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Titolo: La forma e il contenuto: piccolo campionario dell’impoetico nella versificazione di Sandro Penna. Autore: Sonia Caporossi
Edizione a cura di: In realtà, la poesia
Anno: 2013
Vol.: 8
Il presente documento non è un prodotto editoriale ed è da intendersi a scopo
illustrativo e senza fini di lucro. Tutti i diritti riservati all’autore.
La forma e il contenuto:
piccolo campionario dell’impoetico
nella versificazione di Sandro Penna
di Sonia Caporossi
In realtà, la poesia
2013
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Sarà forse un puro caso, eppure c’è da chiederselo, che
Edoardo Sanguineti abbia infilato impunemente, nella sua
ormai prammatica antologia della Poesia italiana del
Novecento, datata nella sua prima edizione al 1969, alcune
fra le peggiori poesie mai scritte dal sabiano, pascoliano,
crepuscolare, postermetico Sandro Penna. Il sospetto della
più crassa premeditazione, seppure ad una lettura
superficiale, sorge spontaneo: che lo spirito
neoavanguardista del curatore abbia voluto schizomorfizzare
la memoria futura del penniano verso, condannandolo, in
contumacia poetica, ad una berlina mediatica, seppur
limitata all’elite degli addottorati in prosodia e metrica, quei
quattro o cinque consci lettori d’oggi insomma, è
convinzione che si avvalora enormemente allo scorrere
dell’indice finale col dito eponimo fra le poesie
selezionate; talché, seppure Penna, com’è noto, indulgesse
quasi sempre al petrarchesco modus canzonieristico della
numerazione romana e pochi titoli adducesse a
giustificazione della poesia di turno (perché bisogno di un
titolo quasi sempre non c’era punto, essendo Penna un
antisimbolista per eccellenza che rendeva immediatamente
evidente il senso e il significato delle sue nugae), l’atroce
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sospetto di cui sopra, che, ribadisco, è sempre più un
rovello fra le meningi del critico, trae conforto del suo
status esistenziale e gnoseologico a legger fra le scelte
sanguinetiane:
Trovato ho il mio angioletto
Fra una fosca platea.
Fumava un sigaretto
E gli occhi lustri avea.
Ed ancora amenità del genere:
O Zelindo, non sa la tua notte
I miei pensieri...
Per non tacer della veneta piazzetta, del treno che tarderà di
almeno un’ora, del bicchiere di latte e della piazza col monumento,
e dei bei ragazzi che salgono in compagnia dei genitori, con gli
occhi legati; metafora, quest’ultima, che evocativamente
richiama l’immagine di una fila non meglio identificata di
giovinetti imberbi, appena appena accennati al limite del
ritratto.
L’ironia grottesca sanguinetiana si evince dalle scelte
indotte in un florilegio falsamente pio perché
parzialissimo che, come si sapeva fin dalla sua prima
pubblicazione, tendenzioso e rivoluzionario almeno nelle
intenzioni era sì, eccome; altrimenti, e sia detto per inciso,
nel primo volume non avrebbe, il Nostro, dedicato cartelle
su cartelle ai componimenti disanonimi di quel Gian
Pietro Lucini, certo vate non grandissimo, ma neanche
grande a dirla tutta, onorato pur tuttavia del vero, in
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quanto primo introduttore del verso libero nella poesia
italiana, come dire: altro che D’Annunzio!
La tesi edoardiana sembrava insomma suggerire al lettore
ignaro che, se quelle erano le migliori cose scritte da
Penna, avremmo potuto figurarci facilmente le altre.
D’altro canto, molti erano stati i sostenitori, in campo
letterario, del versificatore perugino, a cominciare da un
entusiastico Pier Paolo Pasolini, compagno di matite e di
marchio esistenziale, che gli dedicava due saggi importanti
in Passione e Ideologia e la recensione di Un po’ di febbre poi
raccolta in Scritti Corsari, e per il quale Penna, in una lettera
indirizzata al bardo del febbraio 1970, era senz’altro figura
assurta ad una dimensione angelicata di uomo - culto,
santificato e laureato dal suo stesso abbandonarsi
pedissequo al desiderio pederastico, cotanto e cotale da
risultare crogiolo eufemistico di un’intonsa purezza. Scrive
infatti al poeta perugino il Pierpa nazionale: “In cosa
consiste la tua santità? Nel silenzio con cui hai rinunciato
alla vita e al suo godimento così come è inteso nella nostra
parte di storia in cui siamo apparsi su questa terra. Ripeto,
hai cercato il tuo godimento altrove, in cose considerate
da tutti futili, remote, incomprensibili, infantili e
sconvenienti […]. La tua esclusione di te stesso da un
mondo che del resto ti escludeva è stata una lunga ascesi,
fatta di notti e di giorni, in cui si ride e si piange, come
ingenui personaggi di opere romantiche senza né principio
né fine, con le loro croci e le loro delizie: una lunga ascesi
in cui, anziché pregare, hai cantato le forme del mondo
lontano. […] Che ciò abbia fatto di te - oltre che un santo
anarchico e un precursore di ogni contestazione passiva e
assoluta - forse il più grande e il più lieto poeta italiano
vivente - è un discorso che si svolge su un piano molto
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più basso di quello di questa lettera incerta e incompleta,
che riguarda più la tua poesia vissuta che la tua poesia
scritta”. E codesta lettera non poteva riguardare altro che
la poesia vissuta, tutt’al più, visto che, come andremo a
vedere, quella scritta è ben lontana, in Penna, dal
rabberciato stilema neoarcadico che Pasolini le attribuisce.
Epperò i dolori, le pagliuzze, per non dire le travi negli
occhi dei lettori consapevoli non cominciano tanto presto,
la mitizzazione poetica invece sì: essa, per Penna, non è
cosa recente, anzi affonda le radici fin negli anni Trenta,
nelle prime frequentazioni al caffè con Umberto Saba, che
attento e nascostamente sconvolto ne ascoltava gli ispirati
recitat fra una birra ed un cappuccino. A Saba piaceva,
piaceva molto quel “poeta turbante”, come ebbe a scrivere
in un frettoloso telegramma ad un incredulo Montale il
timido autore di quell’Ernesto che, lui vivente, non volle,
per pudore fariseo, fosse pubblicato mai. E “turbante”
Penna gli pareva essere forse in virtù della propria ipocrita
e vilipesa biografia, in cui l’omosessualità rimossa del
poeta triestino non fu mai manifesta, ma può esser letta
fra le righe nella sua concezione coniugale della
compagnia femminile, come quando chiama la propria
moglie, quella sì, santa donna!: una provvida formica, una
pavida coniglia, una bianca pollastra; immagini che a me sono
sempre sembrate poeticamente e ideologicamente molto
infelici. Insomma, chiunque abbia a che fare con pensieri e
desideri omoerotici, trova in Penna un delizioso paniere di
primizie che turba ed attira la turba. E perché?
Pier Vincenzo Mengaldo, nel suo voler tirare le somme sul
finire degli anni Settanta, non mi convinceva davvero mai
del tutto quando, in Poeti italiani del Novecento, a sua volta
sentenziava, discolpando programmaticamente l’autore da
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eventuali accuse di non saper versificare per la scelta, forse
non programmatica, di quel suo linguaggio esangue, che
“la natura totalmente trasgressiva della tematica di Penna
postula assolutamente un linguaggio non trasgressivo”. E
non mi convinceva non tanto perché, essendo quasi
contemporanea al primigenio incipit della
millenovecentotrentanovenne arte penniana, storicamente,
la raccolta delle traduzioni dai lirici greci di un qualsiasi
Quasimodo, pubblicata a cura di Anceschi nel 1940, per
tacere della traduzione artistica dell’Antologia Palatina nel
1968, mi sembrasse impossibile che il pubblico medio –
borghese non ne accogliesse tranquillamente i richiami
efebizzanti, stratoniani, alessandrini, e si scandalizzasse di
una ripresa tematica dell’amor greco di wildiana memoria
che, traslata nella società italiana miracolata dal boom
economico, pur permeata di valori democratico – cristiani,
rimaneva tuttavia retaggio culturale, già kavafisiano, di un
certo topos letterario antico come il mondo, che ormai,
almeno in versi, per tacer della Democrazia Cristiana, non
avrebbe dovuto scandalizzare più nessuno; quanto perché,
di trasgressione, in quel monolinguismo continiano,
petrarchesco ed ossessivo, affidato com’è ad una
tradizione a canovaccio, non vedevo come avrei dovuto
percepirne con le mie forse miopi cornee nemmeno
l’ombra. In un articolo - intervista del 24 Maggio 1996 su
Repubblica, Cesare Garboli confessava che, prima di
diventare amico del poeta, lo avevano a lungo infastidito
dei suoi versi “il gusto '900', la sporcizia morale, il
narcisismo, quella che poteva sembrare una simulazione
alessandrina, la smorfiosità viziosa e leziosa”. Ebbene, che
cosa accadde per fargli cambiare idea? Il fatto che lo
conobbe di persona, e di persona, con un gioco di parole,
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gli sembrava un’altra persona: “Quando lessi la raccolta
completa, il mio giudizio cambiò. A conoscerlo Penna era
un uomo talmente intelligente che una conversazione con
lui rappresentava sempre un evento”. Lasciva est pagina, vita
proba? Mica tanto, qua sembra piuttosto il contrario: è la
pagina a sembrar proba, la rima facile, e la trama biografica
invece, improba e sofferta, la vita difficile. E allora, la
conversione garboliana come si spiega? Penna era buon
conversatore, a quanto pare. Ma gli argomenti nell’eloquio
erano certo più vari e coloriti del monolitico topos
letterario campeggiante in ogni suo singolo verso.
Sempre fanciulli nelle mie poesie, scrive Penna, e pare
compiacersene. La monotematicità ridondante sovrasta
qualsiasi possibilità di deviazione argomentativa, e si
esprime molto spesso in versi così qualunquistici,
cardarelliani, denotativamente antipoetici proprio perché
troppo poetici, nel senso di troppo tradizionali e stereotipati
che, nella loro aggraziata acconciatura contenutistica, non
levano dall’animo altro che un senso di leggerezza e di
vuoto, laddove non incombono con un’autoriflessa imitatio
classica fuori tempo e fuori luogo. E se possono definirsi
troppo poetici in questo senso, d’altra parte, sotto
l’aspetto formale, degni di un gran poeta essi non mi
sembrano affatto, ricolmi come sono di incostanze,
umorali slabbrature, palesi e rafferme incapacità del
versificare. Insomma, in un senso o nell’altro, in un verso
e anche nell’altro, Sandro Penna rimane un versificatore
mediocre. Ed un sospetto, alla fine, venne pure ad Alfredo
Giuliani, quando il verso “disossato” di Penna lo indusse
financo a dire, sotto la lente d’ingrandimento, che, forse
forse, i critici italiani avevano un po’ esagerato con le
consacrazioni e con gli elogi. Ciononostante, proprio
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questa leggerezza, questo vuoto, quest’assenza e carenza di
forma e sostanza autonome sono addotti, dal convivio dei
più, a motivazione primaria della grandezza poetica di un
titubante ed esanime filo d’inchiostro che, per timidezza e
umiltà, all’avanzare sul foglio chiede quasi scusa di averlo
sporcato.
Senza contare che la cosiddetta linea sabiana in seguito fu
imitata fino allo spasimo e ricadde prontamente nella
Scuola del più vichiano e ricorrente manierismo ed
epigonismo, rovinando lo squarcio di secolo che poteva
aprirsi ad uno sperimentalismo non stantio, non inerme,
imbrattando di ciarpame persino le antologie delle scuole
medie e rovinando così, indelebilmente, il gusto estetico
ad ignari dodicenni i quali si convincono ancor oggi,
viepiù, che quella e quella sola possa esser detta poesia.
Per avvalorare queste mie affermazioni vorrei ora
analizzare, al di là delle scelte sanguinetiane, alcuni versi
penniani ben peggiori di quelli antologizzati dal poeta
genovese. E sono versi presi a caso dal canzoniere statico
di un immobilista povero di immagini, e dal linguaggio
ancor più povero di soluzioni variamente espressive.
Pensiamo alla tristissima anguria di questo haiku
giapponese, tratto, come le successive due composizioni,
dalle poesie del periodo 1927 - 1938:
Già fiammeggia il cocomero. La sera
cade più densa ormai. E tu ritorni
un poco malinconico al mio ardore.
A parte che non si spiega su nessun piano ermeneutico, né
anagogico, né allegorico, né morale né tantomeno
letterale, come possa un cocomero fiammeggiare quando è
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accostato semanticamente alla scarsa luce del crepuscolo,
se non come correlativo oggettivo eliotiano, sforzatissimo
e stentato, di un ardore sensuale che si sperde e si spaura
per lo stesso analogismo in una parola, essenzialmente
brutta, quella che identifica il succoso frutto estivo, fino
alla contrapposizione fra la malinconia del ragazzetto e la
foia del poeta incocomerito; dico, al di là di questo, è il
terribile enjambement fra il primo ed il secondo verso che
dispiace, e rende quasi l’idea di un parodiare offensivo di
qualche stilema pascoliano, disperso com’è nell’ombra
spaesata di un pessimo spessore evocativo. Leggiamo
ancora un altro esempio forse peggiore di questo:
Malato nel meriggio in un solfeggio
di monete che battono il selciato.
Su questo letto quali dolci fichi
nel sole delle donne indi appassiti.
Cerchiamo di ritrovare l’ambientazione originaria della
scena in questa quartina delirante di narcotiche nasali e
febbrili sibilanti, ché già il loro semplice accostamento
contraddittorio non dico sia controproducente, ma
depauperante di senso un qualsiasi piano semantico si
volesse attribuire, in questa sede, a tali significanti; e per
ora non ci curiam di lor ma guardiamo e passiamo.
Dunque, la situazione più o meno è questa: è pomeriggio,
il poeta è malato e qualcuno fa rotolare delle monete sul
bordo del marciapiede, forse fatali fanciulli – e chi altri! –
che giocano al gioco dei “tappi”, ma fanciulli danarosi,
tant’è; infatti ruzzolano monete al posto dei turaccioli. E
fin qui il gusto estetico, peraltro apprezzando
l’allitterazione delle nasali nel primo emistichio e in
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principio del secondo verso, non può che provare l’esatta
percezione del concetto pirandelliano dell’umorismo già al
terzo nomen, in quella consonanza interna al verso, fra
meriggio e solfeggio, che dapprima fa sorridere, e dappoi dà
da pensare, non foss’altro che in un quesito destinato a
rimanere senza risposta: ma di che cosa va cianciando
costui? Però, però, intanto l’endecasillabo è mantenuto: il
padre Dante sarebbe tranquillo. Ma l’atrocità impoetica si
compie sardonicamente, in tutta la propria tragica fatalità,
fra il terzo ed il quarto verso: il poeta, disteso fra le coltri,
gusta dei dolcissimi fichi, frutto rosso, succoso e
correlativamente pederastico come l’anguria di prima, il
quale, con una sorta di variatio tecnica, si incolla
semanticamente con la coccoina a quell’appassiti in
un’assonanza non solo profondamente brutta dal punto di
vista formale, ma anche completamente irreale: dei fichi
dolci e succosi non possono certo essere appassiti, ed
anche se “indi” sta per “in seguito” ciò non toglie
d’impaccio giacché genera una prolessi lessicale che
dispiace nel suo arcaismo. Anche l’accostamento ad un
improbabile “sole delle donne” sembra stare lì per riempire il
verso, senza senso, senza motivo, senz’ulteriore
spiegazione, senz’infamia e senza lode. Ma leggiamone
un’altra:
Quando la luce piange sulle strade
vorrei in silenzio un fanciullo abbracciare.
Ciò che vien da dire di fronte a questo motto da Baci del
Perugino è presto detto: tutto qui? E tuttavia, c’è dell’altro
da dire, excusatio non petita: il primo endecasillabo, come si
nota, comincia col tempo forte, il secondo invece si
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slabbra e si spappardella impalpabilmente in una sincope
d’aritmia assoluta, partendo da un tempo debole che
avvolge gli orecchi in una sorta di balbuzie rozza e
primitiva, di una prosaicità involontariamente
demistificante e demolitrice di qualsiasi velleità estetica.
Come dire che, tolto al distico il puntello di un significato
profondo, autoescludendosi quest’ultimo a causa della
ridondanza tematica dell’intero canzoniere, non c’è virtù
né pietà che possa restituire a quest’assurda imperizia
metrica il benché minimo barlume di poesia. Di fronte a
nullità del genere, c’è veramente da chiedersi se i critici
letterari del Novecento non si siano forse bevuti il cervello
in una sorta di allucinazione di massa, vedendo poesia
dove non ci sono che versi stracciati, logori e prosastici,
dal biancore obnubilante come la biacca o la calcina: il
biancore privo di colore e di calore del più assoluto ed
ostentato vuoto. Ma passiamo oltre:
Oh nella notte il cane
che abbaia di lontano.
Di giorno è solo il cane
che ti lecca la mano.
Il contenuto della succitata quartina è così
spudoratamente esangue e privo di nerbo che l’unico
sollazzo, per il critico, potrebbe essere domandarsi il
perché di quel punto, posto lì, alla fine del secondo verso,
a recidere in due momenti sintatticamente indipendenti un
periodo logicamente unitario che non dice altro da sé.
Forse il mistero poetico, nelle intenzioni dell’autore, era
racchiuso proprio in quel punto? Chissà. La sensazione,
piuttosto, è che Sandro Penna se ne freghi e si rintani in
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ludici barbagli ottocenteschi, peraltro non supportati da
un adeguato mimetismo linguistico o da sufficiente
bravura in senso etimologico anglosassone,
manchevolezze barbaramente assolute che lo ricacciano
nelle malebolge impreviste della più innocente e
bonfedista mediocrità.
Ciononostante, non sempre, in Penna, l’imperizia è tanta e
tale da immalinconire, anzi: a volte si può cogliere l’apice
della tecnica penniana, come quando, rileggendo il primo
componimento che apre la raccolta Una strana gioia di
vivere, ho scovato una sorpresa fenomenologica non priva
di sollucchero:
La tenerezza tenerezza è detta
se tenerezza cose nuove dètta.
Incredibile phainomenon: Sandro Penna da Perugia che si dà
al concettismo marinista!
Comunque, al di là dell’analisi dettagliata della
versificazione penniana che del resto offre anche punte di
vera e degna poeticità, si può forse a ragion veduta
affermare che il nesso tra poesia e vita appare in Penna
profondamente pervaso dall'argumentum dell’omosessualità
pederastica in senso greco anche laddove non sembri.
Quando si specifica “in senso greco”, beninteso, si
intende affermare che tale topos viene ripreso e reinventato
in qualche modo nel Novecento letterario italiano proprio
da Penna, riuscendo a descriverne delicatamente l’impura
purezza di fondo ad una società di lettori avvezzi e
consapevoli che l’hanno accolto ed assunto a poesia
esemplare in tutta onestà, nonostante la mancanza di
pregio del versificare che in diversi luoghi della
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produzione poetica penniana si rendono notorii e
manifesti. Sandro Penna detiene davvero una
monotematicità intrinseca, parla di omosessualità anche
quando esplicitamente non ne parla: per intenderci, la
stessa cosa accade, ad esempio, in Petrarca,
universalmente riconosciuto dalla critica come il primo
poeta occidentale che dice “io” il quale, in qualche modo,
non fa che parlare narcisisticamente di sé anche quando
esplicitamente l’oggetto del suo poetare è Laura. La
visione della realtà e della poesia come realtà, in Penna ed
in Petrarca, sono chiuse perpetuamente all’interno delle
anguste pareti di una semiosfera coatta: nel caso di
Petrarca, il proprio sé interiore; nel caso di Penna, l’amor
greco, che è poi, per l’appunto, il fenotipo perfetto e
compiuto del proprio sé interiore; ed è così che l'affezione
pederastica coincide compiutamente con la sua poetica. È
questo il senso più profondo di quanto va affermando
Pasolini stesso nella lettera citata: la poesia si fa vita e, nei
termini critici pasoliniani, visione idillica, vita ascetica
dedita alla nobile tradizione del Simposio, concetto
mitizzato e purificato che pone l'amico Penna come un
"puro" in contrapposizione con i pasoliniani inferni
notturni nonostante, dichiaratamente, anche per Penna la
rima sia facile, la vita difficile. Scrive Debenedetti nei
quaderni delle lezioni tenute a Roma durante il corso
accademico 1958 – 1959 poi raccolti in Poesia italiana del
Novecento: “Penna si mette fuori della storia, ignorandola.
È anche lui un borghese, un piccolo borghese come Saba
nel senso economico e psicologico […] ma vive e si
regola, quindi si esprime poeticamente, come se fosse
prosciolto, svincolato da qualsiasi classe sociale”. Penna e
Saba infatti hanno in comune parecchio: “l’uno e l’altro
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scrivono una poesia di tipo relazionale, e proprio nel
tempo dell’ermetismo, cioè di una poesia irrelativa, di una
poesia scaturita dall’impossibilità o incapacità di stabilire e
di esprimere un rapporto razionale e riconoscibile col
mondo”. Ecco perché, suggerisce Debenedetti, Penna si
getta completamente, anima e corpo, in uno dei due poli
che compongono il binomio poesia – realtà; giacché la vita
o è storia o natura, egli si abbandona mollemente alla
seconda dimensione, nella declinazione della propria
sofferenza, distacco e inclinazione sessual - sentimentale.
Penna, per Debenedetti, è “un assente” rispetto alla storia
e alla realtà, eppure paradossalmente proprio attraverso
l’esercizio di quest’assenza si può dire che egli rispecchi la
storia dell’assenza dalla storia e della storia. Per gli
ermetici, infatti, la vera alienazione coincide con la storia e
la realtà; per Saba, l’alienazione è la non – storia; per
Penna, al contrario, la storia si può ignorare, non conta
minimamente: Sandro Penna, in questo senso, è tutto
natura.
Per avvalorare questa definizione, Debenedetti cita uno
dei componimenti più densi, pregni e felici del poeta
perugino, in cui si delinea quella stessa sospensione fuori
dal tempo e dallo spazio che lo rende una sorta di
spensierato martire di se stesso; componimento davvero
perfetto a livello contenutistico e formale (forse il
decasillabo iniziale e il dodecasillabo finale sono, in
definitiva, voluti, ma davvero qui il calcolo metrico non
importa):
Come è forte il rumore dell'alba!
Fatto di cose più che di persone.
Lo precede talvolta un fischio breve,
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una voce che lieta sfida il giorno.
Ma poi nella città tutto è sommerso.
E la mia stella è quella stella scialba
mia lenta morte senza disperazione.
Ma questo riscontro di importanza tematica all’interno
della temperie poetica novecentesca che lo accumuna in
Italia ad un Kavafis e le migliori poesie antologizzate nelle
sillogi italiane ed estere, di norma sempre le stesse per
tacer del sardonico Sanguineti, bastano forse a far
dimenticare la presenza di un vero e proprio campionario
penniano dell’impoetico che in questo articolo è stato
messo in evidenza attraverso pochi versi, ma il cui
esercizio potrebbe proseguire per pagine e pagine?
Secondo il principio in base al quale, in poesia, il
contenuto può essere legittimamente qualsiasi cosa ed è la
forma a rappresentare il discrimine della poeticità o meno di
un componimento in senso estetico, a me sembra che nella
poesia di Sandro Penna, troppo spesso (ma non sempre),
sia presente un deciso squilibrio proprio tra la forma e il
contenuto, squilibrio che si manifesta in molti degli
epigoni successivi di scuola lirica, dalla seconda metà del
Novecento ai giorni nostri. Al dibattito critico, ad un
ripensamento degli ultimi sessant’anni di critica penniana,
cominciando forse proprio da Debenedetti e Pasolini,
l’ardua sentenza.