La pensione

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LXI - LA PENSIONE (OVVERO L’ATTESA DELLA MORTE DEL CORPO) (OVVERO L’ATTESA DELLA MORTE DEL CORPO) (OVVERO L’ATTESA DELLA MORTE DEL CORPO) (OVVERO L’ATTESA DELLA MORTE DEL CORPO) Già, la pensione! E se fosse il sintomo di una barbarie? Venne introdotta, per la prima volta, da Bismarck nel 1889 nella Germania del Secondo Reich, poi nel corso dei decenni si estese un po’ dovunque. Già il fatto che l’abbia concessa Bismarck per primo e che si trovasse nei programmi della sinistra socialista fa capire che la pensione è un atto paternalistico del potere, dello Stato, della società. Una “rendita” concessa per anzianità, nella speranza, poi, che gli anziani non vivano troppo a lungo, altrimenti il sistema pensionistico salta. Essa consiste in un versamento di denaro fatto dal datore di lavoro e dal lavoratore, in qualche caso integrato dallo Stato (come nel sistema distributivo), che lo Stato stesso gestisce e restituisce al lavoratore solo trenta o quarant’anni dopo, al momento fissato per andare in pensione per anzianità. Si tralasciano qui, ovviamente, tutte le altre forme di pensioni e vitalizi che vengono distribuiti o sono stati distribuiti nel passato da parte dello Stato. Qui si parla solo della pensione per anzianità, che sarebbe la pensione classica e che tutti ritengono corretta. Concessa da Bismarck è sicuramente un gesto paternalistico, fatto per calcolo, cioè per prendere dei punti del programma sociale della sinistra e dei socialisti tedeschi e concederli, scavalcando la sinistra con i suoi stessi programmi sociali. Questo è noto. Ma nella sinistra la pensione è un gesto paternalistico? Dato che la sinistra attribuisce allo Stato o alla società i caratteri del Dio cristiano, primo fra tutti la bontà, appare chiaro che lo Stato-buono, quando un lavoratore raggiunge una certa età, gli concede una pensione: il gesto è comunque paternalistico, ma lo si fa passare per un diritto. E diritto è nella misura in cui per tale pensione sia il datore di lavoro che il lavoratore hanno versato dei contributi per ottenere la concessione della pensione. La verità è che la pensione sancisce definitivamente lo “status” di “dipendente” del lavoratore. Fissa anche lo stato di “indigenza” del lavoratore, perché dà per scontato che il salario o lo stipendio basti per arrivare appena alla fine del mese, per cui non è possibile mettere da parte niente e non è possibile ottenere dei risparmi che consentano di vivere anche là dove l’anzianità renda inabili al lavoro. Certo, poi, c’è anche lavoro e lavoro, i lavori che si basano sulla potenza fisica, sempre più rari, difficilmente possono superare i quaranta o cinquant’anni. Così il datore di lavoro, sia esso un privato o lo Stato, decide quando il dipendente deve andare in pensione, là dove nel lavoro libero lo decide l’individuo stesso che lavora. Con il sistema “contributivo”, la pensione è direttamente proporzionale ai contributi versati. Se il sistema contributivo ti dà in proporzione a quanto versato di contributi, per quale motivo bisogna versare allo Stato i contributi? Perché i papponi della cosa pubblica gestiscano per trenta o quarant’anni il denaro dei lavoratori? Che, dunque, i versamenti dei lavoratori e dei datori di lavoro vengano dati direttamente al lavoratore, poi, ognuno gestisce tale denaro come vuole. Se giunto a una certa età, il lavoratore non ha conservato niente di quanto in più gli viene dato, è anche giusto che muoia di fame. In pratica il lavoratore dipendente viene trattato come un bambino, a cui non vengono dati i risparmi fino alla maggiore età: al lavoratore non vengono dati i soldi della pensione fino all’età della pensione di anzianità. E non si tratta di un atteggiamento paternalistico? La pensione “è” un gesto paternalistico per sua struttura. Serve a rassicurare lo schiavo moderno, cioè il “lavoratore dipendente”, il cui salario o stipendio, variando secondo i livelli di benessere dei popoli, serve, per lo più, al mantenimento in vita. Il lavoratore privato, cioè padrone della sua attività, commerciante, libero professionista, ecc., se non versa per se stesso dei contributi (quindi non si parla di suoi eventuali lavoratori dipendenti), nessuno gli dice nulla e non ottiene alcuna pensione. Perché non può essere così per tutti? Perché il “lavoratore dipendente” è lo schiavo che deve dipendere dalla bontà del suo padrone, il quale gli concede il denaro per la pensione, ma glielo trattiene e glielo dà solo quando lui o le leggi (che sono fatte dal padrone per eccellenza, cioè lo Stato) decidono di darglielo, cioè ad una certa età (anzianità), esattamente come si fa con i bambini, quando si versano dei soldi sulle loro polizze assicurative. Questo suppone che il sistema pensionistico riguarda, strutturalmente, se non solo, soprattutto i “lavoratori dipendenti”, cioè una situazione “paternalistica”, dato che i liberi professionisti possono anche non crearsi una pensione, gli basta non versare alcun contributo. Certo lo Stato potrebbe imporre la pensione a tutti, estendendo il suo tirannico potere paternalistico, ma, se lo fa, lo fa solo per avere un gruzzolo maggiore da poter spolpare per trenta o quarant’anni, non per questioni etiche. Infatti, in ogni caso, il “sequestro” dei contributi da parte degli enti previdenziali equivale a trattare come bambini coloro che lavorano. Trattare come bambini coloro che lavorano, cioè togliere, con i contributi, del denaro alla gente per restituirlo ad “una certa età”, è un gesto di per sé dispregiativo. Trattare come bambini gli adulti è un gesto immorale e paternalistico, il paternalismo sociale è immorale, una sorta di violenza buonista. Se, dunque, la pensione nasconde una aspetto barbaro già dal punto di vista economico, essa è ancora più barbara dal punto di vista strettamente morale e culturale. Va da sé, infatti, che il gesto paternalistico presuppone l’esistenza di un padrone, padrone che è il privato, ma, con le sue leggi, è ormai da tempo

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Una poesia di Carlo De Cristofaro con la presentazione dell'autore

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LXI - LA PENSIONE (OVVERO L’ATTESA DELLA MORTE DEL CORPO)(OVVERO L’ATTESA DELLA MORTE DEL CORPO)(OVVERO L’ATTESA DELLA MORTE DEL CORPO)(OVVERO L’ATTESA DELLA MORTE DEL CORPO)

Già, la pensione! E se fosse il sintomo di una barbarie? Venne introdotta, per la prima volta, da Bismarck nel 1889 nella Germania del Secondo Reich, poi nel corso dei decenni si estese un po’ dovunque. Già il fatto che l’abbia concessa Bismarck per primo e che si trovasse nei programmi della sinistra socialista fa capire che la pensione è un atto paternalistico del potere, dello Stato, della società. Una “rendita” concessa per anzianità, nella speranza, poi, che gli anziani non vivano troppo a lungo, altrimenti il sistema pensionistico salta. Essa consiste in un versamento di denaro fatto dal datore di lavoro e dal lavoratore, in qualche caso integrato dallo Stato (come nel sistema distributivo), che lo Stato stesso gestisce e restituisce al lavoratore solo trenta o quarant’anni dopo, al momento fissato per andare in pensione per anzianità. Si tralasciano qui, ovviamente, tutte le altre forme di pensioni e vitalizi che vengono distribuiti o sono stati distribuiti nel passato da parte dello Stato. Qui si parla solo della pensione per anzianità, che sarebbe la pensione classica e che tutti ritengono corretta. Concessa da Bismarck è sicuramente un gesto paternalistico, fatto per calcolo, cioè per prendere dei punti del programma sociale della sinistra e dei socialisti tedeschi e concederli, scavalcando la sinistra con i suoi stessi programmi sociali. Questo è noto. Ma nella sinistra la pensione è un gesto paternalistico? Dato che la sinistra attribuisce allo Stato o alla società i caratteri del Dio cristiano, primo fra tutti la bontà, appare chiaro che lo Stato-buono, quando un lavoratore raggiunge una certa età, gli concede una pensione: il gesto è comunque paternalistico, ma lo si fa passare per un diritto. E diritto è nella misura in cui per tale pensione sia il datore di lavoro che il lavoratore hanno versato dei contributi per ottenere la concessione della pensione. La verità è che la pensione sancisce definitivamente lo “status” di “dipendente” del lavoratore. Fissa anche lo stato di “indigenza” del lavoratore, perché dà per scontato che il salario o lo stipendio basti per arrivare appena alla fine del mese, per cui non è possibile mettere da parte niente e non è possibile ottenere dei risparmi che consentano di vivere anche là dove l’anzianità renda inabili al lavoro. Certo, poi, c’è anche lavoro e lavoro, i lavori che si basano sulla potenza fisica, sempre più rari, difficilmente possono superare i quaranta o cinquant’anni. Così il datore di lavoro, sia esso un privato o lo Stato, decide quando il dipendente deve andare in pensione, là dove nel lavoro libero lo decide l’individuo stesso che lavora. Con il sistema “contributivo”, la pensione è direttamente proporzionale ai contributi versati. Se il sistema contributivo ti dà in proporzione a quanto versato di contributi, per quale motivo bisogna versare allo Stato i contributi? Perché i papponi della cosa pubblica gestiscano per trenta o quarant’anni il denaro dei lavoratori? Che, dunque, i versamenti dei lavoratori e dei datori di lavoro vengano dati direttamente al lavoratore, poi, ognuno gestisce tale denaro come vuole. Se giunto a una certa età, il lavoratore non ha conservato niente di quanto in più gli viene dato, è anche giusto che muoia di fame. In pratica il lavoratore dipendente viene trattato come un bambino, a cui non vengono dati i risparmi fino alla maggiore età: al lavoratore non vengono dati i soldi della pensione fino all’età della pensione di anzianità. E non si tratta di un atteggiamento paternalistico? La pensione “è” un gesto paternalistico per sua struttura. Serve a rassicurare lo schiavo moderno, cioè il “lavoratore dipendente”, il cui salario o stipendio, variando secondo i livelli di benessere dei popoli, serve, per lo più, al mantenimento in vita. Il lavoratore privato, cioè padrone della sua attività, commerciante, libero professionista, ecc., se non versa per se stesso dei contributi (quindi non si parla di suoi eventuali lavoratori dipendenti), nessuno gli dice nulla e non ottiene alcuna pensione. Perché non può essere così per tutti? Perché il “lavoratore dipendente” è lo schiavo che deve dipendere dalla bontà del suo padrone, il quale gli concede il denaro per la pensione, ma glielo trattiene e glielo dà solo quando lui o le leggi (che sono fatte dal padrone per eccellenza, cioè lo Stato) decidono di darglielo, cioè ad una certa età (anzianità), esattamente come si fa con i bambini, quando si versano dei soldi sulle loro polizze assicurative. Questo suppone che il sistema pensionistico riguarda, strutturalmente, se non solo, soprattutto i “lavoratori dipendenti”, cioè una situazione “paternalistica”, dato che i liberi professionisti possono anche non crearsi una pensione, gli basta non versare alcun contributo. Certo lo Stato potrebbe imporre la pensione a tutti, estendendo il suo tirannico potere paternalistico, ma, se lo fa, lo fa solo per avere un gruzzolo maggiore da poter spolpare per trenta o quarant’anni, non per questioni etiche. Infatti, in ogni caso, il “sequestro” dei contributi da parte degli enti previdenziali equivale a trattare come bambini coloro che lavorano. Trattare come bambini coloro che lavorano, cioè togliere, con i contributi, del denaro alla gente per restituirlo ad “una certa età”, è un gesto di per sé dispregiativo. Trattare come bambini gli adulti è un gesto immorale e paternalistico, il paternalismo sociale è immorale, una sorta di violenza buonista. Se, dunque, la pensione nasconde una aspetto barbaro già dal punto di vista economico, essa è ancora più barbara dal punto di vista strettamente morale e culturale. Va da sé, infatti, che il gesto paternalistico presuppone l’esistenza di un padrone, padrone che è il privato, ma, con le sue leggi, è ormai da tempo

soprattutto lo Stato. Se lo Stato decide quando restituire i contributi versati per trenta o quarant’anni, è chiaro che con ciò decide anche quando il lavoratore dipendente deve smettere di lavorare. Lo Stato costringe ad andare in pensione. Il lavoratore dipendente non conta nulla dal punto di vista morale e culturale. Non importa nulla se amava o meno il proprio lavoro, se era bravo più di altri, se era ancora in grado di svolgerlo perfettamente, come ad esempio è il caso degli insegnanti. A una certa età si va in pensione per legge. Al limite, c’è più elasticità nel mondo privato, dove al lavoratore, se conviene, se sta bene in salute, se il lavoro gli piace, se il datore di lavoro trova che gli altri non sono migliori di lui, c’è la possibilità di poter fare il lavoro amato anche oltre il limite delle pensione di anzianità fissato dallo Stato. Spesso, però, il privato non ha interesse a mantenere gli anziani sul posto di lavoro, perché i giovani sono più facilmente raggirabili e quindi vengono sottoposti a condizioni di lavoro più dure, ma, almeno, questa possibilità c’è. Certo, il fatto che tutto dipenda da un padrone, sia esso il privato o lo Stato, rende tutto questo un’ignobile dipendenza, è sempre la discrezione del padrone, sia pure fissata tramite le leggi dello Stato, a stabilire il destino del lavoratore dipendente. Non dipende da quest’ultimo il poter seguitare a fare ciò che gli piace, questo solo perché l’attività che gli piace si identifica con il suo lavoro e il suo lavoro è dipendente, cioè non dipende da lui. Il lavoro dipendente è una vergogna, è una barbarie e il pensionamento rientra nella prospettiva di questa barbarie. Molti lavoratori dipendenti, forse la maggioranza, sono felici quando vengono mandati in pensione, perché, in tal modo, si sbarazzano di un lavoro che, o strutturalmente o per le condizioni in cui viene svolto, non è per nulla amato. Certo, si lavora anche per vivere, ma chi non ama un’attività e ne ama un’altra deve darsi da fare per ottenere il lavoro nell’attività che gli piace. Se non lo fa, ha certo la dignità di chi lavora per vivere, ma ha anche la colpa di non stare al posto giusto. Questo condiziona sia la qualità del lavoro, diminuendola, che la psiche, rendendo il lavoratore estraneo a se stesso nella sua attività, cioè quando lavora. In tal modo il lavoratore dipendente svolge il lavoro in modo “alienato”, come se l’attività che svolge non fosse “sua”. E’ ovvio che queste persone, alla fine, non solo benedicono la pensione, ma la vedono come una liberazione: si ottiene lo stesso un salario o uno stipendio senza fare l’attività non amata svolta per anni in modo alienato. Ma che la pensione, che è strutturalmente una barbarie e lo è soprattutto là dove impedisce a chi ancora può lavorare di fare l’attività che amava e nella quale aveva dimostrato buone capacità, venga benedetta da persone per le quali il lavoro è stato solo “alienazione”, significa valutare le cose in modo completamente distorto, sulla base della stessa propria alienazione. Che gli alienati stabiliscano che la pensione è una benedizione e non una barbarie è il sintomo di una distorsione sociale enorme. Non solo è grave che la società costringa la gente a fare un lavoro alienato, ma è ancora più grave che questi alienati nel lavoro fissino poi il criterio per valutare il carattere etico o meno della pensione. Almeno si avesse l’intelligenza di rendere elastica l’età pensionabile per anzianità: se un uomo di una certa età e qualità può ancora fare a buoni livelli il suo lavoro, deve poter proseguire fino a quando ce la fa. I membri delle tribù primitive non andavano in pensione, se non quando il fisico non gli permetteva più di reggersi in piedi. I cani e i gatti non vanno in pensione. Sono questi i motivi per i quali coloro che sono stati alienati nel lavoro e che vedono la pensione come una benedizione e una liberazione non hanno minimamente capito il mio dolore nel momento in cui mi hanno pensionato contro la mia volontà. Per me è stato come un lutto, come se avessero ucciso la parte più viva di me, riducendomi, quasi, ad una sopravvivenza biologica. Mi si dice di crearmi altri interessi, come se le passioni si potessero cambiare con la bacchetta magica o con un semplice ordine della volontà astratta. Non ho mai insegnato solo per il denaro. Il padrone per eccellenza, cioè lo Stato, ignora le passioni individuali che, si badi bene, non sono solo passioni individuali, sono anche “qualità” nel lavoro che si svolge. In una società senza qualità appare chiaro che lo Stato, il padrone più cieco di tutti, sul quale si avventano i parassiti più ignobili che esistono, cioè i politici (come i preti si avventavano sulla Chiesa), tenga conto solo dei “numeri” e non della “qualità”. “Numeri”, questo sono i lavoratori dipendenti, i giovani non lo sanno, ma il loro trovare lavoro a tutti i costi è anche diventare “numero” e, come nel caso della maggioranza, andare a fare un lavoro alienato, un lavoro senza qualità. E, ovviamente, gli esseri ignobili, tipo i politici spregiudicati alla Renzi, fanno dei “numeri” dei giovani disoccupati il cavallo di battaglia per affermare, come una grande svolta, la società senza qualità, contrapponendo semplicemente i giovani e i vecchi, senza distinguere la qualità e la passione. Un giovane insegnante senza passione e senza qualità non vale nemmeno un’unghia di un insegnante anziano con passione e qualità. Il tutto, poi, viene fatto senza tatto e riguardo, usando il termine “rottamazione”, come se gli uomini fossero carcasse di automobili. Se al carattere fisso dell’essere ignobile, strutturale in un politico, si aggiunge anche l’arroganza giovanile alla Renzi, allora si è di fronte ad un imbecille che assume atteggiamenti dittatoriali. Non potrò mai perdonare chi ha mi ha mandato in pensione nel modo improvviso e brutale che ho subito e rispetto al quale nemmeno i magistrati hanno fatto il loro dovere correttamente giuridico, non si può perdonare chi non si pone, minimamente, l’idea che possa esistere, non solo un problema dei giovani disoccupati (che, per altro, sono sempre esistiti, io stesso lo sono stato fino a

trentacinque anni), ma anche degli anziani consegnati alla morte morale e tenuti in vita solo biologicamente con la “pensione”. Son già tre ore di dormiveglia e pianto, dalla vita mi difendo col torpore, non voglio più alzarmi la mattina perché con la realtà torna il dolore. Alzarsi la mattina e per andare dove? Girare tra i mercati e le panchine? Per sentirsi solitario tra la folla e da borghese ammirare le vetrine? Non più i sorrisi allegri degli alunni: sopravvivo, mi han fatto pensionato, solo, sempre solo ogni momento, non sono morto, ma neppure nato. Il cervello vivo e pur gagliardo più non può far sentire la sua voce, nessuno ha più voglia di ascoltare e il mio pensiero muore sulla croce. Ma la mente era giovane, sì giovane, il corpo pur anziano era decente; ridotto a corpo con la mia pensione, ora la mente si riduce a niente. Essere corpo è certo molto bello, tale è spensierato da bambino, ma nell’anziano non è più fanciullo: solo la morte ferma il suo declino. (8 luglio 2014)