LA COSTITUZIONE E LO SVOLGIMENTO DEL RAPPORTO DI … · Ai sensi dell’art.1 c.7 L. n.183/2014,...

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1 LA COSTITUZIONE E LO SVOLGIMENTO DEL RAPPORTO DI LAVORO: INCENTIVI ALLE ASSUNZIONI E COSTITUZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO; MANSIONI, QUALIFICHE E JUS VARIANDI Scandicci, 5 aprile 2017 GRUPPO DI STUDIO a cura di M. Lavinia Buconi Giudice presso il Tribunale di Roma Sezione Lavoro 1.Premessa – 2. La data di assunzione a tempo indeterminato; rilevanza del discrimine temporale – 2.1. Conversioni e trasformazioni successive al 7.3.2015 - 2.2 Cambi appalto e data di assunzione – 3. La qualificazione del rapporto e l’identificazione della parte datoriale – 3.1 Contratto a progetto – 3.2 Contratto di appalto – 4. Unico centro imputazione – 5. Patto di prova – 6. Mansioni e jus variandi - 6.1 Contrattualità delle mansioni – 6.2 Mansioni equivalenti – 6.3 Mansioni corrispondenti – 6.4 Mansioni promiscue -6.5 Trasferimento e mansioni equivalenti – 7. Mansioni superiori – 7.1 Promozione automatica – 7.2 Modalità di calcolo del periodo – 8. Eccezione di inadempimento e mansioni superiori – 8.1 Trasferimento, demansionamento ed eccezione di inadempimento – 9. Demansionamento - 10. Repechage – 10.1 Demansionamento e repechage – 10.2 Demansionamento e licenziamento ritorsivo– 11. Diritto transitorio 1- PREMESSA Ai sensi dell’art.1 c.7 L. n.183/2014, “allo scopo di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione, nonché di riordinare i contratti di lavoro vigente per renderli maggiormente coerenti con le attuali esigenze del contesto occupazionale e maggiormente coerenti con le attuali esigenze del contesto occupazionale e produttivo e di rendere più efficiente l’attività ispettiva” , il Governo è stato delegato ad adottare, su proposta del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge, uno o più decreti legislativi, di cui uno recante un testo organico semplificato delle discipline delle tipologie contrattuali e dei rapporti di lavoro, nel rispetto dei seguenti principi e criteri direttivi, in coerenza con la regolazione dell'Unione europea e le convenzioni internazionali: a) individuare e analizzare tutte le forme contrattuali esistenti, ai fini di poterne valutare l'effettiva coerenza con il tessuto occupazionale e con il contesto produttivo nazionale e internazionale, in funzione di interventi di semplificazione, modifica o superamento delle medesime tipologie contrattuali; b) promuovere, in coerenza con le indicazioni europee, il contratto a tempo indeterminato come forma comune di contratto di lavoro rendendolo più conveniente rispetto agli altri tipi di contratto in termini di oneri diretti e indiretti; c) previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio, escludendo per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato, nonché' prevedendo termini certi per l'impugnazione del licenziamento; d) rafforzamento degli strumenti per favorire l'alternanza tra scuola e lavoro; e) revisione della disciplina delle mansioni, in caso di processi di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale individuati sulla base di parametri oggettivi,

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LA COSTITUZIONE E LO SVOLGIMENTO DEL RAPPORTO DI LAVORO: INCENTIVI ALLE ASSUNZIONI E COSTITUZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO; MANSIONI, QUALIFICHE E JUS VARIANDI Scandicci, 5 aprile 2017 GRUPPO DI STUDIO a cura di M. Lavinia Buconi Giudice presso il Tribunale di Roma Sezione Lavoro 1.Premessa – 2. La data di assunzione a tempo indeterminato; rilevanza del discrimine temporale – 2.1. Conversioni e trasformazioni successive al 7.3.2015 - 2.2 Cambi appalto e data di assunzione – 3. La qualificazione del rapporto e l’identificazione della parte datoriale – 3.1 Contratto a progetto – 3.2 Contratto di appalto – 4. Unico centro imputazione – 5. Patto di prova – 6. Mansioni e jus variandi - 6.1 Contrattualità delle mansioni – 6.2 Mansioni equivalenti – 6.3 Mansioni corrispondenti – 6.4 Mansioni promiscue -6.5 Trasferimento e mansioni equivalenti – 7. Mansioni superiori – 7.1 Promozione automatica – 7.2 Modalità di calcolo del periodo – 8. Eccezione di inadempimento e mansioni superiori – 8.1 Trasferimento, demansionamento ed eccezione di inadempimento – 9. Demansionamento - 10. Repechage – 10.1 Demansionamento e repechage – 10.2 Demansionamento e licenziamento ritorsivo– 11. Diritto transitorio 1- PREMESSA Ai sensi dell’art.1 c.7 L. n.183/2014, “allo scopo di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione, nonché di riordinare i contratti di lavoro vigente per renderli maggiormente coerenti con le attuali esigenze del contesto occupazionale e maggiormente coerenti con le attuali esigenze del contesto occupazionale e produttivo e di rendere più efficiente l’attività ispettiva” , il Governo è stato delegato ad adottare, su proposta del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge, uno o più decreti legislativi, di cui uno recante un testo organico semplificato delle discipline delle tipologie contrattuali e dei rapporti di lavoro, nel rispetto dei seguenti principi e criteri direttivi, in coerenza con la regolazione dell'Unione europea e le convenzioni internazionali: a) individuare e analizzare tutte le forme contrattuali esistenti, ai fini di poterne valutare l'effettiva coerenza con il tessuto occupazionale e con il contesto produttivo nazionale e internazionale, in funzione di interventi di semplificazione, modifica o superamento delle medesime tipologie contrattuali; b) promuovere, in coerenza con le indicazioni europee, il contratto a tempo indeterminato come forma comune di contratto di lavoro rendendolo più conveniente rispetto agli altri tipi di contratto in termini di oneri diretti e indiretti; c) previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio, escludendo per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato, nonché' prevedendo termini certi per l'impugnazione del licenziamento; d) rafforzamento degli strumenti per favorire l'alternanza tra scuola e lavoro; e) revisione della disciplina delle mansioni, in caso di processi di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale individuati sulla base di parametri oggettivi,

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contemperando l'interesse dell'impresa all'utile impiego del personale con l'interesse del lavoratore alla tutela del posto di lavoro, della professionalità e delle condizioni di vita ed economiche, prevedendo limiti alla modifica dell'inquadramento; previsione che la contrattazione collettiva, anche aziendale ovvero di secondo livello, stipulata con le organizzazioni sindacali dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale a livello interconfederale o di categoria possa individuare ulteriori ipotesi rispetto a quelle disposte ai sensi della presente lettera; f) revisione della disciplina dei controlli a distanza sugli impianti e sugli strumenti di lavoro, tenendo conto dell'evoluzione tecnologica e contemperando le esigenze produttive ed organizzative dell'impresa con la tutela della dignità e della riservatezza del lavoratore; g) introduzione, eventualmente anche in via sperimentale, del compenso orario minimo, applicabile ai rapporti aventi ad oggetto una prestazione di lavoro subordinato, nonché, fino al loro superamento, ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, nei settori non regolati da contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, previa consultazione delle parti sociali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale; h) previsione, tenuto conto di quanto disposto dall'articolo 70 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, della possibilità di estendere, secondo linee coerenti con quanto disposto dalla lettera a) del presente comma, il ricorso a prestazioni di lavoro accessorio per le attività lavorative discontinue e occasionali nei diversi settori produttivi, fatta salva la piena tracciabilità dei buoni lavoro acquistati, con contestuale rideterminazione contributiva di cui all'articolo 72, comma 4, ultimo periodo, del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276; i) abrogazione di tutte le disposizioni che disciplinano le singole forme contrattuali, incompatibili con le disposizioni del testo organico semplificato, al fine di eliminare duplicazioni normative e difficoltà interpretative e applicative; l) razionalizzazione e semplificazione dell’attività ispettiva, attraverso misure di coordinamento ovvero attraverso l'istituzione, ai sensi dell'articolo 8 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica e con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente, di una Agenzia unica per le ispezioni del lavoro, tramite l'integrazione in un'unica struttura dei servizi ispettivi del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, dell'INPS e dell'Istituto nazionale per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INAIL), prevedendo strumenti e forme di coordinamento con i servizi ispettivi delle aziende sanitarie locali e delle agenzie regionali per la protezione ambientale. La finalità complessiva degli interventi del Jobs Act, costituita dall’aumento dell’occupazione, perseguita attraverso la promozione del contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, è stata attuata innanzitutto attraverso l’esonero contributivo previsto dalla legge di stabilità, la quale ha previsto il totale esonero contributivo per un triennio nel caso di assunzioni effettuate nel 2015 e l’esonero contributivo del 40% per un biennioper le assunzioni effettuate nel 2016. Si colloca nella medesima direzione la previsione contenuta nell’art. 54 del D. Lgs. n.81/2015, secondo cui, al dichiarato fine di promuovere la stabilizzazione dell’occupazione mediante il ricorso a contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato nonché di garantire il corretto utilizzo dei contratti di lavoro autonomo, a decorrere dal 1° gennaio 2016, i datori di lavoro privati che abbiano proceduto all’assunzione con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato di soggetti già parti di contratti di collaborazione coordinata e continuativa anche a progetto e di soggetti titolari di partita IVA con cui abbiano intrattenuto rapporti di lavoro autonomo, godono dell’estinzione vdegli illeciti amministrativi, contributivi e fiscali connessi all’erronea qualificazione del rapporto di lavoro, fatti salvi gli illeciti accertati a seguito di accessi ispettivi effettuati in data antecedente all’assunzione, a condizione che: a) i lavoratori interessati alle assunzioni sottoscrivano, con riferimento a tutte le possibili pretese riguardanti la

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qualificazione del pregresso rapporto di lavoro, atti di conciliazione in una delle sedi di cui all’art.2113 c.4 c.c., o avanti alle commissioni di conciliazione; b) nei dodici mesi successivi alle assunzioni di cui al comma 2, i datori di lavoro non recedano dal rapporto di lavoro, salvo che per giusta causa o giustificato motivo soggettivo. Il legislatore del 2015 è inoltre intervenuto in tutte le fasi del rapporto di lavoro con l’intento di incentivare anche in via diretta ed indiretta le assunzioni: accanto agli esoneri contributivi e alla promozione delle stabilizzazioni, ha significativamente ridotto le tutele per i licenziamenti illegittimi sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo. In attuazione della legge delega, il D. Lgs. n.23/2015 ha infatti totalmente riscritto il regime sanzionatorio per i licenziamenti dei lavoratori assunti dopo il 7.3.2015, con il mantenimento della tutela reintegratoria piena per i licenziamenti nulli, orali e discriminatori, e con la limitazione della tutela reintegratoria debole o attenuata per i licenziamenti disciplinari nella sola ipotesi dell’insussistenza del fatto materiale direttamente accertata in giudizio, la tutela indennitaria (da un minimo di 4 ad un massimo di 24 mensilità) per mancanza di giusta causa e giustificato motivo soggettivo e oggettivo, e una tutela indennitaria meno premiante nelle stesse ipotesi per le piccole imprese (da un minimo di 2 ad un massimo di sei mensilità). Dalla lettura complessiva delle disposizioni del Jobs Act emerge che il contratto di lavoro subordinato, pur costituendo “la forma comune di rapporto di lavoro” ha perso il carattere di effettiva stabilità, ove si consideri che l’abolizione dell’art.18 L. n.300/70 e la limitazione della reintegra alle ipotesi di licenziamento nullo, orale, discriminatorio e disciplinare in caso di insussistenza del fatto materiale ha notevolmente attenuato le differenze di tutela tra i lavoratori assunti a tempo determinato e quelli a tempo indeterminato. Per quanto attiene allo svolgimento del rapporto, ha inoltre introdotto un ulteriore incentivo indiretto alle assunzioni, innovando profondamente la disciplina delle mansioni attraverso l’art.3 D. Lgs. n.81/2015, con la riscrittura dell’art. 2103 c.c. . Lo “scopo di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione”, cioè il dichiarato intento di incentivare le assunzioni non costituisce solo un obiettivo programmatico, ma, essendo contenuto nella legge-delega, assurge a parametro interpretativo anche ai fini del giudizio di legittimità costituzionale delle disposizioni che non sono perfettamente aderenti alla legge-delega, stante il disposto dell’art. 76 Cost. . 2- LA DATA DI ASSUNZIONE A TEMPO INDETERMINATO; RILEVANZA DEL DISCRIMINE TEMPORALE ART.1 COMMA 1 L’art. 1 del D. Lgs. n.23/2015 ha delimitato l’ambito di applicazione della nuova normativa riguardante il regime sanzionatorio dei licenziamenti illegittimi, facendolo coincidere con quello dei rapporti di lavoro subordinato sorti in virtù di contratti a tempo indeterminato stipulati a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto stesso (7 marzo 2015). Poiché il discrimine temporale per l’applicazione della vecchia o della nuova disciplina è costituito esclusivamente dalla data di instaurazione del rapporto di lavoro, coesisteranno per decenni due diversi regimi: quello di cui all’art.18 L. n.300/70, come modificato dalla L. n.92/2012 (che si applicherà ai rapporti di lavoro già in essere), e quello previsto dalla nuova normativa, che regolerà i rapporti sorti dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo. Pertanto, a fronte di un medesimo recesso datoriale intimato dopo il 7.3.2015, potranno trovare applicazione tutele differenti (si pensi all’ipotesi di licenziamento collettivo riguardante lavoratori assunti in parte prima e in parte dopo la entrata in vigore del decreto legislativo), peraltro con riti diversi (l’art.11 del D. Lgs. n.23 del 2015 prevede infatti che ai licenziamenti disciplinati dal medesimo decreto non si applicano le disposizioni dei commi da 48 a 68

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dell’art.1 L. n.92/2012), con evidenti ripercussioni sul piano pratico in termini di parità di trattamento dei prestatori di lavoro. QUESTIONE DI LEGITTIMITA’ COSTITUZIONALE Va quindi verificata la legittimità della disparità di trattamento tra i vecchi assunti e i nuovi assunti, anche sotto il profilo della ragionevolezza. Secondo il costante orientamento del giudice delle leggi, “non contrasta, di per sé, con il principio di eguaglianza un trattamento differenziato applicato alle stesse fattispecie, ma in momenti diversi nel tempo, poiché il fluire del tempo può costituire un valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche” (Corte cost. 13 novembre 2014 n.254, Corte cost. n. 25 del 2012, Corte cost. n.224 del 2011, Corte cost. ord. n.61 del 2010; Corte cost. sent. n. 94 del 2009; Corte cost. sentt. nn. 342 del 2006 e n. 489 del 1989). Tra i parametri indicati dalla medesima giurisprudenza costituzionale, la “proporzionalità dei mezzi prescelti dal legislatore nella sua insindacabile discrezionalità rispetto alle esigenze obiettive da soddisfare o alle finalità che intende perseguire, tenuto conto delle circostanze e delle limitazioni concretamente sussistenti” (Corte cost. n.1130 del 1988). La ragionevolezza è stata inoltre definita dai giudici della Consulta in termini di “coerenza” (Corte cost. n.43 del 1997) e di “non arbitrarietà” (Corte cost. n.206 del 1999) rispetto agli obiettivi e alla ragione giustificatrice della norma sottoposta al vaglio di costituzionalità. Secondo la consolidata giurisprudenza del giudice delle leggi, è consentita nel nostro sistema costituzionale l’emanazione di disposizioni che modifichino in pejus la disciplina dei rapporti di durata, anche riguardo a diritti soggettivi perfetti, a condizione che le modifiche normative non ledano “l’affidamento dei cittadini nella sicurezza giuridica, da intendersi quale elemento fondamentale dello stato di diritto” (Corte cost. ord. n.31 del 2011, Corte cost. sent. nn. 302 del 2010, n.236 del 2009 e n.206 del 2009). ART.1 COMMA 2 L’art.1 c.2 D. Lgs. n.23/2015 prevede che le disposizioni del medesimo decreto si applicano anche ai casi di conversione, successiva alla sua entrata in vigore, di contratto a tempo determinato o di apprendistato in contratto a tempo indeterminato. Il legislatore ha dunque equiparato assunzioni ex novo a tempo indeterminato alle ipotesi di conversione di contratti a tempo determinato o di apprendistato avvenute dopo tale data, ancorchè l’assunzione (con una clausola di limitazione temporale) sia avvenuta in epoca precedente. Non è in discussione l’applicazione del regime delle tutele crescenti alla scadenza di un termine in quanto tale: la Suprema Corte ha infatti da tempo chiarito che la cessazione di un rapporto di lavoro a termine alla data di scadenza contrattuale non può essere qualificata come licenziamento, essendo ontologicamente diversa l’apposizione contrattuale di un termine al rapporto di lavoro all’inizio del medesimo rispetto ad un atto di recesso datoriale intervenuto in un rapporto a tempo indeterminato: nei casi di conversione giudiziale di un contratto di lavoro subordinato a tempo determinato per illegittimità del termine trova infatti applicazione l’art.1 D. Lgs. n.368 del 2001, e non invece le disposizioni di cui all’art.18 L. n.300/70 e di cui all’art.8 L. n.604/66 (Cass. SS.UU. n.14381 del 8 ottobre 2002; Cass. n.20858 del 27 ottobre 2005 e Cass. n.7979 del 27 marzo 2008). Nei contratti di lavoro a tempo determinato viene dunque in questione un vero e proprio licenziamento solo ove il recesso datoriale avvenga ante tempus (cioè prima della scadenza contrattuale) o dopo la scadenza del termine, se il rapporto di lavoro è di fatto proseguito tra le parti senza formalizzazione dopo lo spirare del termine originariamente apposto. La norma si riferisce dunque ai contratti a tempo determinato stipulati prima del 7.3.2015, convertiti in epoca successiva e poi cessati in forza di un recesso datoriale.

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2.1 - CONVERSIONI E TRASFORMAZIONI SUCCESSIVE AL 7.3.2015 Riguardo a tali fattispecie, in primo luogo c’è da chiedersi se il termine “conversione” si riferisca al caso in cui le parti concordemente trasformino le suddette tipologie di rapporti a tempo determinato in rapporti a tempo indeterminato, ai casi di conversione giudiziale, o ad entrambe le ipotesi. Quella giudiziale costituisce senz’altro una “conversione” in senso tecnico (l’istituto della conversione è testualmente menzionato nell’art.32 c.5 L. n. 183 del 2010); tuttavia, per definizione, tale tipologia di pronuncia si fonda sulla ritenuta illegittimità del termine apposto ab initio per iniziativa del datore di lavoro al contratto di assunzione (nel caso in cui il giudice accoglie la domanda di conversione, nel dispositivo della sentenza dichiara la sussistenza tra le parti di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato dalla data di decorrenza del contratto) e comporta dunque la decorrenza dell’assunzione dalla data della stipula del contratto, ancorchè al medesimo sia stato originariamente apposto un termine. Pertanto, l’applicazione della disciplina prevista dal D. Lgs. n.23 del 2015 alle ipotesi in cui il contratto a tempo indeterminato sia stato stipulato prima del 7.3.2015, ma convertito successivamente in sede giudiziale, da un lato sembra configurare una deroga al principio sancito dal comma 1 (la pronuncia di accoglimento della domanda di conversione accerta la sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato dall’iniziale decorrenza del rapporto), dall’altro comporterebbe l’applicazione di un regime premiale per il datore di lavoro (quello delle tutele crescenti, più favorevole per il medesimo rispetto a quello previsto dall’art.18 L. n.300/70), ancorchè la decorrenza del rapporto sia anteriore al 7.3.2015, a fronte di una sua condotta contra legem, costituita dall’apposizione di un termine illegittimo. ECCESSO DI DELEGA? C’è da chiedersi se l’art.1 c.2 D. Lgs, n.23/2015 presenti un vizio di eccesso di delega, ove si consideri che la L. n.183/2014 ha individuato il discrimine temporale per l’applicazione della nuova disciplina facendolo coincidere con la data dell’assunzione, mentre nell’ipotesi di conversione giudiziale l’effetto della pronuncia è ex tunc. CASO PRATICO - Il Tribunale di Roma, con ordinanza del 26.3.2017, in una fattispecie un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, intimato in data 10 maggio 2016 ed impugnato con le forme del rito Fornero (la parte ricorrente aveva infatti invocato l’applicazione dell’art.18 L. n.300/70), dopo che in data 14 aprile 2016 era stata resa in sede giudiziale una pronuncia di conversione del contratto a tempo determinato stipulato in data 1.12.2011, ed accertata la sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato a decorrere da quella data, ha ritenuto l’applicabilità dell’art.1 c.2 D. Lgs. n.23/2015; non si è dunque pronunciato sulle domande proposte ai sensi dell’art.18 L. n.300/70 ed ha disposto il mutamento del rito, fissando l’udienza ex art. 420 c.p.c. ed assegnando alle parti un termine perentorio per l’integrazione degli atti introduttivi con la richiesta delle tutele di cui al D. Lgs. n.23/2015. Il giudice adito ha innanzitutto rilevato che il comma 2 del D. Lgs. 23/2015 ha il chiaro fine di far rientrare all’interno della disciplina del Jobs Act fattispecie che, altrimenti, ne resterebbero escluse (ha in particolare affermato che, diversamente opinando, la norma sarebbe del tutto pleonastica ed inutile, in quanto tutti gli altri casi di conversione successiva di contratti già stipulati in vigenza di Jobs Act sarebbero comunque disciplinati dalla nuova normativa per effetto del comma 1, del medesimo art. 1). Considerando che la sentenza dichiarativa della nullità del termine ha efficacia ex tunc e che, pertanto, l’esistenza del rapporto decorre dalla data della stipulazione del contratto, ha sul punto evidenziato che l’introduzione del comma 2 ha l’effetto di estendere l’applicabilità del regime

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sanzionatorio del Jobs Act anche ai rapporti di lavoro che, sorti a tempo determinato prima del D. Lgs. 23 del 2015, siano divenuti a tempo indeterminato successivamente, per effetto di una pronuncia giudiziale, ovvero di un atto negoziale. Ha poi osservato che l’utilizzazione del termine “conversione” non è casuale (considerando che solo in tal modo viene consentito all’interprete di ricomprendere all’interno della nuova disciplina anche quei casi di contratti nati antecedentemente ad essa come contratti a tempo determinato, ma convertiti in epoca successiva in contratti a tempo indeterminato, per effetto della pronuncia giudiziale); ha dunque escluso che il legislatore abbia utilizzato la norma in senso atecnico o inconsapevole (ha ricordato che l’art. 32, comma quinto, della legge n. 183 del 2010 fa espressamente riferimento al concetto di conversione del contratto a termine, così come numerosi arresti giurisprudenziali; da ultimo Cass. n. 17127/2016). Sotto diverso profilo, ha evidenziato che l’efficacia ex tunc della conversione, non sembra potere escludere l’ingresso di queste fattispecie dal campo di applicazione del D.Lgs. n. 23 del 2015, in quanto in queste specifiche ipotesi tale ambito applicativo viene definito con riguardo alla data dell’atto che dispone la conversione del contratto (nel caso di specie, la pronuncia giudiziale), piuttosto che alla decorrenza dei suoi effetti; ha inoltre ritenuto che tale operazione non appare in contrasto con i principi e i criteri direttivi della legge delega 10 dicembre 2014, n. 183. Ancorché l’art. 1, comma 7, lett. c) della legge citata preveda il regime delle tutele crescenti unicamente per le nuove assunzioni, ha ritenuto che l’intento principale del legislatore è quello di assicurare tutele uniformi e legate alla storia contributiva dei lavoratori, nonché quello di semplificare la disciplina delle tipologie contrattuali e dei rapporti di lavoro, armonizzandole il più possibile con il regime delle tutele crescenti, intento cui la soluzione prospettata sembra dare piena esecuzione (tanto più che la legge delega fa espresso riferimento alle nuove assunzioni a tempo indeterminato, situazione quest’ultima che, nel caso della conversione giudiziale, si realizza soltanto con la pronuncia del Giudice, sia pur con efficacia ex tunc). Il Tribunale ha inoltre ritenuto che questa dilatazione del campo di applicazione delle tutele crescenti potrebbe essere estesa anche ai contratti di somministrazione e di lavoro a progetto, stipulati prima del 7.3.2015, ma la cui illegittimità sia stata dichiarata successivamente, per le stesse esigenze di semplificazione e di uniformità di disciplina, alle quali possono essere aggiunte le ragioni di bilanciamento dei contrapposti interessi che hanno consentito, dopo una inziale incertezza, l’applicazione anche a queste fattispecie della disciplina dettata dall’art. 32 della L. 183/2010. In ultimo, a rafforzamento dell’interpretazione proposta, non ha taciuto l’accostamento della disciplina della conversione del contratto a tempo determinato con quella della conversione del contratto di apprendistato, dal quale il comma 2 dell’art. 1 del D. Lgs. 23/2015 fa derivare le medesime conseguenze. Ha pertanto aggermato che il regime delle tutele crescenti si applicherà legittimamente sia alla prosecuzione senza soluzione di continuità di un contratto di apprendistato avviato prima del 7 marzo 2015 a seguito del mancato esercizio della facoltà di recesso al termine del periodo di formazione, trasformato quindi in rapporto di lavoro in tempo indeterminato per volontà delle parti, sia alla conversione dell’apprendistato in contratto a tempo indeterminato per effetto di una pronuncia giudiziale. ART.1 COMMA 3 L’art. 1, comma 3 del D. Lgs. n.23/2015 prevede espressamente l’applicazione della nuova disciplina ai lavoratori assunti precedentemente alla data di entrata in vigore del decreto medesimo, qualora il datore di lavoro sia passato da un organico di quindici o meno dipendenti a più di quindici lavoratori, in conseguenza di assunzioni a tempo indeterminato avvenute successivamente alla data di entrata in vigore del decreto legislativo. In relazione a tali disposizioni, che costituiscono un evidente incentivo ad effettuare nuove assunzioni, a fronte delle conseguenze premiali per il datore di lavoro, ci si deve chiedere se il

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requisito dimensionale ivi previsto debba sussistere anche al momento del licenziamento o se, una volta superato il limite suddetto, la nuova disciplina sia applicabile anche qualora il numero dei dipendenti successivamente diminuisca a meno di sedici unità (in data antecedente al licenziamento); il dato letterale della norma fa propendere per la soluzione negativa, ove si consideri che la richiamata disposizione condiziona tout court l’applicabilità del regime delle tutele crescenti al conseguimento del requisito dimensionale di cui all’art.18 L. n.300/70, in qualunque momento successivo al 7.3.2015 ciò sia avvenga, senza richiedere che tale requisito venga mantenuto. Anche in questo caso si pone la questione del contrasto della norma, così come formulata con gli artt. 76 e 77 Cost., in quanto, ai sensi dell’art. 1, comma 7 lettera c) , della legge n. 183 del 2014, il Governo è stato delegato ad introdurre una nuova disciplina dei licenziamenti illegittimi solo “per le nuove assunzioni”. E’ stata tuttavia evidenziata la necessità di tenere conto degli ulteriori criteri direttivi contenuti nella L. n.183 del 2014, e segnatamente di quello indicato nella lett.b), relativo alla promozione del contratto a tempo indeterminato come forma comune di contratto di lavoro, anche in termini di convenienza a livello di oneri diretti ed indiretti, rispetto ad altre tipologie contrattuali; secondo questa impostazione, la norma sarebbe conforme alla legge delega. In una prospettiva analoga, si è ritenuto che il vizio dell’eccesso di delega avrebbe potuto essere evitato escludendo i lavoratori assunti dopo il 7.3.2015 dal computo dell’organico utile ai fini del requisito dimensionale di cui all’art.18 L. n.300/70. Sembra invece esulare dalla previsione del comma 3 la fattispecie in cui l’organico del datore di lavoro sia tornato a superare la soglia dimensionale di cui all’art.18 commi 8 e 9 L. n.300/70 in forza di un provvedimento giudiziale che ha disposto la reintegra del lavoratore: in tale ipotesi l’assunzione rimane anteriore al 7.3.2015, anche se per effetto della pronuncia di reintegra emessa dopo il 7.3.2015 il numero dei lavoratori, che era sceso sotto ai 15 dipendenti per effetto del licenziamento, superi detta soglia per effetto della suddetta pronuncia. 2.2 - CAMBI APPALTO E DATA DI ASSUNZIONE - Trib. Roma 7.6.2016, in un procedimento introdotto ai sensi dell’art.1 c.48 L. n.92/2012 nel quale era pacifica l’assunzione del ricorrente in forza di un cambio appalto avvenuto dopo il 7.3.2015, ancorchè l’assunzione del lavoratore alle dipendenze di altre società succedutesi nell’appalto fosse anteriore l 7.3.2015, ha applicato l’art.29 c.3 D. Lgs. n.276/2003, secondo cui l’acquisizione del personale già impiegato nell’appalto, a seguito di subentro di un nuovo appaltatore, non costituisce trasferimento d’azienda o di parte di essa; ha dunque affermato che l’instaurazione del rapporto di lavoro dopo tale data costituisce in questo contesto una nuova assunzione; non ha pertanto condiviso le prospettazioni svolte sul punto dal lavoratore, il quale aveva sostenuto che in caso di cambio appalto si configura sempre un trasferimento d’azienda o di un ramo di essa ai sensi dell’art. 2112 c.c.. Dopo avere richiamato Cass., 16 maggio 2013, n. 11918 e Cass., 13 gennaio 2005, n. 493, secondo cui è configurabile un trasferimento d’azienda anche in ipotesi di successione nell’appalto di un servizio, a condizione che chi invochi detto trasferimento alleghi e dimostri che tra impresa cessante l’appalto e impresa subentrante vi sia stato un passaggio di beni di non trascurabile entità, e tale da rendere possibile lo svolgimento di una specifica impresa, ha rigettato le domande proposte ai sensi dell’art.18 (la società convenuta aveva meno di 15 dipendenti; ha inoltre ritenuto improponibile la domanda di tutela obbligatoria ed inapplicabile l’art.9 D. Lgs. n.23/2015, nemmeno invocato dal lavoratore). - Trib. Roma, con ordinanza del 26.9.2016, in altra fattispecie in cui i lavoratori ricorrenti erano stati assunti dopo il 7 marzo 2015 in occasione di un cambio appalto e licenziati ante tempus,

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ritenendo dimostrato che i lavoratori medesimi avessero lavorato con decorrenza anteriore al 7 marzo 2015 con le società appaltatrici che si erano succedute nella gestione dell’azienda; in ordine alla decorrenza del rapporto ha evidenziato che i cambi appalto avevano coinvolto in blocco tutti i lavoratori addetti al magazzino presso il quale lavoravano i ricorrenti, senza significativa discontinuità di impresa nei vari passaggi (i lavoratori venivano informati dai sindacati e l’azienda subentrante chiedeva loro se intendevano o meno proseguire il rapporto); per tali ragioni ha ritenuto che si fosse verificato un trasferimento d’azienda. Ha in proposito richiamato l’orientamento espresso dal giudice di legittimità e dalla Corte di Giustizia (Cass., 2 marzo 2012, n.3301; sentenza Abler e a. C-340/01, EU:C:2003:629, punto 42), secondo cui l’assenza di beni materiali trasferiti e la loro appartenenza al committente o anche al cessionario non sono decisive per escludere la sussistenza di un trasferimento di azienda., in quanto tale nozione non è fissata una volta per tutte, ma ha carattere dinamico, dipendendo dalle circostanze in cui avviene il passaggio o meno dei lavoratori, dal contesto in cui operano cedente e cessionario e dal tipo di servizio reso, ritenendo che trovi conferma nella recente modifica dell’art.29 c.3 D. Lgs. n.276/2003 introdotta dall’art.30 legge n.122/2016 (secondo cui l’acquisizione del personale già impiegato nell’appalto a seguito di subentro di nuovo appaltatore dotato di propria struttura organizzativa e operativa, in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro o di clausola del contratto di appalto, ove siano presenti elementi di discontinuità che determinano una specifica attività di impresa, non costituisce trasferimento di azienda o di parte di azienda) e nello stesso testo dell’art.2112 c.c., secondo cui “ai fini e per gli effetti del presente articolo si intende per trasferimento di azienda qualunque operazione che, in seguito a cessione contrattuale o a fusione, comporti il mutamento della titolarità di un’attività economica organizzata”; ha pertanto ritenuto che la decorrenza del rapporto di lavoro fosse anteriore al 7 marzo 2015 ed ha applicato le tutele di cui all’art. 18 c.4 legge n.300/70. 3- LA QUALIFICAZIONE DEL RAPPORTO E L’IDENTIFICAZIONE DELLA PARTE DATORIALE Quando il rapporto di lavoro non viene formalizzato ab origine come contratto di lavoro a tempo indeterminato, ma con altra tipologia contrattuale, si pone il problema della qualificazione del rapporto. Si pone inoltre la questione dell’identificazione del datore di lavoro quando il lavoratore agisce in giudizio per la costituzione del rapporto con un datore di lavoro diverso da quello formale. 3.1- CONTRATTO A PROGETTO In alcuni casi il lavoratore agisce in giudizio deducendo l’illegittimità di un contratto a progetto e chiedendo l’accertamento del carattere subordinato del rapporto di lavoro, nonché le differenze di retribuzione ed il ripristino del rapporto (cessato per scadenza del termine apposto al contratto a progetto). QUESTIONI Ai sensi dell’art. 69 D. Lgs. n.276/2003, i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa instaurati senza l’individuazione di uno specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso ai sensi dell’art.61, comma 1, sono considerati rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato sin dalla data di costituzione del rapporto. Secondo una prima interpretazione, la norma ha introdotto una presunzione assoluta, in forza della quale, in mancanza di un progetto o programma specifico, va riconosciuto il carattere subordinato del rapporto di lavoro, mentre secondo la tesi contraria la norma ha introdotto una presunzione relativa, suscettibile di prova contraria, di tal che il datore di lavoro che contesti la

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fondatezza delle domande deducendo il carattere autonomo del rapporto, può essere ammesso a dimostrare la sussistenza degli elementi di fatto da cui si desumeva l’autonomia (mentre, seguendo la prima interpretazione, in assenza di progetto o prpgramma l’attività istruttoria sarebbe superflua. L’art.1 c.24 della L. n.92/2012 ha stabilito che l’art.69 c.1 del D. Lgs. n.276/2003 si interpreta nel senso che l’individuazione di uno specifico progetto costituisce elemento essenziale di validità del rapporto di collaborazione coordinata e continuativa, la cui mancanza determina la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, mentre ai sensi del successivo comma 25, le disposizioni di cui ai commi 23 e 24 si applicano ai contratti di collaborazione stipulati successivamente alla data di entrata in vigore della presente legge. La disposizione contenuta nel comma 25 ha delimitato l’ambito di applicazione della norma ai contratti stipulati successivamente; era dunque rimasta aperta la questione della presunzione assoluta o relativa riguardante la formulazione dell’art.69 D. Lgs. n.276/2003 per i rapporti sorti prima dell’entrata in vigore della L. n.92/2012. - Cass. S.L. n.1744 del 24.1.2017, in Guida al Lavoro n.11, 2017, 39, ha optato per la prima soluzione interpretativa, affermando che nel caso di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa instaurati senza uno specifico progetto, l’art.69 c.1 D. Lgs. n. 276/2003 (ratione temporis applicabile nella versione antecedente alle modifiche di cui all’art.1 L. n.92/2012) si fa luogo ad automatica conversione in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, sin dalla data di costituzione dello stesso (senza accertamenti volti a verificare se il rapporto si sia esplicato secondo i canoni dell’autonomia o della subordinazione). - Cass. S.L. n.12820/2016 ha chiarito che il regime sanzionatorio articolato dall’art.69 del D. Lgs. n.276/2003, pur imponendo in ogni caso l’applicazione della disciplina del rapporto di lavoro subordinato, contempla due distinte e strutturalmente differenti ipotesi, atteso che, al comma 1, sanziona il rapporto di collaborazione coordinata e continuativa instaurato senza l’individuazione di uno specifico progetto, realizzando un caso di conversione del rapporto “ope legis”, restando priva di rilievo l’appurata natura autonoma dei rapporti in esito all’istruttoria, mentre al comma 2 disciplina l’ipotesi in cui, pur in presenza di uno specifico progetto, sia giudizialmente accertata, attraverso la valutazione del comportamento delle parti posteriore alla stipulazione del contratto, la trasformazione in un rapporto di lavoro subordinato in corrispondenza alla tipologi negoziale di fatto realizzata tra le parti. INDIVIDUAZIONE DI UNO SPECIFICO PROGETTO Il progetto individuato negli artt. 61 ss. del D. Lgs. n. 276/2003 è caratterizzato dall’individuazione preventiva di un opus (appunto, il progetto o programma), considerato nel complesso o in una sua fase e destinato ad esaurirsi entro un arco di tempo limitato. Il contratto di lavoro a progetto è caratterizzato dalla personalità della prestazione, dalla sua coordinazione con le esigenze aziendali e dal riferimento ad un obiettivo da soddisfare entro un periodo limitato. Nelle ipotesi in cui nel progetto non sia ravvisabile alcun opus od obiettivo (quando ad esempio il progetto individuato nel contratto è costituito esclusivamente dalla sistematica ripetizione di una prestazione lavorativa e dunque dalla messa a disposizione di energie lavorative, come nel rapporto di lavoro subordinato), le pronunce dei giudici di merito e del giudice di legittimità si sono orientate per la qualificazione del rapporto di lavoro in termini di subordinazione a tempo indeterminato sin dalla data di costituzione del rapporto. - Secondo Cass. S.L. n.17636/2016, il contratto di lavoro a progetto, disciplinato dall’art.61 del D. Lgs. n. 276 del 2003 prevede una forma particolare di lavoro autonomo, caratterizzato da un rapporto di collaborazione continuativa, prevalentemente personale, riconducibile ad uno o a più progetti specifici, funzionalmente collegati al raggiungimento di un risultato finale determinati dal committente, ma gestiti dal collaboratore senza soggezione al potere direttivo altrui e quindi

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senza vincolo di subordinazione; ne deriva che il pogetto concordato non può consistere nella mera riproposizione dell’oggetto sociale della committente, e dunque nella previsione di prestazioni, a carico del lavoratore, coincidenti con l’ordinaria attività aziendale. 3.2 CONTRATTO DI APPALTO In alcune ipotesi il rapporto di lavoro dipendente risulta formalizzato tra il lavoratore ed un soggetto diverso rispetto a quello nei confronti del quale chiede accertarsi la subordinazione (come nelle ipotesi in cui venga dedotta la sussistenza di un appalto irregolare). QUESTIONI Nelle ipotesi in cui ricorra un contratto di appalto tra due società, normalmente il lavoratore chiede accertarsi in via principale il carattere subordinato del rapporto con l’appaltante, ed in via subordinata con l’appaltatore, il ripristino del rapporto ed il pagamento delle differenze retributive (tra il lavoratore e l’appaltatore a volte viene stipulato un contratto a progetto o un contratto di training on the job, oppure un contratto di lavoro subordinato). In altre ipotesi le medesime domande vengono svolte solo nei confronti dell’appaltante. Nell’ipotesi in cui sia ravvisato un appalto illecito o fittizio, va verificato il carattere subordinato del rapporto di lavoro con l’appaltante, attraverso la disamina degli indici propri della subordinazione. INQUADRAMENTO CONTRATTUALE Tanto nella fattispecie in cui venga riconosciuto il appalto illecito o fittizio (e costituito il rapporto con l’appaltante), quanto nell’ipotesi in cui venga dichiarato il carattere subordinato del rapporto intercorrente con l’appaltatore, formalmente instaurato con un contratto a progetto, va verificato il corretto inquadramento contrattuale del lavoratore e ai fini dell’accoglimento delle domande di ripristino del rapporto e di condanna al pagamento delle differenze retributive. Da parte del lavoratore, assumono rilievo a tal fine: - L’ASSOLVIMENTO DEGLI ONERI ASSERTIVI SUL CCNL INVOCATO; - L’ASSOLVIMENTO DEGLI ONERI ASSERTIVI SULLE MANSIONI SVOLTE E SUI CRITERI IN FORZA DEI QUALI VIENE INVOCATO UN DETERMINATO LIVELLO DI INQUADRAMENTO Va infatti verificato se sia possibile inquadrare il lavoratore in un determinato livello del CCNL qualora il medesimo nulla abbia dedotto in ordine ai presupposti per il richiesto inquadramento (che incide sia sull’accoglimento della domanda di ripristino, per il quale rileva l’individuazione dello spettro delle mansioni da assegnargli in caso di ripristino del rapporto, sia sull’accoglimento della domanda relativa alle differenze retributive). La domanda di condanna al pagamento delle differenze retributive si fonda infatti sul richiamo di uno specifico livello di un determinato CCNL (di solito i conteggi allegati al ricorso richiamano tali parametri). - QUID JURIS NEL CASO DI MANCATO ASSOLVIMENTO DI TALI ONERI? E’ possibile procedere all’inquadramento del lavoratore se mancano o sono insufficienti le allegazioni sul CCNL invocato, sulla relativa declaratoria e sui presupposti per l’inquadramento? - QUID JURIS IN CASO DI MANCATA PRODUZIONE DEL CCNL?

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- Trib. Roma sentenza n. 1625/2016, ha affermato che nell’ipotesi in cui l’attore non abbia allegato al ricorso una copia del contratto collettivo invocato, ma la controparte non abbia contestato il contenuto e l’esistenza dello stesso, limitandosi a contestarne l’applicabilità, sussiste per il giudice, il potere-dovere, ai sensi dell’art. 421 c.p.c., di acquisire d’ufficio il contratto collettivo, purchè l’attore, ancorchè non avendone indicato gli estremi, abbia fornito elementi idonei per la sua identificazione (si veda Cass. n. 18584 del 7.7.2008) RAPPORTO REGOLARE E INQUADRAMENTO CONTRATTUALE La questione del corretto inquadramento contrattuale si pone anche nell’ipotesi di rapporto di lavoro regolare, quando il lavoratore agisce in giudizio rivendicando differenze retributive derivanti dall’applicazione di un CCNL diverso da quello in cui è stato inquadrato. - SE LE PARTI AL MOMENTO DELL’ASSUNZIONE HANNO PATTUITO L’APPLICAZIONE DI UN DETERMINATO CCNL, E’ CONSENTITA L’APPLICAZIONE GIUDIZIALE DI UN CCNL DIVERSO AI FINI DELLE DIFFERENZE DI RETRIBUZIONE? - IN CASO NEGATIVO, E’ POSSIBILE RICONOSCERE AL LAVORATORE RICORRENTE DIFFERENZE RETRIBUTIVE SCATURENTI DAL CCNL APPLICATO AL RAPPORTO IN BASE ALLA LETTERA DI ASSUNZIONE, MA NON RICHIESTE NELL’ATTO INTRODUTTIVO E NON INDICATE NEI CONTEGGI ALLEGATI AL RICORSO? QUAL’ E’ L’ASSETTO DEGLI ONERI ASSERTIVI (PRIMA ANCORA CHE PROBATORI) IN TALI IPOTESI? CASI PRATICI - Il Tribunale di Roma, con sentenza del 30.3.2017, in una fattispecie in cui il ricorrente aveva dedotto di essere stato inquadrato nel VI livello del CCNL UNCI (effettivamente richiamato nella lettera di assunzione sottoscritta dalla società convenuta), ed aveva invocato l’applicazione del CCNL FISE CONFAPI, a fronte dell’accordo di assunzione in forza del quale le parti avevano pattuito l’applicazione del CCNL UNCI al loro rapporto di lavoro, non ha ritenuto fondate le deduzioni svolte dal ricorrente in ordine all’applicabilità del diverso CCNL FISE CONFAPI. Ha in proposito affermato che il principio fissato dall’art. 2070 c.c. di applicazione del contratto collettivo secondo l’appartenenza alla categoria professionale, determinata alla stregua dell’attività esercitata dall’imprenditore, opera unicamente per il contratto collettivo vincolante e non già rispetto al contratto collettivo di diritto comune (come quello richiamato dalle parti nel contratto individuale), applicabili solo agli iscritti alle associazioni sindacali stipulanti e a coloro che esplicitamente o implicitamente vi abbiano prestato adesione. Ha inoltre ricordato che nel vigente ordinamento del rapporto di lavoro subordinato, regolato da contratti collettivi di diritto comune, l’individuazione della contrattazione collettiva applicabile va fatta unicamente attraverso l’indagine della volontà delle parti risultante, oltre che da espressa pattuizione, anche dall’eventuale protratta e non contestata applicazione di un determinato contratto collettivo; il ricorso al criterio della categoria economica di appartenenza del datore di lavoro, fissato dall’art. 2070 c.c., è consentito al solo fine di individuare il parametro della retribuzione adeguata ex art. 36 Cost., quando non risulti applicato alcun contratto collettivo e sia stata dedotta l’inadeguatezza della retribuzione contrattuale (Cass. S.L. n. 26742/2014; Cass. S.L. n.11372/2008 Cass. S.L. 29.7.2000, n. 10002; Cass. SS.UU. n.2665/1997); n forza di tali

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principi, ha ritenuto che l’unico contratto collettivo applicabile al rapporto fosse quello indicato nella lettera di assunzione. Ha inoltre ritenuto che, stante il disposto dell’art. 414 c.p.c., secondo cui nel rito del lavoro l’attore ha l’onere di indicare nell’atto introduttivo tutti gli elementi di fatto posti a fondamento della domanda, non sarebbe corretta corretta una condanna al pagamento delle differenze di retribuzione sulla base dei conteggi fondati sull’applicazione del CCNL UNCI, in assenza di specifiche allegazioni e domande nell’atto introduttivo (le domande proposte dal ricorrente sono infatti integralmente fondate sull’applicazione del CCNL FISE CONFAPI; il contratto collettivo invocato va dunque ad integrare la causa petendi). Ha dunque affermato che autorizzare la formulazione di nuovi conteggi sulla base di un diverso CCNL equivarrebbe ad una mutatio libelli, non prevista né consentita nel rito del lavoro (l’art. 420 c.p.c. si limita infatti a prevedere la mera modifica della domanda, e solo nel caso in cui ricorrano gravi motivi, non prospettati né sussistenti nella fattispecie dedotta in giudizio). - Il Tribunale di Roma, con sentenza n.11240/2016, in una fattispecie in cui una lavoratrice aveva convenuto in giudizio solo l’appaltante, chiedendo dichiararsi la natura subordinata del rapporto di lavoro intercorso con il medesimo, (in assenza di qualsivoglia formalizzazione del rapporto con l’appaltatore, da cui era stata retribuita e dalla quale era stata licenziata), nonché il pagamento delle differenze retributive, ha accolto la domanda, ritenendo provato che la lavoratrice aveva ricevuto direttive solo dall’appaltante e che era stata inserita nei turni di lavoro dell’appaltante; ha inoltre valorizzato la circostanza che la società convenuta non aveva prodotto alcun contratto di appalto; ha dunque riconosciuto il carattere subordinato del rapporto di lavoro intercorso con la società appaltante convenuta, ma non ha accolto la domande relativa alle differenze di retribuzione, in quanto nella parte espositiva del ricorso era stato invocato un determinato CCNL e la domanda era stata fondata sul medesimo, mentre i conteggi allegati al ricorso erano stati redatti in base ad un diverso CCNL, in assenza di qualsivoglia deduzione o elemento da cui potesse desumersi la coincidenza dei suddetti CCNL, ed in assenza di specifiche deduzioni sulla sussistenza dei presupposti per l’applicazione del CCNL indicato nei conteggi. A fronte dell’impossibilità di operare l’inquadramento del lavoratore sulla base del CCNL invocato nella parte espositiva, ha ritenuto inaccoglibile la domanda di ripristino del rapporto (che presupponeva l’applicazione del CCNL invocato), né ha ritenuto possibile un inquadramento sulla base delle deduzioni della convenuta, che aveva invocato un contratto aziendale, limitandosi a produrre un’ipotesi di accordo (la domanda di reintegra ai sensi dell’art.18 L. n.300/70 è stata comunque rigettata per ragioni processuali). - Il Tribunale di Roma, con sentenza n.2866/2017, in una controversia in cui il lavoratore aveva convenuto tanto il datore di lavoro formale (appaltatore), quanto quello alle cui dipendenze assumeva di avere effettivamente lavorato (appaltante), ha ritenuto la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, valorizzando le circostanze che fosse l’appaltante a redigere i turni di lavoro e ad autorizzare gli scambi dei turni tra i dipendenti, e che fosse lo stesso appaltante ad impartire tutte le direttive al ricorrente, mettendogli a disposizione gli strumenti di lavoro. Nella fattispecie dedotta in giudizio, il lavoratore aveva stipulato un contratto di training on the job ed un successivo contratto a progetto con la società appaltatrice; a fronte del carattere subordinato a tempo indeterminato del rapporto ab origine (dalla decorrenza del contratto di training on the job), il giudice adito ha ritenuto che il contratto a progetto fosse stato travolto da tale accertamento (non essendo consentito apporre termini in costanza di rapporto a contratti di lavoro subordinato sorti a tempo indeterminato ab origine). In ordine all’inquadramento del ricorrente, a fronte delle precise allegazioni del lavoratore nell’atto introduttivo riguardo al CCNL invocato ed al livello di inquadramento rivendicato, con la relativa declaratoria, il giudice adito ha ritenuto la genericità delle contestazioni contenute

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nella memoria della società appaltante in ordine al CCNL applicabile (la società convenuta si era infatti limitata a contestare di applicare il CCNL invocato dal lavoratore, ma non ha invocato un diverso CCNL, né ha contestato di avere dipendenti o indicato diversi parametri di calcolo delle loro retribuzioni); stante il disposto di cui all’art. 416 c.p.c. ha dunque condannato la società appaltante al pagamento delle differenze retributive richieste in base ai conteggi allegati al ricorso, nonché al ripristino del rapporto ai sensi dell’art. 29 D. Lgs. n.276/2003. 4- UNICO CENTRO IMPUTAZIONE

- Il Tribunale di Roma, con ordinanza del 4.10.2014, in una fattispecie in cui la ricorrente aveva dedotto di avere lavorato alle dipendenze di una società in virtù di un contratto a progetto e successivamente in forza di un contratto di lavoro a tempo indeterminato full-time con mansioni di impiegata di livello IV C.C.N.L. Terziario Servizi prestando la propria attività lavorativa presso altra società, sostenendo che quest'ultima società fosse il suo effettivo datore di lavoro, sia per il realizzarsi di una fittizia interposizione di manodopera (relativamente alla quale aveva già instaurato un giudizio ordinario pendente presso lo stesso Tribunale), sia per essere la distinzione tra le due compagini societarie una mera simulazione, ed aveva lamentato l’illegittimità del licenziamento intimatole dalla prima società, chiedendo l’applicazione delle tutele di cui all’art.18 L. n.300/70, ha affermato che la sussistenza della dedotta illecita interposizione di manodopera sarebbe suscettibile di determinare, ove dimostrata, l'instaurarsi del rapporto di lavoro nei confronti della seconda società (con sentenza costitutiva ai sensi dell'art. 29, comma 3-bis del D. lgs. 276 / 2003) ed il conseguente venir meno della posizione di datore di lavoro della prima . In ordine alla dedotta sussistenza tra le due società convenute di una identità di compagini societarie e di un centro unitario di imputazione ed interessi ha ritenuto l’insussistenza di idonee allegazioni; ricordando i principi affermati sul punto dalla giurisprudenza di legittimità. In particolare, ha affermato che il collegamento economico-funzionale tra imprese gestite da società del medesimo gruppo non è di per sé solo sufficiente a far ritenere che gli obblighi inerenti ad un rapporto di lavoro subordinato, formalmente intercorso fra un lavoratore ed una di esse, si debbano estendere anche all'altra, a meno che non sussista una situazione che consenta di ravvisare (anche all'eventuale fine della valutazione di sussistenza del requisito numerico per l'applicabilità della cosiddetta tutela reale del lavoratore licenziato) un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro; ha poi affermato che tale situazione ricorre ogniqualvolta vi sia una simulazione o una preordinazione in frode alla legge del frazionamento di un'unica attività fra i vari soggetti del collegamento economico-funzionale e ciò venga accertato in modo adeguato, attraverso l'esame delle attività di ciascuna delle imprese gestite formalmente da quei soggetti, che deve rivelare l'esistenza dei seguenti requisiti: a) unicità della struttura organizzativa e produttiva; b) integrazione tra le attività esercitate dalle varie imprese del gruppo e il correlativo interesse comune; c) coordinamento tecnico e amministrativo - finanziario tale da individuare un unico soggetto direttivo che faccia confluire le diverse attività delle singole imprese verso uno scopo comune; d) utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte delle varie società titolari delle distinte imprese, nel senso che la stessa sia svolta in modo indifferenziato e contemporaneamente in favore dei vari imprenditori (Cass. n. 11107 del 15/05/2006, Cass. n. 18843 del 07/09/2007, Cass. n. 3136 del 01/04/1999, Cass. n. 14609 del 20/11/2001; Cass. n. 3482 del 12/02/2013). Nella fattispecie dedotta in giudizio, non ha ritenuto supportate da idonee allegazioni le deduzioni sulla sussistenza di un unico centro di imputazione di interessi, non risultando in particolare idonee allegazioni o prove della riconducibilità ad un unico soggetto della proprietà delle società convenute, né dell’unicità delle rispettive sedi e strutture amministrative (non erano state formulate in proposito allegazioni specifiche mentre dalle visure camerali allegate al ricorso si desumeva che tali società avevano diversi legali rappresentanti, sedi e oggetto sociale).

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In un tale contesto non sono state reputate decisive, a tale fine, le circostanze dello svolgimento da parte della ricorrente della propria attività lavorativa materialmente presso i locali di una società diversa dal datore di lavoro formale o dell'affidamento al datore formale, da parte di quest’ultima, di un appalto di servizi in materia informatica, circostanze che, da sole, in assenza di effettiva e concreta dimostrazione dell’esistenza di un’unica struttura produttiva, non possono essere considerate significativa di nulla di più di un mero collegamento economico-funzionale tra società che restano comunque soggetti distinti e separati. - Con ordinanza del 25.6.2015 il Tribunale di Roma ha ritenuto insufficienti le allegazioni sulla sussistenza di un unico centro di imputazione, in quanto il ricorrente si è limitato a dedurre che le società convenute hanno la stessa sede principale e le stesse sedi secondarie, che il complesso aziendale è unico, che gli oggetti sociali sono complementari e connessi e che tra le società convenute non sussiste una netta distinzione nella gestione del personale. In particolare, ha evidenziato che difettava qualunque deduzione in ordine al coordinamento tecnico e amministrativo-finanziario tale da individuare un unico soggetto direttivo che facesse confluire le diverse attività delle singole imprese verso uno scopo comune; ha inoltre escluso che l’assenza di una netta distinzione nella gestione del personale equivalesse all’utilizzazione del tutto indifferenziata e promiscua dei dipendenti da parte delle società convenute. La circostanza che due società appartenenti al medesimo gruppo si fossero avvalse di un unico ufficio per l’emissione degli ordini, facente capo ad una terza società, ed avessero utilizzato la medesima procedura non è stata inoltre ritenuta equivalente ad un uso del tutto promiscuo ed indifferenziato del personale da parte di tutte le società del medesimo gruppo.

5- PATTO DI PROVA QUESTIONI Il patto di prova può essere legittimamente apposto alle condizioni previste dall’art.2096 c.c.; nella vigenza del patto di prova legittimamente apposto, il lavoratore è licenziabile ad nutum. Anche se il patto di prova viene apposto al momento della costituzione del rapporto, le controversie riguardano le conseguenze dell’illregittima apposizione. Quid juris in caso di illegittima apposizione del patto di prova quando il recesso viene intimato durante il periodo di prova o a causa del mancato superamento della medesima? O, ancora, quando a lavoratore assunto in prova vengono di fatto attribuite mansioni diverse da quelle oggetto della prova in base al contratto di assunzione, ed il lavoratore viene licenziato per mancato superamento della prova? La questione assume rilievo sia per i vecchi assunti (per i quali si applicano le tutele di cui all’art.18 L. n.300/70, come modificato dalla L. n.92/2012), che per i nuovi assunti, per i quali si applicano le tutele di cui al D. Lgs. n.23/2015. A fronte della mancata previsione di una nullità espressa per violazione dell’art.2096 c.c., va verificato, tanto per i vecchi assunti, quanto per i nuovi assunti, se il licenziamento intimato per mancato superamento della prova quando il relativo patto è illegittimamente apposto si colloca nell’area delle nullità per violazione di norma imperativa, o se invece rientra tra le ipotesi di licenziamento ingiustificato (con conseguenze diverse per i vecchi assunti e per i nuovi assunti, considerando che nel regime dell’art.18 L. n.300/70 ai fini dell’applicazione della tutela reintegratoria è dirimente la sussistenza o meno del fatto, tanto per i licenziamenti disciplinari, quanto per quelli economici, mentre nel regime di cui al D. Lgs. n.23/2015 il fatto assume rilievo solo ai fini della tutela applicabile nei licenziamenti disciplinari). - Trib. Roma, 27.1.2016, nella vigenza dell’art. 18 St. Lav. come modificato dalla L. n.92/2012, in una fattispecie in cui il lavoratore aveva dedotto la nullità del patto di prova inserito in un secondo contratto a termine stipulato tra le parti ai sensi del D. L. n.34/2014, e del quale aveva

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lamentato la nullità della clausola di limitazione temporale, ha ritenuto che tale contratto fosse da considerarsi a tempo indeterminato in quanto stipulato lo stesso giorno della scadenza del primo contratto a termine (legittimo) e dunque in violazione dell’art.5 c.3 D. Lgs. n.368/01, che tale statuizione travolgesse anche l’intero contratto a termine successivo, ivi compreso il patto di prova, e che, in assenza di specifica previsione, la fattispecie potesse ricondursi agli altri casi di nullità previsti dalla legge; ha dunque applicato la tutela prevista dall’art.18 c.1 L. n.300/70. In particolare, ha affermato che la nullità del patto di prova determina la nullità del licenziamento. In assenza di specifiche argomentazioni nel provvedimento sulle ragioni della nullità, e stante il riferimento al fatto che la lavoratrice aveva sempre svolto le stesse mansioni fin dalla data di assunzione, può ipotizzarsi l’implicita applicazione dell’art. 1343 c.c. per insussistenza della causa o dell’art.1344 c.c. per frode alla legge. Vecchi assunti - Trib. Milano 24.5.2013 in Riv. crit. Dir. lav. 2013, 1-2, 195, nella vigenza dell’art. 18 St. Lav. come modificato dalla L. n.92/2012, ha affermato che al licenziamento per mancato superamento della prova nell’ipotesi di nullità del patto si applica la tutela di cui all’art.18 c.4 St. Lav. . - Trib. Roma 21.12.2013, in una fattispecie in cui era stata dedotta l’illegittimità di un patto di prova a fronte del carattere subordinato del rapporto intercorso tra le parti già prima della stipula del medesimo patto, ha ritenuto la nullità del patto di prova per mancanza della causa, ha accertato il carattere subordinato del rapporto tra le parti con decorrenza anteriore, qualificando il recesso datoriale come licenziamento, ed ha accolto le domande ex art.18 Stat. Lav. proposte dalla lavoratrice. Nuovi assunti - Trib. Torino, 16.9.2016 (commentata in Guida al Lavoro, 2016, 49,54), in una controversia instaurata da un lavoratore assunto dopo il 7 marzo 2015 e licenziato durante il periodo di prova, dopo avere evidenziato che il D. Lgs. n.23/2015, applicabile ratione temporis, non prende espressamente in considerazione la fattispecie in esame, ha applicato la tutela di cui all’art.3 c. 2 D. Lgs. n.23/2015, ritenendo che la norma sia suscettibile di interpretazione estensiva, coerente con le finalità perseguite dal legislatore ed in una prospettiva costituzionalmente orientata, in forza della quale tale tipologia di recesso può essere ricondotta ad una fattispecie di licenziamento per motivi soggettivi (il legale rappresentante in sede di interrogatorio aveva dichiarato che il mancato superamento della prova era dovuto al fatto che il ricorrente aveva chiesto al cliente di assumerlo come magazziniere). - Trib. Milano, n.2912 del 3.11.2016 (commentata in Guida al Lavoro, 2016, 49,54) ha affermato che l’invalidità del patto di prova per mancanza della forma scritta comporta l’ingiustificatezza del licenziamento ex art.1 L. n.604/66, in quanto fondato su ragione inesistente; dall’accertata inesistenza di motivazione del recesso intimato ha fatto conseguire l’insussistenza del fatto materiale contestato ai sensi dell’art.3 c.2 D. Lgs. n.23/2015, con applicazione della relativa tutela. -Trib. Teramo, 14.2.2017, in una controversia instaurata da un lavoratore assunto dopo il 7 marzo 2015 e licenziato durante il periodo di prova, dopo avere affermato la nullità del patto di prova in quanto non sottoscritto anteriormente o contestualmente all’inizio del rapporto di lavoro, in violazione dell’art.2096 c.c., ha escluso l’applicabilità dell’art.3 c.2 D. Lgs. n.23/2015, difettando una contestazione disciplinare, ed ha altresì escluso la sussistenza di un difetto di motivazione (il recesso era stato intimato per mancato superamento della prova e recava dunque una motivazione); ha infine escluso la nullità di diritto comune, ritenendolo riconducibile alla disciplina ordinaria dei licenziamenti ed ha applicato la tutela di cui all’art. 3 c.1 D. Lgs. n.23/2015.

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SONO POSSIBILI RICOSTRUZIONI ALTERNATIVE? -VIOLAZIONE DI NORMA IMPERATIVA E APPLICAZIONE DELLA TUTELA EX ART.2 D. LGS. N.23/2015? NULLITA’ ESPRESSA? -MOTIVO ILLECITO DETERMINANTE? -FRODE ALLA LEGGE? - Secondo Cass. S.U. n.11633 del 2.8.2002, l’atto di recesso datoriale, in quanto atto unilaterale di volontà negoziale, è viziato se l’agente vi si sia determinato esclusivamente per un motivo illecito (artt. 1345 e 1324 c.c.), tale dovendosi ritenere il motivo contrario a norme imperative (art.1418 c.c.); tra i motivi illeciti può rientrare lo svolgimento della prova in mansioni incompatibili con lo stato di invalidità o dall’inosservanza delle leggi sulle assunzioni obbligatorie. La medesima sentenza ha enunciato il seguente principio di diritto: “Nell’ipotesi di patto di prova stipulato con invalido assunto in base alla legge 2 aprile 1968 n.482, il recesso dell’imprenditore è sottratto alla disciplina limitativa del licenziamento individuale contenuta nella legge 15 luglio 1966 n.604 onde non richiede una formale comunicazione del motivo del recesso; questo può essere direttamente contestato dal lavoratore in sede giudiziale, allegando fatti (tra i quali l’elusione della legge protettiva degli invalidi) dimostranti l’illiceità del motivo e perciò l’invalidità dell’atto negoziale unilaterale”. - Cass. 3.8.2016, n.16214, in una fattispecie relativa ad un licenziamento intimato dopo il 17 luglio 2012 per mancato superamento della prova, ha ribadito che il licenziamento intimato a causa del mancato superamento della prova quando non sussista un valido patto in tal senso è viziato sotto il profilo dell’inidoneità della causale addotta a giustificazione del recesso (mentre il recesso per mancato superamento della prova quando il patto è validamente apposto si iscrive nell’area del recesso ad nutum); ha ritenuto applicabile la tutela di cui all’art.18 c.4 Stat. Lav. - Cass. 12.9.2016 n.17921 in Guida Lav. n. 39, 2016, 45 ha affermato che il licenziamento intimato sull’erroneo presupposto della validità del patto di prova, in realtà affetto da nullità, riferendosi ad un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, soggiace alla disciplina del licenziamento ordinario, per cui la tutela da riconoscere al prestatore di lavoro sarà quella prevista dall’art.18 della legge n.300 del 1970, qualora il datore di lavoro non alleghi e dimostri l’insussistenza del requisito dimensionale, o quella riconosciuta dalla legge n.604 del 1966, in difetto delle condizioni necessarie per l’applicabilità della tutela reale. APPRENDISTATO E PATTO DI PROVA In alcune ipotesi le parti stipulano un contratto di apprendistato con una certa decorrenza, pur avendo iniziato ad espletare la prestazione lavorativa per il medesimo datore di lavoro prima della stipula del medesimo contratto di apprendistato. In tali casi il contratto di apprendistato è nullo per nullità della causa (assenza della causa formativa; si veda in questo senso Trib. Roma 11257/2016, che ha richiamato i principi espressi da Cass. n. 1633 del 22.01.2009, n. 16969 del 11.11.2003, n. 11561 del 6.11.1995 e n. 6981 del 24.6.1993 in materia di contratto di formazione e lavoro, in una fattispecie in cui ha ritenuto provato che i ricorrenti avevano lavorato con assoggettamento al potere direttivo del datore di lavoro e con l’osservanza di un orario di lavoro alle dipendenze della parte convenuta già in epoca anteriore alla stipula del contratto di apprendistato, svolgendo ab origine mansioni riconducibili al livello di inquadramento loro attribuito al momento della stipula del contratto di apprendistato) . Nella fattispecie dedotta in giudizio, il Tribunale di Roma ha ritenuto che l'avvenuta precedente instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato comportasse anche la nullità, per mancanza di causa, del patto di prova apposto ai contratti di apprendistato, in quanto stipulati relativamente ad una prestazione lavorativa già in essere da un arco di tempo superiore al periodo di prova previsto contrattualmente (pari ad un mese); ha dunque condannato la società convenuta al pagamento delle differenze retributive in favore dei ricorrenti ed ha affermato

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l’illegittimità del recesso, intimato per asserita illegittimità del patto di prova, ed ha apllicato la tutela obbligatoria, in ragione del pacifico requisito dimensionale della società convenuta. QUESTIONE LA SOLUZIONE SAREBBE STATA LA STESSA SE LE MANSIONI SVOLTE PRIMA DELLA FORMALIZZAZIONE DEL RAPPORTO FOSSERO STATE DIVERSE (INFERIORI) RISPETTO A QUELLE SVOLTE SUCCESSIVAMENTE? 6- MANSIONI E JUS VARIANDI Art. 2103 c.c. vecchio testo: “Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. Nel caso di assegnazione a mansioni superiori, il prestatore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta, e l’assegnazione stessa diviene definitiva, ove la medesima non abbia avuto luogo per sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, dopo un periodo fissato dai contratti collettivi, e comunque non superiore a tre mesi. Egli non può essere trasferito da un’unità produttiva ad un’altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. Ogni patto contrario è nullo”. Art. 2103 c.c. nuovo testo: “ Il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello di inquadramento delle ultime effettivamente svolte. In caso di modifica di assetti organizzativi aziendali che incidono sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore. Il mutamento di mansioni è accompagnato, ove necessario, dall’assolvimento dell’obbligo formativo, il cui mancato adempimento non determina comunque la nullità dell’atto di assegnazione delle nuove mansioni. Ulteriori ipotesi di assegnazione di mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore possono essere previste dai contratti collettivi, anche aziendali, stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. Nelle ipotesi di cui al secondo e quarto comma, il lavoratore ha diritto alla conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo in godimento, fatta eccezione per gli elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa. Nelle sedi di cui all’art. 2113 ultimo comma, o avanti alle commissioni di certificazione di cui all’art.76 del decreto legislativo 10 settembre 2003 n.276, possono essere stipulati accordi individuali di modifica delle mansioni, del livello di inquadramento e della relativa retribuzione, nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita. Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il lavoratore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta, e l’assegnazione diviene definitiva, salva diversa volontà del lavoratore, ove la medesima non abbia avuto luogo per ragioni sostitutive di altro lavoratore in servizio, dopo il periodo fissato dai contratti collettivi, anche aziendali, stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o, in mancanza, dopo sei mesi continuativi.

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Il lavoratore non può essere trasferito da un’unità produttiva all’altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. Salvo che ricorrano le condizioni di cui al secondo e al quarto comma e fermo quanto disposto al sesto comma, ogni patto contrario è nullo”. L’art.6 della legge 13 maggio 1985, n.190, è abrogato. 6.1- CONTRATTUALITA’ DELLE MANSIONI L’art.96 disp.att. c.c. prevede che l’imprenditore deve far conoscere al prestatore di lavoro, al momento dell’assunzione, la categoria e la qualifica che gli sono assegnate in relazione alle mansioni per cui è stato assunto (contrattualità delle mansioni). Il nuovo testo dell’art.2103 c.c. non ha intaccato il principio della contrattualità delle mansioni previsto da tale disposizione. Come accadeva nel regime previgente, nulla quaestio nel caso di rapporto di lavoro regolare, mentre se il rapporto di lavoro non è regolare, ai fini dell’accertamento dell’equivalenza delle mansioni successivamente assegnate con quelle attribuite al momento dell’assunzione, bisogna verificare innanzitutto lo specifico contenuto delle mansioni effettivamente attribuite al momento dell’assunzione. QUID JURIS NEL CASO DI RAPPORTO IRREGOLARE NELLA VIGENZA DEL VECCHIO E DEL NUOVO TESTO DELL’ART.2103 C.C.? E IN CASO DI MANCATA APPLICAZIONE DI QUALSIVOGLIA CCNL DA PARTE DEL DATORE DI LAVORO? 6.2 - MANSIONI EQUIVALENTI L’art. 2103 c.c. nel testo vigente richiedeva espressamente un’equivalenza tra le mansioni attribuite e quelle assegnate all’inizio del rapporto, o quelle corrispondenti alla qualifica successivamente acquisita o alle ultime svolte. Secondo la Suprema Corte, il giudizio di equivalenza si svolge in base ad un ragionamento sillogistico: individuazione dei criteri generali ed astratti posti dalla legge ed eventualmente dal contratto collettivo a distinzione delle varie categorie e qualifiche, accertamento delle concrete mansioni di fatto svolte e comparazione tra queste e le suddette previsioni normative (Cass. 11037/2006; Cass. 3069/2005; Cass. 17561/2004; Cass. 5942/2004; Cass. 4791/2004). L’equivalenza è stata definita sia sotto il profilo oggettivo (con riferimento al contenuto delle mansioni), quanto sotto il profilo soggettivo (avendo riguardo al bagaglio professionale acquisito e alla possibilità del suo sviluppo futuro). L’equivalenza è stata intesa in senso professionale: le nuove mansioni dovevano essere di comparabile valore professionale, avuto riguardo non solo al profilo statico relativo al complesso delle attitudini e delle capacità acquisite dal lavoratore, ma anche a quello dinamico, riguardante la capacità professionale potenziale; il giudice doveva dunque accertare se le nuove mansioni erano aderenti alla competenza professionale specifica acquisita dal dipendente e ne garantivano, al contempo, lo svolgimento e l’accrescimento del bagaglio di conoscenze ed esperienze (Cass. 1916/2015). In particolare, il giudice di legittimità ha precisato che nell’indagine circa l’esistenza o meno di un’equivalenza tra le vecchie e nuove mansioni non è sufficiente il riferimento in astratto al livello di categoria, ma è necessario accertare che le nuove mansioni siano aderenti alla specifica competenza tecnico-professionale del dipendente e siano tali da salvaguardarne il livello professionale acquisito , in una prospettiva dinamica di valorizzazione della capacità di arricchimento del bagaglio di conoscenze ed esperienze. Cass. S.L. n.25897 del 2009 ha precisato precisa che il principio di tutela della professionalità acquisita impone al giudice di merito di accertare, alla stregua di tutte le circostanze ritualmente

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allegate e acquisite al processo, le esigenze di salvaguardia della professionalità raggiunta prospettate dal lavoratore, sulla base dei percorsi di accrescimento professionale dallo stesso evidenziati e, segnatamente di individuare, alla luce della sua “storia professionale” quali fossero le mansioni di riferimento per verificare l’osservanza dell’art.2103 c.c., indipendentemente dall’obbligo assunto dal dipendente al momento dell’avviamento al lavoro, di svolgere tutte le mansioni inerenti alla qualifica di inquadramento. Secondo Cass. S.U. n.25033/2006, l’equivalenza va valutata in concreto rispetto alla competenza richiesta, al livello professionale raggiunto e all’utilizzazione del patrimonio professionale acquisito, e dunque a prescindere dalle previsioni contrattuali. Secondo Cass. S.L. n.6326/2005, l’equivalenza va intesa sia sul piano oggettivo, nel senso che va verificata l’inclusione nella stessa area professionale e salariale delle mansioni iniziali e di quelle di destinazione, sia sul piano soggettivo come affinità, nel senso che le nuove mansioni devono armonizzarsi con le capacità professionali già acquisite durante il rapporto di lavoro, consentendo ulteriori affinamenti e sviluppi; nello stesso sesso Cass. S. L. n. 2328/2003; entrambe le decisioni precisano che il giudizio di equivalenza è un giudizio di fatto incensurabile in Cassazione ove sorretto da una motivazione logica, coerente e completa. Cass. S. L. n. 11547/2000 precisa che non è richiesta l’identità delle mansioni, né costituisce elemento ostativo la necessità di un aggiornamento professionale in relazione ad innovazioni tecnologiche. Applicando il principio di equivalenza, era possibile un demansionamento anche se al lavoratore venivano attribuite mansioni ricomprese nello stesso livello di inquadramento. CASO PRATICO In una fattispecie in cui al lavoratore era stata attribuita in via meramente convenzionale una qualifica superiore a quella corrispondente alle mansioni di fatto assegnate, il Tribunale di Roma, con sentenza del 15.12.2016 ha affermato che tale attribuzione è lecita, ma che il livello contrattuale attribuito non può assurgere a parametro per l’equivalenza delle mansioni successivamente assegnate, in quanto il lavoratore si è trovato, per definizione, a svolgere mansioni inferiori rispetto alla qualifica rivestita. 6.3 - MANSIONI CORRISPONDENTI Nel nuovo testo dell’art.2103 c.c., la scomparsa della categoria dell’”equivalenza” e la sua sostituzione con quella della riconducibilità al livello di inquadramento riecheggia l’art.52 c.1 D. Lgs. n.165/2001 (in cui l’equivalenza è parametrata all’area di inquadramento), riducendo notevolmente il tasso di incertezza derivante dalle pronunce giurisprudenziali. Le classificazioni delle mansioni ai fini della suddetta corrispondenza è dunque interamente rimessa alla contrattazione collettiva e non appare sindacabile; il giudice dovrà limitarsi a verificare se le mansioni concretamente svolte rientrano nei profili o nella declaratoria indicati in un determinato livello del CCNL. QUID JURIS IN ORDINE AL TRATTAMENTO RETRIBUTIVO? IL NUOVO TESTO DELL’ART.2103 C.C. NON CONTIENE ALCUN RIFERIMENTO AL TRATTAMENTO RETRIBUTIVO: LA RETRIBUZIONE PU0’ ESSERE DIMINUITA? 6.4 - MANSIONI PROMISCUE Nel caso in cui il lavoratore veva svolto una pluralità di mansioni a lui attribuite, è stato ritenuto che andasse considerata mansione primaria e caratterizzante quella che costituisce il contenuto normale della prestazione lavorativa (Cass. n.8330/92; Cass. n.1248/1989) e in base alla natura della medesima, come concretamente espletata, concorrono il criterio quantitativo e qualitativo. A seconda dei casi, è stata ritenuta dirimente la mansione svolta con maggiore frequenza o la

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mansione caratterizzata dal più elevato grado di specializzazione, cioè di quella maggiormente significativa sul piano professionale, purchè non espletata in via sporadica o occasionale (Cass. n.4946/2004; Cass. n.6230/1998). A volte i contratti collettivi avevano fissato il parametro per l’individuazione della mansione prevalente; se questo parametro era stato individuato nel rispetto delle disposizioni inderogabili (come lo stesso art.2103 c.c.), è vincolante per il giudice, che non può disapplicarlo, né modificarlo (Cass. S.L. n. 1987/2004). I contratti collettivi possono inoltre esigere la prevalenza di una determinata mansione per il riconoscimento di un determinato livello (precludendo il riconoscimento ove sia temporanea o occasionale); tali previsioni sono state ritenute compatibili con quelle di cui all’art.2103 c.c. (Cass. S. L. n.4946/2004). Nel pubblico impiego, ai sensi dell’art.52 c.3 D. Lgs. n.165 del 2001, in mancanza di prevalenza qualitativa, quantitativa e temporale non sussiste variazione di mansioni: le mansioni inferiori o superiori “non prevalenti” sono considerate riconducibili a quelle contrattuali (la norma si riferisce alle mansioni superiori, ma sembra valere specularmente anche per quelle inferiori). -Trib. Roma sentenza n. 1625/2016 ha affermato che non risulterebbero comunque sufficienti ai fini della maturazione del diritto della ricorrente ad un superiore inquadramento le allegazioni relative a singoli incarichi svolti dalla ricorrente nel corso del pluriennale svolgimento del rapporto di lavoro intercorso tra le parti, attività queste ultime alle quali, per il loro carattere occasionale, non è stata comunque attribuita natura prevalente rispetto all’attività complessivamente svolta dalla ricorrente (in ordine alla necessità, nel caso di mansioni promiscue, che la mansione più significativa sul piano professionale sia svolta in modo non sporadico od occasionale; ha in proposito richiamato Cass. n. 6303 del 18/03/2011, n. 26978 del 22/12/2009 e n. 2744 del 23/03/1999). 6.5 - TRASFERIMENTO E MANSIONI EQUIVALENTI CASO PRATICO -Il Tribunale di Roma, con ordinanza del 28.2.2017, in un giudizio ex art. 700 c.p.c. in cui la lavoratrice ricorrente (che svolgeva mansioni di assistente/segretaria di direzione) aveva chiesto accertarsi il suo diritto al trasferimento in una delle sedi della società convenuta site nel Comune di Roma, invocando l’applicazione dell’art.33 c.5 L. n.104/92, in materia di assistenza al familiare portatore di handicap, ex art. 33, comma 5 L.104/1992, ha affermato che il lavoratore, il quale assista con continuità un parente o un affine entro il terzo grado portatore di handicap, può esercitare il diritto di scegliere la sede di lavoro sia al momento dell'assunzione che in costanza di rapporto, sempreché il posto risulti esistente e vacante (Cass.n.16298/2015, Cass. n.3896/2009 e Cass. SS.UU. n. 7945/ 2008). Nel caso in esame, ritenuto incontestato sia il requisito legale della “assistenza continuativa” resa possibile prima da svolgimento di attività lavorativa in regime di distacco su Roma e quindi di godimento di congedo straordinario, sia lo stato di “portatore di handicap” in capo alla madre della ricorrente dal gennaio 2014, ed ha pertanto ritenuto la piena invocabilità del disposto di cui al comma 5 dell’art.33 cit. da parte della ricorrente. Ha inoltre ricordato le pronunce che, interpretando in senso restrittivo la norma, avevano ritenuto che il diritto di scelta della sede fosse esercitabile solo al momento dell’assunzione, salvo divieto di trasferimento per iniziativa del datore di lavoro in corso di rapporto, utilizzando dell’argomento secondo cui la norma citata intendeva tutelare il permanere di un’assistenza già in essere ed un’organizzazione familiare già operante, mentre la richiesta di trasferimento in corso di rapporto avanzata dal lavoratore normalmente era prodromica all’instaurazione di un’assistenza in precedenza non esistente; tuttavia non ha aderito a tale rigorosa interpretazione poiché la medesima rischierebbe di lasciare privo di tutela il caso di sopravvenienza dell’handicap nella molteplice casistica di nascite con deficienze, malattie

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sopravvenute, incidenti invalidanti, avanzamento dell’età, ipotesi che, alla luce dei principi costituzionali di solidarietà sociale, salute, famiglia, istruzione e lavoro, tutti sottesi all’impianto normativo della legge quadro n.104/92, si appalesano meritevoli di tutela. Nel caso di specie, il trasferimento richiesto dall’istante tendeva al mantenimento della situazione di assistenza già da tempo instauratasi in ragione di distacco disposto dalla datrice di lavoro e successivamente protrattasi per congedo straordinario richiesto dalla lavoratrice; ha dunque ricordato che l’indicato diritto al trasferimento non si configura come incondizionato, giacché esso, come dimostrato anche dalla presenza dell'inciso "ove possibile", può essere fatto valere allorquando, alla stregua di un equo bilanciamento tra tutti gli interessi implicati, il suo esercizio non finisca per ledere in maniera consistente le esigenze economiche, produttive od organizzative dell'impresa, gravando sulla parte datoriale l'onere della prova di siffatte circostanze ostative all'esercizio stesso dell'anzidetto diritto. (Cass. n. 7945/2008). In merito alla distribuzione dell’onere probatorio, ha affermato che il regime dell’onere della prova segue da sempre il principio della vicinanza nel senso che appare più logico richiedere la prova a chi la prova può fornire più agilmente; nel caso in cui la prova verta sull’esistenza o meno di posizioni in organico, tanto più evidente in ipotesi di organici estremamente articolati e complessi come quelli della convenuta, ha identificato nella parte che più facilmente accede agli elementi necessari a sostenere la propria tesi, e dunque nella parte datoriale, quella su cui grava l’onere probatorio. Nella fattispecie dedotta in giudizio, non ha ritenuto sussistenti esigenze organizzative ostative presso la sede di provenienza di Pomigliano d’Arco non avendo in fatto mai la ricorrente prestato servizio presso tale unità ed essendosi quindi necessariamente ivi organizzata l’attività a prescindere dal suo apporto; con riferimento alla sede richiesta, a fronte delle deduzioni della società datrice di lavoro in ordine all’insussistenza di posizioni lavorative su Roma a cui la ricorrente avrebbe potuto essere adibita, essendosi verificata con la fusione una duplicazione delle figure organizzative preesistenti (la convenuta aveva in particolare sostenuto che non era stato possibile affidare alla ricorrente alcuna posizione su Roma poiché non vacanti ruoli da assistente/segretaria di direzione), ha affermato che il nuovo art.2103 c.c., così come modificato dal D.Lgs.81/2015 entrato in vigore il 25.6.2015 non consente di ritenere provata l’impossibilità al trasferimento su Roma in ragione dell’insussistenza nelle sedi di tale città di identiche mansioni rispetto a quelle precedentemente svolte dal lavoratore. Dopo avere riportato il testo della norma, secondo cui “il lavoratore deve essere adibito a mansioni per le quali è stato assunto ovvero a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a quelle mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria di inquadramento delle ultime effettivamente svolte”, ha sottolineato la scomparsa del riferimento a mansioni c.d. “equivalenti”, ed ha affermato lo spazio di utilizzo del dipendente ad oggi è divenuto più ampio e flessibile, ragione per cui ciò che il datore di lavoro avrebbe dovuto dimostrare non era l’impossibilità di adibire l’istante alle precedenti mansioni di assistente/segretaria di direzione ma l’insussistenza su Roma di qualsivoglia posizione inerente il profilo di appartenenza, circostanza neppure dedotta.

7- MANSIONI SUPERIORI ONERI ASSERTIVI CASO PRATICO - Trib. Roma, con sentenza n. 1625 del 18.2.2016, in una controversia volta al riconoscimento di mansioni superiori e alla condanna del datore di lavoro al pagamento delle differenze retributive, nella vigenza del vecchio testo dell’art. 2103 c.c, ha ricordato l’orientamento del giudice di legittimità, secondo cui nel procedimento logico-giuridico diretto alla determinazione dell’inquadramento di un lavoratore subordinato non può prescindersi da tre fasi successive, e

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cioè, dall’accertamento in fatto delle attività lavorative in concreto svolte, dalla individuazione delle qualifiche e gradi previsti dal contratto collettivo di categoria e dal raffronto tra il risultato della prima indagine ed i testi della normativa contrattuale individuati nella seconda (Cass. n. 2164 del 5.2.2004)., e ne ha tratto quale conseguenza che fosse onere di parte ricorrente - oltre a dedurre in fatto sulle concrete mansioni espletate - anche dare spiegazione e contezza delle ragioni per le quali le suddette attività gli avrebbero consentito di acquisire il diritto all’inquadramento superiore. In particolare, ha affermato che era onere del ricorrente, oltre esplicitare le relative declaratorie contrattuali (quella di appartenenza e quella rivendicata), porle a confronto, individuare le significative differenze e spiegare i motivi che consentirebbero di ricondurre le mansioni svolte non alla declaratoria del livello di appartenenza ma a quella del livello rivendicato. Non ha dunque ritenuto idonee a tale scopo le allegazioni contenute nel ricorso in ordine al contenuto delle mansioni svolte, allegazioni consistenti nello svolgimento, nel corso degli anni, di una molteplicità di mansioni impiegatizie aventi vario oggetto (attinenti alla vendita di biglietteria, alla cura, promozione e vendita telefonica di servizi, all’amministrazione, alla contabilità e ai rapporti con il personale) senza effettuare una specifica comparazione tra le rispettive declaratorie contrattuali e senza fornire concreti e specifici elementi atti a fare ritenere realizzato, in ragione delle loro modalità effettive di svolgimento, una concreta preposizione ad uno specifico settore o ad una unità organizzativa o del superiore grado di professionalità e di autonomia decisionale che caratterizza i superiori livelli oggetto di domanda; ha dunque rigettato le domande relative al superiore inquadramento richiesto. 7.1 - PROMOZIONE AUTOMATICA In forza del nuovo testo dell’art. 2103 c.c., a differenza di quanto previsto nella vigenza del vecchio testo, la promozione automatica è rinunciabile. QUESTIONE Quando si può rinunciare alla promozione automatica? 1^ TESI: AL MOMENTO DELL’ASSUNZIONE 2^ TESI: DURANTE LO SVOLGIMENTO DI MANSIONI SUPERIORI; 3^ TESI: DOPO CHE E’ MATURATO IL PERIODO Nel vecchio regime occorrevano al massimo tre mesi per la promozione automatica (il CCNL poteva prevedere periodi più brevi), a condizione che l’assegnazione a mansioni superiori non fosse avvenuta per la sostituzione di lavoratori assenti con diritto alla conservazione del posto (e dunque per ferie, permessi, malattia, maternità) mentre per il nuovo regime è previsto un periodo di 6 mesi salvo diversa previsione del CCNL (che può dunque stabilire anche periodi più lunghi); la promozione è comunque esclusa in tutti i casi in cui il lavoratore sia stato adibito a mansioni superiori per sostituire un altro lavoratore in servizio, a prescindere dalle ragioni dell’assenza. Le ragioni sostitutive che escludono la promozione automatica, comprendono anche quelle “a cascata”, cioè le sostituzioni del sostituto; tuttavia il lavoratore da sostituire deve essere “in servizio”, per cui sussiste il diritto alla promozione quando l’assegnazione a mansioni superiori si sia protratta per il periodo indicato dalle fonti collettive o in mancanza per sei mesi ed abbia riguardato la sostituzione di un lavoratore cessato dal servizio (per pensionamento, dimissioni, licenziamento, aspettativa). QUESTIONE

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Quid juris nel caso di mansioni superiori iniziate prima del 26.5.2015 e proseguite successivamente? Quanto tempo occorre in questa ipotesi per maturare la promozione? -NEL CASO IN CUI I TRE MESI SIANO MATURATI PRIMA DEL 26.6.2015? - NEL CASO IN CUI NON SIANO MATURATI I TRE MESI PRIMA DEL 26.6.2015, QUANTI MESI OCCORRONO PER LA PROMOZIONE? 7.2 MODALITA’ DI CALCOLO DEL PERIODO Nella vigenza del vecchio testo dell’art. 2103 c.c., era stato ritenuto che il periodo di svolgimento delle mansioni superiori deve essere continuativo (senza calcolare ferie e malattia); tale criterio non era stato tuttavia inteso in senso assolutamente rigido: bisognava tenere presente in questa ottica il modo di essere dell’organizzazione del lavoro e i criteri di gestione del fattore lavoro. Nel caso di una pluralità di assegnazioni di mansioni superiori per periodi singolarmente inferiori al trimestre, ma che cumulati erano pari a quello di durata massima ex art. 2103 c.c., secondo un primo filone andavano cumulati ai fini del computo del trimestre a fronte della loro frequenza e sistematicità, a prescindere dall’intento fraudolento (Cass. n. 6018/2004; Cass. n.11098/1997); secondo altro orientamento il cumulo era possibile ove venisse dimostrato l’intento fraudolento del datore di lavoro di eludere l’applicazione dell’art. 2103 c.c. (Cass. n. 2642/2004; Cass. n. 13725/2000), mentre secondo altro orientamento era sufficiente la programmazione iniziale della pluralità degli incarichi e una predeterminazione utilitaristica di tale comportamento (Cass. n. 12785/2003; Cass. n. 12506/2003). Seccondo Cass. S.L. n. 18122 del 2014, ai fini del riconoscimento della qualifica superiore, non era sufficiente che il dipendente provi di essere stato adibito alle mansioni corrispondenti per periodi di tempo che, complessivamente considerati, superino i tre mesi, ma è necessario che provi che la sostituzione è stata disposta per un’obiettiva carenza o insufficienza di organico correlata ad una organizzazione del lavoro diretta ad utilizzare in modo duraturo le maggiori capacità di lavoratori assunti con la qualifica inferiore, che il datore di lavoro ha avuto l’intento fraudolento di impedire la maturazione del diritto alla promozione (e che l’assegnazione non sia avvenuta per la sostituzione di lavoratori assenti con diritto alla conservazione del posto). QUID JURIS NELLA VIGENZA DEL NUOVO TESTO DELL’ART. 2103 C.C.? 8 – ECCEZIONE DI INADEMPIMENTO E MANSIONI SUPERIORI CASO PRATICO In una fattispecie in cui la società datrice di lavoro aveva chiesto dichiararsi la legittimità della sanzione disciplinare conservativa inflitta alla lavoratrice convenuta per avere formalmente dichiarato che non intendeva assumere la responsabilità dell’ufficio cui era stata temporaneamente assegnata, in quanto ciò non previsto dal proprio profilo contrattuale di inquadramento (si era limitata ad affermare la sua disponibilità ad applicazioni temporanee che prevedessero l’espletamento di mansioni di operatore di sportello corrispondenti al profilo di inquadramento), il Tribunale di Roma, con sentenza del 17.12.2015 ha affermato che il lavoratore può legittimamente invocare l’art.1460 c.c., rendendosi a sua volta inadempiente, solo in caso di totale inadempimento della controparte (Cass. n.4673/2008), mentre l’art.1460 c.c. non è invocabile nel caso in cui vi sia controversia solo su una delle obbligazioni facenti capo ad una delle parti, ove non incida sulle immediate esigenze vitali del lavoratore. Ha pertanto ritenuto che il rifiuto non sia giustificabile quando le mansioni alle quali è addetto il lavoratore non comportino lo svolgimento di un’unica incombenza di carattere ripetitivo, ma consistano in un’attività complessa, comportante una molteplicità di operazioni ed una pluralità di compiti: in tal caso il lavoratore può rifiutare lo svolgimento di singole prestazioni lavorative

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non conformi alla sua qualifica, ma non può rifiutare lo svolgimento di qualsiasi prestazione lavorativa (Cass. 29832/2008). Nella fattispecie dedotta in giudizio, la resistente non aveva dedotto che la sua adibizione alle mansioni superiori, pur in assenza di un’adeguata formazione, aveva inciso sulle sue immediate esigenze vitali; la medesima ricorrente aveva inoltre rifiutato in blocco lo svolgimento delle mansioni superiori, e non lo svolgimento di singole prestazioni; per tali ragioni l’addebito è stato ritenuto fondato. 8.1- TRASFERIMENTO, DEMANSIONAMENTO ED ECCEZIONE DI INADEMPIMENTO CASO PRATICO Il Tribunale di Roma, con sentenza del 12.5.2016 in una fattispecie in cui il lavoratore era stato licenziato per non essersi presentato per quattro giorni presso la sede di lavoro alla quale era stato trasferito, ha affermato che in astratto la fondatezza dell’eccezione di inadempimento di cui all’art.1460 esclude la sussistenza del fatto contestato (il lavoratore prima della contestazione disciplinare, per i medesimi addebiti, aveva sollevato stragiudizialmente l’eccezione di inadempimento, sostenendo che il trasferimento non era sorretto dalle ragioni organizzative addotte e che avrebbe comportato un demansionamento), precisando che anche il “fatto materiale” nella nozione descritta da Cass., Sez. Lav. 6 novembre 2014 n. 23669 (e ora recepita dall’art.3 c.2 D. Lgs. n.23/2015) rimane pur sempre un “fatto contestato”, e dunque necessariamente un fatto avente rilevanza disciplinare. In particolare, ha ritenuto che in caso di trasferimento non adeguatamente giustificato a norma dell’art.2103 c.c., il rifiuto del lavoratore di assumere servizio presso la sede di destinazione deve essere proporzionato all’inadempimento datoriale ai sensi dell’art.1460 c.2 c.c., sicchè lo stesso deve essere accompagnato da una seria ed effettiva disponibilità a prestare servizio presso la sede originaria, configurandosi in caso contrario l’arbitrarietà dell’assenza dal lavoro, richiamando Cass. S.L. n.3959/2016. Nella medesima pronuncia, ha richiamato l’orientamento secondo cui il trasferimento realizzato in assenza delle prescritte ragioni tecniche, organizzative e produttive legittima il rifiuto del dipendente di assumere servizio nella sede diversa alla quale sia stato destinato (Cass. n. 27844/2009) e secondo cui l’art.1460 c.2 c.c., con il richiamo alla nozione di buona fede, intende esprimere il principio secondo cui deve sussistere un’equivalenza tra l’inadempimento della controparte e l’adempimento che viene rifiutato, di tal che il primo giustifichi il secondo; pertanto va effettuata una valutazione comparativa dei contrapposti inadempimenti, avuto riguardo anche alla loro proporzionalità rispetto alla funzione economico-sociale del contratto e alla loro rispettiva incidenza sull’equilibrio sinallagmatico, sulle posizioni delle parti e sugli interessi delle stesse (Cass. S.L. n. 3959/2016; Cass. n.4474/2015 e Cass. n. 11430/2006). Il giudice di legittimità ha in proposito ritenuto che in caso di trasferimento illegittimo idoneo a pregiudicare gli interessi personali e familiari del dipendente, il rifiuto di assumere servizio presso la sede di destinazione deve essere accompagnato dalla seria ed effettiva manifestazione di disponibilità a prestare servizio presso la sede originaria, diversamente configurandosi l’arbitrarietà dell’assenza dal lavoro e non essendovi proporzione tra l’inadempimento datoriale, che non attiene a tutti gli aspetti del rapporto sinallagmatico, ma solo al luogo della prestazione, e la reazione che esso determina. Nella fattispecie dedotta in giudizio, la sussistenza del demansionamento era stata prospettata dal ricorrente in ragione dell’attribuzione da parte del datore di lavoro di mansioni corrispondenti al suo livello di inquadramento, ma non a quelle superiori che avrebbe asseritamente espletato di fatto; tuttavia il ricorrente non aveva svolto specifiche deduzioni dalle quali potesse desumersi la sussistenza dei presupposti per l’inquadramento del suo diritto all’inquadramento superiore rivendicato (il ricorrente non aveva indicato le declaratorie contrattuali relative ai livelli rivendicati, né aveva svolto altre deduzioni dalle quali potesse desumersi che le mansioni svolte sarebbero state

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riconducibili ad uno dei livelli rivendicati, ma si era limitato alla descrizione in fatto di tali mansioni); dalla documentazione prodotta dallo stesso ricorrente risultava che il medesimo all’epoca del trasferimento già lamentava un demansionamento da diversi mesi anche nella sede di provenienza; è stato pertanto ritenuto che l’asserito demansionamento non costituisse una valida ragione per il rifiuto del lavoratore di prendere servizio presso la sede di destinazione, in quanto non dipendeva dal trasferimento, ma era già ritenuto dallo stesso ricorrente in atto da tempo. Inoltre, non avendo il ricorrente dedotto alcunchè in ordine ad eventuali pregiudizi personali o logistici, alla luce dei principi enunciati dalla Suprema Corte, è stato ritenuto che il trasferimento disposto dal datore di lavoro Roma su Roma fosse inidoneo ad incidere sull’equilibrio del sinallagma in misura tale da giustificare il rifiuto del ricorrente di prendere servizio presso la sede di destinazione (il lavoratore avrebbe dovuto dunque prendere servizio nella sede di destinazione ed eventualmente agire in via giudiziale per sentire accertare l’illegittimità del trasferimento e per sentire ordinare al datore di lavoro di destinarlo nuovamente alla sede di provenienza); le domande di impugnativa del licenziamento ai sensi dell’art.18 L. n.300/70 sono state pertanto rigettate. ALTRO CASO PRATICO: UN LAVORATORE IMPUGNA IN UN GIUDIZIO ORDINARIO IL TRASFERIMENTO AD UNA DISTANZA DI 500 KM. DISPOSTO DOPO UN’ORDINE GIUDIZIALE DI REINTEGRA, CHIEDENDO IL RIPRISTINO DEL RAPPORTO PRESSO LA SEDE DI PROVENIENZA, PRECISANDO DI NON AVERE PRESO SERVIZIO PRESSO LA NUOVA SEDE IN FORZA DI UN’ECCEZIONE EX ART. 1460 C.C., ED IL DATORE ECCEPISCE DI AVERE DI NUOVO LICENZIATO IL RICORRENTE; IL LICENZIAMENTO E’ STATO IMPUGNATO IN ALTRO GIUDIZIO CON IL RITO FORNERO: QUID JURIS? IN CASO DI ACCERTATA ILLEGITTIMITA’ DEL TRASFERIMENTO, MA CON LA CAUSA RELATIVA AL LICENZIAMENTO ANCORA PENDENTE, E’ POSSIBILE REINTEGRARE IL LAVORATORE PRESSO LA VECCHIA SEDE DI LAVORO? QUALE DEVE ESSERE LA SORTE DEI DUE GIUDIZI? 9- DEMANSIONAMENTO Il vecchio testo dell’art.2103 c.c., nel prevedere che il lavoratore doveva essere adibito alle mansioni per le quali era stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che avesse successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione, vietava indirettamente il demansionamento. Anche se non sono mancate pronunce che sembravano andare nel senso del divieto assoluto di adibizione a mansioni inferiori (Cass. 624/1984), la giurisprudenza di legittimità aveva individuato dei limiti a tale divieto, ravvisandoli nello svolgimento di mansioni marginali o accessorie (Cass. n.11045/2004), ed aveva ritenuto che il lavoratore potesse essere adibito a mansioni inferiori se tale attribuzione avveniva a suo favore (ad esempio per evitare un licenziamento; Cass. 14944/2014). In caso di sopravvenuta incapacità psico fisica del lavoratore a svolgere le mansioni originarie, era stato ritenuto che il datore di lavoro non fosse obbligato ad assegnare al lavoratore mansioni compatibili (Cass. 3517/92); secondo altra impostazione, bisognava distinguere a seconda che la sopravvenuta impossibilità della prestazione fosse imputabile o meno al lavoratore (Cass. n.1115/92). Secondo Cass. n.16141/2002 e Cass. n.15593/2002, in caso di sopravvenuta infermità permanente del lavoratore, l’impossibilità della prestazione lavorativa quale giustificato motivo di recesso del datore di lavoro non era ravvisabile per effetto della sola in eseguibilità dell’attività attualmente svolta dal prestatore di lavoro, perché può essere esclusa dalla possibilità di adibire il lavoratore ad una diversa attività che sia riconducibile, alla stregua dell’interpretazione del contratto secondo buona fede, alle mansioni attualmente assegnate o a quelle equivalenti, o, se ciò è impossibile, a mansioni inferiori, purchè tale diversa attività sia

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utilizzabile nell’impresa, secondo l’assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall’imprenditore. In generale, con riferimento ad altre ipotesi di sopravvenuta impossibilità della prestazione lavorativa per fatto non imputabile al lavoratore si era ritenuto che, ai fini della legittimità del licenziamento, si dovesse anche verificare la possibilità di utilizzare il dipendente in mansioni diverse, almeno equivalenti a quelle originarie, senza, però, che il datore di lavoro fosse tenuto a modificare l’assetto aziendale (Cass. n.8947/93; Cass. n. 9453/93); l’onere della prova gravava sul lavoratore. Alcune disposizioni successive alla formulazione dell’art. 2103 c.c. hanno comunque previsto la legittimità del demansionamento in specifiche ipotesi e sempre per consentire al lavoratore di conservare il posto di lavoro: l’art.4 c.4 della L. n.68/1999 e l’art.42 del D. Lgs. n. 81/2008 hanno imposto l’assegnazione di mansioni inferiori al lavoratore divenuto inabile allo svolgimento delle proprie mansioni per malattia o infortunio, ovvero ritenuto dal medico competente inidoneo alle mansioni specifiche, al fine di evitare il licenziamento, mentre l’art.4 c.11 della L. n.223/91 prevede, nell’ambito di un licenziamento collettivo, la possibilità di un accordo sindacale che consenta l’assegnazione dei lavoratori a mansioni diverse, anche inferiori, al fine di evitare il licenziamento; a sua volta, l’art. 7 c.5 D. Lgs. n.151/2001 stabilisce inoltre che la lavoratrice madre adibita a mansioni inferiori a quelle abituali (in osservanza del divieto di adibirla al trasporto e al sollevamento di pesi, nonché a lavori pericolosi, faticosi e insalubri di cui all’art.5 del DPR n.1026 del 1976 e di cui al comma 2 dello stesso art.7), conserva la retribuzione corrispondente alle mansioni precedentemente svolte, nonché la qualifica originaria. La Suprema Corte aveva inoltre ritenuto la legittimità dell’assegnazione di mansioni inferiori ai dipendenti in servizio in occasione di uno sciopero in sostituzione degli scioperanti, ove non risultassero violate norme poste a tutela delle situazioni soggettive dei lavoratori (Cass. n. 20164/2007 e Cass. n.12811 del 2009); il giudice di legittimità aveva in particolare evidenziato che il diritto di iniziativa economica dell’imprenditore è costituzionalmente garantito dall’art.41 Cost., che persiste anche in occasione di uno sciopero indetto dai lavoratori e dalle organizzazioni sindacali, nell’esercizio di un diritto avente anch’esso rango costituzionale (art.40 Cost.) e che pertanto, nella logica di un necessario bilanciamento, il diritto di sciopero non può ritenersi leso quando il diritto di continuare l’attività produttiva sia esercitato, per limitare gli effetti negativi dell’astensione dal lavoro sulla situazione economica dell’azienda, con l’assegnazione ad altri dipendenti dei compiti degli scioperanti, qualora non risultino violate norme poste a tutela delle situazioni soggettive dei lavoratori. In particolare, la Suprema Corte aveva ritenuto che, ai fini della verifica della dequalificazione professionale, andasse esaminato il rapporto tra i compiti svolti dai lavoratori in servizio durante lo sciopero e le funzioni da loro usualmente espletate, anche se corrispondenti a quelle di livello inferiore, in situazioni che comportano la eccezionale legittimità di tale adibizione, dovendosi accertare se l’assegnazione dei dipendenti a mansioni inferiori avvenga eccezionalmente e marginalmente, e per specifiche e obiettive esigenze aziendali (Cass. 26368 del 2009). Tra i casi in cui è stata ritenuta la legittimità dell’attribuzione di mansioni inferiori in quanto di miglior favore per il lavoratore, figurano la crisi aziendale, la necessità di acquisire una più ampia professionalità (Cass. n.2948/2001), la sopravvenuta inabilità del lavoratore, le improrogabili esigenze aziendali (Cass. n.10187 del 2002) ela necessità di evitare un licenziamento collettivo o per giustificato motivo oggettivo (Cass. 6552 del 2009 e Cass. n.14944 del 2014), tanto che in alcune ipotesi la mancata offerta di mansioni inferiori in alternativa alla soppressione del posto ha determinato l’illegittimità del licenziamento (Cass. n.21579 del 2008). E’ stata ritenuta legittima l’assegnazione a mansioni inferiori, se disposta per realizzare un equilibrio tra il diritto del datore di lavoro ad una gestione razionale ed efficiente delle risorse ed il diritto al posto di lavoro (Cass. n.8596 del 2007); è stato inoltre ritenuto legittimo il patto di assegnazione a mansioni inferiori per evitare il licenziamento (Cass. n.14944 del 2014 cit.).

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In alcuni casi è stato ritenuta la legittimità del demansionamento per impedire un licenziamento solo se le mansioni dequalificanti siano state proposte e accettate (Cass. n.21356 del 2013). CASO PRATICO Con sentenza del 15.12.2016, il Tribunale di Roma ha ravvisato un demansionamento, anche nella vigenza dell’art.3 D. Lgs. n.23/2015 nell’attribuzione di mansioni impiegatizie ad un Quadro (in una fattispecie in cui l’atto introduttivo del giudizio era stato depositato prima del 26.6.2015, ha ritenuto che il datore di lavoro abbia violato l’art.2103 c.c. per non avere adibito il lavoratore a mansioni equivalenti, fermo restando che l’eventuale inesistenza in azienda di posti vacanti professionalmente affini non consente il licenziamento se la ricollocazione è possibile anche in mansioni equivalenti o inferiori; ha richiamato Cass. 4509/2016 e Cass. 21579/2008). VOCI DI DANNO DA DEMANSIONAMENTO: - DANNO ALLA PROFESSIONALITA’ (non è un danno in re ipsa, ma va allegato e provato; si può utilizzare anche la prova per presunzioni, valutando la durata del demansionamento, la sua intensità, e la tipologia di mansioni, atteso che non tutti i tipi di mansioni soffrono di obsolescenza nella stessa misura); si liquida in via equitativa con una percentuale della retribuzione (sul punto si veda Cass. 12255/2015); - DANNO BIOLOGICO, che si liquida tabellarmente, previa CTU, in base all’età del soggetto e alla percentuale medicalmente riscontrata; si tratta di un danno suscettibile di “personalizzazione” in base alle peculiarità del caso concreto - DANNO ESISTENZIALE O ALLA VITA DI RELAZIONE, sub-componente valutativa del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c. (Cass. SS.UU. n.26972/2008); - DANNO MORALE (in alcune tabelle ricompreso, in base ad altre suscettibile di quantificazione a parte); - DANNO DA PERDITA DI CHANCE (che richiede la dimostrazione dell’esistenza di concrete e non ipotetiche prospettive di carriera rimaste pregiudicate dal demansionamento : Cass. SS.UU. n. 6572/2006 e Cass. n.4014/2016) 10- REPECHAGE CASI PRATICI - Nella vigenza dell’art.18 L. n.300/70 come modificato dalla L. n.92/2012, presso i giudici di merito è prevalsa la tesi che la reintegra sia preclusa nel caso di violazione dell’obbligo di repechage (nella maggior parte dei casi, è stato infatti ritenuto che tale fattispecie non rientri nell’ambito della “manifesta insussistenza del fatto”, ma che sia invece riconducibile alle “altre ipotesi” per le quali l’art.18 prevede la tutela indennitaria); si segnalano tra le tante: Trib. Milano 20.11.2012; Trib. Milano 29.3.2013; Trib. Roma 8.8.2013 e Trib. Varese 4.9.2013, secondo cui l’obbligo di repechage è una conseguenza del giustificato motivo oggettivo, risultando dunque sottratto dall’ambito del fatto; secondo Trib. Busto Arsizio 3.2.2016, l’impossibilità di ricollocare il lavoratore non potrebbe più dirsi elemento costitutivo della fattispecie concreta (il mancato assolvimento del relativo onere probatorio ricadrebbe piuttosto nella sfera della legittimità in senso lato, riconducibile alla seconda locuzione normativa (in questo senso Trib. Milano 5.11.2012 e 29.3.2013; Trib. Genova 14.12.2013); nel senso dell’applicabilità della sola tutela indennitaria anche Trib. Padova 21.12.2014, pubblicata in rassegna in Guida Lav. 2015, 28, 86; Trib. Velletri 9.10.2014; Trib. Roma 19.6.2014;, Trib. Genova 14.12.2013; Trib. Roma 22.9.2014) - In particolare, secondo Trib. Busto Arsizio 3.2.2016 cit., nel “fatto posto a base del licenziamento” sono sussumibili le circostanze relative alle ragioni produttive-organizzative ed

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alla soppressione del posto, legate dal relativo nesso causale; pertanto se tali circostanze risultano “manifestamente insussistenti”, nel senso di una loro evidente e significativa inconsistenza quantitativa e qualitativa, così come risultante dalla prova a carico del datore di lavoro ed anche per quanto riguarda la sua intrinseca idoneità a giustificare il licenziamento, potrà operare la tutela reintegratoria, mentre la violazione del repechage va annoverata tra le “altre ipotesi” di insussistenza di giustificato motivo. Secondo la medesima pronuncia, la violazione del repechage non può considerarsi inclusa nel “fatto posto a base del licenziamento”, perché altrimenti coinciderebbe in tutto e per tutto con il giustificato motivo oggettivo. - In senso contrario Trib. Reggio Calabria 3.6.2013 in Mass. Giur. Lav. 2014, 4, 229 con nota di A. Vallebona e Trib. Foggia 1.4.2014; Trib. Roma 7.5.2013, Trib. Milano 23.2.2013. La questione assume rilievo anche in relazione ai rapporti tra il “fatto” posto a fondamento del giustificato motivo oggettivo ed il motivo illecito: Trib. Padova 21.12.2014 cit., a fronte della mancata contestazione in ordine alla soppressione del posto, e della ritenuta illegittimità del licenziamento solo per il mancato assolvimento dell’obbligo di repechage, ha ritenuto non provato il carattere ritorsivo del licenziamento PER I VECCHI ASSUNTI, LA VIOLAZIONE DELL’OBBLIGO DI REPECHAGE RIENTRA O MENO NELL’AMBITO DEL “FATTO”? MOTIVAZIONE FONDATA (ANCHE) SULL’IMPOSSIBILITA’ DI RICOLLOCAZIONE CASO PRATICO - Trib. Roma 3.7.2014 in una fattispecie in cui il licenziamento di una lavoratrice era stato motivato con la cessazione dell’appalto e con l’impossibilità di ricollocarla in altre posizioni equivalenti a quella svolta in altre unità e reparti dell’azienda, e la ricorrente aveva allegato e dimostrato che all’epoca del licenziamento la società convenuta aveva diversi appalti di pulizie, oltre a quello cessato, nel Comune di Roma (la società aveva infatti pubblicato in epoca contigua al licenziamento annunci di ricerca di personale per lo svolgimento delle stesse mansioni svolte dalla ricorrente), ha ritenuto che la violazione dell’obbligo di repechage rientrasse nell’ambito della manifesta insussistenza del fatto posto a fondamento del licenziamento (la società si era difesa affermando di avere pubblicato i suddetti annunci, precisando non per la ricerca di personale all’epoca della pubblicazione, ma per creare un data base; tali deduzioni non sono state ritenute condivisibili, a fronte del tenore assolutamente univoco di tali annunci, in cui erano state utilizzate espressioni al presente indicativo rivolte alla ricerca di personale senza riserve né condizioni) ed ha applicato la tutela di cui all’art.18 c.4 Stat. Lav. ONERI ASSERTIVI E PROBATORI - Cass. n.5592 del 22.3.2016 ha enunciato il seguente principio di diritto: “in materia di illegittimo licenziamento per giustificato motivo oggettivo, spetta al datore di lavoro l’allegazione e la prova dell’impossibilità di repechage del lavoratore licenziato, in quanto requisito del giustificato motivo di licenziamento, con esclusione di un onere di allegazione al riguardo del secondo, essendo contraria agli ordinari principi processuali una divaricazione tra i due suddetti oneri, entrambi spettanti alla parte deducente”. La Suprema Corte ha dunque superato l’indirizzo secondo cui l’onere del datore di lavoro di provare l’impossibilità di impiegare il lavoratore in altre mansioni compatibili con la qualifica rivestita presuppone l’allegazione, da parte del lavoratore, dell’esistenza di altri posti di lavoro disponibili per la sua utile ricollocazione (Cass. n.19923 del 6.10.2015; Cass. n.4920 del 3.3.2014; Cass. n. 25197 del 8.11.2013; Cass. n.18025 del 19.10.2012; Cass. n. 6559 del

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18.3.2010; Cass. n.22417 del 22.10.2009; Cass. n. 12037 del 9.10.2003 Cass. n.8396 del 12.6.2002 e Cass. n.13134 del 3.10.2000), ritenendo tralaticio tale orientamento, “in quanto imperniato su una netta (e inedita) divaricazione tra onere di allegazione (in capo al lavoratore) e di prova (in capo al datore di lavoro)”. In particolare, con la sentenza n.5592 del 22.3.2016 il giudice di legittimità ha ritenuto (diversamente da Cass. n.10559 del 23.10.1998), che la possibilità di utilizzare il lavoratore licenziato in mansioni diverse non sia elemento costitutivo della sua domanda di impugnazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, e non rientri pertanto tra i fatti che il lavoratore ha l’onere di allegare; ha inoltre affermato che l’allegazione di circostanze idonee a comprovare l’insussistenza del motivo oggettivo di licenziamento comporta l’inversione dell’onere della prova, in contrasto con il disposto dell’art.5 L. n.604/66. Secondo Cass. n.5592 del 22.3.2016, dunque, l’impossibilità di repechage rientra nell’ambito della sussistenza del giustificato motivo del licenziamento: il giudice di legittimità ha chiarito che la domanda del lavoratore è individuata da un petitum di impugnazione del licenziamento per illegittimità e da una causa petendi di inesistenza del giustificato motivo oggettivo intimato dal datore di lavoro, su cui incombe l’onere di provare, ai sensi dell’art.5 L. n.604/66, la sua ricorrenza in tutti gli elementi costitutivi, compresa l’impossibilità di repechage. - Tale orientamento è stato ribadito da Cass. S.L. 12101 del 13.6.2016, secondo cui il datore di lavoro ha l’onere di dimostrare il fatto costitutivo dell’esistenza del rapporto di lavoro a tempo indeterminato così risolto, nonché di allegare l’illegittimo rifiuto del datore di contnuare a farlo lavorare senza giustificato motivo, mentre incombono sul datore di lavoro gli oneri di allegazione e di prova dell’esistenza del giustificato motivo oggettivo, che include anche l’impossibilità del c.d. “repechage”, ossia dell’inesistenza di altri posti di lavoro in cui utilmente ricollocare il lavoratore.

REPECHAGE E PART-TIME CASO PRATICO In una fattispecie in cui la lavoratrice , licenziata per giustificato motivo oggettivo a causa della cessazione dell’appalto a cui era addetta, aveva lamentato la violazione dell’obbligo di repechage chiedendo l’applicazione delle tutele di cui all’art. 18 L. n.300/70, deducendo che nei mesi successivi al licenziamento il datore di lavoro aveva proceduto a nuove assunzioni a causa dell’acquisizione di un altro appalto, il datore di lavoro convenuto aveva eccepito che parte delle nuove assunzioni erano imposte dal CCNL, mentre le altre erano relative a mansioni diverse da quelle attribuite alla ricorrente ed effettuate a tempo parziale in altre città, il Tribunale di Roma, con ordinanza del 23.2.2016 ha ritenuto l’illegittimità del licenziamento ai sensi dell’art. 18.c.5 L. n.300/70 ed ha applicato le relative tutele (ha dunque aderito all’orientamento secondo cui la violazione dell’obbligo di repechage si colloca al di fuori del “fatto”). 10.1- DEMANSIONAMENTO E REPECHAGE Prima dell’entrata in vigore del nuovo testo dell’art.2103 c.c., ai fini della legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il datore di lavoro aveva l’onere di dimostrare l’impossibilità di reimpiegare il lavoratore in mansioni equivalenti. Con il nuovo testo dell’art.2103 c.c., c’è da chiedersi se il datore di lavoro è tenuto ad offrire al lavoratore anche mansioni inferiori prima di procedere al licenziamento. - Trib. Roma, ord. 2.2.2016 ipotizza l’obbligo del datore di lavoro di proporre un patto di demansionamento nella vigenza del nuovo testo dell’art.2103 c.c. .

QUESTIONE: E’ CONDIVISIBILE TALE ORIENTAMENTO? ANCHE NEL CASO IN CUI IL DEMANSIONAMENTO IMPLICHI DEI COSTI IN RELAZIONE ALLA FORMAZIONE (OBBLIGATORIA OVE NECESSARIA IN BASE AL NUOVO TESTO DELL’ART. 2103

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C.C.)? 10.2 - DEMANSIONAMENTO E LICENZIAMENTO RITORSIVO Trib. Roma 8.10.2015, pubblicata in rassegna in Guida Lav. n.12, 2015 in una fattispecie in cui il precedente ripristino del rapporto di lavoro era avvenuto in base ad un ordine giudiziale ed il datore di lavoro aveva fondato il licenziamento sulla soppressione di una unità operativa, ha ritenuto la ritorsività del licenziamento ed ha applicato la tutela di cui all’art.18 c.1 Stat. Lav. in quanto l’ordine giudiziale era stato eseguito con l’adibizione del lavoratore ad un’unità operativa già soppressa e senza attribuire al lavoratore alcuna mansione; è stato dunque ritenuto che il licenziamento sia stato determinato unicamente dalla volontà di sottrarsi all’esecuzione di quell’ordine giudiziale. 11 – DEMANSIONAMENTO E DIRITTO TRANSITORIO QUESTIONE Quid juris nel caso in cui il lavoratore sia stato adibito dal datore di lavoro a mansioni non equivalenti, ma di pari livello, e tale adibizione, iniziata prima del 26.6.2017, si sia protratta dopo tale data? Nella vigenza dell’art.2103 c.c. vecchio testo, configurava demansionamento l’adibizione a mansioni non equivalenti, ancorchè ricomprese nello stesso livello professionale, mentre ai sensi del nuovo testo dell’art. 2103 c.c. la corrispondenza tra le mansioni svolte e quelle del livello professionale di appartenenza esclude il demansionamento. Sono state prospettate due contrapposte soluzioni: -Trib. Roma, con sentenza n. 8195/2015 ha affermato che il nuovo testo dell’art. 2103 c.c. si applica anche ai demansionamenti iniziati in epoca anteriore al 26.6.2015, ed ha costruito la fattispecie come illecito permanente; ha dunque affermato che la prosecuzione dopo il 26.6.2015 dell’adibizione del lavoratore a mansioni non equivalenti, ma di pari livello, è legittima (ha ritenuto astrattamente configurabile un demansionamento solo per il periodo anteriore). -Trib. Ravenna, con sentenza del 30.9.2015 ha invece affermato che il nuovo testo dell’art. 2103 c.c. non trova applicazione ai demansionamenti generati nel vigore della disciplina precedente, in quanto, costituendo i medesimi fatto costitutivo del diritto del prestatore, vanno valutati alla stregua della legge vigente nel momento in cui sono stati posti in essere.