La Lirica Del Duecento

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    CAPITOLO I - LA LIRICA ITALIANA DEL DUECENTO

    Introduzione

    Il Duecento : secolo della « nascita » della letteratura italiana ?

    Il Duecento venne considerato come il secolo della « nascita » della letteratura

    italiana. Ma pur tuttavia, tale affermazione dev’essere riconsiderata perché la letteratura in

    volgare italiano aveva già dato, come l’abbiamo visto nell’ambito dell’introduzione, i suoi

    primi documenti. Possiamo dunque considerare il Duecento come il secolo che offre una

    produzione letteraria in volgare che contrasta con il vuoto, o meglio con il « semivuoto » dei

    secoli precendeti in cui la lingua volgare appariva per lo più legata a documenti giuridici e

    soprattutto a testi del tutto estranei alle preoccupazioni artistiche.

    Quali sono le ragioni del decollo della letteratura in volgare italiano ? 

    Dopo tale constatazione, sarebbe opportuno interrogarci sulle ragioni di un tale

    sviluppo e specie sulle ragioni della rapidità di tale sviluppo. Infatti, perché la letteratura in

    volgare italiano conobbe un vero e proprio decollo nel Duecento ?

    Innanzitutto, va ricordato che la letteratura e la sua espressione linguistica in volgare è

    sempre stata legata al contesto storico e politico e nel caso dell’Italia al suo frazionamento

    politico in diverse regioni. Il decollo della letteratura in volgare nel Duecento va collegato al

    decollo della civiltà italiana soprattutto nel Regno delle Due Sicilie che era sotto il governo

    dell’imperatore Federico II di Hohenstaufen ed anche all’apogeo raggiunto dal mondo

    comunale.

    Un’altra ragione di tale decollo può essere individuata nel regresso generale che

    conosce l’Europa e soprattutto il latino e le lingue d’oc e d’oïl.La produzione letteraria appare dunque sempre più connessa al policentrismo

    economico, politico e culturale delle diverse regioni d’Italia.

    La situazione politica e culturale delle principali regioni d’Italia 

    Il Nord è caratterizzato dalle corti feudali e dai liberi comuni. In seno a questi due ambienti

    diversi nacquero due nuovi tipi di intellettuali : il poeta cortiggiano nell’ambito delle corti

    feudali e il laico borghese nell’ambito dei comuni.

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    Nel Sud, il regno è fortemente accentrato attorno alla figura di Federico II che tenterà invano

    di unificare politicamente l’Italia.

    Nel Centro siede la Chiesa in quanto istituzione universalistica sul piano culturale e politico.

    Tale frazionamento politico va di pari passo col frazionamento linguistico e letterario che è

    possibile rintracciare nei diversi centri.

    1°) In Lombardia e nel Veneto, la letteratura è prevalentemente morale e didascalica e in

    ciò corrisponde allo spirito pratico dei comuni. Nelle corti feudali ha il sopravvento la

    letteratura cortese e cavalleresca di Francia.

    2°) In Umbria, sotto l’impulso di San Francesco, la spiritualità conosce un profondo

    rinnovamento. L’apparizione degli ordini mendicanti segna profondamente la vita sociale,

    letteraria ed artistica. La poesia è prevalentemente religiosa, scritta in volgare umbro e si

    manifesta sotto forma di laude liriche e drammatiche come quelle del famoso Jacopone da

    Todi. Accanto a tali manifestazioni letterarie ci sono anche le sacre rappresentazioni che

    hanno un carattere più popolareggiante.

    3°) L’Italia meridionale è sotto l’influsso della corte di federico II nell’ambito della quale

    nasce la poesia in volgare con intenti di raffinamento artistico. Tale poesia riprende le

    tematiche e le forme della poesia in lingua d’oc « traducendole » in volgare siciliano.

    4°)  Alla metà del Duecento col venir meno della potenza sveva, l’eredità della poesia

    siciliana passerà in Toscana  dove i poeti trascrissero con diversi mutamenti linguistici i

    canzonieri siciliani emulandoli. La lirica siculo-toscana instaurerà una tradizione tematico-

    espressiva che verrà poi arricchita da Dante, Petrarca e Boccaccio e sarà poi eretta a modello

    da altre regioni d’Italia. La Toscana duecentesca è quindi contrassegnata da una vasta

    produzione poetica ma alcuni scrittori si dedicano anche alla prosa per via dei bisogni

    culturali della nuova classe politica in prevalenza borghese. A tale periodo appartengono

    scritti originali ma anche un certo moltiplicarsi di volgarizzamenti di trattati francesi e latini

    che vertono sulle scienze, la filosofia morale e politica, la retorica.

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    Per riassumere è possibile sostenere che la maggior parte delle opere letterarie del

    Duecento italiano provengono da tre zone.

    1°) La Sicilia, la Toscana e Bologna per quanto riguarda la poesia lirica 2°) Italia centro est e soprattutto l’Umbria nei confronti della letteratura religiosa

    3°) Il Nord degli Apennini e il Po per la letteratura cavalleresca in lingua d’oïl e

    più precisamente ancora la regione del Veneto ; la poesia cortese in lingua d’oc 

    soprattutto nelle corti feudali come quella di Genova. ; la letteratura morale e

    didattica in Lombardia ed in Emilia.

    Inoltre, va considerato che gli scrittori esitano ancora spesso tra diverse lingue. Il

    trovatore Sordello (Sordel) scrive il lingua d’oc, Brunetto Latini (Brunet Latin) (che sarà il

    maestro di Dante) scrive il suo trattato più importante, il Trésor , in lingua d’oïl proprio come

    le memorie di viaggio di Marco Polo saranno scritte da Rustichello da Pisa in lingua d’oïl e

    raccolte in un libro intitolato :  Livre des merveilles du monde. Inoltre gli scrittori d’Italia

    settentrionale esitano tra l’umbro, il toscano ed il siciliano. Finalmente il latino rimane la

    lingua usata per un’importante produzione letteraria e più specificamente per le opere dell’alta

    cultura ma anche per opere di divulgazione come le cronache oppure anche come le vite dei

    santi.

    Infatti, va ricordato che gli intellettuali conoscono e scrivono in latino. Dante per

    esemipo scriverà parte della sua opera in latino. Basti ricordare la  Monarchia, il  De vulgari

    eloquentia, le  Ecloghe. I classici latini sono sempre più ritenuti come un alto modello

    stilistico. Dante prenderà Virgilio come guida del suo viaggio escatologico e riconoscerà

    l’ Eneide come alto modello di stile.

    La tradizione classica diventa dunque sempre più un elemento unificatore

    dell’esperienza letteraria italiana.

    Per riassumere, il Duecento si presenta come un secolo ricco per la letteratura

    italiana con l’apparire della poesia lirica tramite l’esperienza della « scuola » dei siciliani che

    verrà poi ripresa dalla scuola toscana alla quale farà seguito il dolce stil nuovo. Ma anche

    tramite la letteratura religiosa e le  Laude di Jacopone da Todi e la letteratura in prosa con

    Marco Polo e Brunetto Latini. Nell’ambito della lezione ci interesseremo soprattutto e quasi

    esclusivamente alla poesia lirica.

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    I – La scuola Siciliana

    I.1 - Definizione e delineamento del contesto storico-politico 

    “I Siciliani” come li chiamerà il Petrarca  nel Trionfo d’Amore  furono i primitrovatori o poeti aulici in volgare di sì. Ricordiamo che gli iniziatori di questa forma di poesia

    cortese erano stati i trovatori in senso stretto, cioè i trovatori operanti dunque in lingua d’oc :

    l’antica lingua letteraria della Francia meridionale anche chiamata provenzale.

    Cominciamo con una breve genealogia della poesia lirica. In origine legata al canto ed

    alla musica come ne testimonia il suo nome, la poesia lirica nei secoli XII e XIII viene

    considerata come la “grande” poesia, vale a dire come il genere che implica i sogetti ed i

    livelli di lingua e di stile più alti. Fino alla metà del Duecento, la poesia lirica si esprime inlingua d’oc. Tovatori provenzali fanno soggiorno in Italia e portano con loro questa poesia.

    Italiani cominciano a comporre poesie direttamente in lingua d’oc. Per via di conseguenza

    liriche in lingua d’oc a poco a poco circolano nella penisola, vengono ricopiate ed imitate.

    Intorno al 1230 quest’imitazione diretta viene progressivamente sostituita da un adattamento

    in volgare italiano. Questo cambiamento avvenne sotto l’impulso dell’imperatore Federico II

    di Hohenstaufen(1194-1250).

    I.1.1 - La politica centrale di Federico II

    Come l’abbiamo già detto parecchie volte, la letteratura italiana è legata alla situazione

    politica e soprattutto al frazionamento politico che divide la penisola in diverse regioni. Con

    Federico II di Hohenstaufen, il mondo conoscerà l’ultimo grande imperatore e soprattutto

    l’ultimo grande interprete del sogno di un Impero universale. A 14 anni divenne re di Sicilia e

    a 21 anni fu eletto imperatore per volontà del suo tutore papa Innocenzo III. Venne incoronato

    nel 1220.

    Federico II nutriva il progetto di un impero universale, assoluto, romano ma di un

    impero che contemporaneamente si fondasse sui singoli regni ognuno dei quali sarebbe

    dovuto essere robustamente organizzato.

    Tentò anche di unificare politicamente l’Italia e soprattutto la Sicilia, e per ciò fare

    rafforzò il potere monarchico nel regno di Sicilia. Imperatore germanico e re delle Due

    Sicilie, creò una monarchia assoluta centralizzata ed identificata con la realtà nazionale della

    Sicilia sulle basi del mecenato

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    Insomma, Federico II esercitò un potere centrale. Abbiamo visto che organizzazione

    politica ed espressione letteraria vanno di pari passo, non è dunque fatto sorprendente che

    durante il regno centrale di Federico II, la cultura si accentrasse e si unificasse intorno a lui.

    I.1.2 - La politica culturale di Federico II  

    Con Federico II il legame tra politica e cultura si rafforzò. Perché se era uomo politico, re di

    Sicilia e Imperatore del Sacro Romano Impero, era anche un uomo colto che esercitava un

    assolutismo illuminato anche nell’ambito culturale. Federico II si rivelò essere non solo un

    sovrano capace di unificare il regno di Siclia ma anche un sovrano che diresse una vera e

    propria politica culturale. Infatti se Federico II era re di Sicilia ed erede dell’impero romano,

    la sua politica comportava anche un aspetto culturale : voleva creare una cultura che fosse la

    cultura della corte di Palermo e per realizzare tale progetto si circondò di vari specialisti e

    letterati. Lo stesso Federico II fu perfino un uomo di lettere, scrisse un trattato di falconeria, il

     De arte venandi cum avibus, un trattato sull’arte di cacciare con uccelli di preda, trattato che

    può anche, per via delle numerose conoscenze che divulga sul mondo aviario essere

    considerato come un trattato ornitologico. Scrisse anche alcune poesie1. Appare poliglotto

    nelle Cronache di Giovanni Villani che indica che « seppe la lingua latina e la nostra volgare,

    tedesco e francesco, greco e saracinesco [arabo] ». Enciclopedico, illuminista, naturalista,

    sperimentatore, Federico II è tutto nella presenza attiva e politica della cultura, « amò molto

    delicato parlare » e attrasse alla sua corte « d’ogni maniera gente ». Per via di questo suo

    carattere propenso alle lettere, intorno a lui si raccolsero poeti che a poco a poco diedero

    forma al volgare petico italiano.

    Va precisato che da imperatore illuminato che era, voleva opporsi alla Chiesa perfino

    nell’ambito della cultura e creare una cultura depurata da tutti i legami con la Chiesa. Per

    realizzare tale compito, si circondò di un’ « équipe » di dotti di varie lingue e culture tra i

    quali l’astrologo scozzese Michele Scoto per esemipo. Accolse alla sua corte giuristi, filosofi

    e scienziati e fece tradurre le opere di Aristotele. Scienze nuove vennero studiate anche quelle

    ritenute a carattere magico-astrologico. La Magna Curia (come veniva chiamata la corte di

    Palermo) porse un’attenzione particolare alla produzione letteraria varia per i generi adottati e

    per i temi affrontati. Si inscriveva nel quadro di una cultura ricca e raffinata in cui confluivano

    interessi molteplici (scientifici, letterari, giuridici, filosofici…) e tradizioni che andavano da

    1 Cf. I primi due componimenti che aprono la raccolta di poesie del Duecento :  De la mia disïanza  e  Misura, provedenzia e meritanza.

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    quella araba a quella normanna, da quella tedesca a quella bizantina, richiamando così alla

    corte intellettuali di grande prestigio provenienti da varie parti d’Italia e d’Europa. Insomma,

    tutti gli intellettuali collaboravano allo sviluppo della cultura scientifica e filosofica in modo

    libero e laico. II regno di Federico II permise un vero e proprio decollo della cultura e gli

    intellettuali si misero a poco a poco al servizio della politica.

    Federico II ricevette diversi giudizi. Venne considerato come un superuomo, come un

    anticipatore del Rinascimento ma anche come un vero despota.

    I.2 – La « scuola » siciliana

    I.2.1 – La nascita della « scuola » siciliana  

    Comunque sia, vero è che alla sua corte fiorì la prima poesia lirica italiana con unintendimento artistico diversamente quindi da san Francesco d’Assisi che attraverso il Cantico

    di frate sole nutriva uno scopo religioso. Fu verso la fine degli anni venti o più probabilmente

    ancora all’inizio degli anni trenta del Duecento che la corte federiciana cominciò a coltivare, a

    fianco delle scritture latine, anche la poesia in volgare. Federico stesso fu poeta come i suoi

    figli Manfredi, Enzo2, Federico d’Antiochia. Poeti furono anche alcuni degli alti funzionari

    della sua corte e fra i più famosi : Pier delle Vigne, Jacopo da Lentini, Guido delle

    Colonne che era giudice oppure notaio ammirato da Dante che lo riteneva per uno dei più

    grandi siciliani, Rinaldo d’Aquino ed altri.

    Questi non erano dunque veri e propri letterati ma giuristi per la maggior parte d’essi.

    Tuttavia, il fatto che uomini politici diventassero uomini di lettere non deve sorprendere

    anche se si tratta di una cosa ignota al nostro mondo moderno. Nel Medioevo, politica e

    letteratura non erano discipline così remote. Anzi, tutti gli studi di diritto presso le università

    implicavano anche lo studio delle artes dictandi, cioè della retorica. Gli studenti dovevano

    comporre raccolte di lettere in latino e grazie a tale formazione, Pier della Vigna per esempio

    produrrà una raccolta di epistole in latino che diventerrà un modello di stile e

    contemporaneamente scriverà il Liber augustalis anche conosciuto sotto la denominazione di

     Liber constitutionum Regni Siciliae oppure sotto il nome di Costituzione di Melfi (1231), cioè

    una legislazione unificata per tutto il regno di Sicilia.

    Sarà propio tale raggruppamento di intellettuali intorno a Federico II a dare le luci alla

    cosiddetta « scuola » siciliana. Ovviamente, il termine « scuola » non va inteso nel senso

    2 Cf. La canzone Amor mi fa sovente.

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    moderno, ma nel senso medievale di riunione di intellettuali mossi da una medesima passione

    per la lirica ed i componimenti poetici ed appartenenti tutti all’ambiente della corte di

    Palermo benché tutti non fossero originari di Sicilia. Il termine di « scuola siciliana » indica

    dunque un gruppo di scrittori uniti da predilezioni di gusto, di stile, di contenuti tematici. La

    sorte di tale scuola era del tutto legata alla fortuna della casa imperiale che aveva creato

    l’ambiente, il costume e la cultura di cui era parte. Costituitasi non molto dopo

    l’incoronazione imperiale di Federico II, negli anni 1230, si disolse alla morte del re Manfredi

    (1266) che aveva successo al padre nel 1250. La « scuola siciliana » si disolse dunque quando

    crollò la potenza della casa sveva in Italia.

    I.2.2 – Le caratteristiche della lirica siciliana  

    Sotto l’impulso di Federico II nacque dunque la lirica italiana che si presentò per lo

    più come l’imitazione della lirica provenzale in lingua d’oc e che consistette massimamente

    nel suo adattamento in volgare italiano e più precisamente in volgare siciliano. Ma l’opera dei

    siciliani presenta alcuni problemi perché per la maggior parte dei rapprensentanti non

    abbiamo la redazione originale. Comunque sia è possibile sostenere che le liriche vennero

    redatte in volgare meridionale, in un volagre depurato dal linguaggio curiale cioè dalla lingua

    che veniva parlata nell’ambito della corte fino a creare un linguaggio nuovo adatto alle

    esigenze politiche, un linguaggio diverso dalla lingua d’uso cioè dalla lingua quotidiana.

    Il primo ad aver assunto il compito di trasporre una poesia cortese in italiano fu Jacopo da

    Lentini riconosciuto da Dante come capofila della « scuola » siciliana e ritenuto come

    l’inventore del sonetto.

    Ma qual’erano le caratteristiche, i motivi fondamentali e tipici della lirica siciliana ?

    Quello che possiamo definire come il suo aspetto saliente è un consapevole

    convenzionalismo. I temi, il vocabolario, le immagini ricalcano il modello francese e

    soprattutto quello provenzale talvolta in un rapporto di libera emulazione. Bisogna dunque

    sapere in che cosa consistette la poesia provenzale. La lirica provenzale applicava all’amore

    profano la dottrina cristiana dell’amore mistico ma era insieme poesia di corte che assimilava

    il servizio amoroso al rapporto feudale. Il valore sostanziale dell’essere amato era totale,

    quello dell’amante nullo. La passione si fondava dunque su una sproporzione essenziale. Per

    il secondo aspetto la donna era come il signore a cui il vassallo doveva obbedienza e fedeltà

    totali. Naturalmente questa metafisica così teologica come politica diventerà presto un

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    semplice sistema di tropi e di metafore convenzionali. Ma sarà proprio su questo fondo di

    cultura letteraria che andrà letta la poesia feudale del Duecento italiano. Infatti i poeti siciliani

    assunsero a modello la poesia cortese francese in lingua d’oc e d’oïl che costituiva il modello

    poetico per eccellenza dell’epoca. Federico II lo scelse come modello perché volle dare

    all’Italia una poesia che avesse la stessa natura e la stessa grandezza. Ma imitatori della poesia

    provenzale esistevano già da tempi, la novità consiste nel fatto che i poeti siciliani scrivono in

    volgare italiano a differenza degli altri che componevano le loro poesie in provenzale od in

    francese senza usare la propria lingua.

    Pur tuttavia, una prima differenza distacca la lirica provenzale da quella siciliana.

    Infatti, diversamente da quella provenzale che era di norma poesia per musica, così che di

    solito uno era l’autore del testo e della melodia, la poesia siciliana è ormai semplice poesia per

    la lettura. Ma nonostante questa differenza formale, la poesia siciliana appare fedelissima al

    suo modello : la poesia cortese che era giunta ormai sul suo finire, una poesia incapace di

    rinnovarsi, fissata in diverse formule che celebravano soprattuto l’amore virtuoso e la donna

    come fonte di ogni virtù. Per via di conseguenza, la lirica siciliana svilupperà una temica più o

    meno unica e centrale : l’amore per la donna. Si tratta di una poesia manierata che si sviluppa

    sulla trama della fenomenologia amorosa complessa e convenzionale nella quale risulterebbe

    vano cercare verità umane e un qualche riflesso della realtà siciliana dell’epoca. Si tratta di

    una poesia fatta da funzionari della corte, una poesia che si voleva elegante ed innocua perché

    non doveva urtare l’assolutismo di Federico II ma servirlo, e lo servì per via delle innovazioni

    linguistiche capitali, per via delle numerose formule lessicali, grammaticali e stilistiche che

    fonderanno la tradizione ed il codice poetico italiano.

    L’arte poetica appare dunque del tutto connessa al costume della società elevata con

    regole eleganti e rigorose, in altre parole alla società raffinata della corte federiciana.

    I.2.3 – Le tematiche della lirica siciliana  

    Prima di tutto, si deve insistere sul fatto che il poeta deve ricercare non tanto la propria

    originalità quanto la dignità di partecipare, di far parte della civiltà raffinata della corte. Non

    si cerca dunque l’innovazione bensì si prova a rimanere fedeli ad una tradizione della quale è

    ritenuto dignitoso far parte.

    Le tematiche dunque non si evolvono rispetto alla lirica provenzale ma rimangono

    quelle dell’amor cortese cioè dell’amore per la donna e del suo galateo.

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    La Donna : La donna occuppa il posto centrale e principale della lirica ma si tratta di una

    donna stereotipata fatta di caretteri tipici ed astratti. Non c’è posto per l’individualità, le

    descrizioni, i dettagli fisici. La donna è definita senza lineamenti personali, è bella il che

    significa che è bionda ed ha un viso chiaro. È spesso inaccessibile, è savia cioè ha una finezzadi educazione e di costume, è cortese e per via di conseguenza è capace di nobile amore.

    Viene paragonata alla rosa profumata, alla stella luminosa. La donna è sempre superiore

    all’amante che la canta. Si tratta spesso della donna del signore cioè di una donna che occuppa

    un posto elevato nelle gerarchia sociale, posizione elevata che si riflette anche nelle sue

    qualità, nelle sue doti personali superiori come la saviezza e l’intendimento.

    L’Amante : L’amante intratiene con essa un rapporto di vassallaggio cavalleresco,nasconde il suo amore che deve rimanere segreto. Non si deve dimenticare che la donna è

    spesso maritata e per via di conseguenza, la donna per lo più non viene mai nominata oppure

    tramite l’uso di un senhal, cioè del nome di un’altra donna chiamata donna schermo o donna

    dello schermo (dame écran). L’amore cantato dal poeta è nobile e casto e corrisponde alla

     fin’amor provenzale. Le relazioni amorose vengono presentate e descritte sul modello del

    sistema feodale. Vediamo che anche in questo caso la poesia riflette nel suo microcosmo il

    mondo politico del tempo.

    Le Lodi e l’amore nobile : La donna viene lodata per la sua bellezza, per le sue doti

    intellettuali e questa lode è legata ad un altro motivo molto sviluppato nella lirica siciliana :

    quello dell’amore considerato come nobilitamento, cioè si riteneva che l’amore rendesse il

    poeta, l’amante più nobili e che tale amore si accompagnasse d’esaltazione e di gioia.

    A poco a poco si profilano veri e propri « generi » lirici :

    I lamenti per l’allontamento della donna amata, le sofferenze, il dolore d’amore,

    l’amore lontano, l’amore infelice, le profferte d’amore e le lodi della donna, l’esaltazione

    d’amore, le questioni sull’origine e la natura d’amore. Accanto a queste tematiche topiche e

    provanzali, i poeti sviluppano sempre più considerazioni teoriche : il poeta si rende conto dei

    cambiamenti che l’amore opera in lui, s’interroga sulla natura e l’origine di amore ma anche

    sui propri sentimenti il che apre la via alla psicologia, all’analisi dei sentimenti talvolta

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    contrari generati da Amore. Questa componente psicologica costituisce un aspetto importante

    della lirica siciliana.

    A poco a poco si viene così formando un repertorio limitato e fisso che permette di

    delineare in forma esemplare gli aspetti psicologici della vicenda amorosa che non consiste

    nel narrare una vicenda particolare bensì nel raccontare una vicenda esemplare.

    Se la « scuola » siciliana non rinovella la materia dell’amore cortese che imita dalla

    poesia provenzale, realizza pur tuttavia innovazioni linguistiche capitali. I poeti creano la

    lingua della lirica a partire dal fondo della parlata siciliana cioè dal volgare del regno siciliano

    ma epurato dai suoi particolarismi e nobilitato dalle riprese della lingua d’oc, d’oïl, dal latino

    che danno il vocabolario tecnico dell’amor cortese.

    La scuola siciliana ed i suoi diversi rappresentanti possono così essere considerati

    come i fondatori della tradizione di lingua e di stile, come i creatori del codice poetico

    italiano, come gli elaboratori di un linguaggio poetico che sarà ripreso e continuato per anni.

    I.3 – I principali rappresentanti

    I.3.1 - Giacomo da Lentini

    Giacomo da Lentini fu notaio, funzionario della corte di Federico II e dunque uomopolitico. Viene chiamato per antonomasia il Notaro. Venne considerato da Dante come il

    caposcuola, cioè come il rappresentante più insigne e, in certo modo come il « maestro » dei

    poeti siciliani. Sembrerebbe aver scritto le sue liriche tra il 1233 ed il 1240. Considerato come

    l’iniziatore, il capofila della « scuola » siciliana, si potrebbe dunque assegnare a questi anni

    l’inizio della produzione della « scuola ». Si è anche soliti attribuirgli l’invenzione, la

    paternità del sonetto, ma nonostante le molte ipotesi che sono state avanzate, la genesi di

    questo genere metrico resta tuttora ancora assai misteriosa. Unico dato certo è che laconcisione e la leggerezza del sonetto ne fecero subito un componimento di rara efficacia per

    la possibilità che offriva al poeta di concentrare in quattordici endecasillabi un vero e proprio

    microcosmo lirico. La paternità di Giacomo è tutt’altro che sicura e va intesa come

    convenzione acquisita. È un fatto peraltro che egli si dimostra, oltre che il più prolifico di

    questi rimatori, anche la personalità senz’altro più cospicua sia sul piano dell’inventività sia

    su quello propriamente tecnico. È l’autore di 14 canzoni, d’un discordo e di 24 sonetti,

    produzione che lo colloca in posizione eminente all’interno del gruppo dei siciliani. Nessun

    altro rimatore può infatti vantare un numero sì cospicuo di componimenti al proprio attivo.

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    Alcuni fra i suoi componimenti sono la canzonetta di settenari  Meravigliosamente, i sonetti

     Amor è desio che ven da core,  Io m’agio posto in core a Dio servire,  Madonna dir vi

    voglio…Inoltre va notata la ragnatela di rispondenze che lega i suoi testi ad alcuni degli altri

    poeti il che dimostra che venne guardato come un maestro. La memorabilità di alcuni inizi di

    canzone dovette anche contribuire al consolidarsi del suo primato. L’esperienza poetica di

    Giacomo da Lentini si sviluppò a stretto contatto con la corte e con gli altri poeti di corte

    come lascia intuire la sua corrispondenza in versi con il cancelliere Pier delle Vigne e con

    Iacopo Mostacci identificato con un falconiere di Federico II. Federico  e suo figlio Enzo 

    scrissero poesie vicine allo stile del Notaro così come la maggior parte degli altri rimatori

    siciliani. I più prolifici furono Rinaldo d’Aquino  con dieci canzoni ed un sonetto,

    Giacomino Pugliese con sei canzoni ed un discordo, Mostacci con quattro canzoni, Stefano

    Protonotaro e Guido delle colonne ciascuno con tre canzoni e lo stesso Pier delle Vigne con

    due canzoni. Intorno a tali figure, appaiono anche autori di un testo solo come per esempio

    Cielo d’Alcamo  a cui spetta il merito di aver scritto l’unico componimento di carattere

    parodico se non propriamente comico, il celebre contrasto fra uomo e donna.

    I.3.2 - Guido delle Colonne

    Notizie di lui sono pochissime. Sappiamo soltanto che fu messinese, giudice, cioè alto

    funzionario e che nacque forse nel 1210. Tranne il fatto caratteristico dei poeti siciliani, cioè

    che siano uomini di lettere ed allo stesso tempo uomini appartenenti alla sfera politica, non

    sappiamo un gran che della sua vita. Dante lo riconosce come uno dei più grandi fra i siciliani

    per via soprattutto della sua abilità tecnica. Di suo componimento è la canzone Gioiosamente

    canto  che dà libero sfogo al canto felice dell’amore corrisposto. Ma il suo capolavoro

    menzionato appunto da Dante, ricco d’immagini di filosofia naturale che anticipano Guido

    Guinizzelli, è la canzone Ancor che l’aigua per lo foco lassi.

    I.3.3 - Giacomo Pugliese

    Non abbiamo notizie sulla sua vita. Possiamo tuttavia precisare che la sua pesia ha

    goduto grande fervore presso i critici del secolo scorso i quali videro, erroneamente in lui il

    rappresentante di una poesia popolare, più viva e sincera, che veniva contrapposta a quellaaulica e stilizzata dei rimatori di corte. Ma la critica più recente ha dimostrato bene che

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    Giacomino come gli altri, è poeta colto, ripete temi e motivi comuni alla « scuola » e ricerca

    un’espressione limpida e raffinata anche se ha una sua vena dolce che piace forse di più al

    lettore moderno. È l’autore della canzone  Morte, perché m’hai fatta sì gran guerra  che

    corrisponde ad un compianto in morte della donna amata secondo lo schema del  planctus dei

    provenzali.

    I.3.4 - Rinaldo d’Aquino

    Anche lui è conosciuto soltanto per via del suo nome e delle sue liriche ma della sua

    vita nulla si sa. Il suo canzoniere è assai breve, raccoglie soltanto una decina di

    componimenti, la maggioranza dei quali appartengono al tono raffinatamente cortese. Alcuni

    come la canzonetta Già mai non mi conforto, esprimono una situazione psicologica con

    schiettezza e vivacità. Ma non si deve pensare che si tratti di una novità nel genere. Infatti,

    anche in questo caso, non mancavano modelli nella letteratura francese e provenzale. I

    « lamenti », i « contrasti » sono poesie in cui il poeta benché non parli in prima persona,

    esprime situazioni oggettive. Nella canzonetta Già mai non mi conforto  si tratta di una

    fanciulletta che lamenta la partenza dell’amato per la crociata.

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    II – La scuola toscana

    Intorno alla metà del Duecento, col tramonto della potenza sveva in Italia, si dissolve

    l’ambiente di raffinata cultura della corte siciliana. La Toscana divenne il nuovo centro

    d’irradiazione della poesia in volgare.

    II.1 – Dalla “scuola” siciliana alla “scuola” toscana

    Innanzitutto abbiamo già sottolineato parecchie volte che la letteratura e la sua

    diffusione erano legate alla vita politica e soprattutto per l’Italia al frazionamento politico

    della penisola in diverse regioni. La creazione della “scuola” siciliana era stata favorizzatadalla politica accentrata di Federico II e dipendeva tutta dal suo assolutismo illuminato. Per

    via di conseguenza, quando la dinastia sveva s’indebolì fino a scomparire dalla scena politica

    italiana, l’ambiente che era stato propizio al diffondersi della lirica siciliana si dissolve

    anch’esso. Ma pur tuttavia, tale dissoluzione non segnò la fine del volgare italiano

    nell’espressione poetica ma soltanto il suo spostamento, la sua migrazione dalla Sicilia verso

    la Toscana. Dopo il fallimento della politica svolta da Federico II, avvenne una certa

    disseminazione, una certa migrazione della poesia che era quella della « scuola » siciliana.

    Infatti, Federico II si era circondato da uomini colti di diverse culture e nazionalità.

    Alla corte di Sicilia non c’erano soltanto siciliani ma uomini di origini diverse tra i quali

    figuravano poeti e copisti toscani. Questi poeti e copisti toscani che avevano dimorato alla

    corte di Federico II costituiscono un elemento decisivo, un fattore chiave nella diffusione

    della lirica siciliana : servirono di legame tra la tradizione siciliana e la futura tradizione

    toscana. Infatti, a poco a poco trascrissero e diffusero nella loro terra la poesia dei siciliani

    permettendo così di salvaguardare il patrimonio letterario della « scuola » e di darlo in

    retaggio ai poeti toscani. Furono dunque i poeti toscani a riprendere ed a continuare la lirica

    siciliana data loro in retaggio e della quale ripresero la tecnica e parte della lingua e vennero

    perciò chiamati « siculo-toscani ». In effetti, i nuovi poeti che operarono in Toscana durante la

    seconda metà del Duecento ereditarono dai siciliani un linguaggio poetico elaborato, il gusto

    per una tecnica raffinata, l’ammirazione per i poeti provenzali e francesi che d’altronde

    imitarono più di quanto non avessero fatto i loro predecessori, e la tematica dell’amor cortese

    alla quale, però, aggiunsero nuovi motivi morali e politici, riflettendo gli ideali, le lotte e le

    passioni della vita comunale.

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    II.2 – Le caratteristiche della lirica toscana

    Il passaggio della lirica italiana dalla Sicilia alla Toscana è dunque segnato da una

    ripresa cioè da una continuità ma anche da una certa rielaborazione che corrispondesoprattutto ad un adattamento della materia alla realtà della società che non è più quella della

    corte imperiale di Federico II ma quella della società comunale. Il trasferimento della poesia

    siciliana richiede un certo adattamento della materia alla realtà politico-sociale ma anche al

    pubblico nuovo al quale è destinata. L’ambiente cortese di Palermo era del tutto retto

    dall’aristocrazia. Invece, Italia del nord rappresenta il mondo feodale che sta scomparendo

    accanto allo sviluppo, all’incremento dell’industria e del commercio due settori che

    coinvolgono la popolazione che partecipa alla vita politica del comune, cioè alla classe

    emergente della borghesia. Il pubblico, i destinatari della poesia toscana sono molto più

    diversificati del pubblico siciliano che si poteva prevalentemente definire come un pubblico

    curiale in opposizione al pubblico municipale che sarà quello della poesia toscana. La base di

    ricezione della lirica divenne più ampia coinvolgendo ampi strati della borghesia mercantile. I

    poeti toscani non vivono, infatti, in una corte, ma nei liberi comuni della loro terra

    caratterizzati da una vita intensa, realistica, complicata da lotte talvolta sanguinose fra le

    fazioni dei ghibellini e dei guelfi favorevoli rispettivamente all’impero e al papato nella

    disputa per il potere temporale che si scontrano all’interno del comune e fra diverse città.

    Inoltre, i rimatori toscani non erano più funzionari di corte come erano stati il Notaro e gli

    altri siciliani e non si riuniscono intorno ad un unico centro di potere. I poeti toscani sono per

    lo più notai, medici, giudici, banchieri spesso impegnati nella gestione della vita comunale. Il

    diverso assetto politico non mancò di proiettare i propri riflessi sulla storia della poesia il che

    implicò un’evoluzione della tematica ed un’apertura verso argomenti politici sull’esempio del

    sirventese provenzale. I poeti toscani hanno ripreso la tradizione siciliana adattandola e

    trasponendola ad un ambiente differente, alla realtà linguistica, sociale e politica della

    Toscana.

    Cambiando atmosfera politica, ambiente e pubblico, la poesia si adatta alla realtà

    nuova che la circonda. I poeti toscani assumono la tematica amorosa tradizionale ma

    approfondiscono allo stesso tempo il piano psicologico ed intelletuale con un ulteriore

    processo di spiritualizzazione dell’amore che viene concepito come un incentivo alla

    conquista della virtù non soltanto cavalleresca, ma morale in senso lato. Questo motivo,

    attraverso Guittone d’Arezzo, Chiaro Davanzati, Monte Andrea e Bonagiunta da Lucca,

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    prepara l’originale esperienza degli stilnovisti. Sul piano contenutistico la novità di maggior

    rilievo consiste dunque nell’ingresso della tematica religiosa e spirituale nel repertorio della

    lirica volgare

    II.3 – I maggiori rappresentanti

    II.3.1 - Guittone d’Arezzo

    L’esperienza della poesia toscana è massimamente rapprensentata da Guittone

    d’Arezzo considerato come il suo massimo esponente che ha fatto sue le tematiche

    privilegiate della « scuola » siciliana introducendovi però alcune differenze dovute ad una

    situazione politica e sociale diversa. Guittone d’Arezzo vissuto fra il 1230 e il 1294, è ilprincipale esponente letterario dell’agiata borghesia guelfa, anzi il fondatore, in quell’ambito,

    della sua espressione volgare. Per l’oltranza del suo zelo formale, nutrito di cultura provenzale

    non meno che latina, e spinto in qualche parte della sua produzione ad eccessi verbalistici,

    non di rado enigmistici, molto di là dal punto raggiunto in alcuni sonetti del Notaio, Guittone

    sembra trasferire alla sua regione ed alla sua classe e parte, ingigantendola, l’ambizione

    retorica degli aristocratici siciliani. È l’autore di un ampio canzoniere che lascia trasparire una

    forte personalità di uomo e di scrittore. Il canzoniere come la sua vita è diviso in due parti.

    Nella prima parte prevale (domina) la poesia amorosa sul modello siciliano e soprattutto

    provenzale al quale lo scrittore attinse (puisa) più direttamente. Descrive i momenti della vita

    amorosa con l’alternarsi di gioia e dolore ed insiste su una tematica che appariva già presso i

    siciliani : quella che considera la donna come fonte d’ogni valore, d’ogni virtù capace di

    introdurle nel cuore degli uomini. La seconda è dominata dall’esperienza religiosa che spinse

    l’autore e l’uomo ad abbandonare la vita mondana e cioè la vita del mondo, la moglie, i figli,

    la vita di famiglia, di sposo e di padre, per ritirarsi nel mondo religioso ed entrare a far parte,

    nel 1265, dell’ordine dei Cavalieri di Santa Maria, fondato nel 1261 a Bologna, e detto anche

    ordine dei Frati Godenti, i cui ideali erano la salvaguardia della pace, l’accordo fra le opposte

    fazioni, la difesa delle donne (ma fatto strano, Guittone non esitò ad abbandonare la sua per

    salvare le altre), la difesa dei fanciulli ( !), dei poveri in nome della Vergine Maria.

    Altro tratto saliente del canzoniere giuttoniano, tranne la divisione in due parti, è il

    fatto che Guittone appare molto legato all’ambiente poetico del suo tempo come lo

    sottolineano le frequentissime rime di corrispondenza che scambiava con i più noti rimatori

    toscani dell’epoca. Questi scambi rivelano come Guittone almeno per un venticinque anni (dal

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    1255 al 1280) esercitava una specie di dittatura (parola che viene dal verbo « dettare » e

    dunque legata al mondo della scrittura come il francese « dicter ») intellettuale ed artistica su

    tutta la Toscana. Guittone venne considerato ed ammirato come un maestro. Fu innanzitutto

    maestro di stile ma anche di moralità e di umanità. Creò un modello di canzone d’amore

    ampio nel ritmo e nello svolgimento concettuale. Diede i primi alti esempi di canzone

    politico-civile. Segnò l’avvio alla moralizzazione e alla cristianizzazione del mito dell’amore.

    Richiamò insomma, la poesia alla realtà immettendo in essa il rigore morale, la sua cultura e

    la sua dottrina. Va anche notato che con Guittone, per la prima volta nella storia della lirica

    italiana, appare l’aspirazione di un poeta a costruire un vero e proprio libro di versi.

    Tramite questo ritratto di Guittone avvertiamo già un certo cambiamento rispetto ai

    rappresentanti della « scuola » siciliana. Infatti essi legavano il mondo poetico al mondo

    politico. Rispetto all’ambiente cortile delle poesia siciliana, la situazione si era evoluta.

    Infatti, la volontà primiera di Federico II era quella di unificare l’Italia. La situazione della

    Toscana è molto diversa. Questa regione è in preda a diversi conflitti che oppongo i guelfi ai

    ghibellini tramite scontri feroci e numerosi in seno ai comuni e tra le diverse città. Tali

    conflitti per via della loro importanza e frequenza non potevano essere ignorati dalla poesia

    toscana perché facevano parte della vita sociale e politica, della vita quotidiana dei toscani..

    Per via di conseguenza, la poesia amorosa si accompagna alla poesia politica e civile che

    riflette i conflitti che lacerano la vita toscana.. La poesia provenzale aveva già lasciato spazio

    accanto alla poesia cortese ai problemi politici, due tematiche che venivano talvolta legate in

    seno ad un poema che trattava insieme di guerra e d’amore. Questo ravvicinamento è stato

    facilitato dal topos della guerra d’amore. Ma con i poeti toscani e soprattutto con Guittone

    d’Arezzo, la poesia sembra più vicina alla realtà politica ma insieme al mondo religioso.

    Infatti, la vocazione primiera di Guittone non fu quella di poeta, ma tramite la poesia si eresse

    in maestro e correttore di costumi, apparve come amatore e sollecitatore della virtù. Questo

    carattere spiega il fatto che la poesia sia costantemente portata all’oratoria, al dialogo e noncadda mai nel convenzionalismo. Provò a dare all’arte poetica un fine utilitaristico, un fine

    virtuoso per gli uomini. Prese l’impegno di piegare l’arte a tutte le esigenze del vivere sociale

    e per ciò fare, dovette ricercare un’orditura complessa e sapiente che anticipa le canzoni di

    « rettitudine », cioè le canzoni che esaltano la virtù e la diritta via che permette di ritrovarla,

    in una parola, le canzoni di Dante.

    Inoltre, la sua poesia contrasta con la lirica siciliana soprattutto nel modo di trattare la

    materia. I siciliani trattavano certe immagini che erano elementi essenziali e permanenti dellapoesia come per esempio il topos della donna bionda dal viso chiaro. Guittone invece è molto

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    più intellettuale e parla di amore tramite un ragionamento nel quale discuta e dimostra diversi

    suoi aspetti. Gli sarà d’altronde rimproverato di essere troppo professolare il che conferisce un

    lato pesantemente dimostrativo alle sue liriche perché sia apprezzato da tutti come per

    esempio nel sonetto  Dolente, triste e pien di smarrimento. Il marchio più evidente della sua

    poesia è senz’altro la tendenza ad un discorso in versi prevalentemente ragionativo che

    procede per antitesi e per ipotesi. Alfredo Schiaffini osservò che « la stessa poesia amorosa da

    cortese si trasforma, nel Canzoniere guittoniano, in ragionante ».

    Pur tuttavia Guittone non può essere considerato come un grande poeta per via dei

    suoi componimenti, ma grande fu la sua importanza nella letteratura del Duecento. Infatti fu

    proprio lui a rompere, a staccarsi un po’ dai modelli siciliani e provenzali per diventare

    l’iniziatore, il precursore, un letterato sapiente che diede vita a nuove forme ed a nuovi schemi

    che fossero atti ad accogliere e trascrivere la multiforme vita della coscienza umana. La sua

    poesia esercitò fascino sui lettori e sugli altri rimatori per via della sua cultura poetica. Infatti,

    oltre a conoscere i poeti siciliani, risulta esperto di lirica trobadorica più di chiunque altro

    della sua epoca.

    Per quanto riguarda la sua espressione poetica : il suo linguaggio è mescolato di

    espressioni dialettali che Dante gli rimproverava acerbamente e ferocemente ed anche di

    suggestioni colte, latine, siciliane, provenzali spesso in tono disarmonico. Spiace anche

    generalmente al nostro gusto « moderno » l’abuso di certi procedimenti stilistici che

    appesantiscono il ritmo come per esempio quello della replicacio, cioè della ripetizione delle

    parole. Possono anche spiacere certi giochi di parole che sembrano essere attribuibili ad un

    compiacimento di enigmista più che di scrittore. Facciamo un esempio. In una sua canzone

    « amore » significa « a morte », cioè gioca sulla grafia quasi simile delle due parole per

    insistere sul fatto che l’amore porti con sé tristi effetti morali che possono essere quelli della

    passione amorosa. Ma di tale ricerca stilistica non può venire imputato Guittone perché era

    legata al gusto del tempo che intendeva la poesia soprattutto come artificio stilistico e speciein accordo con la tradizione dei provenzali che erano addirittura giunti ad una sorta di

    linguaggio ermetico chiamato « trobar clus » in opposizione alla poesia più semplice e

    trasparente chiamata « trobar clar ». Guittone si iscrive nella linea dei poeti del « trobar clus »

    che intende emulare.

    Del suo ampio canzoniere, possimao ricordare i sonetti Tuttor ch’eo dirò “gioi’, gioiva

    cosa il cui verso liminare lascia già intravedere lo stile guittoniano;  Dolente, triste e pien di

    smarrimento; la canzone Ahi lasso, or è stagion del doler tanto…

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    II.3.2 - Bonagiunta Orbicciani

    Nei principali centri di Toscana appaiono poeti nella scia di Guittone. Vennero

    chiamati i siculo-toscani ed apparvero soprattutto nelle città di Lucca, Pisa, Pistoia e Firenze.Tra questi cosiddetti siculo-toscani possiamo fare il nome di Bonagiunta Orbicciani.

    A differenza di Guittone d’Arezzo, si sa poco su di lui tranne il fatto che fosse lucchese e

    probabilmente notaio, vissuto intorno alla metà del Duecento. I critici lo considerarono spesso

    come un guittoniano, vale a dire come un seguace di Guittone d’Arezzo, ma ora si è piuttosto

    inclini a considerarlo come « l’autentico trapiantatore dei modi siciliani in Toscana » come lo

    sostiene il Contini. Bonagiunta da Lucca fungerebbe quindi da legame tra la materia

    guittoniana ed il dolce stil novo che le farà seguito. In realtà non appare dunque come un

    massiccio guittoniano ma piuttosto come un rimatore rimasto vicinissimo ai Siciliani e

    particolarmente a Giacomo da Lentini come gli rimproverava l’autore, forse Chiaro

    Davanzati, del sonetto Di penne di paone. Comunque sia, molto incline alla canzonetta ed alla

    ballata, non sprovvisto di iniziative metriche, è il miglior ponte fra i Siciliani e gli stilnovisti

    fiorentini, la cui produzione giovanile ne contiene precisi ricordi ; e polemizzò col

    Guinizzelli, rimproverandogli un certo intellettualismo universitario. Certo è che lui appare

    lontano dal trobar clus, cioè dallo stile arduo e spesso volutamente oscuro di Guittone e la

    predilezione per i temi morali risale alla tradizione provenzale. Comunque sia appare più

    vicino agli stilnovisti di cui anticipa certe cadenze e la predilezione per lo stile piano. È

    l’autore del sonetto Voi, ch’avete mutata la mainera  rivolto a Guinizzelli nel quale prende

    posizione contro il dolce stil novo, al quale Bonagiunta, seguace del trobar leu, cioè di una

    poesia più immediata e facile da capire, d’un poetare chiaro e piano, rimprovera la sottigliezza

    intellettualistica che si traduce in stile oscuro e difficile.

    II.3.3 – Chiaro Davanzati

    È di gran lunga il più abbondante dei « siculo-toscani » oltre Guittone. Scrisse varie

    decine di canzoni ed oltre un centinaio di sonetti. È quindi il più fecondo dei fiorentini. La sua

    opera è un compendio di medie qualità trobadoriche ma non ebbe fortuna duratura. Non viene

    mai nominato da Dante. Lo ricordiamo per il sonetto  Di penne di paone  che gli è stato

    attribuito e nell’ambito del quale accusa Bonagiunta da Lucca di aver plagiato Giacomo da

    Lentini.

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    III – Il dolce stil novo

    III.1 – Le origini del Dolce Stile e la definizione dantesca

    Nel corso della storia, si sa, i mutamenti non avvengono di soprassalto, ma sono il

    risultato di un processo lento e graduale. Così fu anche per la novità rapprensentata nella

    Toscana dello scorcio del Duecento, dalla maniera poetica che si è soliti indicare con la

    formula dantesca di « stil novo ». La generazione di rimatori fiorentini nata durante gli anni

    sessanta o al principio del decennio successivo era cresciuta in un’aura intrisa di guittonismo.

    Se alcuni non pensarono di affrancarsi da quella poetica, altri ne sentirono prepotentemente il

    bisogno a partire almeno dagli anni ottanta. Fra gli ultimi decenni del Duecento ed i primi del

    Trecento si sviluppa nella lirica d’arte italiana, il movimento che prenderà il nome di « dolce

    stil novo ». A Bologna dove era pur penetrato l’esempio poetico di Guittone, un rimatore erariuscito a liberarsi da tale condizionamento come da quello cortese e sicilianeggiante. Tale

    personaggio è Guido Guinizzelli che si è soliti identificare con un uomo di fede ghibellina.

    Venne seguito da un gruppo di fiorentini tra i quali figuravano : Guido Cavancanti, Dante

    Alighieri, Lapo Gianni, Gianni Alfani, Dino Frescobaldi e Cino da Pistoia.

    Il nome di questo nuovo movimento poetico deriva dallo stesso Dante e più

    precisamente ancora dal canto XXIV del Purgatorio  nel quale l’Alighieri immagina

    d’incontrare Bonagiunta Orbicciani tra i golosi del sesto girone.

    « O frate, issa vegg’io, diss’elli, il nodoche ‘l Notaro, Guittone e me ritennedi qua dal dolce stil novo ch’i’ odo », Purgatorio XXIV, v.55-57

    Interrogato da Bonagiunta se egli sia veramente l’autore della straordinaria canzone

     Donne ch’avete intelletto d’amore, e per via di conseguenza l’inventore delle « nove rime »,

    Dante finge di darsi ad una dichiarazione poetica secondo la quale l’originalità dei poeti del

    dolce stile  rispetto ai siculo-toscani consisterebbe nel fatto che essi scrivono seguendo ladiretta ispirazione d’Amore, ciò che egli « ditta dentro ». In altre parole, all’invito di

    Bonagiunta, Dante replica con la dichiarazione poetica che lo vuole trascrittore dei dettami di

    Amore :

    « E io a lui : -I’ mi son un che, quandoAmor mi spira, noto, e a quel modoch’e’ ditta dentro vo significando », Purgatorio XXIV, v.52-54

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    Tale concezione sarà ribaditi nei versi seguenti pronunciati dallo stesso Bonagiunta :

    « Io veggio ben come le vostre pennedi retro al dittator sen vanno strette,che de le nostre certo non avvenne ;e qual più a guardar oltre si mette,non vede più da l’uno a l’altro stiloe, quasi contentato, si tacette », Purgatorio XXIV, v.55-63

    Ma l’interpretazione del passo dantesco è molto più complessa e rivela in realtà che

    l’Alighieri non è affatto discepolo di una poesia immediata. Insomma, con tale esposizione,

    Dante non rivendica una maggiore immediatezza o spontaneità che sia, ma la capacità di

    penetrare più a fondo il significato, l’essenza dell’esperienza amorosa, sia sul piano

    psicologico sia sul piano intellettuale o conoscitivo e di rappresentarla con uno stile adeguatoall’oggetto : atto cioè ad esprimere la « dolcezza » del sentimento amoroso. Questo stile

    nuovo viene qualificato di « dolce », vocabolo quasi tecnico ad indicare un ideale di fusione

    melodica, e di « novo », cioè ispirato all’iniziativa che detta le « nove rime », all’intenzione

    « di prendere per materia de lo mio parlare sempre mai quello che fosse loda di questa

    gentilissima » come Dante dice nella Vita Nuova. Inoltre, va notato che la definizione

    dantesca trasferisce nell’ambito della poesia profana una definizione dell’espressione

    dell’amore mistico formulata circa il 1152 da frate Ivo, discepolo di san Bernardo che si trova

    anche nel Tractatus de gradibus charitatis  ossi Trattato dei diversi gradi della santissima

    carità di Riccardo da San Vittore (Richard de saint Victor). Tale trasferimento indica quanto il

    dolce stil novo  sia ricco d’intenzioni culturali. La poesia diventa celebrazione d’amore, e

    amore è conoscenza di « miracoli », vale a dire per analogia, degli enti e delle verità superiori,

    ineffabili. Il linguaggio che ispira il Dolce stile è sempre più nettamente quello della

    Scolastica, ma va subito precisato che la filosofia vi è presente soprattutto come fonte

    linguistica e riserva d’immagini.

    Va anche precisato che il « dolce stil novo » non può essere considerato come una

    scuola in quanto i poeti non sono organizzati attorno ad una dottrina o ad un programma

    comune ed uniforme ma si tratta invece di una riunione di poeti che condividono interessi

    comuni, esperienze poetiche ed amorose simili che sono ravvicinati da una lingua ed uno stile

    comuni. I poeti che ricevettero l’epiteto di stilnovisti si caratterizzano soprattutto da una

    tonalità, associante freschezza melodica e carica concettuale e da una forma di visualizzazione

    struggente e modulata. Il Dolce stile rappresenta differenze dottrinali soprattutto per quanto

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    riguarda la concezione di amore, divergenze che possono lasciare pensare che certi poeti

    fossero opposti ma pur tuttavia le tematiche comuni rimangono fondamentali.

    III.2 – Le caratteristiche del Dolce StileIII.2.1 – La fedeltà alla tradizione anteriore  

    Benché si tratti di un movimento poetico che rivendica la novità e l’originalità, non

    mancano tuttavia certe tematiche, certi motivi presi alla lirica « cortese » di cui riprendono i

    motivi distintivi. La nobiltà d’Amore : Per esempio, gli stilnovisti accogliono il tema

    dell’esaltazione di Amore come suprema forma di aristocrazia spirituale e affermano che la

    vera nobiltà o « gentilezza », termine che torna spesso nelle loro poesie, risiede nell’animo

    anziché nei diritti della nascita e del censo. La nobiltà passa dalla sfera del sangue a quella delcuore e dell’intelletto. Proveniente dal mondo borghese, il dolce stil novo celebra il cor gentil 

    (le noble cœur), topos  che identifica nobiltà ed amore e rimette in causa il principio della

    nobiltà di sangue a favore della nobiltà di cuore. La Donna Angelo : Inoltre, riprendono e

    sviluppano la rappresentazione tipica degli ultimi provenzali che facevano della donna una

    figura angelicata ispiratrice di un amore che corrisponde prima di tutto all’elevazione

    spirituale. La donna appare dunque sotto i tratti della donna angelo (de la dame ange) che

    permette di innalzare le virtù morali e spirituali degli uomini. Insomma gli stilnovistiriprendono numerosi altri spunti figurativi organizzando tuttavia queste suggestioni in una

    ideologia più complessa.

    III.2.2 – L’originialità del Dolce Stil Novo  

    Vediamo ora in che consiste la loro originalità. Un pubblico nuovo : Originale è, in

    primo luogo, il loro definirsi come un pubblico nuovo di produttori e utenti della poesia,

    legato da amicizia. Definiscono il loro gruppo come la libera accoglienza di « cori gentili »

    capaci di vivere e di intendere una nobilitante esperienza d’amore. Gli stilnovisti si rivolgono

    ad un pubblico ideale composto di donne e di uomini che « hanno intelletto d’amore ». Si

    tratta di un gruppo di intellettuali che non coincide più con la corte ma che vive nella civiltà

    cittadina e fonda il sentimento della propria aristocrazia prima di tutto sulla cultura percepita

    come conquista individuale. Per via di conseguenza, la loro dottrina d’amore non si

    accontenta del tradizionale galateo cortese (cioè del regole dell’amore cortese) ma s’ispira

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    anche e soprattutto alla filosofia insegnata nell’Università : il « senno » che viene da Bologna

    cioè dalla famosa università di Bologna, secondo il rimprovero ironico rivolto loro da

    Bonagiunta Orbicciani nel sonetto Voi, ch’avete mutata la mainera.

    Ma in che cosa consiste quella loro mainera nuova ?

    La Psicologia dei sentimenti : Gli stilnovisti si interrogano principalmente

    sull’origine e la natura di amore che intendono definire attraverso il loro fondamentale aspetto

    psicologico. La poesia raggiunge sempre più un certo livello di coerenza e di logica tramite lo

    sperimento della lingua poetica. I poeti desiderano dare una dottrina d’amore. Per via di

    conseguenza i sentimenti antitetici cagionati da Amore : gioia e tormento amoroso, il

    contrasto tra  joy  e dolor   dei provenzali, la contemplazione entusiastica della bellezza e la

    passione conturbante vengono ricondotti a quel complesso di rappresentazioni mentali che

    generano il sentimento. L’analisi del sentimento amoroso coinvolge allora tutta la vita della

    coscienza perché la psicologia medievale consisteva nella dottrina filosofica dell’anima. Gli

    stilnovisti possono definirsi da una totale fedeltà all’ispirazione amorosa, sono attenti alla

    singolarità di ogni esperienza intima d’amore. Coltivano una poesia d’introspezione e di

    autobiografia interiore ma sono anche in cerca di oggettività che mira ad enunciare lo statuto

    dell’amore e dell’amante nel linguaggio che era quello della metafisica e della psicologia del

    Duecento.

    La Filosofia  : Si avverte così negli stilnovisti l’influsso della ricerca filosofica del

    tempo dal nuovo aristotelismo alle correnti mistiche confluite nella filosofia di san

    Bonaventura di Bagnoreggio, fra le quali particolare importanza riveste la cosiddetta

    « metafisica della luce ». Secondo questa teoria, la luce sarebbe il principio dell’essere, della

    vita ; lo splendore, in tutto il creato, della suprema mente creatrice, cioè di Dio, riflessa dalle

    intelligenze angeliche motrici dei cieli e dalle creature umane più elevate che diventano un

    vero incentivo a partecipare all’essere e alla verità. Questa teoria ispirò profondamente la

    presentazione e l’esaltazione della donna e dell’amore. Pur tuttavia, questa come altri punti di

    pensiero non sono svolti su di un piano filosofico sistematico ma tradotti in un sistema di

    immagini poetiche che potrebbe essere sintetizzato così :

    Sistema di immagini : La bellezza della donna (che si esprime attraverso metafore di

    luce e di splendore) è manifestazione della perfezione dell’essere alla quale aspira l’anima e

    l’amore corrisponde a quest’aspirazione. La bellezza viene così considerata come la

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    rivelazione del bene e amore come l’esaltazione della nobiltà dello spirito, ma anche come

    tensione spesso insoddisfatta e tormentosa.

    Lo spiritualismo : La lode della donna ricoprirà con Dante un significato metafisico e

    mistico. Al capitolo XIX della Vita Nuova (Vie Nouvelle) Dante identifica la lode della donnaall’esenza d’amore e della poesia d’amore : inaugurando così un lirismo che celebra un amore

    puro, lodativo, disinteressato che si compiace delle lodi. Ma la lode della donna anche quando

    questa viene « angelicata » rimane un semplice topos. Tale misticismo che colorisce la lode

    della donna ricuopre due forme. Per certi come per Guido Guinizzelli, si tratta soltanto di un

    ornamento di stile lessicale e tematico, una specie di gioco letterario, di metafora. Quando

    Guinizzelli, nella sua canzone dottrinale  Al cor gentil rempaira sempre amore, paragona la

    sua donna ad un angelo si tratta soltanto di un’immagine topica. Altri invece s’ispirano

    direttamente alla letteratura religiosa e mistica. Di quelli fanno parte Dante. La Vita Nuova,

    può, sotto diversi aspetti essere considerata come la « leggenda di santa Beatrice », cioè come

    un’opera realizzata sul modello dell’agiografia francescana.

    Ma tale spiritualismo e miticismo ai quali il solo Guido Cavalcantoi farà eccezione

    nella sua canzone Donna me prega, non possono far dimenticare che il dolce stil novo canta

    un amore adultero o per lo meno un amore estraneo alle leggi del matrimonio e per via di

    conseguenza che dovrebbe essere del tutto incompatibile con la mistica cristiana. Si tratta

    dunque anche in questo caso di un’espressione poetica topica fatta di convenzioni letterarie

    nell’ambito della quale sarebbe inutile cercare la traduzione immediata della realtà oggettiva.

    III.2.3 – Lo stile  

    Ma più che nella tematica, la dimensione unitaria della « scuola » si avverte soprattutto

    nell’ambito dello stile. Caratteristici degli stilnovisti sono il gusto per la drammatizzazione

    degli eventi interiori, la donna come baleno di luce, di primavera e l’impegno stilistico

    culmina nella ricerca di un linguaggio « dolce » adatto ad esprimere la soavità d’amore e le

    immateriali sfumature della vicenda interiore. Il dolce stil novo è l’opera d’intellettuali laici e

    borghesi profondamente legati alla vita dei Comuni. Si tratta di una poesia scritta da e per

    l’« élite » intellettuale che si sta formando in seno al mondo comunale. Rialza il volgare

    toscano al livello di lingua letteraria nobile e di modello linguistico supraregionale.

    Il dolce stil novo rimase un’esperienza aristocratica fortemente selettiva nei confronti

    del pubblico e anche negli argomenti in tal modo che riflette soltanto parzialmente la realtà

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    complessa dell’epoca. Ma importante è il suo significato storico. Prima di tutto per il suo

    perentorio richiamo all’interiorità, il suo impegno filosofico che attesta l’affermarsi di un’alta

    cultura laica in volgare, la sua rifondazione del mito d’amore ricondotto alla vita della

    coscienza delineando così una visione più complessa della psicologia umana. Questi motivi

    tranne alcune astrattezze passeranno nella lirica del Petrarca e poi in quella posteriore.

    III.3 – I maggiori rappresentanti

    III.3.1 - Guido Guinizzelli

    Guido Guinizzelli per primo cominciò questa poesia nuova. Venne d’altronde

    considerato da Dante come il “padre” del dolce stil novo al canto XXVI del Purgatorio, cioècome il suo iniziatore e fondatore.

    Guido Guinizzelli nacque a Bologna fra il 1230 e il 1240, parteggiò per la famiglia dei

    Lambertazzi che erano ghibellini e fu per questo mandato in esilio a Monselice. Morì circa nel

    1276. Ecco le poche indicazioni che abbiamo della sua vita. A parte questo, certi suoi

    componimenti ci lasciano intravedere un apprendistato legato alla tradizione siciliana come

    per esempio la canzone Donna, l’amor mi sforza e ossequioso dell’autorità di Guittone come

    ne testimonia il sonetto O caro padre meo, de vostra laude. Scrisse infatti componimenti

    ispirati al più intenso manierismo del tipo siculo-toscano. Altri tuttavia provocarono presto

    reazioni più o meno violente da parte dei maestri toscani. Probabilmente verso

    l’incondizionato elogio muliebre dei suoi sonetti  Io vogl’ del ver la mia donna laudare  e

    Vedut’ho la lucente stella diana, Guittone stesso rivolse la reprimenda del proprio S’eo tale

     fosse ch’eo potesse stare. Bonagiunta Orbicciani lo rimproverava nel sonetto Voi, ch’avete

    mutata la mainera  di aver stravolto i modi della lirica d’amore rinfacciandogli anche un

    eccesso di sottigliezza. L’attacco si chiude con una dichiarazione di meraviglia in senso

    negativo per la fattura di canzoni tanto dotte quanto astruse, composte con materiali prelevati

    dalla letteratura dottrinale. L’accenno a tale testura dottrinale fa pensare che il bersaglio di

    Bonagiunta fosse costituito dal testo più celebre del Guinizzelli ovvero dalla canzone

    programmatica che fin dalla prima stanza poneva la nobiltà di cuore a fondamento del

    sentimento e del discorso amoroso, vale a dire la canzone  Al cor gentil rempaira sempre

    amore. Insomma, Guido Guinizzelli, da buon fedele guittoniano che era stato, divenne

    l’innovatore denunciato da Bonagiunta come soverchiato dall’intellettualismo.

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    Dal suo canzoniere lo vediamo in effetti ripercorrere ed assimilare la tradizione

    siciliana e toscana, chiamar Guittone suo maestro ma distaccarsi progressivamente da ogni

    modello precedente per via della sua genialità inventiva. Il Guinizzelli comincia dunque col

    riprendere la poesia ed i motivi che erano stati quelli di Guittone d’Arezzo per volgersi dopo

    verso uno stile più « dolce » nella sua espressione ma pur tuttavia sommamente intellettuale.

    Sarà effettivamente chiamato « il saggio » da Dante, naturalmente per la canzone  Al cor

    gentil, fin dal sonetto incluso nella Vita Nuova che comincia « Amor e ‘l cor gentil sono una

    cosa, / sì come il saggio in suo dittare pone ». Certe sue immagini nuove saranno riprese e

    sviluppate da altri stilnovisti. Per esempio, il motivo della donna angelo, del saluto che porta

    beatitudine e salvazione all’animo liberandolo da ogni peccato e donandogli purezza e virtù,

    del poeta piagato d’amore, che « porta morte » in sé, nel senso che l’amore pone l’anima in un

    travaglio angoscioso.

    Per quanto riguarda le tematiche ed i concetti, se non è nuova l’identificazione di

    amore e virtù, di amore e nobiltà vera, che è prerogativa dell’anima e non dote ereditaria,

    nuovo è l’entusiasmo con cui vengono espressi. Caratteristico del Guinizzelli è anche

    l’atteggiamento di riflessione sui propri sentimenti, la passione intellettuale con cui definisce

    il proprio animo e gli effetti che l’amore produce in esso. Amore per lui è trionfo di

    spiritualità, di fervore e d’intima vita. Nella sua poesia la donna è quella che porta il

    « saluto ». Il poeta si compiace dell’analogia tra « saluto » che indica il fatto di salutare

    qualcuno e « salute » nel senso che la donna col suo saluto porta la salvezza dell’anima.

    Inoltre, il valore della donna consiste nello « stupore » quando appare al poeta. Lo stupore

    equivale più o meno al colpo di fulmine tramite il quale il poeta amante viene sbarazzato,

    depurato da ogni cattivo pensiero, purificato dal valore della donna. Ma tale purificazione si

    accompagna ad una paralisi di tutte le funzioni vitali dell’amante chiamate dalla medicina

    medievale « spiriti ».

    Al suo canzoniere appartengono la canzone  Al cor gentil rempaira sempre amore cheviene considerata come il « manifesto » del dolce stil novo, cioè come l’esposizione, la

    definizione dei principali temi di questo movimento poetico. Alla sua opera appartengono

    anche numerosi sonetti come Io voglio del ver la mia donna laudare ; Lo vostro bel saluto e ‘l

    gentil sguardo ; Vedut’ho la lucente stella diana ; Sì sono angostïoso e pien di doglia…

    Ma nell’ultimo quarto del Duecento un problema in particolare s’imporrà

    all’attenzione dei lirici in volgare quello di coniugare l’esperienza della lirica d’amore con la

    società comunale e soprattutto con la spiritualità cristiana. Dante rimoverà in modoconcettuale l’ostacolo che si frapponeva tra il poeta e il suo canto d’amore instaurando lo stile

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    della lode come lo spiega nella Vita Nuova  XVIII : ovvero tratteggiando un nuovo tipo

    d’innamorato che non si prefigge di ottenere ricompensa alcuna se non quella di tessere

    l’elogio della propria donna. Su questo terreno si svilupperà la riforma stilnovistica

    avvalendosi delle acquisizioni guinizzelliane.

    III.3.2 - Guido Cavalcanti

    Anche di lui abbiamo scarse notizie. Nacque da una nobile e potente famiglia

    fiorentina fra il 1255 e il 1259. Fu guelfo di parte bianca e amico di Dante anzi il suo « primo

    amico » come dirà lo stesso Dante nella Vita Nuova al quale dedica l’opera giovanile. Fu un

    appassionato uomo di parte, fieramente avverso a Corso Donati, capo della fazione rivale cioè

    dei guelfi Neri. Fu esiliato nel 1300 a Sarzana ma subito dopo riammesso a Firenze. Morì

    poco dopo il ritorno in patria.

    I cronisti dell’epoca, Dino Compagni e Giovanni Villani e, più tradi, il Boccaccio lo

    rappresentarono come un uomo aristocratico nei modi e nel sentire : « uno giovane gentile,

    figliuolo di messer Cavalcante Cavalcanti, nobile cavaliere, cortese e ardito ma sdegnoso e

    solitario e intento allo studio » dice il Compagni ; filosofo di profonda dottrina : tutti e

    soprattutto il Boccaccio insistono su questa concentrata vita interiore volta alla meditazione

    delle ragioni dell’esistenza, meditazione che non sembra essersi placata nella certezza di una

    fede rasserenatrice.

    All’inizio della sua produzione lirica, si muoveva ancora nel solco dei siciliani e di

    Bonagiunta come nella celebre ballata Fresca rosa novella composta probabilmente per una

    festa di Calendimaggio. Poi diventerà fedele ai modi ed alla tecnica di Guido Guinizzelli in

    componimenti come Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira. Ma a poco a poco e già con la

    canzone dottrinale  Donna me prega, si allontana decisamente dalla poetica della dulcedo  in

    favore di un tessuto formale artificioso che riflette la densità e la durezza del raginamento. Al

    centro del suo canzoniere sta l’esperienza dell’amore colta nel suo carattere di nobile

    avventura dell’anima. Ma negli schemi tradizionali della poesia stilnovista, il Cavalcanti

    esprime un tormento, una tristezza che lo distinguono sia dal Guinizzelli sia da Dante e

    rivelano una visione conflittuale non solo dell’amore ma della vita in genere.

    Anch’egli ha la sua canzone-manifesto,  Donna me prega perch’eo voglio dire, una

    canzone che si rivela difficile a capire per l’oscurità del frasario filosofico e la complessa

    elaborazione stilistica. Ma pur tuttavia, la conclusione appare chiara : il poeta consepisce

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    l’amore come passione propria della parte sensitiva dell’animo e quindi non come spinta al

    perfezionamento delle virtù intelletuali e morali secondo le concezioni guinizzelliana e

    dantesca, ma come sentimento violento e tormentoso, come sofferenza, e spesso come

    distruzione d’ogni facoltà fisica e spirituale. Parimenti estranea all’ideologia stilnovistica è la

    teoria dell’amore come passione dell’anima sensitiva che sovverte le facoltà dell’intelletto. Il

    contenuto filosofico, di matrice averroistica ha poi le sue implicazioni sul piano del lessico

    con i tecnicismi attinti alla terminologia della filosofia naturale.

    Allo stesso modo, la donna non è più considerata come faro di luce e di spirituale

    perfezione, ma creatura la cui bellezza sensibile è fonte per il poeta di entusiastica

    contemplazione, senza però che questo sentimento si innalzi a un’idealità superiore. Amore è

    dunque forza tirannica che affascina e al tempo stesso addolora. Di qui l’alternarsi nel canto

    del poeta di immagini di luce e di tenebra, di gioia e d’angoscia.

    La tonalità più specificamente stilnovistica della poesia del Cavalcanti consiste nel

    fatto che questo dramma è colto e rappresentato in rarefatte immagini d’interiorità, in una

    sorta di mitologia dell’animo e della passione.

    Della sua composizione sono oltre la canzone-manifesto  Donna me prega, i sonetti

     Avete ‘n vo’ li fior’ e la verdura ; Chi è questa che vèn, ch’ogn’om’ la mira ;Voi che per li

    occhi mi passaste ‘l core ;Tu m’hai sì piena di dolor la mente ; le ballate La forte e nova mia

    disaventura ; Perch’i’ no spero di tornar giammai ; Era in penser d’amor quand’i’ trovai…

    III.3.3 - Cino da Pistoia

    Cino è il diminutivo di Guittoncino dei Sigibuldi. Nacque a Pistoia intorno al 1270 e vi

    morì nel 1336 o 1337. Fu insigne giurista e scrisse importanti commenti ai codici. Prese parte

    alle lotte politiche della sua città e sostenne per questo l’esilio. Fu amico di Dante la cui morte

    pianse in una canzone e come lui appoggiò e sostenne la politica di Arrigo VII. La donna che

    canta nelle sue poesie si chiama Selvaggia.

    Tecnico di diritto, Cino fu anche un pregevole dilettante di poesia, molto vicino al

    Dante della Vita Nuova. Più a lungo del Cavalcanti rimase fedele alla poetica stilnovista. Fu

    l’autore di un vastissimo canzoniere, insieme uniforme di accento e disparato di temi che non

    ha né la compattezza cavalcantiana né l’organica sperimentalità dantesca, ma è giunto

    nell’elaborazione del medio gusto lirico italiano. Questo suo canzoniere godette fortuna

    presso i posteri immediati mentre la critica moderna ha limitato il valore della sua poesia. Gli

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    viene riconosciuto il merito di essere stato un mediatore tra il dolce stil novo fiorentino e la

    poesia petrarchesca (del Petrarca). Meditando e rielaborando i modi stilnovistici, ne dissolve

    l’atmosfera rarefatta ed estatica, svolgendoli in un discorso che tende alla rappresentazione di

    sentimenti più quotidiani. Se il Cavancanti si astrae dalla realtà di tutti i giorni per farne

    sostanza di simboli universali, Cino intende rappresentare la sua vicenda d’amore in termini

    psicologici concreti con alternanza di speranza, desiderio, dolore e ricordo. Con Cino da

    Pistoia, la poesia amorosa torna ad un’espressione meno intellettuale che esprime il

    sentimento quotidiano in un linguaggio meno ricercato ed oscuro. Cino da Pistoia prese

    l’opzione quasi esclusiva nei confronti dei temi amorosi e il disinteresse verso sottili

    discettazioni filosofiche. In tono spesso elegiaco modulò molti motivi tipici dello stilnovismo:

    dalla donna angelicata nella ballata  Angel di Deo simiglia in ciascun atto, alla subitanea

    apparizione del sonetto Una gentil piacevol giovenella, all’attesa della morte nella canzone

     Degno son io di morte e al plazer  del sonetto Una ricca rocca e forte manto.

    Al suo canzoniere appartengono anche la canzone La dolce vista e ‘l bel guardo soave,

    il sonetto Io fu’ ‘n su l’alto e ‘n sul beato monte, ma maggior successo di ogni altro riscosse il

    testo della canzone che si apre con la stanza memorabile :  La dolce vista e ‘l bel guardo

    soave. Il longevo ed insigne giurista, addottoratosi a Bologna nel 1314 e divenuto poi lettore

    nelle università di Siena, di Perugia e di Napoli, ebbe non solo modo di piangere la scomparsa

    del grande amico Dante (avvenuta il 14 settembre 1321) nella canzone Su per la costa, Amor,

    de l’alto monte, ma di continuare ancora per una quidicina di anni a far sentire la propria

    presenza nel panorama poetico italiano, guadagnandosi all’atto della morte, nel 1336 o nel

    1337 il compianto funebre scritto da Petrarca, il sonetto Piangete, donne, e con voi pianga

     Amore, nel quale piange « ‘l nostro amoroso messer Cino ».

    Ecco per quanto riguarda il panorama della lirica duecentesca che nasce con la lirica

    siciliana, si sviluppa con la poesia toscana e finalmente con il Dolce Stile. Attraverso questosguardo complessivo abbiamo già fatto il nome di quelli che saranno considerati come i tre

    maggiori poeti fiorentini del Duecento e perciò chiamati le « Tre corone », vale a dire Dante,

    Petrarca e Boccaccio ai quali saranno dedicati i seguenti tre capitoli.

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