,

sostituendo o rinforzando i cavi.

Abbiamo visto l’utilizzo di questo tipo di ponti sia in Francia che in USA, in Germania

invece, fino agli anni 80, questo metodo non veniva applicato perché non si riteneva

sicura la resistenza alla corrosione dei cavi esterni e la precompressione a cavi aderenti,

sembrava l’unica strada percorribile. Dopo gli anni ’80, però questa tecnica emerse

dapprima, come soluzione per la riabilitazione dei ponti esistenti e subito dopo, come

metodo generale da seguire per ottenere opere più dorabili nel tempo.

L’esecuzione di alcuni progetti pilota è stata propedeutica alla pubblicazione delle linee

guida tedesche riguardo i ponti a cassone precompresso.

Nel 1994 il ponte Ruderting in avaria fu uno dei progetti pilota in cui si utilizzò la

precompressione esterna. Il ponte ha 6 campate (36-4x45-36m) e oltrepassa la valle

Haselachtal. Il percorso rettilineo e la leggera curvatura della pendenza hanno offerto

ottimi requisiti per l’impiego della precompressione esterna (vedi fig. 17).

Alcuni cavi sono ancorati nella parte esterna dei diaframmi posizionati ad 8 m dalle pile,

altri invece sono posizionati e ancorati nella zona centrale di detti diaframmi (vedi fig. 18-

19).

Uno dei ponti costruiti dopo la pubblicazione delle Linee guida è il ponte Trockau .La

sovrastruttura è composta da due cassoni monocellulari con una lunghezza totale pari a

602 m; le campate variano da 48 a 100 m mentre per le altezze si passa dai 3,5 ai 6,5 m.

fig. 17

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fig. 18

fig. 19

Questo ponte è considerato dai progettisti un esempio estremo d’impiego della

precompressione totalmente esterna. I ponti progettati con una precompressione

totalmente esterna richiedono generalmente sezioni più alte rispetto a quelle conseguenti

all’utilizzo di una precompressione totalmente interna oppure mista. Nel caso di campate

medio-lunghe, la precompressione mista sembrerebbe la soluzione economicamente più

vantaggiosa; è chiaro, infatti, che il ricorso a cavi interni rettilinei nella soletta e nella

controsoletta, insieme ai cavi esterni di continuità, produce un decongestionamento della

zona di trasmissione e una diminuzione rilevante del numero di ancoraggi.

Il principio è quello di mettere in opera una precompressione interna capace di riprendere

soltanto gli sforzi dovuti ai carichi permanenti e peso proprio utilizzando un tracciato dei

cavi rettilineo. Una volta completata l’opera, si ricorre ad una precompressione esterna,

lungo ciascun lato della travata o del cassone.

Questa tecnica è stata impiegata per la prima volta in Francia nella realizzazione del

ponte della Flèche (vedi fig. 20-21) .

La lunghezza della campata centrale è di 64 m, mentre quella delle due campate laterali è

di 26 m. Per problemi idraulici, l’altezza del cassone monocellulare della struttura è stato

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limitato a 2,80 m, sulle pile, e a 1,75 m, in mezzeria. La sovrastruttura ha una larghezza di

10,75 m.

I principali vantaggi offerti da questo tipo di strutture, come la versatilità di costruzione,

l’elevato con-trollo della qualità e il contenimento dei costi, ha reso questa soluzione

come la preferita nella costruzione di sopraelevate e di ponti, soprattutto nel Sud-Est

dell’Asia. I più grandi ponti a conci, costruiti con questa tecnologia, sono stati realizzati

nella regione di Bangkok. Il progetto del Second Stage Expressway System a Bangkok,

con i quasi 1.000.000 m2 di impalcato e con approssimativamente 15.000 t di cavi da

precompressione esterna, rappresenta una delle più grandi applicazioni di cavi esterni nel

mondo.

L’enorme progetto richiedeva la costruzione di oltre 60 km di impalcato e in fase di

progettazione venne scelta la soluzione di costruzione a conci a cassone prefabbricati.

Per semplificare e velocizzare la fase di messa in opera, venne scelta la soluzione a giunti

a secco insieme all’uso della precompressione

esterna che avrebbe prodotto vantaggi sia di prefabbricazione che di manutenzione a

lungo termine.

fig. 20

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fig. 21

Questo ha permesso di mettere in opera fino a 4 campate alla settimana; le diverse

velocità sono dipese dall’impiego di due differenti metodi costruttivi quali il procedimento

ad avanzamento per conci sollevati tramite travatura sovrastante e l’assemblaggio dei

conci su travatura sottostante (vedi fig. 22).

fig. 22

Un’altra opera che nel 2000 ha stabilito il record di ponte più esteso del mondo, è la Bang

Na Expressway in Bangkok. L’opera comprende 55 km di sopraelevate insieme a 40 km

aggiuntivi di rampe e incroci per un totale di 1.900.000 m2 d’impalcato. Costruita per

l’intera lunghezza al di sopra dell’Highway 34, secondo il contratto, la circolazione del

traffico è avvenuta senza interruzioni. La scelta di un impalcato a conci prefabbricati ha

consentito una soluzione efficiente, veloce ed economica; allo stesso tempo, la scelta di

travi a cassone ha portato ad una soluzione esteticamente gradevole (vedi fig. 23).

La soletta d’impalcato ha una larghezza di 27,2 m; per tale motivo, la trave a cassone

monocellulare è provvista di rinforzi diagonali. Ogni concio prefabbricato pesa circa 85 t.

Le campate sono precompresse longitudinalmente tramite 22 cavi di cui 20 esterni e due

interni; la precompressione trasversale è stata eseguita sia con dei cavi nella soletta

d’impalcato che con cavi passanti nelle anime e nella controsoletta. Per la messa in opera

si sono utilizzate 6 travi di sollevamento e 5 travi di posa che a pieno ritmo hanno

consentito di realizzare 2,5 km di rampe e 2,1 km di impalcato principale al mese.

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fig. 23

Notevole inoltre è stata l’area impegnata dalla prefabbricazione che, con 650.000 m2 di

superficie e una produzione di 40.000 conci, rappresenta il più grande lavoro di

prefabbricazione mai intrapreso

6. Il varo dei ponti a conci separati

Quando si progetta un ponte bisogna considerare che esistono una serie di fattori che nel

complesso fanno preferire una tecnica di varo ad un’altra, come ad esempio: lunghezza

del viadotto, luce della travata, altezza delle pile, caratteristiche del sito, semplicità

costruttiva, ecc.

Nei paragrafi che seguono si tratterà della tecnica di varo dei ponti in c.a.p a conci

separati di luci oltre i 40 m.

Metodo di varo con centine e impalcature

Questo sistema è il più tradizionale, e consiste nel montare i casseri su una struttura

denominata appunto centina, eseguendo il getto del calcestruzzo in sito.

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I criteri per la scelta di tale metodo sono gli stessi di quelli della costruzione del ponte con

getto in opera. In questo caso però l’impalcatura, generalmente costituita da ponteggi

metallici e da travi reticolari in acciaio, si presenta più semplice in quanto non deve

contenere i casseri e non richiede spazi per il posizionamento delle armature per il getto.

La funzione delle centine si limita al solo stazionamento provvisorio dei conci prima del

loro assemblaggio.

Il sistema di costruzione su centina, pur essendosi migliorato nel tempo, conserva tuttavia

molti inconvenienti.

Esso infatti impedisce il passaggio per la circolazione o la navigazione, richiede tempi di

realizzazione relativamente lunghi, costi eccessivi – spesso superiori a quelli della

sovrastruttura stessa. Non può essere utilizzato invece quando si è in presenza di gole

profonde o di fiumi soggetti a piene violente ed improvvise.

Le centine possono distinguersi in:

a) centina a struttura portante superiore;

b) centina a struttura portante inferiore;

c) centine miste composte da due travi longitudinali: una al di sopra, l’altra al di sotto

del piano stradale.

La centina metallica autoportante viene fissata su sostegni fissi o sulle pile o sulle spalle

ed eccezionalmente sulla parte già eseguita dell’impalcato stesso.

La lunghezza della centine è per lo più uguale all’ampiezza delle campate e vengono

utilizzati per luci comprese tra 30 e i 65 m., il procedimento inoltre risulta particolarmente

economico per opere rettilinee molto lunghe. Di contro, questo tipo d’attrezzatura, dato

l’alto grado tecnologico, è assai costosa e non sempre è riutilizzabile

Metodo della posa in opera a sbalzo

Questa tecnica consiste nel realizzare l’impalcato assemblando i conci partendo da uno o

più punti caratteristici dell’opera cioè le pile o le spalle. I conci vengono posizionati a

sbalzo in modo simmetrico rispetto all’asse di ciascuna pila e fino a metà campata (vedi

fig. 24).

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fig. 24

Questo sistema si è affermato solo quando è stato possibile applicare la

precompressione ai conci.

Questo tipo di montaggio se riguarda conci in c.a.p. comporta la possibile perdita

dell’equilibrio elastico delle pile a seguito dello sbilanciamento del carico. Questo fatto

che nel caso di conci in c.a.p. è di importanza primaria per la sicurezza dell’opera in fase

di costruzione, diventa meno importante per i ponti a conci separati in acciaio dato il

minor peso degli stessi.

Lo schema strutturale in fase di costruzione, è quello di una mensola incastrata per poi

diventare una trave continua su più appoggi una volta completate le campate e rese

solidali tra loro grazie a getti di “sutura” nel caso di c.a.p e dopo avere effettuato la

precompressione dei conci definitiva.

Metodo di varo con l’ausilio di una gru

Il montaggio degli elementi mediante gru o sistemi analoghi è probabilmente il metodo

più semplice ed economico e viene utilizzato in tutte quelle zone in cui è possibile il

movimento di apparecchiature di sollevamento, dove gli accessi alla zona di cantiere

sono possibili e dove l’altezza delle pile è limitata. (Vedi fig. 25)

fig. 25

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Metodo di varo per mezzo di equipaggiamenti mobili scorrevoli sull’impalcato

In questo caso abbiamo dei macchinari che sfruttano gli sbalzi già realizzati su cui

scorrono per realizzare le parti successive della struttura. Questi metodi però non sono

del tutto agevoli in quanto nella fase iniziale la realizzazione della parte di impalcato

situato sopra la pila, il così detto “testa pila”, deve essere costruito con un altro metodo;

in particolare si può ricorrere al getto in opera e al montaggio mediante gru o a particolari

“castelli di varo”.

Metodo di varo mediante sistema di sollevamento mobile ancorato all’impalcato

Il congegno è costituito da due travi in acciaio ancorate in maniera opportuna

all’impalcato sulle quali è situato un verricello mobile. Ogni concio è trasportato sotto la

verticale della sua posizione definitiva e poi sollevato e posto in opera dal verricello (Vedi

fig. 26-27)

fig. 26

fig. 27

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Il fissaggio tra il concio i e quello i-1 già montato deve avvenire o con dei cavi

precompressi (obliqui o rettilinei) o con un sistema di cavi che sostengono i singoli conci

e che sono collegati ad un puntone situato sulla pila (come un ponte strallato).

Montaggio mediante il portale di varo

Il metodo è usato soprattutto nella realizzazione di lunghi viadotti ed in quelle situazioni in

cui occorre recare il minimo intralcio nella zona sottostante l’opera. Il portale di varo è

costituito da una trave reticolare in acciaio a sezione rettangolare o triangolare, dotata di

uno o più appoggi fissi attraverso i quali possono passare o meno i conci e da un carrello

agganciato ai correnti inferiori in grado di trasportare i conci grazie ad un argano. (fig. 28)

fig. 28

Posa in opera a spinta

Con questo sistema di varo preliminarmente si prefabbricano tramite casserature fisse

poste in prossimità di una spalla i conci della campata che, disposti su guide, vengono

ordinati e assemblati tra loro con i cavi di precompressione, di seguito le campate così

realizzate vengono spinte in avanti con martinetti.

Il raggiungimento di elevati livelli qualitativi a condizioni economiche competitive spiega

l’adozione sempre più frequente di questa tecnica costruttiva.

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Il campo di impiego del procedimento di montaggio a spinta, è limitato però a tutte quelle

costruzioni in cui la geometria dell’impalcato è sovrapponibile a se stessa, per

spostamento. In altre parole a quelle con impalcato aventi:

� altezza costante;

� curvatura costante, anche relativamente piccola.

Con questa tecnica l’impalcato si trova in fase di costruzione ad assumere infinite

posizioni di appoggio diverse ma che evolvono ciclicamente tra due condizioni limite:

1. la posizione di progetto, con le sezioni di appoggio ubicate in corrispondenza delle

pile;

2. la posizione con l’impalcato avanzato di mezza campata e quindi appoggiato su

quelle che, a varo ultimato, diventano sezioni di mezzeria.

La prima condizione limite difficilmente risulterà critica, la seconda condizione invece è da

controllare in special modo nel caso di c.a.p perché bisogna fare attenzione alle sezioni di

appoggio che in fase transitoria sopportano momenti negativi mentre a varo ultimato,

diventano sezioni di mezzeria e sopporteranno quindi momenti positivi.

Sostanzialmente per questo tipo di varo si rende assolutamente necessario ridurre le

sollecitazioni, ed è possibile farlo in tre modi:

1. tramite il contenimento del peso a sbalzo ottenuto applicando alla testa del primo

concio un cuneo a parete piene o a struttura reticolare detto “avambecco” che

anticipa il contatto dell’impalcato con la pila e quindi riduce i momenti negativi

nelle fasi di avanzamento;

2. tramite la disposizione di pile provvisorie, generalmente dei tralicci metallici, che

riducono fortemente la luce degli sbalzi.

3. tramite il sostegno dell’estremità frontale dello sbalzo attraverso uno schema

strallato composto da un’antenna solidale all’impalcato e da cavi ancorati in punta

all’impalcato e due campate indietro;

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fig. 29

Se l’altezza delle pile è notevole, l’incidenza economica degli appoggi è sensibile e quindi

l’avambecco diventa la soluzione più semplice, sicura ed economica al punto che la sua

adozione è diventata pressoché abituale nel varo frontale a spinta. Alle volte, piuttosto

che costruire pile provvisorie, conviene allungare l’avambecco fino al 60% della luce della

campata ed incrementare la precompressione assiale di solidarizzazione dei tronchi.

La tecnica dell’avanzamento e la conseguente inversione delle sollecitazioni, impongono

l’utilizzo di una precompressione centrata o quasi: questo tipo di costruzione risulta

quindi particolarmente vantaggiosa per i ponti in cui si ha una forte incidenza dei

sovraccarichi rispetto al peso proprio e pertanto una parte percentuale rilevante della

precompressione dovrà essere data a fine costruzione.

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� Emanuele Bucci, Tesi di Laurea: “Comportamento sismico dei ponti precompressi a conci” , Facoltà

di Ingegneria Civile dell’Università di Bologna, 2004

Casteldaccia (PA), lì 16.04.2014

Ing. Francesco Solazzo