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La Fondazione C.E.U.R., Centro Europeo Università e Ricerca, è un’istituzione culturale ed

educativa che fa parte dei Collegi universitari di merito legalmente riconosciuti dal Ministero

dell’Istruzione, Università e Ricerca. Essa nasce nel 1990 dall’iniziativa di professori universitari,

imprenditori e professionisti e, come da statuto, si prefigge di offrire agli studenti e ai giovani

ricercatori universitari le migliori condizioni per essere protagonisti della costruzione del proprio

futuro.

La Fondazione gestisce attualmente 8 Collegi di merito, a Milano, Bologna, Catania e Torino, che

fanno parte del network Camplus e in cui viene valorizzato al meglio il talento di ogni studente.

Fondazione C.E.U.R.

Piazza della Resistenza, 9

40122 Bologna

Tel. +39 (051) 5287474

Fax +39 (051) 5287476

www.ceur.it

Anno di pubblicazione 2014

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L’avventura dell’interpretazione Workshop Camplus

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Relatori

Onorato Grassi, Professore ordinario di Storia della filosofia medievale alla Lumsa di

Roma

Sergio Cristaldi, Professore ordinario di Letteratura Italiana all’Università degli studi di

Catania

Davide Rondoni, Poeta e Giornalista

Giovanni Salis, Dottore di ricerca in Musicologia e beni musicali

Francesco Violi, Direttore del Camplus Città Studi

Armando Fumagalli, Professore Ordinario di Teoria dei linguaggi all’Università Cattolica

di Milano

Davide Dall’Ombra, Docente a Contratto di Storia della Critica D’Arte all’Università

Cattolica di Milano

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NOTA DI REDAZIONE

Il 24 e 25 Maggio 2013 a Milano, presso il Collegio di merito Camplus Turro della Fondazione

C.E.U.R., 15 studenti selezionati tra i 700 del network nazionale Camplus, hanno partecipato

attivamente al workshop sui linguaggi. Gli studenti si sono confrontati con i relatori introdotti da

Mariano Cristaldi e Francesco Violi. I relatori hanno avuto la disponibilità di mettersi in gioco con

gli studenti nelle varie sessioni di lavoro. Ne è risultato un dialogo ricco di contributi interessanti

per approfondire il tema dell’interpretazione. È emerso chiaramente come il linguaggio, nelle sue

varie forme, esprima il rapporto che l’uomo ha con la realtà; una posizione di certezza o incertezza

dell’uomo nei confronti della realtà.

Di seguito gli appunti di lavoro, rivisti dai relatori, che restituiscono ad una platea più ampia gli

esiti del lavoro svolto.

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24 Maggio, pomeriggio

Conoscenza e Interpretazione

Filosofia

Prof. Onorato Grassi: I termini che compongono l’argomento della nostra conversazione,

conoscenza e interpretazione, si richiamano vicendevolmente, nell’uso e anche concettualmente.

Sebbene sia difficile distinguerli nettamente, cercherò, preliminarmente, di trattarli separatamente,

per poi considerarli nel loro reciproco intersecarsi.

Nell’opinione comune, si è soliti intendere per “conoscenza” un insieme di informazioni, idee,

tecniche (logiche e pratiche) che formano il patrimonio intellettuale e comportamentale di un

individuo e di una comunità sociale. Questa accezione del termine, una volta liberata dalla riduzione

a banale nozionismo, è in gran parte condivisibile. In effetti, la conoscenza è un processo continuo

e, nei casi migliori, progressivo, che il soggetto umano compie per entrare o mettersi in rapporto

con la realtà, in forza di un “bagaglio” di idee, parole, valori e comportamenti – lo si chiami

“culturale” o “tradizionale” – che coloro che lo hanno preceduto gli hanno consegnato e nel quale è

cresciuto. Pensiamo alla disposizione delle sedie in quest’aula ; l’allineamento parallelo rispecchia

un’idea di ordine che ci è congeniale (la scrittura sulle righe, imparata da piccoli, oppure la

disposizione dei libri in una biblioteca presentano la stessa forma), e, probabilmente, ognuno di noi

giudicherebbe “disordinato” ciò che va fuori delle righe. Il procedere stesso del pensiero secondo

modalità lineari e argomentative (deduttive o induttive), senza ricorsività, nella direzione di un fine

pratico del discorso, può essere condiviso in buona cultura occidentale. In culture e tradizioni,

diverse dalla nostra, le cose possono essere diverse: ad esempio la disposizione circolare potrebbe

essere preferita e rappresentare un motivo di ordine – pensiamo alle tribù indiane o africane, nonché

ai costumi orientali – e la stessa circolarità del pensare e della scrittura verrebbe preferita a un

andamento troppo rigido e definitorio - si pensi ai “corsi e ricorsi” agostiniani o alla stessa struttura

del “dialogo” –. Nella vita di una società o di un popolo la conoscenza ha stretti rapporti con la vita,

le abitudini, i costumi, e, in modo particolare, è di capitale importanza per i legami umani e sociali,

che necessitano di un’intesa per iniziare e svilupparsi. In questo senso, Eric Hirsch, denunciando gli

esiti negativi del formalismo educativo - l’educazione ridotta a metodo per imparare, senza più

contenuti - ha giustamente messo in luce il ruolo della cultural literacy nei sistemi scolastici e

formativi. Negli Stati Uniti, le scuole che hanno adottato questa prospettiva – scuole della

conoscenza o del core curriculum – stanno offrendo risultati sorprendenti e meriterebbero di essere

studiate e prese in seria considerazione anche da noi. Anche sul versante speculativo, il ritorno alla

“conoscenza”, come ricchezza indispensabile per l’individuo e la società, è stato da più parti

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auspicato e riproposto. In un bel libro di pochi anni fa, Paul Boghossian ha riproposto, in un serrato

confronto con alcune correnti del neo-pragmatismo, la necessità di tornare a “conoscere”, superando

barriere teoriche e pratiche innalzate nella seconda metà del secolo XX e vincendo quella che,

secondo lui, è una vera e propria “paura di conoscere”.

Ciò porta ad un ulteriore, e per certi versi originario, significato della conoscenza, che non può

essere intesa come semplice accumulo di nozioni – anche nella nobile versione dell’Encyclopedie o

dell’erudizione classica – ma come confronto continuo fra teorie e fatti, fra visioni del mondo e

fenomeni singoli, grazie al quale si può pervenire ad un significato delle cose, ossia alla scoperta e

comprensione del nesso plausibile, permanente e condiviso fra esse. La natura di tale nesso, o la sua

forza, distingue la conoscenza in sapere dimostrato, o scientifico – secondo l’accezione che tale

termine può assumere, dall’ἐπιστήμη greca alla scienza attuale – e in sapere opinativo (δόξα ) o

probabile, secondo una gamma di livelli che va da quelli più prossimi alla verità – si pensi ai

ragionamenti per verisimiglianza, almeno nell’accezione aristotelica - a quelli più bassamente

soggettivi. Un discorso a parte meriterebbe la conoscenza per fede, nel senso sia della pistis sia del

belief. In tutti i casi, la conoscenza porta a “penetrare” il mondo, a comprendere i legami fra i

fenomeni, fra le “cose”, a scoprire pertanto il senso che si presenta a colui che guarda il mondo e

che lo conosce interpretandolo.

Infine, vi è un aspetto del conoscere, oggi quasi totalmente dimenticato, che tuttavia non sarebbe

giusto trascurare: la dimensione sapienziale. Essa riguarda un moto più vasto della pura

intelligenza, investendo pienamente il soggetto conoscente, anche nelle sue prerogative personali e

umane. La sapienza muta colui che la possiede e lo immedesima con la natura e il senso delle cose,

quasi facendone gustare il sapore, e abbraccia, come dice la Bibbia, “tutto ciò che è nascosto e ciò

che è palese”.

All’interno del termine generale “conoscenza” andrebbero poi distinti vari livelli e ambiti, per la

specificità dei linguaggi, dei metodi e degli oggetti formali. Le critiche al “riduzionismo” hanno

mostrato la legittimità di differenti metodi di conoscenza, come prima si è accennato, e

l’imprescindibile necessità di non sovrapporre o imporre un unico metodo o forma di conoscenza –

atteggiamento ancora troppo diffuso – all’intero campo del sapere. A questo proposito, e a titolo

indicativo, sarebbe utile approfondire il valore e la natura della “conoscenza storica”, la forma e

l’estensione della razionalità scientifica e tecnica, il ruolo della “conoscenza sensibile” nel quadro

della conoscenza nel suo complesso. Ciò che, in effetti, meriterebbe di essere esaminato è la “forma

della razionalità” cui fanno riferimento i “saperi” e come, o quanto, tale razionalità possa essere

discussa o addirittura rivisitata.

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Che cos’è, invece, l’interpretazione? Una prima risposta può essere trovata in un testo classico, il

Περὶ Ἑρμηνείας (Peri Hermeneias) di Aristotele, in latino De interpretatione. Nel terzo libro del De

Anima, Aristotele distingue le operazioni dell’intelletto in tre fasi: nella prima apprendiamo le cose

o i concetti delle cose, nella seconda li componiamo e nella terza, passando da ciò che è noto a ciò

che non è noto, ampliamo il nostro sapere. L’interpretazione appartiene al secondo momento,

mentre la scienza al terzo. Commentando il testo aristotelico, Tommaso d’Aquino fa un’importante

osservazione, riprendendo e modificando l’opinione di Severino Boezio, secondo il quale

“interpretatio est vox significativa per se ipsam aliquid significans”. L’interpretazione riguarda, in

questo caso, il significato delle parole, ossia dei “nomina” in quanto segni istituiti per significare

qualcos’altro. Tommaso aggiunge un concetto importante: l’interpretazione non è solo spiegare il

senso delle parole, ma dire se dicono il vero o il falso all’interno di un enunciato. Mentre per Boezio

l’interpretazione riguardava precipuamente i “nomina”, Tommaso estende l’interpretazione alle

proposizioni, vale a dire alla loro verità o falsità. In tal senso interpretare equivale a giudicare, in

quanto gli enunciati dicono o non dicono come stanno le cose. Una seconda risposta può essere

trovata nel De Doctrina Christiana di Agostino, laddove si dice che per comprendere il senso di un

brano o di una pagina difficile occorre prendere in considerazione l’intero libro. Interpretare, in

questo senso, significa mettere in relazione la parte con il tutto e investire la parte del significato

intero, ossia del significato che essa ha non presa isolatamente o per se stessa, ma nel contesto

complessivo. Una terza risposta è data dall’approccio filologico, in modo specifico per i testi e i

documenti, ove la correttezza dell’interpretazione è proporzionale alla comprensione dell’intentio

dell’autore, che deve perciò essere recuperata nella sua autenticità e originalità. Una quarta riposta è

data dall’ermeneutica contemporanea, nelle varie versioni in cui essa si è sviluppata (la figura

dell’interprete, la precomprensione, la pluralità di significati, la circolarità delle interpretazioni). In

queste versioni del termine – altre se ne potrebbero dare, ma potrebbero essere facilmente

ricondotte alle quattro indicate - interpretare è sinonimo di impegno intellettuale per scorgere,

dentro ciò che è dato, ciò che non è immediatamente dato, ma ne costituisce il lato più vero. Tale

“lato” rappresenta il limite o termine tendenziale dell’interpretazione, che non costruisce, se non

parzialmente, il proprio oggetto, ma tende a scoprirlo e riconoscerlo. In questo senso, l’attendibilità

dell’interpretazione non può essere assicurata unicamente dalla condivisione di una consolidata

interpretazione all’interno di una comunità scientifica, ma deve fornire elementi di confronto con

“ciò” che è oggetto di interpretazione.

Se questa prospettiva è plausibile, acquistano importanza i tentativi di andare a vedere come stanno

le cose, sia nell’aspetto generale del rigore di metodo e dell’onestà intellettuale, sia nell’assunzione

di specifiche modalità di indagine e di ricerca. Particolare valore ha, in questa luce, l’indagine

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fenomenologica, sia nel suo aspetto di superamento dell’ovvietà anonima e omologante, sia nella

sua portata metodologica di direzione verso “le cose stesse”, sia, anche, per lo spirito di opposizione

ad ogni ideologizzazione del sapere e di resistenza all’irrigidimento in sistema che può contribuire a

far maturare. Un altro recupero sarebbe opportuno operare nei confronti del pragmatismo, o,

almeno, di alcune sue lezioni, sia per quanto riguarda il privilegio accordato, nella linea della

tradizione empirista anglosassone, al mondo dei fatti e alle realtà storiche e singolari, sia come

metodo di indagine (“il corridoio” che rese Papini stimato da Peirce e James) e di valutazione delle

conseguenze – soprattutto sociali – dei nostri concetti e dei nostri giudizi.

Vi è però una questione radicale che deve essere affrontata e risolta ; può essere indicata come la

questione del “criterio” del conoscere e dell’interpretare, ovvero se tale criterio sia puramente

convenzionale e, inevitabilmente, esterno al soggetto che conosce e interpreta, oppure se sia

immanente ad esso. Nella formulazione che ne diede un tempo Rorty, nella sua polemica contro i

“realisti”, l’alternativa è se vi sia “qualcosa di profondo in noi – deep down inside us” (eventualità

da lui respinta), qualcosa che ci metta in rapporto con la realtà e ci consenta di riconoscerla vera (o

falsa) oppure se nel soggetto umano non vi sia “se non quello che noi stessi vi mettiamo”, ossia un

criterio ultimamente convenzionale, e ciò che consideriamo “reale” altro non è che la costruzione

che ne facciamo – come diceva Sartre, “le cose saranno come l’uomo avrà deciso che siano”-.

L’alternativa, come si è detto, è radicale, poiché la conoscenza e l’interpretazione dipendono, in

buona parte, dal criterio che in esse è impiegato, e se tale criterio è originariamente convenzionale,

pertanto estrinseco, esse ne porteranno le inevitabili conseguenze. Al contrario, per non ridursi a

sapere puramente convenzionale e, ultimamente, ad arbitraria interpretazione, la conoscenza

necessita di un criterio che, in qualche modo, non sia “posto da noi”, ma riconosciuto come “dato”

da noi, col quale confrontare e giudicare ciò che “incontriamo” e che “ci viene detto”. Senza tale

criterio, e senza il suo costante utilizzo, ogni conoscenza finisce, prima o poi, per impoverirsi, ed è

destinata a deperire, sottomessa a domini estranei e più potenti.

L’intrecciarsi costante e reciproco del conoscere con l’interpretare rende evidente quanto sia

inevitabile e virtuoso l’impegno intellettuale. Esso consiste nell’assidua opera di ricerca, confronto,

verifica, ma anche nel riconoscere di essere nella permanente condizione del rischio. Conoscere e

interpretare è sempre un “rischio” che si accetta di correre ; il rischio di mettere in discussione se

stessi, le proprie convinzioni, le conseguenze che erano state previste. Ma, appunto, è il “bel

rischio” che non si può evitare o demandare ad altri, pena l’impoverimento di se stessi e dell’intera

società. Ed è noto a tutti che l’aumento dell’ingiustizia - sociale, economica e politica – è da sempre

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proporzionale alla diminuzione di “conoscenza” che gli uomini, singolarmente o collettivamente,

hanno dovuto subire o non hanno avuto la forza e la passione di contrastare.

Conoscenza e Interpretazione

Letteratura

Prof. Sergio Cristaldi: Vorrei adottare un punto di vista particolare: rifletterò su conoscenza e

interpretazione prendendo in esame la conoscenza e l’interpretazione della letteratura. Il soggetto

che si impegna nell’avventura conoscitiva è, in questo caso, il lettore, e l’oggetto è il testo

letterario; anche se non è escluso che una simile verifica, portata su un segmento delimitato, possa

contenere delle implicazioni generali.

Alla striscia di partenza, è opportuno considerare un libro scritto nel 2007 da Tzvetan Todorov,

esponente di punta dello strutturalismo e analista penetrante dei fenomeni letterari. Si tratta di un

vero e proprio grido d’allarme, come è evidente già nel titolo: La letteratura in pericolo. Todorov,

intanto, mette a fuoco con chiarezza il compito della letteratura, quello per cui essa continua ad

affascinare i lettori e non solo gli specialisti:

Quando mi chiedo perché amo la letteratura mi viene spontaneo rispondere: perché mi

aiuta a vivere. Non le chiedo più, come negli anni dell’adolescenza, di risparmiarmi le

ferite che potevo subire durante gli incontri con persone reali. Piuttosto che rimuovere le

esperienze vissute, mi fa scoprire mondi che si pongono in continuità con esse e mi

permette di comprenderle meglio.

Se il lettore si inoltra nei testi letterari è perché vuole comprendere meglio l’uomo e il mondo, e

perciò se stesso. Per quale motivo, allora, la letteratura è, oggi, in pericolo? L’aspirazione a

penetrare nel vissuto, a maturarne una coscienza non superficiale viene da più parti respinta.

Secondo Todorov, una minaccia giunge, in particolare, da ciò che egli denomina “nichilismo” e

“solipsismo”. Il nichilismo esclude a priori la possibilità di accedere al significato dell’opera

letteraria e, nella sua versione radicale, rifiuta persino l’esistenza di un significato unitario. Al

nichilismo si allea il solipsismo: entrambi si basano sull’idea di una rottura radicale tra l’io e il

mondo, e rifiutano pertanto l’esistenza di un mondo comune degli uomini. Ne consegue una rottura

altrettanto insanabile tra lettore e testo, fino alla dissoluzione del testo stesso. Non per caso, un libro

che ha goduto una certa reputazione nel mondo accademico s’intitolava: C’è un testo in questa

classe? Una risposta negativa conduce al solipsismo. Si estremizza il momento della ricezione, lo si

scolla dal testo, fino a stimare la ricezione unica realtà e autorizzare lo slogan “ogni lettura è una

buona lettura”. Un mio collega, utilizzando una metafora teologica, raccomandava agli studenti di

leggere praticando il libero esame: in questo caso, non della Bibbia, bensì dei testi letterari. Ora, la

lettura personale è indispensabile e niente può surrogarla; il problema è se il libero esame scorti

all’incontro con l’alterità o se presupponga che non ci possa (non ci debba) essere alcun

appuntamento del genere.

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Un rimedio a nichilismo e solipsismo è stato indicato (prima ancora che Todorov levasse il suo

preoccupato avvertimento) nella comunità interpretante. Il lettore, si è detto, evade dalla sua

unilateralità se non resta isolato, ma si raccorda alla comunità degli altri lettori; e questo riesce un

suggerimento di grande interesse. La comunità, però, può essere intesa riduttivamente; per esempio,

in modo contrattualistico, per cui i membri della comunità stipulano un accordo tra loro,

convengono su una interpretazione e la validità di questa interpretazione riposa sull’accordo stesso.

In questo modo, l’accordo non è fondato sulla verità ma sulla mera utilità. Si pensi ancora a Dante.

Il suo capolavoro pone numerosi problemi interpretativi. Quello primordiale riguarda il titolo stesso.

Si dice: la Divina Commedia, e ci si intende senza difficoltà di sorta, tutti – o quasi tutti – afferrano

subito di che si sta parlando. Sfortunatamente, non è questo il titolo che Dante ha ideato. Occorrerà,

allora, dire semplicemente Commedia, secondo una consuetudine invalsa fra gli addetti ai lavori e

celebrata nelle aule accademiche? Neppure questa opzione è del tutto aderente: a esser precisi,

Dante utilizza l’espressione trecentesca Comedìa; e sarebbe un po’ imbarazzante proporre

l’universale adozione di un termine così distante da noi. Qualche studioso, infatti, ha rivendicato i

“diritti dei lettori”, in nome dei quali ratificare un’etichetta (Divina Commedia) ampiamente diffusa

e consolidata. Ma si tratta semplicemente di stipulare una convenzione utilitaria? Accanto ai diritti

dei lettori non ci sono forse i diritti della verità?

Non sono mancati, anche in questi ultimi decenni, gli appelli al rigore, allo scrupolo, all’adesione ai

fatti nella loro propria fisionomia, alla severa disciplina filologica. In filologia, il supremo criterio è

l’intenzione dell’autore, da ricostruire e rispettare: il filologo deve ripristinare il testo originale o

avvicinarsi a esso il più possibile, eliminando gli errori dei copisti, i detriti della tradizione. Meglio

ancora se si possiede il manoscritto originale, a cui l’edizione critica deve aderire scrupolosamente.

Questo ha portato, tuttavia, a degli eccessi, intanto nella grafia. Siamo tenuti a rispettare gli usi

grafici originari? Alcune edizioni moderne di opere del Due e del Trecento hanno adottato grafie

arcaiche; ad esempio, preservando “et” per la congiunzione. stata una scelta idonea? I medievali

non pronunciavano “et”, almeno non davanti a consonante. Nell’edizione del Canzoniere di

Petrarca a cura di Gianfranco Contini troviamo: “Chiare, fresche et dolci acque”. Il che non

favorisce la lettura corretta. Ma adottare una grafia moderna non è far torto all’intenzione di

Petrarca? Si è osservato, per converso, che l’intenzione dell’autore è, in primo luogo, quella di

essere letto. Persino la filologia, dunque, non può fermare il testo in una oggettività in sé

sussistente.

Quando entra in gioco il significato del testo, si fa ancora più scottante l’interrogativo se

l’intenzione dell’autore possa bastare. Dobbiamo, a questo riguardo, spendere qualche parola sul

cosiddetto “metodo storico”. Al contrario del nichilismo, il metodo storico si propone la

comprensione di uno scrittore secondo i suoi principi, i programmi, la poetica, l’esatto valore del

suo linguaggio. La tipica parola d’ordine di questo approccio è: ricostruzione. Sembrerebbe un

antidoto al solipsismo ma può indurre ad una deformazione non meno temibile, che in definitiva

riproduce il diaframma tra l’io e il mondo. Il lettore, infatti, resta impermeabile all’opera, perché

essa appartiene al passato. Opportuno a questo punto ricorrere a un grande critico letterario, che era

anche un eccellente scrittore in proprio, l’irlandese C.S. Lewis. Ecco un passo delle sue Lettere di

Berlicche:

Il ”punto di vista storico” significa in poche parole che quando un uomo dotto incontra una

qualsiasi affermazione in un libro vecchio, la domanda che non si farà mai è se tale

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affermazione è vera. Si chiede chi ha fatto sentire il suo influsso sul vecchio scrittore, e fino a

qual punto l’affermazione s’accorda con ciò che ha detto in altri libri, e quale fase essa

illustra nello sviluppo dell’autore, o nella storia generale del pensiero, e come incise su

scrittori più recenti, e se è stata spesso capita male (particolarmente dai colleghi dell’uomo

dotto), e quale è stata la tendenza generale della critica negli ultimi dieci anni, e qual è lo

“stato attuale della questione”. Considerare l’antico scrittore come una possibile fonte di

conoscenza – anticipare che ciò che egli disse potrebbe modificare i tuoi pensieri o il tuo

modo di comportarti – sarebbe rigettato come segno di un’indicibile semplicità di mente.

In questo modo, leggere un libro non è un incontro e c’è da chiedersi se la ricostruzione è davvero

così diversa dalla decostruzione: in fondo, l’io non interagisce con il testo. Fra l’altro, non è detto

che ricostruire significhi rendere giustizia al senso che si suppone aver restaurato. L’opera è più

della coscienza che l’autore ne possiede: questo era già chiaro ai migliori studiosi dell’Ottocento, ad

esempio a Francesco De Sanctis. La cultura del Novecento, del resto, ha scoperto l’inconscio. C’è

dunque un’eccedenza dell’opera rispetto all’autore .

Attualmente, alcuni cercano di riepilogare questa eccedenza, affermando che conterebbe non già

l’intenzione dell’autore ma l’intentio textus, che veicola molto di più, per esempio il rimosso. Si

consideri una lirica famosa di Leopardi, A Silvia. La prima strofa si chiude con l’espressione

“salivi” (“e tu, lieta e pensosa, il limitare / di gioventù salivi”), ed è stato osservato che si tratta di

un anagramma di “Silvia”, a riprova di una sorta di un’ossessione del poeta per questa donna, per il

suo nome. Anagramma programmato lucidamente, consapevole ossessione? Forse no, ma ciò che

conta, affermano i paladini di questa impostazione, è la portata del testo e non ciò che era presente

alla coscienza dell’autore. In questo modo, si rischia, però, di appiattire la questione: non si fa

entrare un gioco un vettore decisivo che è il tempo. Non si tratta semplicemente di opporre intentio

auctoris e intentio textus, ma di cogliere l’incremento di senso determinato dal tempo.

Esaminiamo un’affermazione ampiamente vulgata, su cui nessuno, e giustamente, nutre sostanziali

dubbi: “La Divina Commedia è il culmine del Medioevo”. Ma per Dante, era semplicemente

impossibile maturare una coscienza del genere: non sapeva di vivere nel Medioevo, tanto meno

poteva immaginare di essere il culmine di qualcosa che gli sfuggiva del tutto. Analogamente si

afferma che Petrarca è l’ultimo dei trovatori e il primo poeta moderno; anche questa valutazione è

ampiamente accettabile, ma non poteva essere la valutazione di Petrarca, il quale serbava

un’eccellente conoscenza della lirica romanza che lo aveva preceduto, a partire dai provenzali, ma

non era in grado di prevedere un fenomeno come la modernità e, al suo interno, gli sviluppi della

poesia. Il metodo storico, insomma, mostra evidenti limiti; finisce, se assolutizzato, per far torto

proprio alla storia. Il senso, infatti, è qualcosa che cresce con il tempo, che rivela possibilità

semantiche già sussistenti e, tuttavia, dapprima immerse in una latenza. Noi che veniamo dopo,

comprendiamo gli scrittori del passato meglio di quanto si comprendessero essi stessi, leggiamo i

loro testi apprezzandone implicazioni divenute accessibili solo a noi. Attenzione, comunque: il

senso che col tempo si sprigiona non è in opposizione al senso di partenza, posseduto dall’autore, e

non è neppure una sovrapposizione estrinseca; a verificarsi è, invece, una crescita del senso di

partenza. La formula si può riesprimere in maniera meno astratta: il testo cresce con chi lo legge. In

questo senso, la distanza storica non è semplicemente un ostacolo ma è una condizione positiva e

produttiva del conoscere, come ha messo in chiaro la migliore ermeneutica moderna, un nome per

tutti, Gadamer.

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Il lettore ha, dunque, un ruolo attivo, ma non perpetra una serie di forzature; non si limita a

rispecchiare l’oggetto in maniera passiva, eppure non giunge a eliderlo. Ci avviciniamo così ad una

nozione di conoscenza come incontro tra una presenza ed una energia umana: la presenza del testo

ha bisogno di un soggetto che ne faccia affiorare lo spessore, e proprio a partire dal punto di vista

del soggetto stesso, il quale è posteriore e detiene una visuale più ampia. Così, il lettore è chiamato

a investire le opere con le sue domande; è in questo modo che permette al testo di attualizzare le

proprie risposte.

I medievali avevano già una percezione di questi processi. Dante si mette alla scuola di Virgilio

perché Virgilio, nella sua opera, ha espresso l’esigenza di una liberazione, pur senza possederne

tutta la portata. Solo chi viene dopo di lui è in grado di abbracciare un intero arco di tensione e

perciò di essere illuminato da una parola che invece non rischiarava colui che l’aveva proferita:

Facesti come quei che va di notte,

che porta il lume dietro e sé non giova,

ma dopo sé fa le persone dotte,

quando dicesti: «Secol si rinova;

torna giustizia e primo tempo umano,

e progenïe scende da ciel nova».

Si pensi al rapporto che l’Ottocento ha instaurato con Dante. Basterà qui richiamare il fatto che

Balzac scrive la Commedia umana, tenendo conto del titolo che la tradizione aveva assegnato al

capolavoro dantesco. Abbiamo recuperato alcuni buoni motivi per il mantenimento di un titolo

famoso (e non d’autore): non solo e non tanto una convenzione ormai acquisita, ma l’incremento

semantico che i lettori hanno determinato accostando il poema dantesco, fino a trarne stimolo per la

propria opera. Sarebbe pensabile una Commedia umana senza la Divina Commedia, sarebbe

effettivamente accessibile?

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24 Maggio, sera

Il linguaggio archeologico, musicale e poetico

Dott. Francesco Violi: Proverò a tornare indietro, in un passato lontanissimo e lo faccio partendo

dalla Gioconda di Leonardo. Ho pensato di partire da questo quadro perché può considerarsi una

delle massime espressioni della creatività umana. È un quadro che ha una bellezza arcana, diversa

da ogni altro ritratto precedente. Per realizzarla, Leonardo, decise di avviare una nuova tecnica

artistica che chiamò sfumato. Stese, infatti, una serie di strati traslucidi con i polpastrelli chiamando

questa tecnica sfumato. Ho deciso di partire da questo perché parlando di linguaggio non possiamo

non parlare di creatività umana, quest’opera appartiene alle capacità degli uomini di creare che

sembra essere intrinseca all’essere umano. La linea di discendenza umana è emersa in Africa

intorno ai sei milioni di anni fa ma per circa 3,4 milioni di anni i primi esponenti hanno lasciato

pochi segni. La linea non è però certa, c’è sempre un anello che continua a mancare. Due milioni di

anni fa gli ominidi nomadi cominciarono a scheggiare i ciottoli con percussori di pietra, usare

strumenti fu un atto di grande ingegnosità. Tutti abbiamo studiato la teoria darwiniana, in cui

emerge sempre il più forte, invece dicendo che vi è un periodo di stasi vuol dire che il processo non

è stato scontato, per quanto riguarda l’uomo. Esempi di inventiva precoci indicano che la creatività

si è celata per milioni di anni. Perciò l’Homo Sapiens si lanciò in una frenesia di espressioni.

Fabbricò collane di perle, realizzando nuovi strumenti di scheggiatura e adornando le grotte di

eleganti dipinti. Un esempio è il Bos Primigenius che si trova in Calabria, presso la grotta di

Papasidero.

Quando il mondo era fatto solo da oggetti prodotti dalla natura, fare qualcosa di nuovo sembrava

una magia. Il professor Anati è uno dei maggiori esperti di incisioni rupestri in Val Camonica e

riconosce tre categorie di segni: i pittogrammi, soggetti di valore simbolico, gli ideogrammi, che

sono il ragionamento attorno ad essi, e gli psicogrammi, cioè il valore emotivo che lo accompagna.

Guardando queste opere si può capire cosa intendesse Picasso quando diceva che gli artisti dell’era

glaciale gli avevano lasciato poco da inventare. Il modo esclusivo con cui elaboriamo le

informazioni è senza dubbio l’elemento che ci fa sentire diversi. Circa un decennio fa, Wittorck

Kellogg’s decise di allevare il figlio insieme con uno scimpanzé, man mano che crescevano si

contendevano certi primati. Alla fine il bimbo imitò lo scimpanzé e non viceversa e l’esperimento,

che voleva realizzare l’esatto opposto, fallì. A questo proposito vorrei citare una frase del famoso

linguista Noam Chomsky:

“Il fatto che tutti i bambini normali acquisiscano delle grammatiche sostanzialmente

comparabili di grande complessità e con notevole rapidità, suggerisce che gli esseri

umani siano progettati in qualche modo speciale con una capacità di natura e

complessità sconosciuta”.

Gli studiosi ancora si domandano come è avvenuto tutto questo. Abbiamo visto che la teorie

darwiniana lascia molte domande. Non è stata una cosa scontata, quindi prevedibile, perché sono

avvenuti determinati fattori legati strettamente alla creatività. A me piace pensare al momento in cui

l’Homo Sapiens ha iniziato ad osservare le stelle, a sentire che vi era qualcosa di Altro oltre a sé.

Qualcosa che noi chiamiamo ierofania, manifestazioni del sacro.

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Ma quando l’uomo ha iniziato a parlare? Si possono analizzare diversi punti: l’osso ioide, capacità

cranica, crescita demografica e altri fattori sociali e biologici.

Secondo Ian Tattersall, l’l’Homo Sapien, al contrario dell’Homo di Neanderthal, associa la capacità

di manipolare simboli e dunque esprime un’apertura mentale al mondo dei significati. Questo

coincide con la nascita del linguaggio umano. L’osso ioide, alla base della laringe, è un altro fattore

decisivo per la nascita del linguaggio. Man mano che il linguaggio diventava articolato, l’osso si

modificava con l’aumentare della complessità; da questo si può evincere che l’origine del

linguaggio sia, di fatto, molto recente e alcuni studiosi lo confermano.

È certo che un cervello che aumenta permette la presenza di milioni di neuroni, per questo si

possono immagazzinare molti più stimoli. Marc Thomas pensa che la spinta a questa capacità sia

dovuta alla demografia; più i gruppi sono numerosi e instaurano una serie di relazioni più vi è la

capacità di acquisire delle informazioni e migliorarsi. Secondo Ian Tattersall l’uomo sarebbe il

punto di arrivo in cui funzione e struttura s’incontrano. Non è sbagliato considerare tutto ciò che è

accaduto come la costruzione di un arco in cui nulla ha senso senza l’inserimento della chiave di

volta, andando in contrasto con la teoria darwiniana.

Il linguaggio è un mondo vasto su cui si può lavorare moltissimo; gli idiomi che appartengono ad

alcuni villaggi stanno dando il posto alle lingue internazionali come l’inglese. Vorrei concludere

con due citazioni di due grandi studiosi: Noam Chomsky e Andrea Moro, a cui ho fatto riferimento

per l’elaborazione di questo intervento.

“Nessuno è in grado di spiegare come facciano le parole e soprattutto le frasi a parlare del mondo.

È una sorpresa non minore a quella del fisico che si accorge che le funzioni matematiche si

applicano ai fenomeni della realtà”.

“Non solo siamo noi esseri umani, e solo noi, ad avere creato arte ma siamo anche le uniche

creature capaci di comportamenti misteriosi ed imperscrutabili”.

Dott. Giovanni Salis: Parlare del linguaggio musicale in pochi minuti non è un’impresa semplice.

Quello che vorrei fare è suggerire qualche spunto di riflessione per aiutarci a capire in che senso la

musica può essere considerata un linguaggio e che cosa questo linguaggio ci può dire.

Comincio con una semplice osservazione: nonostante l’imbatterci quotidiano in tantissima musica,

il linguaggio musicale è considerato dalla maggior parte delle persone come una materia per

specialisti. Da cosa nasce questo giudizio? Dalla mancanza delle conoscenze musicali più

elementari, che fa sì che il linguaggio musicale sia visto come qualcosa quasi di esoterico, per pochi

iniziati, e la musica sia vissuta il più delle volte principalmente come emozione (aspetto certamente

importante, ma che è solamente uno stimolo iniziale per un approfondimento della conoscenza

musicale).

D’altro canto, il pericolo opposto è quello di credere che la conoscenza della musica si esaurisca

nella conoscenza di una serie di competenze tecniche (leggere le note, conoscere armonia e forme

musicali, analizzare nei modi più disparati, eseguire nel modo migliore) e che chi non possiede

queste competenze più o meno specialistiche sia tagliato fuori dalla vera comprensione della

musica.

Entrambe le posizioni sono naturalmente una riduzione del fenomeno musicale (in qualsiasi forma

si presenti), un modo per gestire, consapevolmente o meno, quel trasbordare di senso misterioso che

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la musica inevitabilmente genera. Infatti, sia chi non è in grado di leggere una sola nota, sia chi

conosce le notazioni che si sono succedute dal Medioevo a oggi, non può non constatare che la

musica, come primo dato dell'esperienza, è un evento misterioso che eccede di gran lunga la somma

delle sue componenti analizzabili. Se questo è vero per ogni forma artistica, nella musica si

percepisce con un'immediatezza, a volte uno shock, che nessun'altra arte può dare. Per meglio

chiarire la questione può essere utile leggere una riflessione del teologo tedesco von Balthasar:

La musica è l’arte più incomprensibile perché è la più immediata. Ci

interpella più direttamente, penetra più direttamente in noi delle altre.1

La sua immediatezza, ci dice von Balthasar, la sua familiarità, è paradossalmente proprio

quell'elemento che ce la rende così misteriosa. é questa immediatezza e allo stesso tempo

incomprensibilità che in tutti i tempi ha sempre sconvolto gli uomini, tanto da suscitare

contemporaneamente atteggiamenti e giudizi spesso opposti, che vanno dall'invasamento alla

censura più dura: così, per esempio, per Platone la musica è da regolamentare severamente nella

città ideale e allo stesso tempo è la forma più alta di speculazione filosofica; nella cultura cristiana

la musica è la forma di lode più alta a Dio, ma allo stesso tempo può diventare lo strumento del

diavolo e trascinare gli uomini nel peccato.

Il potere quasi sovrumano della musica era ben noto ai Greci, che l'hanno ben espresso in alcuni dei

loro miti più celebri: Orfeo con la sua lira riesce ad ammansire le belve feroci e a sedurre gli dei

degli Inferi, convincendoli a riportare in vita la sua Euridice; le Sirene incantavano i marinai con il

loro canto portandoli alla morte, tanto che Ulisse, volendo provare quell'esperienza senza morirne,

si fa legare all'albero della sua nave. L’uomo, allora, turbato da questa potenza misteriosa, ha

sempre cercato in qualche modo di arginarla, o perlomeno di regolamentarla, e allo stesso tempo di

immetterla in ogni aspetto della realtà che non riusciva a spiegare, come osserva in modo

affascinante ancora Von Balthasar:

Ma non è forse questa vicinanza, che ce la rende un eterno enigma, che ci ha

sempre stimolato a fissarne i limiti, a regolamentarla, a costringerla in

numeri e ad esprimerla esaurientemente in leggi?

Subito infatti, scoraggiati dall’impossibilità di quel compito, la

disseminammo di nuovo su tutte le cose del mondo, la mettemmo nei profili

delle statue, nei colori e nelle linee dei dipinti, nelle rime e nelle vibrazioni

delle poesie, nelle simmetrie delle architetture. Di più, trasferimmo la sua

azione alle azioni della natura, pretendemmo di ritrovare le sue leggi nelle

leggi dell’universo. Ed infine, per tutto quello che sfugge ad una precisa

definizione, per tutto quello che ci appare in qualche modo incomprensibile

e irrazionale, abbiamo preso a prestito il nome ‘musica’, assegnando così a

questo nome, arricchito di molti armonici, un timbro diverso da quello che

forse dovrebbe avere.2

Basta che proviamo a pensare a tutti i termini musicali che usiamo abitualmente e ci renderemo

conto di cosa intende von Balthasar: con quante sfumature di significato, per esempio, usiamo un

termine come armonia? un volto armonioso, l'armonia tra corpo e mente, l'armonia di un dipinto…

1 Hans Urs von Balthasar, Lo sviluppo dell’idea musicale, Milano: Glossa, 1995, p. 13.

2 Ibidem.

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Tanta è l'ambiguità del termine musica, che von Balthasar conclude in questo modo la sua

riflessione:

Ci dobbiamo dunque impegnare a ripulire il concetto [di musica] dalle sue

distorcenti risonanze secondarie. Ma come è possibile chiarire con le parole

qualche cosa che a parole non si può esprimere, e che si trova al di là delle

parole proprio perché ci appare ancora più immediato della parola? E

d’altronde: non è precisamente la parola il più profondo malinteso della

musica?3

Il problema sembra essere senza soluzione: forse il silenzio è, paradossalmente, l'unica parola che

possiamo dire di fronte alla musica? A questo punto ci viene in soccorso un musicista, uno dei più

importanti del Novecento, Anton Webern (1883-1945), con questa osservazione:

Che cos’è dunque la musica? La musica è linguaggio. In questo linguaggio

l’uomo vuole esprimere pensieri, ma non pensieri che si lasciano convertire

in concetti, bensì pensieri musicali. [...] Ognuno vuole comunicare con i

suoni qualcosa che non si può dire altrimenti. In questo senso la musica è un

linguaggio.4

Vediamo, innanzitutto, come per la definizione di musica come linguaggio, l'inevitabile confronto è

quello con il linguaggio verbale (pensieri, concetti, comunicazione, etc.), ma, allo stesso tempo,

Webern ci avverte subito che non possiamo semplicemente applicare le caratteristiche del

linguaggio verbale alla musica. La questione se la musica sia o meno un linguaggio, e di che natura,

ha occupato per lungo tempo filosofi e musicisti; si tratta di un dibattito nel quale non è il caso ora

di addentrarci, ma che potrebbe schematicamente essere così riassunto:

Da una parte i formalisti, per cui la musica non esprime null'altro che se

stessa e il mondo dei suoni, dall'altra i contenutisti, per cui la musica ha la

virtù di esprimere stati d'animo, emozioni, o comunque può riferirsi ad un

mondo che non si riduce ai suoni.5

Webern, da musicista, parla di pensieri musicali e sembra dunque appartenere alla schiera dei

formalisti per cui la musica non esprime altro che se stessa. In parte questo è vero, anche se subito

dopo si sbilancia nel parlare di «qualcosa che non si può dire altrimenti che con i suoni». A che cosa

si riferisce? Per capirlo non abbiamo che da rivolgerci alla nostra esperienza quotidiana: non è un

caso che Webern stesso affermi che «ognuno vuole comunicare con i suoni…»; è, insomma, una

prerogativa dell’uomo l’esigenza di potersi esprimere attraverso la musica, una sua componente

antropologica.

3 Ibidem.

4 Anton Webern, Der Weg zur neuen Musik. Vortraege, 1932-1933, a cura di W. Reich, Wien, 1960, cit. in Imberty M.,

Le scritture del tempo. Semantica psicologica della musica, Milano, Ricordi Unicopli, 1990.

5 Enrico Fubini, Linguaggio e semanticità della musica, in Id., Musica e linguaggio nell'estetica contemporanea, Torino:

Einaudi 1973, p. 33.

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Si sta facendo più chiaro a che livello si pone la posta in gioca della comprensione del linguaggio

musicale, del suo significato, della sua interpretazione. Come sintetizza efficacemente Georg

Steiner:

La nostra capacità di comporre musica o di essere sensibili alla forma e al

significato musicale coinvolge direttamente il mistero dell'esistenza umana.

Chiedere: 'che cosa è la musica?' equivale molto probabilmente a chiedere:

'che cosa è l'uomo?'6

Dove esiste l'uomo, là c'è musica. Ascoltare e fare musica è sempre stato connaturato alla natura

umana; non è esistito e non esiste popolo senza una qualche forma di espressione musicale; la

musica fa parte della quotidianità degli uomini probabilmente più di qualsiasi altra forma

espressiva, ha sempre accompagnato tutti i momenti più importanti dell'esistenza umana: ha a che

fare con la gioia e il dolore, con la vita, l'amore e la morte: in ogni cultura ci sono danze e canti per

gioire di una nascita o un matrimonio, ci sono canti per celebrare riti religiosi e magici, ci sono note

che amplificano l'amore e il lamento funebre. Ma anche se pensiamo solo alle nostre giornate,

vedremo quanta musica le avvolge: dal nostro spontaneo canticchiare quando siamo contenti (di cui

quasi non ci rendiamo conto) fino ai momenti in cui vogliamo rilassarci ascoltando la nostra musica

preferita, magari dopo una giornata di duro lavoro. Esperienza forse banale da citare, ma non per

questo meno vera. La musica, insomma, si presenta come una modalità privilegiata con cui l'uomo

si relaziona e conosce il mondo e se stesso.

Quante volte poi ci è capitato di essere espressi nei nostri sentimenti da una musica, una canzone,

più che da mille parole? Quando diciamo che la musica è espressione dei sentimenti, per esempio,

cosa intendiamo? Le opinioni sono discordanti, ma di certo i sentimenti non sono espressi come un

mero descrittivismo, ma in modo più profondo e misterioso. Non esiste, infatti, un vocabolario

musicale prestabilito per i vari sentimenti, anche se in determinate epoche storiche possiamo

individuare alcune figure retorico-musicali che svolgono un compito simile, oppure alcuni timbri di

strumenti variamente associati a determinate circostanze e situazioni emotive.

Oppure pensiamo alla natura del suono, la materia base della musica. Perché la stessa melodia

cantata da una persona non ci dice niente e da un altra ci commuove? non sono le stesse note? cos'è

il suono, questa materia che ormai sappiamo analizzare e manipolare nei minimi dettagli, eppure

rimane in ultima analisi così impalpabile? è molto efficace a questo proposito, il mito con il quale

gli antichi Greci spiegano la nascita di uno strumento chiamato aulòs, una sorta di clarinetto doppio

primitivo, dal suono molto penetrante. Racconta il mito che l'aulòs fu inventato da Atena per

riprodurre il lamento lanciato dalle Gorgoni quando Perseo decapitò la sorella Medusa: il suono

dell'aulos in questo caso non descrive semplicemente il dolore, è in qualche modo la

personificazione del dolore stesso. Sul concetto di imitazione in musica può essere utile

un’osservazione di Giacomo Leopardi:

le altre arti imitano ed esprimono la natura da cui si trae il sentimento, ma la

musica non imita e non esprime che lo stesso sentimento in persona, ch’ella

trae da se stessa e non dalla natura.7

6 George Steiner, Vere presenze, Milano: Garzanti, 1992, p. 19.

7 Giacomo Leopardi, Zibaldone, 79.

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Un’osservazione simile viene attribuita a Gioacchino Rossini:

l’espressione della musica non è quella della pittura e non consiste nel

rappresentare al vivo gli effetti esteriori delle affezioni dell’animo, ma

nell’eccitarle in chi ascolta. E questa è la possanza del linguaggio il quale

esprime e non imita.8

Ma, con e oltre i sentimenti, il linguaggio musicale ci parla soprattutto di qualcosa di più profondo e

radicato nella nostra natura. Spero sia capitato a tutti voi almeno una volta nella vita di

commuovervi fino alle lacrime ascoltando della musica. Cosa succede in quel momento, cosa ci sta

dicendo la musica, cosa sta facendo emergere in noi? Si tratta di quelle esperienze che, quando

accadono, sono perfettamente chiare, ma per le quali ci mancano letteralmente le parole. Proviamo

ad ascoltare assieme il finale del primo movimento della Quarta sinfonia di Brahms. Formalmente è

possibile analizzarlo in ogni dettaglio (formale, melodico, armonico), eppure lo scarto tra quello che

analizziamo e quello che possiamo sentire è immenso.

Fortunatamente in questi casi ci vengono in soccorso i poeti a dirci quello che noi non sappiamo

dire. Ecco cosa scrive ancora Leopardi:

La musica, anche la meno espressiva, anche la più semplice, ecc., produce a

prima giunta nell'animo un rincreamento, l'innalza o l'interisce, ecc.,

secondo le disposizioni relative dell'animo o della musica, immerge

l'ascoltante in un abisso confuso d'innumerabili e indefinite sensazioni, lo

spinge a piangere quand'anche il compositore abbia voluto farlo ridere; gli

desta idee e sentimenti affatto arbitrari e indipendenti dalla qualità di quella

tal musica e dall'intenzione del compositore o dell'esecutore.9

Ed è ancora una commozione fino alle lacrime quella che ci descrive Baudelaire, parafrasando e

ampliando una riflessione inclusa nel Poetique principle di Edgar Allan Poe:

Con la poesia e, insieme, attraverso la poesia, con la musica e attraverso la

musica, l'anima intuisce la luce che splende al di là della tomba; o quando

una poesia perfetta fa nascere le lagrime agli occhi, queste lagrime non sono

segno di eccessiva gioia, ma piuttosto indice di una malinconia esasperata,

di una esigenza nervosa, di una natura esiliata nell'imperfetto che

bramerebbe possedere subito, in questo mondo, un paradiso rivelato.10

La musica, come ultimo approdo, si rivela dunque come il tramite più immediato con qualcosa di

divino che ci tocca, e che pure è impalpabile (e non si tratta di una questione personale o romantica:

pensate a come in ogni cultura la musica sia il linguaggio misterico-religioso per eccellenza; i

sacerdoti di ogni religione, dagli sciamani ai monaci, dialogano con la divinità attraverso la musica

e il canto).

Di raggio divino parla esplicitamente ancora Leopardi in alcuni versi nei quali descrive l'effetto in

lui provocato dalla bellezza della donna e della musica:

8 Antonio Zanolini, Biografia di Rossini, Bologna: Zanichelli, 1875, p. 287.

9 Giacomo Leopardi, Zibaldone, 1782.

10 Charles Baudelaire, Opere, Mondadori: 2006, pp. 828-829.

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Raggio divino al mio pensiero apparve,

Donna, la tua beltà. Simile effetto

Fan la bellezza e i musicali accordi,

Ch'alto mistero d'ignorati Elisi

Paion sovente rivelar.11

Ma forse la sintesi più bella dell'essenza misteriosa del linguaggio musicale è stata espressa in una

poesia da Clemente Rebora, grande appassionato di musica e musicista egli stesso:

O musica, soave conoscenza,

tanto innaturi l'anima fin ch'ella

delle imagini vere la più bella

in sua voce ritrova e in sua movenza;

e come a noi perman l'intelligenza

se vada in labil suono di favella,

armoniosa in te non si cancella

l'eterna verità mentre è parvenza.

Virtù ti crea che non par segreta,

ma il ritmo snuda l'amor che discende

dall'universo a rivelar la meta:

amor che nel cammino nostro accende

l'inconsapevol brama triste o lieta,

e in te, raggiunto il tempo, lo trascende.12

Ha veramente ragione Steiner, allora, quando afferma che chiedersi che cosa è la musica equivale a

chiedersi che cosa è l'uomo: la domanda di senso che emerge in tutto ciò che compiamo, trova

infatti nella musica una sua espressione privilegiata e, allo stesso tempo, in essa possiamo percepire

un frammento di risposta che, invisibile eppure udibile, ci attraversa e ci sconvolge, facendoci

desiderare, come diceva Baudelaire, qui sulla terra un «paradiso rivelato».

11

Giacomo Leopardi, Aspasia, vv. 33-37. 12

Clemente Rebora, Frammenti lirici, xvi, in Id., Le poesie (1913-1957), a cura di Gianni Mussini e Vanni

Scheiwiller, Milano: Garzanti, 1994, p. 41.

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Dott. Davide Rondoni: È come se, ascoltando i contributi che ci sono stati dati oggi, mi tornasse

sempre una domanda. Perché bisogna interpretare? Cosa muove l’uomo ad interpretare? La

passione per l’interpretazione è commisurata alla paura di errare, ovvero al desiderio di raggiungere

una meta. Una certa tiepidezza dipende dalla mancanza della paura di errare. Dante fa il viaggio

della Commedia, che è una grande interpretazione, dicendo al lettore «vieni con me in questo

viaggio!». Se non si avverte il terrore di errare rispetto a uno scopo che ami raggiungere, non si può

seguire Dante in questo viaggio. Perché devo creare un posto dove conoscere tutto? Questo si può

spiegare solo con l’interpretazione. Questo è amplificato nel momento in cui viviamo perché una

certa immagine del mondo non è una selva o di una strada ma di un posto dove ogni direzione è

indifferente. Dal punto di vista conoscitivo l’immagine della vita è questa, dove la parola errore o

errare non ha senso. Il viaggio in qualsiasi direzione è giustificato. Se non c’è il rischio

l’interpretazione non è un problema interessante. Qualsiasi riflessione sull’interpretazione deve fare

i conti con un gesto personale che Don Giussani chiama la decisione dell’esistenza. Mi limito a

questo come prima asserzione; non c’è un’opera che non abbia al centro il rischio dell’erranza.

Nel momento dell’interpretazione ti interessa anche sapere l’essenza di ogni relazione. Per fare un

esempio vorrei citare una frase molto bella di Blaise Pascal:

“A torto si è privato l’amore del nome di ragione e senza alcun fondamento vi si è

contrapposti. Infatti amore e ragione non sono che una stessa cosa. È un precipitarsi di

pensieri che si dirige verso una parte senza tener conto del tutto, ma pur sempre di

ragione si tratta. E non si deve e non si può desiderare che sia altrimenti perché in quel

caso saremmo macchine assai sgradevoli. Non si escluda perciò la ragione dall’amore

perché ne è inseparabile”.

Nella poesia accade che il linguaggio, lo strumento che indica il rapporto con il reale, è il luogo in

cui abitiamo. Il linguaggio è, nell’esperienza poetica, il ricreamento. Cioè il fatto che attraverso un

veloce passaggio tra lo stupore, il momento in cui vi è un’apparente sospensione dei pensieri, il

ritmo e la corrispondenza accade un momento di conoscenza che coincide con il fatto che il sé e la

realtà riaccadono. Ripartecipi, in questo modo, alla nascita di te con il reale. Conoscere non è uno

spiegare le cose ma è la consapevolezza di quella presenza, si ha conoscenza vera solo quando

qualcosa si svela. Il connascimento con la realtà avviene nel momento in cui il discorso non

funziona, in cui viene contraddetto il principio di non contraddizione. I momenti più importanti, se

ci pensiamo, possono essere approssimati ma non si possono mai raccontare definitivamente, una

volta per tutte. Per questo vorrei presentarvi una poesia che ho scritto su una ballerina perché la

danza, così come la musica, è qualcosa d’immediato che ha a che fare con l’interpretazione.

A Svetlana Zakarova, stella del Bol’soj

Bella fino alla violenza

entra Odette dalle braccia di corda

stanca di morire già dal primo passo e

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sferzata a vivere da qualcosa dentro

che il coreografo non può prevedere

e il pubblico forse applaude per tenere lontano –

la più magra delle ballerine

incisa nella forza di perdersi

muove le mani le gambe come funi, pensieri

nuove direzioni della materia

annulla la differenza tra il teatro e l’oblio –

È tutto scena,

lo sa seduto al palchetto di terz’ordine di fronte al mio

l’apostolo che restò cieco e felice

come noi che ora scendiamo a picco

tre livelli di scale mobili di metropolitane

pietrificate di luce

città che volva essere il sogno

degli eguali senza visione.

Lei è nel camerino muto

le duole il gomito come un criceto.

E’ nel punto del non sapere più nulla

il silenzio della mente riservato a chi balla così

a chi ascende al cielo – e a chi va

sotto e poi sotto, tra i denti una dura felicità.

Vorrei proporvi un’altra poesia che ha a che fare con le parole e il linguaggio, su cosa fa la poesia

rispetto al reale:

Il ragazzone ritardato sulla spiaggia con la carriola

che corre nel vento e con il mare grosso

è avanti a tutti, grida di che oscura

felicità

Urla lui urlano le onde

e io morendo

trasformo tutto questo in silenzio

per farlo durare nelle parole

e nei nostri cuori ritardati e di vento.

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Un giorno ero in treno e sentendo delle parole è nata questa poesia, qui potete vedere come da una

forma di linguaggio ne nasca subito un’altra:

In treno, due file

più in là,

al telefono chiede per l’avviso sul giornale, un camper gli fa,

usato, ma dopo tre minuti parla

della malattia della moglie

a 44 anni, dice l’acquirente esperto di vetture

un male bastardo

qualcosa nelle ossa.

L’altro deve raccontare di simili sventure.

Passano rapidi ai modi di riscaldamento del van,

ai figli che ne voglion più sapere, sono già

grandi.

A tratti parlano più piano.

E da solo dove ci vado io col camper?

Però è una passione.

Si incontreranno in un piazzale, le corone

Dei monti saran fredde e larghe in quella curva,

faranno l’affare, a testa nuda, non si troveranno

simpatici, e perché dovrebbe essere? Penseranno,

mentre già la mente andrà mirando ad altro

in quel cerchio azzurro di nevi lontane.

Vi presento una poesia che scaturisce da esperienze molto personali:

Video Luna

Esci dallo schermo, luna, migra

dal sereno perfetto e morto del video

e vai,

perditi

nel vasto cielo

che deflagra

nei miei occhi

e brucia sulle spalle le lacrime le dita tra i denti

mentre lei mi bacia o

supplica o sfascia –

sii allegra, inutile

pigra, violenta esci

dal riquadro che ti toglie canto, grido

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alzati dietro il tenuissimo braccio di nuvole

tira l’esile stormo un filo

di fiato

dimmi che ci facevi anche nel mio schermo

prima dell’out, luna amata

a cuore slacciato…

Le ultime poesie che vi consiglio sono sempre legate al linguaggio. La prima nasce da un incontro

in carcere; da questi incontri la chiusura apre nuovi orizzonti. Un detenuto in particolare affermò di

annoiarsi molto, in un modo straziante, anche quel giorno, il suo ventiseiesimo compleanno e io gli

regalai uno dei miei bracciali.

Sono con Ivan al braccio 6

di san Vittore, mi annoio dice

ma sta dicendo

muoio,

e poi guardando via: oggi

è il mio compleanno.

Sono ventisette e ha la faccia da bambino, mi slaccio

un bracciale di cuoio: tieni,

come se potessi ridarti

il rovo rosso del cuore

vado via, mi mostra al suo compagno

“cella guardata a vista”,

e il guardato a vista ora sono io

con lo sguardo addosso

che risucchia Milano e il cielo di gennaio

ruvido come un tiro di sigaretta al gelo.

Sono sempre con Ivan al braccio 6, il mio

bracciale è un niente di amore

nella notte che non ha mai cielo

a san Vittore.

La conoscenza avviene anche per apparizioni:

Seduta sul marciapiede si truccava, aveva

sedici anni, nell’aria distratta, sfacciata

di Roma, o forse meno, ragazzina nel fiume

d’acciaio e vento, sul bordo

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provvisorio di pochi anni, sulla riva

della metropoli piena di stracci e di secoli

coi trucchi e la linea

meravigliosa degli occhi, la irripetibile

bellezza che un gesto strappa al viaggio, al tormento.

Conosci qualcosa di più potente

della bellezza casuale?

Come fai ad avere paura del male?

Le gambe all’altezza delle ruote, seduta

sul gradino d’asfalto, non c’era

niente di più alto nel cuore capitale

nel petto scavato della città che da sempre

se stessa come un grido risale

Non c’è stato nemmeno l’attimo di guardare meglio,

posare gli occhi dal fuoco che li divora

l’angelo d’aria e rimmel nel suo sfaglio

non attese un secondo passaggio

lasciò tutti alla propria follia, al sole piumato

che non ci lascia indenni, al brancolante

viaggio tra il niente e i millenni

fu lei l’annunciazione ieri mattina,

l’eterno che cerca corpo ancora

in una ragazzina.

L’ultima è una poesia molto strana che si chiama La gloria. Ma cosa significa veramente per l’uomo

la gloria?

La gloria

La gloria, balbettava,

la nebbia

bagnava le labbra, brillava

i treni gli trapassavano il cuore

senza tornare

la vita gli stava sola

attaccata al bracciale

il tavolino del caffè

con le briciole di chi sa chi

e cristalli di zucchero, metà

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cenere nel piattino

conteneva i dati

fondamentali della sua esistenza

e così

pensava: qualcosa di infantile

mi uccide e mi salva

non c’è assoluzione se non nei sì ricevuti

ripetuti dalle absidi del tuo

corpo e da Dio airone

in una terra di alberi silenziosi, acque e

durissimi tramonti che si schiantano

tra campi e viadotti,

sono anni che ci strappiamo di mano

i resti del nostro amore e crescono i suoi

germogli miracolosi, e noi sempre

sedotti-

la vita abbaia tutta la vita

per un’altra giustizia.

Francesco che sguaini l’anima del lupo

e la mia strepitosa, stregata

battezza noi con le spine

della giovinezza

e con l’alba stupefatta, rinata

sui crinali

luadato sii per chi perdona

e vaffanculo gli altri che comandano, laudato per chi

ridotto nell’ombra dei suoi mali

non alza il dito ma

rovescia il palmo e sposta i capelli

dalla fronte d’altri feriti

Vieni vino vieni

veleno sei? O cosa? Canzone,

qualcosa che vuole esistere

con forza mostruosa

e chiamo: violentissima rosa

con i pazzi bambini

nomi dell’amore

Sei dolcissimo tremendo Creatore

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Io mi sto fermando

e morendo alle soglie del silenzio

mente di sale

mormoro il tuo nome

airone crocifisso regale di piogge

e di disastro in disastro

in una luce di fondali

Non voglio più

eleganze e posso offrirti un manto

di pelliccia come un onore fuori luogo

cosa se ne fa Dio del mio

vecchio cappotto…

o poesie così rotte, un pezzo di pane

nero tra le mani, la sconfitta, una

camminata sul molo,

una dura felicità, finalmente

la gloria.

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25 Maggio, mattina

Il linguaggio cinematografico e artistico

Prof. Armando Fumagalli: Spesso quando si parla di cinema si parla di linguaggio delle immagini

ma il cinema è, in particolare, raccontare una storia. Si focalizza l’attenzione su eventi particolari,

desideri e sorprese. In una scena del film Up possiamo vedere quarant’anni di vita di una coppia in

soli quattro minuti. Una straordinaria capacità di sintesi e di farci percepire desideri, sogni,

delusioni, emozioni. In più, anche sul piano visivo c’è molta creatività: per es. tutto ciò che riguarda

l’uomo è caratterizzato da elementi quadrati mentre ciò che riguarda la donna è basato su oggetti

circolari.

Ho una ormai lunga esperienza nella formazione di sceneggiatori di cinema e televisione da quando,

nel 2000 abbiamo messo le basi per il primo master di sceneggiatura in Cattolica. Il più conosciuto

fra gli ex allievi (insieme a molti sceneggiatori televisivi molto noti nell’ambiente professionale:

autori di serie come Don Matteo, Che Dio ci aiuti, Un passo dal cielo e molte miniserie di

produzione internazionale) è forse Alessandro D’Avenia che ha scritto due libri di grande successo.

Da uno in particolare, Bianca come il latte, rossa come il sangue, è tratto anche il medesimo film a

cui ho avuto la fortuna di collaborare.

Nella nostra attività formativa abbiamo cercato fin da subito di capire come funzionasse l’industria

cinematografica più forte del mondo: quella americana di Hollywood. Sono veramente pochi i

Paesi che hanno più del 20% di produzione del cinema nazionale. Per questo ci siamo focalizzati

sull’industria americana che è incentrata sulle regole del racconto; qualsiasi film, anche grandi

capolavori, seguono principi condivisi per l’analisi e la costruzione delle storie. Queste regole si

possono insegnare e si possono imparare, sono utilizzabili per qualsiasi forma di racconto. I numeri

per vendere un romanzo, un film o una fiction sono profondamente diversi. Cinquemila copie di un

romanzo vendute sono un ottimo numero, cinquemila spettatori paganti per un film determinano il

fallimento del regista; in televisione una fiction di produzione originale deve puntare a cinque

milioni di spettatori.

Alcune tecniche di scrittura per coinvolgere il lettore attraverso dei turning point, punti di svolta che

coinvolgono chi legge. Un’altra tecnica consiste nel dare per implicito tutto quello che uno può

capire, mettere nella storia e ancora di più nel dialogo, solo tutto ciò che non è ovvio.

Molti film sono adattamenti di opere letterarie, dunque c’è un legame strettissimo tra ambiti

espressivi che sembrano apparentemente diversi e lontani. Dove l’industria funziona c’è un legame

forte con la letteratura.

Le forme di racconto per il grande pubblico richiedono due grandi qualità che sembrano opposte:

una grande creatività e allo stesso tempo una grandissima logica. Il lettore o lo spettatore crede di

essere all’interno di un mondo (quello del romanzo oppure del film) che deve avere una sua

profonda coerenza; per questo ci sono professionalità diverse che lavorano nei racconti: per es. c’è

tanto lavoro fatto da story editors e dai produttori che aiutano gli sceneggiatori a dare più coerenza

alla storia.

Un esempio può essere A Beautiful Mind, dove un matematico, John Nash, che può risultare

antipatico e misantropo, diventa già nelle prime scene del film qualcuno a cui voler bene. La parte

creativa non si può imparare molto, ma la parte strategica si può apprendere per aiutare altre

persone ad essere creative o se stesi, se si è degli sceneggiatori.

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Vorrei fare un’ultima considerazione. Questo tipo di racconti che arrivano al cuore delle persone

hanno una capacità di illuminare su alcune realtà e muovere sul pensiero, l’azione e le decisioni. Il

mondo dell’intrattenimento ha un grande potere culturale sul quale, secondo me, c’è stata una scarsa

presenza di cristiani; non dico di istituzioni o iniziative ufficialmente cattoliche. Intendo la presenza

di professionisti che mettano la propria sensibilità religiosa in grandi racconti. Ci sono stati in Italia

casi di fiction religiose di grandissimo successo; inoltre i film che hanno fatto più incassi sono tutti

legati a messaggi positivi; questo vuol dire che dal punto di vista commerciale ed economico lo

spazio c’è per non basarsi sempre su tematiche negative incentrate sul sesso e la violenza.

Ho pubblicato un libro, su questi temi, che s’intitola Creatività al potere in cui racconto proprio la

mentalità dei produttori e dei registi di Hollywood. In questo libro mostra, da una parte, che c’è

spazio per fare cose buone e positive in cui le componenti valoriali sono perfettamente compatibili

con gli ideali cristiani, dall’altra, non si può nascondere che il panorama cinematografico è stato

occupato da una cultura molto contraria alla famiglia, favorevole all’ideologia omosessualista; per

una serie di motivi complessi da spiegare ora sono riusciti a monopolizzare il mondo delle serie tv

e a rivolgersi a nicchie di spettatori che sono fortemente orientate ideologicamente.

Diventa così difficile poter lavorare per chi non condivide gli ideali di questo tipo, chi aderisce a

certi valori. Questo vale, però, per le serie tv più che per i film, che sono a scala mondiale e dunque

devono legarsi a ideali che possono essere condivisi da tutti.

Concludo illustrando un esempio secondo me positivo a cui ho potuto collaborare: la miniserie in

due puntate per Raiuno, tratta da Anna Karenina , prevista in programmazione per l’autunno 2013.

Nel romanzo di Tolstoj ci sono due storie d’amore, una discendente, quella di Anna con il marito,

che la donna tradisce perché innamorata del conte Vronskij, e una ascendente tra Levin e Kitty,

dove l’amore legato al matrimonio lentamente si afferma e si consolida. Quando si racconta di

Anna, il rischio è pensare che il divorzio risolverebbe o risolve tutto. Noi abbiamo cercato di

mostrare come anche per Tolstoj stesso il divorzio non era una vera soluzione; egli voleva mostrare

come non essere fedeli al proprio marito è una scelta in sé assolutamente autodistruttiva. Per questo

abbiamo dato spazio sia alla figura del figlio di Anna che alla storia “ascendente” di Levin e Kitty.

Noi siamo convinti che non bisogna polarizzarsi sulla semplice soggettività dei desideri dei

protagonisti, ma mostrare più in profondità le vere conseguenze di ogni azione, e in concreto anche

la possibilità e il valore dell’amore matrimoniale. Speriamo di esserci riusciti.

Prof. Davide Dall’Ombra: Il linguaggio artistico crea maggior difficoltà di comprensione, e di

comunicazione, perché il rapporto tra il fruitore e l’opera d’arte è unico, è un accadimento

difficilmente comunicabile. È come tentare di spiegare cosa voglia dire innamorarsi: se non lo provi

non puoi spiegarlo e nessuno s’innamora esattamente allo stesso modo di un altro.

Al liceo studiavo poco, pensavo che quasi tutto fosse più interessante di quello che mi spiegavano a

scuola. L’unica cosa che mi dava un certo piacere era storia dell’arte, tanto che decidendo di

provare almeno a fare l’università – non era affatto scontato – puntai tutto su quell’unica cosa che

mi dava piacere e scelsi Lettere, indirizzo Storia dell’Arte. Fu così che, quasi subito, grazie a un

amico, mi scontrai con un libro che ha segnato tutta la mia vita. È una lunga intervista fatta a

Giovanni Testori, che è una sorta di testamento, in cui racconta tutta la sua vita: Conversazioni con

Testori di Luca Doninelli [Guanda, 1993; Silvana, 2012]. In questo libro bellissimo, che poi avrei

riletto molte volte, la frase che mi ha tramortito è stata: “L’arte era per lui questione di vita o di

morte”. A parlare era Testori e il “lui” era il suo maestro Roberto Longhi. La mia vita in quel

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momento, con quella frase, ha fatto “click”, è scattata, perchè immediatamente mi sono detto: “Beh

se l’arte è una “roba” così, allora ne vale la pena, anzi, per meno di questo livello non vale la pena

fare l’università”. Se sono qui adesso è perché, effettivamente, nella vita ho trovato riscontro nel

fatto che l’opera d’arte ha qualcosa da dire in tutti i frangenti della vita, è una compagna di viaggio

che non mi ha mai abbandonato.

Vi racconto questo perchè, nel avvicinarsi al tema dell’arte contemporanea, io non riesco a pensare

ad uno sguardo distaccato, tanto meno disincantato, ma sempre e solo ad un approccio totalmente

partecipe: bramoso di cogliere, di scoprire nell’opera qualcosa di sé e del mondo. Vi presento allora

tre artisti che io amo e che ci permettono di dar conto di alcuni aspetti peculiari dell’arte

contemporanea. Appartengono ad una sorta di generazione artistica, operante a Londra dagli anni

Novanta, consacrata dal pubblicitario Charles Saatchi, con la mostra Sensation, nel 1997. Sono tre

artisti pienamente inseriti nelle logiche contemporanee del mercato, richiesti in tutto il mondo, con

una radice comune, eppure diversissimi.

Damien Hirst è, probabilmente, l’artista vivente più pagato al mondo e con lui arriva al culmine un

certo modo di concepire l’arte, strettamente legata alla finanza e alle dinamiche economiche. L’arte

è da qualche decennio un bene d’investimento molto ricercato, utile per comporre un pacchetto di

un fondo finanziario come fosse un immobile o una società; molti degli affari più grossi non

avvengono per appendere un dipinto sul divano di un magnate russo, ma semplicemente cambiando

l’intestazione sulla cedola di proprietà di un’opera che non si sposta dal caveau di una banca. Hirst,

in questo contesto, ha voluto mettere alla prova il concetto basilare dell’arte: il valore aggiunto che

dà l’autografia dell’autore al manufatto artistico. Quando l’arte, come avviene nel ’900, si stacca

dalla bellezza riconoscibile e dalla sola capacità tecnica dell’autore, tutto cambia. Sorgono, in

questo modo, dei paradossi che bisogna tener presenti, in un certo senso digerire senza troppo

scandalo, per potersi godere il frutto artistico del nostro tempo. Hirst è forse il punto di arrivo della

Merda d’artista di Manzoni, che è del 1961!, e vuole mettere alla prova il sistema, dimostrando che

una sua opera, per quanto possa costare realizzarla, comunque varrà molto di più solo per il fatto di

essere una “sua” opera. così che nasce For the Love of God (2007): un teschio interamente in

platino e ricoperto di diamanti. L’autore, in questo caso, spende qualche decina di milioni di euro di

materiale e lavoro dei migliori orafi. Nasce così l’opera contemporanea dai costi di produzione più

alti al mondo, ma il cui valore di mercato è comunque il doppio del costo di produzione, perchè è

un’opera unica di Damien Hirst.

Il lavoro di Hirst è molto serio e non è solo uno stratagemma di mercato, perché ci obbliga a

riflettere su molte problematiche artistiche attuali, su cosa possiamo dire essere il compito di un

artista. Per capire da dove parte questa parabola di Hirst basta porre attenzione alla sua prima opera.

Damien inserisce in una teca uno squalo vero imbalsamato, immerso nella formaldeide trasparente,

lui è giovanissimo e l’operazione viene finanziata da Saatchi. Quest’opera si pone un tema molto

importante già nel titolo: The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living

(1991). L’uomo non può costruire la propria esistenza dalla morte, deve partire dalla vita, eppure la

morte è parte della vita. Hirst, in tutte le sue opere, ci fa fare esperienza di questo crinale tra vita e

morte, dell’incombenza della morte sullo splendore della vita. Non ci vuole dare risposte risolutive

sulla morte o sulla vita – come quasi tutta l’arte contemporanea, pone più domande che risposte –

ma vuole metterci di fronte alla realtà.

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La cosa che rende quest’opera ancora più emblematica è ciò che accade qualche anno dopo la sua

esecuzione. Lo squalo, ad un certo punto, inizia a decomporsi; non solo marcisce, ma macchia la

formaldeide in cui è immerso, che diventa prima opaca e poi rende invisibile tutta l’opera.

L’acquirente, che aveva da poco sborsato diversi milioni di euro, ne investe qualche altro centinaio

di migliaia per permettere ad Hirst di comprare un altro squalo, farlo imbalsamare (meglio) e

sostituirlo. Ciò che vale, e che è stata acquistata, è l’idea, non il manufatto in sé, perciò nessuno si

fa problemi a gettare il primo squalo, anziché conservarlo come se fosse l’opera originale. Nessuno

si pone il problema che lo squalo sia un altro – ha anche le fauci aperte anziché chiuse – e che

l’opera sia sostanzialmente cambiata.

Il fatto che l’artista sia l’autore di un manufatto è un concetto superato, scandalizzati o meno

bisogna darlo per assodato: il processo iniziato con l’Orinatorio di Duchamp (1917!!) è

irreversibile.

Bisogna accettare il compromesso, ci conviene, perché l’artista è ancora oggi un profeta: è in grado

di farci capire qualcosa dell’oggi che non vediamo ancora e ci sta dicendo qualcosa dell’epoca che

verrà. A patto di non imporgli regole che non gli appartengono più da decenni.

Un altro artista che amo, apparentemente agli antipodi rispetto a Hirst, è Ron Mueck che realizza

opere molto realiste, più piccole o più grandi del naturale. L’arte iper-realista non è una novità del

contemporaneo e, anzi, Mueck sembra rifuggire da questa categoria proprio cambiando la scala. Ciò

che è unico in lui è che si pone nel ruolo di creatore e si capisce bene che le sue immagini sono

sempre frutto di un grandissimo rispetto per la creatura che sta realizzando. Dà corpo in questo

modo a momenti di vita intrisi da una fortissima umanità. Ci parla di relazioni d’amore, di

amicizia, di sofferenza e di limite, con delicatezza e forza insieme.

Una necessità spesso preponderante dell’arte contemporanea è di conoscere la biografia dell’artista

perché profondamente legata all’opera. il caso di Jenny Saville che utilizza la pittura, una tecnica

classica, per raccontare il peso della vita attraverso il peso dei corpi. Grandi figure femminili che

strabordano nelle loro carni, ritratte più o meno sofferenti e in dimensione gigante. Sono opere che

l’hanno resa molto famosa e apprezzata; ma ad un certo punto, pochi anni fa, succede nella sua vita

qualcosa di nuovo e la sua pittura cambia. Comincia a realizzare, partendo dalla reinterpretazione di

dipinti antichi di Michelangelo e Leonardo, una serie di autoritratti di madri con bambino di cui

restituisce tutta la straordinaria vitalità. Semplicemente, o clamorosamente, è accaduto che la

pittrice ha avuto due bambini e la sua vita, insieme alla sua pittura, è cambiata. Da questo momento

esplode un nuovo stile che non ha la sua forza nella pesantezza, ma nell’energia del movimento. Il

peso della vita non sembra più l’ultima parola su di essa.

Si tratta naturalmente solo di tre esempi tra i tanti possibili, che danno dell’arte contemporanea una

visione assolutamente parziale e personale. Ma ora tocca ad ognuno di voi cercare i propri. L’arte,

se v’interessa, dovete andarla a vedere con i vostri occhi. Non c’è riproduzione che tenga. Non c’è

nulla che può restituire il rapporto con l’opera d’arte; è un incontro tra due elementi, un oggetto

reale e un soggetto, anch’esso reale, che siete voi. Ad ognuno il proprio innamoramento e non ci

s’innamora di una foto. E se vedrete le opere dal vero vi potrete rendere conto di come molte di esse

si possano comprendere solo attraverso il tempo, come, del resto, tutti i rapporti importanti della

vita. È vero che il quadro ci appare di fronte tutto in un istante, ma richiede di essere amato, odiato,

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digerito nel tempo. Testori diceva che vedere un’opera d’arte è come leggere un libro tutto d’un

fiato. Ma è solo l’inizio: bisogna concedergli qualcosa di noi per sfruttare l’opera al massimo, per

succhiare da essa tutto ciò che può darci, tutti i particolari, le forti relazioni tra sentimenti e

personaggi, che autori d’arte più lontana nel tempo, magari, ci sanno già trasmettere.

Dott. Mariano Cristaldi: Abbiamo avuto tanti spunti di riflessione dai nostri ospiti. Siamo stati

spettatori di un’occasione di conoscenza, di incontro e di dialogo.

A riguardo volevo citare il filosofo Alain Finkielkraut che della conoscenza dice: “la conoscenza è

un qualcosa di imprevisto, un irruzione del nuovo che rompe gli ingranaggi, che mette in moto un

processo”. Questo pensiero descrive questi due giorni di lavoro.

La conoscenza implica un movimento personale. Un’attività non una passività. Potremmo dire che

il linguaggio da solo non basta se non c’è un coinvolgimento e un incontro diretto tra persone.

Si conosce seguendo dei “maestri” come quelli che abbiamo ascoltato in questi giorni.