ISTITUTO DI ISTRUZIONE SUPERIORE A. PARADISI - VIGNOLA · Era compito della nostra classe...

72
ISTITUTO DI ISTRUZIONE SUPERIORE "A. PARADISI" - VIGNOLA Area di Progetto: "Capitan Pastene" Classi 3°Am, 3°Bm, 3°Ai, 3°Bi A. S. 2000/2001 Coordinatore Prof. Paolo Pollastri Rigoberta Menchu Premio Nobel per la pace Donna Mapuche IL NUOVO MONDO E LA SCOPERTA DELL' "ALTRO" Classe 3°A Mercurio Il Subcomandante Marcos

Transcript of ISTITUTO DI ISTRUZIONE SUPERIORE A. PARADISI - VIGNOLA · Era compito della nostra classe...

ISTITUTO DI ISTRUZIONE SUPERIORE "A. PARADISI" - VIGNOLA

Area di Progetto: "Capitan Pastene"

Classi 3°Am, 3°Bm, 3°Ai, 3°Bi

A. S. 2000/2001 Coordinatore Prof. Paolo Pollastri

Rigoberta Menchu Premio Nobel per la pace

Donna Mapuche

IL NUOVO MONDO E

LA SCOPERTA DELL' "ALTRO" Classe 3°A Mercurio

Il Subcomandante Marcos

Area di Progetto “Capitan Pastene” : Premessa Questo lavoro fa parte di un più ampio Progetto realizzato insieme alle classi 3°B Mercurio, 3° A Igea, 3° B Igea Era compito della nostra classe affrontare il tema delle grandi esplorazioni geografiche, della scoperta di nuovi mondi e dell’impatto tra l’Europa cristiana e ‘civile’ e questi popoli ‘selvaggi’ e sconosciuti. Abbiamo così anche noi scoperto che le grandi conquiste dell’umanita’ e l’avanzare del progresso possono richiedere alti costi umani e comportare tragedie e sofferenze. La scoperta del Nuovo Mondo è stata senza dubbio un progresso per l’umanita’, ma la conseguenza e’ stata la distruzione di intere civilta’, la sottomissione di interi popoli, i cui discendenti, oggi, combattono per il riconoscimento della propria cultura e dei propri diritti. Abbiamo avuto, inoltre, la possibilita’ di venire a conoscenza degli ultimi eredi di uno di questi popoli, i Mapuches, nativi di una regione del Cile, l’Araucania, dove sorge il paese di Capitan Pastene e dove vive dall’inizio del XX secolo una comunita’ di nostri connazionali, anzi, di famiglie del nostro Appennino e delle nostre zone. Questo lavoro e’ stato in gran parte realizzato nella prima settimana di dicembre, poi ‘perfezionato’ e concluso nel mese di marzo. Coordinati dal prof. Paolo Pollastri, insegnante di Lettere, abbiamo utilizzato per una settimana anche le ore di tutti gli altri insegnanti, che hanno contribuito in questa modalita’ alla realizzazione del progetto. Ringraziamo ancora una volta il Cav. Antonio Parenti, che, con la sua documentazione, le sue informazioni, i suoi suggerimenti ha reso possibile questa “impresa”; le Amministrazioni Comunali di Guiglia, Spilamberto, Vignola e Zocca, che ci hanno sostenuto anche dal punto di vista finanziario; il sig. Adriano Setti, che ci ha gentilmente tradotto dallo spagnolo alcuni importanti documenti ITC ‘Paradisi’ , Marzo 2001 L’insegnante coordinatore Prof. Paolo Pollastri La classe 3° A Mercurio: Alice M. Laura B. Monica A. Cristian C. Ivan P. Alberto V. Simona R. Francesca C. Matteo P. Stefania B. Elisa P. Silvia O. Sara T. Isabella L. Alice L. Cristhian R. Jennifer M. Marcello B.

INDICE Parte prima

1. Verso un mondo globalizzato 2. Dal mediteraneo agli oceani: l'Europa alla conquista del mondo:

- un mondo nuovo - cosa spinse l'Europa fuori dall'Europa - le conseguenze delle scoperte

3. L'orizzonte onirico 4. Le direttrici della conquista:

- esplorazione dell'Asia e dell'Africa - la scoperta dell'America - i conquistadores: una storia di atrocità

5. Viaggi e scoperte: cronologia 6. Il Comandante Giovanni Battista Pastene 7. Scontro fra due civiltà:

- la rapida sconfitta delle popolazioni indigene - la scoperta dell' "altro": prime descrizioni del Nuovo Mondo - la scoperta dell' "altro": uomini o bestie? - la scoperta dell' "altro": il mito del buon selvaggio

8. Il trauma della conquista 9. La società coloniale:

- le istituzioni politiche - la stratificazione sociale - l'organizzazione economica - la vita materiale culturale e religiosa

10. L'America Latina e la conquista: - il genocidio - la destrutturazione delle società amerindie - le trasformazioni dell'ecosistema - le resistenze alla colonizzazione

11. La conquista non termina…….. 12. Il colore della terra Parte seconda

Il popolo Mapuche Parte terza

Materiali di lavoro Parte quarta Documenti Bibliografia

Parte Prima

L'EUROPA ALLA CONQUISTA DEL MONDO

Carta di Hewes 1500

VERSO UN MONDO GLOBALIZZATO

Globalizzazione è la parola chiave di questo nuovo millennio. Se ne parla per indicare l'estensione su scala mondiale dei processi economici, sociali e culturali che creano un sistema complesso e sempre più fittamente intrecciato di scambi e interdipendenze fra le varie aree e popolazioni del pianeta Questo termine, in parte sinonimo di mondializzazione, si è imposto negli ultimi vent'anni e coglie specificamente gli esiti della rivoluzione informatica e telematica. Oggi, per esempio, un paio di jeans può essere disegnato da un'équipe di stilisti in Italia, fabbricato con tessuto giapponese e confezionato in Pakistan o in Bangla Desh; oppure in poche frazioni di secondo, tramite computer, si possono spostare capitali da una parte all'altra del globo o, con Internet, irradiare messaggi su reti planetarie; possiamo seguire in diretta eventi istantanei o essere informati in tempo reale su fatti che hanno luogo in qualunque punto del pianeta. L'abbattimento delle distanze spaziali riduce enormemente anche le distanze culturali; tramite i mass media i modelli occidentali di vita e di consumo raggiungono tutte le parti del mondo e con poche ore di volo si può andare a cercare lavoro e migliori condizioni di vita a migliaia di kilometri di distanza, senza sentirsi del tutto spaesati in un mondo alieno. Il “villaggio globale” è l’ l'intero pianeta unificato dai sistemi di comunicazione, che rimescolano e omogeneizzano gli orizzonti mentali e culturali al di là delle frontiere. Del resto, decisioni politiche prese in una parte del mondo possono avere conseguenze ovunque e un crollo di Borsa in Brasile o in Giappone ha effetti su tutti i sistemi finanziari. L’esigenza di governare i processi economici e politici sempre più “globali” ha moltiplicato le istituzioni sovranazionali con autorità in vari campi -ONU, Banca Mondiale, Fondo Monetario, Tribunali Internazionali...-, che riflettono una storia umana ormai universalmente interconnessa Ma la dimensione planetaria, con cui si è aperto il terzo millennio, è andata sviluppandosi in tempi relativamente assai recenti della storia e vede i suoi albori nella mondializzazione inaugurata dall'epoca delle grandi esplorazioni oceaniche e dallo slancio espansivo dell'Europa verso gli altri continenti.

Le conseguenze delle scoperte geografiche

1. CONSEGUENZE ECONOMICHE • Spostamento del traffico commerciale dal Mediterraneo all’Atlantico • Arricchimento degli stati bagnati dall’Oceano Atlantico (Spagna, Portogallo,Inghilterra,.Francia) • Sviluppo delle marine mercantili ↓ Formazione di enormi capitali da parte di potenti compagnie mercantili ↓ favoriscono la nascita del moderno capitalismo. • Afflusso in Europa di oro e argento dal nuovo continente,soprattutto dal Messico e dal Perù.

↓ Aumento del denaro circolante ↓ Rivoluzione dei prezzi

2. CONSEGUENZE POLITICHE • Formazione di vasti imperi coloniali (spagnolo, portoghese, inglese, olandese, francese) • Lotte tra le maggiori potenze per il predominio sulle nuove terre.

3. CONSEGUENZE SOCIALI Emigrazione → partenza per nuove terre attirati da facili ricchezze Alla ricerca di lavoro Per sfuggire a persecuzioni politiche e religiose

La scoperta dell’America concluse la fase della storia “mediterranea” a vantaggio di quella “atlantica” . Ci fu uno sviluppo delle scienze fisiche e naturali, della conoscenza di principi relativi all’astronomia e alla geografia. Questo spiega perché fu scelto il 1492 come inizio dell’ETA’ MODERNA. L’Italia apparve tagliata fuori dalle nuove linee di comunicazione per a. divisione in piccoli stati b. mancanza di attrezzature adeguate e capitali scarsi Tutto questo le impedì di giocare un ruolo di primo piano nel nuovo scenario.

Dal Mediterraneo agli oceani: l’Europa alla scoperta del mondo

Un mondo nuovo Il 1492, l’anno del primo sbarco di Colombo nelle nuove terre americane, è la data che segna tradizionalmente la fine del medioevo e l’inizio dell’età moderna. Come tutte le grandi partizioni epocali della storia , anche questa data ha un valore puramente simbolico e convenzionale e passò del tutto inavvertita agli uomini del tempo, a cominciare dallo stesso Colombo, ignaro della sua scoperta di un nuovo continente e convinto allora di aver raggiunto le Indie orientali navigando da occidente. Quell’evento segnava invece una svolta carica di conseguenze di enorme portata per il futuro dell’Europa come per le sorti delle popolazioni del Nuovo Mondo, da allora inseparabilmente intrecciate, con un impatto iniziale che prese la forma della conquista e del dominio, alla storia del vecchio continente. La scoperta dell’America fu il momento culminante di un’epoca di esplorazioni e di avventure oceaniche in cui gli Europei si erano lanciati cinquant’anni prima e che avrebbero portato nel giro di tre secoli, solcando i mari in tutte le direzioni, a disegnare i contorni di vecchi e nuovi continenti, a dare forma e dimensioni certe al globo terrestre, prima fantasticate come orizzonti dell’ignoto, fino a unificare il mondo in una nuova storia dominata dal primato europeo. Si incontravano e si scoprivano reciprocamente per la prima volta pezzi di umanità che avevano per millenni abitato il pianeta in spazi storici chiusi e

incomunicanti, ignorando l’esistenza di altri uomini e civiltà al di là degli oceani. Per la prima volta, dunque, culture che avevano vissuto “storie parallele” senza contatti reciproci o con contatti estremamente superficiali si incontravano in modo profondo e duraturo: il mondo umano si avvia a diventare qualcosa di unitario e non più diviso. Si spostavano gli equilibri geopolitici e le linee degli scambi: il Mediterraneo andava perdendo la sua centralità di grande bacino di comunicazione fra le diverse civiltà del Vecchio Mondo (Europa, Asia, Africa), che avevano istituito intense relazioni e reciproci scambi per tutta l’antichità e il medioevo. Il nuovo asse portante degli scambi economici si spostava dal Mediterraneo all’Atlantico, ponendo le basi della crescente fortuna delle potenze europee affacciate sulle sue coste (Spagna, Portogallo, Francia, Inghilterra) e di un progressivo declino dell’Italia, che dalla centralità mediterranea aveva ricavato nelle epoche precedenti un indubbio punto di forza. Noi viviamo tuttora in una situazione modellata dal modo in cui questo ‘evento epocale’ si è realizzato: una regione politicamente frammentata come l’Europa ha preso l’iniziativa e ha stabilito contatti via mare con quasi tutte le altre regioni del pianeta, ha sottomesso alcune di queste regioni (America centrale e meridionale) attraverso l’occupazione fisica del territorio e la distruzione dei regimi politici prima esistenti e ha monopolizzato i commerci più redditizi di altre regioni (India, Indonesia). Due sono quindi gli aspetti decisivi di questa vicenda: il processo di esplorazione e di espansione è stato unilaterale - l’Europa alla scoperta del mondo- e si è svolto attraverso gli oceani. Il mare, e non la terra, si è rivelato il fattore di unificazione dell’umanità. Cosa spinse l’Europa fuori dell’Europa? Quali furono i motivi o i fattori che resero possibile l’avventura degli Europei oltre le colonne d’Ercole, aprendo la strada alla loro supremazia planetaria e alla storia da allora irreversibilmente interconnessa dell’umanità? Le ragioni dell’espansione occidentale, del folle volo, sono molteplici e complesse. Se confrontata con i grandi centri economico-politico-culturali del pianeta (Cina, subcontinente indiano, grande area musulmana), l’Europa ha una posizione periferica e subalterna: è una regione piuttosto piccola in termini puramente geografici, isolata all’estremo Occidente dalla massa di terre emerse rappresentate dall’Eurasia e dall’Africa, relativamente povera sul piano economico, debole e frammentata sul piano politico, in uno stato di guerra endemica, arretrata sul piano tecnologico-scientifico. Complessivamente, dunque, esisteva una situazione di inferiorità nei confronti dell’Oriente, che gli europei immaginavano come un luogo di ricchezze incredibili, in cui l’oro, l’argento, le spezie abbondavano e in cui trovavano incarnazione tutti i loro più profondi desideri inconsci. Proprio per questa condizione, reale e psicologica, è stato l’Occidente ad andare verso l’Oriente, e non viceversa. I cinesi e gli indiani non erano interessati a

raggiungere l’Occidente, essendo la loro civiltà complessivamente più evoluta e raffinata. Nel Medioevo i collegamenti tra Europa ed Oriente erano opera di singoli mercanti o viaggiatori, come i Marco Polo o i Giovanni da Pian del Carpine, senza un piano organico. Ma per realizzare le grandi scoperte non bastavano le iniziative dei singoli: c’era bisogno di altre condizioni e di altri protagonisti.

Certamente giocarono un ruolo le innovazioni nelle tecniche nautiche e, in particolare, della bussola, dell’astrolabio e degli altri strumenti di misurazione astronomica che consentirono di passare dal cabotaggio lungo le coste alla navigazione in mare aperto, come i progressi della cartografia e delle costruzioni navali. Proprio le carte nautiche rappresentano un importante capitolo della storia delle esplorazioni. La cartografia medievale conosceva tre tipi di carte: le carte regionali, le carte marittime e i mappamondi,

che rappresentano sia la terra nella sua totalità sia solo l’ecumene,cioè la totalità del mondo ritenuto abitato. I mappamondi erano divisi a T da due assi: quello verticale indicava il Mediterraneo, quello orizzontale il Nilo e il suo ‘prolungamento’, il Tanai (Don). All’interno dello spazio abitato, concepito come circolare, cioè perfetto, stava la croce cristiana, simbolo della redenzione. Al centro era collocata Gerusalemme, luogo di inizio della storia della salvezza. Il vero scopo di questi mappamondi non era di aiutare ad orientarsi sulla terra e sul mare fisici, ma facilitare la meditazione sul significato della vita umana: erano essenzialmente simbolici. Spetta alle città marinare italiane di aver compiuto la rivoluzione nel modo di concepire lo spazio, con la realizzazione delle prime carte nautiche che, seppure con difetti, descrivono lo spazio non più in modo simbolico, ma geometrico. L’atteggiamento nei confronti della natura non è più di contemplazione, ma di dominio: il mare è una via di comunicazione che va usata. Ma le innovazioni tecniche, per quanto condizioni indispensabili, non bastano di per sé a spiegare la sfida all’ignoto che portò alla conquista degli oceani: il fattore decisivo venne agli Europei da precise necessità economiche e politiche imposte dal mutato quadro internazionale che andava delineandosi nel corso del Quattrocento. L’ avanzata dei Turchi in Medio Oriente, culminata con la presa di Bisanzio nel 1453, sconvolgeva la linea tradizionale dei traffici e infliggeva un duro colpo alle fortune delle città italiane, in particolare Genova e Venezia. Ma ne risentiva anche il resto dell’Europa, che vedeva interrompersi il flusso di metalli e pietre preziose, sete e tessuti raffinati e soprattutto spezie. Era dunque un’esigenza vitale trovare nuovi collegamenti marini con l’Oriente che aggirassero il blocco dell’Impero Ottomano. Al di là delle esigenze economiche agiva anche l’impellente urgenza politica delle grandi monarchie nazionali di far fronte al dissesto finanziario provocato dalle crescenti spese per la creazione di apparati amministrativi e di eserciti moderni, che poteva essere bilanciato solo da nuovi afflussi di oro e metalli

preziosi. I monarchi europei erano perciò alla perenne ricerca di nuove risorse economiche, anche all’esterno dei loro regni. La politica di potenza degli Stati e l’agguerrita concorrenza delle economie furono dunque le forze che mobilitarono gli ingenti mezzi finanziari e le straordinarie energie che lanciarono l’Europa fuori dell’Europa. Ma gli Stati nazionali non furono gli unici artefici delle esplorazioni: ne furono protagonisti audaci marinai (i Colombo, i Vespucci, i Caboto, i Magellano, i Pastene...) e mercanti intraprendenti, spregiudicati avventurieri e missionari evangelizzatori. Le spinte espansive coinvolsero, dunque, ampi e variegati settori della società. La ‘rivoluzione commerciale’, a partire dall’Italia del Duecento, aveva visto il formarsi di una classe mercantile dalla mentalità innovativa e aperta, pronta a cercare e a cogliere ovunque occasioni di traffici e di profitto. Nel corso del Quattrocento avvenne, inoltre, una trasformazione culturale decisiva, che spinse gli europei a superare l’antitesi tra economia e religione, affari e fede, guadagno e salvezza. Gli europei si convinsero che la ricerca dell’oro e delle ricchezze orientali poteva essere conciliata con la fede cristiana, perché offriva sia nuove risorse per la ‘crociata’ sia l’occasione per convertire nuove popolazioni al cristianesimo. Lo stesso Cristoforo Colombo intendeva utilizzare i guadagni ricavati dalle sue scoperte per la liberazione del Santo Sepolcro a Gerusalemme. Inoltre, il profondo spirito religioso dell’epoca vedeva nella conversione delle popolazioni americane una novella crociata per il trionfo della fede. Vi sono anche spiegazioni di carattere sociale : in Spagna, ad esempio, con la fine della Reconquista e la cacciata di ebrei e moriscos (1492), le condizioni di vita di molti hidalgos (appartenenti alla piccola nobiltà) e contadini erano peggiorate e ciò favorì i sogni di avventura e di fortuna in terre lontane -le Indie- di cui si favoleggiavano le immense ricchezze. Infine, tra i fattori che spiegano lo slancio alla conquista di nuovi spazi, va considerato il carattere razionalistico, attivistico e sperimentale della nuova cultura umanistico-rinascimentale. Colombo forse non è il primo europeo a sbarcare in America, ma è certo il primo a giungervi sulla base di un progetto specifico, di un’ipotesi scientifica (la rotondità della terra) che lo spinse a “cercare l’Oriente da Occidente” e a trovarne la decisiva conferma sperimentale

Le conseguenze delle scoperte La scoperta dell’America, le altre scoperte geografiche e la colonizzazione causarono profonde trasformazioni ed ebbero conseguenze rivoluzionarie per la storia economica, politica, sociale e culturale dell’Europa. Dal punto di vista economico: • il progressivo spostamento del traffico commerciale dal Mediterraneo all’Atlantico determina un grave danno ai paesi mediterranei e in particolare alle repubbliche marinare italiane, che commerciavano con l’Oriente; • di conseguenza, si arricchiscono i Paesi bagnati dall’Oceano Atlantico, in primo luogo la Spagna, il Portogallo, l’Inghilterra e la Francia, tagliati fuori dalle linee del grande traffico mediterraneo con l’Oriente; • lo sviluppo delle marine mercantili dei vari Paesi e la formazione di enormi capitali da parte di potenti compagnie commerciali, che favorirono la nascita del capitalismo; • l’afflusso in Europa dalle miniere del Messico e del Perù di enormi quantità di oro e argento, che, trasformate in denaro circolante, provocarono un’inevitabile crisi, nota come rivoluzione dei prezzi; • la trasformazione della produzione agricola, determinata dal trapianto nel Nuovo • Mondo di prodotti europei (vite, lino, canapa, caffè, canna da zucchero, ecc..) e dalla importazione dall’America di prodotti sconosciuti in Europa: mais, pomodoro, patata, tabacco. Dal punto di vista politico: • la formazione di vasti imperi coloniali (spagnolo, portoghese, inglese, olandese e francese); • lotte e guerre tra le maggiori potenze per assicurarsi il dominio sulle nuove terre ed eliminare con la forza delle armi ogni possibile concorrente. Dal punto di vista sociale:

• la tendenza all’emigrazione di avventurieri attirati dalla speranza di facili guadagni o di persone alla ricerca di un lavoro o che volevano sfuggire a persecuzioni politiche o religiose; • l’ascesa impetuosa della ricca borghesia degli affari a tutto danno della nobiltà, costretta a vivere di rendita e a veder diminuire il proprio potere e prestigio; • il conseguente mutamento di molte usanze e consuetudini di vita; • l’estinzione totale o parziale di molte popolazioni dell’America meridionale; • l’importazione degli schiavi dall’Africa. Le grandi scoperte ebbero un impatto di grande portata anche sulla cultura europea , aprirono a nuove esperienze e campi di riflessione, incrinarono modelli dottrinari e convinzioni millenarie. Con l’accesso all’Oceano Indiano e il periplo dell’Africa svanivano gli orizzonti onirici e leggendari della geografia medievale e con la scoperta dell’America e la circumnavigazione del globo si modificava radicalmente l’immagine del mondo, che prendeva ora una forma chiusa e definita nei suoi confini estremi. Con la dimostrazione della sfericità della terra e dell’esistenza di terre abitate anche nell’altro emisfero, si avvia al definitivo tramonto la cosmografia aristotelico-tolemaica: esplorando la terra, i grandi viaggi oceanici ridefinirono lo spazio planetario, primo atto di quel processo di costruzione della moderna visione dell’intero spazio cosmico che sarebbe stata realizzata, un secolo dopo, dalla scienza galileiana. Sviluppo delle scienze fisiche e naturali, conoscenza di nuovi principi relativi all’astronomia e alla geografia, costruzione di carte nautiche di estrema precisione furono effetti culturali di notevole importanza; ma la novità più sconvolgente per gli Europei, la più difficile da accogliere entro la propria cultura, fu la scoperta degli abitanti del Nuovo Mondo, la scoperta dell’ “altro”. L’esistenza di quella umanità sconosciuta urtava contro gli schemi tradizionali, fondati sulla Bibbia, della storia del genere umano: da dove venivano gli indios?, erano discendenti di Adamo?, come si conciliavano con la cronologia biblica e le stirpi di Noè?, Cristo aveva salvato anche loro?. Oltre al problema teologico, si poneva il confronto con la diversità radicale dei loro usi e costumi, e in particolare della vita delle tribù primitive organizzate in società senza Stato e senza proprietà privata, che spinse a catalogarle sotto l’ambigua categoria del “selvaggio”, ai confini o al di sotto della piena umanità. Le popolazioni nere dell’Africa non suscitarono uguali impressioni o interrogativi: erano da tempo conosciute e, inoltre, occupavano un posto preciso nella tradizione biblica (discendenti di Cam). L’incontro con gli Indiani d’America, invece, costituì uno snodo fondamentale per la cultura europea. Dalla scoperta della pluralità e diversità delle culture e civiltà umane, dopo lo shock iniziale, nacquero ampie riflessioni antropologiche che influenzarono le utopie sociali del Rinascimento (Tommaso Moro, Campanella), con le suggestioni derivate dal comunismo dei beni praticato da quei popoli lontani, e il

pensiero politico moderno nelle sue teorizzazioni intorno allo ‘stato di natura’ e alla ‘società civile’ (da Hobbes a Locke a Rousseau). Gli orizzonti culturali europei, dunque, si allargano: da un lato il mondo, senza più barriere, diventava universalmente percorribile e conosciuto, dall’altro si dilatava in direzione di una storia universale che comprendeva l’intera umanità.

Scheda L’orizzonte onirico L’occidente medievale aveva una scarsa conoscenza dell’Oceano Indiano, un mare chiuso, dominio riservato degli arabi, dei persiani, dei cinesi. I viaggiatori occidentali spesso l’hanno sfiorato, passando a Nord, per la via

mongola, ma ne hanno parlato in toni favolistici, raccontando cose meravigliose in realtà mai viste, rafforzando così l’ignoranza degli occidentali. L’Europa preferisce immaginare gli altri mondi, sognarli a misura delle sue esigenze, cosicché le Indie diventano il luogo dei suoi sogni e della liberazione delle

sue inibizioni, il luogo di tutte le delizie, del paradiso terrestre oppure il luogo dei mostri, degli esseri strani. La prima cosa che si narra delle Indie è la ricchezza favolosa: l’Oceano Indiano sembra essere la sorgente di tutti i beni della terra; qui si trovano le “isole fortunate”, dodicimilasettecento, secondo Marco Polo, e una enorme quantità di metalli preziosi, di legni e pietre preziose, di spezie. I governanti sono giusti e magnanimi, tolleranti verso tutti i culti: pagani, musulmani, buddisti, cristiani possono convivere in pace .E’ un modo di popoli ‘virtuosi’, come si legge anche nel “De vita solitaria” del Petrarca. Ci sono tuttavia racconti fantastici di altra natura. Odorico da Pordenone racconta di uomini crudeli, di padri che mangiano i figli e viceversa, di uomini che vivono come selvaggi, senza leggi, senza indumenti, senza pudore. Secondo altri racconti, le Indie pullulano di esseri fantastici e mostruosi: creature per metà umane e per metà bestiali, con i piedi girati all’indietro o con la testa da cani; bambini che nascono con i capelli bianchi e muoiono con i capelli nerissimi; corpi con un piede solo che s’innalza a ombrello; un solo occhio sulla fronte... Il mondo animale non è meno vario e fantastico: ecco la leucocroca, un po’ asino, un po’ cervo, un po’ leone; o la mantichora, dal muso umano e dalla coda di scorpione, sibilante come un serpente; o i draghi, posti a custodia dei tesori. Nei racconti europei sulle Indie si incontrano altre meraviglie: fontane dell’eterna giovinezza, alberi sempreverdi, panacee per tutti i mali, la fenice immortale, il liocorno, gli alberi parlanti, l’albero-sole e l’albero-luna. Non poteva essere diversamente per una terra in cui Dio aveva posto il Paradiso terrestre. E’ anche una delle ragioni per cui l’Occidente guarda alle Indie con tanta curiosità: trovare il passaggio al Paradiso terrestre che la tradizione situava ai confini dell’India, nella montagna da cui nascevano i

quattro grandi fiumi della fecondità asiatica e mediterranea: il Gange, il Tigri, l’Eufrate e il Nilo. L’Occidente immaginava perché non conosceva e occultava l’ignoranza con una esplosione di sogni. Ciò che gli Europei raccontano delle Indie non riguardava le Indie, bensì le speranze, le attese, i drammi, le paure della cultura dell’Occidente, che si confessa e si libera. Così le Indie ricche e opulenti sono il risvolto della grande povertà europea; allo stesso modo, un’Europa dominata da iniquità e oppressa da regnanti ottusi e intolleranti sogna una terra giusta e magnanima, governata da sovrani illuminati. Di fronte alla rigida morale imposta dalla Chiesa, alla sessuofobia imperante, l’uomo europeo è sedotto dall’idea di un mondo liberato da tutti i tabù, da tutte le proibizioni e che pratica la libertà sessuale, la nudità, la poligamia. Anche il presentare una natura bizzarra, fatta di mostri inverosimili e di alberi esotici significa immaginare una realtà infinitamente più ricca e affascinante di quella dell’Occidente. Il sogno comune è quello della scoperta di un luogo perfetto, di un Paradiso terrestre, in cui l’umanità ritrovasse la felicità perduta. Le visioni oniriche delle Indie non sono sempre identiche nel tempo: la prospettiva meravigliosa e ottimistica prevale nei secoli di ascesa dell’Europa come il Duecento, mentre quella pessimistica si afferma quando l’Europa deve rinchiudersi in se stessa: nel Tre-Quattrocento il bel sogno dell’Oriente si rovescia esprimendo tutte le paure di cui soffre l’Europa e diventa il paese dei mostri, degli uomini senza bocca, dei Ciclopi pronti a scatenarsi contro la cristianità. A lungo andare, l’Europa, se voleva sopravvivere, non poteva più limitarsi ai sogni, quali che fossero. Le Indie restavano la culla del mondo, la porta del Paradiso terrestre, il luogo più vicino a Dio, il deposito di tutte le ricchezze e di tutti i tesori della terra, la meta di ogni aspirazione umana e insieme religiosa. Se esse non ‘arrivavano’ più all’Europa - in termini di merci, beni, speranze, sogni appaganti - doveva essere l’Europa a muoversi per andare ad esse, per farle sue. Ed è appunto il tentativo di raggiungere le Indie per una via che non fosse più quella ormai sbarrata del Mediterraneo a portare alla scoperta dei nuovi mondi dell’Africa e delle Americhe

LE DIRETTRICI DELLA CONQUISTA

ESPLORAZIONE DELL'ASIA E DELL'AFRICA I viaggi di esplorazione furono inizialmente intrapresi dai missionari e dai mercanti. Verso la metà del Duecento il francescano Giovanni Da Pian del Carpine arrivò alla corte del Gran Khan in Mongolia. Sulle sue orme si avventurarono nel 1271, i mercanti veneziani Matteo e Niccolò Polo e il loro nipote, Marco. Nel 1291 Ugolino e Guido Vival di tentarono di raggiungere la via delle Indie circumnavigando l'Africa, ma non fecero ritorno. Tra i principali fattori che sollecitavano la ricerca di nuove vie per raggiungere l'Oriente vi erano: la concorrenza con Venezia, che deteneva il monopolio delle spezie; l'aumento della popolazione; il miglioramento del tenore di vitae il conseguente aumento della domanda di beni di lusso, reperibili nei mercato orientali; la necessità di aggirare il blocco delle vie terrestri per l'Asia attuato dai turchi ottomani. Il re portoghese Enrico I, ben consapevoli degli enormi vantaggi economici che sarebbero derivati dalle scoperte geografiche, incoraggiò le esplorazioni di Bartolomeo Diaz , che nel 1488 arrivò al Capo di Buona Speranza, e di Vasco De Gama, che nel 1498 raggiunse l'India dopo aver circumnavigato l'Africa. Nel XVI secolo il Portogallo ottenne il controllo dei commerci con l'Oriente e creò centri fortificati lungo le coste dell'Africa e dell'Asia, raggiungendo perfino la Cina e il Giappone. LA SCOPERTA DELL'AMERICA Basandosi sul principio della sfericità della Terra, il genovese Cristoforo Colombo volle tentare di raggiungere le Indie procedendo in linea retta verso l'occidente. La regina Isabella di Castiglia, preoccupata per l'intraprendenza esplorativa e commerciale dei Portoghesi, lo aiutò a realizzare il suo progetto. Il 12 ottobre 1492 Colombo giunse nell'arcipelago delle attuali Bahamas; in seguito scoprì le isole di Cuba e Haiti e, nei tre viaggi successivi (tra il 1493 e il 1502), le Piccole Antille e le coste dell'America del Sud. Con il Trattato di Tordesillas (1494) Spagna e Portogallo si spartirono il Nuovo Mondo fissando lungo l'Atlantico un immaginaria linea di demarcazione: i Portoghesi si attribuirono la parte orientale, gli Spagnoli quella occidentale. Sulle orme di Colombo si avventurarono altri navigatori: il veneziano Giovanni Caboto , al servizio dell'Inghilterra, che scoprì le coste si Terranova e del Canada (1497-1498); Pedro Alvares Cabràl (Portogallo),che prese possesso del Brasile (1500), Vasco Nunez de Balboa (Spagna), che superò l'Istmo di Panama e giunse fino all'Oceano Pacifico (1513); Ferdinando Magellano (Portogallo), la cui spedizione compì la prima circumnavigazione del globo; il fiorentino Giovanni da Verrazzano , che si addentrò nell'America settentrionale (1524), nella quale si sarebbe insediata l'Inghilterra; il francese Jacques Cartier, che si avventurò nel Canada, aprendo la strada all'occupazione francese della regione (1535-1536).

I CONQUISTADORES: UNA STORIA DI ATROCITA' La scoperta delle nuove terre non tardò a trasformarsi in appropriazione e a dare luogo a massacri e maltrattamenti della popolazione e al saccheggio delle risorse del territorio. I conquistadores spagnoli, avventurieri senza scrupoli assetati di ricchezze, si distinsero per brutalità e perfidia. Tra di essi spicca la figura di Hernàn Cortès , che tra il 1519 e il 1524 distrusse la civiltà azteca, fiorente nell'altopiano messicano. Tra il 1524 e il 1547 Francisco de Monbtejio sottomise le prospere città- Stato dei Maya (nell'attuale Guatemala), medesima sorte toccò tra il 1531 e il 1536 al ricco impero degli Incas (Perù) per mano di Francisco Pizarro e Diego de Almagro. La monarchia spagnola intervenne per stabilire la propria autorità sui territori in mano ai conquistadores e istituì il Consiglio supremo delle Indie, un organo amministrativo, giudiziario ed ecclesiastico che non fece legittimare le condizione di sopraffazione, violenza e sfruttamento nelle quali era ridotta la popolazione locale. Il territorio conquistato fu diviso in feudi (encomiendas) e ai funzionari della corona fu concesso il diritto di sottoporre ai lavori forzati la popolazione non residente nelle encomiendas. In seguito alle denunce da parte di alcuni missionari delle violenze perpetrate sugli indigeni, il re di Spagna si decise a intervenire: furono creati due vicereami (Nuova Spagna e Perù) con funzione di controllo sulle attività dei conquistadores e promulgate le Nuove Leggi, per la difesa degli indigeni contro gli abusi. Nel 1530 i Portoghesi colonizzarono le coste del Brasile. Sull'esempio delle encomiendas spagnole anche il territorio brasiliano fu diviso in capitanie, ciascuna con il proprio donatario. La conquista del Cile In Cile arrivarono ondate di conquistadores, alla ricerca del mitico Eldorado. Il primo di questi fu Diego de Almagro, che nel 1535 intraprese una spedizione nei territori meridionali dell’impero inca, per i quali aveva ottenuto un governatorato e dove sperava di trovare un tesoro più grande di quello di Atahualpa. Ma qui incontrò un'organizzata resistenza delle popolazioni indigene, così nel 1537 ritornò in Perù. Successivamente, dopo aver partecipato a spedizioni in Venezuela e Perù al fianco di Pizarro, si diresse in Cile Pedro de Valdivia, dove, nonostante le grandi difficoltà dovute all’ambiente e all’ostilità degli indios, riuscì a fondare numerose città. Pedro stava consolidando la conquista, quando nel 1535 incontrò la fiera resistenza degli araucani che lo uccisero a Tucapel. Nel 1557 il vicerè del Perù nominò nuovo governatore del Cile il figlio Garcia Hurtado de Mendoza, che continuò senza risultato la lotta contro gli araucani: la guerra araucana continuerà così fino alla fine del XIX secolo

ANNO ESPLORATORE AL SERVIZIO

DI SCOPERTE

1484 Diego Cao Portoghesi Raggiunge le coste del Congo E annuncia di aver visto la costa più

a sud piegare verso est. 1487 Bartolomeo Diaz Portoghesi Varca casualmente il capo di Buona Speranza, entrando per

la prima volta nell’Oceano Indiano.

-1492 1° viaggio

-1493/1496 2° viaggio

-1498/1500 3° viaggio

-1502/1504 3° viaggio

Cristoforo Colombo Spagnoli Nel 1492 Colombo sbarca nell’isola di San Salvador. Nel secondo viaggio scopre Puerto Rico, Domenica,

Antigua, Guadalupa e Giamaica. Durante il terzo viaggio Colombo raggiunge le coste

dell’America meridionale. Nel 1502/1504 compie un altro viaggio nel continente da lui

scoperto.

8 luglio 1497 Vasco De Gama

Portoghesi Traccia la rotta orientale per le Indie.

Marzo 1500 Amilcar Cabral Portoghesi Scoperta del Brasile

-1499 1°viaggio

-1502 2° viaggio

Amerigo Vespucci Spagnoli Costeggia il Brasile, giungendo fino in Patagonia.

1509 Sebastiano Caboto Inglesi Si spinge fino alla Baia di Hudson.

1519 Ferdinando Magellano Spagnoli Trova un passaggio tra le isole a sud della Patagonia, entra nel Pacifico attraverso quello stretto, riesce ad attraversarlo

giungendo all’Oceano Indiano da est.

Viaggi e scoperte: Cronologia

1415: I portoghesi conquistano Ceuta, località del Marocco, di fronte a Gibilterra.

1416: Enrico il Navigatore fonda a Sagres un arsenale, un osservatorio e una scuola nautica e cartografica 1416 I navigatori portoghesi raggiungono Madera e Porto Santo 1444: Il portoghese Nuno Tristao raggiunge le foci del Senegal. 1455: Alvise Cà da Mosto raggiunge l'arcipelago di Capo Verde. 1469: Il portoghese Fernao Gomes naviga lungo le coste di Liberia, Costa d'Avorio e Ghana. 1481: Costruzione in Ghana del primo grande avamposto portoghese in Africa equatoriale 1482: Esploratori portoghesi raggiungono le foci del Congo.

1487: Bartolomeo Diaz doppia il Capo di Buona Speranza.

1492: Cristoforo Colombo sbarca sul continente americano, a Guanahani (San Salvador). 1493/1494: Colombo esplora le coste dell'isola di Cuba. 1497: Il veneziano Giovanni Caboto, al servizio della corona inglese, scopre il continente nordamericano; probabilmente avvista Terranova. 1498: Vasco de Gama apre la via marittima per le Indie. Colombo raggiunge le foci dell' Orinoco, e l'Istmo di Panama. 1499: Amerigo Vespucci con lo spagnolo Alonzo de Ojeda, raggiunge il Rio delle Amazzoni. 1500: Il portoghese Pedro Alvarez Cabral avvista le coste del Brasile. 1501/1502: Vespucci, con la spedizione portoghese comandata da Gonzalo Coelho, naviga lungo la costa del Sud America e raggiunge le foci del Rio della Plata. 1507: Viene pubblicato ad opera del cartografo Martin Waldseemuller, il primo planisfero che disegna le coste americane come parte di un nuovo continente staccato dall’Asia 1513: Lo spagnolo Vasco Nunez de Balboa, raggiunge l'Oceano Pacifico dopo aver attraversato l'Istmo di Panama. 1516: Primo punto di appoggio portoghese a Canton 1518: Il Banco dei Fugger finanzia l’impresa di Magellano 1519/1522: La spedizione guidata da Ferdinando Magellano compie la prima circumnavigazione della Terra. 1523: Giovanni da Verrazzano esplora le coste dell'America settentrionale, spingendosi fino all'altezza dell'attuale New York. 1527: Juan de Saavedra scopre la rotta del Messico occidentale alle Molucche attraverso il Pacifico. 1534: Jacques Cartier scopre la Baia di San Lorenzo e si spinge nell 'interno del Canada fino all'attuale Montreal.

IL COMANDANTE GIOVANNI BATTISTA PASTENE Giovanni Battista Pastene, marinaio genovese, nasce nel 1507 da Tommaso, navigatore, ed Esmeralda Solimana, di origine araba; ha due fratelli e una sorella. Dopo l’ avventurosa esplorazione delle coste australi del Cile e la fondazione del villaggio ‘Capitan Pastene’, si sposa a Panama o a Quito con Ginevra de Ceio, imparentata con un conquistatore del Perù. Tornato in Cile, la sua diventa una delle famiglie più prestigiose e rispettabili della Conquista. Ha cinque suoi figli, che occuperanno posti di prestigio e si imparenteranno con le principali famiglie di conquistadores. Anche i suoi nipoti formeranno una estesa famiglia che, nel secolo XVII, conta magistrati, alti prelati, governatori, ecc..con una grande influenza sulla società cilena.

Nell’aprile del 1543 Pastene viene invitato in America Latina dal governatore del Perù, Cristobal Vaca de Castro, per soccorrere con vettovaglie, armi e attrezzature di ferro il conquistador Pedro di Valdivia, uomo di fiducia di Pizarro, in grave difficoltà nel tentativo di conquistare il sud del Cile dopo l’incendio e la distruzione della città di Santiago nel 1541. Il governatore Cristobal cercava una persona abile, fidata e ricca di esperienza che navigasse lungo le coste del Cile e avvisasse Valdivia dell’arrivo di navi francesi attraverso lo stretto di Magellano. Il marinaio Pastene giunge nel porto di Valparaiso nel luglio del 1543 al comando della nave San Pedro; viene nominato capitano e gli viene affidato un

altro importante incarico: la vigilanza del litorale infestato dai pirati inglesi e olandesi nel corso della guerra tra la Francia e l’imperatore Carlo V. Il capitano Pastene doveva risolvere anche un grave problema: la comunicazione rapida tra queste regioni del Cile e il governatore che risiedeva a Lima. A causa di questa difficoltà di comunicazione, a mille leghe di distanza, in zone desertiche e piene di pericoli, la spedizione spagnola in Cile aveva rischiato più volte di essere annientata, sopraffatta dagli attacchi degli indios e dalla durezza degli inverni. La nave San Pedro resta ferma per una quindicina di giorni nella baia di Valparaiso, senza che la notizia giunga a Santiago, poiché i forti temporali, le intemperie e la scarsa conoscenza della strada per la capitale impediva di avvertire Valdivia. Alla fine, in agosto, dopo circa un mese dall’arrivo di Pastene a Valparaiso, un indio accetta di recarsi a Santiago per dare la notizia. Pedro di Valdivia si reca subito a Valparaiso con un gran seguito di funzionari per incontrare Pastene, diventa suo amico, e si rende conto che il genovese è un vero marinaio, un navigatore esperto, un capitano di guerra, al quale si può affidare un incarico delicato: l’esplorazione e la conquista, in nome di sua maestà, del terre costiere ancora inesplorate, fino allo stretto di Magellano. Valdivia, che ha il titolo di “governatore e capitano generale del mare”, nomina Pastene “tenente del governatore” e “capitano del mare” e il 3 settembre, alla vigilia della partenza del San Pedro, con una solenne cerimonia gli consegna lo stendardo reale e dichiara fondata la città di Valparaiso. Il giorno successivo, dopo aver fatto giuramento nelle mani del governatore Valdivia e avergli reso omaggio, capitan Pastene parte dal porto di Valparaiso con trenta uomini e

un’altra imbarcazione da guerra per scoprire, in nome di sua maestà, la costa australe del Cile fino allo stretto di Magellano. Il San Pedro naviga per tredici giorni seguendo sempre la costa, di notte solo con una vela per timore dei forti venti di nord-est e del cielo sempre più minaccioso. Il 17 settembre, in un giorno finalmente di sole e relativamente tranquillo, l’equipaggio si avvicina alla terraferma, getta l’ancora e, in nome di Dio, di sua maestà e del governatore, fonda il porto di San Pedro, in onore della propria nave e del nome di Valdivia. Senza scendere a terra, poiché l’ora era già tarda, capitan Pastene può vedere dalla nave una tribù di indios e terre coltivate. Il giorno dopo, all’alba, il capitano con alcuni ufficiali e soldati, oltre al notaio, giunge sulla terraferma, dove si erano radunati, con intenzioni pacifiche, alcuni indios attratti dalla novità di una nave così grande. Pastene, per precauzione, lascia tre compagni sull’imbarcazione, pronti in caso di ritirata forzosa. Per potersi avvicinare ai 13-14 indios che erano sulla spiaggia, gli spagnoli mostrano loro alcuni oggetti; il capitano genovese ordina di prendere per mano due donne e due uomini indios dichiarandoli suoi ostaggi e attraverso di loro prende possesso di tutti gli indios, della loro terra, in nome del governatore Valdivia e di Carlo V. Nel corso di una solenne cerimonia, di fronte al notaio, tagliando con la spada molti rami, strappando con le mani erba e bevendo acqua del ruscello Lepileudo, il capitano Pastene dichiara ad alta voce di prendere possesso degli indios, delle loro terre e dell’intera regione; incide su un albero e in terra tre croci, mentre tutti si inginocchiano e ringraziano Dio. Ancora oggi la baia del porto di San Pedro conserva il nome del suo scopritore, Capitan Pastene: si trova nella provincia di Valdivia, a sud della foce del Rio Bueno. Il nome indigeno di questa regione era Lepilmapu. Gli esploratori, presi i quattro indios in ostaggio, tolgono le àncore e si dirigono per il ritorno verso Nord, viaggiando lentamente con solo una vela. Giunti nei pressi di un promontorio, scendono a terra per prendere possesso ufficiale anche di quella regione e ritornano sulla nave con una pecora donata dagli indios. Il giorno dopo, 22 settembre, capitan Pastene scende a terra con 20 soldati, poiché sulla riva c’erano più di mille indios: ne prende alcuni in ostaggio, mentre gli altri scappano e si rifugiano nella boscaglia; ripete la cerimonia del possesso di quella zona, a cui dà il nome di ‘Punta San Matteo’ e che oggi è indicata sulle mappe come ‘Punta Galera’. La spedizione riparte con gli ostaggi e con venti pecore e, navigando a vista, giunge lunedì 22 settembre alla foce del rio Ainilebo, a cui dà il nome di “rio Porto di Valdivia”; dal mare il capitano dichiara possedute quelle terre, così come l’isola di Chiloè, che incontra navigando verso nord. Il giorno 26 o 27, l’equipaggio arriva alle foci del Bìo-Bio, in provincia di Rauco, che confina con la provincia di Itata, possesso di Valdivia. In realtà lo scopritore della regione di Bìo-Bio e il fondatore della città di Concepciòn, fu capitan Pastene, poiché Valdivia non aveva mai effettuato alcuna spedizione a sud di Itata: due suoi capitani avevano raggiunto un mese prima di Pastene le sponde del Maule e del rio Itata. Il 30 settembre, dopo 27 giorni di navigazione, il San Pedro giunge nel porto di Valparaiso, dopo aver scoperto ed esplorato 180 leghe di costa australe e i suoi principali porti e fiumi. Con questa importante spedizione il capitano Pastene segnalò al conquistatore del Cile, Pedro di Valdivia, la via da seguire per consolidare le conquiste già attuate e per fissare, anche se in modo impreciso, i confini del suo governatorato.

SCONTRO FRA DUE CIVILTA'

LA RAPIDA SCONFITTA DELLE POPOLAZIONI INDIGENE La rapidità con cui gli spagnoli vinsero e sottomisero le civiltà amerindie è da attribuire a diversi fattori:

• Superiorità negli armamenti e il diverso codice guerriero degli spagnoli: le armi da fuoco davano ai conquistatori una grande superiorità di ordine psicologico ed una maggior possibilità di combattere a distanza; i cavalli, poi, indispensabili e veloci mezzi di trasporto e di battaglia, crearono negli Indios un impatto psicologico di paura e di rispetto; l’uso dell’acciaio, infine, consentiva armi molto più resistenti.

• Arrivo di malattie sconosciute portate dagli europei e per le quali gli indigeni non avevano sviluppato difese immunitarie, come, ad esempio, vaiolo, morbillo, influenza

• Contrasti interni alle civiltà amerindie. In Perù era in corso una lotta per la successione al trono; in Messico la dominazione azteca aveva suscitato l’inimicizia di molte popolazioni sottomesse

• Incapacità di comprendere il comportamento individualistico e imprevedibile degli spagnoli sa parte di società più statiche e ritualizzate

• Le concezioni religiose di alcune popolazioni indie che credevano nel ritorno degli antichi dei civilizzatori e attribuivano importanza a presagi e segni funesti.

• L’ evangelizzazione come forma complementare di aggressione La conquista spagnola dei territori dell'America

centrale e meridionale si realizzò con una violenza brutale che si può spiegare tenendo conto di vari elementi:

• I conquistatori desideravano arricchirsi in breve tempo per ottenere non solo agiatezza e lusso, ma anche onore e prestigio sociale. Le enormi ricchezze esaltarono questi uomini fino alla follia.

• Molti conquistatori, reduci dalle violenze della Reconquista, giustificate in nome della lotta contro gli infedeli, le riprodussero in questa nuova impresa, che vivevano come nuova tappa dell’evangelizzazione.

• La solitudine in un mondo sconosciuto e la distanza dalla patria, dal suo controllo sociale oltre che giuridico, fecero sì che i conquistatori “dimenticassero” le loro leggi, anche quelle morali

La scoperta dell’ “altro” : prime descrizioni dal

‘Nuovo Mondo’ Dai diari e resoconti degli esploratori, giunsero in Europa, le prime immagini di un mondo sconosciuto e misterioso. Le prime osservazioni ci vengono dal giornale di bordo e dalle lettere di Colombo. Egli, tuttavia, prestò maggior attenzione all’ambiente naturale che agli esseri umani, di cui, fra l’altro, non comprende il diverso sistema di valori: l’uomo non è oggetto di approfondite riflessioni e osservazioni. Gli europei che successivamente descrissero le popolazioni amerindie mostrarono lo stesso atteggiamento di Colombo: essi non colsero gli aspetti più profondi dei loro costumi e della loro organizzazione e la logica interna al loro modo di vivere. Si limitarono agli aspetti più evidenti e maggiormente contrastanti con la mentalità europea, come la nudità, il cannibalismo, le pratiche sessuali, le concezioni e pratiche religiose. Dopo l'inferno della navigazione, con le sue paure e i suoi pericoli, dalle dimensioni epiche, Vespucci racconta: «noi navigammo sessantasette giorni nei quali avemmo aspra e crudel fortuna perciochè nei quarantaquattro giorni, facendo il cielo grandissimo romore e strepito, non avemmo mai altro che baleni, tuoni, saette e piogge grandissime; e una oscura nebbia aveva coperto il cielo di maniera che di dì e di notte non vedevamo altramente che quando la luna non luce e la notte è di grandissima tenebre offuscata. E perciò il timor della morte ci sopravvenne di modo che già ci pareva quasi di aver perduta la vita.» L'approdo alle nuove terre suscitano alla meraviglia degli scopritori l'immagine del Paradiso Terrestre: «Li alberi sono di tanta bellezza e soavità che ci pensavamo di essere nel Paradiso teresto […] tutti rendono odore tanto soave che nono si puote immaginare, e per tutto mandano fuori gomme e liquori e sughi: e se noi conoscessimo la loro virtù, penso che niuna cosa ci fusse per mancare, non pur in quanto ai piaceri, ma in quanto al mantenerci sani e al recuperar la perduta sanità. E se nel mondo è alcun paradiso terrestre, senza dubbio dee esser non molto lontano da questi luoghi.»

Colombo: «l'amenità e la frescura di questo fiume […] come la moltitudine delle palme di varie guise, e le più belle e alte che io abbia ancora trovate, e gli altri alberi infiniti, grandi, e verdi, e gli uccelli, e la verdura del piano mi consigliavano a deliberar per sempre di fermermici. Questo paese […] è in tanta meraviglia bello, e così supera ogni altro d'amenità e di vaghezza come il giorno vince di luce la notte […] quel luogo è il paradiso terrestre, dove nessuno può giungere se non per volontà divina.» I navigatori che esplorarono il Nuova Mondo rimasero incantati dalla flora e dalla fauna esotiche:

v Variopinti pappagalli v Iguane, di cui gli indigeni si nutrivano v Ostriche v Tartarughe v Varie specie di pesci

Su questo scenario favoloso si iscrivono le prime osservazioni etnografiche degli abitanti del Nuovo Mondo: si trattava di tribù primitive di cui gli scopritori descrivono usi e costumi, utensili e abitazioni, insistendo sull’aspetto fisico e sulla loro nudità. Queste le prime osservazioni di Colombo: “Vanno nudi come madre li ha fatti, anche le donne... Erano molto ben fatti, con corpi molto belli e volti molto graziosi. I loro capelli sono grossi e quasi simili alla coda di un cavallo” Gli indigeni compaiono come parte del paesaggio naturale, ed è significativa la descrizione di Vespucci: “Vegniamo alli animali razionali. Trovamo tutta la terra essere abitata da gente iniuda, così li uomini come le donne, di vergogna nessuna...Non tengono né legge né fede nessuna. Vivono secondo natura. Non conoscono immortalità d’anima. Non tengono infra loro beni propri, perché tutto è comune. Non tengono termini di regni o di provincia; non hanno re, né ubidiscono a nessuno: ognuno è signore di sè. Non amministrano giustizia, la quale non è loro necessaria, perché non regna in loro codizia. Abitano in comune in case fatte a uso di capanna molto grande......case mirabolose, perché ho visto case che sono lunghe 220 passa e larghe trenta, e artificiosamente fabricate”. E’ il ritratto perfetto dello stato di natura , della condizione pre-civile di cui primo segno è la nudità dei corpi. Nel comportamento degli indigeni colpisce anche la grande generosità. Così Vespucci: “...E noi mossi dalla loro bontà e innocentissima natura.....dimorammo quindici e venti giorni, perciochè essi sono molto cortesi in albergare i forestieri” e Colombo: “E’ impossibile credere che qualcuno abbia mai visto un

popolo con tanto cuore e timoroso come questo, che si priva di ogni cosa per dare ai cristiani tutto ciò che possiede”

Ma la disponibilità degli indigeni a scambiare oro e perle con specchi, sonagli o collanine di vetro, è spesso considerata prova di stupidità: non sfiora l’idea di un altro ordine di valori e convenzioni (presso gli indios l’oro aveva un valore puramente ornamentale), la diversità appare segno di inferiorità. Ugualmente la loro mitezza sconfina con la codardìa o con l’attitudine alla sottomissione. Scrive Colombo ai sovrani di Spagna: “Non appena vedevano i miei avvicinarsi, subito fuggivano....Dieci uomini avrebbero potuto mettere in fuga diecimila di quegli abitanti....Sono

anche disposti a farsi guidare e ad essere mandati a lavorare la terra e ad adottare i nostri costumi” Colombo non esiterà a rapire alcuni indigeni per esibirli alla corte di Spagna: ridurre gli indigeni a oggetti e trattarli come esemplari da esibire è preludio all’azione coloniale, di asservimento predatorio, che stava per imporsi nel Nuovo Mondo.

Gli spagnoli che vennero in contatto con i grandi stati amerindiani ci hanno lasciato descrizioni più precise e piene di ammirazione, anche perché queste civiltà erano molto più ricche di quelle scoperte da Colombo. Cortès guarda con stupore la città di Tenochtitlàn, le sue costruzioni, l’ordine e l’organizzazione. Tuttavia c’è sempre un atteggiamento di “non comprensione” dell’altro; le descrizioni riguardano essenzialmente gli oggetti, non le persone; degli aztechi Cortès ammira le abilità artigianali e artistiche, ma non li considera di fatto esseri umani uguali a lui, ma solo abili produttori che è conveniente sottomettere in nome dell’autorità reale. Un caso unico, tra gli spagnoli che sbarcarono in America, è quello di Gonzalo Guerrero che, dopo essere naufragato sulle coste dello Yucatan, visse tra gli indios, ne adottò i costumi, la lingua e le tradizioni e morì combattendo contro gli spagnoli

La scoperta dell’ “altro” : uomini o ‘bestie’?

La scoperta dell’America fu anche scoperta degli Americani. Ma l’incontro coincise con la loro distruzione, fisica e culturale: molti studiosi vi hanno visto il primo genocidio della storia moderna. La ricerca di ricchezze, di terra, di potere è all’origine della conquista spagnola. Ma a spiegare la violenza estrema con cui essa si realizzò è necessario chiamare in causa i quadri mentali e le giustificazioni ideologiche che resero possibili le azioni e i comportamenti dei conquistatori. Nella rappresentazione degli indios che ci testimoniano i documenti dell’epoca, cogliamo qualcosa di più della semplice idea dell’infedele da combattere: la discussione antropologica si sposta sul terreno dell’inclusione o dell’esclusione dai confini dell’umano, a partire da una percezione assai più radicale della loro diversità; se talora gli indios poterono evocare l’immagine dell’innocenza primigenia e la condizione del paradiso perduto o dell’età dell’oro, più spesso furono visti come creature a mezza strada fra i sottouomini e gli animali bruti. Nelle descrizioni di Vespucci, che abbiamo ricordato, la nudità, l’antropofagia, la sfrenatezza sessuale, l’assenza di leggi e il possesso comune dei beni danno

corpo allo stereotipo dell’indio come ‘selvaggio’, espressione conturbante della libertà naturale. Tale immagine veniva rafforzata dai racconti di Cortès sull’antropofagia e i sacrifici umani degli aztechi. Così si esprimeva il frate domenicano Tommaso Ortiz, che chiedeva la riduzione in schiavitù delle popolazioni messicane nel 1524: “Tra di loro non esiste alcuna giustizia, vanno in giro nudi, non provano né amore né vergogna, son come asini, stupidi, dementi, insensati......sono stregoni, indovini, negromanti; sono codardi come lepri, osceni come porci; mangiano pidocchi, ragni, vermi crudi dovunque li trovino; non hanno arte né abilità da uomini....quanto più crescono quanto più diventano cattivi...insomma, sostengo che mai Dio creò gente tanto intrisa di vizi e bestialità, senza mescolanza di bontà o urbanità..” la classificazione degli indios come sottospecie umana trovò sostegno dottrinale anche negli ambienti colti ed ebbe la sua massima formulazione nel pensiero del dotto umanista Juan Ginès de Sepùlveda, traduttore in latino della Politica di Aristotele. Richiamandosi alla giustificazione della schiavitù del filosofo greco, Sepùlveda definì gli indios non uomini veri ma “homuncoli, schiavi per natura, così ignavi e timidi che a mala pena possono sopportare la presenza ostile dei nostri, e spesso sono dispersi a migliaia e fuggono come donnette, sbaragliati da un numero così esiguo di spagnoli che non arriva nemmeno al centinaio. Il fatto poi che alcuni di loro sembrino avere dell’ingegno, per via di certe opere di costruzione, non è prova di una più umana perizia, dal momento che vediamo certi animaletti, come le api e i ragni, costruire opere che nessuna umana abilità saprebbe imitare.” Come si conciliava la considerazione degli indios come esseri inferiori con l’universalismo cristiano, che riconosce tutti gli uomini uguali di fronte a Dio? La cattolicissima regina Isabella oscilla ambiguamente fra i due piani: rifiuta a Colombo il diritto di vendere gli indios come schiavi, ma decreta nel 1503 la riduzione in schiavitù della popolazione antillana dei Caraibi come punizione dei loro peccati di idolatria e antropofagia. Lo stesso Colombo non esitò a imporre il proprio dominio sull’isola di Haiti con metodi violenti e disumani, inaugurando tra l’altro l’atroce pratica della caccia ai ribelli con mute di cani addestrate a sbranarli. La pratica generalizzata della violenza, con l’avanzare della conquista, finiva per risultare incompatibile con la stessa missione evangelizzatrice che la legittimava, per il contrasto

clamoroso tra la predicazione dell’amore cristiano e i comportamenti brutali esibiti da coloro che se ne dichiaravano portatori.

La voce che si levò più alta fu quella del domenicano Bartolomè de Las Casas, sbarcato nelle Antille nel 1502: encomendero fino al 1514, rinunciò all’ encomienda a causa delle atrocità contro gli indios di cui fu testimone e dedicò tutta la sua vita alla difesa dei diritti degli indios, con lunghe permanenze nella madrepatria per perorarne la causa presso l’imperatore e le autorità ecclesiastiche. Grazie al suo impegno, l’imperatore Carlo V emanò nel 1542 le Nuove Leggi che, seppure con gradualità, decretavano la soppressione dell’ encomienda e della schiavitù e la legittimazione degli indios come sudditi diretti, al pari degli altri, della Corona di Spagna. E anche il papa Paolo III, con la bolla Sublimis Deus del

1537, aveva condannatop la considerazione degli indios come “bestie mute”. Non bastarono tuttavia tali prese di posizione, comunque tardive, a cancellare i soprusi nei confronti degli indios e a sradicare i pregiudizi e le dottrine che ne negavano i diritti. Ad esse Las Casas si contrappose sviluppando il suo umanitarismo cristiano fino a farsi sostenitore di una teoria dell’uguaglianza come base di ogni ordinamento politico: “Le leggi e le regole naturali e i diritti degli uomini sono comuni ad ogni nazione, sia essa cristiana o gentile, qualunque sia la sua setta, legge, stato, colore e condizione, senza differenza alcuna.....Tutti gli indiani che si trovano nelle colonie devono essere considerati liberi: perché in verità lo sono, in base allo stesso diritto per cui io stesso sono libero” (Lettera al principe Filippo, 1544). Nel 1544 Bartolomè de Las Casas viene nominato vescovo di Chiapas, in Messico, sede che è costretto a lasciare tre anni dopo a causa della violenta ostilità dei coloni, ritirandosi a scrivere la sua monumentale Storia delle Indie. La sua opera di maggior rilievo e peso nel dibattito politico-culturale dell’epoca fu però la Brevissima relazione sulla distruzione delle Indie, presentata all’imperatore Carlo V nel 1542, che è denuncia implacabile delle nefandezze messe in atto contro gli indigeni e insieme un documento di straordinaria autocoscienza della distanza irriducibile della violenza e dello sfruttamento della colonizzazione spagnola dall’esempio di vita cristiana. Principale avversari di Las Casas fu proprio Sepùlveda, sostenitore della “guerra giusta” contro gli indiani barbari e idolatri in base al principio del “dominio della perfezione sull’imperfezione, della forza sulla debolezza, della virtù eminente sul vizio”. Las Casas si oppose alla pubblicazione degli scritti di Sepulveda, che reagì reclamando una discussione pubblica delle sue tesi. Il dibattito si tenne a Valladolid nel 1550 di fronte a un consesso di teologi e giuristi convocati dal sovrano: nel tesissimo duello oratorio Las Casas parlò per cinque giorni; al termine i giudici non riuscirono a pronunciarsi, ma Sepùlveda non ottenne l’autorizzazione alla stampa del suo libro. L’argomentazione di Sepùlveda è propria di tutte le teorie sulla ineguaglianza degli uomini: gli “altri” sono diversi da “noi” e dunque inferiori. “Mancano di ogni conoscenza delle lettere, ignorano l’uso del denaro, vanno in giro generalmente nudi, comprese le donne, e portano come bestie pesanti fardelli sulle spalle....questi barbari sono inferiori agli spagnoli come i bambini sono inferiori agli adulti e le donne agli uomini; fra loro e gli spagnoli corre la stessa differenza che intercorre -oserei dire- fra le scimmie e gli uomini”. Contro queste tesi Las Casas pronunciò la sua Apologia in difesa della pari dignità umana degli indios con una reale comprensione delle differenze culturali e religiose, anche le più estreme come il sacrificio umano. Las Casas non era certamente tollerante verso i riti e le credenze degli indios, anzi era convinto assertore dell’azione missionaria per portarli sulla via della fede e della salvezza cristiana; tuttavia non si poteva combattere l’idolatria

sterminando gli idolatri: “Sarebbe un gran disordine e un peccato mortale gettare un bambino in un pozzo per battezzarlo e salvargli l’anima”.

La scoperta dell’ “altro” : il mito del ‘buon selvaggio’ La scoperta dei “selvaggi” americani e delle loro società ‘ ‘naturali’ , senza stato e senza proprietà privata, influenzò largamente la riflessione antropologica e politica in Europa. Di qui nacquero, nel ‘500 e ‘600, i primi germi del pensiero utopistico (Tommaso Moro, Campanella, Bacone) che prospettavano modelli di società perfette, fondate su natura e ragione, come specchio rovesciato cui guardare, da un immaginario altrove, ai mali e alle storture dell’Europa. Tommaso Moro, ad esempio, immagina di aver sentito parlare dell’isola di Utopia da un compagno di viaggio di Vespucci e la colloca fra le acque oceaniche, sotto l’equatore. Anche la filosofia politica e del diritto, nelle teorizzazioni intorno allo “stato di natura”, da Grozio a Hobbes, attingeva notizie e riferimenti dalle relazioni di viaggio nelle Americhe, che fornivano esempi di modi e condizioni di vita considerate pre-civili.

Già verso la fine del ‘500, il filosofo francese M. de Montaigne nella sua opera Essais ( “Saggi”) guarda con lucido relativismo alla pluralità delle culture, e a proposito del cannibalismo afferma: “Non mi rammarico che noi rileviamo il barbarico orrore che c’è in tale modo di fare, ma piuttosto del fatto che, pur giudicando loro colpe, siamo tanto ciechi riguardo alle nostre. Penso che ci sia più barbarie nel lacerare con supplizi e martìri un corpo ancora sensibile, farlo arrostire a poco a poco, farlo mordere e dilaniare dai cani e dai porci(…) che nell’arrostirlo e mangiarlo dopo che è morto.”

Confrontandosi con gli orrori delle guerre di religione, che divampavano nella civile Europa, Montaigne poteva affermare che: “Ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi; sembra infatti che noi non abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la ragione che l’esempio e l’idea delle opinioni e degli usi del paese in cui siamo. Ivi è sempre la perfetta religione, il perfetto governo, l'uso perfetto e compiuto di ogni cosa.” Montaigne rifiuta di assumere il punto di vista europeo-cristiano a metro di giudizio delle altre culture e civiltà e fornisce un contributo fondamentale al pensiero laico moderno e ribalta i pregiudizi sulle barbarie dei selvaggi. Egli guardava agli antichi con la consapevolezza storica, propria del pensiero rinascimentale, della loro distanza da noi, che li rendeva comparabili ai popoli del Nuovo Mondo: essi sono ora ciò che noi siamo stati un tempo, un’umanità giovane e più vicina alla natura, che pure ha prodotto in epoche e luoghi diversi, grandi esempi di civiltà. La scoperta e la rivalutazione del primitivismo e della diversità degli antichi dai moderni portava a ricondurre a una comune matrice le varie forme di umanità e a riconoscervi, al di là delle differenze socio-culturali, le somiglianze che testimoniano l’appartenenza a un’uguale natura. Ma è nel corso del Settecento, con la cultura dell’Illuminismo, che si configura una precisa tendenza all’idealizzazione del “selvaggio”, come strumento di critica radicale della società e delle istituzioni della civile Europa all’epoca dell’ Antico Regime. Il maggior artefice del mito del “buon selvaggio” è Jean Jacques Rousseau, che nel suo Discorso sull’origine dell’ineguaglianza (1755) contrappone alla felicità dell’uomo primitivo l’infelicità dell’uomo civilizzato, definitivamente allontanatosi dalla condizione originaria di uguaglianza e benevolenza reciproca che egli trova testimoniata presso gli indiani d’America. In tutta la leteratura del Settecento il “selvaggio” diventa una figura letteraria ricorrente nella parte dell’ingenuo, che tuttavia con la sua semplice saggezza è in grado di esprimere una critica corrosiva dei costumi degli europei.

Anzi, Voltaire nel suo Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni (1765) mostra, con paradossale ironia, quanto primitiva e selvaggia sia la condizione di vita che si perpetua fra molti abitanti dell’Europa: “...Piuttosto bisogna convenire che i popoli del Canada e i Cafri, che abbiamo voluto chiamare selvaggi, sono infinitamente superiori ai nostri. L’urone, l’algonchino, l’abitante dell’Illinois, il cafro, l’ottentoto, posseggono l’arte di fabbricare da sè tutto ciò di cui hanno bisogno, e quest’arte manca ai nostri contadini. I popoli dell’America e dell’Africa sono liberi, e i nostri selvaggi non hanno neppure l’idea della libertà”.

Il trauma della conquista

Le società amerinde avevano conosciuto invasioni, conquiste, dominazioni interne. Gli Aztechi e gli Incas avevano costruito i loro imperi inglobando popoli diversi, di cui avevano tuttavia accettato e assorbito in parte culture e tradizioni, in un sistema di potere che lasciava persistere, nella vita comunitaria, gli antichi legami e la continuità con il passato locale, in un rapporto dunque di acculturazione reciproca. La conquista spagnola segnò invece una rottura violenta e catastrofica della loro storia. Riportiamo alcuni versi dalla più importante opera letteraria scritta in idioma maya da Chilam Balam di Chumayel: "Allora tutto era buono e allora gli dèi furono abbattuti. In loro c'era sapienza. Non c'era allora peccato… Non c'era allora malattia, non c'era dolore d'ossa, non c'era febbre per loro, non c'era vaiolo… Dritto ed eretto andava il loro corpo allora. Non fu così ciò che fecero gli dzule* Quando giunsero qui. Essi insegnarono la paura, vennero a far sfiorire i fiori. Perché il loro fiore vivesse Sciuparono e succhiarono il nostro fiore… Si spaccherà la faccia del sole, cadrà a pezzi sopra gli dèi di adesso… Ci hanno cristianizzato Ma ci fanno passare di mano in mano come animali. E Dio è offeso dai "Succhiatori"…" * Duzle = stranieri

LA SOCIETA' COLONIALE

a) Le istituzioni politiche Dopo i primi anni di "anarchia", in cui i conquistatori si sostituirono con la violenza alle precedenti organizzazioni politiche lottando spesso tra loro per l’egemonia, i sovrani di Spagna e Portogallo cercarono di mettere sotto controllo le colonie. Nell’impero coloniale spagnolo un primo strumento di controllo fu la legislazione per le Indie. Un secondo strumento furono le istituzioni e le magistrature di nomina regia, direttamente dipendenti dal sovrano, al quale alla fine degli incarichi dovevano rispondere del loro operato. Il potere politico effettivo rimase sotto il controllo del re, che lo gestiva con moderazione e intelligenza per non irritare l'aristocrazia coloniale, attraverso diverse istituzioni attive sia in Spagna sia in America:

Ø Consiglio delle Indie, formato da nobili e giuristi, consigliava il re, studiando i problemi della colonia e proponendo i nomi dei candidati preposti alle massime autorità.

Ø La Casa delle Contrattazioni regolava e controllava tutto ciò che riguardava il commercio con le colonie. Entrambe le istituzioni avevano sede in Spagna. Gli organismi coloniali erano i seguenti:

Ø I viceré costituivano la massima autorità in un determinato territorio e sostituirono i governatori della prima fase della conquista: essi rappresentavano la corona e rimanevano in carica inizialmente per 3 anni poi prolungato a 5.

Ø I capitani generali esercitavano funzione analoghe a quelle dei viceré in territori meno importanti.

Ø Le reali udienze, supremi tribunali di giustizia, potevano esercitare il potere di consiglio del viceré.

Ø I cabildos amministravano i municipi. Erano formati da proprietari, mercanti, clero, professionisti, ….

Ø I controllori avevano il compito di controllare gli eventuali abusi dell'autorità e difendere i diritti degli indigeni

Ø Gli intendenti con potere politici, amministrativi, giudiziari e militari, furono istituiti per eliminare gli abusi dei controllori, limitare i poteri dei cabildos ed evitare la concentrazione del potere nelle mani dei viceré

Ø I controllori degli indios con funzioni di "polizia" tribunale ed esazione delle imposte. Un ulteriore strumento di controllo e di dominio della corona Spagnola in America fu rappresentato dalla Chiesa, sottoposta interamente all'autorità reale e non al Papa: era un privilegio accordato in età controriformistica alla Spagna. Il re nominava le autorità ecclesiastiche, decideva sulla fondazione

di Chiesa e monasteri, sceglieva i missionari, raccoglieva le decime, usava i contrasti tra gli ordini religiosi e i proprietari laici per mantenere il suo potere. Il sistema politico coloniale Latinoamericano, durò tre secoli. Più che della sua forza, tale permanenza derivò:

Ø Dalla mancanza d'interesse degli altri stati Europei ad assumersi l'onore del dominio coloniale quando già godevano dei profitti economici delle colonie attraverso il commercio legale e il contrabbando.

Ø Dalla mancanza di unità, visione politica e strumenti ideologici della popolazione creola che avrebbe dovuto essere la più interessata alla fine del governo coloniale.

b) La stratificazione sociale Complessa era la stratificazione sociale della colonia.

Ø l'aristocrazia era formata esclusivamente da bianchi , sia spagnoli (un piccolo gruppo che si rinnovava di frequente) sia creoli (i discendenti dei conquistatori, nati e residenti in America) Questi ultimi erano i proprietari dei latifondi: ricchi, potenti, istruiti e orgogliosi di essere latinoamericani, ma al tempo stesso ambivano a un titolo nobiliare riconosciuto dal re.

Ø il ceto medio, costituito da proprietari di miniere, commercianti, militari, intellettuali, artigiani, era composto da bianchi, ma a volte anche da meticci. Pur possedendo anche notevoli ricchezze, questo era un gruppo instabile, totalmente dipendente dall’aristocrazia e senza capacità culturali autonome.

Ø i lavoratori in genere erano non bianchi. In condizioni di libertà, semilibertà o schiavismo, svolgevano tutto il lavoro produttivo, ottenendo in genere solo il necessario per sopravvivere. Fra loro:

• gli indios, che avevano uno stato giuridico particolare, con una propria aristocrazia e organizzazione, isolati dal mondo bianco che non doveva "contaminare" con il suo cattivo esempio. Un numero sempre più elevato di indios, però, usciva dalla comunità andando a formare un proletariato miserevole, senza radici e identità

• i neri, in numero minore e in maggioranza liberi in area spagnola , molti e in genere schiavi in area portoghese, erano rifiutati sia dai bianchi sia dagli indios, ma riuscirono a mantenere forme della loro cultura di origine e, se svolgevano lavori domestici, anche a condurre una vita dignitosa.

• i gruppi misti (meticci, mulatti) anche se erano liberi, erano la parte della popolazione più disprezzata perché rifiutata sia dai bianchi sia dagli indios e dai neri. Alimentavano un sottoproletariato violento e vizioso. Col tempo, però, grazie alla mescolanza etnica, quello "misto", fu il gruppo numericamente dominate in quasi tutti i paesi dell'America Latina; di conseguenza, si persero gli aspetti negatici che li connotavano.

Rispetto alla società europea , la società coloniale fu caratterizzata da una vasta possibilità di mobilità sociale, almeno per bianchi e meticci. Dal cinquecento al XX secolo, l'America ha continuato ad attirare molti individui di diversi paesi per la possibilità a volte reale, più spesso immaginaria di cambiare rapidamente status.

c) l'organizzazione economica In età coloniale, la produzione è caratterizzata dal ciclo. Un prodotto ha una rapida espansione produttiva sostenuta unicamente dalla richiesta esterna; questo porta a uno sfruttamento intensivo e, sul piano economico, al formarsi di rapide fortune. In un secondo momento si verifica un arresto della domanda: il settore entra in crisi, viene abbandonata quella produzione , inizia un processo di degrado ambientale e di spopolamento del territorio, che si ritrova così più povero del momento di inizio di ciclo. In area spagnola i cicli che si susseguono riguardano i metalli prima, poi il legname, i prodotti di piantagione, i pascoli. In area brasiliana il “Pau brazil” (un tipo di legname), poi, dal Seicento, la canna da zucchero, le miniere e i pascoli. Nell' Otto - Novecento i cicli continuano con caucciù, caffè, cotone, banane, dimostrando il persistere del carattere di dipendenza e sfruttamento dell'economia dell'America Latina. L'attività mineraria fu il più importante settore produttivo sviluppato in America Latina. Nonostante la tecnologia molto primitiva (il lavoro era svolto a mano dagli indios), essa richiedeva grossi investimenti e il profitto che dava poteva esaurirsi rapidamente, come i filoni del metallo estratto. Aveva un carattere di rapina, ma metteva in moto anche attività collaterali. In area Spagnola, la forma agricola dell'epoca coloniale era il latifondo, da quando i conquistatori si fecero concedere dal re una merced (un lotto di terra) e una economienda (il diritto di far lavorare al proprio servizio un certo numero di indios, che, in cambio, dovevano essere evangelizzati) in cambio del riconoscimento della sua autorità sul territorio conquistato. Quando l’imperatore Carlo V soppresse nel 1542 l’encomienda, i proprietari terrieri cominciarono a utilizzare il lavoro salariato o quello di schiavi per debiti, si impossessarono di sempre maggiori quantità di terre, dando vita alla hacienda, il latifondo,, fonte di ricchezza e di prestigio per l’aristocrazia creola. In area Portoghese, l'agricoltura coloniale si concentrò nelle piantagioni di prodotti destinati all'esportazione, lavorate da schiavi neri. Mentre la monocoltura esauriva rapidamente il terreno, piccole aree marginali erano lasciate alla produzione per l'autoconsumo. Nelle colonie si sviluppò anche un'industria a carattere artigianale, specie cantieristica ,tessile e dei prodotti di cuoio e d’oro, dove erano impiegati soprattutto indios , ma anche neri e bianchi poveri. La produzione fu però

limitata dalla politica mercantilistica, che vietava la lavorazione di quei prodotti che potevano entrare in concorrenza con quelli della madrepatria. La politica che reggeva l'economia coloniale era basata su uno stretto mercantilismo: per esempio , tutto il commercio spagnolo da e per le Indie passava per Siviglia e arrivava in pochi porti latinoamericani. Contrabbando e pirateria si affiancavano al regime di monopolio ed erano ‘attività’ tacitamente accettate. Il monopolio venne aboliti nel ‘600 Le caratteristiche dell'economia coloniale furono inoltre:

Ø L'estrema limitatezza degli scambi interregionali, impediti dalla madre patria; Ø La difficoltà dei trasporti sia per terra sia per mare; Ø La dipendenza dalla domanda esterna; Ø L'alto grado di profitto garantito da uno sfruttamento estensivo della terra e

intensivo della mano d'opera e dall'anticipazione delle merci come forma di pagamento;

Ø L'uso di forza - lavoro legata a rapporti di produzione differenti; Ø La mancanza di un ceto contadino; Ø La compresenza di un'economia naturale con una più complessa.

L'economia coloniale e il perpetuarsi di molte sue caratteristiche nel corso dell'ottocento e del novecento hanno posto le basi per il sottosviluppo attuale dell'America Latina.

d) La vita materiale, culturale e religiosa La vita coloniale si svolgeva nei centri abitati perché:

Ø ciò corrispondeva alla tradizione iberica di vivere in centri urbani e non dispersi;

Ø la conformazione del territorio e la sua vastità favorivano l'aggregazione; Ø gli indios erano più controllabili se erano riuniti in villaggi.

In poco tempo si creò perciò una rete di città caratterizzate da diverse funzioni: municipi delle zone agricole, centri minerari, città portuali, fortini sui confini, villaggi indios. Ogni municipio aveva poteri amministrativi, ecclesiastici, mercantili, finanziari, militari ed era dotato di scuole, ospedali, centri di divertimento. La vita coloniale era dominata dai gusti e dallo stile dell’aristocrazia creola, che a sua volta si modellava su quella spagnola e portoghese. Ma esistevano anche altri modelli: quello dei mercanti, quello degli indios, quello degli schiavi neri. La diversità e la separazione tra questi mondi non impedirono forme di contatto e di scambio, che crearono l’originalità della società latinoamericana attuale.

Fondamentale fu il ruolo della chiesa a cui la corona affidò il compito di evangelizzare, civilizzare e moralizzare il processo di conquista. Importante fu anche la sua funzione nel difendere gli indios dagli abusi dei conquistatori, nel recuperare lingua e aspetti della cultura india, nel proporre modelli di colonizzazione più giusti e umani, nonostante la violenza con cui essa stessa distrusse tutte le forme della cultura locale che contrastavano con la religione cattolica. Nonostante il suo legame con la monarchia spagnola, nel momento dell'indipendenza la Chiesa si schierò con la rivoluzione creola: ciò le ha permesso di mantenere inalterato, fino ai nostri giorni, il suo ruolo e la sua funzione.

L'AMERICA LATINA E LA CONQUISTA IL GENOCIDIO

L’impatto tra conquistatori e conquistati fu tremendo, una vera tragedia che ancora oggi si continua a denunciare anche perché causa lontana dei mali di cui soffre oggi l’America Latina.

In primo luogo le campagne militari: cosa potevano gli archi, le frecce, le fionde, i lazos degli indigeni contro le “bocche da fuoco” e i cavalli “mostruosi” degli europei? Le carneficine erano inevitabili. Poi la destabilizzazione: questi popoli erano abituati a mangiare a sufficienza; avevano le loro tradizioni, le loro gerarchie sociali, i loro costumi religiosi, insomma una loro sicurezza. Tutto questo fu cancellato d’un colpo con

violenza e sostituito con un regime di vita, con valori sociali e religiosi, con abitudini alimentari e di lavoro per loro intollerabili. Tradotta in cifre, la scoperta dell’America appare un gigantesco genocidio: bastarono alcuni decenni per ridurre drasticamente la popolazione india, e non solo per la crudeltà dei conquistatori, ma anche per l’incapacità di percepire il “diverso”, non tanto il “diverso culturale” -traguardo ancora oggi difficile da raggiungere- ,quanto il “diverso fisiologico”. Gli indigeni, infatti, soccombevano in massa a malattie da cui gli europei erano da tempo immunizzati o crollavano sotto i ritmi di lavoro nei campi e nelle miniere o restavano decimati dal tipo di alimentazione loro riservata. Di fronte a questa realtà qualcuno ha parlato di “distruzione di un continente”. In effetti enormi interrogativi restano aperti: vantaggi materiali ce ne furono per l’Europa e anche vantaggi culturali: si prese coscienza che i confini del mondo non coincidevano con quelli della cristianità, che c’erano zone non toccate dalla rivelazione cristiana, che il “diverso” esisteva. Ma a quale prezzo? E quali furono le conseguenze? E’ lecito, ad esempio, parlare ancora di America Latina quando la “latinità” di quel continente fu per secoli un tragico manto di sfruttamento e di morte? O non esiste solo un’America “indiana?

L’impatto dell’Europa con i nuovi mondi si presenta dunque come un evento terribilmente ambiguo: affascinante per il coraggio e la forza che lo resero possibile, spaventoso per le tragedie che comportò. Popolazione india, bianca e nera in America Latina prima e dopo la conquista

ANNI INDIOS BIANCHI NERI

1492 40 MILIONI - -

1570 8.107.150 118.000 230.000

Con la conquista la popolazione india subì un crollo demografico senza precedenti dovuto: - alle stragi e ai massacri avvenuti nel periodo della conquista - alla mortalità provocata dai ritmi e dalle condizioni di lavoro, soprattutto nelle miniere - alla mortalità legata al peggioramento dell'alimentazione in seguito al calo della produzione - all’ autodistruzione (suicidi, blocco della fecondità, rifiuto di procreare), nel momento in cui gli indios si resero conto che il loro mondo era crollato - alle epidemie provocate da virus europei sconosciuti in America e contro i quali gli indios non avevano ancora sviluppato gli anticorpi

Lungo il corso del Cinquecento le immigrazioni bianche e nere in America Latina furono limitate e non incisero sul ripopolamento. Si verificarono però i primi incroci interrazziali dovuti alla scarsa presenza di donne bianche e alle numerose forme di violenza sessuale attuate dai conquistatori

I conquistatori giustificarono ideologicamente lo sterminio, ma si preoccuparono per le conseguenze che esso provocava: - sul piano economico (pochi tributi, poca produzione, pochi lavoratori, territori abbandonati, degrado delle infrastrutture per la mancanza di manutenzione) - sul piano sociale (scomparsa di villaggi e comunità, degradazione del tessuto familiare e comunitario con conseguente mancanza di controllo sociale) La popolazione cominciò a crescere di nuovo a partire dal 1650, quando gli effetti più traumatici della conquista erano passati, ma fu caratterizzata dalla compresenza di più gruppi etnici (indios, bianchi, neri, asiatici) e da una sempre più forte componente interetnica (meticci, mulatti, ecc..) Nell’organizzazione coloniale ogni gruppo etnico ebbe una collocazione sociale piuttosto rigida. Anche tra i bianchi vi furono discriminazioni dovute essenzialmente alla ricchezza e al fatto di essere nati in Europa piuttosto che in America Latina.

LA DESTRUTTURAZIONE DELLA SOCIETA' AMERINDIA La conquista europea dell’America Latina implicò una destrutturazione complessiva delle società amerindie che coinvolse ogni aspetto della vita materiale e mentale. Tale processo fu tanto più visibile e drammatico quanto più la società precedente aveva avuto un’organizzazione accentrata (Messico e Perù) e aveva strumenti per descriversi e analizzarsi La destrutturazione economica • L’ organizzazione produttiva tradizionale venne sconvolta: in Perù, ad esempio, cessò lo scambio di prodotti tra le diverse fasce altimetriche -dalla costiera alle zone andine- e i prodotti ora privilegiati erano quelli destinati all’esportazione. Il centro del sistema non fu più Cuzco ma Lima. • In tutta l’America spagnola, il crollo demografico e il fatto che gli indios fossero strappati alle comunità per essere impiegati nelle miniere o nelle guerre tra conquistatori provocarono l’abbandono delle terre coltivate e il deteriorarsi dei sistemi d’irrigazione e terrazzamento e quindi la diminuzione

della produzione complessiva. Questi fattori e la diminuzione della produzione alimentare per fare spazio ai prodotti di esportazione ridussero alla fame le popolazioni indios.

� Il principale sistema di sfruttamento fu il TRIBUTO, che gli europei chiedevano agli indios sotto forma di prestazioni lavorative dovute dalla comunità al conquistatore; quanto più la popolazione calava, tanto più il tributo diventava pesante e richiedeva fino a sette-otto mesi di lavoro. Successivamente il tributo fu uniformato per legge e si pagò in denaro. � Un altro sistema fu l’USURPAZIONE DELLA TERRA. In teoria gli spagnoli avevano diritto al tributo, ma non alla terra, che rimaneva alla comunità. Ma un po’ per il calo demografico che portò all’abbandono delle terre, un po’ per gli abusi, porzioni sempre più estese di terra venivano privatizzate dai conquistatori e coltivate dagli indios, sotto forma di tributo o a pagamento. Nell’Ottocento, dopo l’indipendenza, il processo di espropriazione degli indios divenne generale, con conseguente creazione del latifondo e di una massa di individui senza terra � Il MONOPOLIO DEL COMMERCIO INTERNO da parte degli spagnoli fu un altro sistema di sfruttamento: i prezzi maggiorati mantennero gli indios in una costante situazione di indebitamento e quindi di lavoro coatto. L’introduzione del denaro non bastò a creare un’economia monetaria perché il denaro rimase estraneo all’ideologia india La destrutturazione sociale e psicologica • La fine del sistema sociale precedente provocò nelle popolazioni indigene un trauma violento: sembrava che il mondo fosse crollato, senz’ordine, che gli dei fossero morti, il sole privo di vita . Molti furono i casi di suicidio, si verificò un arresto della procreazione. Il senso di frattura e di trauma rimase come vissuto fondamentale del mondo indio ed è riscontrabile fino ai nostri giorni. • Le organizzazioni comunitaria e familiare furono sconvolte dal crollo demografico e dai costanti trasferimenti di persone imposti dal lavoro forzato • Molti indios cominciarono a vivere fuori della comunità, trasformandosi in servitori diretti degli spagnoli o in vagabondi, persero la loro identità originaria, diventarono ladinos, iniziarono un rapporto individuale con il bianco.

• I capi tradizionali delle comunità indie vennero impiegati come strumento di controllo della popolazione e ripagati con privilegi o parziale assimilazione al mondo dei vincitori. • L’ordine gerarchico tradizionale (l’inca, l’aristocratico, la comunità) tese a livellarsi portando alla scomparsa delle norme che regolavano la vita comunitria. L’acculturazione limitata • La destrutturazione sociale non fu compensata dall’assunzione di un nuovo tipo di cultura e d’organizzazione sociale. L’accettazione da parte degli indios di frammenti disparati della cultura europea non significò una sua reale assimilazione. Nessuna nuova ideologia fornì agli indios un senso alla dominazione straniera • Si realizzarono comunque forme di acculturazione limitata tra le classi aristocratiche e nelle zone dove il crollo demografico era stato più alto. L’acculturazione si realizzò su aspetti di vita materiale (cibi, armi, abiti, mezzi trasporto…), ma molto meno nell’ambito religioso o linguistico.

• Nonostante l’imposizione culturale da parte dei conquistatori e la resistenza più o meno passiva delle popolazioni sottomesse, con il trascorrere dei secoli, in tutti gli aspetti culturali si fonderanno elementi di origine europea con altri di origine india, costituendo la peculiarità e l’originalità della cultura latino-americana.

Le trasformazioni dell’ ecosistema

Nel Nuovo Mondo gli animali e le piante introdotti volontariamente o accidentalmente dagli europei produssero notevoli mutamenti sull’ambiente, pari a quelli determinati dall’impatto della conquista e dall’invasione di microrganismi patogeni portati dagli europei.

Ad esempio, gli animali che gli europei portarono con sé (cavalli, buoi, maiali, pecore, capre, galline, gatti, ecc..) trovarono in America condizioni molto favorevoli e si riprodussero velocemente. Infatti gli animali di grossa taglia e i grossi predatori del continente erano pochi ed esistevano pertanto nicchie ecologiche vuote che furono rapidamente riempite La diffusione di animali di origine europea ebbe varie conseguenze sul:

v Piano Ecologico : vaste zone furono deforestate per fare spazio al pascolo conseguente impoverimento del suolo, perdita di specie arboree e animali, modificazione del clima, diffusione di piante infestanti europee che soppiantarono quelle autoctone

v Piano Economico-sociale : fiorente attività di allevamento, che diede vita ad una civiltà di allevatori e creatrice di prodotti materiali (vestiti, cuoio) e culturali (stili di vita, canzoni, storie)

v Piano dell'alimentazione : modificazione dei costumi alimentari degli indios v Piano dei trasporti : come "mezzo" di locomozione e di trazione si diffusero il

cavallo e il bue; ciò richiese la costruzione di nuovi tipi di strade: quelle indie erano adatte per camminare a piedi

v Piano militare : gli indios adottarono rapidamente il cavallo come "strumento"

bellico

Nelle zone conquistate venne introdotta dagli Europei la coltivazione di piante originarie di Europa, Asia e Africa. Le piante non sempre riuscirono ad adattarsi al clima e quindi l'economia coloniale inserì specie vegetali di

origine asiatica e africana (canna da zucchero, caffè e banane, ecc..) il cui sistema di piantagione sconvolse l’equilibrio ecologico delle zone in cui venne introdotto, perché la monocoltura distrusse le foreste, impoverì i suoli e tolse spazio alle altre colture originarie. Di incalcolabile portata fu l’importazione dall’Europa di virus e batteri di malattie fino ad allora sconosciute in America (morbillo, vaiolo, varicella, difterite, influenza) provocando un altissimo numero di vittime fra gli indios, a causa della mancanza di anticorpi.

Le resistenze alla colonizzazione a) la resistenza armata La brutalità e il disprezzo dei conquistatori e la politica di sfruttamento economico provocarono molti episodi di resistenza armata della popolazione locale durante tutto il periodo coloniale. La storia di questa resistenza è frammentaria e incompleta perché le fonti dell’epoca ne parlano per sottolineare l’eroismo dei bianchi o per chiedere sostegni alla madrepatria. Molto scarse sono le fonti di parte india, in cui gli episodi spesso si trasformano in leggende o rappresentazioni a carattere mitologico. L’ insuccesso della resistenza degli indios è dovuto solo in parte a una inferiorità tecnologico- militare. Molte singole battaglie, infatti, furono vinte dagli indios, che, in un secondo momento, seppero assumere in modo originale alcune tecniche della guerra dei bianchi come l’uso del cavallo e delle armi da fuoco. Le ragioni della loro debolezza sono in parte analoghe a quelle che avevano determinato la vittoria dei primi conquistatori :

1. Difficoltà di coesione interna tra le varie etnie; 2. Abilità e rapidità con cui i colonizzatori riuscirono a integrare parte della classe dominante india e a proporre modelli di acculturazione; 3. Coscienza della fine di un proprio mondo precedente e difficoltà a immaginarne uno alternativo che si opponga alla cultura bianca; 4. Continuo afflusso di uomini e mezzi in America dall’Europa per consolidare una conquista che garantiva profitti e prestigio Gli episodi più conosciuti di resistenza armata si ebbero: § CARAIBI: la popolazione si ribellò radicalmente ai compagni e ai successori di Colombo e fu per questo sterminata § CENTRO AMERICA: la resistenza degli indios seppe sfruttare le difficoltà di penetrazione degli europei, dovute al clima e al territorio, per organizzare continue imboscate e azioni di guerriglia § AMAZZONIA: la resistenza india e le difficoltà legate al territorio permisero di bloccare l'avanzata di qualunque spedizione alla ricerca del mitico Eldorado § PERU': la lotta fu guidata dai successori di Atahualpa ed ebbe come obiettivo la restaurazione dell'impero inca. Con la morte dell'ultimo inca, Tupac Amaru (1572), ci fu un arresto della lotta armata che riprese solo nel Settecento, con un diverso livello di coscienza anticolonialista § MESSICO: la guerra di Mixton (1541-42) contro la dominazione e la cultura spagnola rese necessaria una ‘seconda conquista’ § NORD del MESSICO e SUD del CILE: la resistenza india fu molto più persistente sia per le caratteristiche della zona di frontiera (insediamenti spagnoli di dimensione limitata) sia per le caratteristiche delle popolazioni indie (tribù nomadi assai bellicose) senza un'autorità comune e con un'economia basata su caccia e raccolta. La guerra fu molto lunga: i cicimechi del Messico e gli araucani del Cile meridionale avevano assimilato elementi della tecnica militare europea ed erano in grado di opporre una resistenza ben organizzata. Gli araucani non accettarono, almeno fino alla fine dell’Ottocento, una totale sottomissione. Un caso particolare di resistenza al dominio bianco in America Latina è rappresentato dai quilombos, luoghi dove si rifugiavano gli schiavi neri che riuscivano a fuggire dalle piantagioni. Erano veri e propri controstati, in territori lontani dalla costa e difficilmente raggiungibili dagli schiavisti, dove i brasiliani neri coltivavano e allevavano per il proprio fabbisogno, riuscendo anche a conservare alcuni aspetti delle culture africane d’origine. b) la resistenza ‘culturale’

Accanto alla resistenza armata se ne realizzò un’altra, più mascherata e sotterranea: la resistenza alla acculturazione e la persistenza di forme di cultura e di mentalità indie. Essa si manifestò nel disprezzo per i meticci, nella persistenza dell’uso del proprio linguaggio, di proprie forme di alimentazione e di abbigliamento e, soprattutto, nel rifiuto dell’evangelizzazione

Il problema del recupero delle popolazioni americane e della loro conversione al cristianesimo fu avvertito molto presto dalla Chiesa cattolica. All’inizio i missionari dovettero affrontare innumerevoli difficoltà, dal momento che per gli indigeni la croce del missionario apparve insieme alla spada del conquistatore e la distinzione, soprattutto in un primo momento, non dovette essere facile. La religione cattolica

era, inoltre, diversissima dai culti locali a carattere prevalentemente magico-animistico, e non era facile tradurre la teologia cristiana nel lessico e negli schemi concettuali degli indios, i quali accettarono in apparenza il cristianesimo, ma conservarono clandestinamente i loro dèi e la loro organizzazione religiosa. I ‘rimedi’ furono drastici. Nel 1531 il vescovo Zumarraga si vantava di aver distrutto cinquecento templi aztechi e ventimila idoli. Intanto lo stesso imperatore Carlo V consigliava di utilizzare le pietre dei templi per edificare nuove chiese. Migliaia di indios furono battezzati a viva forza sotto la minaccia della prigione o della tortura; in molti casi si procedette a condanne a morte. Si comprende, dunque, come la cristianizzazione degli indios sia rimasta a lungo superficiale; i vecchi culti sopravvissero identificandosi nei nuovi: le divinità solari furono assimilate al Cristo, le dee-madri, come la divinità peruviana della Terra, furono assimilate alla Vergine. La Chiesa cattolica, alla fine, accettò e favorì forme di fusione o di conciliazione (sincretismo)tra dottrine e pratiche religiose diverse (chiese nei luoghi sacri degli indios, sovrapposizione di feste cristiane e indie, identificazione di santi con dèi locali, ecc..). Tale fenomeno di resistenza all’acculturazione è rilevabile ancora oggi in molte popolazioni indie latinoamericane.

I numerosi episodi di ribellione degli indios e la loro resistenza sorda e passiva al mondo coloniale impressero nella coscienza dei bianchi un costante senso di pericolo. Gli indios destavano paura e diffidenza. Lo stesso processo di emancipazione dalla Spagna ne fu influenzato: la madrepatria, infatti, garantiva alle colonie appoggio militare e sicurezza contro il possibile nemico interno. Rovine della città Inca Machu Picchu

LA CONQUISTA NON TERMINA.... Il processo di conquista dell'America Latina non si è esaurito nell'arco del Cinquecento, ma si è prolungato nei secoli seguenti fino ai giorni nostri. Da una parte, infatti, l’occupazione del territorio e l’assoggettamento delle popolazioni che ci vivevano si sono estesi fino a interessare l’intero continente. Dall’altra, in quelle aree che per prime avevano conosciuto il processo di colonizzazione, la conquista continuò ad essere riproposta attraverso l’espropriazione delle risorse e la negazione dei diritti civili e di autodeterminazione dei popoli Intorno al 1550, quando la parte più produttiva e popolata del territorio latino americano era passata sotto il dominio spagnolo o portoghese, si considerò conclusa la fase della conquista e cominciò il consolidamento della colonia. Ma in realtà essa continuò e ancora oggi non è terminata. I nuovi territori conquistati erano quelli a nord e a sud dei possedimenti spagnoli e quelli verso l'interno del continente, dove esistevano vasti territori inesplorati, scarsamente popolati da tribù indie nomadi e prive di una organizzazione sociopolitica complessa. I moventi della conquista di questi nuovi territori furono molti:

• consolidare il dominio e proteggersi dagli attacchi degli indios; • catturare gli indios ostili e renderli schiavi da usare come manodopera; • sfruttare le risorse di giacimenti minerari; • dissodare le terre per lo sviluppo di nuove piantagioni o per incrementare la

produzione agricola, soprattutto dopo il XVIII secolo I protagonisti di questo processo furono, in genere, bande di avventurieri fiduciosi di ripetere il rapido arricchimento, ma anche gruppi di coloni appoggiati dall’esercito coloniale. La politica dei governi coloniali incentivò queste immigrazioni e creò una classe di piccoli proprietari e in seguito di latifondisti. Le conseguenze di queste nuove conquiste furono analoghe a quelle del Cinquecento:

1. destrutturazione socioculturale dell'indio e, in molti casi, la sua eliminazione fisica;

2. sfruttamento della manodopera e trasformazione-distruzione dell'ambiente. Nell'Ottocento l'occupazione dell'Isola di Pasqua fu un ulteriore esempio del processo di conquista. Ai giorni nostri la progressiva deforestazione dell' Amazzonia ripropone le caratteristiche del processo di conquista. Le regioni colonizzate non riuscirono, nel corso dei secoli, a riscattarsi dalla dipendenza e dallo sfruttamento economico, nemmeno quando proclamarono la loro indipendenza dalle madripatrie coloniali nel corso dell’Ottocento. Anzi, da quel momento Gran Bretagna prima, Stati Uniti poi cominciarono a controllare le economie dei paesi latinoamericani, a dirigere le scelte politiche

e a intervenire militarmente quando i loro interessi venivano minacciati o a favorire ed appoggiare “golpe” militari come in Cile contro il legittimo governo del socialista Salvador Allende (1973) o in Argentina o in Bolivia ai tempi di Ernesto ‘Che’ Guevara L’opposizione degli indios al processo di sottomissione, di sfruttamento e di acculturazione forzata si è manifestata con la resistenza passiva, la ribellione aperta, la partecipazione a movimenti rivoluzionari o profondamente riformatori. Una nuova forma di sfruttamento e controllo dell’America Latina si è andata realizzando a partire dalla seconda metà degli anni settanta, grazie all’afflusso di capitali provenienti dalle banche dei paesi ricchi e dagli stati produttori di petrolio. Il credito concesso in modo indiscriminato ai governi militari o legati agli Stati Uniti venne utilizzato in armamenti o per la produzione di beni di esportazione. A partire dagli anni ottanta, però, si verificò il crollo dei prezzi dei prodotti di base esportati dai paesi del Sud del mondo ed è iniziata una politica protezionistica da parte dei paesi industrializzati a difesa della propria produzione. Tutto questo ha contribuito a creare il problema del debito estero , che strangola i paesi dell’America Latina e del Terzo Mondo e ne impedisce lo sviluppo. Continua così il saccheggio dell’America Latina e di tutto il Terzo Mondo.

"L'America si sta risvegliando. In questi mesi, come mai prima d'ora, un'ondata di straordinaria energia attraversa l'intero continente, spingendo le popolazioni indigene ad alzare la testa, a prendere coscienza del nuovo ruolo che spetta loro nel secolo che si è aperto." 25/03/2001 (Samuel Ruiz Garcia, Vescovo di San Cristobal de Las Casas)

“IL COLORE DELLA TERRA....”

Rigoberta Menchù, premio Nobel per la pace nel 1992 , di religione cattolica, è una contadina guatemalteca dell’etnia quichè, gli ultimi eredi della cultura maya, e leader del suo popolo. Nata nel 1959, si è battuta con impegno e coraggio per la difesa dei diritti del suo popolo, asservito al lavoro nelle grandi piantagioni e discriminato da un regime politico che nei confronti delle popolazioni autoctone perpetua i tratti del colonialismo interno. Con la sua biografia - Mi chiamo Rigoberta Menchù - raccontata all’antropologa venezuelana Elisabeth Burgos, ha inteso denunciare le condizioni di oppressione e di sfruttamento in cui vivono le popolazioni indigene e dare voce alla loro volontà di resistenza e di affermazione della propria dignità e autonomia culturale.

Domenica 11 marzo 2001 circa trecentomila persone sono sullo Zocalo, la sterminata piazza-simbolo di Città del Messico, per acclamare il subcomandante Marcos, che con 23 compagni zapatisti e una lunga carovana di indios, entrava in città dopo una marcia pacifica di 15 giorni in difesa delle popolazioni del Chiapas e dei diritti i tutti gli indigeni. Lo Stato del Chiapas è vasto 75.000 km2 ed è situato a sud-est del Messico. Ha quasi 4 milioni di abitanti, di cui il 30% indios di origine maya. I cattolici rappresentano circa il 60% della popolazione, il restante 40% segue sette protestanti. Il Chiapas era il centro dell’impero maya; colonizzato dagli spagnoli, ha fatto parte del territorio guatemalteco, per essere poi annesso al Messico nel 1824. E’ lo Stato più povero della federazione, ma è uno dei più ricchi di risorse naturali. Produce il 60% dell’energia consumata in Messico, ma ne utilizza solo il 3% e possiede importanti riserve di petrolio ancora inutilizzate. L’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN), che si richiama al rivoluzionario di inizio secolo Emiliano Zapata, è un ‘esercito’ di indios che ha mosso i primi passi nella Selva Lacandona, ai confini col Guatemala, ed è apparso sulla scena pubblica nel gennaio 1994, “occupando” e amministrando paesi e villaggi del Chiapas. Il sub comandante Marcos -all’anagrafe Rafael Guillen Vicente, ex insegnante di filosofia di 44 anni- è il leader bianco di questo esercito di indios, fino ad oggi asseragliato nel Chiapas; è il leader senza volto che ha promosso la marcia dalla selva Lacandona alla capitale - tremila kilometri- per il riconoscimento della cultura e dei diritti degli indigeni. Rivolto ai potenti dell’economia, Marcos ha esclamato: “Voi siete il colore del denaro, ma noi siamo il colore della terra e senza di noi il denaro non esiste”.

Parte seconda

Classe 3°Am A.S. 2000/2001

L’ UOMO E LA TERRA

Ancora oggi in America Latina vivono popolazioni veramente ‘americane’: sono gli ultimi rappresentanti di quegli uomini che qui sono nati, che per primi popolarono questo continente, conquistarono foreste, deserti, pianure, montagne; che avevano una precisa conoscenza dei territori sui quali vivevano e dei loro climi, della flora e della fauna. Alcuni addomesticarono animali e coltivarono piante sviluppando economie agricole di allevamento; altri, più isolati, mantennero per lungo tempo le loro economie basate sulla caccia e la raccolta. L’invasione degli europei fu tanto

drammatica e i suoi effetti così tragici che in meno di un secolo il volto etnico di questo continente è radicalmente mutato: oggi i veri americani, i nativi, sono minoranze all’interno degli Stati americani. La maggioranza della società, generalmente meticcia, ha adottato forme culturali occidentali e cristiane. Le minoranze etniche spesso vivono in modo conflittuale all’interno delle maggioranze, conoscono una generale decadenza, occupano terre di cattiva qualità e di scarso valore, hanno problemi economici, sanitari e, ciò che è grave, sono stati loro imposti valori e modi di vita estranei ai loro sistemi tradizionali. La sopravvivenza di queste popolazioni nel mondo industriale è una vera sfida: occorre offrire loro una parte e una posizione nei piani di sviluppo nazionale, valorizzare la loro individualità culturale, conservare i loro valori e identità, rispettare la mirabile simbiosi che hanno con l’ambiente culturale. Gli spagnoli erano soliti dare agli indigeni il nome del luogo che abitavano; e così chiamarono Araucanos le popolazioni che occupavano l’Arauco, uno dei principali “stati” indigeni. Fu così che i Mapuches o “Popolo della Terra” divennero, genericamente, gli “Araucani”, come li chiama Don Alonso de Ercilia nel suo monumentale poema epico “La Araucana” per designare tutti gli indigeni che abitavano il sud del Cile fino a Chiloè. Oggi si usa il termine “Mapuche” per indicare quelle popolazioni che gli Spagnoli trovarono occupando le attuali regioni della Araucania e Los Lagos, i cui discendenti vivono tuttora in queste terre.

L’ UOMO E IL TERRITORIO

I primi cronisti che descrivono il territorio del Cile appena conquistato segnalano che a sud del fiume Itata la popolazione nativa aumentava, poiché il bosco di roveri, che domina quasi tutta la regione, era particolarmente favorevole allo stanziamento dell'uomo: da un lato questa specie e altri arbusti producono grandi quantità di bacche, di frutti e di varie risorse alimentari selvatiche; dall’altro essendo caducifoglie impediscono, nei periodi piovosi, la formazione di terre umide e fangose favorendo quindi l'insediamento dell'uomo. A sud di Loncoche le condizioni cambiano: la piovosità aumenta e la presenza di boschi sempreverdi rende la vita umana molto difficile, tranne che in determinate nicchie ecologiche. Anche le condizioni del litorale sono sfavorevoli all'insediamento a causa delle coste scoscese e della densa vegetazione. Il Golfo di Reloncavi costituisce il limite meridionale dell’insediamento Mapuche, a sud del quale il continente si smembra, fratturandosi in innumerevoli isole. L’Isola di Chiloè costituisce l’ultimo luogo nel quale vivono ancora popolazioni che parlano la ‘lingua della terra’ o Mapudungu.

Il Mapuche divide questi territori in cinque zone, che hanno un profondo significato culturale: 1. PIRE MAPU o ‘Terra delle Nevi’ (Cordigliera delle Ande): si caratterizza per i numerosi valichi andini con accesso molto facile, luoghi di contatto fra diverse etnie Mapuches, Pehuenches e Puelcheas che abitavano le falde orientali e occidentali della Cordigliera. e di comunicazione con le Pampas. Questo massiccio innevato, infatti, non ha mai costituito una frontiera che separasse i popoli, ma luogo di incontro tra diverse etnie. Queste relazioni determinarono un forte incrocio di razze, che portarono alla diffusione della cultura mapuche verso le Pampas Argentine e ad uno scambio di prodotti manifatturieri. 2. INAPIRE MAPU o ‘Terra contigua alle nevi’(versante occidentale della cordigliera delle Ande). Qui il territorio era dominato da densi boschi nei quali dominava il Pewen (Araucaria araucana)o ‘pino dell’Araucania’. Il pinolo di questa conifera erail principale alimento del Pehuenche, etnia cacciatrice e raccoglitrice della regione, che scendeva alla pianura durante l’estate con animali, pinoli, sale e prodotti in pelle che scambiava con prodotti agricoli o tessili forniti dai Mapuches A volte queste incursioni sfociavano in scorribande belliche dalle quali il Pehunche otteneva donne e bottino. Fu attraverso questa etnìa che si “araucanizzò” la Pampa argentina e si diffuse la lingua mapuche a queste latitudini. Scomparsa gran parte dei boschi di questa regione, i versanti scoscesi delle Ande sono ora utilizzati dai Mapuches come campi di pastorizia o per attività legate all’industria del legno. Il pinolo continua ad essere raccolto e conservato sotto terra come materia prima per ottenere farina, bevande e altri prodotti alimentari. 3. LELFUN MAPU o ‘Terra delle pianure’. Gode di una grande potenzialità agricola grazie all'innumerevole rete fluviale e al gradevole clima continentale prodotto dalla chiusura di questa fascia tra le due cordigliere. La fitta flora che copriva le pianure fu abbattuta dai Mapuches a partire da epoche pre- ispaniche per favorire il loro insediamento

su piccoli terreni fertili. L'estensione e la ricchezza di questi terreni determinarono una notevole mobilità dei gruppi che si trasferivano da un luogo all'altro in cerca di nuovi territori da occupare. 4. LAFKEN MAPU o ‘Terra marina’ . Separate dalla Cordigliera, le terre costiere hanno una bassa produttività agricola, con relativi problemi di approvvigionamento. L’alimentazione di questa zona è costituita dai prodotti della pesca, grazie ai quali questa regione si popolò. 5. PUEL MAPU o ‘Terra dell'oriente’: ha un posto di grandissima importanza nella concezione spaziale mapuche L'indigeno scopre questi territori grazie agli scambi, non impediti dalle alte vette, e dagli incroci di etnie. Le relazioni del mapuche con le terre orientali continuano anche oggi, anche grazie alle relazioni di parentela e di amicizia che portano a frequenti visite degli abitanti di uno e dell’altro lato della cordigliera. Alla fine dell’ottocento, pacificati i due territori, le relazioni fra i due lati della cordigliera si fecero più intense. ORIGINE DEL POPOLO Le questioni riguardanti le origini del popolo mapuche interessò vivamente i ricercatori degli inizi di questo secolo facendo sorgere diverse opinioni: • l'Auracano era il prodotto dell'incrocio fra la popolazione autoctona e la popolazione delle Pampas; • L'auracano ha una sua unità etnica e ha solo qualche parentela con le culture settentrionali. FONTI PER LO STUDIO DEI MAPUCHES Lo studio del materiale etnografico (relativo ai costumi, agli usi…), ben sfruttato, dovrebbe sostituire la mancanza di reperti archeologici, che si limitano a resti di cimiteri, dove sono state trovate anfore e altri oggetti di ceramica e a opere di canalizzazione che fanno pensare a un'intensa coltivazione dei territori adiacenti ai corsi d'acqua. La fonte principale ora è il patrimonio culturale tradizionale conservato dai discendenti di queste stirpi ormai fuse insieme.

GLI ANTENATI Così come furono i nostri nonni e i nostri genitori saremo nella nostra vita

(P.F. de Augusta, 1934) Il problema delle origini del popolo mapuche interessò vivamente i ricercatori fin dall’inizio del ‘900. L’antropologo Latcham sosteneva che l’araucano era un prodotto dell’incrocio di razze: il gruppo etnico “moluche” -guerrieri e cacciatori delle pampas argentine- avrebbero conquistato i territori situati trai due fiumi Bìo-Bio e Tolten e si sarebbe mescolato alla popolazione autoctona, di abitudini sedentarie e agricole. Questo incrocio avrebbe infranto l’omogeneità razziale della regione, plasmando la divisione tra Picunches (a nord del Bìo-Bio), Araucani (popolazione meticcia tra il Bìo-Bio e il Tolten) e Hulliches (a sud del Tolten).

Altri studiosi hanno rifiutato l’ipotesi dell’incrocio delle razze, sostenendo invece l’unità etnica del mapuche e la sua parentela con le culture settentrionali e mostrando più interesse per la storia culturale delle popolazioni del sud del Cile che per la loro origine. Da millenni l’uomo abitava i ricchi ambienti del litorale, vivendo di pesca, caccia, raccolta. Verso la metà del primo millennio della nostra era arrivarono popolazioni che conoscevano già l’arte della ceramica, coltivavano piccoli orti, seppellivano i morti con offerte; si stabilirono sulle rive dei laghi preandini e fondarono villaggi, chiamati ‘Pitren’ dallo scienziato che li scoprì Circa cinque secoli più tardi, a sud del Bìo-Bio, appaiono insediamenti umani, di cui rimangono cimiteri con sepolture in grandi urne di ceramica contenenti bambini e adulti, affiancati da offertori di ceramica dipinta e da resti di ornamenti di rame. Questi luoghi funerari sono concentrati nella zona di Angol, nella località di El Vergel; queste popolazioni coltivavano mais, fagioli, riso del Perù, peperoncino rosso e zucche, facendo incipienti opere di canalizzazione per l’irrigazione. El Vergel aveva certamente contatti con Pitren.

Documentata è anche la presenza in questa epoca di cacciatori e raccoglitori nella cordigliera appartenenti ad un’altra tradizione culturale. L’impatto della conquista spagnola con questi territori causò un forte e improvviso turbamento nella vita delle popolazioni autoctone, che risposero ai conquistatori con una forte coesione. Si può ipotizzare che differenti popoli che abitavano questi territori si siano uniti, incorporando elementi etnici e culturali montani tipici delle zone al di là della cordigliera e ispani. Questo processo di omogeneizzazione culturale è arrivato fino ai nostri giorni con il nome di cultura mapuche. E’ per questo che oggi si avvertono nel popolo mapuche elementi delle prime popolazioni andine che a Pitren addomesticarono gli animali e coltivarono le piante; e la tradizione dell’orticultura e della ceramica decorata, nota oggi come ‘Valdivia’, proveniente dai villaggi di El Vergel. Infine, l’allevamento del bestiame e la tradizione equestre provengono senza dubbio da elementi spagnoli, che si notano anche nell’incrocio delle razze equine. Restano comunque ancora molte incognite sulle origini di questo popolo, e gli scavi degli scienziati trovano ostacolo nelle condizioni climatiche della regione. In compenso, tuttavia, lo studioso può contare sulla presenza viva della popolazione attuale che, nonostante le influenze esterne ricevute, conserva gran parte del suo patrimonio culturale tradizionale.

L’ ARAUCANIA E GLI ARAUCANI

La “Araucania” è una regione che si estende a sud di Santiago e che comprende i gruppi Picunche, Huilliche, Chiloè e Mapuche; questi ultimi vivevano principalmente tra i fiumi Bìo-Bio e Tolten, ma anche a nord del Bìo-Bio, costituendo sul fiume Maule un ostacolo che gli imperatori inca del Perù non riuscirono mai a varcare nel corso delle loro spedizioni di conquista. Intorno all’ ‘800-‘700 a.C., una tribù imparentata con i Guaranì del Brasile valicò le Ande e si stanziò nella parte centrale del Cile, estendendosi successivamente a nord fino al deserto di Atacama e a sud fino all’Isola di Chiloè.

Questa nuova popolazione si attribuì il nome di Mapuche , che significa popolo della terra (mapu=terra, che=popolo). Da cacciatori e raccoglitori si trasformarono in agricoltori, apprendendo -quelli più a nord- la pratica dell’irrigazione dagli Atacamenos, tribù oggi estinta. Nonostante fossero diventati agricoltori, mantennero uno spirito battagliero, anzi, guerreggiare era una pratica quotidiana, tanto da costringere le altre popolazioni a non avvicinarsi troppo ai loro territori: i mapuches, infatti, non possedevano il concetto di ‘prigioniero’ e loro pratica comune era decapitare i nemici e usarne il cranio come trofeo e boccale. Gli inca denominarono Auca questi Araucani, col significato di ‘ribelle’ o ‘feroce’; ancora oggi nel linguaggio mapudungun “auca” significa ‘disobbediente’, ribelle’, ‘selvaggio’, ‘discolo’ e viene usato anche come sostantivo per indicare la cavalla ribelle. Gli Inca denominarono così i Mapuche perchè non riuscirono mai a sottometterli e questi applicarono il termine ai loro animali da soma: per questo oggi ‘auca’ designa la cavalla ribelle ed è consigliabile non dare dell’auca a un mapuche. Nel XV secolo gli Araucani, costituitisi in una federazione di tribù autonome, erano diventati economicamente tanto forti da riuscire a fermare l’invasione inca nel sud. La loro indole ‘selvaggia’ ha contribuito al loro isolamento, ma anche alla loro sopravvivenza, mentre altri popoli scomparvero quando i conquistadores europei arrivarono sulle Ande. La loro debolezza consisteva, però, nella mancanza di una organizzazione politica e militare: i Capi non avevano un effettivo potere in quanto assolvevano essenzialmente al compito di Consiglieri. Ogni villaggio faceva a sè invece di legare con il resto della tribù. Nel 1535 iniziò la conquista spagnola del Cile. I Mapuche opposero una fiera resistenza e solo ne l 1773 accettarono la pace e l’insediamento spagnolo. Nel 1569 gli spagnoli ribattezzarono i Mapuche col nome di Araucani; in quell’anno appare ‘La Araucana’, il maggiore tra i poemi epici spagnoli sulle campagne militari contro gli Amerindi, scritto dal conquistador Alonso de Ercilla y Zuniga. Da allora i due appellativi -Mapuche e Araucani- si identificano, anche se i Mapuche rifiutano decisamente il termine ‘araucano’, in quanto imposto dallo straniero invasore. Lo studioso Esteban Erize, nel suo ‘Diccionario comentado Mapuche-Espanol’ (1960) puntualizza che ‘araucano’ è un vocabolo spagnolo usato per designare gli indigeni cileni nella zona di Ragco (rag=argilla grigia, co=acqua: acqua argillosa)che prende il nome da un ruscello che lì scorre. Ragco diventa poi ‘Rauco’ e Pedro de Valdivia lo

designa come ‘Arauco’. Questo vocabolo venne poi applicato a tutte le popolazioni che in Cile e in Argentina parlavano lo stesso idioma. Secondo il censimento cileno del 1992 la popolazione mapuche oggi vive per il 44% nelle città e nella regione di Santiago; solo il 15,49% vive nella IX Regione, la Araucania La IX Regione cilena si estende per 31.858 km2 ed ha per capoluogo Temuco con 176.712 abitanti, dei quali 38.410 sono Araucani. Temuco è la città con popolazione mapuche numericamente più elevata (21,73 %), mentre nel comune di Saavedra la percentuale sfiora il 64%. A testimonianza della diffusione di questo popolo nei secoli passati, anche nelle altre regioni è presente una popolazione mapuche, anche se in percentuale inferiore. Mapuche indica non solo una popolazione, ma anche la lingua indigena più parlata in Cile e denominata mapudungun (dungun = linguaggio). Parlano questo linguaggio 440.000 persone, di cui 40.000 in alcune province argentine. In totale gli Araucani cileni sono 968.000 e rappresentano il 9,6% dell’intera popolazione. Dall’ Araucania prende il nome anche il pino Araucaria , importato in Europa nel 1795 e che costituisce per il Cile un’importante risorsa forestale utilizzata per imballaggi, infissi e carta. Caratteristico dell’Araucania è anche un pollo dal ciuffetto alle orecchie e dalle uova blu. La specie più nota è il Gallus inauris. Gli Indios sudamericani possedevano polli addomesticati dalle caratteristiche asiatiche molto prima della comparsa dei Bianchi; pur essendo ormai accertata l’esistenza di polli asiatici precolombiani, non esiste una spiegazione certa di come il gene del guscio blu abbia fatto il suo ingresso tra i polli dell’Araucania. Lo stesso Darwin non conobbe il tipo araucana, ma esistono descrizioni di uova blu antecedenti al 1560. Secondo il naturalista Castellò (1924) un gallo selvatico detto chachalaca (noto anche come ‘fagiano americano’) veniva incrociato con galline indigene per migliorare i ceppi di combattenti: le femmine nate da tale incrocio deponevano uova blu. Secondo altri studiosi il gene del guscio blu è presente in alcune specie di fagiani e non in altre; ibridi possono essere ottenuti dall’incrocio fagiano-pollo domestico, ma sono sterili.

Un altro genetista, Finsterbusch, non crede alla presenza del pollo in Sudamerica prima dell’arrivo degli spagnoli, teorizzando che gli Amerindi avevano incrociato i polli d’origine spagnola con polli sbarcati in Cile da Bali insieme ai pirati olandesi; il guscio blu sarebbe dovuto alla perdita del pigmento rosso a causa del ceppo importato da Bali. Una teoria biochimica in seguito confutata. Secondo Prado il colore blu delle piume,

abbastanza frequente, ha fornito il pigmento necessario per la colorazione del guscio; per cause climatiche, ambientali o di altro tipo, qualche fattore sconosciuto ha prodotto il movimento del blu dalle piume all’ovidutto, dove l’uovo viene rivestito dal guscio. Ma lo studioso non spiega perché questo ‘fattore sconosciuto’ fosse patrimonio dei soli polli araucani.

L'Epopea Araucana

Durante la seconda metà del XV secolo l'imperatore dell'antico Perù annette al suo ampio impero i territori meridionali, che passano a far parte del Regno del Sud (Kolla Suyu). Il controllo effettivo del suo regno arriva solamente fino al fiume Maipo; più a sud c’erano soltanto gruppi militari per difendere le frontiere da gruppi indigeni che, approfittando dei fitti boschi favorevoli alla difesa, impedivano l’avanzata verso il sud degli invasori.

A sud del Maule questi gruppi d’indigeni vengono chiamati "Aukas" o "Purn Aukas" che significa nemico, ribelle o selvaggio. In questo modo l'imperatore spianò la strada alla conquista spagnola La resistenza degli “Aukas”, che l’imperatore non era mai riuscito a sottomettere, viene vinta dalle truppe spagnole guidate da don Pedro de Valvidia, che arriva fino alla Isola del Grande di Chiloè, senza però riuscire mai a sottomettere definitivamente queste terre. A sud del fiume Bio-Bio gli indigeni mantengono la loro

indipendenza, anche con una serie di lotte conosciute come la “guerra di Arauco”. Non tutti gli indigeni che abitano in questi territori si comportano in modo simile. Mentre i mapuches mantengono gelosamente la loro indipendenza e non ammettono nessuna penetrazione straniera, gli indigeni a sud del Tolten ammettono l’installazione di “enclavi” militari e missionarie e cooperano con gli spagnoli nella guerra contro i “ribelli”. Le guerre contro gli indigeni durarono fino al XIX sec. Nel 1535, Almagno attaccò i mapuches e, nonostante la stanchezza del suo esercito per aver attraversato il deserto, li sconfisse grazie alle tecniche di combattimento degli spagnoli. Dopo questa confitta i mapuche ripiegarono nelle foreste del sud del Cile. Nel 1540 continuarono gli attacchi da parte degli Spagnoli comandati da Pedro de Valvidia. Gli Spagnoli trucidarono e sgominarono i mapuches. Nonostante la sottomissione, i mapuches reagirono, riuscirono ad imparare le tecniche di combattimento spagnole grazie al loro capo Lautero., che nel 1553 attaccò gli spagnoli, li sconfisse, prese Pedro de Valvidia come prigioniero e lo uccise. Gli spagnoli dopo questa sconfitta inviarono nuove truppe guidate da Garcia Hurtado de Mendoza, ma anche questi furono sconfitti e Garcia Hurtado ucciso. Gli spagnoli rinominarono gli indigeni Araucani, questo nome venne però inteso come dispregiativo dai mapuches, perché era stato dato dallo straniero. I continui attacchi indigeni portarono alla distruzione delle città spagnole e al ripiegamento delle forze spagnole .Nel 1641 fu stipulato un trattato di pace, ma solo nel 1773 fu firmato da entrambi le parti. Questo trattato sanciva l’ autonomia di quattro stati mapuches, governati da capi ereditari, i Toquis.

La guerra di Arauco determina cambiamenti nel modo di vivere Il cavallo fu uno degli apparati spagnoli che ebbe maggior impatto nella trasformazione dei mapuche. Quest’elemento fu associato al loro modo di vivere con estrema facilità, convertendosi come migliore arma per il mantenimento dello stato di guerra e conferendo a questo popolo una grande mobilità. Il mapuche fa della guerra un sistema di vita, e attraverso la guerra ottiene prestigio, mantenimento e donne.

Sono frequenti le alleanze guerriere tra indigeni, ad esempio con il ‘pehuencha’ o “abitante del versante andino”. Questa coesione è rappresentata dall’istituzione del capo guerriero o “Toki”, eletto per le sue attitudini di leader e destrezza tattica ogni volta che sorge un conflitto; questo personaggio in guerra è a capo di tutti gli indigeni, che gli obbediscono ciecamente. Il suo potere dura solo durante la guerra. La sanguinosa guerra araucana dura quasi tre secoli, risultando inutili gli sforzi per sottomettere i mapuches. Sacerdoti, militari, e amministratori spagnoli

inviano periodiche relazioni in patria cercando di giustificare il mantenimento dell’esercito di Arauco; scrivono interi libri nel tentativo di spiegare la tenace resistenza del mapuche A partire dal 1850, con l’immigrazione massiccia di Europei, il governo violò le frontiere dei territori indiani rimettendo in movimento l’apparato bellico. Nel 1861, un avventuriero francese, l’avvocato Orelie Antonie, integratosi con gli indigeni, si fece nominare re di Arancania col nome di Orelie Antoine I. Organizzò un esercito di 40000 uomini e attaccò il Cile nel 1862. Fu sconfitto, rinchiuso in manicomio e rimandato in Europa su intervento del Governo francese; ma tornò in Cile nel 1869 e fece riprendere la guerra, fu ancora sconfitto e rimandato definitivamente in Francia. Solo nel 1880-81 gli araucani vengono definitivamente sottomessi . Pur acquisendo alcuni costumi cileni, i Mapuches hanno cercato di mantenere le proprie tradizioni e organizzazioni. Sotto il governo del socialista Salvador Allende (1970-1973) fu loro riconosciuta una certa autonomia. I movimenti indigeni hanno ripreso energia in questi ultimi anni e frequenti sono le contese con la giustizia cilena, con la polizia, con i connazionali. Gli stessi Mapuche si autodefiniscono ribelli contro l’ingiustizia del “Cileno”

ORGANIZZAZIONE POLITICA “Nella sua altezzosa testa, come il leone, ha sempre forza. Il suo viso è pulito e senza barba e i suoi morbidi capelli sono neri. Così è la figura di un grande capo, ahi, mammina,mammina.” (P.F. de Augusta, 1934)

L’uomo è il capo indiscusso della famiglia patriarcale e le sue opinioni e decisioni sono accettate senza discussione. Egli è il rappresentate degli interessi della famiglia all’interno della comunità mapuche. In epoche preispanica all’interno dell’estesa famiglia che componeva il gruppo locale, il capo (LONKO) era il membro maschile più ricco (ULMEN), che oltre alla ricchezza doveva avere buon giudizio ed eloquenza. Per qualsiasi decisione che interessasse la comunità doveva consultarsi con gli altri capi famiglia, senza atteggiamenti da despota. Nella semina e raccolta dei suoi campi veniva aiutato da tutto il gruppo attraverso il ‘lavoro di comunità’ (LOF KUDAU); così riaffermava il suo prestigio all’interno del gruppo La coesione sociale non si fondava solo su questo capo, ma sugli stretti vincoli di parentela che univano i membri del gruppo e sulle relazioni di solidarietà e cooperazione che sorgevano. Chi dissentiva dal capo poteva formare un altro gruppo o stabilirsi in altro luogo. La conquista spagnola introduce delle modifiche nell’organizzazione sociale mapuche: la corona spagnola nomina i ‘cacicchi’ governatori e funzionari amministrativi, dando loro il comando in nome del re. La guerra nell’Araucania obbliga l’indigeno a istituire un forte sistema di coesione per la guerra e a nominare il capo guerriero (TOKI), che decade al termine della guerra. Dopo la totale pacificazione dei territori indigeni, lo Stato cileno affida i villaggi all’autorità del cacicco, che ha anche il compito di ripartire le terre tra i membri della comunità. Le decisioni che coinvolgono gli interessi della comunità continuano però ad essere prese con la partecipazione di tutti i membri di maggior prestigio del gruppo. Ma la recente politica di dividere le terre comuni tra le famiglie di ogni villaggio contribuirà a una maggiore disintegrazione sociale e politica della società mapuche.

FAMIGLIA E ORGANIZZAZIONE SOCIALE “Fai una culla, Pangui” Venne a dirmi Amoiante Come avremo altri bambini? Con che cosa vivrà la nostra bambina? Aggiusta un corno per suonare, Maril’uan Per far sì che abbiamo figli E’ uomo, dicono E’ donna, dicono, L’uomo che avremo; E’ uomo, è donna L’essere che avremo. (P.F. de Augusta, 1934) Il visitatore che si avvicina alla ruka (abitazione mapuche) viene invitato ad entrare; la donna gli offre una sedia e bevande vicino al fuoco che arde incessantemente. D’estate,

intorno a un tavolo posto all’ombra di un melo, il visitatore potrà assaporare una fresca e piccante bevanda alcolica, la chicha, fatta con le mele. L’ordine e la pulizia regnano nella casa, l’obbedienza dei piccoli è sorprendente, la vita familiare trascorre in modo tranquillo. La donna, oltre ad accudire i figli e a svolgere i lavori domestici, coltiva gli orti e alleva animali. Nei suoi momenti di pausa si siede col suo fuso e fila la lana ottenuta dalla tosatura delle pecore, per fare ‘ponci’ colorati, coperte, sciarpe ed altri tessuti. Lavori femminili sono anche la ceramica e l’arte di costruire ceste; la padrona di casa è aiutata dai figli minori e dalle donne nubili, che erediteranno gli insegnamenti per la vita matrimoniale. Il capo famiglia è l’uomo: lavora la terra, cura il bestiame, soprattutto cavalli, incide il legno e lavora la pelle. In estate la vita si svolge all’aria aperta; d’inverno, mentre la pioggia cade incessantemente sul tetto di paglia, la famiglia si riunisce intorno al fuoco e, incurante del fumo che annerisce le pareti, i membri più anziani si intrattengono in lunghe conversazioni e racconti delle gesta dei loro antenati. In questo modo i bambini assimilano in silenzio la cultura del loro popolo. Per la famiglia mapuche i figli maschi rappresentano la continuità: si sposeranno, vivranno nelle loro case poste nelle terre paterne, aiuteranno i genitori ed erediteranno, un giorno, le loro terre . Le donne, invece, vivranno con i loro genitori solo in caso di nubilato; con il matrimonio abbandoneranno il luogo natale, si stabiliranno nella casa del marito e i loro figli perderanno i vincoli con le terre materne. La parentela si trasmette per linea maschile. Un giovane chiamerà “fratello” o “sorella” i figli del fratello di suo padre, e gli sarà vietato il matrimonio con quest’ultima; il matrimonio tra cugini, invece, (la figlia del fratello con il figlio della sorella) è il legame preferito dal sistema familiare e in passato costituì un matrimoni obbligatorio. I membri celibi di un gruppo di residenza, legati tra loro da vincoli di parentela col padre, devono cercare l’altra metà fuori dalla comunità: è il matrimonio detto ‘esogamico’ Trovata la donna della propria vita e una volta trascorso il periodo di corteggiamento, che consiste in visite periodiche al villaggio della fidanzata o feste sociali e rituali, il padre del fidanzato, informato dei desideri di suo figlio e approvata la scelta, manderà un messaggero -werken- a casa dei genitori della fidanzata, al fine di preparare l’accordo. Accettato l’accordo dagli affini, i parenti e gli amici del fidanzato visitano la casa della sposa portando denaro, animali, ornamenti e argenteria. Se i padroni di casa si sentono soddisfatti dell’ammontare e della qualità dei dono, la coppia contrae matrimonio in una solenne cerimonia con festa. Immediatamente la sposa si trasferisce nella casa dei genitori del marito, portando con sé i doni di suo padre, tra cui un cavallo. Trascorsi alcuni giorni, la nuova coppia riceverà la visita dei genitori della sposa novella, i quali porteranno pane e farina. Dopo qualche tempo, verrà costruita per la coppia una nuova casa, vicina alla ‘ruka’ paterna. Il matrimonio tramite rapimento era una forma tradizionale, oggi in disuso. Il fidanzato, i suoi parenti e gli amici rapivano dalla casa dei suoi genitori la donna scelta e, portato a compimento il matrimonio, si facevano le offerte sacramentali. La poligamia è stata ampiamente praticata, ancora oggi gli indigeni parlano con orgoglio dei loro antenati che avevano molte spose: era un simbolo di potere e di ricchezza. Generalmente un uomo si sposava con sorelle della prima moglie, a garanzia di una miglior comprensione tra loro. Rigorose regole di comportamento e di organizzazione impedivano gli attriti che potevano nascere da questi tipi di matrimonio. Ogni moglie occupava un determinato spazio della

casa e aveva il proprio focolare, dove cucinava per sé e i figli; seminava un podere distinto e allevava i propri animali. La prima moglie godeva di uno status maggiore e le altre dovevano obbedire ai suoi ordini. Molte volte era proprio la prima moglie che consigliava al marito una nuova moglie, poiché si sentiva vecchia, stanca e bisognosa di aiuto per la conduzione della casa.

Queste usanze sono naturalmente decadute, grazie all’influenza della cultura ‘occidentale’ e del cristianesimo.

Il raggruppamento di varie famiglie unite da vincoli di parentela relativi al padre forma una comunità che vive su un territorio di proprietà comune. Le occupazioni mapuches non formano tuttavia villaggi attigui, ma disseminati. Ogni famiglia vive nella sua ‘ruka’ attorniata da cortili rurali, il podere e le terre che utilizza. E’ un tipo di sistemazione preispanica, già descritta dai conquistadores. Relazioni di parentela, vicinanza spaziale e vincoli di cooperazione e lealtà mantengono unite le famiglie che formano un gruppo locale, unito anche dalle credenze religiose e dal culto degli avi. Anche il matrimonio ‘esogamico’, cioè fuori dal gruppo locale, è uno dei veicoli più importanti per integrare varie comunità mapuches tra loro ed è di fondamentale importanza per comprendere la società mapuche. Le relazioni relative alla parentela materna danno origine a vincoli di ordine economico, come i lavori agricoli, costruzione di case, eventi di tipo ludico o sportivo come la chueca o pali

(specie di golf). D’importanza vitale per la coesione sociale sono anche le istituzioni religiose, le norme e i valori.

L’ ECONOMIA, LE ATTIVITA’ E LE ARTI

“Dopo sposati lavoravamo tutti e due,

io mettevo a maggese e seminavo di tutto

un po’.

Lei stava a casa,

preparava vari cibi

e lavorava anche tessuti.” (W. de Moesbach, 1930) Prima dell’arrivo dello spagnolo l’attività fondamentale di sussistenza mapuche era legata alla raccolta di prodotti dell’ampia gamma di flora e di fauna della regione.

L’uomo, insieme ai parenti maschi, andava a caccia di guanachi (lama andini), piccoli cervi o altri animali; le donne, accompagnate dai loro figli, raccoglieva nei boschi frutti selvatici di arbusti con bacche per preparare dolci o bevande e felci per cucinare brodi insaporiti da peperoncino rosso. Nella zona precordigliera l’attività economica principale, oltre alla caccia, era la raccolta del pinolo, fonte alimentare degli indigeni. L’abitante della costa (LAFKENCHE), per cibarsi, estraeva ricci, cozze e molluschi o caccia gamberi, mentre le donne raccoglievano erba marina commestibile (COCHAYUYO)e le sue radici, il LUCHE (alga commestibile) Tutta la comunità praticava la pesca con reti di fibre vegetali o con l’arpione nella pesca individuale. Il lama fu addomesticato dal mapuche e il suo possesso era simbolo di stirpe e di ricchezza; la lana era l’unica fibra per l’elaborazione di tessuti. Non è chiaro se sia stato utilizzato anche per il trasporto. La coltivazione della terra si limitava a piccoli orti familiari di fagioli, fave, riso del Perù, zucche, peperoncino rosso e patate; nei campi disboscati si coltivava il mais. Questi lavori di sussistenza resero mobili i gruppi mapuche, che si trasferivano da un luogo all’altro in cerca di terre migliori, stabilendo così anche relazioni di scambio con altri gruppi. Gli abitanti delle pianure (LELFUNCHE) erano soliti barattare i cereali con prodotti marini degli abitanti della costa. La colonizzazione europea introduce specie animali e vegetali sconosciute come: il grano, l’orzo, la pecora, il cavallo, i bovini e il melo. Quest’ultimo si adatta perfettamente al clima e al suolo dell’Araucania e in pochi anni crescono veri boschi naturali i cui frutti (Manshana) diventano prodotti di raccolta selvatica. Mentre la popolazione aborigena delle regioni pacificate, in un accelerato processo di incrocio di razze, adotta un nuovo stile di vita determinato dai villaggi agricoli (encomiendas), l’indigeno degli indomiti territori australi continua con la sua mobilità, aggravata dalla Guerra dell’ Arauco e dall’introduzione del cavallo. Dopo la pacificazione dell’Araucania si crea un vincolo più stretto tra mapuche e suolo e diminuisce la raccolta di prodotti selvatici a favore delle attività agricole : solo ora si può parlare di un’economia agricola fra i mapuches. Si introducono nuove tecniche di coltivazione come la rotazione dei campi l’uso di animali da traino, per chi gode di possibilità economiche legate al possesso di terre; ciò vale anche per i fertilizzanti e le apparecchiature di coltivazione e di raccolto. Gran parte del terreno concesso alle comunità mapuches è collinare e dovrebbe essere terrazzato o lavorato in cerchio per seminarlo, ma il mapuche ignora queste tecniche particolari e ciò causò l’erosione dei campi, soprattutto sulla costa. Si mantengono ancora i lof kundau, i lavori di gruppo, per certi lavori agricoli come la semina e il raccolto sulle terre di qualche personaggio importante della comunità, il quale chiama al lavoro parenti e amici, ricompensandoli con festeggiamenti. Durante la trebbiatura del grano -principale coltura mapuche del periodo post- ispanico- si danzava al suono di tamburi sopra le spighe per sgranarle. Ancora oggi l’epoca della raccolta è considerata periodo festivo, con visite di parenti e un abbondante consumo di carne. Il lavoro di gruppo si effettua anche per la pulitura dei canali, la costruzione e la manutenzione di strade e ponti, la preparazione del terreno coltivato, con riti e preghiere solenni per invocarne la fertilità.

Meno frequente è il “rukan” o collaborazione nella costruzione della casa di paglia, che dava luogo a feste folkloristiche di lunga durata. La ruka , di grandi dimensioni (120-240 metri quadrati), ospitava un ampio gruppo familiare e veniva costruita da tutti i vicini, che tagliavano roveri, intrecciavano rami e paglia con campanule per alzare i muri. Preparato il terreno, si scavavano i buchi dei pali e si disegnava il contorno dell’abitazione. Il rivestimento dei muri e dei tetti con vegetali serviva come isolante di prima qualità contro la temperatura estiva o invernale. Nella ‘ruka’ si custodiscono le brocche di chicha (bevanda alcolica ottenuta dalla fermentazione di vegetali) e mudai (chicha di mais e orzo), insieme a sacchi di grano e fagioli o bauli con vestiti e utensili. Nella parte centrale si trova il camino, di fianco il letto e appesi al tetto trecce di peperoncino e mais. Alle estremità del tetto esistono bocchette di ventilazione da dove esce anche il fumo del focolare.

L’entrata è orientata verso est e qui la donna pone il suo telaio per tessere in inverno o macinare l’argilla per modellare brocche, tazze, pentole, piatti. Per tessere coperte di lana o tappeti usano il telaio verticale, con disegni e simboli; il telaio orizzontale, steso al suolo come quello delle Ande Centrali, per le sciarpe e i tessuti più fini Il filato dei velli di pecora è occupazione di ogni donna mapuche nelle ‘pause’ della

giornata. Girando intorno al loro fuso, essi producono fili di diverso spessore, a seconda del capo di vestiario che intendono preparare. Nel processo di tintura useranno coloranti naturali per le tonalità rosse, arbusti o fango per quelle nere e così via..Le tinture artificiali vengono acquistate nei mercati urbani. Le attività maschili si svolgono invece fuori dalla ‘ruka’. L’uomo mapuche sa lavorare con grande maestrìa il legno, costruendo statue, manufatti vari, regole, piatti, recipienti o strumenti musicali come lo zufolo, il tamburo, la trombetta. Le statue in legno sono figure antropomorfe che

rappresentano le divinità e presiedono le preghiere solenni o sono statue funerarie o emblemi per le cerimonie degli sciamani. Pochi sono, invece, gli uomini specializzati nella metallurgia: fabbricano monili, ornamenti per i capelli, fermagli e ornamenti per selle e attrezzature da cavallerizzo. I mestieri artigianali sono comunque diminuiti, con l’accesso dei mapuches ai mercati urbani; così, ad esempio, i mantelli maschili(CHAMAL)o i drappi femminili tessuti al telaio(KEPAM) sono stati rapidamente sostituiti da prodotti di origine industriale urbana. Ciò vale anche per gli utensili di uso domestico. Persiste, tuttavia, l’arte tessile mapuche, con tappeti tessuti a mano, coperte di lana, tessuti di lana con frange: prodotti artigianali di qualità non superata dall’industria. La difficile situazione economica ha costretto i mapuches a vendere a collezionisti i gioielli d’argento del loro artigianato.

CREDENZE E RITI

LE FORZE DEL BENE E DEL MALE Dal Nord, così dicono, Arrivò il demonio Da sotto il suolo passò Attraverso l'aria passò (P.F. de Augusta, 1934) Nella necessità di spiegare il suo mondo, formulare giudizi, stabilire gerarchie di valori, la cultura mapuche è ricca di credenze, così come di riti che permettono all’uomo di mettersi in contatto con forze naturali e soprannaturali . Nel sistema cosmologico dei mapuches il tramite tra questi due mondi è il MACHI (Sciamano) WENU MAPU è la regione celeste popolata da una schiera eletta di dei, che occupano posti distinti in una gerarchia ben stabilita. In un luogo indeterminato delle regioni superiori del cielo abita l’essere supremo che guidò il popolo mapuche nei luoghi in cui oggi si trova e che veglia su di lui: è NGENECHEN (Signore degli uomini) che possiede quattro attributi opposti -sesso maschile/sesso femminile, gioventù/anzianità - che danno origine a quattro personaggi: l'Anziano, l'Anziana, il Giovane e la Ragazza.

Anche alcuni corpi celesti, come la luna (KILLEN), l'alba (WUNELFE) e le stelle (WANGLEN) vengono divinizzati e la loro influenza si farà sentire sullo sciamano, le cui doti premonitrici e di taumaturgia dipendono da questi esseri astrali. Nelle preghiere solenni per chiedere grazia si invoca l’intercessione di esseri già morti, divenuti leggendari: i guerrieri, i cacicchi e gli sciamani antichi. Anche gli antenati e i fondatori delle stirpi hanno un posto in cielo e si spera che continuino a vigilare per la sicurezza e la prosperità dei loro discendenti come facevano in vita. Anche questi spiriti possono avere, come l’essere supremo, le quattro caratteristiche opposte, così come altri esseri mitici e gli avi. Gli spiriti dei glorioso antenati di una stirpe si personificano nel diavolo (PILLAN) che vive dietro le montagne, in Oriente, ed è lo spirito soprannaturale più vicino all’uomo. La sua invocazione è il primo gradino dell'ascesa verso il mondo sacro. Ci sono due punti cardinali in relazione con il bene: - SUD: da cui spirano venti buoni che apporteranno prosperità, fortuna e abbondanza - EST: dove abita il diavolo, che è il luogo più carico di sentimento religioso. Per questo la casa mapuche (RUKA) ha la sua entrata verso est e le figure di legno antropomorfe che presiedono la preghiera solenne sono orientate anche esse verso la cordigliera; anche lo sciamano rivolge le sue orazioni verso oriente. Le bandiere o gli stendardi dei ‘machi’, come le statue sacre, mescolano i colori del cielo, bianco azzurro, carichi di valori positivi. Durante le cerimonie anche i partecipanti al ballo si dipingono il viso e si vestono con capi abbinati a questi colori. Per decorare i luoghi cerimoniali vengono usati: la magnolia (albero sacro per eccellenza), il "maqui" (arbusto che produce bacche usate per fare le torte), l'alloro e il melo.

Con l'influenza del cristianesimo si perse la concezione duale (adorazione di due dei) e ci si avvicinò ad una concezione monoteistica. Attualmente, infatti, si designa l’essere supremo come il Padre Dio (CHAU DIOS), creatore e signore del cielo e della terra. Le tradizionali doppie opposizioni di attributi per le divinità si trovano ancora, tuttavia, nei canti e nelle orazioni dei ‘machi’ e vengono trasmesse di generazione in generazione.

Queste influenze esterne hanno creato confusione tra i mapuches rispetto al diavolo (pillan), essendo esso considerato divinità, ma anche demonio, come veniva descritto, nella regione dei vulcani, dai missionari, perché veniva rappresentato in eruzioni, fulmini, tuoni ed altri eventi catastrofici. Il mondo del male, delle forze occulte e demoniache si trova sotto terra (NAG MAPU’), dove vivono esseri e animali mostruosi che si nutrono di carni umane. E’ il mondo associato al colore nero e dove predominano disgrazia, malattie, morte e miseria.

Il sito geografico che corrisponde a questo mondo è il NORD, da dove proviene il vento portatore di maltempo che rovina i raccolti L’ OVEST, dove si nasconde il sole e dimorano le anime dei morti, è anch’esso oggetto di timore e sospetto. Il mondo del male è popolato da entità mitiche che percorrono la terra mapuche seminando disgrazia e morte. Questo mondo malefico è popolato da una serie di entità mitiche che percorrono la terra mapuche, seminando disgrazie, calamità e morte: sono i WEKUFU, dalle sembianze antropo-zoomorfe. Tra questi: il witranalwe, spirito di un uomo molto alto e scheletrico, che galoppa di notte per i campi vestito di un lungo scialle nero, aggredisce gli uomini ed è presagio disgrazia. Chi si associa a lui diventa facilmente ricco, ma si condanna a vivere e a mantenerlo con sé per

sempre. E’ oggetto di grande timore e la sua presenza è rivelata spesso nell’oscurità dei campi; • l’ anchimallen, spirito inquieto di una ragazza morta, dagli occhi di brace, che, se risvegliato da una strega, esce dalla sua tomba e si converte nel suo alleato e complice; • il nakin o bambino che attrae i viaggiatori delle paludi con il suo pianto; • il chon-chon , testa di strega alata.

Altri animali mitologici che popolano questo mondo sono il piwichen o serpente alato, il ngurru vilu, volpe con coda di serpe, il wallipen o pecora deforme e altri: tutti succhiano il sangue o il respiro degli esseri umani, causando la loro morte per consunzione. Vi è poi una specie di meteorite o luce fugace, il cherrufe, che attraversa il cielo e annuncia calamità.

Ci sono persone, di sesso femminile e che vivono nei boschi o in grotte, che si mettono in contatto con il luogo sotterraneo dove dimorano le forze del male: sono le streghe (KALKU), che invocano l’aiuto dei wekufu nelle loro imprese demoniache. Queste persone sono evitate dai mapuche, ma in casi estremi questi ultimi chiedono segretamente la loro collaborazione. Questi professionisti della magia nera hanno ereditato queste arti dai loro antenati o le acquisiscono dopo un lungo periodo di allenamento. Le donne anziane vedove o nubili, che vivono in luoghi appartati ed hanno uno strano

comportamento, sono considerate streghe dai vicini e sono accusate di compiere riti macabri in grotte oscure. Il mapuche crede che la malattia o la morte non abbiano cause naturali, ma provengano dall’azione di forze malefiche su una persona e si icolpa solitamente un wekufu o una kalku. Nel primo caso il machi farà uscire il demonio dal corpo del paziente e nel secondo caso dovrà scoprire lo stregone che causò il male e denunciarlo. In epoche remote le persone accusate di atti di stregoneria erano condannate a morte perché credute pericolose per la comunità. Oggi, invece, sono allontanate dai gruppi e devono emigrare o vivere isolate. Morta una strega, la sua anima non riposerà in pace nelle montagne o non andrà a mangiare patate nere all’altro lato del mare, ma si unirà ai demoni reincarnandosi in uno degli esseri mitici sopra descritti, soprattutto il chon-chon , per radicarsi alla fine nel corpo di un altro kalku , che sarà il suo successore.

LO SCIAMANESIMO Era tutta coperta di ripari e fiori Quando vennero a cercarmi nel monte Di sacri rami di magnolia ero coperta, Quando vennero a cercarmi nel monte. Ero coperta di rami d'alloro. (P.F. de Augusta, 1934)

Il machi, lo sciamano, è l’intermediario tra il popolo mapuche e il wen mapu o terra degli

dei. Attraverso la sua mediazione le divinità concedono salute, benessere, tranquillità ed abbondanza. Lo sciamano è incaricato principalmente della rappresentazione divina nella lotta quotidiana tra bene e male, il cui campo di battaglia è la terra. E’ dotato di facoltà divinatorie, terapeutiche e rituali. In tempi passati questa professione era esercitata solo da uomini dotati della duplicità di attributi sessuali che caratterizzavano le divinità. Attualmente invece, attraverso l’influenza europea e cristiana, questa funzione è esercitata principalmente da donne, nelle quali non c’è la duplicità degli attributi. Una serie di indizi fanno capire ad un mapuche che è stato scelto per esercitare il compito di sciamano. Ha visioni premonitrici e sogni che sono in relazione con certi animali di colore bianco, dopo dei quali contrae

una malattia incurabile, che può attenuare solo con la sua consacrazione come "MACHI". Deciso a farlo, l’aspirante pattuisce con uno sciamano di esperienza il suo allenamento e va a vivere vicino a lui, diventando suo alunno e apprendista. Costruirà una ruka e vivrà solo, iniziandosi ai segreti delle piante medicinali e alla scienza dei complicati riti e cerimonie di invocazione: tutto sotto la stretta vigilanza del suo maestro. Trascorsi alcuni anni di apprendistato, si preparerà per il grande giorno della sua iniziazione, nel quale si celebrerà il machiluwun (cerimonia solenne) con l'assistenza di famosi sciamani che lo aiuteranno nella difficile trance. Il Machi fa costruire o costruisce egli stesso il rewe, la scala cerimoniale, e il kultrun , il tamburo, con il quale canterà e ballerà per tutta la vita, invocando gli dei e gli avi a favore del suo popolo. Seppellito a Oriente della sua casa il rewe, tutti i machi cantano allo splendore dell’alba (WUNELFE) affinché intervengano in aiuto dell’iniziato i diavoli d’Oriente, le Antiche Sacerdotesse, i Guerrieri, L’Anziano Re e l’Anziana Regina, il Giovane e la Ragazza, gli antiche Cacicchi e, soprattutto, la Luna e le Stelle. La scala viene dissepolta e decorata con rami degli alberi sacri e in ogni lato si inchioderanno le bandiere o gli emblemi -di colore bianco e azzurro o celeste- che il machi ha scelto.

Gli assistenti preparano anche il corpo dell’iniziato con un rito che lo rende immune contro le forze del male. La cerimonia culmina con il ballo e il canto dell’iniziato, che sale per la prima volta i gradini sacri del ‘rewe’ suonando con la mano destra il tamburo; il culmine arriva quando il machi cade in trance e comincia a trasmettere messaggi degli dei, che sono ripetuti dal machidungun o interprete. Il nuovo ‘machi’, grazie a questo potere di comunicazione con le entità celestiali, scaccerà gli spiriti cattivi e somministrerà medicine.

Con la preghiera solenne (NGILLATUN), egli chiede alle divinità la fertilità dei campi, la riproduzione degli animali e il benessere della comunità; alzerà poi lo sguardo verso Oriente e suonerà e canterà: "Preghiamo che piova perché producano le semine, perché possiamo avere animali; “Che piova”, dica lei Uomo Grande, testa d'oro e lei Donna Grande, preghiamo le due grandi e vecchie persone...".

Noi e “Loro”

Il contatto tra i coloni italiani e i mapuches, dagli inizi del Novecento, acquistò caratteristiche singolari. Se nei primi anni i rapporti furono molto sporadici a causa delle diversità di lingua e di cultura, in seguito si limitarono alla imitazione di alcuni aspetti delle attività agricole dei coloni da parte degli indigeni. La descrizione che nel 1905 il dott. Alfonso Lomonaco* fa della popolazione mapuche può darci un’idea della diffidenza, di pregiudizi e del tipo di atteggiamento predominante che caratterizzarono i rapporti fra coloni e indigeni. I Mapuches sarebbero di aspetto “poco piacevole” e con l’avanzare degli anni “il loro volto diviene deforme e ripugnante”, soprattutto quello delle donne, che è “come incartapecorito”. “Indicibile” è poi, secondo Lomonaco, “la profonda tristezza e l’inebetimento della loro fisionomia”; sembrano “paria”

che “si sappiano reietti ed abbandonati e che sfuggano al consorzio umano” Lomonaco continua chiedendosi “se essi debbano considerarsi come i genuini discendenti della forte e bellicosa razza araucana…oppure se essi rappresentino una razza degenerata e avvilita. Questa seconda supposizione mi sembra più conforme alla realtà delle cose..e credo pertanto che questa razza non sia più al caso di sentire i benefizi della civiltà e di assimilarsi e di fondersi più oltre col resto della popolazione civile, in mezzo a cui rimane come elemento estraneo ed anormale, come un avanzo di epoche lontane…volendo intanto spiegarmi per quale malefico influsso questa razza così fiera e indomita sia degenerata in tal senso, io ne sospettai la cagione –pienamente confermata da altri- nell’abuso di bevande alcooliche a cui essi si abbandonano con una frenesia bestiale e che ha finito coll’abbrutirli. Non parrà dunque esagerato l’affermare che questo avanzo di popolazione barbara e forte sia destinato, almeno in certe zone, a sparire fatalmente” (dalla relazione di Alfonso Lomonaco, “Il primo saggio di colonizzazione italiana in Cile, Ministero Affari Esteri, Bollettino Emigrazione, 1905).

DESCRIZIONE FISICA 1. Bassi di statura 2. Tozzi e massicci 3. Pelle scuro-giallastra o bronzina 4. Faccia larga 5. Guance sporgenti 6. Naso grosso e narici larghe 7. Da giovani, sani, forti e robusti 8. Da anziani deformi e ripugnanti 9. Occhi spenti e opachi ABITAZIONI Capanne di rami intrecciati Interno squallido

CARATTERE

1. Umili 2. Dimessi 3. Diffidenti 4. Abbandonati 5. Timorosi e ostili 6. Razza degenerata e avvilita 7. Fanno abuso di alcool 8. Barbari e forti 9.Fieri e indomiti in passa

Vivono nel fondo di vallate, pochi i contatti con i ‘civili’

Puren,

Araucania (Chile)