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La deontologia dell’avvocato

Principi generali

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1. Deontologia in generale 1. – Morale, etica e deontologia

Prima di affrontare la problematica della deontologia e dei codici deontologici, è

opportuno un breve cenno ai concetti fondamentali di morale ed etica, in considerazione

del fatto che non esiste una definizione univoca di tali concetti, né è condivisa la relazione

che intercorre tra l’etica e la deontologia.

Il termine “morale”, derivante dal latino mos (costume), indica la descrizione dei costumi,

dei comportamenti, del pensiero e degli stili di vita. La morale non è unica ed immutabile

per tutta l’umanità, ma cambia da popolazione a popolazione e si modifica nel corso degli

anni anche all’interno della stessa civiltà.

L’etica, intesa come dimensione universale della morale, è, invece, l’insieme dei principi,

delle regole, dei valori che governano le azioni umane. La morale costituisce, quindi, la

proiezione individuale dell’etica.

La deontologia è, invece, quel complesso di regole di condotta che devono essere

rispettate nell’attività professionale, e proprio perché professionale, è settoriale e non

universale.

Nel parlare di deontologia è inevitabile, quindi, il riferimento all’etica e alla morale: è

etica, infatti, la disciplina che indica le regole e i valori che governano le azioni umane, e

quindi indica le regole che tutti i cittadini devono osservare, mentre la deontologia

comprende i doveri che gli esercenti le professioni devono osservare (nella specie, i

comportamenti degli avvocati e le regole che devono essere osservate).

La deontologia può definirsi l’insieme dei principi che un determinato gruppo

professionale deve osservare nell’esercizio della sua professione. La deontologia si

distingue dall’etica che si riferisce a tutte le condotte umane.

Con il sintagma “deontologia forense” si fa riferimento alle regole di condotta che devono

essere rispettate da colui che esercita la professione di avvocato; le radici di tali norme

comportamentali trovano il loro fondamento nel sistema processuale romano (in

particolare nell’ars rethorica di Marco Tullio Cicerone) in cui vigeva la regola per

l’avvocato, nello svolgimento della professione dell’”honeste defendere”, sia in relazione

ai rapporti con il cliente, con i colleghi e con i magistrati.

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Le norme deontologiche non vanno, però, confuse con le regole di costume, di buona

educazione e di stile (es., deferenza del collega giovane verso l’anziano), giacchè queste

non hanno alcun contenuto precettivo, ma si esauriscono nella sfera dell’interiorità di

ogni singolo soggetto.

Il codice deontologico, invece, è un documento che racchiude l’insieme delle norme

deontologiche, cioè contiene le regole di condotta che un gruppo professionale deve

necessariamente rispettare nell’esercizio della propria professione.

Il codice deontologico, configurandosi come una emanazione dell’etica e della morale di

una determinata fascia professionale in un definito periodo storico, è soggetto, come

l’etica e la morale, a cambiamenti e modificazioni nel corso del tempo a secondo dei

contesti culturali.

L’Ordine forense si è dato, nel tempo, regole comportamentali valide per tutti gli

avvocati, apportatrici di una responsabilità disciplinare, la cui trasgressione implica

sanzioni disciplinari.

Chi ha effettuato una scelta professionale, deve svolgerla con l’osservanza delle norme

deontologiche, composte da regole obiettivamente rilevabili dalla coscienza sociale e

dall’etica professionale.

2. –Legge professionale e deontologia

Nella materia “disciplinare” dei liberi professionisti vi è stata una progressiva

“legalizzazione”, nel senso che sempre più spesso, normative concernenti le regole di

comportamento dell’avvocato nell’esercizio dell’attività professionale, vengono ad essere

fornite dal legislatore. Infatti, il legislatore in questi ultimi tempi prescrive determinati

comportamenti, stabilendo che la violazione degli stessi costituisce illecito disciplinare.

La nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense di cui alla legge n. 247 del

2012, “dedica” alla deontologia vari articoli. In particolare, l’art.2, comma 4, in cui si

afferma che l’avvocato, nell’esercizio della sua attività, è soggetto alle regole

deontologiche; l’art.3, comma 3, in cui si legge che “l’avvocato esercita la professione

uniformandosi ai principi contenuti nel codice deontologico”; l’art.35, comma 1, lett. d)

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che stabilisce che il Consiglio nazionale forense emana e aggiorna periodicamente il

codice deontologico.

La stessa legge professionale contiene disposizioni aventi natura e funzione deontologica,

la cui violazione costituisce illecito disciplinare: in particolare quelle relative alla

associazione tra avvocati (art.4, legge n. 247/2012), al segreto professionale (art. 6), al

domicilio (art. 7), alla pubblicità (art. 10), alla assicurazione obbligatoria (art. 12),

all’esame di abilitazione (art. 46).

Né tali “interventi” del legislatore nel “creare” illeciti disciplinari, ledono l’autonomia

dell’ordinamento forense, in quanto, come affermato da autorevole dottrina “l’iniziativa

legislativa finisce per rafforzare il ruolo dell’ordine forense, a cui spetta pur sempre la

competenza e l’autonomia per valutare e sanzionare le condotte qualificate come

disciplinarmente rilevanti e conferma indirettamente la giuridicità delle norme”.

Alla codificazione degli standards di etica per la professione legale ha recentemente

provveduto anche la Comunità europea.

La legge professionale del 2012 ha ricostituito il sistema “deontologico” forense su base

normativa, attribuendo espressamente, tra l’altro, al Consiglio nazionale forense la

potestà di emanare norme deontologiche, ma anche dettando direttamente regole

specifiche e qualificando come illecito disciplinare la violazione di tali regole.

Vi è stata, quindi, la trasformazione dell’etica professionale dell’avvocato, da indicazioni

non formalizzate su base tradizionalistica e pratica, a codificazioni sistematicamente

articolate.

La deontologia deriva direttamente dall’ordinamento giuridico professionale dal quale

riceve il fondamentale avallo normativo ed è finalizzato a regolare i comportamenti e a

salvaguardare la professionalità dei suoi iscritti.

Le norme che regolamentano la deontologia della funzione difensiva dell’avvocato –

come risulta dalla legge (legge n. 247/2012) di riforma dell’ordinamento professionale -

non sono espressione di istanze corporative ma veicolo del pubblico interesse al corretto

esercizio della professione: la difesa ha funzione sociale ed è mezzo di attuazione di diritti

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a rilevanza costituzionale. Le norme che presiedono alla deontologia della funzione

difensiva dell’avvocato si coniugano, quindi, con la tutela del pubblico interesse ad un

idoneo, qualificato e corretto esercizio della professione, e sono finalizzate al corretto

esercizio della professione legale per la tutela dell’interesse pubblico.

Ed, infatti, la legge n. 247 del 2012, tra l’altro, prevede che il codice deontologico deve

prevedere: a) doveri e regole di condotta (art.51); b) canoni che impongono una condotta

irreprensibile, requisito per l’iscrizione all’albo (art. 17); c) principi ai quali l’avvocato deve

uniformarsi nell’esercizio della professione e norme di comportamento che è tenuto ad

osservare in via generale.

La violazione dei doveri, regole di condotta, principi, norme di comportamento previste

dal codice deontologico, costituiscono illecito disciplinare.

Ed è sempre la legge professionale a sottolineare il pubblico interesse al corretto esercizio

della professione, prevedendo (art.1, comma 2, lettere a), b) c), che l’ordinamento

forense, stante la specificità della funzione difensiva, in considerazione della primaria

rilevanza giuridica e sociale dei diritti alla cui tutela è preposta:

- regolamenta l’organizzazione e l’esercizio della professione di avvocato, per

assicurare la idoneità professionale degli iscritti onde garantire la tutela degli

interessi sui quali essa incide (ai sensi dell’art.2, comma 2, legge n. 247/2012

l’avvocato ha la funzione di garantire al cittadino l’effettività della tutela dei

diritti);

- garantisce l’indipendenza e l’autonomia degli avvocati (l’avvocato, nell’esercizio

della sua attività è soggetto alla legge e alle regole deontologiche: art.2, comma 3,

legge n. 247/2012);

- tutela l’affidamento della collettività e della clientela prescrivendo l’obbligo della

correttezza del comportamento dell’avvocato.

L’esercizio del potere disciplinare nei confronti degli avvocati tutela il prestigio dell’ordine

forense in presenza di comportamenti idonei a screditarne l’autorevolezza e la credibilità,

tenuti dagli iscritti in violazione dei doveri professionali (Cass., sez.un., 1.12.2014 n.

25369).

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Per assicurare la dignità e il decoro nonché il rispetto dei valori fondanti della professione

forense (ma non solo), più che un apparato di norme virtuose e progressive, è necessaria

la vigile sorveglianza e l’intervento solerte dell’ordine professionale, il tutto

congiuntamente ad una più diffusa e condivisa etica comune degli esercenti la

professione forense, condivisa dai cittadini.

Soltanto se l’Ordine professionale ed i Consigli distrettuali di disciplina sapranno

efficacemente vigilare sugli iscritti, valutando eventuali abusi e mancanza nell’esercizio

della professione o fatti comunque disdicevoli al decoro professionale, e facendo uso con

la dovuta fermezza, ma anche con tempestività del potere disciplinare, migliorerà la

cultura deontologica di tutti gli esercenti la professione forense, consentendo agli stessi di

riconoscersi nel codice deontologico come sistema di norme di riferimento essenziali per

la professione, e conseguentemente mantenere comportamenti professionali meritevoli

di stima e di rispetto nella società.

3. – Il potere di emanare il codice deontologico forense.

Come già detto, il codice deontologico è un documento che racchiude l’insieme delle

norme deontologiche; cioè contiene le regole di condotta che un gruppo professionale

(nella specie, gli esercenti la professione forense), deve necessariamente rispettare

nell’esercizio della propria professione.

Sul “potere” degli organi forensi di emanare, nell’esercizio delle proprie attribuzioni di

autoregolamentazione, norme interne di deontologia vincolanti per gli iscritti, anche

prima della legge n. 247/2012, vi era un indirizzo giurisprudenziale consolidato, nel senso

che gli ordini professionali deputati per legge a valutare sotto il profilo disciplinare il

comportamento degli iscritti, avevano il potere, nell’esercizio delle proprie attribuzioni di

autoregolamentazione, di emanare norme di deontologia vincolanti per i singoli

professionisti (Cass. 6.6.2002 n.8225).

La codificazione deontologica, però, è stata avversata per anni dalla stessa Avvocatura,

contestandosi la potestà disciplinare degli organi forensi, la mancanza di giuridicità del

sistema deontologico e l’impossibilità della tipizzazione delle regole per l’impossibilità di

prevedere in anticipo tutti i casi e di comprendere quelli futuri.

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La vexata quaestio sul potere di emanare il codice deontologico forense è stata risolta

dall’art.3, comma 3, della legge n. 247/2012 che attribuisce espressamente al Consiglio

nazionale forense tale potere statuendo che l’avvocato esercita la professione

uniformandosi ai principi contenuti nel codice deontologico “emanato dal CNF ai sensi

degli articoli 35, comma 1, lettera d), e 65, comma 5.”

Il potere di emanare il codice deontologico è ora espressamente attribuito in via esclusiva

al Consiglio nazionale forense dall’art.35, lett.d) legge n. 247/2012, norma che statuisce

che “il CNF “emana e aggiorna periodicamente il codice deontologico, curandone la

pubblicazione e la diffusione in modo da favorire la più ampia conoscenza”. E’ attribuita,

quindi, al Consiglio nazionale forense la potestà di emanare e aggiornare periodicamente

le norme deontologiche, prevedendone la pubblicazione nella gazzetta ufficiale.

Occorre, però, evidenziare che anche prima della citata legge n. 247/2012, secondo la

giurisprudenza della Corte di Cassazione (fra le tante, Cass. sez.un., 6.6.2002 n.8225), la

fonte del potere di emanare norme di deontologia professionale vincolanti per il

professionista “spettava” al Consiglio nazionale forense in base all’art.38 del regio

decreto n.1578 del 1933.

Il fondamento della potestà disciplinare in capo agli organi forensi è ora legittimato

esplicitamente dalla legge (l. 31.12.2012 n.247).

Peraltro, la Corte costituzionale (Corte cost. 12 luglio 1967 n.110, Foro it., 1967, I, 2490),

nella previgente normativa del regio decreto n.1578 del 1933, era già intervenuta

sull’argomento, affermando come il potere disciplinare sia “dato dalla legge per

l’attuazione del rapporto che si instaura per l’appartenenza all’ordine, il quale impone

comportamenti conformi ai fini che esso deve perseguire” e come sia “espressione di

un’autonomia concessa per la più diretta e immediata protezione di questi fini, e soltanto

di essi”. E sempre la Corte costituzionale, con decisione n.189 del 2001, aveva richiamato

il codice deontologico forense del 1997 quale modo per assicurare il corretto

espletamento del mandato e giustificare, nei congrui casi, l’esercizio del potere

disciplinare degli organi professionali.

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Su tale problematica era intervenuta anche la Suprema Corte di Cassazione (Cass.,

sez.un., 12 dicembre 1995 n. 12723) statuendo che gli ordini professionali hanno il

potere, nell’esercizio delle proprie attribuzioni di autoregolamentazione, di emanare le

regole di deontologia vincolanti per i propri iscritti, quale espressione di autogoverno

della professione e autodisciplina dei comportamenti degli iscritti.

Sulla giuridicità del sistema deontologico e sulla tipizzazione degli illeciti deontologici, è

intervenuto poi lo stesso legislatore con la legge n. 247 del 2012, che ha ricostituito il

sistema deontologico su base normativa: la giuridicità del sistema non può ormai essere

validamente contestato.

4- La natura giuridica delle norme deontologiche.

In ordine alla natura giuridica delle norme deontologiche, si sono “fronteggiati” per anni

due indirizzi giurisprudenziali.

Un primo orientamento giurisprudenziale (Cass., sez.un., 10.7.2003 n.10482), colloca le

regole deontologiche tra le norme pattizie, con la conseguenza che le disposizioni

deontologiche vanno interpretate secondo i canoni ermeneutici di cui all’art. 1362 codice

civile. In pratica le disposizioni dei codici deontologici predisposti dagli organi

professionali, se non recepite dal legislatore, non hanno né la natura né le caratteristiche

di norme di legge, ma sono espressione di poteri di autoorganizzazione degli ordini

professionali.

Secondo tale orientamento, le norme deontologiche poste dagli ordini professionali,

costituiscono norme extragiuridiche, ovvero interne alla categoria, e non anche

disposizioni dell’ordinamento generale; le norme deontologiche non assurgono a norme

dell’ordinamento generale, ma operano quali regole interne della particolare categoria

professionale cui si riferiscono.

Le disposizioni dei codici deontologici predisposti dagli ordini forensi, secondo tale

orientamento, quindi, se non recepite direttamente dal legislatore, non hanno natura di

norme di legge, e quindi non assoggettabili al criterio interpretativo di cui all’art.12

preleggi.

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Il secondo indirizzo giurisprudenziale (Cass., sez.un., 20.12.2007 n. 26810) ritiene, invece,

che le norme del codice deontologico (proprio con specifico riferimento al codice forense

del 1997) si qualificano come norme giuridiche vincolanti nell’ambito dell’ordinamento di

categoria, e che trovano fondamento nei principi dettati dalla legge professionale. Le

norme del codice deontologico, secondo tale indirizzo giurisprudenziale, sono fonti

normative e non soltanto regole interne della categoria, e che, come tali, sono soggette al

controllo della Cassazione ai sensi dell’art.3 dell’art.360 codice di procedura civile per

violazione o falsa applicazione di norme di diritto.

Tale “secondo” indirizzo giurisprudenziale afferma che le norme del codice disciplinare

forense costituiscono fonti normative integrative di precetto legislativo, che attribuisce al

Consiglio nazionale forense il potere disciplinare, con funzione di giurisdizione speciale

appartenente all’ordinamento generale dello Stato, come tali interpretabili direttamente

dalla Corte di legittimità.

Secondo tale orientamento giurisprudenziale, ormai consolidato, le norme deontologiche

sono vere e proprie norme giuridiche e non rimangono limitati al campo etico. Le norme

deontologiche trovano, quindi, fondamento nell’ordinamento giuridico professionale

delineato dalla legge.

Del resto non si può ignorare che la legge professionale (n.247/2012) in alcuni casi detta

regole specifiche, e qualifica come illecito disciplinare la violazione di tali regole; e cioè lo

stesso legislatore che stabilisce normativamente le ipotesi di illecito disciplinare.

Sulla giuridicità del sistema deontologico (e sulla tipizzazione degli illeciti deontologici) è

intervenuto, infatti, lo stesso legislatore con la legge n. 247/2012, che ha ricostituito il

sistema deontologico su base normativa.

Del resto la giuridicità delle norme deontologiche è confermata dal fatto che la violazione

di esse comporta sanzioni giuridiche (es., la sospensione dall’attività professionale; la

radiazione dall’albo) e l’impugnativa avverso la decisione del Consiglio nazionale forense

va proposta avanti la Corte di Cassazione a sezioni unite anche per violazione di legge. A

conforto di tale affermazione vi è Cassazione, sezioni unite 23 marzo 2004 n.5776, che

ribadisce che nell’ambito della violazione di legge va compresa anche la violazione delle

norme dei codici deontologici degli ordini professionali, trattandosi di norme giuridiche

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obbligatorie valevoli per gli iscritti all’albo ma che integrano il diritto oggettivo ai fini della

configurazione dell’illecito disciplinare.

La norma del codice deontologico, quindi, riempie di contenuto la clausola generale

prevista e come tale assume il rango di norma di diritto; ne consegue che

l’interpretazione della norma appartenente al codice deontologico costituisce una

quaestio iuris, come tale prospettabile dinanzi al giudice di legittimità come violazione di

legge, e non una quaestio facti in ordine alla cui soluzione il sindacato di cassazione è

limitato al controllo sull’esistenza e la legalità della motivazione.

5. – Rapporto tra responsabilità deontologica e responsabilità civile

L’inadempimento dell’avvocato ai propri obblighi professionali (tra cui anche l’osservanza

delle regole deontologiche) configura una responsabilità che può essere civile, penale e

disciplinare, in relazione ai precetti violati.

Infatti, un medesimo fatto può essere valutato sotto diversi profili, e determinare una

responsabilità civile, secondo i criteri fissati dalle leggi civili, una responsabilità

disciplinare, quando vi è stata violazione dei principi deontologici, ed una responsabilità

penale, quando l’omissione sia stata intenzionalmente realizzata, es. con patrocinio

infedele.

In ordine al rapporto tra responsabilità disciplinare e responsabilità civile, è indubbio che

quando un fatto sia stato sanzionato disciplinarmente per accertata violazione dei doveri

di comportamento, è possibile farne discendere una responsabilità anche civile secondo i

principi generali.

Nel delineare il rapporto tra responsabilità deontologica e responsabilità civile, occorre

evidenziare che la responsabilità civile e la responsabilità disciplinare appartengono a due

mondi separati: i fenomeni sono disciplinati da diverse leggi e non solo le modalità di

accertamento e repressione degli illeciti trovano autonomi momenti, ma anche le

fattispecie fonte di responsabilità sono diverse: mentre la responsabilità civile tende a

diventare responsabilità deontologica, la responsabilità deontologica non si trasforma

automaticamente in responsabilità civile.

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Il passaggio dalla qualificazione della norma deontologica da regola interna della

categoria a fonte normativa, non è priva di conseguenze sul rapporto tra responsabilità

deontologica e responsabilità civile.

Infatti, se si qualifica la norma deontologica come “regola interna della categoria”,

nessuna conseguenza o riflessi ha la violazione della norma deontologica sulla

responsabilità civile; se l’illecito deontologico non costituisce anche illecito civile, dal

“fatto” posto in essere dal professionista, ne discende la sola responsabilità deontologica,

e non anche un contestuale giudizio civile di responsabilità. L’illecito deontologico non si

può considerare, di per sé, quindi, anche illecito civile, e può essere tale solo nelle ipotesi

in cui il “fatto” ha comportato anche la violazione di una norma dell’ordinamento civile; in

questi casi, si ha per l’autore sia una responsabilità civile quanto una responsabilità

deontologica.

Se si qualificano, invece, le norme del codice deontologico come fonti normative e non

soltanto regole interne della categoria e/o espressione di poteri di autorganizzazione

degli ordini, la violazione delle regole deontologiche è violazione di una “fonte normativa”

(e non solo violazione di una regola interna della categoria), con la conseguenza che ogni

loro infrazione è sempre infrazione di un precetto giuridico e quindi un illecito civile. E sul

punto Cass., sezioni unite, 20.12.2007 n. 26810 ha affermato, risolvendo un contrasto

giurisprudenziale, che le norme del codice deontologico forense sono fonti normative e

non soltanto regole interne della categoria e, come tali, sono soggette al controllo in

cassazione ai sensi dell’art.3 dell’art.360 codice di procedura civile per violazione o falsa

applicazione di norme di diritto; giuridicità, confermata poi dalla legge professionale

forense (legge n. 247/2012).

Se con l’illecito deontologico vi è la violazione di una fonte normativa e non solo più

violazione di una sola regola interna della categoria, è evidente che ogni loro infrazione è

sempre anche l’infrazione di un precetto giuridico e quindi anche di un illecito civile.

La responsabilità deontologica, però, non è anche sempre responsabilità civile, in quanto

occorre separare la responsabilità civile contrattuale, che il professionista può avere nei

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confronti del cliente, dalla responsabilità civile extracontrattuale che il professionista può

avere nei confronti di soggetti terzi. Ed infatti, ad esempio, se un avvocato non propone

l’impugnazione di una sentenza nei termini, va da sé che si configura tanto una violazione

di una norma deontologica, quanto la violazione del mandato ricevuto e quindi una

responsabilità civile per il danno arrecato al cliente. Viceversa, se l’avvocato non versa la

contribuzione previdenziale alla cassa forense, vi è solo una responsabilità deontologica

ma non anche civile; quindi, alla responsabilità disciplinare non sempre consegue anche

una responsabilità civile.

Quanto alla responsabilità contrattuale (che l’avvocato può avere nei confronti del

cliente) in presenza della violazione di una norma deontologica, non dovrebbero

sussistere dubbi, atteso che in base alla normativa del codice civile (artt. 1375, 1176,

1175), il contratto deve essere adempiuto secondo buona fede; l’obbligazione va

adempiuta usando la diligenza del buon padre di famiglia e l’obbligato (cioè il

professionista) deve comportarsi con correttezza: la violazione della regola deontologica

comporta anche la violazione di dette norme in quanto la norma deontologica altro non è

che il contenuto specifico della disposizione di legge generica.

Il mancato rispetto di un precetto del codice deontologico che abbia connessione con

l’attività professionale svolta, comporta infrazione ai doveri assunti con il cliente, e

conseguentemente fa seguire la responsabilità civile. E ciò in quanto non una qualsiasi

violazione del codice deontologico forense può costituire per l’avvocato responsabilità

contrattuale, ma solo quelle che possano considerarsi in connessione con il mandato

ricevuto; e così è da escludere una responsabilità civile contrattuale in caso di violazione

dei doveri previdenziali e fiscali o nei confronti del Consiglio dell’Ordine.

Quanto alla responsabilità extracontrattuale (che l’avvocato può avere nei confronti di

terzi soggetti, ad es., controparte, Consulente Tecnico d’Ufficio), dalla qualificazione di

fonte normativa alla norma deontologica, consegue che se il mancato rispetto della

regola deontologica è atto illecito, perché atto commesso in violazione di una norma

giuridica, e produce un danno ad un terzo e vi è nesso di causalità con l’atto illecito e il

danno che il terzo ha subito, sussistono gli elementi della fattispecie di cui all’art.2043

codice civile e quindi tutti i presupposti per una responsabilità extracontrattuale.

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6. – La tipizzazione dell’illecito disciplinare.

L’art.3, comma 3, della legge n. 247/2012 statuisce che “il codice deontologico

espressamente individua fra le norme in esso contenute quelle che, rispondendo alla

tutela di un pubblico interesse al corretto esercizio della professione, hanno rilevanza

disciplinare. Tali norme, per quanto possibile, devono essere caratterizzate

dall’osservanza del principio della tipizzazione della condotta e devono contenere

l’espressa indicazione della sanzione applicabile”.

Tra le principali novità del nuovo codice deontologico vi è la tendenziale tipizzazione degli

illeciti disciplinari, con la espressa indicazione delle sanzioni per ogni fattispecie, con un

meccanismo di aggravamento o di attenuazione della sanzione edittale in relazione alla

maggiore o minore gravità del fatto contestato.

In pratica, ogni previsione di condotta deve contenere l’espressa indicazione della

sanzione applicabile; ed infatti il nuovo codice deontologico, in ossequio a quanto

prevede la legge professionale, indica una specifica sanzione per ogni singolo articolo, con

la possibilità di un aggravamento o di una attenuazione della sanzione edittale in

relazione al comportamento dell’incolpato; è stato così evitato l’automatismo delle

sanzioni disciplinari, sempre di dubbia costituzionalità. Ed infatti le sanzioni sono indicate

in tutti gli articoli ad eccezione degli articoli relativi ai principi generali, la cui violazione

costituisce illecito disciplinare solo nelle ipotesi previste dai successivi titoli del codice.

L’indicazione della sanzione consente di dare uniformità alle decisioni disciplinari.

Peraltro, non si può ignorare che la giurisprudenza (Cass., sez.un. 16.12.2013 n. 27996;

Cass. sez.un., 25 novembre 1974 n.3810) ha affermato che il principio di legalità (nullum

crimen sine lege) non si applica nella materia disciplinare forense, nell’ambito della quale

non è prevista una tassativa elencazione dei comportamenti illeciti non conformi, ma solo

quella dei doveri professionali.

Ed a conforto di quanto appena affermato, si evidenzia come il legislatore nel “creare”

ipotesi di illecito disciplinare, demanda poi alla valutazione discrezionale dei Consigli di

disciplina, la “quantificazione” della sanzione.

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Gli illeciti disciplinari riguardanti la professione forense sono, quindi, di regola

tendenzialmente tipizzati (né tale tendenziale tipizzazione viola il principio di legalità:

Cass. sez.un., 5.1.2007 n.37). Infatti la legge n. 247/2012 ha previsto la tendenziale

tipizzazione degli illeciti disciplinari e l’espressa indicazione delle sanzioni, che nel codice

corredano ogni fattispecie con un meccanismo di aggravamento e di attenuazione in

relazione alla maggiore o minore gravità del fatto contestato.

Non si può, comunque ignorare che nella materia disciplinare non è prevista una tassativa

elencazione dei comportamenti illeciti non conformi (Cass. 16 dicembre 2013 n. 27966);

in materia di responsabilità disciplinare degli avvocati, le norme del codice deontologico

forense elencanti i comportamenti che il professionista deve osservare, costituiscono

mere esplicitazioni esemplificative dei principi generali contenuti nella legge

professionale e nello stesso codice deontologico, e non esauriscono la tipologia delle

violazioni rilevanti disciplinarmente (Cass. sez.un., 6 giugno 2002 n.8225). Ne consegue

che la mancanza di una espressa previsione nell’articolato del codice deontologico di un

determinato comportamento, non è di ostacolo alla configurazione del comportamento

come disciplinarmente rilevante.

Tipizzate sono le sanzioni (avvertimento, censura, sospensione temporanea dall’esercizio

della professione, radiazione): per ciascuna sanzione il codice (art.53) indica

espressamente il contenuto, i presupposti per la loro applicazione, con meccanismi di

aggravamento e attenuazione in relazione alla maggiore o minore gravità della condotta

del professionista.

Non si può, peraltro, ignorare che la codificazione delle norme deontologiche consente di

trasmettere le regole a chi si accinge a svolgere la professione, ed agli avvocati stranieri

che sono obbligati a rispettare il principio della doppia deontologia (art.4 legge n. 31del

1982).

Del resto, alle critiche (ormai superate) di coloro che sostenevano l’inutilità di un codice

deontologico per l’impossibilità di prevedere tutte le ipotesi disciplinari, si è sempre

replicato che le lacune sono state sempre superate con l’interpretazione e l’analogia o

con l’introduzione successiva di nuove norme; a conforto di quanto detto vi è il dato

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oggettivo del codice approvato dal Consiglio nazionale forense nel 1997, che ha subito

numerosi “aggiornamenti”.

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2. Deontologia, doveri dell’avvocato, codice deontologico. 7– Il codice deontologico forense.

La necessità di un codice deontologico, con riportate le regole comportamentali da

osservare e le connesse sanzioni in caso di inosservanza delle regole stesse, era sempre

più spesso avvertita dalla categoria forense.

Per venire incontro a tale esigenza, alcuni Consigli dell’Ordine avevano iniziato a

codificazioni deontologiche, con un ambito territoriale di operatività limitato agli stessi

Consigli dell’Ordine (nello stesso senso hanno operato tutte le professioni che hanno

adottato codici deontologici).

Il Consiglio Nazionale Forense, sulla base di tali premesse, ma anche al fine di fissare delle

regole comportamentali uniformi per tutta l’Avvocatura, a prescindere dall’Ordine di

appartenenza, dopo ampio dibattito fra tutta la categoria forense, nella seduta del 17

aprile 1997 ha approvato il Codice deontologico forense, codice che ha subìto successivi

adattamenti (in data 16.10.1999; 26.10.2002; 27.1.2006; 18.1.2007; 12.6.2008;

15.7.2011; 16.12.2011).

Le ragioni dell’autogoverno dell’avvocatura in materia disciplinare trovano fondamento

nell’esigenza che l’attività forense sia svolta nella più assoluta autonomia anche nei

confronti degli organi della giurisdizione. L’avvocato, nell’esercizio dei suoi compiti

istituzionali deve godere della più totale indipendenza, con il solo rispetto delle norme

processuali.

Peraltro, l’Avvocatura avvertiva l’esigenza di una codificazione per rendere omogenee in

primo luogo le decisioni dei Consigli dell’Ordine locale e per avere un corpus di norme

condivise dall’intera categoria.

Con il codice deontologico del 1997, si era così superato il problema della tipizzazione

delle regole, che era stato oggetto di molteplici riflessioni stante la difficoltà di

“imprigionare” l’infinita varietà delle forme del presente ma anche far fronte ai bisogni

posteriori che si possono manifestare.

A seguito dell’entrata in vigore della nuova legge professionale (legge n. 247/2012) si è

resa necessaria l’approvazione di un nuovo codice deontologico al fine di adeguare la

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disciplina ai principi di cui alla legge n.247, il che è avvenuto da parte del Consiglio

nazionale forense nel 2014.

Infatti, il codice deontologico forense è stato approvato dal Consiglio nazionale forense

nella seduta del 31 gennaio 2014, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n.241 del 16.10.2014

ed è entrato in vigore dal 15 dicembre 2014 (cioè 60 giorni dalla pubblicazione nella

Gazzetta Ufficiale: art.73 codice deontologico).

Il codice deontologico, come statuisce espressamente l’art.3, comma 3, legge n.

247/2012, stabilisce che l’avvocato esercita la professione uniformandosi a principi

contenuti nel codice deontologico forense che regola “le norme di comportamento che

l’avvocato è tenuto ad osservare in via generale e, specificamente, nei suoi rapporti con il

cliente, con la controparte, con altri avvocati e con altri professionisti”. Ed a tal fine il

codice deontologico espressamente individua fra le norme in esso contenute quelle che,

rispondendo alla tutela di un pubblico interesse al corretto esercizio della professione,

hanno rilevanza disciplinare. E’ necessario sempre ricordare che il codice deontologico è

finalizzato innanzitutto al corretto esercizio della professione legale per la tutela

dell’interesse pubblico.

Il codice deontologico, come prevede espressamente la legge n.247/2012, è emanato ed

aggiornato periodicamente dal Consiglio nazionale forense che ne cura la pubblicazione e

la diffusione. Per favorirne la conoscibilità, è pubblicato nella Gazzetta Ufficiale ed entra

in vigore decorsi 60 giorni (art.73, legge n. 247/2012).

Il nuovo codice deontologico rappresenta un impianto più moderno, che tiene conto non

solo della giurisprudenza che si è formata in materia deontologica nella vigenza del

previgente codice deontologico del 1977, ma anche delle previsioni disciplinari riportate

in diverse norme; una “costruzione” più rispondente al nuovo assetto ordinamentale di

cui alla legge n. 247/2012 ed alle novità disciplinari riportate nelle varie fonti legislative.

Gli obiettivi del nuovo codice deontologico, sono (oltre alla tutela dell’interesse pubblico

al corretto esercizio della professione) principalmente, la valorizzazione del ruolo

dell’avvocato nella tutela del diritto costituzionale di difesa e della funzione sociale della

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difesa, la tutela dell’autonomia e dell’indipendenza dell’avvocato, la garanzia del principio

di legalità

Nel codice deontologico del 2014 sono inserite anche le ipotesi di illecito disciplinare già

create dalla legge. Ciò a conferma dell’autonomia e completezza che contrassegna il

codice deontologico forense.

8. - Disciplina transitoria.

Le norme contenute nel nuovo codice deontologico del 2014 si applicano anche ai

procedimenti disciplinari in corso se le norme sono più favorevoli per l’incolpato (Cass.,

sez.un., 16.2.2015 n. 3023).

Si applica, quindi, il principio del favor rei sulla base del disposto dell’art.65, comma 5,

legge n. 247/2012; e ciò in quanto nel fissare il momento di transizione dall’operatività

del vecchio a quella del nuovo codice deontologico, la nuova legge professionale sancisce,

esplicitamente – così prevenendo le incertezze interpretative manifestatesi in occasione

di precedenti successioni di norme deontologiche e risolte in base al diverso criterio del

tempus regit actum – che la successione delle norme dell’(allora) vigente e di quello

dell’(allora) emanando nuovo codice deontologico (e delle ipotesi d’illecito e delle

sanzioni da esse rispettivamente contemplare) deve essere improntata al criterio del

favor rei. Infatti occorre evidenziare che nella previgente disciplina vigeva il diverso

principio del tempus regit actum nel senso che, in materia di sanzioni disciplinari a carico

degli avvocati, trattandosi di sanzioni amministrative, non vigeva, salvo diversa espressa

previsione di legge, il canone penalistico dell’applicazione retroattiva della norma più

favorevole, ed al fatto si applica la sanzione vigente nel momento in cui il medesimo è

stato commesso (Cass. 17.6.2013 n. 15120).

9- Ambito di applicazione delle norme deontologiche.

Condizione per l’esercizio dell’attività professionale riservata all’avvocato è l’iscrizione ad

un albo circondariale (art.2, comma 3, legge n. 247/2012).

Presupposti per l’applicazione del codice deontologico è. quindi l’iscrizione del

professionista nell’albo professionale. L’iscrizione negli albi professionali consente non

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solo di acquisire uno status e dei diritti, ma determina anche l’ingresso in una “comunità”

con norme di organizzazione e regole di condotta da osservare.

L’avvocato iscritto nell’albo ha rapporti con clienti, magistrati, colleghi, rapporti che

vanno sempre mantenuti nel rispetto non solo delle disposizioni di diritto (sostanziale e

processuale), ma anche dei principi etici e regole deontologiche che l’Avvocatura si è

ormai data da anni, e che ormai hanno il valore di norme giuridiche, e che disciplinano la

condotta dell’avvocato in quanto appartenente all’ordine professionale.

Le norme deontologiche, intese, come già detto, come quel complesso di regole di

condotta che devono essere rispettate nell’attività professionale, si applicano:

a) Agli avvocati nella loro attività professionale, nei reciproci rapporti (con i

colleghi) e in quelli con i terzi.

b) Ai comportamenti dell’avvocato nella vita privata, quando ne risulti

compromessa la reputazione personale o l’immagine della professione forense.

Sono “valutati” non solo i comportamenti dell’avvocato nell’attività

professionale, ma anche i comportamenti che riguardano la vita privata, quando

vi sia una lesione soggettiva della figura dell’avvocato od oggettiva della

categoria; qualsiasi azione dell’iscritto all’albo, in qualsiasi modo posta in essere,

che leda la dignità e il prestigio della classe forense.

Il professionista risponde, sotto il profilo deontologico, anche di fatti commessi al di fuori

dell’esercizio dell’attività professionale, atteso che il dovere dell’iscritto all’albo forense di

comportarsi in modo corretto, probo e leale si estende non solo ad ogni avvenimento

della sua vita professionale, ma anche alla sua vita privata per quegli aspetti che

investano in qualche modo la dignità della professione (Consiglio nazionale forense

19.11.2012 n. 156): la deontologia è vita di tutti i giorni per un Avvocato, fuori e dentro le

aule dei tribunali.

Peraltro l’art.9, comma 2, codice deontologico, espressamente prevede che l’avvocato,

anche al di fuori dell’attività professionale, deve osservare i doveri di probità, dignità e

decoro, nella salvaguardia della propria reputazione e della immagine della professione

forense”.

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Il codice deontologico promuove la correttezza dei comportamenti dell’avvocato fuori e

dentro il processo, tutelando l’interesse pubblico al corretto esercizio della professione.

E’ sufficiente anche un singolo atto, purchè contrario alla reputazione dell’avvocato e alla

dignità della classe forense.

La tutela del prestigio dell’Avvocatura deve essere, quindi, esercitata sia in relazione ad

abusi o mancanze nell’esercizio della professione che a fatti non conformi alla dignità ed

al decoro della professione.

c) All’avvocato che esercita l’attività professionale all’estero, in quanto in tali casi

l’avvocato deve rispettare le norme deontologiche interne, ma anche quelle del

paese in cui viene svolta l’attività professionale (principio della c.d. doppia

deontologia, che impone l’osservanza delle regole di entrambi i paesi).

In caso di contrasto fra le due normative prevale quella del paese ospitante, purchè non

configgente con l’interesse pubblico al corretto esercizio della professione.

d) All’avvocato straniero nell’esercizio dell’attività professionale in Italia, in quanto

in tali casi l’avvocato straniero è tenuto ad osservare le norme deontologiche

italiane (principio della cd. territorialità). L’avvocato straniero sarà, quindi,

giudicato in Italia quando abbia commesso violazioni disciplinari in Italia.

e) Ai praticanti avvocati, essendo gli stessi soggetti ai doveri e alle norme

deontologiche. Destinatari delle norme deontologiche sono anche i praticanti,

anche se non hanno l’abilitazione al patrocinio.

f) All’avvocato per atti di associati, collaboratori e sostituti. Infatti l’avvocato è

responsabile per le condotte, determinate da suo incarico, ascrivibili ai suoi

associati, collaboratori e sostituti (salvo che il fatto integri una loro esclusiva e

autonoma responsabilità); ciò, sempreché all’associato, collaboratore o sostituto

siano richiesti compiti esecutivi di una specifico atto, che non involga loro

autonome valutazioni e determinazioni sulla legittimità dell’atto stesso.

Peraltro la stessa legge professionale (legge n. 247/2012), all’art.14, comma 3, afferma

espressamente che “l’avvocato che si fa sostituire o coadiuvare da altri avvocati o

praticanti rimane personalmente responsabile verso i clienti”.

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Fra i collaboratori e sostituti “rientrano” l’avvocato domiciliatario che sarà esente da

responsabilità disciplinare se compie atti su incarico specifico del dominus mandante,

senza alcun potere valutativo dell’atto che deposita in giudizio. All’avvocato

domiciliatario, sotto il profilo disciplinare, non può essergli addebitato nulla per le tesi

sostenute o per i giudizi espressi, salva la prova di una preventiva conoscenza o

consapevolezza o dell’intento specifico di condividere le violazioni riscontrate.

g) Alla società tra avvocati. La responsabilità disciplinare della società concorre con

quella del socio quando la violazione deontologica commessa da quest’ultimo è

ricollegabile a direttive impartite dalla società.

Così definito l’ambito applicativo soggettivo e oggettivo, occorre ribadire quanto

all’ambito oggettivo, che ai fini deontologici occorre fare riferimento non soltanto

all’attività professionale ma alla totalità dei rapporti “sociali” dell’avvocato che comunque

abbiano una rilevanza esterna.

10. – Volontarietà dell’azione.

La responsabilità disciplinare discende dalla inosservanza dei doveri e delle regole di

condotta dettati dalla legge e dalla deontologia, nonché dalla coscienza e volontà delle

azioni od omissioni (art.4 codice deontologico).

Per la responsabilità disciplinare, è necessaria, quindi, anche la volontarietà dell’azione,

nel senso che è rilevante ogni attività determinata e voluta comunque dall’incolpato, a

prescindere dal dolo o dalla colpa, elementi, questi ultimi rilevanti al fine della

“quantificazione” della sanzione disciplinare. Infatti, la responsabilità disciplinare prevista

dall’ordinamento forense e dal codice deontologico prescinde dall’elemento intenzionale

del dolo o della colpa: una condotta cosciente e volontaria è infatti sufficiente a

configurare la violazione, a prescindere dalle eventuale finalità dell’azione volitiva della

condotta (Consiglio nazionale forense 29.11.2012 n. 170).

E’ sufficiente, quindi, ad integrare l’illecito disciplinare l’elemento della suitas della

condotta, intesa come volontà consapevole dell’atto che si compie; il dolo invece,

denotando una più intensa volontà di trasgressione del comando deontologico, rileva

nella determinazione della misura della sanzione. E ciò in quanto il professionista,

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essendo in possesso delle necessarie conoscenze giuridiche per prevenire ed evitare le

conseguenze del suo comportamento, in presenza di vicende non dovute a caso fortuito o

forza maggiore, ben può rappresentarsi le stesse conseguenze (Consiglio nazionale

forense 27.2.2013 n.22). E’ irrilevante che l’avvocato non abbia previsto o non abbia

voluto l’effetto della condotta (o dell’omissione): è sufficiente la volontarietà dell’azione

per sanzionare il comportamento.

L’azione o l’omissione dell’avvocato può essere oggetto di valutazione deontologica solo

se l’incolpato sia imputabile perché capace di intendere o di volere (Cass., sez.un.,

19.1.1970 n. 109).

La condotta rilevante deontologicamente può essere anche omissiva, nel caso in cui da

parte dell’avvocato vi siano vere e proprie omissioni o negligenze (es., mancata

proposizione dell’appello).

11. – La struttura del nuovo codice.

Il codice consta di 73 articoli ed è diviso in sette titoli:

I. Principi generali.

II. Rapporti con il cliente e con la parte assistita.

III. Rapporti con i colleghi.

IV. Doveri dell’avvocato nel processo.

V. Rapporti con terzi e controparti.

VI. Rapporti con le istituzioni forensi.

VII. Disposizione finale.

Nelle disposizioni riferite ai “Principi generali”, sono inserite le disposizioni riguardanti

l’ambito di applicazione soggettivo (avvocati, praticanti ed avvocati stranieri), e oggettivo

(attività professionale e vita privata), nonché i presupposti per affermare la responsabilità

disciplinare.

I titoli II e III (artt. 22-34 e 35-47) riportano le disposizioni concernenti i rapporti con il

cliente e con la parte assistita; si fa riferimento tra l’altro, al rapporto di fiducia che deve

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essere mantenuto, al conflitto di interessi, al dovere di informazione verso la parte

assistita, al divieto del patto di quota lite.

Quanto alla normativa relativa ai rapporti con i colleghi, viene ribadito sia che il dovere di

difesa prevale sempre sul rapporto di colleganza, che il divieto per l’avvocato di registrare

una conversazione telefonica con il collega o esprimere apprezzamenti denigratori

sull’attività di un collega.

Il titolo IV riflette i rapporti con le controparti. In ordine al contenuto del titolo IV si

evidenzia come lo stesso comprende i doveri dell’avvocato sia nell’ambito del processo

sia in quello della esplicazione del suo mandato difensivo (es., dovere di dire la verità,

divieto di uso di espressioni offensive e sconvenienti, i rapporti con i magistrati e gli

organi di informazione).

Il titolo V si concentra sui rapporti con i terzi e controparti, valorizzando anche il

comportamento extra professionale dell’avvocato.

Nel titolo VI viene valorizzato il profilo dei rapporti dell’avvocato con le istituzioni forensi,

atteso che lo stesso è chiamato a svolgere un servizio a favore della collettività e della

categoria.

Il titolo VII contiene, invece, la disposizione finale di chiusura del codice, statuendo

l’entrata in vigore del codice stesso e la sua applicazione ai procedimenti disciplinari in

corso se più favorevoli per l’incolpato.

12- I doveri dell’avvocato.

Il titolo I del codice deontologico riporta le norme di organizzazione che delimitano

l’ambito di applicazione della normativa, i presupposti per determinare l’illecito

disciplinare, le norme sulla responsabilità e sulle sanzioni, ma soprattutto l’elenco dei

doveri che gli avvocati devono osservare, anche nell’attività non professionale, doveri che

per lo più sono riportati già nella legge professionale, e sono espressi in forma generale.

Occorre evidenziare che i doveri innanzi riferiti – e riportati negli articoli relativi ai principi

generali del codice deontologico - sono enunciati senza alcuna specifica sanzione, sono

una “mera elencazione”, atteso che la loro violazione non è perseguibile autonomamente

ma solo nelle ipotesi previste nei successivi titoli del codice deontologico.

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Ciò significa che l’elencazione dei doveri cui l’avvocato è tenuto ad osservare (art.1-19 dei

principi generali del codice stesso) ha un “intento enunciativo o esemplificativo”; il che

sta a significare che non è sanzionabile la violazione dei doveri espressi nei principi

generali del codice deontologico che non siano contemplati nei successivi titoli del codice

deontologico.

La violazione dei doveri riportati nei principi generali non costituisce, quindi, di per sé un

illecito disciplinare “tipizzato”, non essendo prevista alcuna sanzione poiché le possibili

violazioni sono perseguibili solo nelle ipotesi previste nei titoli successivi del codice

deontologico.

12.1– Doveri di probità, dignità, decoro e indipendenza.

L’art.3, comma 2, della legge n. 247/2012 (il cui contenuto è stato riprodotto nell’art.9

codice deontologico), riporta l’elenco dei doveri che devono essere rispettati

dall’avvocato nell’esercizio dell’attività professionale, statuendo che l’avvocato deve

esercitare l’attività professionale con indipendenza, lealtà, correttezza, probità, dignità,

decoro, diligenza e competenza, tenendo conto del rilievo costituzionale e sociale della

difesa, rispettando i principi della corretta e leale concorrenza.

L’avvocato ha l’obbligo di osservare una condotta decorosa, sia durante il rapporto

professionale che al suo termine.

Il dovere di probità, dignità e decoro ha riscontro nell’art. 88 codice di procedura civile,

che non solo sancisce il dovere delle parti e dei difensori di comportarsi in giudizio con

lealtà e probità, ma impone al giudice, ove l’avvocato lo infranga, di riferirne all’autorità

disciplinare (Cass., sez.un., 18.5.2015 n. 10090).

Trattasi di doveri fondamentali dell’avvocato, cui lo stesso deve necessariamente

attenersi nell’esercizio della professione nei rapporti con i vari soggetti che sono parti

dell’attività professionale o extraprofessionale. In particolare:

- l’indipendenza: con tale termine si fa riferimento alla necessità per l’avvocato di

esercitare la professione con assoluta autonomia, senza condizionamenti nei

confronti di qualunque soggetto o situazione di fatto che possa porre limiti

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all’attività da svolgere. Nell’esercizio dell’attività professionale l’avvocato ha il

dovere di conservare la propria indipendenza e difendere la propria libertà da

pressioni o condizionamenti esterni; l’indipendenza dell’avvocatura costituisce un

cardine essenziale ai fini della libertà della difesa e del corretto esercizio della

funzione giudiziaria.

L’avvocato, nell’esercizio dell’attività professionale, deve essere esente da

condizionamenti esterni nel compimento della legale attività di difesa dell’assistito.

- la lealtà e la correttezza: si fa riferimento al rispetto, per l’avvocato, delle regole

soprattutto processuali (a titolo esemplificativo, e non esaustivo, l’art.1337 codice

civile impone la buona fede nelle trattative; l’art.2598 per la correttezza

professionale nella concorrenza; l’art. 1955 che impone l’obbligo per il creditore di

non aggravare la situazione del fideiussore). Peraltro, l’art. 8 della legge n.

247/2012, prevede espressamente che gli avvocati prestano, dinanzi al Consiglio

dell’ordine, l’impegno solenne di osservare con lealtà, onore e diligenza, i doveri

della professione per i fini della giustizia ed a tutela dell’assistito nelle forme e

secondo i principi dell’ordinamento nazionale;

- la probità: si fa riferimento alla figura dell’uomo onesto. Il nostro ordinamento

impone ai difensori (ma anche alle parti) di comportarsi in giudizio con lealtà e

probità;

- il decoro : si fa riferimento alla forma esterna appropriata e conveniente;

- la dignità: si fa riferimento al contegno dell’avvocato nei rapporti umani e sociali,

e quindi il prestigio e l’onore, ma anche il rispetto per le persone e per la loro

autonomia;

- la diligenza e competenza: si fa riferimento al dovere dell’avvocato di svolgere la

propria attività con coscienza e diligenza per assicurare la qualità della prestazione

professionale.

12.2– Dovere di fedeltà.

L’avvocato deve adempiere fedelmente il mandato ricevuto, svolgendo la propria attività

a tutela dell’interesse della parte assistita e nel rispetto del rilievo costituzionale e sociale

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della difesa. Trattasi di dovere fondamentale che deve essere sempre rispettato nello

svolgimento dell’attività professionale.

Il dovere di fedeltà significa rispetto e cura della posizione del proprio assistito ed obbligo

di non arrecargli pregiudizio. Ciò significa per l’avvocato che non può l’accettare “ordini”

da parte del cliente né ha l’obbligo di difendere, se richiesto, le tesi più infondate e

assurde o assecondare ogni richiesta del cliente.

Vi è, quindi, un dovere di lealtà professionale dell’avvocato, dovere che corrisponde

all’obbligo di dedizione effettiva agli interessi del cliente, ed all’esigenza di improntare

l’attività di difesa nell’esclusivo interesse dell’assistito. Sussistono, quindi, per l’avvocato

gli obblighi di informazione e collaborazione con il cliente, e di una assistenza improntata

alla massima fiducia.

Posta l’osservanza di tutte le norme di legge e delle regole di etica professionale,

l’avvocato dovrà sempre operare allo scopo di realizzare migliori interessi del proprio

cliente, ponendo questi interessi al di sopra dei suoi interessi, come pure quelli di altri

membri della sua stessa professione.

Il riferimento al rilievo costituzionale e sociale della difesa, conferma il principio della

doppia fedeltà (verso la parte assistita e verso l’ordinamento) come impegno

dell’avvocatura per la funzione sociale che svolge.

Peraltro occorre evidenziare che la violazione del dovere di fedeltà non comporta non

soltanto l’applicazione di sanzioni disciplinari, ma nei casi più gravi integra ipotesi di

reato: es., patrocinio infedele previsto dall’art. 380 codice penale; prestazione attività

professionale in favore di parti contrarie prevista dall’art. 381 codice penale.

12.3- Rapporto di fiducia e accettazione dell’incarico.

L’avvocato è libero di accettare l’incarico. L’avvocato ha, quindi, piena libertà di accettare

o meno ogni incarico (art.14, comma 1, legge n. 247/2012).

La libertà viene meno in caso di nomina dell’avvocato quale difensore d’ufficio o con

l’assunzione del patrocinio a spese dello Stato, in quanto in tali casi, il difensore non può

rifiutare di svolgere l’attività difensiva senza giustificato motivo.

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Del resto non si può ignorare che il rapporto con il cliente e la parte assistita è fondato

sulla fiducia (cliente è colui che conferisce l’incarico all’avvocato e si obbliga al pagamento

del compenso; la parte assistita è, invece, colui a cui favore è prestata l’attività

professionale). Il requisito della fiducia tra le parti è essenziale nell’assunzione

dell’incarico da parte dell’avvocato; infatti è necessaria la condivisione delle scelte nella

conduzione della lite o nell’attività di assistenza e consulenza nella conduzione della lite.

Occorre ricordare che per l’avvocato sussiste il divieto di assumere incarichi da persone

che possano avere interessi contrastanti con quelli di clienti già acquisiti, ovvero di

difendere un soggetto contro una persona che l’avvocato abbia già assistito in una causa

in precedenza fra le stesse parti.

12.4 - Dovere di diligenza.

La diligenza è quel complesso di cure e cautele che deve osservare il professionista (e nel

caso di specie l’avvocato) nello svolgimento dell’attività professionale.

L’avvocato, infatti, deve svolgere la propria attività con coscienza e diligenza, assicurando

la qualità della prestazione professionale; la diligenza assicura la qualità delle prestazioni.

L’avvocato deve, quindi, adempiere il mandato ricevuto dal cliente con sollecitudine, e

compiere tutti gli atti nei termini prescritti e che sono richiesti dalle norme tecniche.

La coscienza è espressione del senso di responsabilità che deve “ispirare” sempre il

professionista nell’esercizio dell’attività professionale.

12.5. Dovere di segretezza e riservatezza.

L’avvocato, anche in base all’art.6, comma 1, legge n. 247/2012, è tenuto, nell’interesse

del cliente e della parte assistita, alla rigorosa osservanza del segreto professionale e al

massimo riserbo su fatti e circostanze in qualsiasi modo apprese nell’attività di

rappresentanza e assistenza in giudizio, nonché nello svolgimento dell’attività di

consulenza legale e di assistenza stragiudiziale e comunque per ragioni professionali. Il

riserbo e la discrezione dell’avvocato su quanto “ricevuto” dal cliente vale, oltre che nei

confronti dei terzi, nei contatti diretti con il cliente e con i familiari di questo.

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E ciò, in quanto, il rapporto avvocato/cliente, è fondato sulla fiducia, e colui che si rivolge

ad un avvocato deve essere sicuro che tutto ciò che egli riferisce all’avvocato, non venga

portato a conoscenza di terzi, segreto che va rispettato dall’avvocato sia per la singola

vicenda della causa che per qualsiasi altra circostanza.

L’avvocato ha il dovere di preservare la confidenzialità riguardo alle informazioni delle

quali egli sia venuto a conoscenza nel corso della sua attività professionale. Ciò significa

che l’avvocato non potrà discutere con terzi di questioni concernenti gli interessi del

proprio cliente, e neppure fare pervenire ad un cliente informazioni concernenti altro

cliente.

L’obbligo di conservare il segreto professionale è assoluto e inviolabile; la protezione del

segreto professionale coinvolge tutti i soggetti, e quindi, anche i praticanti (Corte cost. 8

aprile 1997 n.87). L’avvocato deve, quindi, fare rispettare il segreto professionale ai propri

collaboratori e dipendenti e a tutte le persone che cooperano con lui nello svolgimento

dell’attività professionale.

Il segreto in questione riguarda non soltanto l’attività giudiziale ma anche l’attività di

consulenza legale e di assistenza stragiudiziale e comunque ogni rapporto professionale.

L’avvocato è, quindi, tenuto al segreto e al massimo riserbo in relazione ai fatti e alle

circostanze comunque apprese nell’esercizio dell’attività professionale (segrete sono

tutte le notizie che coinvolgono la persona assistita) e per ragioni professionali.

L’avvocato deve rispettare il segreto su tutte le informazioni riservate di cui abbia

conoscenza nell’ambito della sua attività professionale. Poiché costituisce un carattere

essenziale della funzione dell’avvocato il ricevere dai propri clienti informazioni non

propagabili, l’avvocato deve rispettare il carattere di confidenzialità delle informazioni

provenienti dai propri clienti e da egli stesso ricevute, in quanto concernenti il cliente, nel

corso della sua attività di difesa degli interessi del cliente.

L’obbligo di rispettare il segreto per l’avvocato non ha limiti temporali.

Del resto è nella natura stessa della missione dell’avvocato che egli sia depositario dei

segreti del suo cliente e destinatario di comunicazioni confidenziali: senza la garanzia

della riservatezza non ci può essere fiducia.

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Il segreto professionale è, dunque, riconosciuto come un diritto e un dovere

fondamentale e primordiale dell’avvocato; non costituisce un privilegio o un beneficio

dell’avvocato o del cliente.

12.6– Dovere di competenza.

L’avvocato, al fine di assicurare la qualità delle prestazioni professionali, non deve

accettare incarichi che non sia in grado di svolgere con adeguata competenza.

Con riferimento alla competenza, occorre evidenziare che la competenza a svolgere

l’attività difensiva è riservata dalla legge solo ai soggetti in possesso di determinati e

precisi requisiti (es. iscrizione all’albo professionale).

L’avvocato è tenuto a garantire, quindi, diligenza (qualità della prestazione), competenza,

aggiornamento e formazione continua.

Competenza (e preparazione) certamente contribuiscono alla credibilità dell’intera

categoria professionale. E’ necessario che il cliente, allorchè si rivolge ad un avvocato

iscritto all’albo professionale, possa fare affidamento su una sua capacità organizzativa e

tecnico-giuridca tale da assicurare una adeguata tutela degli interessi del cliente.

12.7– Dovere di aggiornamento professionale e di formazione continua.

L’avvocato deve curare costantemente la preparazione professionale, conservando e

accrescendo le conoscenze con particolare riferimento ai settori di specializzazione e a

quelli di attività prevalente. La necessità di un continuo aggiornamento professionale è

tanto più necessaria in un periodo caratterizzato da una continua evoluzione della

normativa di diritto sostanziale e processuale.

In base all’art.11, comma 1, legge n. 247/2012 l’avvocato ha l’obbligo di curare il continuo

e costante aggiornamento della propria competenza professionale al fine di assicurare la

qualità delle prestazioni professionali e di contribuire al migliore esercizio della

professione nell’interesse dei clienti e dell’amministrazione della giustizia.

Costituisce, quindi, dovere dell’avvocato curare costantemente la preparazione

professionale, conservando ed accrescendo le conoscenze. Soltanto un “costante”

aggiornamento professionale ed una formazione continua è in grado di assicurare alla

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società le qualità tecniche ed etiche degli avvocati, e quindi un livello professionale

adeguato alla società in cui si vive ed ai servizi richiesti, non potendosi ignorare i continui

mutevoli principi normativi.

Peraltro, sottrarsi agli adempimenti previsti per la formazione continua, costituisce illecito

disciplinare (Cass. 1.2.2010 n. 2235); e ciò in quanto il mancato aggiornamento comporta

un danneggiamento al decoro e al prestigio della professione; è, quindi, legittima

l’obbligatorietà dell’aggiornamento e della formazione continua nonchè delle sanzioni

disciplinari in caso di inadempienza (o mancato raggiungimento dei crediti richiesti).

12.8. – Dovere di adempimento fiscale, previdenziale, assicurativo e contributivo.

L’avvocato deve provvedere agli adempimenti fiscali e previdenziali previsti dalle norme

in materia.

L’avvocato deve adempiere agli obblighi assicurativi previsti dalla legge.

L’avvocato deve corrispondere regolarmente e tempestivamente i contributi dovuti alle

istituzioni forensi.

L’avvocato è, quindi, tenuto agli adempimenti fiscali, previdenziali, assicurativi e

contributivi verso gli organi forensi.

In particolare per la correttezza degli adempimenti fiscali, occorre evidenziare che per

l’avvocato – ma anche per tutti i professionisti – la mancata fatturazione determina la

sospensione dell’iscrizione all’albo e quindi dell’attività, che viene disposta dalla Agenzia

delle entrate.

Non si può ignorare che il rapporto tra il fisco e l’avvocato proietta i suoi effetti anche

sull’immagine dell’Avvocatura, interessata al rispetto delle regole di condotta. L’avvocato

“evasore fiscale” offusca certamente il prestigio della classe forense, senza considerare,

poi, i riflessi negativi sul bilancio della cassa forense, per lo stretto legame tra reddito

dichiarato al fisco e contribuzione previdenziale da versare alla cassa forense.

In ordine alle violazioni previdenziali, la normativa impone all’avvocato particolari

obblighi di comunicazione (es., invio del modello 5), e prevede anche la sanzione della

sospensione a tempo indeterminato. Non si può ignorare che l’evasore “previdenziale”

comporta un maggior onere di contribuzione a carico degli altri avvocati, maggiore onere

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necessario per consentire alla cassa forense di erogare le prestazioni dovute agli aventi

diritto.

Per quanto riguarda gli obblighi assicurativi, l’art.12 della legge n. 247/2012 prevede

l’obbligo per l’avvocato di stipulare polizza assicurativa a copertura della responsabilità

civile derivante dall’esercizio della professione, compresa quella per la custodia di

documenti, somme di denaro, titoli e valori ricevuti dal cliente. La stessa norma statuisce

che l’avvocato deve rendere noto al cliente gli estremi della polizza assicurativa, e che la

mancata osservanza di tale disposizione costituisce illecito disciplinare.

In ordine agli adempimenti contributivi dovuti alle istituzioni forensi (Consiglio dell’Ordine

e Consiglio nazionale forense), è la stessa legge professionale di cui alla l. n.247/2012

(art.29, comma 6) a prevedere espressamente che “Coloro che non versano nei termini

stabiliti il contributo annuale sono sospesi, previa contestazione dell’addebito e loro

personale convocazione, dal consiglio dell’ordine, con provvedimento non avente natura

disciplinare. La sospensione è revocata allorquando si sia provveduto al pagamento”.

Occorre, comunque, evidenziare che spetta agli organi di disciplina (Consiglio distrettuale

di disciplina) compiere ogni accertamento per valutare in concreto se ricorrano gli estremi

della infrazione e quale sanzione applicare, tenuto conto delle giustificazioni

dell’incolpato e della irregolarità commessa.

12.9. – Informazione sull’esercizio dell’attività professionale.

E’ consentito all’avvocato, a tutela dell’affidamento della collettività, l’informazione sulla

propria attività professionale, sull’organizzazione e struttura dello studio, sulle eventuali

specializzazioni e titoli scientifici e professionali posseduti.

Le informazioni diffuse pubblicamente con qualunque mezzo, anche informatico,

debbono essere trasparenti, veritiere, corrette, non equivoche, non ingannevoli, non

denigratorie o suggestive e non comparative.

In ogni caso le informazioni offerte devono fare riferimento alla natura e ai limiti

dell’obbligazione professionale.

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In pratica, l’avvocato è autorizzato a informare il pubblico sui servizi offerti, a patto che

l’informazione sia accurata e non ingannevole e rispettosa del dovere di riservatezza e

degli altri principi essenziali della professione.

E’ certamente vietato all’avvocato, attraverso la pubblicità, l’ostentazione dei meriti,

l’autoelogio delle competenze, l’utilizzazione di dati equivoci e maliziosi, circostanze

queste che in contrasto con il rapporto fiduciario che si crea con la parte assistita e ai

principi di riservatezza e dignità che devono essere sempre rispettati dall’avvocato.

Del resto, sulla materia è intervenuto lo stesso legislatore che ha “sancito” la pubblicità

informativa per l’avvocato. Infatti:

- il d.l. n.223 del 2006 conv. in l. n. 248/2006 (c.d. decreto Bersani sulle

liberalizzazioni) ha riconosciuto legittima la pubblicità informativa circa i titoli e le

specializzazioni professionali, le caratteristiche del servizio offerto, nonché il

prezzo e i costi complessivi delle prestazioni secondo criteri di trasparenza e

veridicità del messaggio;

- il d.l. n. 138 del 2011 conv. in l. n.148/2011 ha statuito che la pubblicità

informativa è consentita con ogni mezzo e le informazioni devono essere

trasparenti, veritiere, corrette e non devono essere equivoche, ingannevoli,

denigratorie;

- l’art.10 della legge professionale n. 247 del 2012 conferma la possibilità per

l’avvocato di dare informazioni sull’esercizio della professione, statuendo che è

consentita all’avvocato la pubblicità informativa sulla propria attività

professionale, sull’organizzazione e struttura dello studio e sulle eventuali

specializzazioni e titoli scientifici e professionali posseduti;

- la stessa norma (comma 2) conferma che la pubblicità e tutte le informazioni

diffuse pubblicamente con qualunque mezzo, anche informatico, debbono essere

trasparenti, veritiere, corrette e non devono essere comparative con altri

professionisti, equivoche, ingannevoli, denigratorie o suggestive. In ogni caso le

informazioni offerte devono fare riferimento alla natura e ai limiti

dell’obbligazione professionale. Il comma 4 del citato art.10 prevede

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espressamente che l’inosservanza delle disposizioni riferite costituisce illecito

disciplinare.

Il riferimento alla “tutela dell’affidamento della collettività” conferma che le norme

sulla pubblicità informativa non sono a tutela degli interessi dell’avvocato ma dei

cittadini.

12.10. - Doveri nei rapporti con gli organi dell’informazione.

Nei rapporti con gli organi di informazione l’avvocato deve ispirarsi a criteri di equilibrio e

misura, nel rispetto dei doveri di discrezione e riservatezza; con il consenso della parte

assistita, e nell’esclusivo interesse di quest’ultima, può fornire agli organi di informazione

notizie purchè non coperte dal segreto di indagine. L’avvocato è tenuto in ogni caso ad

assicurare l’anonimato dei minori.

Nei rapporti con gli organi di stampa, l’avvocato deve quindi rispettare criteri di equilibrio

e misura nonché i doveri di discrezione e riservatezza, evitando atteggiamenti pubblicitari

o concorrenziali. Nulla vieta all’avvocato di rilasciare dichiarazioni o interviste, sia sui

giornali che su altri mezzi di diffusione (es., trasmissioni televisive); non può, però lanciare

gratuite offese a terzi o esaltare la sua tecnica difensiva o fare riferimenti a elementi

pubblicitari, per ricavarne una diffusione pubblicitaria sulla propria persona.

Quanto alle notizie che possono essere date dall’avvocato in relazione ad uno specifico

evento, è evidente che l’avvocato può fornire notizie sui fatti accaduti, con il consenso

però della parte assistita e nell’esclusivo interesse di quest’ultima (può non esservi alcun

interesse nel dare una dimensione pubblica a fatti privati), sempreché le notizie fornite

non siano coperte dal segreto di indagine.

12.11. - Doveri di lealtà e correttezza verso i colleghi e le istituzioni forensi.

L’avvocato deve mantenere nei confronti dei colleghi e delle istituzioni forensi un

comportamento ispirato a correttezza e lealtà.

E ciò in quanto con i colleghi è sempre dovuto uno scambio reciproco di attenzioni, e nei

confronti delle istituzioni forensi sempre maggiore rispetto.

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3. Le sanzioni disciplinari 13. – La determinazione della sanzione disciplinare.

La potestà disciplinare degli organi forensi in materia disciplinare, prima dell’entrata in

vigore della legge n. 247/2012, stante la lacunosità del regio decreto n.1578/33, è stata

spesso posta in discussione; la dottrina (minoritaria) attribuiva agli organi forensi la sola

potestà sanzionatoria ma non la potestà regolamentare.

La problematica è stata risolta dalla legge n. 247/2012, che espressamente attribuisce al

Consiglio nazionale forense, la potestà di emanare e aggiornare periodicamente il codice

deontologico, ed agli organi disciplinari (Consigli distrettuali di disciplina e Consiglio

nazionale forense nel giudizio di impugnazione) la potestà sanzionatoria.

La legge professionale, infatti, attribuisce agli organi forensi non solo la potestà di

emanare le norme deontologiche (art.35, comma 1, lett.d), legge n. 247/2012), ma anche

la potestà sanzionatoria (art.50, comma 1, legge n. 247/2012) e cioè la potestà di

sanzionare i comportamenti che violano le regole deontologiche.

Spetta, infatti, agli organi disciplinari (Consigli distrettuali di disciplina; Consiglio nazionale

forense nel giudizio di impugnazione) la potestà di applicare, nel rispetto delle procedure

previste dalle norme anche regolamentari (il procedimento disciplinare è disciplinato

dalla legge ed in parte dai regolamenti del consiglio nazionale forense), le sanzioni

adeguate e proporzionate alla violazione deontologica commessa (art.21 codice

deontologico).

Stante la giurisprudenza della Corte costituzionale in materia di sanzioni disciplinari – che

ha sempre dichiarato incostituzionali le norme che prevedono sanzioni automatiche o di

diritto - è stato ribadito nella nuova disciplina della legge n. 247/2012 il principio che la

sanzione sia adeguata e proporzionata alla violazione deontologica commessa.

E’ previsto, infatti, nel nuovo codice deontologico (art. 21) che oggetto di valutazione è il

comportamento complessivo dell’incolpato per una valutazione della condotta in

generale, anche per l’applicazione di possibili attenuanti o aggravanti, ma soprattutto per

applicare una sanzione disciplinare adeguata e proporzionata alla violazione deontologica

commessa. Infatti, le sanzioni sono previste con una gradualità tale che consente

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nell’applicazione concreta di tener conto dei criteri di intensità del dolo e della gradualità

della colpa (Consiglio nazionale forense 27 settembre 2012 n.132).

La sanzione disciplinare è unica (art.21, comma 2, codice deontologico), anche quando

siano contestati più addebiti (e quindi vi siano stati vari comportamenti lesivi) nell’ambito

del medesimo procedimento. E ciò in quanto, come già detto, nel procedimento

disciplinare vige il principio della valutazione del comportamento complessivo

dell’incolpato. Il principio dell’unicità della sanzione consente di graduare la sanzione in

dipendenza di tutte le violazioni contestate all’incolpato, ed assicurare, così,

l’adeguatezza e la proporzionalità delle sanzioni.

Il giudizio disciplinare comporta una giudizio complessivo sulla condotta dell’incolpato,

cui va irrogata una pena unica, la maggiore assorbendo la minore, ancorchè sia vari gli

addebiti, e tale sanzione non è la somma di altrettante pene singole sugli addebiti

contestati, ma la valutazione della condotta complessiva dell’incolpato (Consiglio

nazionale forense 25 febbraio 2013 n. 12; Consiglio nazionale forense 15.10.2012 n.136).

La sanzione disciplinare viene determinata sulla base di una pluralità di elementi. Infatti,

l’art.21, commi 3, del codice deontologico, stabilisce che la sanzione deve essere

commisurata:

- alla gravità del fatto;

- al grado della colpa;

- alla eventuale sussistenza del dolo ed alla sua intensità;

- al comportamento dell’incolpato, precedente e successivo al fatto, avuto riguardo

alle circostanze, soggettive e oggettive, nel cui contesto è avvenuta la violazione.

Nel comma 4 dell’art.21 citato si stabilisce che nella determinazione della sanzione si

deve tenere conto:

- del pregiudizio eventualmente subito dalla parte assistita e dal cliente;

- della compromissione dell’immagine della professionale forense;

- della vita professionale;

- dei precedenti disciplinari.

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Nella determinazione della sanzione gli organi disciplinari devono tenere conto delle

manifestazioni esterne, della gravità dell’offesa, della pregiudizio subito dalla

controparte, della composizione della contestazione, della provocazione, ma anche, con

riferimento all’incolpato, dell’intenzionalità, della reiterazione dei comportamenti,

dell’età, dello stato d’animo e del suo complessivo comportamento.

La giurisprudenza in materia disciplinare ha individuato:

- come elemento “attenuante” nella determinazione della sanzione: giovane età

dell’incolpato, inesperienza, tarda età, mancanza di precedenti disciplinari, buona

fama e stima, condizioni di salute, difficoltà economiche, la eliminazione degli

effetti dannosi, l’inadempienza del cliente, la buona fede;

- come elemento “aggravante”: i precedenti disciplinari, la reiterazione dei fatti,

l’entità del danno, le dichiarazioni false.

14. – Le sanzioni disciplinari.

L’art. 53 della l. n.247/2012 indica le sanzioni disciplinari applicabili in caso di illeciti

deontologici, articolo che viene poi riprodotto dall’art.22 del codice deontologico.

La nuova legge professionale (ed il codice deontologico) non prevede la sanzione della

cancellazione dall’albo.

Le norme “incriminatrici” sono accompagnate ognuna dalla espressa indicazione della

sanzione applicabile.

La formulazione della normativa di cui alla l. n.247/2012 e dell’art.22 del codice

deontologico, prevede la variazione della sanzione riportata dalla citata normativa, nel

caso in cui gli organi disciplinari (Consigli distrettuali di disciplina) ritengano di aggravare o

diminuire la pena edittale, in ragione delle particolari situazioni.

Le sanzioni disciplinari previste dal nuovo codice deontologico (art.22) e dalla legge

professionale (art.53) sono:

a) Avvertimento: consiste nell’informare l’incolpato che la sua condotta non è stata

conforme alle norme deontologiche e di legge, con invito ad astenersi dal compiere

altre infrazioni; può essere deliberato quando il fatto contestato non è grave e vi è

motivo di ritenere che l’incolpato non commette altre infrazioni.

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b) Censura: consiste nel biasimo formale e si applica quando la gravità dell’infrazione,

il grado di responsabilità, i precedenti dell’incolpato e il suo comportamento

successivo al fatto inducono a ritenere che egli non incorrerà in un’altra infrazione.

c) Sospensione: consiste nell’esclusione temporanea, da due mesi a cinque anni,

dall’esercizio della professione o dal praticantato e si applica per infrazioni

consistenti in comportamenti e in responsabilità gravi o quando non sussistono le

condizioni per irrogare la sola sanzione della censura.

d) Radiazione: consiste nell’esclusione definitiva dall’albo, elenco o registro e

impedisce l’iscrizione a qualsiasi altro albo, elenco o registro, fatto salvo quanto

previsto dalla legge; è inflitta per violazioni molto gravi che rendono incompatibile la

permanenza dell’incolpato nell’albo, elenco o registro.

In linea con la giurisprudenza della Corte costituzionale, che ha sempre dichiarato

costituzionalmente illegittime le norme che prevedono sanzioni automatiche o di

diritto, è previsto un aumento o una diminuzione della sanzione edittale in presenza di

particolari situazioni. Ed infatti l’art.22, commi 2 e 3, codice deontologico, prevede il

meccanismo del possibile aggravamento e della possibile attenuazione della sanzione

editale, che è stata prevista per ognuna delle norme della parte speciale del codice

deontologico (ogni norma incriminatrice è accompagnata dalla espressa indicazione

della sanzione edittale applicabile).

15. – Aumento della sanzione disciplinare edittale.

Infatti, è previsto, nei casi più gravi, che la sanzione disciplinare edittale può essere

aumentata, nel suo massimo:

a) nel caso sia prevista la sanzione dell’avvertimento, fino alla sospensione

dall’esercizio dell’attività professionale per due mesi;

b) nel caso sia prevista la sanzione della censura, fino alla sospensione dall’esercizio

dell’attività professionale non superiore a un anno;

c) nel caso si prevista la sanzione della sospensione dall’esercizio dell’attività

professionale fino ad un anno, fino alla sospensione dall’esercizio dell’attività

professionale non superiore a tre anni;

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d) nel caso sia prevista la sanzione della sospensione dall’esercizio dell’attività

professionale da uno a tre anni, fino alla radiazione.

16. – Diminuzione della sanzione disciplinare edittale.

Nei casi meno gravi, la sanzione disciplinare può essere diminuita:

a) all’avvertimento, nel caso in cui sia prevista la sanzione della censura;

b) alla censura, nel caso sia prevista la sanzione della sospensione dall’esercizio

dell’attività professionale fino a un anno;

c) alla sospensione dall’esercizio dell’attività professionale fino a due mesi nel caso

sia prevista la sospensione dall’esercizio della professione da uno a tre anni;

d) nei casi di infrazioni lievi e scusabili, all’incolpato è fatto richiamo verbale, non

avente però carattere di sanzione disciplinare.