Intorno a un giudizio di Giovanni Gentile
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NORBERTO BOBBIO
Intorno a un giudizio su Giovanni Gentile
Estratto dal volume
STUDI DI FILOSOFIA IN ONORE DI GUSTAVO BONTADINI
VITA E PENSIERO Pubblicazioni della Università Cattolica Milano 1975
(
NORBERTO BOBBIO
Intorno a un giudizio su Giovanni Gentile
Da molti anni sono debitore di una risposta all'amico Gustavo Bontadini, che in un suo articolo del 1965, Come oltrepassare Gentile, mi aveva rimproverato di aver dato - in un mio saggio di dieci anni prima, Cultura vecchia e politica nuova (1955), poi raccolto nel volume Politica e cultura - un giudizio troppo severo, ingiusto e ingeneroso, su Giovanni Gentile, e mi aveva invitato a rivederlo: «Sarei lieto - concludeva - se, nel ventennio della morte, l'amico Bobbio non dico cambiasse, ma attenuasse quel giudizio» I. Il mio giudizio (lo riporto per intere. non staocandolo dal contesto in cui era inserito, perché solo in quel contesto riesce, se non giustificabile, per lo meno intelligibile) era questo: «Cresciuto in ambiente borghese-patriottico, tra coloro che avevano resistito al fascismo [ ... ] e coloro che avevano ceduto, non fui per lungo tempo persuaso che avessero storicamente ragione i primi. Ero propenso a dar loro ragione sul piano morale, ma non sul plano politico. Gentile con la sua teoria dello stato etico ebbe la parte principale nel creare questo stato d'animo: ed è forse per questo che oggi non posso rileggerlo senza provare dispetto o vergogna. Non posso vederlo che nella veste del retore o del corruttore. I miei colleghi filosofi che ne parlano ancora con riverenza mi paiono persone vissute in un altro mondo, con altri affetti, altre esperienze, altre memorie, in un mondo col quale credo di non aver più nulla in comune. Nel mondo dei miei affetti e delle mie memorie c'è, invece, ad esempio, un insegnante di italiano che una mattina entra in classe - facevo seconda liceo - con l'aspetto dell'uomo colpito da grande dolore, e legge sulla (Stampa' la breve notizia da Parigi della morte di Piero
I L'articolo, apparso primamente nel «Giornale critico della filosofia italiana », 44 (1965), 74-82, ora si trova raccolto nel libro Conversazioni di metafisica, Milano 1971, voI. I, pp. 165-175. Il passo che mi riguarda è a pp. 174-175.
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Gobetti: era stato, egli aggiunse, uno dei suoi migliori allievi, ed era grave perdita per l'Italia» 2.
Anzitutto desidero rassicurare l'amico Bontadini che non avevo aspettato i venti anni dalla morte per parlare di Gentile in modo più pacato e più distaccato, meno, come dire?, appassionatamente autobiografico. In un saggio del 1958, ripubblicato in Italia civile (1964), guarda caso, proprio nel ventesimo anniversario della morte, dopo aver esposto brevemente e senza alcun intento polemico 'il pensiero politico di Gentile, concludevo, con l'animo di chi si era studiato « di non ridere né piangere », così: «Dello stato fascista egli si fece, com'è noto, teorico e sostenitore, sino ad affermare che lo stato totalitario era il vero stato liberale. E quando questo crollò, pagò con una morte crudele la sua ostinata e disperata coerenza» 3 . In secondo luogo voglio ora d1rgli pubblicamente che, quando mi fu offerta l'occasione di parlare nuovamente di Gentile, nel Profilo ideologico del Novecento, non avendo mai dimenticato il bontadiniano rabbuffo, scrissi queste parole: «Gentile era un uomo intellettualmente vigoroso e moralmente generoso, fatto d'impeti e di slanci ideali, ottimista sino all'ingenuità, con una vocazione profonda all'apostolato filosofico, intesa la filosofia ,come fede nel vento dello Spirito che soffia in ogni cuore, una specie di religione laica che suscita proseliti entusiasti »; «Nonostante la sua adesione al fascismo, la sua interpretazione distorta del liberalismo che lo portò a vedere la piena attuazione dell'idea liberale in uno stato di polizia, Gentile rimase nell'animo e nel costume un liberale all'antica e cercò spesso con la sua opera personale di rimediare, specie nel campo della vita intellettuale, alle malefatte del regime» 4.
Se, dunque, mi si chiedeva una riparazione o per lo meno una correzione o un'attenuazione del vecchio giudizio, credo di aver fa tto il possibile per accogliere l'invito: ho chiarito il mio pensiero e, chiarendolo, ho dissipato, credo, ogni sospetto di preconcetta astiosità. Aggiungo che per scrivere quello che ho scritto non mi san dovuto forzare la mano, perché ho precisato, non
2 N. Bobbio, Politica e cultura, Torino 1955, p. 198. L'insegnante era Umberto Cosmo. 3 N. Bobbio, Teorie politiche e ideologie nell'Italia contemporanea, in La filosofia contemporanea in Italia, Asti 1958, pp. 327-365, ora ·nel volume Italia civile, Manduria 1964, p. 22. 4 N. Bobbio, Profilo ideologico del Novecento italiano, in Storia della letteratura italiana, Milano 1969, voI. IX, pp. 202 e 206. Altri, non diversi, giudizi su Gentile nel saggio recente La cultura e il fascismo, in AA.VV., Fascismo e società italiana, Torino 1973, pp. 215 e 231.
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ritrattato, le mie idee. Una condanna morale, o peggio moralistica, dell'uomo Gentile non è mai stata nei miei intendimenti. Sotto questo aspetto, d'altronde, Gentile è sempre stato rispettato anche dai suoi avversari o da coloro che poi lo sarebbero diventati. Vogliamo ricordarne qualcuno? Salvemini e Gentile si conobbero al Congresso napoletano della Federazione insegnanti medi, svoltosi nel settembre 1907. Ne nacque una subitanea e forte amicizia. In una lettera del 4 gennaio Salvemini scriveva: «La nostra amicizia, caro Gentile, non è di quelle che siena destinate a dissolversi, perché non si fondano né su un interesse personale, né su una semplice comunanza di opinioni. Essa è nata da una omogeneità di carattere morale, la quale non può mutare come mutano gli interessi e le idee. E da essa noi ricaveremo sempre il maggiore di tutti i vantaggi: un Iteciproco miglioramento morale» 5. Aldo Capitini, che pur aveva dovuto rinunciare al posto di segretario della Scuola Normale di Pisa per il giuramento imposto dal Gentile, scrisse, parlando dei due sacerdoti massimi della filosofia italiana: «Certo, il Gentile aveva grossi difetti, e posso essere ben limpido nel vederli; ma mi pare di poter dire che c'era in lui qualche cosa di più mite e più generoso, malgrado tutto» 6. Per non parlare di Gobetti che, pur condannando. il nazionalismo gentiliano, distingue il gentilismo da Gentile, «uomo che è così simpatico, rude, cattolico, intransigente, settario» 7, e là dove confessa il distacco definitivo dal maestro di altri tempi, con una durezza di linguaggio di fronte alla quale le mie parole potrebbero passare per dei complimenti, lo definisce «una delle figure moralmente più suggestive e intransigenti, sino al settarismo» 8, e conclude: «Per le qualità dell'uomo professo ancor oggi ammirazione, sebbene non mi nasconda che certi abiti professorali minaccino continuamente l'etica e la biografia» 9.
Ricordo, non a caso, Gobetti. Se ho riportato per intero il brano incriminato, ,è ,stato per far vedere che esso comincia, sì, con Gentile ma tennina con Gobetti. Non rivelo un segreto (anzi ritenevo iche l'allusione fosse abbastanza chiara), se dico che il mio 'giudizio su Gentile era di ongme gobettiana. Era Gobetti che all'indomani della Marcia su Roma e del primo governo Mus-
5 G. Salvemini, Carteggi, a cura di E. Gencarelli, Milano 1968, p. 382. 6 A. Capitini, Antifascismo tra i giovani, Trapani 1966, p. 77. 7 P. Gobetti, Per una società degli apoti (1922), in Scritti politici, a cura di P. Spriano, Torino 1960, p. 413. 8 Gobetti, I miei conti con l'idealismo attuale (1923), in Scritti politici, p. 442. 9 Ibi, p. 448_
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solini in Icui il filosofo Gentile era salito ai fastigi del ministero della pubblica istruzione, aveva scritto: «Non da oggi noi pensiamo che Gentile appartenga all'altra Italia. All'ora della distinzione tra serietà e retorica [sottolineo questa parola] ha voluto essere fedele a se stesso. Non saremo noi a pentircene. Da un pezzo pensiamo chela religione deU'attualismo sia una piccola setta ,che ha rinnegato tutta la serietà dell'insegnamento crociano. Gentile ... ci avrà suggerita una definizione esauriente del suo pensiero: la filosofia di Mussolini. Anche i filosofi hanno le loro responsabilità storiche. Non ci stupiremo che Gentile assuma quelle che può» l0.
Se mai oggi posso aggiungere che queste parole, rilette a distanza di anni, non hanno perduto per me nulla della loro verità. So~o disposto a sottoscriverle, di nuovo e con animo immutato, ad una :ad una. Mi si può far notare che nel mio giudizio c'era qualche cosa di più che l'accusa di retorica: «retore », dicevo, e 1« corruttore ». Riconosco che questa seconda parola era dura e forse oggi non . la userei più, non perché l'animo sia mutato, ma perché gli avvenimenti cui abbiamo assistito in questi ultimi venti anni mi hanno costretto a vedere meglio dentro me stesso. Ma era chiaro dal contesto (e per questo insisto sulla necessità di leggere tutto il brano e non soltanto un frammento di esso) che la corruzione di cui volevo parlare era filosofica, non morale. Anch'io, durante gli anni universitari, corrispondenti su per giù agli anni del consolidamento del fascismo in regime (1927·1931), avevo avuto il mio periodo d'infatuazione gentiliana. Se fui lento, troppo lento, nel passare all'antifascismo militante, a paragone della maggior parte dei miei amici - e àncor oggi, se ripenso alla storia meschina e iniqua di quegli anni, ne provo vergogna -, ciò dipese dal fatto che Gentile, il maestro, era fascista e quella filosofia che avevamo creduto l'ultimo approdo del pensiero umano, una specie di conclusione sublime e in supera bile di tutta la storia della filosofia, aveva fatto uso e spreco di tutti i propri concetti (in primis, dello stato etico) per giustificare ed esaltare il nuovo regime. Mi pareva impossibile che, poiché Gentile era fascista, il fascismo avesse torto; se il regime era uno stato etico, reon tutta quella coda di parole magniloquenti che una definizione di questo genere si tirava dietro, questo stato non poteva essere ingiusto. Dileguate le nebbie metafisiche, e avendo compreso un po' meglio il nesso tra pensiero filosofico e società, mi resi conto che non era vero che il
IO Gobetti, Al nostro posto (novembre 1922), in Scritti politici, p. 419.
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fascismo aveva ragione perché era sostenuto da Gentile, ma, al contrario che Gentile aveva torto perché sosteneva il fascismo. Ma pro~rio per l'ammirazione che avevamo ~ell'uomo n~n l'abbiamo mai giudicato. Anzi ci eravamo rallegratt che dopo Il 1929, quando ormai la sua filosofia immanentistica poteva essere diventata ingombrante per un regime che aveva fatto la pace con la Chiesa, fosse caduto in disgra:lJÌa e i settari organizzassero congressi anti-gentiliani. Abbiamo sempre atteso con una certa trepidazione, e con fiducia, un gesto che ci mostrasse la sua rottura con 1'« altra Italia» e lo restituisse all'Italia civile. Questo gesto non solo non venne, ma vennero il 24 giugno 1943 il Di. scorso agli Italiani e alla fine dello stesso anno l'adesione alla Repubblica di Salò. Proprio perché non l'avevamo mai del tutto abbandonato, ci siamo sentiti traditi 11. E ancor oggi non riesco a capire, come un uomo come Gentile, un «filosofo », e per giunta un filosofo che aveva fatto della filosofia il motore della storia, abbia potuto prestare la propria opera di inventore di idee e di costruttore di dottrine per sostenere e difendere una delle concezioni più deliranti dei rapporti tra gli uomini che mai abbiano insanguinato il mondo (non dimentichiamo per carità di patria che dal 1938 erano entrate in vigore anche in Italia le leggi razziali). Riesco a capirlo soltanto, se abbiamo il coraggio di affermare che quella filosofia di cui molte generazioni si erano imbevute era una cattiva filosofia. (A meno di sostenere, ma per i filosofi è peggio, che la loro filosofia non conta nulla e il mondo va per la sua strada incurante di quale sia la filosofia che di volta in volta l'accompagna). Sul fatto che la fi~osofia di Gentile fosse una cattiva filosofia non ho cambiato idea. Credo di essere ormai in buona compagnia. Ma allora nel 1955 potevo ancora credere che la fortuna del gentilismo non fosse esaurita. Per questo dissi che con colo~o che avevano conservato anche solo un granello del gentilismo giovanile non volevo aver nulla in comune. Ammetto che una frase di questo genere non mi sentirei di ripeterla oggi tale
11 Val la pena ricordare l'impressione negativa .che questo ~iscorso suscitò in Croce: «Stamane ho avuto le bozze della ristampa del hbro su Dante, con la dedica al Gentile, dedica che nella ristampa di due anni f~, volli co~servare, apponendovi soltanto la da~a 1?20. Ma, ora, no~ ho. pIU avuto Il coraggio di mantenerla: ora, dOl?O 11 dlsco~~o sul ~ampldogho. Cr~do che quel discorso sia stato molto ammirato. Anch IO ho udito che qualche mgenuo è stato edificato dalla parola serena del filosofo, .ch~ ha appo~tato la profonda verità che le guerre sono fatte cosi che o SI vmcono o SI pe~dono, . e che nell'un caso e nell'altro bisogna essere ottimista» (B. Croce, EpistolarIO, Il, Lettere ad Alessandro Casati 1907-1952, Istituto italiano per gli studi storici, Napoli 1969, p. 250).
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e quale. Ma se non la scrivo più è soltanto perché non ce n'è più bisogno. Qualora poi dovessi spiegare il perché allora ritenes~i ,e ora ri~enga il gentilismo fosse una cattiva filosofia potrei t~g~Iar cort? cItando ancora una volta Gobetti il cui conciso giudIZIO condIvIdo dalla prima parola all'ultima, quando dichiara a Lomb~rdo-~adice di essersi allontanato da Gentile non per il s~o na~IOnal~smo, ma «perché nella sua incapacità di dar ragIOne dI ??nI fatto politico, nel suo semplicismo pratico la filosofia gentIlIana mostra caratteristicamente i suoi limiti e la nessuna aderenza al reale» 12. Nondimeno, poiché Bontadini nel bran? che mi r~guarda, dopo l'invato a rivedere il mio giudizio, cerca d~ prendermI dal mio lato debole richiamandomi all'impegno del dJa!ogo e facendomi capire in parole povere ,che per un «dialogIsta », 'Come egli mi chiama scherzosamente, il dar giudizi che stroncano senza addurre argomenti vuoI dire predicar bene e razzolar male «« Bobbio è un dialogista... e come tale, dovendo attacca.r discorso con chiunque e con tutti, deve disporsi a vedere chIUnque e tutti nella luce migliore possibile» 13) non posso lasciare il discorso a questo punto e devo cercare di addurre qualche argomento, anche se, nemico come sono di tutti gli «ismi», rifiuti il Ititolo di «dialogista» e mi consideri tutt'al più un «dialogante ». Tanto più che in questi ultimi anni il pensiero politico di Gentile (del quale soltanto intendo occuparmi) è stato Ifatto oggetto di studi accurati e documentati 14
che mi hanno offerto l'occasione di fare alcune riletture e dì c~nf~rmare, anzi di rafforzare, con una cocciutaggine degna di mIglIor causa, il vecchio giudizio (non morale, ripeto, ma filosofico), e di trarre l'amara ma, credo, salutare, conclusione che una cul'tura in cui una filosofia come quella di Gentile _ parlo di Gentile teorico dell'attualismo - potè essere portata alle stelle, era una cultura povera, · chiusa in se stessa, fatua e nello stesso tempo infatuata, senza porte né finestre verso l'esterno provinciale, consacrata al culto della parola per la parola, eh: credeva nel proprio primato unicamente perché non si era mai confron-
12 Gobetti, I miei conti con l'idealismo attuale, p. 446. 13 Vedi l'articolo citato nella nota l, a p. 175.
14 Cito sol~anto le opere di questi ultimi anni e delle quali mi sono ampiamente servtt.o: A. Lo Schiavo, La filosofia politica di Giovanni Gentile Roma 1971; M. Clca!ese, La formazione del pensiero politico di Giovanni Gentile (1896-1?19), Ml~ano 1972; S. Onufrio, Lo stato etico e gli hegeliani di Napoli !rapam 1972 (Il yolume comprende scritti comparsi su riviste tra il 1967 ~ Il 196~); Il pen~lero. politico-pedagogico di Giovanni Gentile, Antologia a ?ur~ dI D .. FaUC?I, FIrenze 1972; S. Zeppi, Il pensiero politico dell'idealismo ztalzano e Il nazlonalfascismo, Firenze 1973, su Gentile, pp. 141-209.
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tata con i movimenti intellettuali del tempo o li aveva ridotti a fantocci che potevano essere malmenati senza che potessero protestare (i fantocci non parlano). Desidero subito sgombrare il campo dal sospetto che il mio giudizio sulla ·filosofia politica di Gentile sia stato influenzato da divergenze di carattere ideologico. Oentile fu certamente un conservatore. Fu tale sin dal principio, come ormai risulta abbastanza chiaro dagli scritti che gli sono stati dedicati. Carattere costante di ogni teoria politica conservatrice è il pregia re più l'ordine che la libertà, e il conseguente considerare lo stato in funzione dell'unità del tutto più che della libertà delle singole parti. Gentile è stato il filosofo dell'unità per eccellenza, della riduzione di tutto in tutto. Non appena si trovava di fronte a una distinzione, non era pago sino a che non l'avesse debellata, dimostrando che era una falsa distinzione (e per dimostrare che era falsa bastava dire che era una distinzione «empirica»). Dopo i primi anni di esercizio, del resto esemplare per la eccezionale precocità, di storico della filosofia, in cui passò rapidamente da Rosrnini e Gioberti a Marx, da Marx a Bertrando Spaventa, dette inizio alla sua carriera di filosofo teorico risolvendo un campo, così ricco di determinazioni concrete come la pedagogia, nell'uno-tutto della filosofia dello spirito, cui avrebbe ridotto tutte le forme di sapere concreto via via se le :fosse trovate dinnanzi come pietre d'inciampo sulla strada che conduceva fatalmente al non-sapere della filosofia dell'atto. Entrò nel vivo del dibattito politico, come più volte è stato rilevato, soltanto al momento dello scoppio della guerra con una conferenza su La filosofia della guerra dell'l1 ottobre 1914, quando assurgeva o sembrava che assurgesse a problema fondamentale della vita politica il problema dell'unità nazionale. Il primo articolo scritto dopo .questa conferenza fu un appello all'unità della volontà della naZIOne, perché «una nazione senza coscienza determinata, senza una pe.rsonalità formata non è nazione» 15: l'articolo (del l° gennaIO 1915) è intitolato emblematicamente Disciplina nazionale. Tesi centrale: «Uno stato c'è, e una qualunque legge, in cui la forza dello stato si esplica, ha vigore, e perciò valore di legge, in quanto il conflitto dei partiti e tutti i contrasti interni dell~ comunità nazionale si riconciliano perennemente nella volonta comune, unica, in cui si attua l'individualità nazionale» 16. Tornando molti anni addietro, per mostrare la continuità di un'ispira-
15 G. Gentile, Guerra e fede, Napoli 1919, p . 26. 16 Ibi, p. 27.
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zione (esaltata dal particolare momento della guerra, ma presente, se pur latente, sin dall'inizio come un elemento fondamentale del carattere della filosofia gentiliana), leggo uno dei pochissimi passi delle lettere a Croce, iÌn cui sia !possibile intravedere un interesse politico: «Lo spirito nazionale non s'improvvisa; e senza di esso, o almeno senza intima comunanza di spiriti, senza coscienza comune, non può esservi filosofia)} 17.
Che ,Gentile .fosse un conservatore (e non aspettò la crisi dei dopo guerra per diventarlo), è un'affermazione che non contiene affatto almeno nel mio linguaggio un giudizio di valore. Anche Croce era un conservatore. Erano conservatori Mosca e Pareto, dei quali mi sono ripetutamente occupato. Furono conservatori (checché ne dicano critici recenti, che credono di salvare la loro anima e quella dei loro filosofi prediletti, facendoli passare per liberali o addirittura per rivoluzionari) i due più grandi filosofi politici dell'età moderna, Hobbes ed Hegel. Ho già citato altra volta con approvazione il passo in cui Croce scrive che «sono da leggere)} gli scrittori reazionari per il loro forte sentimento dello stato oltreché per il loro antiegalitarismo e antigiacobinismo 18. Gli scrittori reazionari sono coloro che, ben più dei riformatori o dei rivoluzionari, van dietro alla «verità effettuale della cosa)} e non «all'immaginazione di essa)} (Machiavelli); non si perdono dietrO alle «costruzioni chimeriche, non realizzabili se non nel regno dell'Utopia o in quella poetica età dell'oro nella quale non erano affatto necessarie)} (Spinoza); non vanno alla « ricerca d'un al di là, che sa Dio dove dovrebbe essere, -o del quale, nel fatto, si sa bene dire dov'è, cioè nell'errore di un unilaterale e vuoto raziocinamento)} (Hegel). Gli scrittori conservatori sono generalmente dei realisti. Sono conservatori proprio perché realisti. E senza realismo politico non c'è filosofia (né scienza) dello stato, ma soltanto ideologia (o utopia). Se è vero che la buona filosofia politica è nata generalmente da scrittori conservatori, non vale l'inverso: si può essere conservatori senza aver scritto un 1"igo originale, cioè meritevole di essere studiato, di filosofia politica. Questo a me pare il caso del filosofo politico Giovanni Gentile. Prima di procedere a presentare gli argomenti che io credo più plausibili in favore di questa affermazione, vorrei sgombrare il terreno da un altro detto comune, cioè che Gentile abbia prodotto una filosofia politica povera, non interessante, priva di
17 G. Gentile, Lettere a Benedetto Croce, Firenze 1972, voI. I, dal 1896 al 1900, p. 87. 18 B. Croce, Elementi di politica, in Etica e politica, Bari 19453, pp . 267-268.
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risultati degni di essere sottoposti a riflessioni ed approfondimenti ulteriori, per aver dimostrato sin dagli anni giovanili scarso impegno nella vita politica attiva, per aver scritto in quegli anni due saggi su Marx senza avere il minimo interesse per il socialismo, negli anni in ,cui era nato in Italia il partito socialista, anzi mostrando sin dalla prima pagina ,del primo saggio di non tenere in nessun conto la letteratura socialista e di voler completamente prescindere dalla questione sociale cui dà mano la «turba )} 19, per non aver scritto nulla di politica sino alla guerra, sino al verificarsi di un evento che non poteva non scuotere l'animo anche dei più indifferenti: perché insomma non fu un «animale politico)} ma un «purus philosophus)}. A dare anche un rapido sguardo alla storia del pensiero politico, questo detto comune può essere facilmente smentito. Per fare un solo e grande esempio, Kant scrisse 'Saggi importantissimi di filosofia politica, e addirittura un trattato di diritto pubblico che nessuno studioso di storia del pensiero politico può permetter si d'ignorare, senza essere mai uscito dalla sua K6nigsberg e senza aver mai preso parte diretta alle vicende politiche del tempo. Ma anche Hobbes ed Hegel sono stati prima di tutto filosofi. E Rousseau, pur non essendo mai stato un puro filosofo, non ebbe influenza alcuna nelle vicende politiche del tempo: fu quant'altri mai un pensatore solitario. In realtà non è neppur vero che Gentile si sia completamente estraniato dalle battaglie politiche e sociali del suo tempo prima dello scoppio della guena mondiale: si occupò, 'Com'è ben noto, di politica scolastica, a cominciare dalla relazione sulla scuola laica svolta al -congresso napoletano del 1907. Che è un vero e proprio discorso, a suo modo, politico. Anzi, il più bel discorso politico, per impeto senza enfasi, per densità di concetti, per forza d'argomentazione, di Giovanni Gentile, specie poi se confrontato col discorso pur esso politico, simile per contenuto, pubblicato nel 1920 come primo Discorso di religione, retorico, più eccitante che persuasivo, tanto inclemente verso gli ideali altrui (il liberalismo e il socialismo) quanto compiaciuto del proprio, e vago, all'infuori, ancora una volta, della imperiosamente proclamata «disciplina ferrea» 20: che è di-
19 Vedi Una critica del materialismo storico, in I fondamenti della filosofia del diritto, Firenze 1937, pp. 151-152. 20 «La vita moderna si orienta, infatti, più o meno rapidamente secondo le varie correnti di cultura e gli interessi che la governano, verso quella esaltazione della idea che è legge, della realtà che è bensì il prodotto dello spirito ma anche il suo limite, che è messa in valore dell'individuo ma in quanto esso s'è identificato con l'universale, assoggettandosi a una disciplina ferrea, e concorrendo per tal modo alla realizzazione d'un mondo che lo trascende)} (Discorsi di religione, Firenze 1957, pp. 28-29).
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scorso ormai prefascista. L'importanza politica del discorso sulla scuola laica sta nel fatto che in esso era già contenuta tutta dispiegata la teoria dello stato etico, cioè dello stato che non deve essere semplice strumento nelle mani degli individui e dei gruppi perché lo usino a loro talento 'e nei loro interessi egoistici, ma deve essere fine a se stesso, «come un che di assoluto, dotato di valore, divino» 21. nelle due interpretazioni della scuola laica che si erano affrontate al congresso di Napoli, quella di Gentile secondo cui scuola laica non vuoI dire scuola neutrale ma scuola che ha pur essa la sua filosofia, anzi ,la sua fede (perché senza fede non c'è vera educazione ma solo come si direbbe oggi «nozionismo »), una propria visione del mondo in contrasto o meglio in sostituzione di quella della scuola confessionale, e la concezione di Salvemini, secondo cui il laicismo non è una nuova filosofia ma piuttosto un metodo, il metodo critico contrapposto al metodo dommatico, il metodo che oppone, come si legge nell'ordine del giorno (cui del resto aderì, salvo un comma, lo stesso Gentile) «all'intolleranza settaria il rispetto di tutte le opinioni onestamente professate» 22, l'interpretazione conforme allo spirito della democrazia moderna era indubbiamente quella salveminiana, mentre quella di Gentile, che pur usava ancora il termine «democrazia» in senso positivo 23, conteneva in germe il principio dello stato autoritario, cioè dello stato che è anche chiesa (perché gli uomini senza chiesa, cioè senza religione, non possono vivere). Colse benissimo questa differenza lo stesso Salvemini quando scrisse: «Mentre per me la libertà d'insegnamento è mezzo, è fine, è tutto; per ,lui [cioè per Gentile] non è che la via necessaria a raggiungere l'unità» 24. Mettendo l'accento sull'« unità » Salvemini colpiva nel segno: ancora una volta, non la libertà ma l'unità era l'ideale di Gentile. Importante quel discorso anche per un'altra ragione, in quanto mostra che Gentile, pur essendo ormai entrato nel dibattito politico, vi era entrato attraverso la porta ormai diventata troppo stretta della questione dei
21 G. Gentile, Scuola laica. Relazione, in Scritti pedagogici, L Educazione e scuola laica, Firenze 1937, p. 98. Vedi anche p. 164. SulIo stretto rapporto fra pensiero pedagogico e politico in Gentile, vedi in particolare la Introduzione di Faucci alI'antologia citata, pp. 15 ss. 22 Questo ordine del giorno è colIocato in appendice al volume Scritti pedagogici. Il passo su riferito è a p. 419. Per il disaccordo con Salvemini vedi pp. 142 ss. 23 Scritti pedagogici, p . 167. 24 Questo passo è citato nelIa Introduzione agli Scritti sulla scuola in G. Salvemini, Opere, v, a cura di L. Borghi e B. Finocchiaro, Milano 1966, p . XXVIII, ed è tratto dalIe dichiarazioni di Salvemini al VI congresso nazionale delIa Federazione fra gli insegnanti delIe scuole medie, svoltosi ad Assisi nel 1908.
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rapporti tra stato e chiesa, che era la grande questione nazionale al tempo della Destra storica, ma che nell'epoca della prima fase di espansione della società civile italiana e delle lotte per il suffragio universale non era certo più una battaglia di prima linea. Mostra cioè quanto fosse limitato l'angolo visuale da cui egli guardava ai problemi dello stato moderno, quanto ristretto il campo di discussione che aveva suscitato il suo infervoramento politico. Non già che il problema dei rapporti tra stato e chiesa fosse ormai risolto, ma era oomunque un problema di minor momento rispetto al problema sociale di cui Gentile non diede mai segno di avvedersi (se non negli ultimi anni quando, ahimé!, era troppo tardi), ed era pur sempre problema solo praticamente, di volta in volta, e non filosoficamente, come Gentile pretendeva, solubile. Nella storia dello stato moderno o della modernizzazione dello stato, la crisi di secolarizzazione, come si va ormai da un pezzo sostenendo con un'analisi comparata dei sistemi politici degli stati più avanzati, precede la crisi di partecipazione (che era soprattutto quella di fronte alla quale si trovava l'Italia lin quegli anni) e la crisi di distribuzione, di fronte alla 'quale l'Italia si troverà negli anni del dopo guerra (ed è anche la crisi più difficile da risolvere, come quel che accadde dimostra ad abbondanza). Ancor più che l'interesse politico (che fu certamente sino alla guerra scarso e circoscritto) fece difetto al Gentile l'interesse per la storia del pensiero politico e in genere per gli studi di politica, che è il modo specifico con cui un filosofo dimostra il suo interesse per la politica. Da quel che si può giudicare dagli autori studiati, dai libri recensiti, dagli argomenti toccati nei saggi storici, e più direttamente dagli scritti che trattano ex professo di politica (o di diritto), 1a cultura politica di Gentile dovette essere piuttosto esigua e, rispetto all'orizzonte europeo, provinciale. Povera, poverissima, rispetto a quella di un Mosca o di un Pareto (della cui lettura fra l'altro egli non serba alcuna visibile jtraccia), e anche rispetto a 'quella di Croce, che negli Elementi di politica presenta e commenta alcuni classici di filosofia politica. Chi scorra l'indice dei suoi scritti 25 non può non constatare che pochissime sono le recensioni dedicate a scritti politici o di teoria politica. Gli unici scrittori politici che egli abbia le tto e discusso sono i nostri scrittori del Risorgimento, Alfieri, Gioberti e Mazzini. Ma i grandi classici della filosofia
25 Mi riferisco alIa Bibliografia degli scritti di Giovanni Gentile, a cura di V. A. Bellezza, in Giovanni Gentile. La vita e il pensiero, voI. III, Firenze 1950.
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politica moderna, da Hobbes a Locke, da Montesquieu a Rousseau, a giudicare dalle pagine dedicate al problema dello stato, sono rimasti quasi del tutt.o fuori del suo tir.o_ I riferimenti ad autori come Hobbes, o Spinoza, .o Rousseau, sono rari, e, quel ,che è peggio, generici, di scu.ola, come se fossero tratti da un manuale. Il campo delle sue ricerche storiografiche fu quasi esclusivamente il pensiero italiano moderno, dal Rinascimento a Vico, dall'illuminismo all'età della restaurazione, dal Risorgimento alla filosofia dell'Italia post-unitaria sino all'inizio del nuovo secolo: un pensiero che dopo Machiavelli non può fregiarsi di nessuno dei grandi nomi di cui è ricca la storia della teoria dell.o stato moderno. Uno dei su.oi bersagli preferiti, anzi il bersaglio per eccellenza, è il liberalismo, ma è un liberalismo di maniera, un vero e proprio stereotipo della letteratura reazionaria. Niente o quasi niente sul socialismo: quel che ne dice alla fine del primo Discorso di relig~on.e, dianzi citata, è una delle solite manifestazioni del rifiuto spiritualistic.o del materialismo (perché socialismo è eguale a materialismo) u,. L'unica ide.ologia politica con cui Gentile accetta volentieri la discussione, è il nazionalismo, ma è quella più povera di pensiero: di fronte alla quale egli assume un atteggiamento che deriva da Hegel, per cui non è la nazione che fa J.o stato ma lo stato che fa la nazione (il che è proprio l'opp.ost.o del nazionalismo) TT.
Certo, la ite.oria politica di Gentile è di derivazione hegeliana, per lo men.o rientra in una delle molteplici interpretazioni che si sono date della filosofia politica di Hegel. Ma chi legga il saggio di Gentile sullo stato, nato come comunicazione sul concetto hegeliano dello stato al Congresso dello Hegel-Bund, svoltosi a Berlino nel 1931 28
, e che occupa un post.o centrale nello svolgimento della sua filosofia politica, non può non provare un cert.o senso di sgomento di fr.onte al sistematic.o svuotamento che vi si compie del contenuto ricco, denso, pien.o di determinazio-
26 « Il socialismo, colla sua esasperata tensione verso il suo ideale divoratore d'ogni forma più legittima e storicamente giustificata di affermazione dell'individuo, è l'immagine dell'anima del nostro tempo. Ma l'ideale a cui esso immola l'individualità è un ideale inferiore, costretto dentro una forma contraddittoria alla natura stessa dell'ideale» (Discorsi di religione, p. 28). 27 Sul rapporto fra Gentile e il nazionalismo vedi soprattutto i libri citati di Cicalese (cap. IV) e di Zeppi (pp. 151 ss.). Mi pare però che né l'una né l'altro colgano esattamente la differenza fra lo statalismo di Gentile, di lontana derivazione hegeliana, e il nazionalismo, differenza consistente nell'inversione del rapporto tra nazione e stato. 28 Questo discorso fu poi pubblicato col titolo Lo stato, come cap. VII de I fondamenti della filosofia del diritto, nella prima edizione delle Opere complete, voI. IX, Firenze 1937, pp. 103-120.
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ni c.oncrete e di riferimenti storici, onde è ancor oggi, ed .oggi più che mai, al centr.o del dibattito sulla formazione dello stato moderno, per chi abbia notizia della letteratura hegeliana di questi ultimi anni, la Filosofia del diJ'itto di Hegel. Com'è not.o, la parte centrale del saggio c.onsiste nel superamento (ma è un superamento che è invece una vera e pr.opria s.oppressione) del concett.o hegeliano di stat.o attravers.o la negazione dei tre limiti che Hegel aveva pos,to all'infinitezza dell.o stato, derivanti, il primo, dalla presenza di altri stati, il secondo dall'appartenenza dello stato alla sfera dello spirito oggettivo che ha al di là di sé la sfera dello 'spirito assoluto, il ,terzo dal contenere nel suo sen.o i due momenti della famiglia e della società civile. Inutile dire che proprio questi tre cosiddetti «limiti» costituiscono il nerb.o della filosofia p.olitica di Hegel e fanno sì che il suo concetto di stato sia una fonte perenne di riflessioni sul problema politico e costituisca uno di quei crocicchi per cui si è costretti almeno una volta a passare, quale sia la direzione che si voglia prendere. E invece, una volta superati i limiti, una volta fatti scomparire con una serie di enunciazioni meramente verbali che assomigliano a formule magiche, gli altri stati nel «nostro» stato, una volta dichiarata «faticosa» e quindi «fittizia e arbitraria» la triade, arte, religione e filosofia, onde alla fine «lo stesso stat.o, come forma dell'autocoscienza, è esso stesso, a suo modo, una forma di filos.ofia », una v.olta cancellate la famiglia e la società civile come entità s.ol.o empiricamente distinguibili dello stato (attraverso la s.olita sequenza di circoli viziosi, elevati a procedimento caratteristico di un più profondo intendere fil.osofico, in cui consisterebbe il metodo dialettico), .onde «nell'attualità la famiglia è stato, e lo stato è famiglia », oppure «non c'è società civile che n.on sia anche stato» 29, della pienezza e della ricchezza della filosofia p.olitica di Hegel non resta più assolutamente nulla. Il concetto di stat.o con tutte le connotazioni che di questo concetto sono state date nel corso secolare della riflessione p.olitica si è v.olatilizzato e non è rimast.o che un « purum nomen» che, nonostante il martellament.o con cui è ripetuto, non prov.oca nel lettore alcuna rappresentazione che in qualche m.odo sia connessa a quella realtà che gli uomini più o meno chiaramente intendon.o quando parlano di «stato ». Un concetto cui non -si attribuiscono -connotazioni tali che permettano di distinguerlo da altri c.oncetti, è un concett.o perfettamente inutile. Se questo è il carattere specifico dei concetti « speculativi », la «speculazi.one» non serve a niente.
29 Vedi i §§ 17, 18 e 20, rispettivamente alle pp. 117, 118 e 120.
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~ stato più volte osservato che più che da Hegel la filosofia politica di Gentile deriva dall'hegelismo napoletano, in particolare da Bertrando Spaventa 30_ Oltre che povera di contenuto, e vuota, la filosofia politica di Gentile è anche poco originale. Quelle poche, pochissime idee, che furono esposte nei suoi scritti di politica, si trovano già tutte negli hegeliani napoletani. Egli non ha fatto altro che rimetterle (tardivamente) in circolazione: e se mai col portarle alle estreme conseguenze le ha rese infeconde. Nel 1904 curò la ristampa, sotto il titolo di Principii di etica, di un commento alla filosofia del diritto di Hegel, pubblicato da Bertrando Spaventa nel 1869, col titolo di Studi sulla etica di Hegel. E vi premise una prefazione, che è da considerarsi il primo scritto in cui affronta specificamente, se pur brevemente, il problema dello stato. Ecco come si libera dall'obiezione che Hegel torni all 'ideale pagano per cui l'uomo esisteva per lo stato e non lo stato per l'uomo: «Né l'una né l'altra cosa: perché lo stato e l'uomo non sono, direbbe Hegel, che due creazioni dell'intelletto astratto. Non c'è l'uomo di qua e lo stato di là; ma uomo e stato sono unum et idem. L'uomo è lo stato; e lo stato è l'uomo» 31. Una generazione di filosofi o di persone che credevano di filosofare si sono sbizzarrite e divertite in questi esercizi verbali: è chiaro che due cose così diverse come l'uomo e lo stato possono essere identificate (cioè confuse l'una nell'altra) solo quando siano state così alleggerite da ogni loro significato determinato da diventare aeree come bolle di sapone. Come se non bastasse, Gentile risponde anche all'obiezione, mossa ad Hegel dal Masci, secondo cui la dottrina che attribuisce allo stato un carattere morale non spiega come la volontà dello stato possa essere di fatto «capricciosa, egoistica ed immorale ». E risponde così: « ,Se logicamente la moralità precede lo stato, e questo dev'essere la realizzazione di essa, quando la volontà dello stato è capricciosa, egoistica ed immorale, l'unica conchiusione che se ne può trarre è, che lo stato avente una tale volontà non è un vero stato» 32_ Certo, se per stato «vero» in-
30 Rinvio per una ricca e convincente documentazione al libro citato di Onufrio, Lo stato etico e gli hegeliani di Napoli, in cui viene analizzato il pensiero politico di Silvio e Bertrando Spaventa, di Fiorentino e di Mariano, e infine anche di Camillo De Meis. Da ultimo, è ritornato sull'argomento lo studioso più agguerrito dello hegelismo napoletano G. Oldrini in un libro complessivo, La cultura filosofica napoletana dell'Ottocento, Bari 1973: per il nostro tema si veda in particolare il cap. VI, «L'hegelismo al potere », pp. 381-478. 31 B. Spaventa, Principii di etica, ristampati con prefazione e note di G. Gentile, Napoli 1904, p. XIX.
32 Ibidem.
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tendo stato «giusto », non posso non concludere che lo stato non giusto non è vero. Ma è questione, come avrebbe detto Vailati, di parole. Il problema, che ha appassionato e turbato gli uomini pensanti, è un altro: quando lo stato non è giusto (vero o falso che sia), come debbo comportarmi? devo ubbidire, devo resistere, devo operare per rovesciarlo? Una filosofia che di fronte a un problema reale come questo si limita a cambiar definizione (perché di questo e soltanto di questo si tratta), cioè dà una risposta fittizia, è una filosofia evasiva ed elusiva, posto che si possa ancora chiamare (ma non voglio entrare anch'io in dispute puramente definitorie) filosofia. Di più, se dinnanzi ai grandi problemi dell'esistenza umana, i filosofi non hanno da dare altre risposte che di 'quel tipo, mi domando perché gli uomini dovrebbero ancora ricorrere alla filosofia per trame lumi (o conforto). Nel 1924, nei mesi cruciali per la sopravvivenza del regime di libertà nel nostro paese, Gentile ristampò con un'ampia prefazione, datata 6 ottobre 1924, due lettere che Francesco Fiorentino 33 - il primo scolaro di Bertrando Spaventa, anche se, a detta di Gentile, soltanto hegeliano a metà 34, nonché deputato della Destra - aveva indirizzato a Silvio Spaventa per rallegrarsi del di lui famoso discorso sulla legge per le convenzioni ferroviarie, tenuto alla Camera dei deputati il 24 agosto 1876. Benché Gentile avverta di non poter sottoscrivere tutte le affermazioni del Fiorentino in quanto «non conformi a quel concetto più esattamente elaborato e più propriamente spiritualistico [leggi: evanescente] che oggi si può avere dell'essenza dello stato» 35,
le pagine di Fiorentino sono importanti perché vi sono espresse in forma semplice, stringata e precisa (senza alcuna fumosità), le due idee fondamentali che costituiscono il nucleo del pensiero politico gentiliano: la critica del liberalismo classico inteso come individualismo atomizzante e la 'teoria dello stato come organismo etico. Del resto, lo stesso Gentile nella prefazione intende mostrare la vitalità della tradizione della Destra storica e la necessità di tornare, esauritasi la funzione della Sinistra che per voler democratizzare lo stato ha finito per indebolirlo, a ciò che egli considera i tre «principii» della libertà nella legge, dello
33 F. Fiorentino, Lo stato moderno e le polemiche liberali, con prefazione di G. Gentile, Roma 1924. 34 Nella storia della filosofia contemporanea in Italia, Gentile colloca il Fiorentino tra i neo-kantiani (vedi G. Gentile, Storia della filosofia italiana, a cura di E. Garin, Firenze 1969, voI. II, pp. 443-460). 35 Fiorentino, Lo stato moderno, p. 19.
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stato forte e dello stato etico, che sono di fatto i princìpi dello hegelismo napoletano 36.
Nei vent'anni intercorsi tra le due prefazioni Gentile pubblicò un corso di lezioni di filosofia del diritto svolto all'università di Pisa, dove il tema di fondo è il tema, caratteristico delle trattazioni accademiche di filosofia del diritto, dei rapporti tra diritto e morale, e dove dello stato si parla poco o niente. Vi compare la societas in interiore homine, contrapposta alla societas intet homines, ma non ancora lo stato in interiore homine, che diventerà poi il nucleo della dottrina gentiliana dello stato, quando questa sarà elevata a dottrina quasi ufficiale del regime fascista. Lo stato in interiore homine fa la sua apparizione nel primo Discorso di refigione già citato, dove viene contrapposto allo stato-cosa, o strumento, allo stato esterno, esteriorizzato, del liberalismo individualistico, e viene definito in questi termini: «Lo stato, come oggi dovremmo cominciare a saper bene tutti, non è inter homines, ma in interiore homine. Non è quello che vediamo sopra di noi; ma quello che realizziamo dentro di noi, con Il 'opera nostra, di tutti i giorni e di tutti gli istanti; non soltanto entrando in rapporto con gli altri, ma anche semplicemente pensando, e creando col pensiero una realtà, un movimento spirituale, che prima o poi influirà sull'esterno, modificandolo » !7.
Ma anche questa idea - a parte la sua irrilevanza per la formulazione di un concetto capace di rappresentare le complesse articolazioni dello stato moderno - non era nuova. Com'è stato rilevato, se ne può trovare una traccia in un passo di Silvio Spaventa, che Gentile sembra riecheggiare anche nelle parole iniziali (<< Ciò che vi ha di più veramente nuovo nella coscienza europea» che corrisponde al gentiliano «come oggi dovremmo cominciare a saper bene tutti») e in cui si afferma che lo stato non è « qualcosa di esterno a noi, di divino e fatale. di casuale o di convenzionale, ma è intrinseco a noi come il nostro naturale
36 Nell'esporre questi tre princìpi Gentile rispondeva a Croce, il quale in un brano di Politica in nuce, in «Critica », 22 (1924), 148, riferendosi; un'affermazione precedente dello stesso Gentile, scriveva: «Testé in Italia abbiamo udito sostenere perfino che un regime di dittatura, qual è quello che ha preso il nome di ' fascismo " sia' liberalismo ': affermazione certamente non bugiarda, perché, come sappiamo, in ogni regime politico, anche in quello che si considera dispotico, c'è libertà, ma che diventa fallace in quanto esibisce un.a 'get:eralità' con l'aria di ~<?mmi~istrare alcunché di specifico e di propno, e di condannare come anttltberalt o malamente liberali gli altri partiti ». (Questo brano non si trova più nell'edizione definitiva dello scritto). Croce r!tornò sull'argomento criticando ad uno ad uno i tre princìpi in una recensione alla ristampa delle lettere del Fiorentino, in « Critica », 23 (1925) 59-61 ora in Conversazioni critiche, serie quarta, Bari 19512, pp. 317-319.' , 37 Discorsi di religione, p . 25.
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organismo, perché la legge, il diritto, l'autorità, che ne sono le funzioni essenziali, sono pure volere umano; volere di cui noi ci sentiamo capaci, avente per iscopo immediato, non il bene individuale, ma il bene comune, nel quale il nostro, che vi è compreso, si purifica e idealizza» 38. Ciò che vi era di nuovo in Gentile era puramente e semplicemente lo stravolgimento di questo concetto che, inteso nel suo senso più comune, altro non era che una delle possibili espressioni della formula politica (nel senso moschiano della parola) dello stato democratico, cioè di quello stato il cui principio non è più «lo stato sono io », ma «lo stato siamo noi ». Che questa formula potesse essere pronunciata da un uomo della Destra, che era per lo meno sinceramente liberale, passi (anche se, com'è stato notato, parlare di volere umano e di volere 'comune in una situazione in cui gli elettori superavano di poco il 7% dei cittadini italiani possa sembrare esagerato). Ma che fosse adottata da Gentile per erigerla a principio di spiegazione di uno stato come quello fascista, dimostra soltanto la capacità che aveva Gentile, con le migliori intenzioni di questo mondo e in perfetta buona fede (anche se dopo il delitto Matteotti un uomo della sua statura intellettuale e morale avrebbe potuto cominciare ad avere qualche dubbio), di manipolare . concetti, -di credere più alle parole che alle cose, di credere nello stesso tempo nella realtà corposa delle parole che gl'impediva di avvicinarsi alle cose e nella virtù delle parole di cambiare esse stesse la realtà, come se il filosofo fosse padrone assoluto del discorso e lo potesse usare a suo piacimento. Non da oggi sono convinto che non vi sia nulla di più irrealistico che lo spiritualismo assoluto. Anche la critica che Gentile muoveva al liberalismo classico che faceva risalire al giusnaturalismo e al contrattualismo del secolo XVIII non era nuova: anzi, come si è già accennato, era un vecchio luogo comune della filosofia politica della Restaurazione e in genere degli scrittori reazionari; questo tipo di critica, che aveva trovato il suo maggiore interprete in Hegel, era allora giustificato in quanto reazione immediata alla concezione illuministica della società e dello stato. Ma negli anni in cui scriveva Gentile, cioè dopo un secolo, appariva ormai diretta verso un falso bersaglio. Nessuno può seriamente riconoscere nelle dottrine, accusate monotonamente di individualismo, di atomismo, di
38 S. Spaventa, La politica della Destra. Scritti e discorsi, a cura di B. Croce, Bari 1910, pp. 108-109. Traggo questa citazione dal libro di Onufrio, Lo stato etico e gli hegeliani di Napoli, p. 110. Vedi anche p. 132, a proposito del concetto dello stato del De Meis.
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contrattualismo e di meccamClsmo, il pensiero politico di un Constant o di un Tocqueville, di un John Stuart Mill e neppure di uno Spencer, cioè di autori che avevano elaborato una concezione del diritto e dello stato, non già con metodo razionale, come pur avevano fatto i giusnaturalisti dei secoli XVII e XVIII, da Hobbes a Locke, da Spinoza sino, ancora in parte, a Rousseau e che quindi potevano aver meritato l'accusa di intellettualismo 39, ma attraverso una costante riflessione storica o sociologica sui profondi mutamenti avvenuti nella società civile in seguito alla prima rivoluzione industriale {lo stesso Constant, il più vicino anche per ragioni cronologiche ai giusnaturalisti, giustificava il suo liberalismo concepito come una difesa della sfera privata contro l'eccessiva invadenza di quella pubblica, constatando l'avvento di una nuova società in cui il commercio avrebbe a poco a poco sostituito la guerra). La contrapposizione tra una concezione atomistico-meccanicistica della società e una concezione organica, tra lo stato considerato come mezzo e come fine in se stesso, come associazione volontaria e come organismo etico, come somma di parti disgregate e come un tutto organico, era comune a tutti gli hegeliani napoletani, nei cui scritti viene presentata con tutte le variazioni possibili. Nella polemica gentiliana contro lo stato del liberalismo individualistico, «che fa dello stato un semplice mezzo e un prodotto della volontà individuale» 40, continuata sino all 'ultima opera, in cui il bersaglio polemico è Hobbes, non è dato riscontrare neppure una piccola variazione del tema. L'unica variazione, che risente dei tempi mutati , è l'estensione della critica dell 'individualismo astratto al sindacalismo, che rompe l'unità sociale in tanti gruppi atomizzati in conflitto tra loro, e va a finire in una rinnovata «concezione atomistica della società, intesa come l'accidentale coacervo e incontro di individui... o di sindacati, che male presumono di esistere e male pretendono di esistere perché sono astratti» 41. Ma è una variazione, che rivela ancora una volta, quanto rigido fosse lo schema generale di cui Gentile si serviva, e quanto povere fossero le categorie di cui disponeva, per comprendere la complessità dei fenomeni sociali e del loro sviluppo. Mi domando se vi sia ancor oggi qualcuno che ricorra alla filosofia politica di Gentile per averne un'illuminazione nelle cose dello
39 L'anti-intellettualismo gentiliano è il tema dell'articolo di V. Pirro, Filosofia e politica in Gentile, « Giornale critico della filosofia italiana », 40 (1970), 469-501. 40 Discorsi di religione, p. 23. 41 G. Gentile, Genesi e struttura della società, Firenze 1946, p. 65.
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stato. Chiunque abbia una certa familiarità con i grandi temi della filosofia politica di tutti i tempi - ne indico soprattutto tre: l'ottimo stato (o, ohe è lo stesso, la lotta fra lo stato e il non-stato o addirittura la fine dello stato), la categoria del «politico» (onde i problemi tradizionali dell'autonomia della politica rispetto alla morale da un lato e all'economia dall'altro) , il fondamento dell'autorità (che è il problema della «legittimità », coi connessi problemi dei limiti del potere politico, da un lato, e dell'obbedienza, dall'altro, o, con una parola, il problema dell'obbligo politico) - ricorrerà invano alle pagine scritte da Gentile sullo stato e sulla politica per trovarvi non dico una soluzione ma un chiarimento. Per chiarire uno qualunque di quei tre problemi occorre prima di tutto delimitare l'estensione del concetto di stato, distinguere lo stato dal non,stato, la sfera della politica dalla sfera della morale, l'autorità (o potere legittimo) dal potere di fatto, e così via. Gentile è il filosofo dell'indistinto. Non appena si trova di fronte a 'un '.concetto da chiarire sembra che la sua irresistibile esigenza sia quella di eliminare tutte le connotazioni specifiche, per arrivare alla conclusione che « questo» non è altro che « quello» perché questo e quello per lui pari sono, o che l'uno non è altro che l'altro, e l'altro è poi nient'altro che l'uno. Lo stato ottimo e lo stato pessimo sono la stessa cosa perché qualsiasi stato è sempre buono e sempre cattivo (e anche lo stato e il non-stato sono unum et Mem perché lo stato non è altro che il non-stato che si fa stato). Morale e politica? Che importa se la grande filosofia si sia travagliata intorno alla domanda delle due etiche, dell'utile e del dovere, della potenza o dell'amore, della responsabilità o della convinzione, e via via intorno al conflitto fra la ragion di stato e la ragione dell'individuo, al rapporto tra fini e mezzi, alla giustificazione della violenza e via discorrendo? La risposta di Gentile è perentoria: la politica è morale, in quanto non è diritto, quasi che ci fossero soltanto due categorie tra cui occorresse necessariamente scegliere. E non meno rapida e perentoria la risposta di fronte alle « solite obiezioni »: «La morale è bensì legge, ma è anche libertà, volontà, forza; e la politica è bensì forza, ma quella stessa forza che l'attività morale, in tutta la sua pienezza» 42. L'autorità e rispettivamente la libertà hanno dei limiti? è sempre giusto il comando del sovrano? è sempre illecita la resistenza del cittadino al comando del sovrano? Gentile si pone una volta tanto il problema della legge ingiusta ed ecco la risposta: « La legge veramente ingiusta è quella che si abroga e
42 Gentile, I fondamenti della filosofia del diritto, p. 131.
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non è più legge, in forza di quella legge costante e immanente, che è la stessa obiettivazione della libertà nel suo processo)} 43.
Che è poi la risposta congiuntamente del legalismo etico (è giusto ciò che è comandato per il solo fatto di essere comandato) e del positivismo giuridico (ciò che fa di una legge una legge, cioè un comando che deve essere ubbidito, non è la sua giustizia ma la sua validità). Lo spiritualismo assoluto si converte alla prova dei fatti (che è poi la prova della fecondità di una filosofia) in positivismo assoluto. Ammetto di essere recidivo. Ma non ho nessuna intenzione d'infierire in modo particolare su uno dei pochi protagonisti della nostra vita culturale della prima metà del secolo, di cui tutti quanti, amici e nemici, siamo disposti a riconoscere la grandezza, anche se io sia propenso a distinguere un Gentile-primo, che arriva sino alla ' Teoria dello spirito come atto puro, da un Gentile-secondo, che diventa un ripetitore e talvolta un cattivo ripetitore di se stesso. Fra i tre atteggiamenti possibili oggi di fronte alla filosofia di Gentile, descritti con la solita acutezza da Augusto Del Noce 44: a) episodio di arretratezza culturale, di chiusura provinciale ,che continua a gravare « come un destino sulla cultura italiana »; b) « il punto più 'alto sin ora raggiunto dalla filosofia» ovvero, per riprendere una definizione di Ugo Spirito, « la figura dominante della filosofia del nostro secolo» 45; c) uno scacco, sì, ma tale da imporre una profonda riforma di tutta la filosofia dopo Gentile, mi riconosco perfettamente nel primo. Anzi, a giudicare dal modo con cui Del Noce descrive coloro che considerano un ritorno di Gentile come un fenomeno di « arretratezza radicale» e ritengono che «il riconoscimento del carattere provinciale dell'attualismo sia il punto di partenza obbligato per chi intraprenda oggi gli studi filosofici» e invitano « per un'educazione seria, a guardare oltre frontiera, e, se mai, a salvare tra i pensa tori italiani dell'800 il solo Cattaneo» 46, starei per dire che il vestito mi sembra fatto su misura. L'unico modo di parlare, con quel senso di distacco di cui dicevo all'inizio, di Gentile mi pare sia quello di vederlo nel contesto della cultura italiana, cioè di una cultura che ,crede di essere alla testa del movimento spirituale di un'epoca e invece è quasi sempre alla coda. Una cultura la cui
43 Gentile, I fondamenti della filosofia del diritto, p. 102. 44 A. Del Noce, Appunti sul primo ,Gentile e la genesi dell'attualismo, « Giornale critico della filosofia italiana », 43 (1964), 508-556. 45 Così Ugo Spirito in L'umanesimo di Giovanni Gentile, in Nuovo Umanesimo, Roma 1964, p. 213, cito da Del Noce a p. 508. 46 Del Noce, Appunti sul primo Gentile e la genesi dell'attualismo, p. 510.
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«malattia mortale» è lo spiritualismo. Credo proprio che da una concezione spiritualistica della cultura venga l'idea del filosofomentote, del filosofo-educatore della nazione (l'Italia era fatta e bisognava fare gli italiani), di cui Gentile fu in quegli anni il più convinto teorico e anche, non esito a proclamarlo, una delle più vigorose incarnazioni. Ma debbo per dovere di coscienza dire che quanto a missione dell'intellettuale, appartengo a una 'generazione che ha imparato più dalle famose quattro righe di Giaime Pintor che da tutta la filosofia dell'atto puro. Non intendo infierire, ripeto, su Gentile ma soltanto cercare di comprenderlo nel contesto che fu suo e in cui agì da dominatore. Non infierisco nella misura in cui cerco di rendermi conto perché un fenomeno come quello della filosofia di Gentile - fenomeno davvero unico nella storia europea contemporanea - abbia potuto prodursi , prosperare ed avere tante propaggini (e un uomo come Del Noce, che vi corre dietro). Pur essendo recidivo nel rifiuto cerco pur sempre di addurre argomenti per motivarlo. E gli argomenti, per confutabili Ghe siano, e i miei certo lo sono, rappresentano il principio (e quasi sempre anche la fine) del dialogo. Di quel dialogo cui non mi sottraggo mai, specie quando mi ci invita un amico, cui rendo omaggio. come Gustavo Bontadini.
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