LA COSTRUZIONE DI UN MITO. ARCHITETTURE ALBERTIANE NEL CICLO DEI MESI DI SCHIFANOIA

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LA COSTRUZIONE DI UN MITO. ARCHITETTURE ALBERTIANE NEL CICLO DEI MESI DI SCHIFANOIA Loredana Olivato l 9 aprile 1438 si apriva ufficialmente a Ferrara, a seguito di lunghe ed estenuanti trattative di- plomatiche, la nuova sessione di quel Concilio ecumenico che, apertosi anni prima a Basilea, si trascinava da tempo senza pervenire a decisioni di qualche rilievo per il mondo cristiano.1 L’avvenimento – che già nelle premesse era tuttavia destinato a concludersi a breve termine – segnò, agli occhi del mondo civile di quel tempo, la definitiva affermazione della casata esten- se il cui governo, efficace, attivo, garante di una sicura gestione della cosa pubblica, veniva con- sacrato fra quelli che, sullo scacchiere italiano, miravano ad insidiare un primato fino a quel momento riconosciuto solo al capoluogo toscano o a potenze da lungo affermate anche sul pia- no militare. Durante i mesi – ricchi di accadimenti politici, di incontri fra gli ospiti illustri, di dibattiti dot- trinali come anche di scontri diplomatici, di minuziose discettazioni sull’etichetta, di fastose ce- rimonie – in cui l’evento si dipanò, la città dovette risultare, agli occhi degli stranieri, come an- che e soprattutto a quelli degli attoniti sudditi, trasformata in un fiabesco centro cosmopolita, frequentato non solo dai grandi della terra (il papa e gli imperatori in primis), ma, in particolare, dalla più consistente e percepibile folla degli armigeri, degli uomini di corte e di scienza, degli innumerevoli preti e serventi, ciascuno abbigliato nei costumi e nelle fogge proprie delle nazio- ni – magari remotissime – cui appartenevano e comunicanti fra loro in lingue spesso oscure e mai prima dai ferraresi ascoltate. Ferrara come una vera e propria capitale, dunque, quale mai in precedenza si era manifesta- ta; che l’astuto Nicolò III, coadiuvato dall’erede designato, Leonello, – a prezzo tuttavia di spese ingentissime sue proprie e della comunità a lui soggetta – aveva voluto qualificare come tale. Certamente – ed è quello che in questo momento ci preme sottolineare – il segno che la vi- cenda conciliare lasciò e nella città e nella più ampia società del tempo fu significativo e non 1 Per ulteriori notizie sul Concilio ferrarese basti rimandare agli Atti del Convegno, curati da Patrizia Castelli, Ferrara e il concilio 1438-1439, Ferrara, Università degli Studi, 1992. Al momento successivo, quello fiorentino, del Concilio sono de- dicate le pagine del catalogo della mostra L’uomo del Rinascimento. Leon Battista Alberti e le arti a Firenze tra ragione e bellezza (Firenze, palazzo Strozzi, 11 marzo - 23 luglio 2006), a cura di Cristina Luchinat, Gabriele Morolli, Firenze, Mandragora- Maschietto, 2006; si veda quanto si ragiona nel catalogo alle pp. 97-117. Teniamo a precisare che, in ordine alla recente cri- tica albertiana, in questi ultimi anni molto affollata, oltre a quello appena citato, sono imprescindibili i contributi apparsi nelle mostre e convegni cui faremo d’ora in avanti riferimento anche per ogni referenza bibliografica precedente: a cominciare dalla fondamentale mostra Leon Battista Alberti (Mantova, palazzo Te, 10 settembre - 11 dicembre 1994), a cura di Joseph Rykwert, Anne Engel, Milano, Electa, 1994; dagli atti dei convegni Leon Battista Alberti (Paris, Sorbonne, Institut de France, Institut culturel italien, Collège de France, 10-15 avril 1995), a cura di Francesco Furlan, Paris-Torino, J. Vrin- Aragno, 2000; Leon Battista Alberti e il Quattrocento. Studi in onore di Cecil Grayson e Ernst Gombrich (Mantova, Centro Studi Leon Battista Alberti, 29-31 ottobre 1998), a cura di Luca Chiavoni, Gianfranco Ferlisi, Maria Vittoria Grassi, Firenze, Ol- schki, 2001; Il principe architetto (Centro Studi Leon Battista Alberti, Mantova, 21-23 ottobre 1999), a cura di Arturo Calzona, Francesco Paolo Fiore, Alberto Tenenti, Cesare Vasoli, Firenze, Olschki, 2002; Leon Battista Alberti umanista e scrittore. Fi- lologia, esegesi, tradizione (Arezzo, 24-26 giugno 2004), a cura di Roberto Cardini, Mariangela Regoliosi, Firenze, Polistam- pa, 2007; Leon Battista Alberti: architetture e committenti (Firenze-Rimini-Mantova, 13-16 ottobre 2004), a cura di Arturo Cal- zona, Joseph Connors, Francesco Paolo Fiore, Firenze, Olschki, 2009; dalle mostre La Roma di Leon Battista Alberti: umanisti, architetti e artisti alla scoperta dell’antico nella città del Quattrocento (Roma, Musei Capitolini, 24 giugno - 16 ottobre 2005), a cura di Francesco Paolo Fiore, con la collaborazione di Arnold Nesselrath, Milano, Skira, 2005; Leon Battista Alberti. La biblioteca di un umanista (Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, 8 ottobre 2005 - 7 gennaio 2006), a cura di Roberto Cardini, Firenze, Mandragora, 2005. I

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Loredana Olivato, LA COSTRUZIONE DI UN MITO. ARCHITETTURE ALBERTIANE NEL CICLO DEI MESI DI SCHIFANOIAcontenuto nella rivista "Schifanoia", Anno 2008 - N° 34-35 pagg. 13-23.

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NEL CICLO DEI MESI DI SCHIFANOIA

Loredana Olivato

l 9 aprile 1438 si apriva ufficialmente a Ferrara, a seguito di lunghe ed estenuanti trattative di-plomatiche, la nuova sessione di quel Concilio ecumenico che, apertosi anni prima a Basilea,

si trascinava da tempo senza pervenire a decisioni di qualche rilievo per il mondo cristiano.1L’avvenimento – che già nelle premesse era tuttavia destinato a concludersi a breve termine

– segnò, agli occhi del mondo civile di quel tempo, la definitiva affermazione della casata esten-se il cui governo, efficace, attivo, garante di una sicura gestione della cosa pubblica, veniva con-sacrato fra quelli che, sullo scacchiere italiano, miravano ad insidiare un primato fino a quelmomento riconosciuto solo al capoluogo toscano o a potenze da lungo affermate anche sul pia-no militare.

Durante i mesi – ricchi di accadimenti politici, di incontri fra gli ospiti illustri, di dibattiti dot-trinali come anche di scontri diplomatici, di minuziose discettazioni sull’etichetta, di fastose ce-rimonie – in cui l’evento si dipanò, la città dovette risultare, agli occhi degli stranieri, come an-che e soprattutto a quelli degli attoniti sudditi, trasformata in un fiabesco centro cosmopolita,frequentato non solo dai grandi della terra (il papa e gli imperatori in primis), ma, in particolare,dalla più consistente e percepibile folla degli armigeri, degli uomini di corte e di scienza, degliinnumerevoli preti e serventi, ciascuno abbigliato nei costumi e nelle fogge proprie delle nazio-ni – magari remotissime – cui appartenevano e comunicanti fra loro in lingue spesso oscure emai prima dai ferraresi ascoltate.

Ferrara come una vera e propria capitale, dunque, quale mai in precedenza si era manifesta-ta; che l’astuto Nicolò III, coadiuvato dall’erede designato, Leonello, – a prezzo tuttavia di speseingentissime sue proprie e della comunità a lui soggetta – aveva voluto qualificare come tale.

Certamente – ed è quello che in questo momento ci preme sottolineare – il segno che la vi-cenda conciliare lasciò e nella città e nella più ampia società del tempo fu significativo e non

1 Per ulteriori notizie sul Concilio ferrarese basti rimandare agli Atti del Convegno, curati da Patrizia Castelli, Ferrarae il concilio 1438-1439, Ferrara, Università degli Studi, 1992. Al momento successivo, quello fiorentino, del Concilio sono de-dicate le pagine del catalogo della mostra L’uomo del Rinascimento. Leon Battista Alberti e le arti a Firenze tra ragione e bellezza(Firenze, palazzo Strozzi, 11 marzo - 23 luglio 2006), a cura di Cristina Luchinat, Gabriele Morolli, Firenze, Mandragora-Maschietto, 2006; si veda quanto si ragiona nel catalogo alle pp. 97-117. Teniamo a precisare che, in ordine alla recente cri-tica albertiana, in questi ultimi anni molto affollata, oltre a quello appena citato, sono imprescindibili i contributi apparsinelle mostre e convegni cui faremo d’ora in avanti riferimento anche per ogni referenza bibliografica precedente: a cominciare dalla fondamentale mostra Leon Battista Alberti (Mantova, palazzo Te, 10 settembre - 11 dicembre 1994), a curadi Joseph Rykwert, Anne Engel, Milano, Electa, 1994; dagli atti dei convegni Leon Battista Alberti (Paris, Sorbonne, Institutde France, Institut culturel italien, Collège de France, 10-15 avril 1995), a cura di Francesco Furlan, Paris-Torino, J. Vrin-Aragno, 2000; Leon Battista Alberti e il Quattrocento. Studi in onore di Cecil Grayson e Ernst Gombrich (Mantova, Centro StudiLeon Battista Alberti, 29-31 ottobre 1998), a cura di Luca Chiavoni, Gianfranco Ferlisi, Maria Vittoria Grassi, Firenze, Ol-schki, 2001; Il principe architetto (Centro Studi Leon Battista Alberti, Mantova, 21-23 ottobre 1999), a cura di Arturo Calzona,Francesco Paolo Fiore, Alberto Tenenti, Cesare Vasoli, Firenze, Olschki, 2002; Leon Battista Alberti umanista e scrittore. Fi-lologia, esegesi, tradizione (Arezzo, 24-26 giugno 2004), a cura di Roberto Cardini, Mariangela Regoliosi, Firenze, Polistam-pa, 2007; Leon Battista Alberti: architetture e committenti (Firenze-Rimini-Mantova, 13-16 ottobre 2004), a cura di Arturo Cal-zona, Joseph Connors, Francesco Paolo Fiore, Firenze, Olschki, 2009; dalle mostre La Roma di Leon Battista Alberti:umanisti, architetti e artisti alla scoperta dell’antico nella città del Quattrocento (Roma, Musei Capitolini, 24 giugno - 16 ottobre2005), a cura di Francesco Paolo Fiore, con la collaborazione di Arnold Nesselrath, Milano, Skira, 2005; Leon Battista Alberti.La biblioteca di un umanista (Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, 8 ottobre 2005 - 7 gennaio 2006), a cura di RobertoCardini, Firenze, Mandragora, 2005.

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senza conseguenze. Consideriamo anzitutto (e per limitarci soltanto al campo speculativo eculturale) che in quell’occasione il centro estense era divenuto crogiuolo fecondissimo, popo-lato dai talenti più qualificati di quegli anni. Vi sappiamo partecipare, ad esempio, Leon BattistaAlberti, a seguito della corte papale colà trasferitasi; ma con lui vi erano giunti anche il segre-tario pontificio Flavio Biondo, il generale dei Camaldolesi Ambrogio Traversari, illustri studiosigreci, come il cardinal Bessarione o Teodoro di Gaza, uno dei massimi eruditi dell’epoca, il fi-losofo Giorgio Gemisto Pletone;1 Angelo Decembrio; financo il pittore forse più rinomato deltempo, Pisanello, venuto con ogni probabilità a ritrarre l’imperatore d’Oriente.2

Si tratta di personaggi che, senza dubbio, ebbero reciproci, fecondi e più duraturi contatti.Che marcarono profondamente anche il contesto ferrarese. Credo si possa affermare che l’abi-lità degli Estensi fu non solo quella di qualificare la città come capitale a livello politico, ma an-che e soprattutto come centro culturale in grande espansione.

Non è quindi irragionevole pensare che proprio durante i lavori dell’assise ecclesiastica si rin-saldasse quell’intenso legame, fatto di interessi comuni, come anche di reciproca stima e am-mirazione, che unì negli anni alcuni dei protagonisti di quei giorni: Leon Battista Alberti, Leo-nello e Meliaduse d’Este. Al primo l’Alberti aveva già in precedenza dedicato la Philodoxeosfabula, commedia pseudoantica che egli aveva redatto, quasi per burla, studente a Bologna, nel1424, e che aveva fatto passare in un primo tempo per la trascrizione di un antichissimo codice,dello scrittore satirico Lepido.3 Nel 1441, poi, gli indirizzerà il trattatello morale Theogenius (perconsolarlo della morte del padre Nicolò), mentre sempre agli anni del soggiorno ferrarese deveessere ascritta la prima definizione di quel curioso De equo animante, composto in seguito allasua partecipazione come giudice al concorso per la statua equestre di Nicolò III; monumentodi cui forse egli lasciò un’idea progettuale per l’impostazione della base.4

Ma soprattutto è la più importante fatica dell’Alberti a nascere – come vien affermato dallefonti – per precisa sollecitazione di Leonello, palesemente interessato a quel tipo di problema-tica. Mi riferisco al De re aedificatoria, scritto a partire dal 1447.

Anzi, sembra che la richiesta specifica del principe fosse stata quella di un commento al trat-tato vitruviano, testo che godeva di una notevole attenzione da parte dei circoli dotti, almenosin dalla metà del secolo precedente, ma che per la sua oscurità e difficoltà di interpretazioneera oggetto di vivaci quanto approssimativi dibattiti. E il fatto che l’Estense dimostrasse un cosìpeculiare interesse nei confronti del testo, allora ritenuto la chiave per comprendere la tradizio-ne dell’antichità classica, dimostra che simile intento doveva essere funzionale a una propriastrategia di riqualificazione urbana.5

E che un testo manoscritto del trattato albertiano sia poi arrivato a Ferrara è dato concorde-mente ripetuto dagli osservatori dell’epoca. Tant’è vero che Federico di Montefeltro, nel di-cembre del 1480, scriveva all’allora duca Ercole con l’intenzione di inviare presso quella corteun suo miniatore di fiducia, il famoso Guglielmo Giraldi, per far ricopiare l’esemplare ch’egli

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1 A tale personaggio è dedicato, negli atti citati qui sopra, il bel saggio di Marco Bertozzi, Il Convito di Ferrara. GiorgioGemisto Pletone e il mito del paganesimo antico ai tempi del Concilio, in Ferrara e il concilio, cit., pp. 133-141.

2 In proposito mi permetto di rimandare al mio contributo nella raccolta citata alla nota 1: La Principessa di Trebisonda.Per un ritratto di Pisanello, in Ferrara e il concilio, cit., pp. 193-211.

3 In realtà i problemi sulla datazione precisa dell’opera sono molteplici: che risalga al 1424, stando alla cosiddetta Auto-biografia, appare accertato. Il problema cronologico coinvolge tuttavia le diverse versioni manoscritte (ben 19) oltre quellaa stampa (situabile al 1434). In proposito si veda l’ancora validissimo saggio di Eugenio Garin, Il pensiero di L. B. Albertinella cultura del Rinascimento, in Convegno Internazionale indetto nel v Centenario della morte di Leon Battista Alberti (Roma-Mantova-Firenze, 25-29 aprile 1972), Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1974, in part. pp. 29 sgg.

4 Sul trattatello cfr. l’acuto saggio di Franco Borsi, Leon Battista Alberti: i ludi ferraresi, in Ferrara e il concilio, cit., pp.181-192.

5 Sui rapporti fra gli Estensi e Leon Battista si vedano gli specifici contributi di Gabriele Morolli, Ferrara e l’architet-tura. Lo Studio e gli studi nel Quattrocento, in La rinascita del sapere. Libri e maestri dello Studio ferrarese, a cura di Patrizia Castelli, Venezia, Marsilio, 1991, pp. 63-78 e di Joseph Rykwert, Leon Battista Alberti a Ferrara, in Leon Battista Alberti, cit.(catalogo della mostra di Mantova, 1994), pp. 158-161.

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dava per scontato abbellire la biblioteca del signore; esemplare tuttavia sventuratamente per-duto e che gli Estensi si affanneranno a recuperare, chiedendolo, ed ottenendolo, in prestito daLorenzo il Magnifico.1

Del resto, negli anni attorno all’avvenimento conciliare, gli Estensi si erano prodigati per ar-ricchire la città e il contado di nuovi esempi architettonici che valessero all’arredo urbano il con-seguimento di uno standard di aggiornata qualificazione.2 Già dal 1435 il marchese Nicolò avevapianificato la costruzione di un palazzo di ‘delizie’, la celeberrima Belriguardo; e un anno dopodecideva di ampliare ed arricchire il palazzo extraurbano di Consandolo, situato sulla riva delPo a 18 miglia dalla capitale, che Flavio Biondo descriveva come «magnifici operis aedibus or-natissima», degna di ospitare nelle sue stanze, nel 1468, l’imperatore Federico III. Ed è interes-sante notare come i signori ferraresi, non appena consolidato il loro dominio, ancora nel xivsecolo, avessero dimostrato di essere particolarmente sensibili alle tecniche più all’avanguardianell’ambito architettonico, tanto da non lesinare prebende e onori pur di richiamare all’internodello Stato operatori che si fossero qualificati per eccellenza e risonanza d’imprese in tutto ilterritorio italiano. È stato notato al riguardo che il famoso Bartolino da Novara, architetto rin-corso e richiesto da buona parte delle corti padane, venga insediato a Ferrara nel 1377 per la co-struzione del Castelvecchio, allettandolo con il miraggio di sbalorditivi compensi. E sappiamoancora che, sempre Nicolò III, si affannerà ad invitare un personaggio del calibro di Filippo Bru-nelleschi, facendo istanza alla Repubblica fiorentina perché gli venisse concesso di prestar con-sulenza in territorio ferrarese. Ed è il Campori a ricordarci come Leonello, fra 1442 e 1446, avesseproposto condizioni di assoluto favore per l’assunzione del maestro Antonio Marini, che venivarichiamato nientemeno che dalla Francia, per lavorare – forse in opere idrauliche e ingegneri-stiche – al servizio della città.

Referente necessario della nuova idea di città è l’esperienza diretta dell’antico, il cui linguag-gio andrà studiato e analizzato per ricavarne quelle regole universali del perfetto costruire chepossono consentire di far rivivere la grande lezione della civiltà classica. E che Leon Battista fos-se un efferato cultore della lezione romana lo dimostrano i suoi studi sulla topografia dell’Urbe– raccolti nella breve ma intensissima Descriptio dei primi anni ’40 –, sulle rovine monumentalidi questa (di cui sono infiniti accenni nei libri del De re aedificatoria), sull’epigrafia classica, comeè evidente notare dagli scrupoli calligrafici dispiegati nel monumento funebre per Giovanni Ru-cellai; ma ancora, nelle opere letterarie, nei costanti richiami alla lettura attenta degli antichiscrittori, a cominciare dall’esordio di uno dei suoi primissimi saggi (1428-1429), il De commodisliterarum atque incommodis:

Non mi sovvenne mai nella mente […] cosa alcuna che da quegli scrittori antichi non fussi stata garbata-mente preoccupata. In maniera che non rimase cosa alcuna a qualsivoglia dottissimo homo della età no-stra, che essi non la havessino trattata meglio […]. Talmente abbracciarono essi antichi tutte le cose gravi,& tutte le dilettevoli, lasciando solamente a noi la facultà & la necessità di leggere & di meravigliarci degliscritti loro…3

E, per tornare ancora una volta a questo 1438, così denso di significati, mi viene da osservarecome le latinae litterae che ornano la medaglia che Pisanello dedicò all’imperatore GiovanniVIII Paleologo (Fig. 1) – la prima opera che attesta il virage dell’artista, da pittore ancora legato

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1 In proposito si veda quanto puntualmente ragiona Giovanni Orlandi, Le prime fasi della diffusione del Trattato archi-tettonico albertiano, in Leon Battista Alberti, cit. (catalogo della mostra di Mantova, 1994), pp. 96-105.

2 Sulla politica estense di rinnovo urbano cfr. Marco Folin, Rinascimento estense. Politica, cultura, istituzioni di un anticostato italiano, Bari-Roma, Laterza, 2004, in particolare il cap. La magnificenza urbana, pp. 244 sgg.

3 Se ne veda l’edizione a cura di Laura Goggi Carotti, Firenze, Olschki, 1976. Sul culto del gusto antiquario cfr. SilviaDanesi Squarzina, Eclisse del gusto cortese e nascita della cultura antiquaria: Ciriaco, Feliciano, Marcanova, Alberti, in Da Pisanello alla nascita dei Musei Capitolini. L’Antico a Roma alla vigilia del Rinascimento, catalogo della mostra (Roma, MuseiCapitolini, 24 maggio - 19 luglio 1988), a cura di Anna Cavallaro, Enrico Parlato, Milano-Roma, Arnoldo Mondadori-DeLuca, 1988, pp. 27-37.

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a tematiche e moduli espressivi tardo-gotici, a deciso interprete dei nuovi fermenti umanistici– possano essere state, nella loro grafica definizione, ispirate proprio dall’Alberti.1 E del restosi è di recente supposto che la placchetta della National Gallery di Washington con l’autoritrat-to di Battista sia stata concretamente realizzata proprio in questo volgere di mesi, e forse a con-tatto con l’artista veronese (Fig. 2).2

Si deve a un’intuizione brillante di Ludovico Zorzi3 l’aver messo in relazione la città che sidipana sulle pareti di Schifanoia con le meditazioni urbane di Alberti, mediate dall’interpreta-zione di Pellegrino Prisciani. Si sarebbe trattato anzi della trasposizione bidimensionale dellescenografie che corredavano le rappresentazioni teatrali così frequenti e rinomate presso la cor-te. Non solo: egli per primo presuppone una relazione fra l’ideatore iconografico del ciclo diSchifanoia e quello che diverrà, di lì a circa un ventennio, il più straordinario episodio di ripia-nificazione urbana del Rinascimento: l’addizione voluta da Ercole, a riprova della fertilità diidee che il dibattito sul modello ideale di città aveva prodotto. E spingeva oltre le proprie con-clusioni adombrando la possibilità che «accanto all’operosità geniale e dimessa dell’esecutoremateriale [dell’addizione stessa] la presenza di un ispiratore ideologico-iconologico il quale de-ve ricercarsi nell’ambito degli intellettuali iper-eruditi che gravitavano tra lo studio e la corte».E se era stato Pellegrino Prisciani il dotto elaboratore della complessa simbologia che sta allabase della visione cosmogonica impalcata dalla rappresentazione pittorica del Salone dei Mesi,questo stesso forse, non solo ammiratore accanito dell’opera albertiana ma addirittura inter-

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1 In realtà il problema è molto complesso in quanto coinvolge anche la scritta in greco sul diritto della medaglia. Inproposito, sono intervenuta (cfr. La principessa Trebisonda, cit., pp. 206-207) per rivendicare allo stesso imperatore Paleolo-go la committenza dell’opera, nell’ordine di un ‘ritratto’ che lo avrebbe visto apparire alla pari, di fronte ai grandi del mon-do civile, con l’imperatore d’Occidente, Sigismondo. In quest’ordine, tuttavia, non escludevo una supervisione del cardi-nale Bessarione (greco e coltissimo: in grado quindi di trasferire i caratteri bizantini, normalizzandoli, secondo l’uso dellelatinae litterae: ma magari affiancato in ciò da altro membro a lui speculare e trovato nel campo dei referenti legati allacuria romana, e dunque Leon Battista).

2 Cfr. Luke Syson, Alberti e la ritrattistica, in Leon Battista Alberti, cit. (catalogo della mostra di Mantova, 1994), pp. 46-53.3 Cfr. Ludovico Zorzi, Il teatro e la città. Saggi sulla scena italiana, Torino, Einaudi, 1977.

Fig. 1. Pisanello, Medaglia dell’imperatoreGiovanni VIII Paleologo, Firenze,Museo Nazionale del Bargello.

Fig. 2. Leon Battista Alberti,Placchetta con autoritratto,

Washington, National Gallery of Art.

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prete e (nelle sue intenzioni) emendatore critico della stessa, avrebbe potuto trasmettere a Bia-gio Rossetti quell’«albertismo immanente» che, per Zorzi, «circola come linfa e aspirazione sot-tintesa e strisciante»1 nelle invenzioni che sottolineano i percorsi dell’addizione.

E passava quindi ad individuare nel testo dei Mesi concreti elementi albertiani, quali «un pro-getto per S. Sebastiano in parte occultato da una quinta arieggiante il modello di palazzo Ru-cellai» (Fig. 3),2 un campanile-minareto d’ispirazione filaretiana (Fig. 4), ma soprattutto arrivaa ipotizzare un corpus di disegni progettuali albertiani rimasti a Ferrara in occasione del Conci-lio, o comunque arrivati a corte, dopo quell’episodio, ovvero di un corredo illustrativo che ac-compagnasse il testo manoscritto del De re aedificatoria, trasmessi dal Prisciani all’équipe dei pit-tori impegnati in Schifanoia per inventare le architetture della città rappresentata sulle paretidella ‘delizia’.

Ora, al di là di alcuni dubbi peculiari sui dettagli, la proposta di Zorzi risulta per molti versiancor oggi, un trentennio circa dopo la sua elaborazione, molto suggestiva.

Alcuni dubbi, dicevo.Soffermiamoci su questi. Tenendo conto che gli studi più recenti hanno arricchito consisten-

temente i dati in possesso degli specialisti.3Sappiamo, ad esempio, che quando, nel 1438, Leon Battista approdò a Ferrara egli era già no-

to e stimato da Leonello e dal circolo di dotti che affiancava il futuro signore della città (in primisil fratello Meliaduse) ma certo non come architetto né come teorico di tale materia bensì comeletterato squisito, pensatore insigne, ovvero come trattatista di pittura. Né a quel momento egliaveva avuto modo di esercitarsi in quel campo che diverrà di sua stretta pertinenza ben piùavanti nel tempo (il trattato sarà compiuto solo nel 1452 e la sua prima opera progettuale risalealla fine degli anni quaranta).

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1 Ivi, p. 7. 2 Ivi, p. 14. 3 Si vedano soprattutto i testi di riferimento citati alla nota 1 a p. 13.

Fig. 3. Salone dei Mesi, Mese di Aprile, particolare della Corsa del Palio con elementi albertiani.

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Ancora: ci sembra molto difficile pensareall’Alberti come a un disinvolto seminatoredi schizzi e di appunti grafici. A tutt’ogginon esiste alcun disegno d’architettura che

sia attribuibile alla mano di Leon Battista. Al punto tale che, nell’ultima mostra a questi de-dicata, uno dei documenti del genere più discussi era la piccola doppia voluta, appuntata apuro titolo esemplificativo e contenuta nella celebre lettera a Matteo de’ Pasti del 18 novem-bre 1454 (Fig. 5).

Ora, sembra improbabile che un personaggio così avaro nell’offrire saggi della propria ca-pacità manuale nel campo della progettazione avesse lasciato – o addirittura inviato – a Ferraraun ‘campionario di modelli’ cui il Cossa (o chi per lui) potesse essersi ispirato. Dobbiamo infatticonsiderare che Alberti fu sostanzialmente, ed orgogliosamente, prima di tutto, da un puntodi vista professionale, funzionario (anziano) del collegio degli abbreviatori apostolici, ma chetuttavia risultava disponibile a prestare la propria opera di consulenza ad un ristretto e qualifi-cato novero di interlocutori in ordine a precisi programmi edilizi; ma non ebbe mai, voluta-mente, pratica di cantiere, rimandando tale compito a maestranze specializzate e comunquesubordinate ai suoi indirizzi. E ciò costituirà per noi il problema tanto a lungo dibattuto – so-prattutto di fronte ad opere rimaste incompiute, come il Tempio Malatestiano di Rimini o lechiese mantovane – dell’originario progetto albertiano in relazione agli interventi – o agli stra-volgimenti – della successiva e di norma complessa vicenda edilizia.

Ciò non toglie – e qui torna illuminante l’intuizione di Zorzi – che la rappresentazione ar-chitettonica in Schifanoia risulti concretamente debitrice ai canoni albertiani. Tant’è vero che,quasi a rivendicare la propria dominante partecipazione, l’Alberti in carne ed ossa (metaforici)figura fra i protagonisti della corte di Borso, a siglare in prima persona una presenza non solovirtuale (Figg. 6-7).1 E ci chiediamo se non sia il caso il proporre – sia pure in termini di ipotesidi lavoro, che andrà in seguito messa a fuoco più puntualmente – di leggere la città effigiata inSchifanoia come il primo (e forse il più intrigante) programma di riforma del tessuto urbanoferrarese. Che avrà, un ventennio più oltre, e in un contesto profondamente mutato, un esitoconcreto che, pur avendo ormai di necessità superato l’ambito di teorica definizione della cittàideale, in quanto nuove contingenze e più pericolose congiunture si andavano profilando, ciò

18 loredana olivato

1 Vedi Ranieri Varese, Un altro ritratto di Leon Battista Alberti, «Mitteilungen des Kunsthistorischen Institut in Flo-renz», 29, 1985, pp. 183-189.

Fig. 5. Leon Battista Alberti,Lettera a Matteo de’ Pasti, Roma 18 novembre 1474,

dettaglio con la doppia voluta.

Fig. 4. Salone dei Mesi, Mese di Marzo,fascia superiore con il Trionfo di Minerva, dettaglio

con un campanile-minareto d’ispirazione filaretiana.

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nondimeno conserva una traccia non trascurabile di quel sogno di riforma, di rinnovamentointegrale, ch’era stato impostato da Prisciani nell’era di Borso. E ritengo non sia improbabile ilrimarcare una sorta di idem sentire tra il programma iconologico di Prisciani e l’addizione diBorso, naturalmente nel senso di un ripensamento figurativo (e fors’anche di una più magnilo-quente trasfigurazione) che celebra e sigilla l’espansione che Borso aveva stabilito sin dall’iniziodel suo dominio; mentre sarà necessario tener conto del lungo e stratificato intervallo che se-para entrambi dalla nuova, prima di tutto politica, decisione di Ercole.

Insomma: l’addizione di Borso avvia un lungo ma anche diversificato processo di ripensa-mento sulla complessiva immagine della città e di conseguente riconfigurazione del suo con-creto tessuto; processo che sarà per l’appunto esaltato sulle pareti di Schifanoia, anche al di làdi un effettivo rispecchiamento di esiti; in questo modo si imposta, su una tradizione d’altrocanto consolidata, una riflessione, aggiornata quanto al lessico architettonico e a certi snodi ur-banistici, che ancora propone come centrale il mito della radicale rinascita di una città; è questacomponente tra fabula e utopia a risultare quasi completamente destrutturata nella successivaaddizione di Ercole e Biagio Rossetti.

Ma passiamo ora ad esaminare gli affreschi nel concreto.La fascia inferiore del mese di Marzo riporta, sul margine destro, un loggiato d’intonazione

rinascimentale; l’orizzonte è occupato da una volta rovinosa, al di là della quale si inerpica ar-ditamente la collina, sulla cui sommità trova posto la facciata di un’antica chiesa (Fig. 8). L’a-naloga partitura sulla parete est, raffigurante il mese di Aprile (Fig. 9), presenta per molti versiun impatto simile al precedente: anche in questo caso l’edificio più rimarchevole sta sulla destrae determina l’impostazione spaziale del resto della scena. Si tratta, ancora una volta, di un log-giato aperto, molto elaborato nei nessi costruttivi (il soffitto a cassettoni, le due ornatissimecornici, le specchiature molto decorate della fascia di trabeazione), su cui si imposta un incom-piuto frammento architettonico (parasta con candelabra e porzione d’arco), che lascia intrav-vedere, alle spalle, un’abitatissima città rinascimentale, nel momento più emozionante di unpalio. Città che assembla, una volta di più, edifici medievali con invenzioni proprie di un nuovoe più aggiornato linguaggio.

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Fig. 6. Salone dei Mesi, Mese di Marzo,fascia superiore con il Trionfo di Minerva,

dettaglio della Corte di Borso d’Este.

Fig. 7. Salone dei Mesi, Mese di Marzo,fascia superiore con il Trionfo di Minerva,

dettaglio della Corte di Borso d’Este,particolare con il ritratto di Leon Battista Alberti.

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Fig. 8. Salone dei Mesi, Mese di Marzo, fascia inferiore: Borso d’Este riceve i derelitti (a destra)e Borso d’Este a caccia (a sinistra).

Fig. 9. Salone dei Mesi, Mese di Aprile, fascia inferiore: Borso d’Este ricompensa il buffone Scoccola (a destra)e Borso d’Este a caccia (a sinistra).

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Quello del loggiato aperto sembra essere il leit-motiv dell’assetto degli affreschi: esso com-pare anche nel mese di Giugno (Fig. 10), sebbene con un lessico espressivo del tutto difformedai precedenti (ma non entriamo nel merito delle diverse autografie del salone); mentre la cittàche compare sullo sfondo, affacciata ad un fiume che è quasi porto dedito al traffico e al com-mercio, è stata interpretata come la porzione di Ferrara detta borgo della Pioppa. E perchénon pensare ad una allusione precisa alla addizione di Borso (1451-1454) che coinvolge proprioil tratto di tessuto urbano compreso fra il Castelnuovo e la porta di San Pietro seguendo l’an-damento del Po?

Sulla parete nord, nella fascia inferiore riferita al mese di Luglio il loggiato è questa volta inposizione centrale, ma vieppiù articolato con trionfi di putti alle estremità laterali e al centro,e lesene connotate dal motivo della candelabra. Sulla destra, al di sopra dei resti di un’arcataantica, scorgiamo la facciata di un tempio dove è forse possibile rammentare suggestioni e as-sonanze derivate dall’immagine del Tempio Malatestiano, così come essa ci vien suggerita dallacelebre medaglia di Matteo de’ Pasti, datata 1450. E che Zorzi interpretava come la «città reale»,la Ferrara di Borso e della sua corte (Figg. 11-12).

Molto più elaborato appare il loggiato all’estremità destra del mese di Agosto (sempre nellafascia inferiore), articolato in un curioso avancorpo anticipato da una stupefacente edicola, dimarmi policromi, sul retro della quale si intravedono alcuni edifici, questa volta sì più dichia-ratamente riferibili ai modelli ferraresi, come ad esempio il Castello che si staglia sul limite chia-ro dell’orizzonte.

Vieppiù appesantita appare la loggia sul margine sinistro del mese di Settembre, dove ric-chissime decorazioni plastiche ornano le facciate dei pilastri, gli archi ribassati, i pennacchi e ifregi delle trabeazioni.

Come si vede quanto rimane della decorazione parietale – e non entriamo nel merito del rac-cordo fra rappresentazioni figurative e contemporanee tendenze scenografiche – ci offre unasequenza di dettagli architettonici abbastanza uniformi. Che se genericamente richiamano, al-meno a un primo approccio, il lessico albertiano (e il bel saggio di Hannemarie Ragn Jensen ci

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Fig. 10. Salone dei Mesi, Mese di Giugno, fascia inferiore: Borso d’Este accoglie una supplica (a sinistra)e Borso d’Este a caccia con il suo seguito (a destra).

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fornisce tutta una serie di puntuali riscontri)1 in realtà da quest’ultimo si differenziano netta-mente soprattutto nella concezione prospettica e spaziale della raffigurazione. Che risulta pa-ratatticamente allineata senza mai trasmetterci l’illusione della profondità: manca, in sostanza,una unitarietà focale che riunisca e coordini i diversi lacerti della scena, informandoli in un di-segno generale. Che resta quello dell’esaltazione di un mito urbano, che non aveva bisogno diun integrale suo dispiegarsi sul precedente e concretissimo tessuto stratificatosi nei secoli mache viceversa poteva appuntarsi su alcuni nuclei significativi e privilegiati che andavano poi ri-

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1 Cfr. Hannemarie Ragn Jensen, L’allegoria della cultura di corte nel Salone dei Mesi, in Atlante di Schifanoia, a cura diRanieri Varese, Modena, Panini, 1989, pp. 97-109.

Fig. 11. Salone dei Mesi, Mese di Luglio, fascia inferiore: Borso d’Este dà udienza (al centro)e Borso d’Este a caccia con la corte (ai lati).

Fig. 12. Salone dei Mesi, Mese di Luglio, fascia inferiore, dettaglio di Ferrara.

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tessuti o nella rappresentazione pittorica o nella celebrazione letteraria. Tant’è vero che più chealla reale architettura albertiana i pittori di Schifanoia ci sembrano maggiormente interessatialla coeva produzione mantegnesca, ovvero a quei tentativi di una grafica restituzione dell’an-tico che punteggiano i codici ciriacheschi che in Padania diffonde soprattutto l’operosa bottegaveronese di Felice Feliciano. Ma teniamo presente che lo stesso Ciriaco de’ Pizzicolli, grande ericonosciuto cultore di antiquaria, fu a Ferrara ospite di Leonello nel 1449.

Ma se queste referenze informano, a mio avviso più precisamente delle indicazioni del trat-tato albertiano sull’architettura ovvero di improbabili sue traduzioni grafiche, gli affreschi delSalone dei Mesi, il punto cui volevo pervenire è precisamente quello che ho or ora indicato:nell’edificazione di un generale mito urbano, nella mise en scène di una complessiva aspirazionedi renovatio, l’importante è rivolgersi a codici linguistici e a tendenze espressive che sappianoconiugare al contempo il recupero dell’antico (che diviene anche il modo per rivendicare unglorioso passato, spendibile pure in termini politici e di prestigio di una stirpe) e l’affacciarsi diuna nuova maniera, studiata nell’impostazione spaziale e ricca di convenienti decori. A questodebbono essersi rivolti, con esiti qualitativi in realtà diversi e internamente discordanti, glisguardi dei pittori dell’Officina: ed è quanto ancora oggi noi possiamo riconoscere.

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