Internazionale 870

108
PI, SPED IN AP, DL 353/03 ART 1, 1 DCB VR Prezzo in germania Ɩ,ƒƐ ƌ • belgio Ɩ,ƐƐ ƌ pdf.internazionale.it �� �� �� � ����

description

AttuAlità16 La verità diWikileaks sullaguerra in IraqLe MondeeuropA20 Il governobritannicosceglie il rigoreThe IndependentAfricAe medio orieNte22 Non c’è pacetra gli ulivi dellaCisgiordaniaArab NewsAmeriche24 Haiti cerca difermare l’epidemiadi coleraEl PaísAsiA e pAcifico26 I tailandesi ancoralontani dallariconciliazioneBangkok Postvisti dAgli Altri28 Fine di un regimeOpen DemocracyiN copertiNA36 Il potere del sapereThe Times LiterarySupplementstAti uNiti44 La lezionedi ObamaThe New York TimesMagazineecoNomiA52 Bianchi e rossiinvadono la CinaThe New Yorkerportfolio58 Avedon all’astaLe foto di RichardAvedon, con un testodi Christian CaujolleritrAtti64 Clay ShirkyL’ottimistadella reteThe New YorkObserverviAggi68 L’infanziadei CastroSouth China MorningPostgrAphicJourNAlism72 Cartolineda BolognaFrancesca Ghermandilibri74 La città dei lettoriDie Zeitpop90 L’austeritàci farebbe beneTony Judt92 Dizionario delfuturo prossimoDouglas Coupland94 Il posto giustoper le buone ideeCory Doctorow

Transcript of Internazionale 870

Page 1: Internazionale 870

PI,

SP

ED

IN

AP

, D

L 3

53

/0

3 A

RT

1,

1 D

CB

VR

Pre

zzo

in g

er

ma

nia

,

• b

elg

io

,

pdf.intern

azionale.it

�������

������

�����

Page 2: Internazionale 870
Page 3: Internazionale 870
Page 4: Internazionale 870
Page 5: Internazionale 870

Internazionale 870 | 29 ottobre 2010 5

Sommario

inte

rnaz

ion

ale.

it/s

omm

ario

La settimana

29 ottobre/4 novembre 2010 • Numero 870 • Anno 17

Appunti al margine di un’intervista televisiva di Fabio Fazio a Sergio Marchionne. sm lavora diciotto ore al giorno, per senso del dovere. sm dice di

sé che fa il metalmeccanico. sm propone per gli operai della Fiat tre pause di dieci minuti, anziché due di venti. sm ha il passaporto italiano, quello canadese e la residenza in Svizzera. “Fiat potrebbe fare a meno dell’Italia?”, è una domanda di ff e non una frase pronunciata da sm, come invece scritto da alcuni giornali. A quella domanda sm ha risposto: “Io le sto dicendo che se dovessi togliere la parte italiana da quei risultati, la Fiat farebbe di più”. sm è laureato in ilosoia. sm dice di essere “un agente di cambiamento”. sm deinisce gli operai della Fiat “i nostri collaboratori”. Stipendio mensile di un operaio della Fiat: 1.200 euro. sm in un comitato di gestione della Fiat ha citato un proverbio zulu (Umuntu ngumuntu

ngabantu, che vuol dire “Una persona è una persona tramite altre persone”). Lo ha scoperto leggendo la rivista di bordo delle linee aeree sudafricane. Giovanni De Mauro

[email protected]

Filosoia

AttuAlità16 La verità di

Wikileaks sulla guerra in Iraq

Le Monde

europA20 Il governo

britannico sceglie il rigore

The Independent

AfricA e medio orieNte22 Non c’è pace

tra gli ulivi della Cisgiordania

Arab News

Americhe24 Haiti cerca di

fermare l’epidemia di colera

El País

AsiA e pAcifico26 I tailandesi ancora

lontani dalla riconciliazione

Bangkok Post

visti dAgli Altri28 Fine di un regime Open Democracy

iN copertiNA 36 Il potere del sapere The Times Literary

Supplement

stAti uNiti44 La lezione

di Obama The New York Times

Magazine

ecoNomiA52 Bianchi e rossi

invadono la Cina The New Yorker

portfolio58 Avedon all’asta Le foto di Richard

Avedon, con un testo di Christian Caujolle

ritrAtti64 Clay Shirky

L’ottimista della rete

The New York Observer

viAggi68 L’infanzia

dei Castro South China Morning

Post

grAphic JourNAlism

72 Cartoline da Bologna

Francesca Ghermandi

libri74 La città dei lettori Die Zeit

pop90 L’austerità

ci farebbe bene Tony Judt92 Dizionario del

futuro prossimo Douglas Coupland94 Il posto giusto

per le buone idee Cory Doctorow

scieNZA e tecNologiA

96 Il tempo non è ininito

New Scientist98 Il diario della Terra

ecoNomiA e lAvoro

100 Una fragile tregua per le monete

Asia Times

cultura76 Cinema, libri,

musica, tv, arte

Le opinioni

23 Amira Hass

25 Yoani Sánchez

32 Noam Chomsky

34 Ala al Aswani

78 Gofredo Foi

80 Giuliano Milani

84 Pier Andrea Canei

86 Christian Caujolle

97 Anahad O’Connor

101 Tito Boeri

le rubriche15 Editoriali

31 Italieni

104 Strisce

105 L’oroscopo

106 L’ultima

Le Monde Fondato nel 1944, è un autorevole quotidiano francese. L’articolo a pagina 16 è uscito il 24 ottobre 2010 con il titolo La guerre d’Irak, au jour le jour. The New Yorker È un settimanale newyorchese di attualità e cultura, molto attento alla qualità della scrittura. L’articolo a pagina 52 è uscito il 16 novembre 2009 con il titolo Red red wine. The New York Times Magazine È il magazine della domenica del New York Times. L’articolo a pagina 44 è uscito il 17 ottobre 2010 con il titolo The Education of a president. Open Democracy È un sito d’informazione dedicato all’attualità internazionale e

all’approfondimento. L’articolo a pagina 28 è uscito il 21 ottobre 2010 con il titolo Silvio Berlusconi: the long goodbye. The Times Literary Supplement È un settimanale letterario britannico pubblicato dallo stesso gruppo editoriale del quotidiano The Times. L’articolo a pagina 36 è uscito il 30 aprile 2010 con il titolo Skills for life. Internazionale pubblica in esclusiva per l’Italia gli articoli dell’Economist.

le principali fonti di questo numero

RIc

hA

Rd

WA

hL

STR

oM

(GE

TT

Y IM

AG

ES)

“Non basta essere sicuri di avere ragione se nessuno è d’accordo con te”

peter bAker, pAgiNA

Page 6: Internazionale 870
Page 7: Internazionale 870

Immagini

Nuovi arriviCatania, Italia26 ottobre 2010

Alcuni dei 132 migranti sbarcati a Cata-nia il 26 ottobre. Diciotto di loro, tra cui molti egiziani e palestinesi, sono stati arrestati con l’accusa di favoreggiamen-to dell’immigrazione clandestina. Il 26 ottobre è stato presentato il rapporto Immigrazione. Dossier statistico 2010, realizzato dalla Caritas italiana e dalla fondazione Migrantes. In Italia vivono circa cinque milioni di immigrati, il 7 per cento della popolazione, che contribui-scono all’11,1 per cento del pil nazionale. Foto di Antonio Parrinello (Reuters/Con-trasto)

Page 8: Internazionale 870

Immagini

Per la libertàSanta Clara, Cuba21 ottobre 2010

Il giornalista e dissidente cubano Guil-lermo Fariñas ha vinto il premio Sakha-rov, il riconoscimento per la libertà di pensiero promosso dal parlamento eu-ropeo. È la terza volta in dieci anni che il premio viene assegnato a un rappresen-tante dell’opposizione cubana: nel 2002 a Oswaldo Payá e nel 2005 alle Damas de blanco. Negli ultimi anni Fariñas ha usato lo sciopero della fame come forma di protesta contro il regime di Fidel e Raúl Castro. Nella foto, Fariñas sulla porta della sua casa a Santa Clara. Foto di Adalberto Roque (Afp/Getty Images)

Page 9: Internazionale 870
Page 10: Internazionale 870

Immagini

A canestro in tunicaContea di Jigzhi, Cina23 ottobre 2010

A due chilometri dal monastero Lonnge della contea di Jigzhi, nella provincia di Qinghai, il governo ha costruito un cam-po da basket. Nella provincia vive una numerosa comunità tibetana e nei gior-ni scorsi in diverse città della zona cen-tinaia di studenti sono scesi in piazza contro la decisione del governo di limi-tare l’uso della lingua tibetana nelle scuole. Foto Featurechina/Epa/Ansa

Page 11: Internazionale 870
Page 12: Internazionale 870

12 Internazionale 870 | 29 ottobre 2010

[email protected]

Cara Milana, sono uno scrittore in crisi d’ispirazio-ne. Da dove comincio?

Questo autunno ho comincia-to a scrivere un libro sulla sto-ria della mitologia mondiale. Mi sembrava divertente e istruttivo, ma dopo una venti-na di pagine ho capito che mi stavo perdendo nell’enorme quantità del materiale.

Mi ha messo di cattivo umore, perché continuo a pen-sare che una storia fatta di dèi e di favole sugli eroi, scritta con un linguaggio semplice, potrebbe piacere molto ai miei

lettori. Ma che ci vuoi fare? La situazione croata in questo momento è troppo drammati-ca per rifugiarmi dentro un mi-to.

Così ora sto pensando di scrivere un romanzo sulla vita di chi si ritrova senza speranza e deve fare i conti con il malaf-fare e la corruzione. Ho già sei pagine pronte, ma sincera-mente non credo che andrò ol-tre la settima. Perché? Perché a quanto pare sto attraversan-do una crisi d’ispirazione, do-vuta al fatto che le mie giorna-te sono piene di lavoro e di altri impegni, tutti nemici mortali

della scrittura, che richiede pa-ce. Se anche a te è successo lo stesso, non sorprenderti del tuo blocco.

Se hai abbastanza tempo per scrivere ma ti mancano semplicemente le idee, fai pas-sare un po’ di tempo. Aspetta il momento in cui la storia uscirà da sola. Vedrai che prima o poi succederà. Il blocco è una par-te inevitabile del processo cre-ativo, per quanto possa essere indesiderato e sgradevole. ◆ it

Milana Runjic risponde alle domande dei lettori all’indirizzo [email protected]

Cara Milana

Cercando l’idea

Dare i numeri ◆ Nella rubrica “Il numero” (15 ottobre) Tito Boeri apre il suo commento citando una cifra, “170.000 posti di lavoro liberi in Italia”, che attribuisce all’Istat. In realtà l’Istat non dif-fonde il numero di posti vacan-ti. Ciò che viene reso disponibi-le a livello trimestrale è il tasso di posti vacanti, ovvero la per-centuale di posti vacanti in rap-porto ai posti di lavoro in totale, sia quelli vacanti sia i posti oc-cupati. Nell’ultima rilevazione, relativa al secondo trimestre del 2010, il tasso era pari allo 0,7 per cento. Questo tasso è calcolato sulle imprese dell’in-dustria e dei servizi privati (esclusi quelli sociali e persona-li) con almeno 10 dipendenti, e il numero di posti vacanti a cui esso corrisponde è di gran lun-ga inferiore a quello citato dal professor Boeri. Una eventuale stima del numero di posti va-canti riferiti all’intera economia può essere costruita utilizzando ipotesi indirette, ma non è pro-dotta dall’Istat. Patrizia Cacioli Direttore centrale comunicazione ed editoria dell’Istat

Finale a sorpresa

◆ La recensione di Gorbaciof (22 ottobre) termina con un cla-moroso spoiler! Vabbè che non è un thriller, ma… Gianluca Chiappini

Viva gli ultimi ◆ Vi leggo tutte le settimane e spesso il criterio di priorità sulla lettura degli articoli è guidato dalle foto. Oggi mi ha colpito il viso di una ragazza che strideva con la freddezza dell’arma che teneva in mano (“Cittadini a mano armata”, 22 ottobre). Ho letto tutto l’articolo, compreso “Da Sapere” e lì, dopo tanto tempo, ho riscoperto l’orgoglio di essere ultimi. Una statistica internazionale, pur mettendoci all’ultimo posto, inalmente evidenzia come nel nostro pae-se vi siano meno armi possedu-te da privati che in molti altri paesi dell’Europa e del mondo. Per oggi basta leggere, voglio i-nire la giornata con questa bella sensazione. Non voglio rovinar-la scoprendo magari che gran parte di quelle armi sono made in Italy.Marco Alaimo

L’immagine del Cile ◆ Nell’ultimo numero ho trova-to l’allegato con le prime pagine dei giornali stranieri sulla libe-razione dei minatori cileni. Da Internazionale non me l’aspet-tavo. Ovviamente sono molto contento per i 33 minatori cileni e per le loro famiglie, ma non credete che su questo fatto il governo cileno si sia un po’ ap-proittato della situazione? Ma-gari per dare una buona imma-gine di sé al mondo. Un’altra cosa insopportabile è che non si è praticamente mai parlato del-le norme di sicurezza dei mina-tori, e intendo in tutto il mondo. Undici minatori cinesi sono ri-masti intrappolati ma nessuno ne parla.Mattia Stefanelli

PER CONTATTARE LA REDAZIONE

Telefono 06 441 7301 Fax 06 4425 2718Posta viale Regina Margherita 294, 00198 RomaEmail [email protected] internazionale.it

INTERNAZIONALE È SU

Facebook.com/internazionaleTwitter.com/internazionaleYouTube.com/internazionale Flickr.com/internaz

Ho comprato una casa da ristrutturare. Prima di co-minciare i lavori ho chiesto dei preventivi. Ho scelto i più bassi, ma nessuno li ha rispettati. Alcuni sono stati rivisti e altri operai hanno lasciato il lavoro a metà. Cosa fare? – S. M., Bristol

Hai fatto quella che gli econo-misti chiamano “asta a rove-scio”. Invece di vendere al prezzo più alto hai comprato al più basso. I teorici delle aste sostengono che quando i con-correnti stimano il prezzo di un servizio c’è sempre chi of-fre di più, aggiudicandosi l’asta. I vincitori tendono a es-sere delusi, un fenomeno det-to “la maledizione del vincito-re”. Il venditore può anche sperare che l’acquirente ofra troppo, l’importante però è ri-cevere i soldi. Mentre nell’asta a rovescio è diicile assicurar-si che un venditore deluso for-nisca il servizio promesso. Se l’elettricista scopre di aver of-ferto il servizio a un costo troppo basso, probabilmente non rispetterà il preventivo. In futuro chiedi dei preventivi vincolanti per fare in modo che non crescano, prometten-do i soldi solo alla ine del la-voro. Ma se non sei un costrut-tore, potrai avere delle sorpre-se anche molto tempo dopo la ine dei lavori. Ti consiglio di girare la maledizione del vin-citore a tuo vantaggio: inita la casa vendila all’asta.

Tim Harford risponde alle do-mande dei lettori del Financial Times.

Preventivinon rispettati

Caro economista

Page 13: Internazionale 870
Page 14: Internazionale 870

«Non mi ascolta!»

Movimento cronografico meccanico di manifattura IWC

(foto) | Funzione flyback | Sistema di carica

automatica a doppio cricchetto

IWC | Datario | Vetro zaffiro

antiriflesso | Fondello in vetro

zaffiro | Impermeabile 6 bar | Oro rosso 18 ct

Portoghese Yacht Club Chronograph. Ref. 3902: «Appena possibile, invertire la

marcia.» Una cosa è certa: gli strumenti utilizzati dai veri navigatori, come Vasco da

Gama, sono meno invadenti. Uno di questi è già una leggenda della navigazione:

il Portoghese Yacht Club Chronograph. Il suo movimento meccanico di manifattura

IWC, con funzione flyback e sistema di carica automatica a doppio cricchetto, garan-

tisce la massima precisione nel raggiungimento del proprio personale approdo.

Un silenzioso compagno di viaggio che non avrà mai nulla da ridire anche se vi

dovesse capitare di cambiare rotta all’improvviso. IWC. Engineered for men.

Finalmente un sistema di navigazione

piacevolmente silenzioso.

Su www.iwc.com l’e lenco dei Rivenditor i Autor izzati abi l i tat i a l r i lascio del la Garanzia Internazionale IWC, la cui at t ivazione è val idata on-l ine a l momento del l’acquisto.

Per informazioni : + (39 ) 02 3026642 – iwc.i ta l ia@ iwc.com – www.iwc.com

4223846aR2Ha422z492arakoia¥Ua6eakv0kpff"""3 2:032032"""32<24

Page 15: Internazionale 870

Internazionale 870 | 29 ottobre 2010 15

Editoriali

Molte persone avranno dormito sonni agitati nelle ultime notti. Dai militari statunitensi e bri-tannici ai leader iracheni, per non parlare dei mercenari che si trovano in Iraq. Erano in molti a sapere che le rivelazioni di Wikileaks sulle atro-cità commesse durante il conlitto sarebbero sta-te devastanti. Le smentite non servono: la mon-tagna di documenti è imbarazzante. E mostra che la guerra in Iraq non ha conosciuto solo qual-che deviazione di cui pentirsi – come Abu Ghraib – prima di inire in pompa magna con dichiara-zioni trionfali. La guerra stessa è stata un gigan-tesco errore.

Decine di migliaia di civili iracheni uccisi, una privatizzazione della guerra che è diventata una ulteriore minaccia per gli abitanti, torture ed esecuzioni commesse dalle autorità irachene e nascoste dagli americani. Saccheggi, sequestri, pulizia etnica e altri crimini terribili. E poi i san-guinosi attacchi delle forze vicine ad Al Qaeda, arrivate in Iraq dopo l’invasione angloamerica-na, ma che ino all’occupazione del paese esiste-

vano solo nell’immaginazione e nelle menzogne dei guerrafondai.

Probabilmente nessuno leggerà per intero i circa 400mila documenti pubblicati da Wikilea-ks. I più cinici diranno che tutto era già noto. Ma queste rivelazioni ofrono argomenti inesauribi-li a tutti quelli convinti che il bilancio di questa guerra sia stato chiuso con troppa fretta.

Conti da rendere? Cresce la pressione sull’amministrazione Obama perché prenda le distanze in modo chiaro da queste azioni terribi-li. Lezioni da trarre? La certezza che, in futuro, i militari non potranno più trincerarsi dietro una presunta mancanza d’informazioni per evitare di fornire dettagli, in tempo reale, sulle conse-guenze dei loro atti. E soprattutto un’altra lezio-ne che suona come un terribile avvertimento: la vittoria in Iraq non è stata raggiunta grazie alla strategia militare, ma a causa di un generale si-nimento per i troppi massacri e per il fatto di vi-vere a contatto con l’inferno. È una lezione su cui meditare in Afghanistan. u oda

A contatto con l’inferno

Sventurata India

Luis Lema, Le Temps, Svizzera

Arundhati Roy, The Hindu, India

Scrivo queste righe da Srinagar, nel Kashmir. Sui giornali si legge che rischio l’arresto con l’accusa di sedizione per le mie recenti dichiarazioni sul Kashmir. Ho detto quello che dicono ogni giorno milioni di persone in questa regione. Ho detto quello che scrivo da anni. Chiunque voglia legge-re il testo dei miei discorsi vedrà che si tratta solo di richieste di giustizia. Ho parlato di giustizia per il popolo del Kashmir, che vive sotto una delle oc-cupazioni militari più brutali del mondo, per i soldati dalit uccisi in Kashmir e sepolti nella spaz-zatura, per i poveri dell’India, che pagano il prez-zo di quest’occupazione e vivono in quello che sempre più è uno stato di polizia.

Il 25 ottobre sono andata a Shopian, la città del Kashmir meridionale che l’anno scorso si è fer-mata per 47 giorni per protestare contro il brutale stupro e assassinio di Asiya e Nilofer. I cadaveri delle due giovani donne sono stati ritrovati in un ruscello vicino alle loro case. I loro assassini non sono stati arrestati. Lì ho conosciuto il vedovo di Nilofer, Shakeel, che è anche fratello di Asiya. Ci siamo seduti in cerchio con un gruppo di persone rese folli dal dolore e dalla rabbia: hanno perso la speranza di poter ottenere giustizia dall’India e

sono convinte che oggi la loro unica speranza sia azadi, la libertà. Ho conosciuto giovani che lan-ciavano sassi a cui hanno sparato negli occhi. Ho fatto il viaggio insieme a un ragazzo che mi ha parlato di tre suoi amici, neanche ventenni, arre-stati nel distretto di Anantnag: per punirli di aver tirato pietre gli avevano strappato le unghie.

Alcuni giornali mi hanno accusato di aver fat-to discorsi che “istigano all’odio”, di volere la di-sgregazione dell’India. È il contrario: le mie paro-le nascono dall’amore e dalla ierezza. Nascono dal non volere che nessuno sia ucciso, stuprato, incarcerato, torturato per costringerlo a dirsi in-diano. Nascono dal voler vivere in una società che si sforza di essere giusta. Sventurata la nazio-ne che deve ridurre al silenzio i suoi scrittori solo perché dicono ciò che pensano. Sventurata la na-zione che ha bisogno di incarcerare chi chiede giustizia, mentre chi massacra, chi trufa per fa-vorire le multinazionali, chi stupra e chi saccheg-gia i più poveri dei poveri è a piede libero. u ma

Arundhati Roy è una scrittrice indiana. Il suo ul-timo libro pubblicato in Italia è Quando arrivano le cavallette (Guanda 2009).

“Vi sono più cose in cielo e in terra, Orazio,di quante se ne sognano nella vostra ilosoia”William Shakespeare, Amleto Direttore Giovanni De MauroVicedirettori Elena Boille, Chiara Nielsen, Alberto Notarbartolo, Jacopo ZanchiniComitato di direzione Giovanna Chioini (copy editor), Stefania Mascetti (Internazionale.it), Martina Recchiuti (Internazionale.it), Pierfrancesco Romano (copy editor)In redazione Liliana Cardile (Cina), Carlo Ciurlo (viaggi), Camilla Desideri (America Latina), Simon Dunaway (attualità), Mélissa Jollivet (photo editor), Alessandro Lubello (economia), Maysa Moroni, Andrea Pipino (Europa), Claudio Rossi Marcelli (Internazionale.it), Francesca Sibani (Africa e Medio oriente), Piero Zardo (cultura), Giulia Zoli (Stati Uniti) Impaginazione Pasquale Cavorsi, Valeria Quadri Segreteria Teresa Censini, Luisa Cifolilli Correzione di bozze Sara EspositoTraduzioni I traduttori sono indicati dalla sigla alla ine degli articoli. Marina Astrologo, Sara Bani, Caterina Benincasa, Giuseppina Cavallo, Diana Corsini, Olga D’Amato, Stefania De Franco, Andrea De Ritis, Nazzareno Mataldi, Floriana Pagano, Fabrizio Saulini, Francesca Spinelli, Ivana Telebak, Bruna Tortorella, Stefano Valenti, Anna ZulianiDisegni Anna Keen. I ritratti dei columnist sono di Scott Menchin Progetto graico Mark Porter Hanno collaborato Gian Paolo Accardo, Isabella Aguilar, Luca Bacchini, Francesco Boille, Annalisa Camilli, Gabriele Crescente, Giovanna D’Ascenzi, Sergio Fant, Andrea Ferrario, Antonio Frate, Francesca Gnetti, Anita Joshi, Alessio Marchionna, Jamila Mascat, Odaira Namihei, Lore Popper, Fabio Pusterla, Marta Russo, Michael Robinson, Andreana Saint Amour, Diana Santini, Junko Terao, Laura Tonon, Pierre Vanrie, Guido Vitiello, Abdelkader ZemouriEditore Internazionale srl Consiglio di amministrazione Brunetto Tini (presidente), Giuseppe Cornetto Bourlot (vicepresidente), Emanuele Bevilacqua (amministratore delegato), Alessandro Spaventa (amministratore delegato), Antonio Abete, Giovanni De Mauro, Giovanni Lo StortoSede legale via Prenestina 685, 00155 Roma Produzione e difusione Francisco Vilalta Amministrazione Tommasa Palumbo, Arianna CastelliConcessionaria esclusiva per la pubblicità Agenzia del marketing editorialeTel. 06 809 1271, 06 80660287 [email protected] Download Pubblicità S.r.l.Stampa Elcograf Industria Graica, via Nazionale 14, Beverate di Brivio (Lc) Distribuzione Press Di, Segrate (Mi)Copyright Tutto il materiale scritto dalla redazione è disponibile sotto la licenza Creative Common Attribuzione-Non commerciale-Condividi allo stesso modo 3.0. Signiica che può essere riprodotto a patto di citare Internazionale, di non usarlo per ini commerciali e di condividerlo con la stessa licenza. Per questioni di diritti non possiamo applicare questa licenza agli articoli che compriamo dai giornali stranieri. Info: [email protected]

Registrazione tribunale di Roma n. 433 del 4 ottobre 1993Direttore responsabile Giovanni De MauroChiuso in redazione alle 20 di mercoledì 27 ottobre 2010

PER ABBONARSI E PER INFORMAZIONI

SUL PROPRIO ABBONAMENTO

Numero verde 800 156 595Fax 030 319 8202Email [email protected] internazionale.it/abbonati

LO SHOP DI INTERNAZIONALE

Numero verde 800 321 717(lun-ven 9.00-18.00)Online shop.internazionale.itFax 06 4555 2945

Page 16: Internazionale 870

Attualità

Circa 400mila documenti militari statunitensi sulla guerra in Iraq, ottenuti da Wikileaks, sono stati tra-smessi a quattro giornali – The New York Times,

The Guardian, Der Spiegel e Le Monde – che poi li hanno resi pubblici. I documenti sono stati trasmessi anche all’ong londine-se Bureau of investigative journalism, che ha decifrato e sintetizzato tutto il materiale. I rapporti scritti quotidianamente dai mili-tari dell’esercito statunitense coprono sei anni di conlitto, dal 2004 al 2009. I docu-menti, redatti dopo ogni incidente o pattu-gliamento, raccontano gli scontri giorno per giorno. È la guerra vista dai blindati, dalla strada, dai check point, e raccontata in modo lapidario, senza emozioni: il reso-conto della banalità della violenza.

L’informatore di Wikileaks non ha avu-to accesso ai rapporti del comando né a quelli delle forze speciali o dei servizi d’in-telligence. I documenti, quindi, non con-tengono rivelazioni inedite sullo svolgi-mento del conlitto. Non c’è niente sulla cattura di Saddam Hussein né sulla morte

del leader di Al Qaeda in Iraq, il giordano Abu Musab al Zarqawi. Non ci sono notizie nemmeno sulle due battaglie di Falluja, roccaforte dell’insurrezione sunnita. Né si parla delle opinioni dei comandanti o delle loro rilessioni strategiche. In compenso dai documenti trapelano i timori dei milita-ri per un intervento iraniano in Iraq, con-fermati dall’arresto di guerriglieri sciiti “addestrati in Iran” e dalla scoperta di de-positi di armi.

I rapporti rivelano una verità frammen-tata. Innanzitutto perché un soldato, nel pieno dell’azione, può avere solo una visio-ne parziale della situazione. Inoltre, se un militare è coinvolto in un “incidente”, può avere interesse a mascherare i fatti per evi-tare sanzioni. Questi limiti sono evidenti nel rapporto sul massacro di Haditha, un villaggio a 260 chilometri da Baghdad, do-ve nel 2005 furono uccisi 24 civili. Datato 19 novembre, giorno dei fatti, racconta in quindici righe che un veicolo blindato sta-tunitense è saltato in aria passando su un ordigno costruito con una bombola di pro-pano e comandato a distanza. L’autista del veicolo è morto sul colpo. Nello stesso

Civili uccisi a freddo. Torture e abusi sui prigionieri. I rapporti segreti dei militari rivelano tutta la violenza della guerra in Iraq. E mettono a nudo le bugie del governo statunitense

La verità di Wikileakssulla guerra in IraqPatrice Claude e Rémy Ourdan, Le Monde, Francia

istante, scrive l’autore, “la pattuglia è colpi-ta dal fuoco di elementi nemici proveniente da alcuni ediici residenziali, e risponde”. Dopo le denunce dei testimoni e dei so-pravvissuti civili, nell’agosto del 2007 si è svolto un processo davanti a una corte mar-ziale negli Stati Uniti. In questo modo si è scoperto che, sconvolti per la morte del compagno, gli otto marines hanno aperto il fuoco in tutte le direzioni senza essere stati attaccati. Poi si sono precipitati nelle case vicine e hanno ucciso tutte le persone in-contrate, usando fucili d’assalto e granate a frammentazione. Le vittime del massacro di Haditha, il più grave crimine di guerra del conlitto iracheno, sono state 24, tra cui dieci tra donne e bambini, tutti uccisi con un colpo a bruciapelo.

Degli otto marines processati solo uno, il capo della pattuglia, è stato condannato. Dopo i fatti non era stata ordinata nessuna inchiesta perché, come ha spiegato l’avvo-cato del tenente Jefrey Chessani, il coman-dante del battaglione, “all’epoca non era prevista nessuna procedura per indagare sulla morte dei civili in combattimento”. Le cose sono cambiate solo dopo l’aprile del

16 Internazionale 870 | 29 ottobre 2010

Baghdad 2004 2005 2006

Ogni punto indica un incidente con almeno una vittima

Page 17: Internazionale 870

2006, in seguito all’indignazione provoca-ta dalla strage.

Il 12 marzo 2006, vicino a Mahmudiyah, una cittadina a sud di Baghdad, alcuni sol-dati riferiscono di aver scoperto in una casa “quattro civili uccisi dalle forze anti-irache-ne (la formula usata dall’esercito statuni-tense per indicare i suoi nemici). Un uomo e tre donne, i cui corpi mostrano segni di ferite provocate da Ak47”. Alla ine del rap-porto si legge che i cadaveri sono stati por-tati all’obitorio locale. In realtà anche quel-lo di Mahmudiyah è un crimine di guerra. Grazie ai testimoni iracheni che hanno avu-to il coraggio di protestare, durante un pro-cesso davanti a una corte marziale negli Stati Uniti, si è saputo che quattro soldati di pattuglia nella zona avevano notato una ragazza di 14 anni. Di notte sono entrati nella sua casa e hanno rinchiuso il padre, la madre e la sorella di sette anni in una stan-za. Da lì i tre hanno potuto sentire le grida di Abir, la iglia, stuprata a turno dai soldati. Dopo la violenza, i militari hanno ucciso l’intera famiglia. Steven Dale Green, un militare texano di 24 anni, a quanto pare l’ideatore dell’aggressione, ha ricevuto cin-que condanne all’ergastolo. I suoi complici hanno avuto 90 e 110 anni di carcere. Nel giro di sette anni potrebbero ottenere la li-bertà sulla parola. Appartenevano tutti alla famosa 101a divisione aviotrasportata, la Airborne.

L’escalation della forzaIn gran parte dei rapporti consultati, quan-do i soldati riferiscono di civili uccisi o feriti sostengono di aver “rispettato le procedu-re”, in particolare quelle relative alle “esca-lation della forza”, espressione del gergo

militare. Esclusi i casi in cui il capo unità raccomanda esplicitamente l’apertura di un’inchiesta, i rapporti contengono sempre giustiicazioni che servono a considerare le azioni militari legittime e regolari.

L’escalation della forza, di cui si parla in quasi 14mila dei documenti raccolti da Wi-kileaks, prevede innanzitutto dei segnali di avviso (gesti, luci o suoni), seguiti da spari di avvertimento. La maggior parte dei do-cumenti riporta minuziosamente le varie tappe dell’uso della forza, soprattutto quando vengono uccisi dei civili. In un rap-porto del 14 giugno 2005, ore 15.30, si legge: “Il posto di blocco Hurricane ha provato a fermare un veicolo con gesti delle mani e delle braccia. La Opel ha continuato a pro-cedere a grande velocità. Il check point Hurricane ha sparato dei colpi di avverti-

mento. Il veicolo ha accelerato. (…) Poiché il veicolo non accennava a fermarsi, i solda-ti hanno sparato contro il cofano della mac-china, distante circa cento metri. Dato che il veicolo continuava a procedere, i marines hanno sparato sul conducente. (…) Nella macchina c’erano 11 persone. L’operazione ha provocato la morte di 7 civili (tra cui 2 bambini)”.

Il resoconto mostra quanto i soldati avessero paura delle macchine cariche di esplosivo guidate dai kamikaze e con quale facilità aprissero il fuoco. Solo nel 2007, con l’arrivo del generale David Petraeus a Baghdad e l’adozione di nuove regole sull’uso delle armi da fuoco, il numero di vittime civili ha cominciato a diminuire.

Non c’è nessuna prova che questi rap-porti siano fedeli alla realtà. Molti iracheni hanno raccontato, in particolare nei primi anni dell’intervento militare statunitense, di essere stati colpiti mentre si avvicinava-no a un posto di blocco o a un convoglio senza aver ricevuto nessun segnale di avvi-so. I documenti di Wikileaks citano anche diversi casi di automobilisti che non hanno sentito gli spari di avvertimento. Molte per-sone sorde, con problemi di vista o ritardi mentali, sono state uccise perché non ave-vano reagito ai segnali.

Alcuni soldati, convinti di aver agito correttamente, non si preoccupano nean-che di descrivere i casi di escalation della forza. In un rapporto del 7 settembre 2006, per esempio, si legge: “La pattuglia stava avanzando quando un’auto bianca si è uni-ta alla colonna. L’unità l’ha ritenuta un’azione ostile e ha aperto il fuoco sparan-do un numero indeterminato di proiettili 7,62 mm. Il veicolo ha preso fuoco e la pat-

Internazionale 870 | 29 ottobre 2010 17

u Il 22 ottobre quattro giornali – The New York Times, The Guardian, Der Spiegel e Le Monde – e l’ong Bureau of investigative journalism hanno cominciato a pubblicare una selezione dei 400mila documenti sulla guerra in Iraq ottenuti da Wikileaks, il sito fondato nel 2006 da Julian Assange.u I rapporti dei soldati statunitensi coprono sei anni di guerra, dal 2004 al 2009, e rivelano stragi di civili, morti di innocenti ai posti di blocco e torture di prigionieri da parte delle autorità irachene. u Alcuni documenti riguardano anche l’Italia, in particolare tre episodi: la morte dell’agente del Sismi Nicola Calipari, lo scontro a fuoco avvenuto nell’agosto del 2004 a Nassiriya e la morte del sergente Salvatore Marracino il 15 marzo 2005. Tutto il dossier è online: wikileaks.org.

Da sapere

Iraq I documenti difusi da Wikileaks rivelano che, tra il 2004 e il 2009, a Baghdad sono morte più di 32mila persone. Molte delle vitti-me erano civili iracheni, anche se più di un terzo dei corpi non è stato identiicato. Il picco di violenza si è veriicato tra il 2006 e l’inizio del 2007. Nel dicembre del 2006 a Baghdad sono morte più di 2.700 persone, più che in qualsiasi altro mese dall’inizio della guerra.

2007 2008 2009

TH

E N

EW

YO

rk

TIM

ES

Page 18: Internazionale 870

tuglia non ha potuto soccorrere gli occu-panti. (…) I parenti del morto hanno detto di capire che non si trattava di un omicidio intenzionale”. Il rapporto conclude: “I pa-renti hanno apprezzato il fatto che i soldati abbiano sorvegliato i cadaveri”.

Quest’uso indiscriminato della forza ha effetti ancora più devastanti quando gli spari arrivano dal cielo. Se credono di aver individuato un bersaglio, non sempre gli elicotteri sparano dei colpi di avvertimen-to. Un rapporto del 28 febbraio 2008, ore 17.30, redatto dal capo dell’unità B/3-69, descrive un “incidente”: “L’unità ha efet-tuato una ricognizione per indagare su sei insorti che stavano piazzando un ordigno esplosivo improvvisato (scavavano freneti-camente) su Route Golden. (…) Alle 11.15, Carnage 27 (2 elicotteri Apache Ah-64) ha attaccato gli insorti, riferendo di averne uc-ciso uno e di averne messi altri cinque in fuga verso un ediicio vicino. (…) La forza di reazione rapida ha identiicato il morto, un ragazzo di 13 anni, e ha saputo da alcuni ci-vili presenti sul luogo che le sei persone erano bambini che cercavano radici per ac-cendere un fuoco. (…) Non è stata trovata nessuna traccia di ordigni esplosivi”. Un altro episodio tragicamente banale della guerra in Iraq.

Paradossalmente, mentre il passaggio del comando al generale Petraeus e l’avvio della strategia di controinsurrezione hanno fatto diminuire dal 2007 il numero di civili uccisi dall’esercito statunitense, il bilancio si è invece aggravato per quanto riguarda le vittime delle forze aeree. Deciso a salvare vite statunitensi, lo stato maggiore ha ri-dotto le pattuglie di terra, scegliendo di usare gli elicotteri da combattimento. Se-condo il dossier di Wikileaks, l’80 per cento dei missili Hellire è stato lanciato negli ul-timi tre anni. In questi casi non ci sono stati spari di avvertimento né escalation della forza.

Nei 14mila rapporti in cui si parla di in-cidenti legati all’“escalation della forza”, le vittime civili dell’esercito statunitense so-no state 681 mentre gli insorti uccisi 120. Altri 103 civili sono stati uccisi dalle forze aeree. Il dossier di Wikileaks calcola che i civili uccisi sono stati 66.081 e i feriti 99.163, la grande maggioranza in attentati. Molti sono morti nei momenti più duri del-la guerra civile tra sunniti e sciiti.

I documenti permettono anche di stabi-lire che, dal 2004 al 2009, 183.991 iracheni sono stati arrestati e incarcerati dalle forze

della coalizione. Non sono indicate le date di scarcerazione, a volte immediate, di chi riusciva a dimostrare la propria innocenza: per questo è impossibile sapere il numero esatto di persone rimaste in carcere per lunghi periodi, spesso senza rispettare la procedura giudiziaria.

In carcere

Dal giugno del 2004, dopo il trasferimento di parte della sovranità a un “governo ad interim”, la polizia e l’esercito iracheni han-no gradualmente ripreso il loro posto nei commissariati e nei penitenziari del paese.

Dopo lo scandalo della prigione di Abu Ghraib, scoppiato nell’aprile del 2004, nel 2006 gli statunitensi hanno ceduto il con-trollo del carcere agli iracheni. Ma solo nell’estate del 2010 hanno chiuso deiniti-vamente due centri di detenzio-ne aperti all’inizio dell’occupa-zione: Camp Bucca, nell’estremo sud del paese, e Camp Cropper vicino all’aeroporto di Baghdad.

Non sappiamo quanti detenu-ti siano passati per queste due prigioni. Al-meno centomila, sostiene Amnesty inter-national. Nell’estate del 2007, al culmine dell’occupazione, il primo campo contava 27mila detenuti, il secondo 22mila. Queste cifre ovviamente non tengono conto delle decine di migliaia di uomini arrestati e in-terrogati dagli iracheni e dai cosiddetti ser-vizi statunitensi “speciali”, come la Cia, che avevano i loro centri di detenzione.

Nell’agosto del 2009 la Cia ha dovuto ammettere che il capo dell’uicio di Bagh-dad era stato trasferito nel novembre del 2003 in seguito alla morte, nel corso di in-terrogatori brutali, di due iracheni, tra cui il generale Abed Hamed Mowhush. Secondo il gruppo editoriale statunitense Mc-Clatchy, “almeno cinque detenuti” sono morti in circostanze simili e “nessuno sa cosa sia successo a decine di altri ‘detenuti fantasma’” della Cia a Baghdad. Grazie alle rivelazioni di Wikileaks, sappiamo invece che almeno 303 denunce per tortura o mal-trattamenti sono state registrate. Secondo il Bureau of investigative journalism, in una

quarantina di casi si tratta di violenze gravi. Qualche esempio: il 6 luglio 2006 “due de-tenuti afermano che dei marines li hanno colpiti e gli hanno inflitto delle scariche elettriche (forse con un Taser) (…) Un esa-me medico del primo detenuto ha rivelato dei segni sul petto e sulle ginocchia compa-tibili con una caduta”.

Il 1 febbraio 2007: “Il tenente colonnel-lo X si è precipitato sul detenuto NKS schi-vando le guardie e l’ha colpito in faccia. Il naso del detenuto sembra rotto. (…) Anche se sul momento il soldato ha potuto consi-derare giustiicato il suo gesto (il suo mi-gliore amico era stato ucciso qualche gior-no prima, ma la sua morte non aveva nulla a che fare con il detenuto in questione), prendiamo questo incidente molto sul serio e siamo pronti a discuterne con i soldati”. Il dossier di Wikileaks non parla dei più gravi episodi di violenza commessi dai soldati della coalizione contro i detenuti. Non vie-ne fatta parola, per esempio, di Ali Mansur, interrogato a casa sua il 5 maggio 2008 e ritrovato undici giorni dopo nudo, con un proiettile in testa e un altro nel petto, sotto un ponte della città di Baiji, a nord di Bagh-

dad. Il processo militare che si è svolto nel settembre del 2008 ha permesso di stabilire che il te-nente Michael Behenna e il ser-gente maggiore Hal Warner han-no ucciso a sangue freddo l’uo-

mo, che avrebbe dovuto essere liberato proprio il giorno della sua morte. I due han-no poi ordinato ai tre soldati che li accom-pagnavano di scrivere nel loro rapporto che Ali Mansur era stato rimesso in libertà.

Nel dossier non si parla nemmeno dell’uccisione di quattro civili, giovani sun-niti, la cui identità non è stata rivelata du-rante il processo che si è svolto nell’agosto del 2008 in Germania. Fermati di notte da una pattuglia nell’aprile del 2007, i quattro giovani – come hanno dichiarato altri mili-tari testimoni del crimine – sono stati porta-ti sulla riva di un canale a Baghdad e uccisi a freddo da tre sergenti della 172a brigata di fanteria.

Gli uiciali statunitensi che hanno scrit-to i rapporti si sono soffermati più sugli abusi commessi dagli iracheni che su quelli dei loro commilitoni. Tra il 2004 e il 2009 hanno registrato 1.354 abusi commessi dal-le forze irachene sui detenuti. I particolari, in questi casi, sono ancora più raccapric-cianti. 13 novembre 2005: “Alle 16, la 2a bri-gata di combattimento segnala la scoperta

Attualità

18 Internazionale 870 | 29 ottobre 2010

Con l’arrivo del generale Petraeus il numero dei civili uccisi è diminuito

Page 19: Internazionale 870

di 173 detenuti in una prigione del ministe-ro dell’interno vicino a Karada (un quartie-re centrale di Baghdad). Numerosi detenu-ti mostrano segni di tortura, bruciature di sigarette, lividi che sembrano causati da percosse e ferite aperte. Molti di loro tossi-scono. (…) Circa 95 detenuti erano rinchiusi nella stessa stanza, seduti a gambe incro-ciate e con gli occhi bendati, tutti girati nel-la stessa direzione. Secondo quelli che sono stati interrogati sul posto, nelle ultime set-timane dodici di loro sono morti di malat-tia”.

Gli abusi degli iracheniL’esistenza di un’altra “prigione segreta”, con 431 detenuti, tutti sunniti, è stata rive-lata il 18 aprile 2010 dal Los Angeles Times. Quasi tutti i detenuti, sospettati di attività antigovernativa o di complicità con gli in-sorti jihadisti di Al Qaeda, sono stati arre-stati nell’autunno del 2009 nel nord del paese da militari iracheni e trasferiti a Baghdad. Molti dichiarano di essere stati torturati con bastonate, scariche elettriche e sofocamento “controllato” con dei sac-chetti di plastica in testa. Quanti altri casi simili saranno successi in tutto il paese? È

impossibile saperlo. In genere – ed è una delle rivelazioni del dossier Wikileaks – quando i soldati statunitensi scoprono de-gli abusi evidenti commessi dai loro colle-ghi iracheni, si limitano a indicarlo nei loro rapporti con la frase: “Poiché le forze della coalizione non sono coinvolte in queste ac-cuse, un’inchiesta più approfondita non è necessaria”.

Il 19 ottobre 2006 una squadra statuni-tense sta svolgendo “un’operazione di rou-tine” in un centro di detenzione della poli-zia irachena. Scopre un detenuto grave-mente ferito. L’uomo “sostiene di essere stato colpito al viso e alla testa. Aferma an-che di aver ricevuto delle scariche elettri-che ai piedi e ai genitali e di essere stato sodomizzato con una bottiglia”. Gli statu-nitensi hanno isolato il detenuto per efet-tuare “altri esami”. Qualche mese prima, il 26 giugno, durante un’ispezione a sorpresa in un commissariato di polizia un’altra pat-tuglia statunitense aveva scoperto evidenti “tracce di tortura”. “Grandi quantità di san-gue sul pavimento della cella. Al muro era-no attaccati un cavo usato per inliggere scariche elettriche e un tubo di plastica. (…) Ai poliziotti sarà data una formazione sui

diritti umani”. Il 3 maggio 2005 gli uomini “dell’unità 2 d’indagine criminale” della polizia statunitense discutono con l’uicia-le di collegamento dei loro colleghi irache-ni. L’uiciale statunitense sente delle grida al piano di sopra. Si precipita nella stanza da cui provengono le grida, dove scopre un brigadiere, due ispettori e un uomo “in la-crime”. Quest’ultimo, sospettato di rici-claggio, accusa gli uomini che lo hanno in-terrogato di averlo colpito sulla pianta di piedi. Non riesce quasi a reggersi in piedi. Il brigadiere iracheno ammette i fatti. L’ui-ciale statunitense perquisisce i luoghi e tro-va due tubi di plastica, un matterello, “con una corda e un generatore a manovella con due pinze (requisito come corpo del rea-to)”.

Gli statunitensi spiegano al brigadiere iracheno che “il suo comportamento è inaccettabile e criminale. I documenti d’identità dei due ispettori sono conisca-ti”. L’unità d’indagine va a parlare con il generale a capo della struttura. “Mentre gli vengono esposti i particolari della vicenda, il generale mette ine alla riunione e comin-cia a fare altro”. A quanto pare la vicenda non ha avuto nessun seguito. u fs

Internazionale 870 | 29 ottobre 2010 19

Soldati statunitensi e iracheni arrestano un ribelle sunnita a Khidra, Iraq, il 26 luglio 2007No

or

/Lu

zP

ho

To

Page 20: Internazionale 870

20 Internazionale 870 | 29 ottobre 2010

Europa

I tagli sono arrivati. E sono durissimi. Con il documento di spesa del 20 ot-tobre, il ministro dell’economia George Osborne e quello del tesoro

Danny Alexander hanno continuato il lavo-ro cominciato con la inanziaria di giugno. Era chiaro che per ridurre il deicit in una sola legislatura ci sarebbero voluti i tagli più rigorosi del dopoguerra: oggi sappiamo an-che in cosa consiste il piano d’austerità.

Innanzitutto va detto che nella manovra ci sono anche aspetti positivi. I tagli al bi-lancio della giustizia, per esempio, porte-ranno a una necessaria riforma dell’inei-cace e costosa politica attuale, basata sulle carcerazioni facili. In materia di istruzione il pupil premium (un bonus per gli studenti meno ricchi) è il giusto riconoscimento del principio che i ragazzi delle famiglie non agiate dovrebbero ricevere aiuti per tutta la

durata degli studi. Va apprezzata anche la decisione di non ridurre gli aiuti allo svilup-po. E se è vero che il bilancio per la ricerca è stato congelato, bisogna anche dire che le cose potevano andare molto peggio.

Ma questi sono bagliori di luce in un orizzonte nerissimo. La manovra avrà con-seguenze durissime sui servizi. In quattro anni il bilancio delle amministrazioni locali calerà del 27 per cento in termini reali. Que-sto signiicherà meno assistenti sociali, me-no biblioteche, diicoltà nella raccolta dei riiuti. Nonostante la crescente domanda di

alloggi, saranno costruite meno case popo-lari. La durezza dei tagli rischia di far crolla-re la iducia dei cittadini nei governi locali. Malgrado gli investimenti per la riduzione delle emissioni di CO2, lo sviluppo di im-pianti eolici e la costituzione di una banca d’investimento per le energie alternative, anche il bilancio per l’ambiente sarà decur-tato. Inoltre l’idea di aumentare le tarife ferroviarie e ridurre le agevolazioni per il trasporto pubblico fa capire che il governo è meno attento all’ecologia di quanto voglia far credere. Anche i inanziamenti alla cul-tura saranno ridimensionati. Prendiamo il caso della Bbc. Sprechi a parte, è impossibi-le pensare che un taglio del 16 per cento non inluirà negativamente sulla qualità delle trasmissioni della tv pubblica britannica.

La scommessa di OsborneOsborne ha dichiarato che la manovra è ispirata al principio dell’equità. Ma di equità nella sua inanziaria non ce n’è abbastanza. Certo, l’innalzamento dell’età pensionabile per i dipendenti pubblici è da tempo inevi-tabile, ed è molto gradita la scelta di elimi-nare la scappatoia grazie a cui i più ricchi evitano di pagare le tasse investendo in fon-di pensione. Ma lo zelo con cui il governo vuole riformare il sistema sociale per i più poveri contrasta con il mantenimento di alcuni bonus per i pensionati ricchi. Non bisogna dimenticare che i meno agiati di-pendono dai servizi sociali molto più dei ricchi. E saranno sempre loro a subire le conseguenze più gravi dei tagli al gratuito patrocinio in campo legale.

Con la manovra, inoltre, il governo si è lanciato in una rischiosa scommessa ma-croeconomica. Anche se la spesa per gli in-vestimenti sarà mantenuta, la riduzione delle spese ministeriali inciderà negativa-mente sulla domanda. Nei prossimi quattro anni circa mezzo milione di dipendenti pubblici perderà il posto di lavoro. E i con-traccolpi si faranno sentire anche tra i priva-ti: diverse aziende perderanno le commes-se dalle amministrazioni. Tutto questo metterà a rischio il recupero di produttività nell’intero settore privato. Sarebbe sbaglia-to pensare che tutte le misure del governo di David Cameron bloccheranno la ripresa. Ma il punto è che equità e crescita sono due facce della stessa medaglia: il paese non avrà l’una senza l’altra. Se la politica econo-mica del ministro Osborne inirà per frena-re la crescita, anche la promessa di maggio-re equità si rivelerà falsa. u nm

Il governo britannicosceglie il rigore

La inanziaria presentata dal premier Cameron prevede tagli per 95 miliardi di euro in quattro anni. Una manovra durissima, che rischia di penalizzare i più deboli e frenare la crescita

The Independent, Gran Bretagna

LE

ON

NE

AL

(WP

A P

OO

L/G

ET

Ty

IM

AG

ES)

Da sinistra, Danny Alexander, David Cameron, George Osborne e Nick Clegg

Da sapere

Aiuti allo sviluppo

Sanità

Difesa

Istruzione

Trasporti

Ministero dell’interno

Giustizia

Amministrazioni locali

Mercato e innovazione

Ambiente e agricoltura

Comunità

Variazione della spesa pubblica in termini reali tra il 2011 e il 2015

-80 -60 -40 -20 0 20 40%

fO

NT

E: T

hE

EC

ON

OM

IST

Page 21: Internazionale 870

Internazionale 870 | 29 ottobre 2010 21

GRECIA

Frontiere sigillate Il conine greco con la Turchia, nella prefettura dell’Evros, sarà pattugliato da guardie di fron-tiera dell’Unione europea per frenare gli ingressi degli immi-grati illegali, aumentati sensibil-mente negli ultimi mesi. Come spiega Kathimerini, Bruxelles ha accettato per la prima volta le richieste di Atene, e invierà in Grecia un gruppo di funzionari dell’agenzia europea per il con-trollo dei conini, Frontex. Il go-verno greco, inoltre, ha conclu-so un accordo con la Turchia, che si è impegnata a presidiare i punti più permeabili del coni-ne. Gli agenti di Frontex e i poli-ziotti turchi che aiancheranno le guardie greche dovrebbero essere tra i 200 e i 700, e l’ope-razione sarà inanziata con fon-di comunitari. Non è stato anco-ra trovato un accordo sulla sorte degli immigrati, quasi tutti afga-ni. La Turchia non ha obblighi speciici di rimpatriarli, e la Gre-cia, dove le condizioni di vita nei centri di detenzione per immi-grati sono terribili, deve ancora smaltire 52mila domande di asi-lo. Nella foto, una famiglia di im-migrati palestinesi

AN

GE

Lo

s T

zo

rT

zIN

Is (A

FP/

GE

TT

Y IM

AG

Es)

Il parlamento francese ha approvato in via deinitiva la riforma delle pensioni, che – tra le altre cose – aumenta a 62 anni l’età minima per smettere di lavorare. Prosegue, invece, la mobilitazione contro il provvedimento cominciata all’inizio di settembre, anche se, sottolinea Le Monde, “le manifestazioni sembrano segnare il passo”. In diverse città, tuttavia, i trasporti pubblici sono ancora bloccati e in molte stazioni di servizio manca la benzina a causa degli scioperi nelle rainerie. Il braccio di ferro tra i sindacati e l’Eliseo – che ha gestito direttamente la riforma scavalcando il ministro del lavoro Eric Woerth, invischiato in diversi scandali per conlitto d’interessi – lascerà “una profonda ferita” nei rapporti tra il presidente Nicolas sarkozy e i rappresentanti dei lavoratori. “Ci vorrà tempo”, scrive Le Monde, “prima che il governo possa afrontare le altre riforme già in cantiere”. u

Francia

La riforma è legge

BE

No

IT T

Ess

IEr

(rE

UT

Er

s/C

oN

Tr

AsT

o)

SERBIA

Bruxelles si avvicina “L’Unione europea schiude la porta alla serbia”, scrive il quo-tidiano Blic. A un anno dalla presentazione della richiesta formale da parte di Belgrado, i ministri degli esteri dei paesi membri hanno deciso di sbloc-care la domanda di adesione serba. A convincere i Ventisette è stata la lessibilità serba sulla questione del Kosovo e l’impe-gno dimostrato nelle riforme politiche ed economiche. La de-cisione è stata presa nonostante l’opposizione dei Paesi Bassi, soprattutto grazie al lavoro di-plomatico di svezia, Grecia e romania. L’avvio di negoziati veri e propri, tuttavia, è vincola-to alla piena collaborazione del-la serbia con il Tribunale dell’Aja per la ex Jugoslavia. Da Belgrado, in pratica, ci si atten-de a breve l’arresto del generale ratko Mladić, ricercato per cri-mini di guerra e genocidio.

IN BREVE

Russia Il 22 ottobre la procura di Mosca ha chiesto una con-danna a 14 anni di prigione per Mikhail Khodorkovskij (nella fo-to), ex capo del gruppo petrolife-ro Yukos, e per il suo socio Pla-ton Lebedev, accusati di appro-priazione indebita. I due erano già stati condannati a otto anni per trufa ed evasione iscale.Belgio Il 21 ottobre re Alberto II ha nominato il socialista iam-mingo Johan Vande Lanotte mediatore nella crisi politica in corso nel paese.

REPUBBLICA CECA

Il senato all’opposizione Le elezioni per il rinnovo di un terzo del senato della repubbli-ca Ceca hanno dato un’ampia vittoria dei socialdemocratici della Čssd, nettamente sconitti alle politiche del giugno scorso. La Čssd si è aggiudicata 12 dei 27 seggi disponibili, assicuran-dosi così per un soio la mag-gioranza assoluta alla camera alta con 41 senatori su 81. Il Par-tito democratico civico, la for-mazione di centrodestra guidata

dal premier Petr Nečas, ha otte-nuto invece solo otto senatori. Deludenti sono stati anche i ri-sultati delle due nuove forma-zioni di centrodestra che a giu-gno avevano ottenuto un buon successo: Top 09 ha avuto due seggi, mentre Afari pubblici nemmeno un senatore. Il risul-tato del voto di domenica, scrive il quotidiano Pravo, non fa che prolungare lo stato di instabilità politica del paese: da un paio d’anni in repubblica Ceca non esistono forze politiche o coali-zioni stabili in grado di ottenere una maggioranza solida nelle due camere del parlamento.

La manifestazione del 26 ottobre a Parigi

MIK

hA

IL M

ET

zE

L (A

P/L

AP

rE

ssE

)

Page 22: Internazionale 870

22 Internazionale 870 | 29 ottobre 2010

Africa e Medio Oriente

Ulivo dopo ulivo, i contadini pa-lestinesi e i coloni israeliani si contendono le colline rocciose della Cisgiordania, piantando

la maggiore quantità di alberi possibile per consolidare il loro controllo del territorio. Ora, durante la stagione del raccolto, la bat-taglia si è inasprita, con piantagioni sac-cheggiate, danneggiate o bruciate.

Quest’anno la posta in gioco è più alta: i palestinesi hanno piantato il doppio di albe-ri rispetto agli anni scorsi, mentre i coloni ebrei hanno aumentato la produzione olivi-cola. “Piantiamo gli ulivi perché i coloni non ci sottraggano le terre”, dice il contadi-no palestinese Ghassan Seif, 48 anni, che coltiva un terreno vicino a Burqa, in Cisgior-dania. “Prima che gli arabi si prendano i terreni, li coltiviamo noi”, dice il colono israeliano Erez Ben-Saadon, 36 anni, che lavora le terre incolte per conto degli abi-tanti di un insediamento ebraico a 16 chilo-metri da Burqa.

Dal 2007 i palestinesi della Cisgiordania hanno piantato circa duecentomila ulivi all’anno, il doppio di quanto avveniva in precedenza, racconta Nabil Saleh, un fun-zionario locale che si occupa di agricoltura. L’Autorità Palestinese, aggiunge Saleh, sov-venziona queste attività perché mira a pian-tare trecentomila nuovi alberi all’anno. L’ulivo è la coltura preferita dei palestinesi: cresce facilmente, richiede poche attenzio-ni ed è redditizia perché l’olio si vende a sette dollari al litro. È anche uno degli ele-menti di base dell’alimentazione delle circa 70mila famiglie palestinesi, che coltivano in totale circa dieci milioni di ulivi.

Nel 2010 i coloni israeliani hanno pian-tato ventimila nuovi alberi, molti più che

nel 2009, dice Yehuda Shimon, consulente legale dei coloni. In tutto ne coltivano cen-tomila. Le olive fanno parte di un progetto più ampio che prevede anche vigneti e pian-tagioni di meli.

I palestinesi accusano i coloni di dan-

Non c’è pace tra gli ulivi della Cisgiordania

Ogni anno, durante la raccolta delle olive si scatena la violenza dei coloni israeliani contro i palestinesi e le loro piantagioni. Negli ultimi mesi la posta in gioco è diventata più alta

Diaa Hadid e Daniel Estrin, Arab News, Arabia Saudita

neggiare i loro uliveti. Alcuni gruppi di dife-sa dei diritti umani hanno documentato più di quaranta attacchi contro ulivi palestinesi in questa stagione. In rapporto all’estensio-ne totale delle coltivazioni, il danno è limi-tato. Ma di solito gli attacchi avvengono vi-cino al perimetro degli insediamenti ebraici per spaventare i palestinesi e impedirgli l’accesso ad alcune aree.

La famiglia Suliman, che vive nel villag-gio di Farata, ha perso l’intero raccolto. Cir-ca seicento dei loro ulivi, vicini alla colonia di Havat Gilad, sono stati spogliati dei frutti prima che fossero in grado di raccoglierli, racconta Majdi Suliman, 27 anni. Altri cin-quanta alberi di loro proprietà sono stati distrutti poco tempo dopo in un incendio che ha interessato 1.500 ulivi del loro villag-gio. Non avevano ancora cominciato la rac-colta perché aspettavano di essere scortati dai soldati israeliani, che accompagnano i palestinesi nei campi a rischio per prevenire le aggressioni dei coloni.

I leader delle colonie condannano gli atti di vandalismo, che attribuiscono a una minoranza di giovani impulsivi. E fanno notare che anche gli ebrei subiscono danni. Secondo Ben-Saadon i palestinesi gli hanno rubato un quarto del suo raccolto. u sv

AB

ED

AL

HA

SHL

AM

OU

N (E

PA/A

NSA

)

Susya, Cisgiordania, 29 ottobre 2009

u Secondo l’ong israeliana Peace now, dal 26 settembre, quand’è scaduta la moratoria sulle costruzioni nelle colonie in Cisgiordania, i coloni hanno cominciato a costruire centinaia di nuove abitazioni. La ripresa delle costruzioni – che secondo Peace now procede a un ritmo quattro volte superiore a quello di dieci mesi fa – mette seriamente in crisi il processo di pace, rilanciato il 1 settembre dagli Stati Uniti.

Da sapereS UDAN

I S RAE LE

Cisgiordania

Strisciadi Gaza

DarfurMarMediterraneo

Tel Aviv Havat Gilad

Juba

Gerusalemme

45 km

EGITTO

EGITTOGIORDANIA

ERITREA

giacimenti petroliferi

Ramallah Burqa

Lago diTiberiade

Page 23: Internazionale 870

Internazionale 870 | 29 ottobre 2010 23

TANZANIA

In difesadegli albini Il 21 ottobre, al conine tra Tan-zania e Burundi, sono stati ritro-vati i resti di un bambino albino di nove anni. Dal 2008 nei due paesi sono stati uccisi circa cen-to albini per la convinzione che le parti del loro corpo abbiano poteri soprannaturali. Per com-battere questa superstizione, scrive The Citizen, in Tanzania (nella foto, una scuola di Mwan-za, nel nord del paese) è stata lan-ciata una campagna d’informa-zione diretta soprattutto agli abitanti delle aree rurali con cui si cerca di spiegare che l’albini-smo è una condizione biologica. Nello Swaziland, invece, le auto-rità vogliono creare un registro degli albini per proteggerli.

IRAQ

Pena di morte per Tareq Aziz Il 26 ottobre la corte penale su-prema ha condannato a morte l’ex vicepremier Tareq Aziz e al-tri due alti funzionari del regime di Saddam Hussein. L’Unione europea ha criticato la sentenza e ha chiesto che sia revocata. Pochi giorni prima la corte fede-rale irachena aveva ordinato ai deputati eletti il 7 marzo di riu-nirsi, di eleggere il presidente del parlamento e di impegnarsi per superare lo stallo politico. “È uno sviluppo positivo”, scrive Khaleej Times. “Rimandare la formazione del governo è un ri-schio per la democrazia”.

JoH

AN

BA

ev

mA

N (A

P/L

AP

Re

SSe

)

“No, non sono a Ramallah. So-no a Gerusalemme. No, non sono a un concerto. Sono in strada”. La persona con cui parlavo al telefono era un po’ confusa ma è facile capire per-ché. Stavo ascoltando un suo-natore di oud a Gerusalemme ovest. Non ero l’unica perso-na afascinata da quelle note. C’era anche un vecchio in car-rozzella, che ascoltava a occhi chiusi. Il vecchio sembrava avere origini ashkenazite (e quindi la musica araba non era nel suo dna culturale). Per un momento ho sperato che il

suonatore fosse arabo, come la musica. Dopotutto Gerusa-lemme est non era lontana. Fosse stato palestinese sareb-be stata una piccola vittoria contro il razzismo. ma dai cd in mostra in strada ho capito che era un ebreo marocchino: il cognome era Abekasis.

In un momento di pausa ho cercato di fare due chiacchiere con lui, senza successo. Dalle poche parole che ha pronun-ciato ho capito però che aveva conservato la corretta pronun-cia ebraica. La lingua attuale è stata imposta dagli ebrei

ashkenaziti, che non sapevano pronunciare alcune consonan-ti, e così ha perso alcune sfu-mature. La pronuncia corretta, che conservano solo gli ebrei dei paesi arabi, è diventata un simbolo di “inferiorità” socia-le.

Ho dato un’occhiata al cd di Abekasis. “Ho composto tutto in onore dell’onnipoten-te”, recitava il libretto. Il cd s’intitolava Shavatenu (le no-stre invocazioni), come la pri-ma canzone. Il testo diceva co-sì: “Tu sei il nostro Dio, tu vedi la soferenza di Israele”. u nm

Da Gerusalemme Amira Hass

La canzone di Dio

È stato rimandato per la terza volta il secondo turno delle elezioni presidenziali in Guinea. La nuova data proposta dalla commissione elettorale è il 31 ottobre. Nel frattempo aumentano le tensioni tra i sostenitori dei due candidati: Cellou Dalein Diallo, di etnia peul, che al primo turno ha ottenuto il 43 per cento dei voti, e Alpha Condé, malinké, secondo con il 18 per cento dei voti. Il quotidiano Le Pays teme che le tensioni si trasformino in uno scontro interetnico, “un abbozzo di guerra civile che la comunità internazionale deve fermare prima che sia troppo tardi”. u

Guinea

Un altro rinvio

ISSo

UF

SA

No

Go

(AF

P/G

eT

TY

ImA

Ge

S)

IN BREVE

Bahrein Il 23 ottobre l’opposi-zione sciita si è raforzata nelle elezioni legislative, ottenendo 18 seggi sui 40 della camera dei deputati.Egitto Un dirigente del Partito nazionale democratico (Pnd, al potere), Ali al Din Hilal, ha an-nunciato il 21 ottobre che il capo di stato Hosni mubarak si candi-derà alle presidenziali del 2011.Marocco Il 24 ottobre le forze dell’ordine hanno ucciso un gio-vane sahrawi che cercava di en-trare in un campo vicino a el Ayoun, nel Sahara occidentale, dove ventimila persone prote-stano per chiedere condizioni di vita migliori.Nigeria Il 26 ottobre la polizia ha ritrovato i corpi di almeno 30 persone morte negli scontri tra gli abitanti dei villaggi di Boje e Nsadop, nel distretto sudorien-tale di Boki. Le violenze sono le-gate al controllo dei terreni.Rdc Decine di miliziani mai-mai hanno attaccato il 23 ottobre una base delle Nazioni Unite a Rwindi, nella provincia orienta-le del Nord Kivu, senza causare vittime. I caschi blu hanno ucci-so otto assalitori.

All’ospedale di Conakry

Page 24: Internazionale 870

24 Internazionale 870 | 29 ottobre 2010

AmericheVotare in tempidi crisi

Pierre-Raymond Dumas, Le Nouvelliste, Haiti

Dopo i primi casi di colera con-fermati a Port-au Prince, le au-torità del paese caraibico te-mono che la malattia possa

colpire decine di migliaia di persone. Se il contagio raggiungesse i campi di rifugiati nella periferia della capitale – dove vivono un milione e mezzo di persone colpite dal terremoto del 12 gennaio – il numero dei morti potrebbe diventare drammatico. Il focolaio della malattia, che si trasmette at-traverso l’acqua e il cibo contaminati e pro-voca diarrea e una forte disidratazione, è Saint-Marc, nella regione di Artibonite, a nord della capitale. Finora le vittime sono più di 250 e le persone ricoverate in ospeda-le più di tremila.

L’organizzazione umanitaria statuni-

tense Operation blessing international par-la di un “panorama di terrore” nel principa-le ospedale di Saint-Marc. “Nel cortile c’erano ile di pazienti con le lebo. I malati giacevano sul pavimento bagnato per la pioggia e su lenzuola coperte dalle loro stes-se feci”. La regione dove si sono veriicati i primi casi della malattia è la zona agricola centrale haitiana, che ha accolto decine di migliaia di sopravvissuti al terremoto.

Considerando le pessime condizioni del paese, uno dei più poveri del mondo e ridot-to a un cumulo di macerie dal sisma, le spe-ranze di contenere l’epidemia sono poche. Le autorità locali e le agenzie umanitarie internazionali cercano da mesi di lottare contro le malattie provocate dalla mancan-za o dalla contaminazione dell’acqua. Ma nessuno aveva previsto il peggiore degli scenari: il colera, segnalato ad Haiti l’ultima volta cinquant’anni fa. Secondo l’Organiz-zazione mondiale della sanità, ogni anno nel mondo il colera colpisce fra i tre e i cin-que milioni di persone provocando più di centomila morti.

Il 28 novembre sono previste le elezioni presidenziali e legislative. Il ministro della sanità haitiano, Alex Larsen, ha chiesto ai candidati di sospendere gli eventi pubblici nelle zone colpite dall’epidemia. u sb

Haiti cerca di fermarel’epidemia di colera

Yolanda Monge, El País, Spagna

La preoccupazione, il panico e la tristezza provocati ad Haiti dall’epidemia di colera sono più che giustiicati. Le nostre infra-

strutture sono a pezzi e lo stato è pratica-mente assente. Siamo un popolo disorga-nizzato, che sida tutte le leggi della sanità pubblica e del buon governo. In queste con-dizioni il colera, o qualsiasi altra epidemia, è una minaccia collettiva che va presa sul serio da tutti, governanti e governati, ricchi e poveri.

La comunicazione è fondamentale nella lotta contro la malattia. In un paese dove le condizioni sanitarie sono pessime, l’evolu-zione e la propagazione dell’epidemia pos-sono sconvolgere la vita dell’isola, provo-cando enormi perdite di vite umane.

Di fronte a una grave emergenza nazio-nale, si può anche pensare di rimandare le elezioni. Per ottenere risultati immediati e definitivi, i provvedimenti delle autorità locali devono essere fermi e precisi. Oltre alle conseguenze disastrose dovute all’am-biente insalubre, ampliicate dalla stagione dei cicloni, la difusione rapida del colera è favorita dall’esodo rurale.

Un’attività rischiosaCosa farà il governo per evitare che la ma-lattia si difonda e per controllare gli spo-stamenti delle persone? È una questione delicata, soprattutto per le carenze del pae-se in materia di sicurezza stradale, di sorve-glianza delle frontiere, di gestione dei rischi e di controllo del territorio. In queste condi-zioni, anche lo spostamento dei candidati e l’organizzazione dei loro dibattiti diventa-no un’attività a rischio.

Il governo non ha afrontato in modo competente il terremoto del 12 gennaio, mostrando gli stessi limiti emersi nella ge-stione degli uragani e delle altre calamità naturali che hanno drammaticamente se-gnato i vent’anni di transizione alla demo-crazia. Questo passo indietro deve inse-gnarci a essere cittadini più attenti e diri-genti più impegnati. Lo svolgimento delle elezioni del 28 novembre dipenderà dall’ef-icacia di questa sinergia. u oda

RA

MO

N E

SPIN

OSA

(AP/

LA

PR

ESS

E)

Faisalabad

Brazzaville

Frontiere delNord-ovest

COREADEL NORD

MarCaspio

Tbilisi

TURCHIA

50 km

Port-au-Prince

Jacmel

Pétionville

Mar dei Caraibi

OceanoAtlantico

Golfodella Gonâve

Artibonite

REPUBBLICADOMINICANA

Jérémie HA I T I

Saint-Marc

Casi confermatiDecessi

Gonaïves

Haiti. Malati di colera all’ospedale di Saint-Marc, il 22 ottobre

Page 25: Internazionale 870

Internazionale 870 | 29 ottobre 2010 25

brasile

Dilma roussefin vantaggio Il 31 ottobre i brasiliani sceglie-ranno il successore del presi-dente Lula. Secondo l’ultimo sondaggio, Dilma Roussef, candidata del Partito dei lavora-tori, ha un vantaggio di 14 punti sul socialdemocratico José Ser-ra. “Nel penultimo dibattito te-levisivo prima delle elezioni”, scrive O Globo, “non sono mancate le accuse reciproche”. Secondo Serra, l’ex ministra di Lula cambia idea continuamen-te: “Critica le privatizzazioni e poi le difende, si dichiara contro l’aborto e a favore, difende il movimento dei sem terra ma poi ci ripensa”. Roussef, invece, ha accusato l’avversario di “tra-scurare e di non conoscere la re-gione del Nordeste”.

stati uniti

Palin presidente Sarah Palin, la candidata re-pubblicana alla vicepresidenza nel 2008, potrebbe ottenere la nomination e diventare presi-dente nel 2012. Come? Grazie alla candidatura di Michael Bloomberg. Nello scenario pro-posto da John Heilemann su New York Magazine, il sinda-co di New York, che dal 2008 medita di candidarsi, si presen-terebbe come indipendente. Proprietario di un impero dell’informazione inanziaria e di una fortuna personale in gra-do di sostenere la migliore campagna elettorale di tutti i tempi, potrebbe vincere se l’economia non si sarà ripresa. Un’alternativa è che Obama re-cuperi terreno e resti alla Casa Bianca. La terza ipotesi è la più plausibile: nessuno dei candi-dati arriverà al quorum di 270 grandi elettori e il presidente sarà eletto dalla camera. Che, dopo il voto del 2 novembre, probabilmente sarà controllata dai repubblicani.

in breve

Argentina Il 2o ottobre Maria-no Ferreyra, un militante di 23 anni del Partido obrero, è stato ucciso a Buenos Aires durante una manifestazione. Finora le persone sospettate del suo omi-cidio sono tre.Messico Il 23 ottobre due mem-bri di un cartello della droga hanno ucciso 14 persone che partecipavano a una festa a Ciu-dad Juárez. Il giorno dopo altre 13 persone, ospiti di un centro di disintossicazione dalla droga, sono state uccise a Tijuana.Perù Il 26 ottobre è stata con-fermata la nomina della pro-gressista Susana Villarán a sin-daco di Lima. È la prima donna a guidare la capitale.

Più di tre mesi fa, quando Guillermo Fariñas ha bevuto il primo bicchiere d’acqua dopo 134 giorni senza toccare ali-menti solidi né liquidi, molti hanno pensato che i momenti più critici fossero initi. Alcu-ne settimane dopo, però, è stato operato alla cistifellea. Il dramma di Fariñas (che gli amici hanno ribattezzato Co-co), il suo dolore isico e il pe-ricolo per la sua salute non so-no ancora superati. Ma la cau-sa che l’ha spinto a questo lun-go sacriicio – la scarcerazione di 52 detenuti della primavera

nera del 2003 – ha trovato una soluzione. Questo esile abi-tante di Santa Clara è stato sul punto di morire per le persone che sono in carcere e per quel-le che potrebbero inirci. Ha chiuso il suo stomaco al cibo, perché in un paese che puni-sce la protesta civile, il corpo è l’unico terreno di protesta che ci è rimasto. Fariñas ha lottato e ha vinto attraverso il suo or-ganismo debilitato da diversi scioperi della fame. Tra i dolo-ri postoperatori e le attenzioni dei suoi parenti, questa setti-mana il dissidente cubano ha

ricevuto il premio Sakharov dal parlamento europeo. A 48 anni, dopo aver passato diver-so tempo come soldato nella guerra di Angola, Fariñas ha ricevuto il premio con la stes-sa umiltà con cui un giorno si è riiutato di mangiare. “Lo ri-farei”, mi ha detto per telefo-no dopo aver saputo la notizia. Lo immagino un’altra volta nel letto di un ospedale riiu-tandosi di mangiare e sono convinta che, se non saranno aperte tutte le celle, lo farà davvero. C’è di più: so che vin-cerà anche questa volta. u sb

VA

ND

ER

LE

I AL

ME

IDA

(AF

P/G

ET

TY

IMA

GE

S)

Rio de Janeiro

L’ex presidente argentino Néstor Kirchner (nella foto) è morto d’infarto il 27 ottobre a El Calafate. Aveva 60 anni. È stato presidente dal 2003 al 2007. Sua moglie, Cristina Fernández, è presidente dal 2007. Le condizioni di salute di Kirchner erano precarie: in meno di un anno ha subìto due operazioni. Eletto dopo la crisi del 2001, ha stabilizzato l’economia e ha abrogato le leggi che impedivano di processare i militari responsabili di crimini contro l’umanità durante la dittatura. Secondo il Clarín, “per l’Argentina si apre una fase d’incertezza politica”. u

argentina

È morto néstor Kirchner

RIC

AR

DO

CE

PP

I (C

OR

BIS

)

Dall’avana Yoani Sánchez

Corpo di battaglia

Page 26: Internazionale 870

26 Internazionale 870 | 29 ottobre 2010

Asia e Paciico

Sono passati quasi sei mesi da quan­do il primo ministro Abhisit Vejja­jiva ha proposto un piano per la ri­conciliazione nazionale ed è note­

vole quanto poco si sia ottenuto in tutto questo tempo. La promessa di indire nuove elezioni il 14 novembre è stata rapidamente accantonata, e gli sforzi di riconciliazione da parte del primo ministro, del suo gover­no, dell’opposizione e degli organi incarica­ti di ricomporre le divergenze sono stati inconsistenti.

Torniamo al 3 maggio. Con le strade di Bangkok in fermento dopo gli scontri letali tra le camicie rosse e l’esercito, Abhisit era sottoposto a forti pressioni. Erano in molti a chiedergli un giro di vite nei confronti dei manifestanti, ma anche le dimissioni e nuove elezioni. Nonostante il lavoro di mol­

ti consulenti non si era trovato un accordo. Il primo ministro aveva risposto presentan­do un programma in cinque punti che pro­poneva di tenere le elezioni il 14 novembre di quest’anno. Ma, prima di chiamare il po­polo alle urne, Abhisit sottolineava la ne­cessità di un percorso in cinque tappe.

Lo schema proposto dal premier era ab­bastanza semplice e il Fronte unito per la democrazia contro la dittatura (Udd), so­stenuto dalle camicie rosse, all’inizio l’ave­va accettato. Abhisit chiedeva in primo luogo che la monarchia non fosse coinvolta negli scontri politici. Voleva riformare sia il sistema politico sia quello economico e ga­rantire che tutti i tailandesi fossero coinvol­

ti. E chiedeva che fosse fatta chiarezza su come si erano svolti gli scontri di piazza. Inine, l’unico punto contestato, si propo­neva di limitare la libertà dei mezzi d’infor­mazione chiedendogli di avere un atteggia­mento costruttivo. Il resto, come si dice, è storia.

Dal 3 maggio a oggi si è fatto poco e non si è ottenuto quasi nulla. I numerosi comi­tati e le indagini volute dal primo ministro sono spariti nel nulla. Nelle ultime settima­ne lo sforzo di riconciliazione nazionale si è ridotto agli incontri del viceprimo ministro, il veterano Sanan Kachornprasart, con i lea­der delle diverse fazioni. Ma, nonostante i titoli eclatanti dei giornali, l’impegno del generale Sanan non ha portato alcun pro­gresso. La scorsa settimana si è nuovamen­te discusso della vecchia e consunta idea, avversata da tutte le parti in causa, di un “governo di unità nazionale”.

Nessun rimorsoAbhisit non ha ancora mostrato un briciolo di rimorso per avere ordinato all’esercito di disperdere le camicie rosse. La morte di ol­tre 90 persone meriterebbe almeno un po’ di spirito conciliatorio da parte di chi gover­nava all’epoca. I capi delle camicie rosse, tra cui il latitante ex primo ministro Thak­sin Shinawatra, hanno speso molto tempo a suscitare sentimenti antigovernativi ma non a raggiungere l’obiettivo della riconci­liazione su cui ci si era accordati a maggio.

Con la scadenza imposta dalla costitu­zione, che prevede di sciogliere il parla­mento nel giro di un anno per preparare le nuove elezioni, è rimasto poco tempo. Il grande dilemma è ancora come far rispet­tare il risultato delle elezioni. Le fazioni “colorate” – le camicie gialle e le camicie rosse – sono più che mai riluttanti ad accet­tare il verdetto di elezioni libere nel caso in cui sia la “parte sbagliata” a vincere.

Per ora questo problema pratico è il più grande ostacolo alla riconciliazione. Negli ultimi cinque anni il ricorso alle urne ha de­terminato profonde divisioni mentre avrebbe dovuto contribuire a risanare le ferite. Una delle grandi conquiste della de­mocrazia è che vincitori e vinti accettano il risultato delle elezioni garantendo la stabi­lità della nazione. È compito del primo mi­nistro Abhisit trovare il modo di arrivare alla riconciliazione: per questo bisogna in­dire elezioni come previsto dalla costituzio­ne e rilanciare l’impegno di tutti a rispettar­ne il risultato. u sv

I tailandesi ancora lontanidalla riconciliazione

Sei mesi dopo la rivolta delle camicie rosse, la situazione in Thailandia non è cambiata. Il governo non ha fatto niente per ricomporre le fratture nel paese e le elezioni serviranno a poco

Bangkok Post, Thailandia

RU

NG

RO

J YO

NG

RIT

(EPA

/AN

SA)

Le camicie rosse ricordano i compagni morti, Bangkok, 10 ottobre 2010

14 marzo 2010 Comincia la protesta delle camicie rosse che invadono il centro di Bangkok paralizzando gran parte della città per quasi due mesi. 3 maggio 2010 Su ordine del primo ministro, l’esercito interviene per disperdere i manifestanti. Alla ine degli scontri si conteranno almeno 90 morti.4 maggio L’Udd, il partito delle camicie rosse, accetta il piano del premier.

Da sapere

Page 27: Internazionale 870

Internazionale 870 | 29 ottobre 2010 27

INDONESIA

L’esercitodeve cambiare

Il 22 ottobre il governo di Ja‑karta ha confermato l’autenti‑cità di un video messo su You‑Tube da un gruppo di attivisti per i diritti umani. Nel video si vedono sei soldati dell’eserci‑to che torturano alcuni dete‑nuti di Papua Ovest bruciando i loro genitali e minacciandoli con coltelli, fucili e sigari. Il governo ha promesso che “i responsabili saranno puniti”, ma per gli attivisti papuani non è suiciente. Il Jakarta Globe scrive che il Papua tra‑ditional council ha lanciato un appello agli Stati Uniti, all’Au‑stralia e all’Unione europea ainché interrompano la coo‑perazione con l’esercito indo‑nesiano. Di altro avviso è Ifdhal Kasim, presidente della commissione nazionale per i diritti umani (Komnas Ham). Secondo Kasim la parziale ri‑presa della cooperazione mili‑tare tra gli Stati Uniti e l’Indo‑nesia può servire a migliorare l’esercito, a patto che Wa‑shington pretenda chiarezza sui fatti ripresi nel video. Lo scorso luglio il segretario alla difesa statunitense Robert Gates, in visita nel paese, ha annunciato la ripresa dei rap‑porti con le forze speciali in‑donesiane, Kompassus, dopo 12 anni di sospensione. Kom‑nas Ham ha anche denunciato altri casi di abusi sui detenuti papuani commessi dai milita‑ri: secondo le testimonianze raccolte, dall’inizio del 2010 i casi sarebbero stati almeno undici.

VIETNAM

Un paesedi scapoli Entro il 2030 tre milioni di viet‑ namiti rischiano di rimanere senza moglie. È la previsione fatta dal governo di Hanoi in ba‑se all’andamento demograico degli ultimi anni, che ha regi‑strato un forte squilibrio di ge‑nere. Il sito Than Nien scrive che secondo i dati del Fondo delle Nazioni Unite per la popo‑lazione (Unfpa) il rapporto tra maschi e femine è di 110,6 a 100, mentre normalmente è di 105 a 100. Una situazione dovu‑ta al largo uso dell’aborto selet‑tivo, illegale dal 2003 ma ancora molto difuso. Il sito spiega che in Cina e in India, che come il Vietnam hanno registrato un aumento dei maschi tra i nuovi nati, il fenomeno si è veriicato in un lasso di tempo molto più lungo.

IN BREVE

Birmania Il 24 ottobre 14 per‑sone sono morte e più di cento sono rimaste ferite nell’incen‑dio di un oleodotto nella regio‑ne di Magway, nel centro del pa‑ese.Afghanistan Il presidente af‑gano Hamid Karzai ha rivelato il 25 ottobre che l’amministrazio‑ne ha ricevuto aiuti in denaro dal governo iraniano, suscitan‑do le proteste degli Stati Uniti. Pakistan Il 25 ottobre sei perso‑ne sono morte e decine sono ri‑maste ferite in un attentato da‑vanti a un mausoleo sui a Pa‑kpattan, nella provincia del Punjab.

Spenti i rilettori dei Giochi del Commonwealth, inita l’euforia per il bottino di medaglie d’oro più consistente mai aggiudicatosi dall’India, è l’ora della resa dei conti. L’edizione dei Giochi che si è appena conclusa sarà ricordata come la più corrotta e disastrosa della storia e, scrive Tehelka, il presidente del

comitato organizzatore, Suresh Kalmadi, non è l’unico da biasimare. Di tutti gli appalti milionari assegnati, infatti, solo una minima parte è stata gestita da Kalmadi. I milioni di rupie spesi per costruire i nuovi stadi e rifare la pavimentazione stradale sono stati gestiti da agenzie che fanno capo al comune di New Delhi. Invece il sindaco Sheila Dikshit ha scaricato ogni responsabilità su Kalmadi, che si è difeso pubblicamente. La situazione è così tesa che i due sono stati richiamati dal Partito del congresso, di cui fanno parte entrambi, preoccupato per le conseguenze politiche dello scandalo. Intanto Nitin Gadkari, il presidente del Bharatiya Janata Party (all’opposizione) ha dato la colpa di tutto al governo e ha chiesto che a indagare sia un comitato parlamentare. ◆

India

L’ora delle polemiche

Tehelka, India

FR

EE

TIB

ET/

AP/

LA

PR

ESS

E

KH

IN M

AU

NG

WIN

(AP

)

Studenti tibetani in rivoltaL’ondata di proteste degli studenti tibetani partita il 19 ottobre da Rongwo, nella regione autonoma del Tibet, in Cina, si è estesa ad altre province ino a raggiungere Pechino. Migliaia di ragazzi in di‑verse città sono scesi in piazza per contestare la decisione del gover‑no di limitare l’uso della lingua tibetana nelle scuole per fare posto al mandarino. Gli studenti tibetani rivendicano il diritto a studiare nella loro lingua madre, appellandosi all’articolo 4 della costituzio‑ne che garantisce alle minoranze etniche questa libertà, e vedono nella decisione di Pechino l’ennesimo sopruso ai loro danni.

Tongren, provincia del Qinghai, Cina

Page 28: Internazionale 870

28 Internazionale 870 | 29 ottobre 2010

La capacità di Silvio Berlusconi di tenere testa alle molte critiche ri-volte alla sua leadership è stata messa a dura prova negli ultimi

mesi. Anche se resta il primo ministro più longevo dell’Italia del dopoguerra, il Cava-liere si trova ad afrontare crescenti diicol-tà.

Berlusconi è stato protagonista, negli ultimi mesi, di un duro scontro con il suo alleato storico Gianfranco Fini. Il governo è bersagliato ogni settimana da accuse di cor-ruzione. E il costante conlitto tra i suoi in-teressi privati e il ruolo pubblico è diventato sempre più evidente, generando nuovi scontri con gli alleati, con la chiesa cattolica e perino con i suoi familiari.

Certo, Berlusconi ha già afrontato pro-blemi di questo tipo nella sua carriera poli-tica e sa come trarre proitto dalle diicoltà. Ma ora la situazione sembra essere più gra-ve del solito, e il regime è in crisi.

Spinto a tentare di cambiare il paese da interessi sia personali sia politici, dal 1994 Berlusconi domina la vita politica italiana. Il berlusconismo, che nel corso degli anni si è afermato sempre più come una modalità di governo e di esercizio del potere e sem-pre meno come un’ideologia chiara, è riu-scito almeno in parte a rimodellare il paese a immagine e somiglianza del Cavaliere. Con un tipico connubio tra ricchezza, cari-sma e populismo, Berlusconi è riuscito spesso a convincere un numero suiciente di italiani del fatto che la sua ricetta per con-quistare denaro e potere – contrapporsi alla classe politica italiana e sconiggere il “si-stema” – avrebbe funzionato anche per loro.Berlusconi è perfettamente a suo agio nel mondo mediatico e virtuale in cui vive e su

cercato di garantirsi l’immunità, varando leggi ad hoc e sferrando attacchi continui alla magistratura.

La tensione è sfociata in un’accesa di-scussione durante il congresso del Popolo della libertà ad aprile, quando Fini, che è un sostenitore del modello centralista e che per tradizione ha un forte sostegno popola-re nel sud del paese, ha criticato l’inluenza esercitata dalla Lega nord sul governo e si è scagliato contro il modo di governare di Berlusconi.

Le critiche mosse da Fini al premier hanno messo in diicoltà il governo. Il pre-sidente della camera è uscito dal Pdl per dar vita a una sua formazione politica e molto probabilmente svolgerà un ruolo di primo piano in un’eventuale alleanza di centrode-stra alternativa a quella attuale. Ma l’aspet-to più grave, per Berlusconi, è che l’atteg-giamento combattivo di Fini ha messo in discussione la sua carriera politica. Un’espressione del genere, riferita a un pre-mier di 74 anni, può sembrare bizzarra, ma in Italia è raro che i politici si facciano da parte. E nel caso di Berlusconi sono in gioco altre questioni: secondo molti commenta-tori, la sua più grande ambizione è diventa-re, al termine dell’attuale mandato da pre-mier, presidente della repubblica. La possi-bilità di continuare a occupare un’alta cari-ca istituzionale alimenterebbe ulterior-mente le sue insaziabili ambizioni politiche e lo metterebbe al riparo dai processi (so-prattutto se dovesse essere approvato il lo-do Alfano).

È in questo contesto che va interpretata la sida lanciata da Fini, oppositore emer-gente e potenziale successore di Berlusco-ni. La reazione del premier a questa minac-cia è stata di un’intensità e di un’aggressivi-tà sorprendenti, tanto da far sembrare la rivalità tra Tony Blair e Gordon Brown una scaramuccia tra idanzatini. Il Giornale, il quotidiano di proprietà della famiglia Ber-lusconi, ha lanciato violenti attacchi a Fini. Il presidente della camera è stato chiamato “compagno”, per via di alcune sue posizioni sui diritti civili. L’accusa più grave, formula-

cui esercita un dominio assoluto. Per que-sto il suo populismo postmoderno gli ha garantito un enorme vantaggio politico su un’opposizione passiva. Così, pur muoven-dosi ai margini della legalità e anche se ha bisogno di una nutrita squadra di avvocati per tenere in piedi il suo show, il premier è sempre riuscito ad anticipare le mosse degli avversari.

Ma ora che le crepe del berlusconismo sono sempre più evidenti, l’inclinazione all’intolleranza del premier risulta sempre più spudorata e lo spazio per il dissenso si riduce notevolmente. I mezzi d’informa-zione di proprietà di Berlusconi si sono sca-gliati con violenza contro gli ex alleati, mentre il sistema radiotelevisivo pubblico – sottoposto indirettamente al controllo del governo – ha tentato in più di un’occasione di allontanare le voci critiche (tra cui spicca quella del conduttore televisivo Michele Santoro). Le prepotenze che un tempo inti-midivano gli avversari oggi sembrano me-no efficaci, mentre le fratture interne al centrosinistra appaiono insanabili.

Guerra apertaIl conlitto più grave è quello con il presi-dente della camera. Fini è un ex fascista che ha cercato di trasformare il suo partito, Al-leanza nazionale, in una grande formazione politica conservatrice, prima di fonderlo nel 2008 con Forza Italia per dar vita al Po-polo della libertà. Con il passare del tempo, Fini ha sviluppato un fastidio crescente ver-so la determinazione con cui Berlusconi ha

Fine di un regime

Regolamenti di conti all’interno della maggioranza. Attacchi sempre più violenti agli oppositori. Tutto lascia pensare che Silvio Berlusconi si stia preparando allo scontro inale

Geof Andrews, Open Democracy, Gran Bretagna

Il conlitto d’interessi del capo del governo è diventato sempre più evidente, generando nuovi dissidi con gli alleati e con la chiesa cattolica

Visti dagli altri

Page 29: Internazionale 870

Internazionale 870 | 29 ottobre 2010 29

Al

ess

An

dr

A B

en

ed

et

tI (

Co

rB

Is)

Silvio Berlusconi in senato, il 30 settembre 2010

ta dal quotidiano nell’ambito di una vasta campagna denigratoria, è che Fini avrebbe venduto in modo poco chiaro un apparta-mento di proprietà di Alleanza nazionale, andato poi in affitto al fratello della sua partner.

Il Giornale ha rincarato la dose attac-cando altre personalità che hanno criticato Berlusconi. Come emma Marcegaglia, pre-sidente della Conindustria, che aveva mes-so in dubbio la visione ottimistica del pre-mier sulla situazione economica italiana. Quando si è saputo che il quotidiano stava preparando una campagna diffamatoria contro Marcegaglia, la procura di napoli ha aperto un’inchiesta.

sono tutti segnali della ine di un regi-me. l’economia ristagna e il governo perde progettualità. Berlusconi continua a lancia-re messaggi di fermezza, accanto al primo ministro russo Vladimir Putin, suo storico alleato, o esaltando il movimento dei tea party negli stati Uniti (con cui condivide la volontà di ridurre le tasse, la linea dura nei confronti dell’immigrazione e il fascino esercitato sull’elettorato femminile). Ma

questo sforzo mostra quanto sarà diicile per lui recuperare il potere di un tempo.

tuttavia chi si aspetta da Berlusconi una ritirata in punta di piedi – o perino che com-paia inalmente di fronte alla giustizia per rendere conto delle sue azioni – potrebbe restare profondamente deluso.

Un alleato determinante

l’opposizione continua a essere timida, in-capace di proporre ai cittadini delle soluzio-ni per risolvere i loro problemi e di fornire al paese una prospettiva convincente per il dopo Berlusconi. È vero che le manifesta-zioni in difesa dei diritti dei lavoratori e del-la democrazia si stanno moltiplicando, ma la storia recente della sinistra fa pensare che nichi Vendola, l’unica speranza di cambia-mento all’interno dell’opposizione, verrà ostacolato dai grigi funzionari del Partito democratico. In mancanza di un forte mo-vimento riformista, è molto probabile che silvio Berlusconi rimanga ancora per qual-che tempo la igura centrale della politica italiana. Il premier è sempre più dipenden-te dalla lega nord. la propaganda di Um-

berto Bossi contro gli immigrati comincia a fare presa sulla classe operaia settentriona-le. Inoltre la lega nord sta consolidando la sua presenza nelle piccole imprese a gestio-ne familiare.

nella prossima campagna elettorale (forse si voterà nella primavera del 2011), il programma della lega potrebbe diventare ancora più radicale, e il partito potrebbe im-porsi come una forza politica determinante anche per la prossima legislatura.

Berlusconi attingerà di nuovo all’im-mensa risorsa dei suoi mezzi d’informazio-ne per restare al potere, e la storia insegna che il Cavaliere ottiene quasi sempre quello che vuole. Allo stesso tempo, la crisi politica ed economica dell’Italia sta spostando l’at-tenzione non solo sui possibili successori del premier, ma sul futuro stesso del paese. Un accordo si troverà, ma a che prezzo per l’Italia? u fp

Geof Andrews è un giornalista e scrittore britannico. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è slow Food. Una storia tra politica e piacere (Il Mulino 2010).

Page 30: Internazionale 870

30 Internazionale 870 | 29 ottobre 2010

Tra le iamme di Terzigno

Gli abitanti del paese campano protestano contro l’apertura di una nuova discarica. Temono per la salute e di essere abbandonati dallo stato

Ralf Groothuizen, Het Parool, Paesi Bassi

Per le strade di Napoli i cumuli di riiuti crescono a vista d’occhio. I cassonetti metallici su via Foria, nel centro della città, traboccano

di sacchi della spazzatura sempre, anche quando non c’è l’emergenza riiuti. Ora, pe-rò, con le buste ammucchiate ci si potrebbe-ro riempire almeno altri cinque cassonetti. Da giorni nessuno li raccoglie: un liquido nauseabondo fuoriesce dai sacchetti bucati e inisce nei canali di scolo. In lontananza, oltre la cima del Vesuvio, si leva una nube di fumo nero.

Terzigno si trova a circa venti chilometri da Napoli ed è l’epicentro della nuova emer-genza dei riiuti in Campania. Il 22 ottobre c’era un’atmosfera pesante nella piazza di fronte alla pizzeria Il Rifugio. “Che paese di merda!”, urla un uomo del posto rivolgen-dosi a un agente della polizia. “Abbiamo la polizia che fa la guardia all’immondizia”.

Per le strade di questo paese di circa 17mila abitanti i politici non si fanno vedere e sono i poliziotti a dover afrontare i citta-dini. Sullo sfondo ci sono le carcasse fu-manti di quelli che una volta erano camion della spazzatura, incendiati il 21 ottobre.

Blocco stradaleA Terzigno sono infuriati: non vogliono più che nelle loro cave si accumuli la spazzatura di Napoli e dintorni. Hanno paura di amma-larsi. Temono che, se i riiuti continueranno ad arrivare, il loro amato Parco nazionale del Vesuvio possa venire inquinato irrime-diabilmente. “Qui non vengono scaricati solo i riiuti domestici. In mezzo ci inisce di tutto: riiuti ospedalieri, scarti tossici, ogni tipo di porcheria”, mi dice Italo Picciau, un attivista del posto, mentre osserviamo

dall’alto la discarica all’interno della cava, che siamo riusciti a raggiungere prendendo una scorciatoia tra le vigne.

In Campania ci sono quattro cave usate come discariche. La costruzione degli ince-neritori, simili a quelli che vengono usati in tanti paesi del mondo, è completamente bloccata. Tutti sanno che la camorra fa otti-mi afari grazie alle discariche abusive e che ha tutto l’interesse ad alimentare il caos. Entro la ine del 2011 le quattro cave saran-no piene. Così bisognava individuare un altro posto in cui scaricare la spazzatura: è stata scelta la cava Vitiello di Terzigno, tra i vigneti che si arrampicano sulle fertilissime pendici del Vesuvio, dove si produce un vi-

RO

bE

RT

O S

AL

Om

ON

E (A

FP/

GE

TT

y I

mA

GE

S)

no famoso in tutto il mondo, il Lacrima Christi. Quella di cava Vitiello diventereb-be la più grande discarica d’Europa.

Giovani e anziani si sono messi di nuovo al lavoro con radici di alberi e pali metallici in via Nazionale Passanti (che collega Terzi-gno a boscoreale, Scafati e Pompei). Tutte le vie di accesso devono essere bloccate. “Se non facciamo così nessuno ci prenderà mai sul serio”, dice Antonio Aliberti, uno dei manifestanti. “Non sa quanta gente qui si ammala e muore di cancro e di altre ma-lattie”. Un gruppetto di donne accanto a noi annuisce. Avanzano con uno striscione con su scritto: “Difendiamo la salute dei nostri igli!”. I ragazzi corrono in gruppo sui moto-rini con il volto coperto da fazzoletti: sia per via del fetore, che oggi è appena sopportabi-le perché soia vento dal mare, sia per sem-brare più minacciosi e non farsi riconoscere. Hanno bastoni di legno e un’aria aggressi-va. Terzigno si prepara a un’altra notte di disordini. Il 21 ottobre il premier Sivlio ber-lusconi ha promesso, durante una confe-renza stampa, che il problema sarà risolto in dieci giorni. Nel frattempo, però, i cumuli di spazzatura a Napoli e dintorni continuano a crescere. u ft

Scontri tra la polizia e gli abitanti di Terzigno, il 21 ottobre 2010

Visti dagli altri

Page 31: Internazionale 870

Stevan Talevski, 32 anni, è originario della Macedonia e vive a Bologna. È arrivato nel 2003 e lavora presso l’agenzia Ervet, che si occupa della valorizzazione economica della re-gione. Ha due lauree. Ama l’umorismo degli italiani. I suoi programmi preferiti sono Report e Le iene. Se potesse, voterebbe per Antonio Di Pietro o Beppe Grillo.

Volti nuovi

Cosenza

Igiaba Scego

Roma

Il 105, questo nocchiero metropolitano, parte dalla stazione Termini, ombeli-co del mondo, e arriva al capolinea di

Grotte Celoni, che tecnicamente è Roma ma che di fatto non lo è. Grotte Celoni, in-fatti, è qualche chilometro fuori dal rac-cordo anulare, quindi fuori dalla città. Ma chi abita lì non ci sta: “Siamo periferia”, ti dicono con orgoglio. Poi però ti guardi in-torno e vedi un vuoto che fa in fretta a tra-sformarsi in degrado. Il 105 è verde, lungo, sinuoso. Sembra una nave marziana, ma anche un battello di disperati vecchia ma-niera. Di lunedì mattina è meglio non prenderlo. E anche di martedì. A pensarci bene, meglio evitarlo sempre.

Intreccio di continentiIl 105 è un groviglio di corpi. I continenti si siorano in questo brandello a ruote di Ro-ma capoccia. Occhi a mandorla, pelle ne-ra, nasi schiacciati, capelli biondi, c’è di tutto dentro questa Babele rotante. La notte è anche peggio del giorno. Sagome stanche la riempiono e qualcuno riesce a conquistarsi un posto per una pennica. So-no sagome migranti che hanno lavorato in pizzeria o pulito qualche cesso della Roma bene. Il bus passa per la Chinatown di piazza Vittorio e per ponte Casilino, dove giovani freak scendono per buttarsi nella movida del Pigneto. Ma l’autobus non ha tempo per un aperitivo trendy, deve trot-tare verso Tor Pignattara, Centocelle, Alessandrino, Torre Gaia, Giardinetti. L’italiano si mischia con il bangla, il cinese con il somalo, il romeno con lo spagnolo. E i profumi si mischiano alle puzze.

Il 105 è un bus a rischio, dicono gli auti-sti. Spesso qualcuno viene aggredito. I so-liti stranieri, verrebbe da pensare. Ma i colpevoli sono quasi sempre ragazzi italia-ni dell’estrema periferia, lasciati soli nel degrado di quartieri senza spazi di sociali-tà. Ragazzi di cui nessuno si occupa più. u

Igiaba Scego è una scrittrice di origine so-mala. È nata nel 1974 a Roma, dove vive ([email protected]).

A bordo della Babele rotante

MA

RT

InO

LO

MB

Ez

zI (

CO

nT

RA

STO

)

Una donna che non vuole prostituirsi, un pregiudicato che la picchia. Un giorno come tanti in Calabria

Le ragazze del night club

Geneviève Makaping

Cronaca cosentina di due mesi fa. I protagonisti sono Cristina Spina, giovane tenente dei carabinieri,

una donna nigeriana di cui non si cono-scono le generalità e Giuseppe Pantusa, 48 anni, gestore del night club Le Menadi. I loro destini s’intrecciano nel corso di un’operazione dei carabinieri. Le indagini del pubblico ministero Claudio Currelli dimostrano che in quel locale si sfrutta la prostituzione di ragazze arrivate dall’Afri-ca, dai paesi dell’est e dal Brasile. Alle 4.45 di un sabato notte, una chiamata al 112. A telefonare è una giovane nigeriana di 22 anni che si è riiutata di prostituirsi. Il ge-store del locale pensava che il modo mi-gliore per convincerla a sottomettersi era minacciarla di chiamare le forze dell’ordi-

ne per farla rimpatriare. non sapeva che la ragazza ha un permesso di soggiorno. Lei non ha ubbidito, è lui l’ha picchiata.

La telefonata al 112 le salva la vita. A guidare l’operazione è Cristina Spina. La ragazza nigeriana le racconta tutto. È stato trovato un quaderno di 25 pagine con i no-mi delle ragazze. Due tipologie di servizio: semplice, 50 euro per lo spogliarello priva-to, e di secondo livello, 100 euro per un rapporto sessuale completo.

Quando le ragazze si riiutavano, il ma-gnaccia cercava in un primo momento di convincerle con dolcezza: “Fatemi ’sto piacere, sono amici, fateli contenti”. Ma aveva anche un altro metodo di persuasio-ne: non pagava le ragazze, obbligandole a prolungare il loro soggiorno per riscuotere quanto gli spettava. Pantusa è inito in car-cere. La nigeriana senza nome è stata libe-rata. E le altre per le strade d’Italia? u

Geneviève Makaping è una giornalista e antropologa camerunese. Vive in Italia dal 1988 ([email protected]).

Italieni

Internazionale 870 | 29 ottobre 2010 31

Page 32: Internazionale 870

32 Internazionale 870 | 29 ottobre 2010

Le opinioni

Tra tutte le “minacce” all’ordine mon-diale, la più pericolosa per il potere im-periale è la democrazia, a meno che non rimanga sotto stretto controllo. È una minaccia qualsiasi afermazione di indipendenza. Nel corso della storia, le

scelte di politica imperiale sono sempre state guidate da queste paure. In Sudamerica, il tradizionale cortile di casa degli Stati Uniti, i sudditi stanno per esempio diventando sempre più disobbedienti. A febbraio han-no perino creato la Comunità degli stati latinoameri-cani e caraibici, che comprende tutti i paesi dell’emi-sfero ma non Stati Uniti e Canada.

Per la prima volta dall’arrivo dei con-quistatori spagnoli e portoghesi cinque-cento anni fa, il Sudamerica sta andando verso l’integrazione, un prerequisito ne-cessario per l’indipendenza. E si sta an-che rendendo conto di quanto sia scan-daloso che un continente così ricco di ri-sorse possa essere controllato da poche élite ricche circondate da un mare di po-vertà.

Inoltre, i rapporti tra i paesi del sud del mondo si stanno sviluppando, e al loro interno la Cina sta svolgendo un ruolo importante, sia come consumatore di materie prime sia come inve-stitore. La sua inluenza sta rapidamente crescendo e in alcuni paesi ricchi di risorse ha superato quella degli Stati Uniti. Alcuni cambiamenti signiicativi sono av-venuti anche in Medio Oriente. Sessant’anni fa il diplo-matico Adolf Berle fu uno dei primi a dire che chi aves-se controllato le incomparabili risorse energetiche della regione avrebbe avuto “il controllo del mondo”. Negli anni settanta i maggiori produttori di idrocarbu-ri nazionalizzarono le loro riserve, ma l’occidente man-tenne una forte inluenza su quei paesi. Nel 1979 gli Stati Uniti “persero” l’Iran in seguito alla caduta dello scià, salito al potere nel 1953 con un colpo di stato ap-poggiato da Washington e Londra per garantire che il suo petrolio rimanesse nelle mani giuste. Ma oggi l’America non riesce più a controllare neanche i paesi tradizionalmente suoi amici. Le maggiori riserve di petrolio sono in Arabia Saudita, che dipende dagli Sta-ti Uniti da quando cacciarono via gli inglesi durante la seconda guerra mondiale. Gli Stati Uniti rimangono di gran lunga i maggiori investitori e partner commercia-li dei sauditi, che a loro volta sostengono l’economia americana con i loro investimenti. Oggi, però, più della metà del petrolio saudita esportato va in Asia e per il suo futuro ormai Riyad guarda a oriente. La stessa cosa potrebbe fare l’Iraq, che è al secondo posto nel mondo

per le riserve di greggio, se riuscirà a risorgere dopo la distruzione causata dalle sanzioni e dall’invasione an-gloamericana. E la politica degli Stati Uniti sta spin-gendo anche l’Iran, il terzo produttore mondiale, nella stessa direzione. Ormai la Cina ha sostituito gli Stati Uniti ed è la maggiore importatrice di petrolio dal Me-dio Oriente, mentre le sue esportazioni invadono la regione. Le possibili conseguenze di questa situazione per l’ordine mondiale sono importanti, come lo è la nascita dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai, che comprende quasi tutti i paesi asiatici ma esclude gli Stati Uniti e che, come osserva l’economista

Stephen King, autore di Losing control: the emerging threats to Western prosperity, potrebbe diventare “un nuovo cartello energetico di cui farebbero parte sia i produttori sia i consumatori”.

Tra i politici occidentali il 2010 viene chiamato “l’anno dell’Iran”. Si ritiene che quel paese sia la più grande minaccia per l’ordine mondiale e per questo sia al centro della politica estera degli Stati Uniti e dell’Europa, che li segue educa-tamente come al solito. Il pericolo rap-presentato dall’Iran non è di tipo milita-

re, ma deriva dal suo desiderio di indipendenza. Per mantenere la “stabilità”, Washington ha imposto san-zioni severe a Teheran, ma al di fuori dell’Europa ben pochi le rispettano. Turchia e Pakistan stanno co-struendo nuovi oleodotti e intensiicando i rapporti commerciali con gli iraniani. L’opinione pubblica ara-ba è contrariata per la politica occidentale e in gran parte favorevole al programma nucleare di Teheran. Questo conlitto va tutto a vantaggio della Cina. “Gli investitori e le imprese cinesi stanno andando a riem-pire il vuoto man mano che molti altri paesi, soprattut-to europei, si ritirano dall’Iran”, ha scritto Clayton Jo-nes sul Christian Science Monitor. E Washington rea-gisce in modo disperato. In agosto il dipartimento di stato ha avvertito Pechino che “se vuole fare afari con il resto del mondo deve prima modiicare la sua imma-gine. Se hai la fama di essere un paese che sfugge alle sue responsabilità internazionali, questo alla lunga avrà delle conseguenze”. E ovviamente avere “respon-sabilità internazionale” consiste essenzialmente nell’obbedire agli ordini degli Stati Uniti.

È improbabile che i leader cinesi si lascino impres-sionare da questi discorsi, dal linguaggio di una poten-za imperiale che cerca disperatamente di aggrapparsi a un’autorità che non ha più. Il modo sprezzante in cui la Cina ignora gli ordini degli Stati Uniti è molto più pe-ricoloso per Washington delle minacce dell’Iran. u bt

L’indipendenzadei sudditi

Noam Chomsky

NOAM CHOMSKY

insegna linguistica all’Mit di Boston. Il suo ultimo libro uscito in Italia è Sulla

nostra pelle. Mercato

globale o movimento

globale? (Il Saggiatore tascabili 2010).

Oggi più della metà del petrolio saudita esportato va in Asia e per il suo futuro Riyad guarda a oriente. Lo stesso potrebbe fare l’Iraq, che è al secondo posto nel mondo per le riserve di greggio

Page 33: Internazionale 870
Page 34: Internazionale 870

34 Internazionale 870 | 29 ottobre 2010

Le opinioni

Negli anni ottanta, quando feci richie-sta per una borsa di studio negli Stati Uniti, uno dei requisiti era aver supe-rato il Toefl, l’esame d’inglese per stranieri. Lo sostenni all’American University del Cairo, afollatissima di

giovani medici e ingegneri che, come me, avevano ri-chiesto una borsa per studiare all’estero. Quel giorno chiesi a quelli che incontravo se, potendo, avrebbero scelto di restare negli Stati Uniti, e la ri-sposta fu un “sì” convinto. Pur di lasciare l’Egitto, molti di loro sarebbero andati in qualsiasi altro paese. Perché? Il motivo non era la povertà, perché impegnandosi sarebbero riusciti a trovare un lavoro e uno stipendio ragionevole, mentre a oc-cidente spesso sarebbero stati costretti ad accettare lavori umili al di sotto della loro qualiica professionale. No, il motivo fondamentale era la sensazione che nel loro paese le ingiustizie fossero tali da rendere la situazione irrecuperabile: chi lavorava sodo non aveva mai la certezza di fare carriera, e la competenza non era il requisito per ottenere un buon impiego.

Tutto ciò che nei paesi democratici si guadagna gra-zie all’impegno e ai meriti, in Egitto si può ottenere gra-zie ai contatti personali e alla furbizia. Anzi, la bravura è un problema, meglio essere mediocri o incapaci: pri-ma di tutto perché il sistema sofoca chi ha talento, se-condo perché il futuro dipende molto più dagli agganci che dalle capacità di ognuno. In Egitto le persone capa-ci hanno tre possibilità. Possono emigrare in un paese democratico che rispetta il merito e la competenza, e qui lavorare sodo ino a diventare come Mohamed el Baradei o Magdi Yacoub. Possono mettere il loro talen-to a disposizione del regime, accettando di esserne ser-vi e diventare uno strumento di oppressione. Oppure possono decidere di salvare il loro onore, e allora subi-ranno la stessa sorte di Ibrahim Eissa.

Ibrahim Eissa è uno dei più dotati, onesti e coraggio-si giornalisti egiziani. Quasi senza risorse, ma con il suo talento eccezionale, è riuscito a trasformare il suo gior-nale, Al Dustour, in una testata apprezzata in tutto il mondo arabo. E come ogni grande maestro, non si è accontentato della sua carriera, ma ha considerato suo dovere incoraggiare i più giovani. Ha accolto così nella redazione di Al Dustour decine di giovani reporter fa-cendone i nuovi nomi del giornalismo nazionale.

Se Ibrahim Eissa vivesse in un paese democratico, ora sarebbe onorato e rispettato. Invece vive in Egitto, dove domina un regime autoritario che non permette a

chi ha talento di rimanere fedele a se stesso. Ibrahim Eissa non si è opposto al governo: si è opposto al siste-ma. Ha invocato un cambiamento democratico reale attraverso libere elezioni. Ed è riuscito a fare di Al Du-stour un vivaio importante di giovani giornalisti e una casa aperta a tutti gli egiziani censurati dagli altri quoti-diani. Il regime ha tentato in ogni modo di ridurlo al si-lenzio. Ha cercato di stancarlo con processi assurdi e querele infondate. Ha tentato di intimidirlo e poi ha

cercato di comprarlo, commissionando-gli programmi televisivi che gli avrebbe-ro fatto guadagnare molti soldi. Ma non è servito a nulla: Ibrahim Eissa ha conti-nuato a dire ciò che pensava e a fare ciò che diceva.

A mano a mano che in Egitto aumen-tavano le pressioni sia popolari sia inter-nazionali per un cambiamento democra-tico, il regime si è trovato in diicoltà e il suo nervosismo è cresciuto. Ibrahim Eis-sa è diventato intollerabile. A quel punto, per distruggerlo, è stato ideato un piano

diabolico. Per cominciare è entrato in scena un tale di nome Sayed Badawi, conosciuto solo come ricco pro-prietario dell’emittente televisiva Al Hayat (quindi vici-no ad alti esponenti del regime). Badawi ha speso un sacco di soldi per conquistare la leadership del partito Wafd, e poi altri soldi per convincere il partito a recitare la parte della inta opposizione nella farsa delle prossi-me elezioni egiziane truccate. Poi ha comprato Al Du-stour e dalla prima pagina ha assicurato che la linea politica del quotidiano non sarebbe cambiata. Dopodi-ché, oltre a Badawi è saltato fuori un altro proprietario, un certo Reda Edward, il quale non si è mai occupato di giornali e vanta la sua fedeltà al regime. Dopodiché lo stesso giorno in cui la proprietà di Al Dustour è passata uicialmente a Badawi, la sua prima decisione è stata licenziare Ibrahim Eissa. A quel punto è apparso chiaro che Badawi e Reda Edward erano semplicemente il modello più recente degli uomini di regime egiziani.

Allora chiediamo: perché tutte queste trame? Per-ché sprecare milioni per disfarsi di un giornalista one-sto e di talento, che ha come unico capitale le sue idee e la sua penna? Perché il regime non ha investito tutti quegli sforzi per salvare dalla miseria milioni di egizia-ni? Al Dustour è inito, ma è passato alla storia dell’Egit-to come un grande esperimento giornalistico e cultura-le. Ibrahim Eissa può fondare altre decine di giornali, e in Egitto comunque vinceranno il cambiamento, la ve-rità e la giustizia. L’Egitto si è sollevato, e nessuno può ormai frapporsi tra il paese e il suo futuro. L’unica solu-zione è la democrazia. u ma

Un giornaletroppo libero

Ala al Aswani

ALA AL ASWANI

è uno scrittore egiziano. In Italia ha pubblicato Palazzo

Yacoubian (2006), che è stato tradotto in venti lingue, Chicago (2008) e Se non fossi

egiziano (2009), tutti editi da Feltrinelli.

Ibrahim Eissa è uno dei più dotati giornalisti egiziani. Quasi senza risorse, è riuscito a trasformare il suo giornale, Al Dustour, in una testata apprezzata nel mondo arabo

Page 35: Internazionale 870
Page 36: Internazionale 870

36 Internazionale 870 | 29 ottobre 2010

In copertina

Stiamo vivendo una crisi di enormi proporzioni e di por-tata globale. Non mi riferisco alla recessione economica co-minciata nel 2008, ma a una crisi che passa inosservata e

che alla lunga sarà molto più dannosa per il futuro della democrazia: la crisi mondiale dell’istruzione.

Sono in corso cambiamenti radicali in quello che le società democratiche inse-gnano ai giovani, e su questi cambiamenti non si rilette abbastanza. Attirati dal proit-to, molti paesi, e i loro sistemi scolastici, stanno escludendo alcuni saperi indispen-sabili a mantenere viva la democrazia. Se questa tendenza continuerà, gli stati di tut-to il mondo produrranno generazioni di macchine docili, utili e tecnicamente quali-icate, invece di cittadini a pieno titolo, in grado di pensare da soli, mettere in discus-sione le consuetudini, e comprendere le soferenze e i successi degli altri.

Quali sono questi cambiamenti radica-li? Gli studi umanistici e artistici stanno subendo pesanti tagli sia nell’istruzione primaria e secondaria sia in quella universi-taria, in quasi tutti i paesi del mondo. In un momento in cui gli stati devono eliminare il superfluo per rimanere competitivi sul mercato globale, le lettere e le arti – consi-derate accessorie dai politici – stanno rapi-damente sparendo dai programmi di stu-dio, dalle menti e dai cuori di genitori e studenti. E anche quelli che potremmo de-inire gli aspetti umanistici della scienza e delle scienze sociali – l’aspetto creativo e

Il potere dMartha C. Nussbaum, The Times Literary Supplement, Gran Bretagna. Foto di Cyrille Weiner

In molte scuole e università gli studi umanistici vengono trascurati. Ma per diventare dei bravi cittadini bisogna imparare a pensare in modo critico e a mettersi nei panni degli altri

inventivo, e il pensiero critico rigoroso – stanno passando in secondo piano, perché si preferisce inseguire il proitto a breve ter-mine garantito da conoscenze pratiche adatte a questo scopo.

Stiamo inseguendo i beni materiali che ci piacciono, e ci danno sicurezza e confor-to: quelli che lo scrittore e ilosofo indiano Rabindranath Tagore chiamava il nostro “rivestimento” materiale. Ma sembriamo aver dimenticato le capacità di pensiero e immaginazione che ci rendono umani, e che ci permettono di avere relazioni uma-namente ricche invece di semplici legami utilitaristici. Se non siamo educati a vedere noi stessi e gli altri in questo modo, imma-ginando le reciproche capacità di pensiero ed emozione, la democrazia è destinata a entrare in crisi perché si basa sul rispetto e sull’attenzione per gli altri. Questi senti-menti a loro volta si basano sulla capacità di vedere le altre persone come esseri umani e non come oggetti.

Non nego che la scienza e le scienze so-ciali, in particolare l’economia, siano altret-tanto importanti per la formazione dei cit-tadini. Anche queste discipline possono essere permeate di elementi che formano uno spirito umanistico: la ricerca del pen-siero critico, la sida dell’immaginazione, l’empatia per le esperienze umane più di-verse e la comprensione della complessità del mondo in cui viviamo. Un mondo in cui le persone si trovano a confrontarsi nono-stante le distanze geograiche, linguistiche e nazionali. Eppure, più che in ogni altra epoca del passato, tutti noi dipendiamo da M

yo

p/L

Uz

ph

oT

o

Page 37: Internazionale 870

Internazionale 870 | 29 ottobre 2010 37

e del sapere

L’aniteatro Richelieu all’università La Sorbona di Parigi

Page 38: Internazionale 870

38 Internazionale 870 | 29 ottobre 2010

persone che non abbiamo mai visto e che a loro volta dipendono da noi. I problemi che dobbiamo afrontare – economici, ambien-tali, religiosi e politici – sono di portata mondiale.

Nessuno può dirsi estraneo a questa in-terdipendenza globale. Scuole e università di tutto il mondo hanno un compito urgente e molto importante: aiutare gli studenti a vedere se stessi come membri di una nazio-ne eterogenea e a comprendere la storia e il carattere dei diversi gruppi che compongo-no un mondo ancora più eterogeneo. La conoscenza non è una garanzia di buona condotta, ma l’ignoranza garantisce una condotta cattiva.

Per essere cittadini del mondo servono veramente gli studi umanistici? Di certo servono molte conoscenze che si possono ottenere senza un’istruzione umanistica. Tuttavia, per essere cittadini responsabili serve molto di più: la capacità di valutare i dati storici, di applicare e valutare critica-mente i princìpi economici, di confrontare le varie opinioni sulla giustizia sociale, di parlare lingue straniere, di comprendere la complessità delle grandi religioni mondiali. Un elenco di fatti, senza la capacità di valu-tarli, può essere dannoso quanto l’ignoran-za.

Socrate disse che “una vita senza ricer-ca non è degna di essere vissuta”. In una democrazia viziata dalla retorica roboante e diidente verso il ragionamento, Socrate perse la vita proprio per la sua fedeltà all’ideale dell’interrogazione critica. Oggi il suo esempio è al centro della teoria e della pratica dell’insegnamento delle materie umanistiche nella tradizione occidentale. Alcune sue idee sono rintracciabili anche nei princìpi formativi in India e in altre cul-ture non occidentali. Agli studenti univer-sitari vengono spesso oferti corsi di mate-

rie umanistiche perché si pensa che li sti-molino a pensare e a ragionare in modo autonomo invece di conformarsi alla tradi-zione e all’autorità. La capacità di ragionare in maniera socratica è importante per ogni tipo di democrazia, ma lo è in modo parti-colare nelle società dove sono presenti per-sone di etnie, caste e religioni diverse. L’idea di assumersi la responsabilità dei propri ragionamenti e di scambiare idee con gli altri in un’atmosfera di rispetto reci-proco è essenziale alla soluzione paciica delle divergenze sia all’interno di un singo-lo paese sia in un mondo sempre più pola-rizzato dai conflitti etnici e religiosi. Ma l’idea le socratico è gravemente minacciato in un mondo orientato alla massima cresci-ta economica.

La capacità di pensare e argomentare in modo autonomo può sembrare superlua se si cercano risultati quantiicabili da sfrut-tare dal punto di vista commerciale. Inoltre, è diicile valutare l’abilità socratica attra-verso i test scolastici standardizzati. Dato che gli studenti sono sempre più spesso va-lutati attraverso prove di questo tipo, è faci-le che si iniscano per trascurare gli aspetti socratici del programma di studi e dell’edu-cazione. La cultura della crescita economi-ca ha una forte inclinazione per i test stan-dardizzati e non tollera gli insegnamenti che non sono rapidamente valutabili in quel modo.

Il rischio delle lezioni frontaliIl metodo socratico è una pratica sociale. L’ideale sarebbe che ispirasse il funziona-mento del maggior numero possibile di isti-tuzioni sociali e politiche. È anche una di-sciplina che potrebbe essere insegnata a scuola o all’università. Richiede molti sfor-zi da parte degli insegnanti perché prevede frequenti scambi con gli studenti, ma spes-

In copertina

so dà risultati commisurati all’investimen-to. Questo tipo d’insegnamento è ancora abbastanza comune negli Stati Uniti, con il modello basato sulle liberal arts, ma è molto meno difuso in Europa e in Asia, dove gli studenti entrano all’università per specia-lizzarsi in una disciplina e non sono tenuti a seguire corsi di cultura generale. Inoltre nei paesi asiatici ed europei i docenti tengono spesso lezioni frontali, che richiedono una partecipazione minima o pari a zero da par-te degli studenti e non danno feed back. In ogni caso, introdurre il modello socratico nella scuola primaria e secondaria non è un’utopia. È un compito alla portata di una comunità che rispetta i suoi bambini e il funzionamento della democrazia.

All’inizio del settecento alcuni intellet-tuali in Europa, in Nordamerica e in India hanno cominciato a prendere le distanze da un modello educativo basato sull’apprendi-mento meccanico. Hanno cercato invece di condurre esperimenti in cui i bambini era-no soggetti attivi e critici. Le teorie europee più innovative – come quelle di Jean-Jac-ques Rousseau, Johann Pestalozzi e Frie-drich Fröbel – hanno avuto un’influenza determinante negli Stati Uniti attraverso i lavori di Amos Bronson Alcott e Horace Mann, nell’ottocento, e di John Dewey, il più importante fautore del metodo socrati-co negli Stati Uniti, nel novecento. Diversa-mente dai suoi predecessori europei, De-wey visse e insegnò in una democrazia soli-da, e il suo principale obiettivo era la forma-zione di cittadini rispettosi gli uni degli altri. Gli esperimenti di Dewey hanno lasciato un segno profondo sull’istruzione primaria negli Stati Uniti.

La storia ci mostra che l’insegnamento dei valori socratici produce cittadini critici, curiosi e in grado di resistere all’autorità e alle pressioni sociali. Ma cosa sta succeden-

Da sapere

Australia

Slovacchia

Stati U

niti

Gran Breta

gna

Polonia

Norvegia

Paesi Bassi

Italia

Portogallo

Corea

Danimarca

Austria

Islanda

Finla

ndia

Repubblica C

eca

Giappone

Nuova Zelanda

Svezia

Ungheria

Irlanda

Primi venti paesi Ocse per percentuale di immatricolati all’università rispetto ai diplomati della secondaria superiore, 2008

Fonte: Education at a glance 2010, Oecd indicators

87 83 8173 72 72 71 71 70

65 64 62 59 57 57 5751 50 48 46

Page 39: Internazionale 870

Internazionale 870 | 29 ottobre 2010 39

do oggi? In molti paesi europei e asiatici, soprattutto in India, Socrate non è mai stato popolare o è diventato obsoleto molto pre-sto. Negli Stati Uniti, grazie a Dewey, la si-tuazione è leggermente migliore, ma le co-se stanno cambiando rapidamente e ci av-viciniamo sempre di più alla scomparsa dell’idea le socratico.

Per capire bene la complessità del mon-do non si possono usare solo la logica e le conoscenze fattuali. Le persone hanno bi-sogno di un terzo elemento, strettamente correlato ai primi due, che possiamo chia-mare immaginazione narrativa. È la capa-cità di pensarsi nei panni di un altro, di es-sere un lettore intelligente della storia di quella persona, di comprenderne le emo-zioni, le voglie e i desideri. Coltivare l’em-patia è stato uno dei punti chiave delle mi-gliori concezioni moderne di istruzione democratica. Buona parte di questo inse-gnamento è dato dalla famiglia, ma anche la scuola e l’università svolgono una funzio-ne importante. Per questo, devono attribu-ire una posizione di primo piano alle mate-rie umanistiche, letterarie e artistiche, utili

a una formazione di tipo partecipativo che attivi e perfezioni la nostra capacità di ve-dere il mondo attraverso gli occhi di un al-tro.

Quest’abilità si sviluppa nei bambini at-traverso il gioco immaginativo. Il gioco è un tipo di attività che si svolge nello spazio tra persone, quello che il pediatra e psicanali-sta britannico Donald Winnicott chiama “spazio potenziale”. Qui le persone (prima bambini, poi adulti) sperimentano l’idea dell’alterità in modi molto meno pericolosi di quanto potrebbe essere l’incontro con altre persone. Nel gioco, la presenza dell’al-tro diventa una fonte di piacere e di curiosi-tà, che a sua volta contribuisce allo sviluppo di atteggiamenti sani in amicizia, in amore e, più tardi, nella vita politica. Come osser-vava acutamente uno dei pazienti di Winni-cott, “l’aspetto allarmante dell’uguaglianza è che diventiamo entrambi bambini e il pro-blema è: dov’è il padre? Noi sappiamo dove siamo solo se uno di noi è il padre”. Il gioco insegna alle persone a vivere con gli altri senza bisogno di controlli: mette in relazio-ne le esperienze di vulnerabilità e di sorpre-

sa alla curiosità e allo stupore, invece di ca-dere in una paralizzante ansietà.

Nella reazione degli adulti a un’opera d’arte complessa, Winnicott vedeva una continuità con il piacere che i bambini pro-vano nel gioco. Secondo lui la funzione dell’arte in tutte le culture umane è nutrire e ampliare la capacità di empatia.

Molti educatori moderni si sono resi conto ben presto che, una volta finita la scuola, il più importante contributo delle arti alla vita di una persona è quello di raf-forzare le risorse emotive e immaginative, ovvero la capacità di comprendere se stessi e gli altri. Per vedere le arti al centro dell’istruzione primaria abbiamo dovuto, però, attendere il novecento, con gli esperi-menti scolastici di Tagore in India e di De-wey negli Stati Uniti.

Secondo Dewey, non bisognava inse-gnare ai bambini a contemplare le opere d’arte come se fossero qualcosa di estraneo al mondo reale. E neanche a credere che l’immaginazione fosse qualcosa di perti-nente solo al dominio dell’irreale e del fan-tastico. Al contrario, dovevano abituarsi a

My

oP/

LU

zP

ho

To

La biblioteca universitaria della Sorbona

Page 40: Internazionale 870

40 Internazionale 870 | 29 ottobre 2010

cogliere la dimensione fantasiosa in ogni loro interazione, e a vedere le opere d’arte come uno dei tanti ambiti dove si coltiva l’immaginazione.

Tagore, invece, sosteneva che il ruolo fondamentale delle arti era coltivare l’em­patia e faceva notare che questa funzione pedagogica era stata sistematicamente ignorata e severamente repressa da model­li scolastici standardizzati. Le arti, secondo Tagore, alimentano sia la formazione inte­riore sia l’attenzione e la sensibilità verso gli altri. Questi due momenti si sviluppano allo stesso tempo, perché diicilmente si può capire l’altro se non ci si sa guardare den­tro.

Zone d’ombraTutte le società in tutte le epoche storiche hanno avuto le loro zone d’ombra, hanno trattato alcuni gruppi in modo ottuso. Par­lando del suo romanzo Uomo invisibile (Ei­naudi 1956), lo scrittore statunitense Ralph Ellison lo deinì “una zattera di speranza, intuizione e divertimento”, grazie alla qua­le la cultura statunitense avrebbe potuto

evitare “i tronchi sommersi e i mulinelli” che stanno tra noi e il nostro ideale demo­cratico. Attraverso l’immaginazione, dice­va Ellison, riusciamo a sviluppare la capaci­tà di cogliere la piena umanità delle perso­ne che incontriamo tutti i giorni e con cui abbiamo rapporti supericiali o, peggio, vi­ziati da stereotipi. E gli stereotipi abbonda­no in un mondo come il nostro, che ha crea­to nette separazioni tra gruppi e dove la diidenza ostacola ogni incontro. Il roman­zo di Ellison aveva come tema e come obiettivo polemico lo “sguardo interiore” del lettore bianco. L’eroe è invisibile alla società dei bianchi, ma ci spiega che la sua invisibilità è dovuta a una lacuna nell’istru­zione e nell’immaginazione dei bianchi, non a un fatto biologico.

Negli Stati Uniti di Ellison il tema caldo era quello della razza. Per Tagore, invece, la zona d’ombra culturale era la condizione intellettuale e la capacità di agire delle don­ne. Per questo si impegnò molto per pro­muovere la curiosità e il rispetto reciproco tra i sessi.

Ellison e Tagore affermano che, per comprendere a pieno le discriminazioni e

le diseguaglianze sociali, non basta essere informati. Bisogna anche mettersi nei pan­ni di chi è discriminato, un’esperienza resa possibile dal teatro e dalla letteratura. Dalle rilessioni di Tagore e di Ellison deduciamo che le scuole e le università, quando trascu­rano le lettere e le arti, trascurano anche delle opportunità molto importanti di com­prensione democratica.

Dobbiamo coltivare “lo sguardo interio­re” degli studenti. In altre parole, la funzio­ne delle discipline umanistiche nelle scuole e nelle università è duplice: migliorano in generale le capacità di gioco e di empatia, e lavorano in particolare su alcune zone d’ombra culturali.

L’immaginazione è strettamente legata alla capacità socratica di esercitare il pen­siero critico sulle consuetudini scomparse o inadeguate. Difficilmente una persona riesce a rispettare la posizione di un’altra se non comprende la concezione della vita o le esperienze da cui questa posizione scaturi­sce. Ma le discipline umanistiche fanno anche di più. Rendendo piacevoli gli atti di comprensione, sovversione e riflessione

culturale, aiutano a dialogare con i pregiu­dizi del passato, invece di instaurare un rap­porto caratterizzato solo dalla paura e dalla diidenza.

Questo è quello che intendeva Ellison quando deiniva Uomo invisibile “una zatte­ra di speranza, intuizione e divertimento”. Il divertimento è fondamentale per l’artista che vuole ofrire intuizione e speranza.

In tutte le democrazie moderne, l’inte­resse nazionale esige un’economia forte e una cultura di mercato iorente. Un’econo­mia lorida a sua volta richiede le stesse ca­pacità della buona cittadinanza. I sosteni­tori di quella che chiamerò “istruzione a scopo di lucro” o “istruzione inalizzata alla crescita economica” invece hanno adottato una versione impoverita di quello che sa­rebbe necessario per raggiungere i loro stessi obiettivi. Ma dato che un’economia forte dev’essere un mezzo per raggiungere inalità umane, e non un ine in sé, la que­stione più importante è la stabilità delle istituzioni democratiche.

La maggior parte di noi non vorrebbe vivere in un paese ricco che ha rinunciato a essere democratico. Eppure si moltiplicano

le voci favorevoli a un sistema scolastico che promuove lo sviluppo nazionale sotto forma di crescita economica. È il modello abbozzato da un recente rapporto della commissione Spellings, crea ta dal ministe­ro dell’istruzione di Washington per fare il punto sul futuro della scuola superiore.

Lo stesso modello è promosso in molti paesi europei, che assegnano i fondi alle facoltà scientiiche e tecniche, tagliandoli a quelle umanistiche. Lo stesso tema è al cen­tro del dibattito sull’istruzione in India e nella maggioranza dei pae si emergenti.

Gli Stati Uniti non hanno mai avuto un modello di formazione scolastica puramen­te orientato alla crescita economica. Alcu­ne caratteristiche distintive di questo siste­ma resistono bene al tentativo di rimodel­larle. A diferenza di quello che succede in altri paesi, l’università statunitense dà am­pio spazio alle materie umanistiche, soprat­tutto nei primi due anni di corso.

Questo modello caratterizza anche l’istruzione secondaria e non è un residuo di vecchie forme di distinzione di classe. Fin dall’inizio, infatti, i responsabili dell’istruzione negli Stati Uniti ebbero ben chiaro lo stretto legame tra gli studi umani­stici e la preparazione di cittadini bene in­formati, indipendenti e democratici. Que­sto modello è ancora abbastanza solido, ma è sotto attacco a causa della crisi economi­ca.

L’istruzione inalizzata alla crescita eco­nomica richiede conoscenze di base, come scrivere e fare di conto. In seguito, alcune persone dovranno acquisire saperi più com­plessi, in informatica e nuove tecnologie. La parità di accesso all’istruzione non è im­portante: un paese può crescere anche se i contadini poveri rimangono analfabeti, co­me succede in molti stati dell’India. Questo è sempre stato il problema del modello di sviluppo basato sul pil: trascura la distribu­zione della ricchezza e inisce per valutare positivamente paesi dove esistono dispari­tà allarmanti.

Questa situazione si rilette anche nella scuola: una volta formata un’élite compe­tente in termini tecnologici e commerciali, alcuni paesi possono far crescere il loro pil senza preoccuparsi della distribuzione del­la conoscenza.

Anche in questo caso, almeno in teoria, gli Stati Uniti non si sono fatti condizionare dal paradigma della crescita. Nella tradi­zione della scuola pubblica statunitense, le pari opportunità per tutti – sebbene mai rea lizzate con determinazione – sono sem­pre state uno degli obiettivi uiciali, e sono difese anche dai politici più sensibili al ri­

In copertina

L’istruzione a scopo di lucro richiede conoscenze di base, come scrivere e fare di conto. La parità di accesso non è importante

Page 41: Internazionale 870

Internazionale 870 | 29 ottobre 2010 41

chiamo del primato economico, come gli autori del rapporto Spellings.

Oltre a una preparazione di base per molti, e una formazione più avanzata per pochi, l’istruzione inalizzata alla crescita economica avrà bisogno almeno di una for-ma rudimentale di conoscenza della storia e delle vicende economiche. Ma questa narrazione storica ed economica dovrà evi-tare ogni seria rilessione su classe, razza e genere, e ogni tipo di giudizio sulla reale utilità degli investimenti stranieri per i con-tadini poveri o sulla possibilità che la demo-crazia possa sopravvivere senza garantire a tutti le stesse opportunità.

Il pensiero critico non è veramente im-portante nell’istruzione a scopo di lucro. La libertà di pensiero degli studenti è pericolo-sa quando quello che si vuole è un gruppo di lavoratori obbedienti e professionalmente preparati, in grado di realizzare i progetti di un’élite che punta tutto sugli investimenti stranieri e sullo sviluppo tecnologico. Gli educatori che hanno come obiettivo solo la crescita economica non vogliono che si stu-di la storia delle ingiustizie di classe, casta,

genere e appartenenza etnica o religiosa, perché questo spingerebbe a rilettere in modo critico sul presente. Non vogliono nemmeno una rilessione seria sul difon-dersi del nazionalismo, sui danni prodotti dalle ideologie nazionaliste o sul modo in cui la dimensione etica rimane in secondo piano rispetto alla presunta superiorità del-la tecnica.

Che dire poi delle lettere e delle arti, tanto apprezzate dagli educatori democra-tici? L’istruzione finalizzata alla crescita economica non dà valore a questo tipo di formazione, perché è apparentemente inu-tile rispetto alla ricerca del successo econo-mico. Ma i sostenitori della crescita non si limitano a trascurare gli studi umanistici. In realtà li temono. Una persona istruita e in grado di provare empatia per l’altro è un nemico particolarmente pericoloso dell’ot-tusità, e l’ottusità morale è necessaria per realizzare programmi di sviluppo economi-co che ignorano le diseguaglianze.

È più facile trattare le persone come og-getti da manipolare se non si è mai impara-to a vederle in un altro modo. Come disse

Tagore, il nazionalismo aggressivo ha biso-gno di annebbiare la coscienza morale. Ha bisogno di persone che non apprezzano l’individualità, che ripetono gli slogan del gruppo, che si comportano e che vedono il mondo come docili burocrati. Le arti sono un grande nemico dell’ottusità, e gli artisti (a meno che non siano sottomessi o corrot-ti) non sono servi di nessuna ideologia. Chiedono invece all’immaginazione di su-perare i conini e di vedere le cose in modo diferente.

Intelligenze lessibiliPer gli studi umanistici vale quanto si è det-to per il pensiero critico: sono essenziali per la crescita economica. I più importanti for-matori di dirigenti d’azienda hanno capito da tempo che una buona capacità di imma-ginazione è il pilastro di una buona cultura degli afari. L’innovazione richiede intelli-genze lessibili, aperte e creative. La lette-ratura e le arti stimolano queste facoltà. Quando mancano, la cultura aziendale per-de colpi in fretta. Sempre più spesso, al mo-mento dell’assunzione i laurea ti nelle ma-

My

OP/

LU

zP

HO

TO

L’università La Sorbona

Page 42: Internazionale 870

In copertina

terie umanistiche sono preferiti a studenti che hanno avuto una formazione rigorosa-mente professionale, proprio perché si pen-sa che abbiano una mente più elastica e creativa.

Musica, danza, disegno e teatro sono le strade maestre del piacere e delle capacità di espressione. E per incoraggiarle non ser-ve una grossa spesa. Anzi, un tipo di forma-zione basata sullo sviluppo della capacità di pensiero e di immaginazione di studenti e insegnanti potrebbe essere più convenien-te, perché ridurrebbe il senso di anomia e la perdita di tempo che deriva dalla mancanza di impegno personale. Come ha dichiarato recentemente la preside di Harvard, Drew Faust, “le persone hanno bisogno di com-prensione e di prospettive almeno quanto hanno bisogno di lavoro. Il problema non è se di questi tempi possiamo permetterci di credere in questi obiettivi, ma se possiamo permetterci di non crederci”.

L’errore di NehruOggi in alcuni casi le università statunitensi alimentano la cittadinanza democratica meglio di cinquant’anni fa. A quei tempi gli studenti sapevano poco del mondo e delle minoranze del loro paese. Nuove aree di studi, convogliate nelle materie umanisti-che, hanno migliorato la comprensione dei paesi non occidentali, dell’economia glo-bale, dei rapporti tra persone di razze diver-se, delle dinamiche di genere, della storia dell’immigrazione e delle lotte di nuovi gruppi per il riconoscimento e l’uguaglian-za. Tuttavia, non possiamo ritenerci soddi-sfatti dello stato di salute degli studi umani-stici. Nonostante le donazioni ilantropi-che, la crisi economica ha spinto molte università a fare tagli in questo settore, per-ché non è considerato essenziale.

In Europa le cose vanno ancora peggio. L’imperativo della crescita economica ha spinto la maggior parte dei governi a rio-rientare i loro sistemi universitari – in ter-mini di insegnamento e di ricerca – secondo l’ottica della crescita. In India le materie umanistiche sono sempre state poco consi-derate da quando Nehru, negli anni qua-ranta, ha deciso di rendere la scienza e l’economia i pilastri del futuro del paese. Nonostante il suo amore per la poesia e la letteratura, Nehru concluse che le modalità emotive e immaginative della conoscenza dovessero cedere il passo alla scienza, e il suo punto di vista prevalse sugli altri.

Nell’insegnamento primario le esigenze del mercato globale hanno spinto tutti i pae si a mettere l’accento sulle conoscenze tecniche e scientiiche, mentre le arti e le

lettere sono state riformulate per diventare a loro volta delle conoscenze valutabili con questionari a scelta multipla. In un paese come l’India, che aspira alla crescita, o in uno come gli Stati Uniti, che vuole mante-nere i suoi posti di lavoro, le competenze umanistiche sono considerate superlue. I programmi d’insegnamento hanno sacrii-cato l’immaginazione e lo spirito critico per concentrarsi solo su quello che è stretta-mente utile alla preparazione degli esami.

Gli Stati Uniti del presidente Barack Obama hanno la possibilità di cambiare la situazione, promuovendo una concezione dell’istruzione più complessa. Nei suoi di-scorsi sulla scuola, il presidente sottolinea il problema dell’uguaglianza, parlando dell’importanza che tutti i cittadini siano in grado di inseguire il “sogno americano”. Ma inseguire un sogno presuppone dei so-gnatori: intelligenze educate a pensare cri-ticamente alle alternative e a immaginare obiettivi ambiziosi, non solo in termini eco-nomici, ma anche di dignità umana e di-mensione democratica.

Per il momento Obama ha parlato di reddito individuale e di crescita economica nazionale, afermando che l’istruzione di cui c’è bisogno è proprio quella che serve a questi due obiettivi. Ancora più preoccu-pante è il fatto che abbia ripetutamente elo-giato paesi come Singapore, più avanzati degli Stati Uniti nella formazione tecnolo-gica e scientiica. “Stanno investendo me-no tempo a insegnare cose che non servo-no, e più tempo a insegnare cose che servo-

no. Stanno preparando i loro studenti non al liceo o all’università, ma alla carriera. Noi no”, ha detto Obama. “Cose che servono” equivale a “cose che preparano alla carrie-ra”. Una vita fatta di rispetto e ricca di con-tenuti, una cittadinanza attenta e scrupolo-sa, non sono mai citate come inalità per cui valga la pena investire tempo.

Quando le persone cominciarono a in-teressarsi alla partecipazione democratica, le scuole in tutto il mondo furono ripensate per istruire quel tipo di giovane che avrebbe funzionato bene in una forma di governo così esigente: non un gentiluomo rainato, pieno del sapere del tempo andato, ma una persona che fa parte di una comunità di uguali in modo attivo, critico, rilessivo ed empatico, e che sa confrontarsi con gli altri sulla base della comprensione e del rispetto verso persone della più diversa estrazione. Oggi possiamo ancora dire che ci piacciono la democrazia e la partecipazione politica, e ci piacciono anche la libertà di parola, il ri-spetto della diferenza e la comprensione dell’altro. Formalmente rispettiamo questi valori, ma non pensiamo quasi mai a quello che dovremmo fare per trasmetterli alle ge-nerazioni future e garantirne la sopravvi-venza. u

42 Internazionale 870 | 29 ottobre 2010

L’AUTRICE

Martha C. Nussbaum è una ilosofa statunitense che insegna all’università di Chicago. Questo articolo è tratto dal suo nuovo libro, Non per proitto, che sarà pubblicato dal Mulino.

My

OP/

LU

zP

HO

TO

La Sorbona

Page 43: Internazionale 870

Internazionale 870 | 29 ottobre 2010 43

Studiosi illustri, come Giorgio Pasquali o Guido Calogero, scrittori come Domenico Star­none o meno noti ispettori mi­

nisteriali, come Evaristo Breccia, ci hanno detto e attestano che almeno dai primi del novecento (e non “dopo il sessantotto”) l’insegnamento di greco e latino in Italia è stato assai manche­vole. Ma lo è anche quello di matemati­ca o scienze. Aboliremmo queste mate­rie? No, certo.

Tuttavia, si dice, latino e greco negli Stati Uniti e in altri paesi europei sono stati aboliti. Vero, ma se si rilette, si ca­pisce che la scelta di tagliare nelle scuole il rapporto con il latino e il greco non appare paciicamente condivisibi­le. Fuori dell’occidente, in altre aree oggi tra le più dinamiche del mondo, il ruolo dello studio delle lingue antiche che sono le radici classiche di quelle culture, il loro greco e latino, continua a essere fondante nell’organizzazione scolastica e culturale.

Ideogrammi cinesiLa lingua giapponese, com’è noto, è profondamente diversa dalla cinese per origini e struttura. Tuttavia il Giap­pone appartiene storicamente e cultu­ralmente all’area dell’ideogramma ci­nese. E nell’uso contemporaneo l’ideo­gramma cinese è presente in scritture di ogni sorta (perino nella segnaletica urbana e autostradale).

Quindi nelle scuole giapponesi è d’obbligo lo studio dell’ideogramma ci­nese (il loro greco) e nelle scuole supe­riori, che da decenni coinvolgono l’in­tera popolazione in età scolare, fa parte del curricolo anche lo studio dei testi di

giapponese antico (il loro latino), che ha grammatica e lessico in parte diferenti dal moderno.

Nelle scuole cinesi è generale e siste­matico il rapporto con i testi del periodo classico, e il cinese classico è presente nei ceti alfabetizzati anche come elemento fortemente identitario e uniicante tra le molte varietà di cinese e tra i diversi grup­pi linguistici della Cina. Anche nella Cina contemporanea l’antico è tutt’altro che messo da parte.

In Israele l’apprendimento dell’ebraico biblico, di cui per secoli sono stati deposi­tari solo i rabbini, è stato il punto di par­tenza per la nascita e la difusione del neo­ebraico scritto e parlato, anche in quest’area connesso a un elevato grado di istruzione e a una forte volontà identita­ria.

Più complessa e variegata è la situazio­ne in India e nel mondo arabofono. Insie­me a inglese e hindi, il sanscrito – anche se privo di una comunità di parlanti nativi – spicca rispetto alle altre 415 lingue parlate e alle ventidue lingue uiciali, in quanto classical language of India. Di fatto la persi­stenza e la ripresa del suo studio nelle scuole di molti dei 28 stati dell’unione, e ora in diverse università, sono un forte elemento di formazione anche primaria e di identità.

Nel vasto e decentrato mondo arabofo­no l’unità è garantita non tanto dalla rela­tiva similarità dei diversi arabi locali parla­ti e scritti, di limitata intercomprensibilità, quanto dalla presenza religiosa e pervasi­va dell’arabo coranico. In questo modo si prolunga e vive, anche oltre il mondo ara­bofono, in aree iraniche o turcofone, una

grande tradizione di scritture letterarie e scientiiche in arabo classico, il cui studio è ben presente nelle scuole e nelle diverse aree regionali. In molti paesi ciò non avviene senza problemi, per le interferenze tra l’uso dell’arabo classico, i diferenti arabi parlati e le lingue di colonizzazione tuttora pre­senti (il francese nel Maghreb e in Liba­no, l’inglese a Gerusalemme, in Pale­stina e in Egitto). Di ciò vi sono contra­stanti valutazioni locali. Ma Edward Said, nella sua autobiograia Sempre nel posto sbagliato (Feltrinelli 2000) e in un articolo pubblicato da Internazionale (numero 533), ha mostrato bene quanto per un arabofono sia rilevante la co­scienza dell’importanza di conoscere l’arabo classico e quanto conti cono­scerlo efettivamente ai ini di quel buon uso degli arabi parlati cui tutto quel mondo è attento.

Incubatori di lingueDiversamente dall’ebraico biblico, ai­dato per secoli ai rabbini, il latino e, at­traverso il latino, il greco sono stati una presenza largamente operante per il formarsi del pensiero scientiico, del diritto, della medicina, delle letterature dell’Europa moderna, sia neolatina sia germanica, dalla Gran Bretagna alla Svezia, sia slava e anche ugroinnica, dall’Ungheria alla Finlandia.

E sono stati l’incubatore del formar­si delle lingue nazionali dell’Europa di oggi. In Grecia il moderno demotico non sarebbe nato senza la continuità con il greco colto antico e medievale. Una lingua germanica come l’inglese è al 75 per cento del suo vocabolario lati­na e neolatina.

In Italia l’originaria prossimità al la­tino è stata determinante per le fortune del iorentino antico, ossia per la sua accettazione generale come lingua na­zionale italiana. Come l’inglese, l’ita­liano è opaco per chi lo usa senza la ca­pacità di muoversi nel retroterra classi­co. Guardando al resto del mondo, an­che in occidente varrebbe la pena ri­lettere.

Senza conoscere le parole del passa­to viviamo male il presente e costruire­mo molto male il nostro avvenire. u

Tullio De Mauro è un linguista italia-no. Il suo ultimo libro è La cultura degli italiani (Laterza 2010).

Dall’India a Israele, molti paesi prestano particolare attenzione all’insegnamento delle lingue antiche

Il presente ha bisognodelle parole del passato

Tullio De Mauro per Internazionale

L’opinione

Se si rilette, si capisce che la scelta di tagliare nelle scuole il rapporto con il latino e il greco non è paciicamente condivisibile

Page 44: Internazionale 870

Stati Uniti

La lezione

di Obama

Peter Baker, The New York Times Magazine, Stati UnitiFoto di Pete Souza

Ha sopravvalutato le sue doti di comunicatore e ha sottovalutato i nemici. Voleva cambiare Washington ma è rimasto invischiato nella vecchia politica. Bilancio alla vigilia delle elezioni di metà mandato

Nell’ala ovest della Casa Bianca è un intenso po-meriggio di lavoro, ma Barack Obama sembra calmo e rilassato nella poltrona che ha fatto ri-

vestire di pelle marrone. Siamo a ine set-tembre, e il presidente è appena rientrato nello studio ovale dalla East room, dove ha irmato lo Small business jobs act – la legge a sostegno delle piccole imprese – usando otto penne diverse per poterne regalare il più possibile. È l’ultimo, importante, atto legislativo per rilanciare l’economia prima che gli elettori emettano il loro verdetto sui primi due anni della sua presidenza. Il pri-mo capitolo della presidenza Obama è ini-to. Il 2 novembre, il giorno delle elezioni, ne comincerà uno nuovo.

Mentre mi dà il benvenuto, gli dico che mi piace come ha cambiato questa stanza. Il tappeto giallo di George W. Bush è sparito e al suo posto ce n’è uno color sabbia, molto sbefeggiato, con le citazioni preferite del nuovo presidente. Le pareti curve ora han-no una carta da parati ocra a strisce e il ta-volino da cafè è stato sostituito da un tavo-lo di noce e mica dove, osserva Obama, non restano le macchie dei bicchieri d’acqua. Al posto del busto di Churchill ce n’è uno di Martin Luther King. I divani sono cambiati. Obama è soddisfatto del nuovo arreda-mento. “So che ad Arianna non piace”, dice con noncuranza. “Ma preferisco i toni sab-bia”.

44 Internazionale 870 | 29 ottobre 2010

Che un presidente degli Stati Uniti si preoccupi del giudizio di Arianna Huing-ton sul suo arredamento è indubbiamente un fatto insolito ma, diciamo la verità, negli ultimi tempi Obama ha ricevuto critiche anche peggiori. Il presidente che ha impo-sto al congresso l’agenda forse più ambizio-sa dell’ultima generazione è disprezzato dalla destra, rimproverato dalla sinistra e abbandonato dal centro. E sta afrontando le ultime settimane della campagna eletto-rale per le elezioni di metà mandato sapen-do che rischia di essere abbandonato e di ritrovarsi con un congresso molto più ostile di quello con cui ha dovuto fare i conti negli ultimi due anni.

Anche se è orgoglioso dei risultati, Oba-ma ha già cominciato a rilettere su cosa è andato storto, e su cosa deve fare per cam-biare rotta. Come racconta un suo assisten-te, ha passato “un sacco di tempo a discute-re di Obama 2.0” con il nuovo capo del suo staf, Pete Rouse, e il suo vice Jim Messina. Nell’ora che passiamo insieme, Obama di-ce di non avere ripensamenti sull’indirizzo generale della sua presidenza. Ma ammette di aver imparato alcune “lezioni di tipo tat-tico”. È apparso troppo simile ai “vecchi democratici liberal, tutti tasse e spesa pub-blica”, ha capito troppo tardi che quando si tratta di lavori pubblici “non esistono pro-getti chiavi in mano”. Forse invece di pro-porre gli sgravi iscali per rilanciare l’eco-nomia avrebbe dovuto lasciare “che fosse-ro i repubblicani a insistere sui tagli alle O

FF

ICIA

L W

HIt

E H

OU

SE/F

LIC

KR

Page 45: Internazionale 870

tasse”, in modo che sembrasse un compro-messo bipartisan. E soprattutto ha impara-to che, malgrado i suoi discorsi contro la macchina politica di Washington, se vuole vincere a Washington deve giocare rispet-tando le sue regole. Non basta essere sicuri di avere ragione se nessuno è d’accordo con te. “Con tutto quello che dovevamo afron-tare”, dice, “probabilmente abbiamo pas-sato più tempo a studiare le decisioni poli-tiche giuste che a cercare la strategia giusta. Nella mia amministrazione c’era una for-ma di orgoglio perverso, e me ne assumo la responsabilità: eravamo sicuri che avrem-mo fatto la cosa giusta, anche se a breve termine era impopolare. E nessun presi-dente può ignorare il fatto che il successo dipende da un intreccio di linea politica e strategia, e che non si devono trascurare il marketing, le pubbliche relazioni e l’opi-nione pubblica”.

Questo presumendo che negli ultimi due anni abbia fatto la cosa giusta. Ma il di-battito è aperto. La sinistra pensa che abbia fatto troppo poco, la destra che abbia fatto troppo. Ciò che colpisce nell’autodiagnosi di Obama è che, secondo la sua lettura dei fatti, lui, la fonte di ispirazione del 2008, ha trascurato proprio l’ispirazione dopo essere stato eletto. Non è rimasto in sintonia con gli elettori che l’hanno votato. Li ha delusi tutti: quelli che lo consideravano la perso-niicazione di un nuovo movimento pro-gressista e quelli che si aspettavano che superasse le barriere di partito per aprire un’era postpartisan. Nelle ultime settima-ne di campagna elettorale Obama ha dovu-to fare i conti con il disincanto. Perino She-part Fairey, l’artista che ha realizzato il suo manifesto-icona “Hope”, sta perdendo la speranza.

Forse Obama doveva aspettarselo. Quando ha ottenuto la nomination demo-cratica, nel giugno del 2008, ha detto a una folla in adorazione che un giorno “potremo guardarci indietro e dire ai nostri igli che questo è stato il momento in cui abbiamo cominciato a dare assistenza agli ammalati e posti di lavoro dignitosi ai disoccupati. Il momento in cui l’innalzamento degli ocea-ni ha cominciato a rallentare e il pianeta ha cominciato a guarire, il momento in cui ab-biamo messo ine a una guerra, reso sicuro il nostro paese e restaurato la nostra imma-gine come l’ultima e migliore speranza del-la terra”. Dopo aver letto queste righe a Obama gli chiedo che efetto gli fa la sua altisonante retorica in questi giorni di ordi-

naria amministrazione. “Suona ambizio-sa”, ammette. “Ma sa una cosa? Abbiamo fatto dei progressi su tutti questi fronti”. Cita una frase di Mario Cuomo, l’ex gover-natore di New York: “Le campagne eletto-rali sono poesia, i governi prosa”. “Ma pro-sa e poesia vanno a braccetto”, aggiunge. “Guardando indietro, non si può dire che Obama non abbia mantenuto le sue pro-messe. Credo che si possa dire: ‘Su tanti fronti ha ancora molto da fare’. Ma non di-mentico gli impegni presi: ne abbiamo rea-lizzati più o meno il 70 per cento. E spero di poter lavorare anche sull’altro 30 per cen-to”.

Ma salvare il pianeta? Se prometti di sal-vare il pianeta, come fanno le persone a crederci? Ride, e poi torna a parlare di spe-ranza e di carisma. “Non ho intenzione di scusarmi per aver suscitato grandi aspetta-tive per me e per il paese, perché penso che queste aspettative siano realizzabili”, dice. “L’unica cosa che voglio dire – una cosa che avevo previsto e che può essere dura da di-gerire – è che in una democrazia grande e caotica come questa, qualunque cosa ri-chiede tempo. E la nostra non è una cultura fondata sulla pazienza”.

In questo periodo Obama cerca un’ispi-razione nelle biograie dei presidenti. Sta leggendo, tra l’altro, The Clinton tapes, in cui Taylor Branch racconta le sue interviste segrete con Bill Clinton durante gli otto an-ni della presidenza. “Stavo sfogliando una cronaca degli anni di Clinton”, dice, “e ho visto che nel 1994 – quando il suo gradi-mento era più basso del mio, e le elezioni di metà mandato andarono male per i demo-cratici – la disoccupazione era solo al 6,6 per cento. E nessuno può negare che Bill Clinton fosse un grande comunicatore, che non sapesse entrare in sintonia con gli ame-

Internazionale 870 | 29 ottobre 2010 45

u Il 2 novembre 2010 gli elettori statunitensi voteranno alle elezioni di metà mandato (midterm). Si vota per i 435 seggi della camera dei rappresentanti e per rinnovare 37 senatori e 37 governatori. Attualmente il Partito democratico ha la maggioranza in entrambe le camere. u Secondo un sondaggio di Associated Press e Gk Poll, un terzo degli elettori è ancora indeciso. Il 45 per cento propende per i candidati repubblicani, il 38 per cento per i democratici e il 50 per cento dice che voterà contro il parlamentare in carica. Gli indecisi che vorrebbero aidare ai repubblicani la gestione dell’economia sono il 17 per cento in più di quelli che vorrebbero aidarla ai democratici.

Da sapere

5 ottobre 2010. Nella Green room della Casa Bianca

Page 46: Internazionale 870

Stati Uniti

ricani o che non sapesse immedesimarsi negli elettori”.

In realtà, nell’autunno del 1994 le cose andavano meglio di quanto Obama ricordi: la disoccupazione era al 5,6 per cento. Se il presidente che diceva “sento il tuo dolore” era in diicoltà in una situazione economi-ca decisamente migliore di quella attuale (oggi la disoccupazione è al 9,6 per cento) allora forse il problema di Obama non è la sua freddezza, come dicono certi esperti. Quando l’economia va male, anche il più bravo dei presidenti ha un calo di popolari-tà. “C’è molta diidenza nei confronti della classe politica”, mi ha detto Rahm Ema-nuel, l’ex assistente di Clinton che ino a un mese e mezzo fa era il capo dello staf di Obama alla Casa Bianca. “Ci è semplice-mente capitato di essere qui quando la mu-sica stava inendo”.

Sarebbe una caduta di stile per il presi-dente parlare di un risultato elettorale pri-ma di vedere i dati reali, ma chiaramente Obama spera di ripetere l’exploit di Clin-ton, che si riprese dalla disfatta del partito nelle elezioni di metà mandato del 1994 e due anni dopo riuscì a farsi rieleggere. È strano sentire Obama che si richiama a Clinton. Due anni fa lo derideva per la sua politica prudente e per le sue manovre di triangolazione, paragonandolo in termini

del 2010 rischiava di crollare al 35 per cen-to”, ricorda Ploufe.

Ma anche se tutto era stato previsto, l’amministrazione è traumatizzata. Molti funzionari temono che i giorni migliori del-la presidenza Obama siano initi. Si chiedo-no se sia il momento di cambiare. Anche se il consenso per Obama non è crollato al 35 per cento, secondo i sondaggi del New York Times e di Cbs News, a settembre era sceso al 45 per cento dal 62 per cento del giorno dell’insediamento. Joel Benenson, il son-daggista di Obama, fa notare che perino al 45 per cento la popolarità del presidente è di gran lunga superiore a quella del con-gresso, dei mezzi d’informazione e delle banche. “L’opinione pubblica nutre una profonda diidenza verso tutte le istituzio-ni”, spiega Benenson, “ma il presidente Obama è ancora nettamente al di sopra”. La squadra di Obama è orgogliosa di aver rispettato tre delle cinque grandi promesse fatte dal presidente in un discorso dell’apri-le 2009 all’università di Georgetown, dei-nendole i pilastri della sua “rifondazione”: assistenza sanitaria, riforma dell’istruzio-ne e nuove regole per la inanza. E ricorda che sono stati fatti diversi passi avanti per chiudere la missione in Iraq e allo stesso tempo rilanciare la guerra in Afghanistan. “La storia giudicherà Obama e dirà che i

sfavorevoli a Ronald Reagan. Obama si è candidato contro Hillary Clinton, era l’anti-Clinton. Ora invece spera di essere in qual-che modo il secondo avvento di Bill Clin-ton. Perché comunque è sempre meglio che essere Jimmy Carter.

L’era della mediocrità

Nell’ala ovest non incontro solo Obama, ma anche una ventina di suoi consiglieri, alcuni formalmente autorizzati a parlare, altri no. Quando cerco di capire come valu-tano la situazione, il ritornello è: Obama ha ereditato una situazione più diicile di qua-lunque altro presidente da anni e anni a questa parte. O da generazioni. O nella sto-ria degli Stati Uniti. È riuscito a evitare un’altra grande depressione e allo stesso tempo ha gettato le basi per un futuro più stabile. Ma per farlo ha dovuto prendere iniziative impopolari che dovrà inevitabil-mente pagare.

“Quand’è arrivato qui, le aspettative erano altissime e probabilmente non reali-stiche”, dice Pete Rouse. In efetti, David Axelrod e David Ploufe, gli architetti della campagna presidenziale del 2008, avevano avvertito Obama che dopo la vittoria dove-va prepararsi a una caduta vertiginosa degli indici di gradimento, data la gravità della crisi. “A un certo punto gli dissi che alla ine

46 Internazionale 870 | 29 ottobre 2010

Of

fIC

IAL

WH

ITE

HO

USE

/fL

ICk

R

1 settembre 2010. Con Abu Mazen, Hosni Mubarak e Benjamin Netanyahu nella Blue room della Casa Bianca

Page 47: Internazionale 870

primi due anni della sua presidenza sono stati molto produttivi”, sostiene Rouse.

Ma si può vincere la partita interna e perdere quella esterna. Nei momenti più cupi, lo staf della Casa Bianca arriva addi-rittura a chiedersi se un presidente moder-no può avere successo, a prescindere da quante leggi approva. Tutto sembra sugge-rire di no: l’opposizione è implacabile e non ha intenzione di collaborare, i mezzi d’in-formazione non fanno che proporre bana-lità e conlitti, la cultura dominante preten-de soluzioni per il passato ed è intrisa di un cinismo sociale che ha scarsa considerazio-ne per la leadership. Tra coloro che due an-ni fa proponevano di scolpire una nuova statua a Mount Rushmore per il loro presi-dente, c’è chi ora ammette che dopotutto Obama non potrà essere un altro Abramo Lincoln. Forse in un contesto come quello attuale qualunque presidente può essere al massimo un presidente medio.

“Oggi siamo tutti molto più cinici”, os-serva un collaboratore di Obama. La rispo-sta più facile è dare la colpa ai repubblicani, e alla Casa Bianca lo fanno con grande en-tusiasmo. Ma ripensano anche ai loro erro-ri di giudizio, all’arroganza che li ha portati a illudersi di poter davvero sidare le leggi della politica. “Non è perché davamo retta alla nostra stampa o ai nostri comunicati. All’inizio avevamo la sensazione di poter davvero cambiare Washington”, dice un altro funzionario della Casa Bianca. “Su-perbia non è la parola giusta, ma eravamo troppo sicuri di noi”.

Il più grande errore di calcolo di molti consiglieri di Obama è stato convincersi che il presidente potesse riconciliare una classe politica spaccata e creare coalizioni davvero bipartisan. È vero che i repubblica-ni hanno deciso di tenere una linea intran-sigente nei confronti di Obama, ma molti pensano che i suoi tentativi di conquistare l’opposizione siano stati troppo tiepidi. “Se qualcuno pensava che i repubblicani si sa-rebbero piegati facilmente, è chiaro che aveva torto”, dice l’ex senatore Tom Da-schle, mentore e consigliere esterno di Obama. “Non so se qualcuno lo pensasse veramente, ma in qualche modo sperava-mo che i repubblicani abbandonassero il campo. E ovviamente non l’hanno fatto”.

Per il senatore Dick Durbin, capogrup-po dei democratici al senato e collega an-ziano di Obama in Illinois, il problema è stato la mancanza di spirito bipartisan dei repubblicani. “Il suo destino era segnato”, dice. “Quando i repubblicani hanno deciso di serrare i ranghi per sconiggere Obama, tutto è diventato diicile e tortuoso. Gli sta-

tunitensi hanno una capacità di attenzione piuttosto limitata. Quando li convinci che c’è un problema, vogliono una soluzione”.

Invece Ed Rendell, il governatore della Pennsylvania, pensa che Obama avrebbe dovuto essere più abile con l’opposizione. Il suo voto è severo: “Otto o nove per i risulta-ti concreti e cinque o quattro per la capacità di comunicazione”. Secondo Rendell, la legge sull’assistenza sanitaria è “un risulta-to incredibile” e il programma di rilancio dell’economia è stato “un successo assolu-to, incondizionato ed enorme”, eppure Obama ha permesso che queste vittorie fossero oscurate dalle critiche. “Hanno perso la battaglia della comunicazione sul-le due iniziative più importanti, e l’hanno

persa subito”, dice Rendell, un convinto sostenitore di Hillary Clinton, che poi si è schierato con Obama. “In entrambe le oc-casioni abbiamo usato il carisma del presi-dente solo quando la battaglia d’immagine era persa”.

È un altro ritornello che si sente ripetere spesso alla Casa Bianca: è un problema di comunicazione. La prima giustiicazione di ogni uomo politico in diicoltà è che c’è un problema di comunicazione, e non di linea politica: “Se riuscissi a spiegare meglio quello che volevo fare, le persone sarebbe-ro più comprensive”. Che si può liberamente tradurre come: “Se foste più attenti a quello che fac-cio, non mi prendereste a calci in faccia”. Quando chiedo al porta-voce della Casa Bianca, Robert Gibbs, se secondo lui c’è stato un problema di comunicazione, si mette a ridere. “Sono venti mesi che non partecipo a una riunio-ne per discutere di un problema politico”, dice.

Il bicchiere mezzo vuoto

Le critiche a Obama possono essere confu-se e contraddittorie: secondo la destra è un estremista di sinistra, secondo la sinistra è arrendevole e incline al compromesso. È un socialista anticapitalista troppo vicino a Wall street, un sostenitore dell’America de-bole in materia di difesa, che ha mantenuto il programma antiterrorismo di Bush senza tutelare i diritti civili.

“Quando diceva di essere il presidente

del cambiamento, intendeva dire che il po-polo americano doveva ritrovare la iducia nelle istituzioni”, spiega Ken Duberstein, l’ex capo di gabinetto di Reagan alla Casa Bianca, che nel 2008 ha votato per Obama. “Ora sappiamo che non ha funzionato. Semmai oggi le persone sono ancora più diidenti, soprattutto nei confronti del go-verno. Perciò da questo punto di vista il cambiamento non ha funzionato. E onesta-mente penso che questa fase si debba chiu-dere: dimentichiamo il cambiamento e proviamo con un presidente operativo, qualcuno con cui le persone possano trova-re un accordo. C’è stata una specie di rigidi-tà ideologica che gli elettori non hanno ca-pito”.

C’è anche chi vorrebbe maggiore rigidi-tà ideologica. Norman Solomon, attivista progressista e presidente dell’Institute for public accuracy, dice che Obama “ha com-pletamente bruciato la grande opportuni-tà” di reinventare gli Stati Uniti perché non è stato abbastanza aggressivo su questioni come l’assistenza sanitaria pubblica. Altre personalità della sinistra americana la pen-sano esattamente allo stesso modo sul pro-blema dei gay nelle forze armate o su Guan-tánamo. “Da quando è stato eletto, è stata tutta una rilessione: e continua a perdere terreno”, dice Solomon. “Non diciamo che è un incapace perché sarebbe sbagliato, pe-rò sembra procedere a marcia indietro”. E aggiunge: “I cittadini sono arrabbiati e si sentono strumentalizzati. È come se dices-sero: accidenti, credevamo in quest’uomo e ora che è presidente si comporta in modo così diverso da quello che diceva”.

Incalzato su due fronti, Oba-ma sembra frustrato e, a volte, sulla difensiva. A un’iniziativa per la Festa del lavoro, a Milwau-kee, ha accusato i poteri forti di trattarlo male. “Non sempre so-

no contenti di me”, ha detto ai suoi sosteni-tori. “Parlano di me come di un cane – que-sto non era nel testo del discorso, ma vi dico che è vero”.

Il fuoco amico forse lo preoccupa anco-ra di più. “I democratici tendono per natura a vedere il bicchiere mezzo vuoto”, ha di-chiarato di recente a un evento per la rac-colta di fondi a Greenwich, nel Connecti-cut. “Riusciamo a far passare una legge storica sull’assistenza sanitaria, ma... co-me, l’opzione pubblica non c’è più? Riu-sciamo a far passare la legge sulla riforma inanziaria però, mhm, quella particolare norma sui derivati, non sono sicuro di es-serne soddisfatto. E, accidenti, non abbia-mo ancora ottenuto la pace mondiale: pen-

Internazionale 870 | 29 ottobre 2010 47

Quando i repubblicani hanno deciso di serrare i ranghi, tutto è diventato diicile

Page 48: Internazionale 870

Stati Uniti

savo che ci volesse meno tempo”.Ma ancora una volta è Obama stesso, e

non solo i suoi sostenitori, a presentare la sua presidenza in termini grandiosi. Due settimane dopo l’evento nel Connecticut, a un’altra raccolta di fondi ha chiesto ai de-mocratici di avere pazienza: “C’è voluto tempo per liberare gli schiavi. C’è voluto tempo perché le donne ottenessero il voto. C’è voluto tempo perché i lavoratori otte-nessero il diritto di organizzarsi”.

Una mattina, quando si avvicinavano i primi cento giorni dell’amministrazione, Obama era in riunione con i suoi principali consiglieri nello studio ovale. Mentre aspettavano David Axelrod, che era in ri-tardo, qualcuno aveva accennato all’immi-nente ricorrenza chiedendo a Obama cosa l’avesse stupito di più da quando aveva as-sunto l’incarico. “Il numero di persone che non pagano le tasse”, aveva risposto ironi-co.

Fin dall’inizio, Obama è stato colto di sorpresa da una serie di side che l’hanno messo in diicoltà: non solo i grandi pro-blemi che conosce, come l’economia e le guerre, ma anche una miriade di piccole questioni, a cominciare dalle nomine a cui ha dovuto rinunciare perché si è scoperto che i candidati non pagavano le tasse. Oba-ma si idava della sua capacità di giudizio e sembrava dare per scontato che gli espo-nenti più rappresentativi del suo partito fossero onesti, e che gli esponenti più rap-presentativi dell’altro partito volessero la-vorare con lui.

La retorica del cambiamento

Quattro dei cinque presidenti che hanno preceduto Obama erano governatori arri-vati alla Casa Bianca con la promessa di trasformare Washington, e tutti hanno do-vuto rendersi conto che Washington sida la facile e spesso vuota retorica del cambia-mento. Anche se era senatore e non gover-natore, Obama ha fatto le stesse promesse e ha incontrato la stessa realtà. “I primi due anni della sua presidenza sono la storia di un uomo che arriva da fuori per cambiare Washington, e trova una situazione peggio-re di quanto immaginasse”, dice un consi-gliere. “All’improvviso l’uomo si rende conto che per afrontare questi problemi deve lavorare con Washington”.

Obama non si sforza troppo di nascon-dere il suo disprezzo per Washington e le convenzioni della politica moderna. I colla-boratori dicono che durante il giorno, quan-do emerge dallo studio ovale, a volte si fer-ma davanti al televisore nella zona di rice-vimento, s’immerge nelle cable chatter (le

sciocchezze via cavo, come le ha deinite una volta), poi scuote la testa e si allontana. “Non si sente ancora a suo agio qui”, com-menta un alto funzionario della Casa Bian-ca. Ha poca pazienza per quelle che Valerie Jarrett, consigliera anziana, deinisce “le inevitabili messe in scena di Washington”.

Ma in politica, che sia giusto o meno, il teatro conta, e questa è una lezione che Obama continua a imparare, anche se a denti stretti. La decisione di cambiare l’ar-redamento dello studio ovale è stata criti-cata come un lusso superluo in tempi di austerità, anche se la ristrutturazione è sta-ta pagata con fondi privati. Durante la cam-pagna elettorale pensava che fosse sciocco

mettersi una spilla con la bandiera statuni-tense in segno di patriottismo, ma è stato aspramente criticato e un bel giorno ha do-vuto decidersi a indossarne una. Pensava che durante la permanenza alla Casa Bian-ca potesse limitarsi a pregare in privato, inché un sondaggio ha rivelato che la maggioranza dei cittadini americani si chiedeva se fosse cristiano. Qualche settima-na dopo ha assistito alle funzioni della St. John Church, dall’altra parte di La-fayette square, con i fotograi al seguito.

Quando è stato eletto Obama aveva un’enorme fiducia nella sua capacità di persuasione. Sembrava convinto di poter superare le divisioni semplicemente se-dendosi accanto ai personaggi più irremo-vibili del mondo, che fossero i mullah di Teheran o i repubblicani di Capitol Hill. Ma il candidato che voleva incontrare “senza precondizioni” i nemici degli Stati Uniti nel primo anno della sua presidenza, di fatto non ne ha incontrato nessuno. E il presi-dente che nel discorso sullo stato dell’unio-ne di quest’anno ha promesso di riunirsi mensilmente con i leader di entrambi i par-titi ha inito per farlo solo la metà delle vol-te.

Obama deve ancora decidere una volta per tutte se fa parte di Washington o no. Durante il dibattito sulla riforma sanitaria ha voluto che Emanuel stringesse accordi con l’industria farmaceutica, mentre Axel-rod lo presentava come un uomo al di sopra dei soliti giochi. “Forse siamo stati inge-nui”, dice Axelrod, “ma Obama ha sempre

avuto buoni rapporti con gli esponenti di entrambi i partiti. E poi probabilmente pensava che nel bel mezzo di una crisi, an-che nello schieramento avversario si potes-sero trovare dei partner disposti a dare una mano per superare la situazione. Credo che nessuno si aspettasse il livello di faziosità con cui ci siamo scontrati”. Emanuel dice che i repubblicani hanno adottato la strate-gia di avvelenare il pozzo: “Non si accon-tentavano di farci sgolare, volevano esaspe-rare il paese”.

Ma anche Obama sa essere fazioso. Do-po mesi di negoziati segreti, alcuni funzio-nari dell’amministrazione pensavano di essere vicini a un pacchetto di nuove norme inanziarie da approvare insieme ai repub-blicani quando, con loro grande disappun-to, la Casa Bianca ha deciso di usare la que-stione per combattere una battaglia politica di alto proilo contro i poteri forti di Wall street. A quel punto le possibilità di un ac-cordo bipartisan sono crollate e Obama ha potuto contare quasi esclusivamente sui voti dei democratici.

I consiglieri di Obama che hanno lascia-to la Casa Bianca negli ultimi mesi sono ri-masti colpiti da come sembra diversa, e peggiore, la situazione vista dall’esterno.

Dopo aver lasciato la carica di ca-po dell’uicio bilancio della Casa Bianca, Peter Orszag ha cercato lavoro come dirigente d’azienda, e si è stupito di quanto sia profon-da la spaccatura tra il presidente

e il mondo imprenditoriale. “Invece di per-dere tempo a discutere se sia legittima”, ha aggiunto riferendosi ai suoi ex colleghi, “dovrebbero ammettere che sta pesando su quello che fanno”.

L’isolamento è una maledizione di ogni presidente, ma più di ogni altro presidente dopo Jimmy Carter, Obama dà l’impressio-ne di essere introverso, un uomo che trova logoranti i contatti prolungati con gruppi di persone al di fuori della sua cerchia ristret-ta. Sa entusiasmare uno stadio di 80mila persone, ma quel pubblico è una massa im-personale. Le situazioni con gruppi più pic-coli possono essere diicili per lui. I suoi uomini hanno imparato che dopo un even-to importante nella East room è meglio concedergli qualche momento, per dargli il tempo di ritrovare la sua energia. A dife-renza di Clinton, che non ha mai perso un’occasione per stringere mani e ricam-biare saluti, Obama non apprezza gli ap-procci troppo calorosi. Per questo c’è il vi-cepresidente Joe Biden. Quest’anno, quan-do è intervenuto alla Business roundtable, l’associazione degli amministratori delega-

48 Internazionale 870 | 29 ottobre 2010

Obama deve ancora decidere una volta per tutte se fa parte di Washington o no

Page 49: Internazionale 870

ti delle principali aziende statunitensi, se n’è andato subito dopo il discorso senza tanti convenevoli e con grande delusione dei suoi collaboratori, convinti che si fosse fatto più male che bene. A Obama non pia-ce fermarsi a fare quattro chiacchiere. Quando ci mettiamo seduti, comincia la nostra conversazione in modo molto pro-saico: “Forza, cominci”.

A detta di tutti, Obama afronta le dii-coltà politiche con equilibrio. “Zen” è il ter-mine usato abitualmente nell’ala ovest. Questo non vuol dire che non perda mai la pazienza. È risaputo che tratta con durezza i suoi collaboratori quando pensa di avere troppi impegni. Toglie la parola di bocca ai consiglieri che danno informazioni riprese pari pari dai rapporti: “Questo l’ho già let-to”, dice stizzito. Non vuole che i collabora-tori escano dal campo assegnato, ma tutti hanno imparato a presentarsi alle riunioni con un’opinione, perché il presidente pren-de di mira chi rimane in silenzio. Era molto avvilito nei giorni del disastro petrolifero nel golfo del Messico, quando si è reso con-to di essere quasi impotente. Gli altri presi-denti spesso si rifugiavano a Camp David, ma Michelle Obama ha detto ai suoi ospiti che il marito non apprezza particolarmente quella tenuta perché ama la città. Scarica la tensione nel campetto da basket della Casa Bianca: “Dai, forza, fallo quel tiro”, dice ai collaboratori che giocano con lui.

Il segno più evidente della tensione è nei capelli. “Probabilmente non gli piacerà che lo dica, ma mi sono accorto che è di-ventato un po’ più grigio”, mi ha detto il se-gretario alla difesa Robert Gates. “Certe decisioni fanno questi scherzi”. Ma lo stress del lavoro rimane per lo più inespresso. “Di solito parliamo delle lettere di condoglian-ze da scrivere”, ha aggiunto Gates. “Non ci soffermiamo su certe cose”. Semmai è Obama a incoraggiare i membri più giovani dello staf, ricordandogli che la politica, co-me la vita, è fatta di cicli, e che un giorno potranno raccontare ai igli di aver parteci-pato a qualcosa di grande.

Mentre Clinton telefonava nel cuore della notte a mezza Washington per dare o chiedere consigli, Obama raramente si al-lontana dal gruppo ristretto di consiglieri: Rahm Emanuel, David Axelrod, Peter Rou-se, Jim Messina, David Plouffe, Robert Gibbs e Valerie Jarrett, più una manciata di amici intimi. “È riservato perino con noi”, dice un assistente. “Fatta eccezione per al-cune persone che gli sono particolarmente vicine, è un libro chiuso”. Anche per proble-mi di sicurezza, solo quindici persone han-no l’indirizzo email del suo BlackBerry. Nei

lunghi voli sull’Air Force One, Obama si ri-tira nella sala conferenze e gioca a carte facendo contemporaneamente a gara di insulti con tre collaboratori: Reggie Love, il suo assistente personale, Marvin Nichol-son, l’organizzatore dei suoi viaggi, e Pete Souza, il fotografo della Casa Bianca. Quando gli chiedo se ha un iPad, risponde: “Ho un iReggie, che ha tutti i miei libri, i miei giornali e la mia musica in un solo po-sto”.

Valerie Jarrett attribuisce l’equilibrio di Obama alla sua educazione. “È veramente diverso”, dice. “Ha una particolare coscien-za di sé che deriva dal fatto di essere cre-sciuto con una madre sola, di aver vissuto anche di buoni alimentari per i poveri e di aver lavorato come organizzatore nei grup-pi sociali di Chicago”. Come dice Gibbs:

“Ha un’impressionante capacità di con-centrarsi sul quadro d’insieme e sul lungo periodo. Con questo non voglio dire che non sia criticabile. Ma sa distinguere tra una battuta d’arresto, un incidente di per-corso e il semplice chiasso”.

E il chiasso sicuramente non manca. Ma in campagna elettorale i suoi uomini hanno visto tornare l’energia di un tempo. Obama apprezza particolarmente le cosiddette ba-ckyard session, gli incontri con i sostenitori sul prato di casa. “Non lo vedevo così felice da molto tempo”, dice un collaboratore. Dopo uno di questi incontri, Obama gli ha detto: “Mi ricorda l’Iowa in autobus”.

Tutti i presidenti, quando sono in dii-coltà, hanno nostalgia dei bei tempi della campagna elettorale. Dopo tutto, quelli erano i momenti dei sogni, quando tutto

Internazionale 870 | 29 ottobre 2010 49

OF

FIC

IAL

WH

ITE

HO

uSE

/FL

ICk

R (2

)

21 settembre 2010. Sotto il colonnato della Casa Bianca

11 ottobre 2010. Nello studio ovale

Page 50: Internazionale 870

Stati Uniti

era possibile, quando migliaia di persone si riunivano a Grant park, a Chicago, per commuoversi davanti alla promessa di un futuro diverso. Ma nei momenti di lucidità, Obama si rende conto di quanto siano se­lettivi quei ricordi. “In qualche modo si è creato il mito che la nostra campagna elet­torale sia stata impeccabile, che io non ab­bia mai fatto errori, che eravamo maestri della comunicazione, che tutto sia andato liscio come l’olio”, dice. “E ora che sono presidente e le cose sembrano confuse e non sempre funzionano come previsto, le persone sono furibonde. Ma ricordo bene com’è andata la campagna: è stata altret­tanto caotica e altrettanto diicile. E ci so­no stati momenti in cui i nostri sostenitori hanno perso la speranza, e sembrava che non potessimo vincere. Ora stiamo attra­versando una fase simile”.

Ho seguito gli ultimi tre presidenti e ho visto come ognuno di loro sia stato messo alla prova, anche se in circostanze molto diverse: Bill Clinton dall’impeachment per aver mentito sulla sua relazione con una stagista della Casa Bianca, George W. Bush dalla volontà di cominciare una guerra che si sarebbe trascinata per anni con costi enormi e Barack Obama dallo sforzo di in­vertire la rotta della peggiore crisi econo­mica dai tempi della grande depressione. Anche se le situazioni non sono paragona­bili, alcune dinamiche rimangono identi­che. Presidenti che vivono e muoiono per i sondaggi sono pronti a sostenere che non signiicano nulla appena i numeri scendo­no un po’. Continuano a ripetere che i prin­cìpi vengono prima della strategia politica, ma in realtà è quasi sempre un misto delle due cose. Riconoscono le diicoltà ma giu­rano che passeranno. Si deiniscono corag­giosi quando sidano l’opinione pubblica e si lamentano perché i mezzi d’informazio­ne distorcono la situazione e alimentano le divisioni. Accusano gli avversari di essere distruttivi.

Parlando con Obama e i suoi collabora­tori, si sentono strani echi di Clinton e Geo­rge W. Bush. Obama dice che le questioni semplici non le conosce, a lui arrivano solo quelle diicili, come diceva Bush. Dice che la guerra al terrorismo non inirà con una resa solenne, e di non voler ignorare i pro­blemi. Bush diceva spesso le stesse cose. Prima delle elezioni di medio termine del 1994, Clinton prendeva in giro i repubbli­cani perché promettevano di ripianare il bilancio e tagliare le tasse allo stesso tem­po: “Non sono seri”, ripeteva. Nel corso della nostra conversazione, Obama ha usa­to quattro volte una variante della frase

“non sono seri” riferendosi ai piani di bi­lancio dei repubblicani.

Questo non vuol dire che i tre presidenti si somiglino. Sono persone completamente diverse. Ma a parte l’ideologia, Obama a volte sembra un incrocio tra Clinton e Bush. Come Clinton, gli piace approfondire gli aspetti intellettuali di una decisione politi­ca, studiando tutte le informazioni dispo­nibili e sollecitando opinioni diverse. Alcu­ni nel suo staf non approvano che lasci le decisioni irrisolte per troppo tempo. Ma, come Bush, una volta che ha preso una de­cisione raramente ci torna sopra. E porta avanti i suoi impegni in modo piuttosto di­sciplinato: fa cominciare la nostra intervi­

sta mezz’ora prima dell’ora issata, proprio come a volte faceva Bush. Bill Clinton, in­vece, segue ancora il fuso orario di Clinton: poche settimane fa si è presentato con più di sei ore di ritardo a un appuntamento per un’intervista. Una costante di tutti e tre: ci hanno messo un po’ di tempo a crescere e a indossare comodamente i panni del presi­dente.

Completare il quadroObama è ottimista sulla possibilità di lavo­rare insieme ai repubblicani dopo le elezio­ni. “Può darsi che dopo questo voto si sen­tiranno più responsabili”, osser­va. “O perché non sarà andata bene come si aspettano, e questo vorrà dire che la strategia di dire sempre no e starsene in panchina a lanciare bombe non ha funzio­nato, oppure perché sarà andata ragione­volmente bene e gli elettori si aspetteranno proposte serie e la volontà di lavorare seria­mente con me”.

Ma anche se quest’alleanza diventerà una realtà, nei prossimi due anni l’ammini­strazione dovrà soprattutto consolidare e difendere quello che Obama ha fatto ino­ra. “Anche se dovessi avere esattamente lo stesso congresso, anche se non perdessimo un seggio, il ritmo dei prossimi due anni sarà inevitabilmente diverso da quello dei primi due”, dice Obama. “Ci sarà un sacco di lavoro da fare solo per far funzionare le cose e per essere sicuri che le nuove leggi vengano applicate”.

Come dice uno dei principali consiglie­

ri: “A meno che non scoppi una crisi, ci sa­ranno ben pochi stimoli a fare grandi cose nei prossimi due anni”. Eppure Obama e i suoi collaboratori criticano ancora la caute­la di Clinton. “È ragionevole ipotizzare che non si potrà perdere tempo nei prossimi due anni”, dice Ploufe. “Obama non ha intenzione di giocare ai quattro cantoni”. Prima di andarsene, Emanuel mi dice: “Bi­sogna fare qualcosa. Bisogna avere una li­sta delle priorità”.

Ma che genere di lista? Non così ampia e non così provocatoria, dicono alcuni consi­glieri. “Dovrà essere limitata, concentrarsi su quello che è realistico fare e sulle priorità del popolo americano”, dice Dick Durbin. Tom Daschle pensa che Obama dovrà cer­care l’appoggio degli avversari. “La parola chiave è ‘inclusione’. Deve trovare il modo di essere inclusivo”.

Rendell la pensa diversamente. “Non preoccupatevi troppo dello spirito biparti­san se i repubblicani continuano a riiutarsi di collaborare”, consiglia. “Fate quello che dovete fare. Rispondete combattendo”. Al­lo stesso tempo dice che bisogna smetterla di lamentarsi per la situazione ereditata. “Dopo queste elezioni, non dobbiamo più guardare indietro. Basta dare la colpa all’amministrazione Bush. A forza di ripe­terlo, sembriamo un disco rotto. E dopo due anni siamo noi i padroni”.

Obama resterà il padrone per altri due anni, o sei se troverà il modo di andare avanti. Quando scrive, Obama apprezza il ritmo di un storia movimentata. Ma chi è il protagonista in realtà? In fondo questo pre­sidente è ancora un mistero per molti statu­

nitensi. Durante la campagna elettorale ha venduto se stesso – o l’idea di se stesso – piuttosto che una politica precisa, e gli elettori hanno completato il quadro co­me meglio credevano. Era, come

disse una volta, un grande test di Ror­schach.

Ora il quadro continua a completarsi. Dopo ogni scelta, l’immagine di Obama migliora o peggiora nella mente degli sta­tunitensi. Dice di sapere dove sta andando e di voler acquistare velocità malgrado gli ostacoli che lo aspettano. La primavera scorsa, nella settimana in cui il congresso ha approvato la riforma sanitaria e l’ammi­nistrazione ha raggiunto un accordo per un trattato sul controllo delle armi con la Rus­sia, ha detto a un gruppo di visitatori: “Io comincio piano, ma inisco forte”.

E dovrà farlo, se vuole che la storia che sta scrivendo vada nella direzione che vuo­le lui. u gc

50 Internazionale 870 | 29 ottobre 2010

In fondo questo presidente è ancora un mistero per molti statunitensi

Page 51: Internazionale 870

Di nuovo in edicola

Page 52: Internazionale 870

52 Internazionale 870 | 29 ottobre 2010

Economia

Donald St. Pierre senior ha fondato l’Asc ine wi­nes a Pechino nel 1996, insieme al iglio Donald St. Pierre junior, che tutti chiamano Don ju­

nior. A quell’epoca i St. Pierre non erano né produttori di vino né sommelier. Il padre, che da giovane aveva lavorato nel settore automobilistico a Detroit, a Pechino e in altre città, era più il tipo che apprezzava “un hot dog e un bicchiere di bourbon”, per usa­re le parole di un suo ex collega. Ma i due sapevano vendere. Nel corso degli anni i St. Pierre hanno venduto – o preso in conside­razione l’idea di vendere – prodotti per neo­nati, maschere antigas, fotocopiatrici, guanti da golf, rottami di ferro, biancheria, zucchero, pistacchi e munizioni cinesi e russe.

Quando hanno cominciato a importare vino, dopo aver acquistato una società di Hong Kong chiamata Asia solutions corpo­ration, hanno creato anche un loro prodot­to. La famiglia era originaria del Canada, ma St. Pierre ha pensato: “Sfruttiamo il no­stro cognome francese”. Così è nato lo Château St. Pierre, un vino rosso california­no imbottigliato da una fabbrica di Pechino. Sull’etichetta c’era il disegno di un castello che gli importatori avevano copiato da un libro. Una bottiglia costava 45 yuan, meno di sei dollari.

Quasi tutto quello che St. Pierre sapeva sul vino lo aveva imparato bevendolo. Da quel punto di vista era molto preparato, ma

dopo aver messo tutti i risparmi della sua vita in quell’impresa, ha scoperto che non aveva più nulla. “Quell’idea geniale che avevamo avuto non era stata poi così genia­le”, dice Don junior. I cinesi non erano mol­to interessati al vino.

Un giorno St. Pierre ha ordinato una bottiglia in un ristorante di Pechino e si è accorto che i camerieri si sforzavano di stapparla con un apriscatole. A quel punto ha cominciato a regalare cavatappi. Due anni dopo, quando padre e iglio sono anda­ti a Bor deaux per il Vinexpo, la più grande iera di vini del mondo, nessuno li ha presi molto sul serio.

Alcune regioni della Cina si trovano sul 45° parallelo, alla stessa latitudine di Bor­deaux, e il paese produce una piccola quan­

tità di vino dai tempi della dinastia Han, ma il vino non è mai stato una bevanda popola­re. Molti cinesi lo chiamano il liquore rosso, per distinguerlo dal liquore bianco o baijiu, un fortissimo distillato di cereali che è mol­to più difuso. Per decenni le enormi azien­de vinicole statali avevano mescolato l’uva con prodotti chimici e coloranti, e il risulta­to aveva fatto passare la voglia di bere vino ai pochi cinesi che avevano osato assaggiar­lo.

Ma da quando la Cina ha cominciato ad aprire i suoi mercati, le prospettive del com­mercio di vino sono migliorate. Il ministero dell’agricoltura stava cercando di svezzare la popolazione dal baijiu per poter destinare i cereali all’alimentazione invece che alla produzione di alcol. Nel 1996 il consiglio di stato ha vietato il consumo di baijiu ai ban­chetti uiciali. La Cina si stava anche pre­parando a entrare nell’Organizzazione mondiale del commercio, e questo avrebbe comportato una riduzione dei dazi sulle im­portazioni, facendo scendere il prezzo dei vini stranieri.

I cinesi di solito diluivano il vino con le bibite analcoliche (secondo un detto popo­lare, “vino rosso e Sprite, più ne bevi e più diventi dolce”). Ma i ragazzi la considerava­no un’abitudine da cafoni e tra i produttori di vino stranieri qualcuno aveva cominciato a pensare che la sempre più numerosa bor­ghesia cinese avrebbe potuto imparare ad apprezzare il vino per apparire più rainata, come avevano fatto gli statunitensi negli anni sessanta.

Bianchi e rossiinvadono la Cina

Evan Osnos, The New Yorker, Stati Uniti

La nuova borghesia cinese comincia ad apprezzare il vino. Le importazioni sono in continua crescita e nascono scuole per intenditori. Il merito è di due imprenditori canadesi. L’inchiesta del New Yorker

u Nel corso del 2009, in piena crisi economica, il consumo di vino è diminuito quasi ovunque nel mondo, con ripercussioni sulla produzione. In Cina, invece, tra gennaio e luglio dello stesso anno la produzione vinicola è aumentata del 40,8 per cento, raggiungendo le 418mila tonnellate. u Secondo le ultime ricerche di Vinexpo, entro il 2012 la Cina diventerà il settimo consumatore mondiale di vino, con un milione di bottiglie all’anno. Le città dove si beve di più vino sono Pechino, Shanghai, Guangzhou, Shenzhen e Chengdu. La Francia è il primo paese esportatore di vino in Cina.

Da sapere

Page 53: Internazionale 870

Internazionale 870 | 29 ottobre 2010 53

Alla fine del 1998 St. Pierre ha avuto un’idea: una confezione regalo per il capo-danno cinese con due bottiglie di vino e un paio di slip da donna che si intravedevano da un riquadro di cellophane. I suoi dipen-denti gli hanno fatto notare che la Cina non era ancora pronta per questo e gli hanno suggerito di metterci una cravatta all’occi-dentale, che stava diventando di moda. St. Pierre si è accordato con una fabbrica che gli ha fornito uno stock di cravatte a 60 cen-tesimi l’una. Ha preparato 200 confezioni regalo e le ha mandate a PriceSmart, una catena di supermercati di Pechino e Shanghai. “Il primo giorno che le hanno messe in vendita, sono andate tutte esauri-te”, ricorda. “Niente male”. Prima che inis-sero le feste l’Asc aveva venduto duecento-mila scatole. L’anno dopo e quello successi-vo l’iniziativa promozionale è stata ripetuta. “È stata la nostra salvezza”, dice St. Pierre.

A sessantotto anni St. Pierre ha i capelli grigio-biondi, la barba e la voce arrochita dal fumo. Gli piacciono i vestiti costosi e le cravatte larghe, uno stile vistoso che ricorda i tempi d’oro del suo vecchio capo alla Chry-sler, Lee Iacocca. Gli uomini della sua gene-razione e della sua classe sociale preferisco-no non accendersi da soli la sigaretta se c’è una cameriera disposta a farlo in cambio di

una strizzatina d’occhio. “Lui e mia madre non hanno mai risparmiato un centesimo”, dice il iglio. “Non voglio neanche pensare quante volte hanno rischiato di restare sen-za i soldi per pagarmi la scuola. Non è che giocasse d’azzardo. Spendeva i soldi per noi. Si godeva la vita. È uno di quelli che se hanno mille dollari in tasca si sentono dei signori e li spendono per una buona cena”.

Non è raro, di sera, trovare St. Pierre sul secondo sgabello a sinistra del bar del Capi-tal Club, un locale esclusivo che accoglie sia cinesi sia stranieri al cinquantesimo piano di un grattacielo da cui si vede un ampio pa-norama di Pechino. Qualche anno fa ha tro-vato una cinese di nome Zhu Wen seduta al suo posto e la prima cosa che le ha detto è stata: “Sono Don St. Pierre. Lo chieda a chiunque. Quel posto è mio”. Lei lo ha man-dato a quel paese. Due anni dopo si sono sposati. Il primo matrimonio di Don, durato 39 anni, era inito nel 2004.

Il segreto del suo successoQualche tempo fa, quando ci siamo incon-trati in quel bar, quasi tutti quelli che passa-vano si fermavano a salutarlo. “Come stai, stronzo?”, rispondeva con un sorriso, e per lui era un complimento. Questo atteggia-mento aggressivo emerge anche nel suo

unico hobby, il golf. Nel 1997, durante un torneo di beneicenza, accusò la squadra avversaria di barare. Il gruppo era compo-sto da quattro alti funzionari del Partito co-munista, tra cui un generale dell’esercito e il presidente di una grande fabbrica di armi. I suoi amici lo invitarono a lasciar perdere, ma lui prima di farlo alzò il dito medio e dis-se: “Andate a farvi fottere, imbroglioni!” (le sue proteste convinsero gli organizzatori del torneo a dare alla sua squadra una quota del premio). Ho chiesto a St. Pierre se non ha mai pensato di essere troppo aggressivo. Ha aggrottato la fronte e mi ha risposto: “Che signiica troppo aggressivo? Devi far fuori i tuoi avversari o no?”.

Con la sua tattica, l’Asc è diventata la più grande importatrice di vino in Cina e i suoi profitti superano i 70 milioni di dollari all’anno. Jancis Robinson, un famoso esper-to londinese, ha scritto che i St.Pierre han-no raggiunto “una posizione nel mercato del vino cinese pari a quella dei Gallo negli Stati Uniti”. “È stata l’Asc a introdurre il vi-no in Cina”, dice Patricio de la Fuente Saez, un importatore rivale. “Sono stati loro i pio-nieri. Hanno fatto un lavoro incredibile. Probabilmente senza l’Asc metà dei cinesi che oggi bevono vino non lo comprerebbe-ro”.

CH

INA

PH

ot

o/R

eU

te

RS/

Co

Nt

RA

Sto

Cameriere si esercitano davanti al ristorante dove lavorano a Weinan, nella provincia dello Shaanxi

Page 54: Internazionale 870

Economia

54 Internazionale 870 | 29 ottobre 2010

Nel 1998 Gernot Langes-Swarovski, l’erede dell’impero del cristallo austriaco, ha comprato il 49 per cento delle azioni del-la società (in seguito è arrivato al 70 per cento), e l’Asc ha usato quei soldi per espan-dersi. Nel 2001 sono arrivati i primi proitti. I St. Pierre hanno approittato delle dimen-sioni della loro azienda per attirare le eti-chette più prestigiose sottraendole ai loro concorrenti. Gli importatori di vino stavano aumentando, oggi sono più di mille, ma nel frattempo l’Asc aveva irmato accordi con più di cento fornitori.

La concorrenza era ormai così forte che, a volte, somigliava a una guerra: i dipen-denti dell’Asc raccoglievano informazioni sulle navi sospette che attraversavano il Pa-ciico per scoprire se c’erano ditte che com-pravano un carico di vino e lo mandavano in Cina aggirando gli importatori locali.

Dal 2004 al 2008 i proitti dell’Asc sono cresciuti in media del 46 per cento l’anno. L’azienda è cresciuta così rapidamente che Campbell Thompson, ex responsabile del marketing, dice: “Gran parte del lavoro consisteva nel cercare di non farsi prendere la mano”. Il Château Latour è un Bordeaux molto richiesto e nel 2007 i St. Pierre ne hanno comprato più di chiunque altro al mondo.

Poi, il 6 marzo del 2008, l’uicio per la prevenzione del contrabbando delle doga-ne cinesi ha avviato un’indagine sugli im-portatori di vino perché sospettava che “fal-siicassero i prezzi”. I suoi agenti hanno co-minciato a perquisire tutte le ditte per con-trollare anni di documenti alla ricerca delle prove che gli importatori abbassavano il prezzo dichiarato dei vini per pagare meno tasse doganali. Anche la Asc ine wines, che aveva trasferito la sua sede a Shanghai, è stata presa di mira. Negli ultimi tempi era Don junior, che ormai aveva 42 anni ed era padre di due igli, a occuparsi quotidiana-mente della società di cui era diventato l’amministratore delegato. Gli piaceva in-dossare abiti fatti su misura, occhiali di tar-taruga e, ogni tanto, un paio di pantaloni rosso vivo. Aveva conosciuto sua moglie

Monica Xu, originaria di Shanghai, a una presentazione di vini, e i loro igli erano bi-lingui. Rispetto a suo padre era più sobrio, ma mascherava la sua forza.

“Non ho mai conosciuto nessuno così determinato”, dice Joel Thevoz, che ha stu-diato con lui alla George Washington uni-versity. L’uicio di Don junior era meticolo-samente ordinato ma allegro, pieno di calici a stelo e costose bottiglie di vino. Di solito era lì alle otto di mattina, ma per caso il giorno in cui sono arrivate le autorità doga-nali non c’era. Poco dopo la loro visita, lo hanno invitato a presentarsi per fargli qual-che domanda. Due giorni dopo, quando è tornato a Shanghai, ha chiesto al suo autista di portarlo all’uicio della dogana.

Da lì, è stato portato al centro di detenzione di Shanghai e mes-so in una cella con altre cinque persone: tre cinesi, un uomo di Hong Kong e un nigeria-no. Due aspettavano di essere processati per reati violenti. Don St. Pierre ha contat-tato i suoi amici inluenti per chiedere aiuto. Ha scritto una lettera aperta all’esperto lon-dinese Jancis Robinson in cui, a proposito di suo iglio, diceva: “Mi è stato assicurato che nel giro di pochi giorni tornerà nel suo ui-cio e questa storia farà la stessa ine di tante altre che mi sono capitate nei 22 anni che ho passato in Cina. Sarà dimenticata”. Donald St. Pierre è nato su un’isola del iume Otta-wa, in una fattoria senza elettricità, riscal-damento né acqua corrente. D’inverno la famiglia dormiva in cucina per stare vicino alla stufa. Quando Don aveva nove anni,

suo padre, un installatore idraulico, trovò lavoro a Windsor, nell’Ontario, sulla spon-da canadese del iume davanti a Detroit. Il suo primo impiego fu all’uicio corrispon-denza della Ford. Di sera seguiva le lezioni di scienze politiche ed economia all’Henry Ford community college dell’università di Windsor, ma non si laureò mai.

A diciannove anni, conobbe a una festa Patricia Collison, un’aspirante hostess di Windsor che se l’era svignata da un ballo della Ywca. “Faceva progetti per il futuro più di tutti gli altri miei amici”, racconta Collison. “Era così sicuro di sé e diceva che se avessi avuto iducia in lui, ci saremmo divertiti molto insieme”. Quattro anni dopo si sposarono. Lei era hostess di terra alla Pan Am, mentre lui si faceva strada nella Ford. Ebbero un figlio, Don junior, e nel 1976 si trasferirono a Detroit.

Nel 1982 St. Pierre era già responsabile delle forniture per il reparto esteri della Je-ep all’American Motors e la società lo man-dò in Indonesia. A Jakarta Don junior, che all’epoca frequentava le scuole superiori, fu conquistato dall’Asia. Adorava Tai Pan, il

romanzo di James Clavell sulle imprese di un mercante di Hong Kong dell’ottocento che girava sempre con “un coltello nei pan-taloni e uno nello stivale destro”. All’università, studiò il mandari-

no e parlava tanto spesso del libro di Clavell che lo soprannominarono Tai Pan.

Nel giro di qualche anno, St. Pierre fu promosso presidente di una pionieristica joint venture chiamata Beijing Jeep, che aveva come scopo assemblare le jeep Che-rokee in Cina e aprire la strada a raforzare i rapporti commerciali tra la Cina e gli Stati Uniti. Ma incontrò una serie di problemi burocratici, soprattutto perché il governo cinese non voleva spendere i suoi preziosi dollari americani per importare i pezzi di ricambio. Come avrebbe scritto più tardi Jim Mann nel suo libro Beijing Jeep, St.Pierre diventò famoso perché rivelò i suoi proble-mi alla stampa. Quando scrisse una lettera al premier cinese Zhao Ziyang per avvertir-

La concorrenza era così forte che sembrava una guerra: le navi che solcavano il Paciico venivano spiate per scoprire se trasportavano vino

Da sapere

I primi dieci paesi consumatori di vino: previsioni per il 2013, in milioni di casse da nove litri, e variazione dei consumi dal 2004 al 2008

Stati Uniti

309,6

Italia

300,0

Francia

263,3

Germania

242,0

Gran Bretagna

136,3

Argentina

118,1

Cina

105,1

Spagna

91,4

Russia

74,9+11,4% +0,5% -8,3% +1,5% +7,6% -1,5% +80,8% -15,2% +59,0%

Fonte: Vinexpo

Page 55: Internazionale 870

Internazionale 870 | 29 ottobre 2010 55

junior a un giornalista del San Francisco Chronicle. Il governo li aveva accusati di importare munizioni cinesi illegali, ma pa-dre e iglio insistevano nel dire che la loro merce era russa, non cinese. Cinque setti-mane dopo, le autorità ritirarono le accuse: “Un fiasco storico”, lo definì il Mercury News. Venne fuori che i St. Pierre avevano anticipato il divieto di importazione di mu-nizioni cinesi e avevano cominciato a com-prare dai russi un anno prima dell’incursio-ne degli agenti. Anche se furono prosciolti, il periodo di chiusura forzata fu così costoso che decisero di tentare un’altra strada. Ave-vano ancora un milione e mezzo di dollari da investire e morivano dalla voglia di im-portare qualcosa in Cina. Pensarono alle noccioline (ma il settore era troppo afolla-to), allo zucchero (troppo corrotto), alle mazze da golf (troppo limitato).

Stavano indagando sul commercio dei rottami di metallo quando qualcuno accen-nò al fatto che la fabbricazione dei tralicci che sostengono le viti in Cina sarebbe co-stata di meno. Se dobbiamo occuparci di tralicci, pensò St. Pierre, perché non occu-parci direttamente di vino? Alcuni suoi ami-ci nell’industria automobilistica avevano rapporti con i produttori di vino california-ni, italiani e australiani, e i St. Pierre misero

lo che l’azienda stava fallendo, il funziona-rio del Partito comunista assegnato all’im-presa lo rimproverò. St.Pierre perse la pa-zienza e, a quanto scrive Mann, gridò: “Continuerò a fare quello che sto facendo!”. Il funzionario rispose: “Lei è fortunato a non essere cinese, altrimenti sarebbe nei guai”.

St. Pierre chiese ai suoi capi di tenere duro, dicendo: “Non possono permettersi di lasciarci andar via di qui”. E aveva ragio-ne. I negoziatori cinesi cedettero. St. Pierre apparve in televisione mentre stringeva la mano a Zhao e si fece amici preziosi come Zhu Rongji, il funzionario che sovrintende-va alla Beijing Jeep, il quale in seguito sareb-be diventato primo ministro. Non tutte le iniziative imprenditoriali di St. Pierre sono andate così bene. Ma St. Pierre è citato in almeno cinque libri sulla storia dei rapporti economici con la Cina.

All’inizio degli anni novanta, con l’aiuto delle loro conoscenze altolocate, St. Pierre e suo iglio si imbarcarono nella nuova im-presa di importare negli Stati Uniti parti di ricambio di certe armi, soprattutto casse per i fucili Sks e accessori per le pistole Ma-karov. Nessuno dei due aveva mai sparato con niente di più pericoloso di un fucile ad aria compressa, mi ha raccontato St. Pierre,

e alcuni dei loro nuovi soci erano “al limite della legalità”, ma “gli afari sono afari”. Presto si accorsero che si poteva guadagna-re molto di più con le munizioni e comincia-rono a importare proiettili calibro 7,62 per armi semiautomatiche, granate e pallottole calibro 5,56.

Nel maggio del 1995 agenti dell’Fbi, dell’Atf (Bureau of alcohol, tobacco, ire-arms and explosives), del servizio dogane e di altre agenzie statunitensi fecero irruzio-ne nel deposito dei St. Pierre a Santa Clara, in California, e sequestrarono tutto, accu-sandoli di importare illegalmente munizio-ni che erano state vietate un anno prima. Settantaquattro milioni di pallottole, “il più grande sequestro di munizioni mai compiu-to negli Stati Uniti”, disse un agente federa-le. Le imputazioni, tra cui quelle di un pos-sibile complotto, contrabbando e importa-zione di merce illegale, sarebbero state formulate nel giro di pochi giorni. La notizia inì su tutti i giornali, l’attentato di Oklaho-ma City era avvenuto solo qualche settima-na prima e un agente federale aveva para-gonato il deposito dei St. Pierre all’arsenale di un piccolo stato.

I St.Pierre risposero alle accuse mo-strandosi indignati, quella storia era “asso-lutamente ridicola”, dichiarò all’epoca Don

GIU

LIO

SA

RC

hIO

LA

(CO

Nt

RA

StO

)

Degustazioni di lusso al Soitel Fizi Tianmu Lake di Shanghai

Page 56: Internazionale 870

56 Internazionale 870 | 29 ottobre 2010

Economia

insieme un piccolo catalogo di bottiglie da importare.

Negli ultimi anni, ogni volta che sono tornati al Vinexpo, i St. Pierre hanno avuto molti contatti con i produttori di vino euro-pei. In Europa il consumo di vino sta ormai diminuendo da quarant’anni, perché le nuove generazioni ne bevono sempre meno delle precedenti. I francesi adulti bevono in media 43 litri di vino all’anno, più o meno un bicchiere al giorno rispetto ai tre degli anni sessanta. La stessa cosa sta succeden-do in Italia, in Spagna e in altri paesi, quindi l’Europa ha un’eccedenza che nel settore viene chiamata “lago di vino” e che nel 2006 era di circa 1,5 miliardi di litri, l’equi-valente di quattro bottiglie per ogni cittadi-no europeo. Per correre ai ripari, l’Unione europea ha sponsorizzato un programma di “distillazione di crisi”, che prevede la tra-sformazione del vino in eccesso in bioeta-nolo e prodotti per le pulizie, e incoraggia alcuni agricoltori a sradicare le viti e ritirar-si dall’attività “in modo dignitoso”, per usa-re le parole del commissario all’agricoltu-ra.

Vendere alla Cina, naturalmente, sareb-be una soluzione più allettante. Oggi la Ci-na è all’ottavo posto tra i paesi del mondo che consumano vino e, secondo Vinexpo, sta battendo la Spagna. I cinesi bevono an-cora soprattutto il loro vino, che è migliora-to, anche perché nel 2003 il governo ha vie-tato l’uso di addensanti, saccarina, cicla-mato, coloranti artiiciali e altri additivi. Le importazioni costituiscono meno del 15 per cento dei consumi, ma per i produttori fran-cesi è “più di un Eldorado”, mi ha detto il presidente della Château Latour, Frédéric Engerer.

I produttori bordolesi non si sono mai fatti tentare dai clienti esotici. “All’inizio degli anni ottanta c’era una grande richie-sta dal Texas, e in Francia dicevamo: ‘Que-sti texani non sanno bere il nostro vino, so-no dei barbari’”, mi ha raccontato Engerer. “Poi, tra la ine degli anni ottanta e i primi anni novanta, sono arrivati i giapponesi, e non lo bevevano nemmeno, lo regalavano. Anche quello ci faceva ridere. Adesso ci so-no i cinesi”. Ma oggi, dice Engerer, la Fran-cia non può permettersi di essere arrogante. “Dovremmo stare calmi e dire: ‘Vi siamo grati di aver deciso di comprare una cosa che non appartiene alla vostra cultura’”.

Mentre molti europei e americani ormai comprano vini da pochi dollari a bottiglia, i cinesi sono in una fase di esibizionismo consumistico (“Nei nostri negozi, se abbia-mo un prodotto che non si vende alziamo il prezzo”, mi ha detto un importatore). Ro-

bert Parker – Pa Ke per i suoi fan cinesi – ha fatto la sua prima visita in Cina l’anno scor-so, compresa una cena da 2.300 dollari a testa sulla Grande muraglia. La cena preve-deva sette portate, gli invitati dovevano es-sere vestiti da sera e i tavoli erano stati siste-mati tra due delle antiche torri in pietra e mattoni della sezione Badaling della Mura-glia, un ex avamposto militare che è stato ristrutturato ed è servito da una funicolare.

Una sera di non molto tempo fa ho par-tecipato a una cena organizzata dall’Asc per i suoi clienti a Shanghai, in un ristorante chiamato Exquisite Bocuse, arredato con mobili di legno scuro, vetrate li-berty e vasi greci. Ero seduto a uno dei tanti tavoli rotondi di fronte a Bob Miao, uno dei diri-genti di un’azienda che vende pezzi di ricambio per auto. Era un uomo sui 35 anni con gli occhiali e i capelli a spazzola. Aveva scoperto il vino una decina di anni prima, mi ha detto, quando lavorava per una impresa francese. Nella primavera scorsa ha investito 70mila dollari dei suoi risparmi in futures di vini. Spera che almeno in parte si riveli un investimento saggio. “Il resto lo berrò io”, dice scherzando.

Efetto Bordeaux

Ai bevitori cinesi piace particolarmente lo Château Laite Rothschild, uno dei Borde-aux più costosi (un Laite del 1982 costa più di tremila dollari). Ogni anno i cinesi ne comprano tante bottiglie – il produttore non ha voluto dirmi esattamente quante – da far salire il prezzo in tutto il mondo, un fenomeno che qualcuno ha deinito “efet-to Laite”.

Qualche tempo fa, la Château Laite Ro-thschild ha annunciato che sta per aprire un’azienda vinicola nella provincia dello Shandong per produrre il primo “grand cru cinese”. Sarà nella città portuale di Penglai, che per attirare i turisti si è data il sopranno-me di Nava valley. Il Laite sta entrando nella cultura popolare cinese come il Cristal era diventato lo champagne di quella hip-hop americana. Alla periferia di Pechino un

costruttore ha eretto una copia del castello di Laite che può essere aittato per matri-moni e altre occasioni. Nel ilm d’azione Giovani e pericolosi parte V, girato a Hong Kong, un personaggio dice a un capo maio-so: “Porta un po’ di bottiglie di Laite dell’82 e chiama le ragazze più carine!”.Nel centro di detenzione di Shanghai, le lu-ci rimanevano accese giorno e notte. Oltre a Don junior la polizia aveva arrestato Car-rie Xuan, una dei vice presidenti dell’Asc, che era detenuta in un’altra prigione. Gli arresti avevano scatenato commenti poco lusinghieri sul commercio di vino in Cina. Simon Tam, un consulente di vini di Hong Kong, scrisse un paio di articoli sul sito web di Jancis Robinson in cui parlava di quella che deiniva “la pratica comune, da parte di certi importatori di vino, di abbassare siste-maticamente il prezzo dichiarato delle bot-tiglie di più del 50 per cento”. Citava fonti doganali francesi, secondo le quali nel 2007 era stato esportato in Cina molto più vino di quanto ne risultasse alle dogane cinesi. Come altri aspetti dell’economia emergen-te cinese, il commercio del vino era cresciu-

to troppo in fretta perché la legge potesse stargli dietro. Secondo l’importatore, il 70 per cento dei vini pregiati, compresi quelli il cui valore viene sottovalutato alla dogana, entra in Cina di straforo.

Con tanta concorrenza e il contrabbando che fa scendere i prezzi, dice, “il problema è che se rispetti la legge non riesci a essere competitivo”.

L’8 aprile 2008, 28 giorni dopo il suo ar-resto, Don junior fu rilasciato. L’Asc ammi-se un numero limitato di sottovalutazioni e accettò di pagare le tasse arretrate per un totale di 1,8 milioni di yuan, circa 264mila dollari, una somma relativamente modesta rispetto al volume d’importazioni della so-cietà. Don junior non fu mai incriminato. Carrie Xuan era stata rilasciata tre giorni prima. Più di un anno dopo, quando le ho chiesto di quel periodo in carcere, è scop-piata a piangere. Lavora ancora all’Asc, ma sua sorella le ha chiesto di lasciare l’azien-da. Non ha mai detto ai genitori di essere stata in prigione. “Sono troppo vecchi per sopportarlo”, dice.

L’indagine sul vino si allargò e, secondo il quotidiano di stato Fazhì Rìbào, alla ine del 2008 portò a 29 condanne, per 25 milio-ni di dollari di vino non dichiarato. Le azien-de furono accusate di aver falsiicato le fat-ture e la documentazione passando attra-verso Hong Kong, dove non ci sono dazi sulle importazioni di vino. I St. Pierre non hanno mai fatto niente del genere, mi ha

Oggi il Laite sta entrando nella cultura popolare cinese come il Cristal era diventato lo champagne di quella hip-hop americana

Page 57: Internazionale 870

Internazionale 870 | 29 ottobre 2010 57

ti di propria iniziativa, altri lavoravano per ristoranti di lusso ed erano stati mandati lì dai datori di lavoro. A ognuno era stato con-segnato un pacco di libri in inglese e cinese, ne ho sfogliato uno e ho trovato questo test: “Su una bottiglia di Riesling tedesco la scritta ‘Beerenauslese’ signiica che il vino è a) prodotto con uve provenienti da vigneti diversi, b) frizzante, c) invecchiato in botti-glia per un lungo periodo, d) fatto con uve molto mature”. Il tentativo di tradurre in cinese tutta la cultura occidentale del vino ha prodotto strani risultati. I nomi di alcuni tipi di uve e di alcune regioni sono stati resi foneticamente (Château Margaux è stato tradotto per praticità “Ma ge”), altri idio-maticamente (Châteauneuf du Pape è di-ventato Jiaohuang xin bao, “la nuova for-tezza del ponteice”).

A scuola di vino

In aula c’era molta apprensione. L’inse-gnante, un uomo alto in camicia bianca a maniche corte che chiamavamo “Maestro Hao”, cercava di sempliicare le cose. “Co-me fate a riconoscere i nomi italiani?”, ha chiesto in cinese. Nessuno ha risposto. “Se inisce per ‘a’ o per ‘o’, probabilmente è un vino italiano”. I miei compagni di classe ap-parivano soddisfatti. Poi Hao ci ha mostrato come aprire una bottiglia con il cavatappi in modo discreto “per non ofendere l’ospite”. “E se vedete un’etichetta in cinese”, ci ha consigliato, “non compratelo perché non è importato”.

Abbiamo assaggiato un Crozes-Hermi-tage, un Chianti classico, un barbaresco, un tempranillo, un Freixenet, uno sherry e un porto, e fatto una rapida rassegna di brandy, whisky, rum e tequile. Io non lo risputavo e a metà pomeriggio cominciavo a sentirne le conseguenze. A quel punto ci ha insegnato ad aprire una bottiglia di champagne. “È meglio farlo rumorosamente o con discre-zione?”, ci ha chiesto Hao. David, un giova-ne maître con un taglio di capelli alla moda, ha provato a rispondere. “Meno rumore facciamo e meglio è, dev’essere come un tranquillo sospiro di piacere”, ha detto. “Giusto, ma di solito”, ha spiegato il mae-stro, “nei bar lo champagne si stappa rumo-rosamente, perché tutti devono sapere chi lo ha ordinato”. Una ragazza si è fatta avan-ti per stappare una bottiglia di prosecco. L’ha presa in mano con cautela, come se fosse una pistola carica. "Adesso cosa fac-cio?", ha chiesto nervosamente mentre i miei compagni si allontanavano. “Posso allentare la presa?”. Pop! Ed è scoppiata a ridere. Il vino ha cominciato a uscire a iotti e lei ha scattato una fotograia. u bt

detto un pomeriggio Don junior nel suo ap-partamento di Shanghai. “Quando arrivi in Cina, nessuno ti dice: questa è la legge. Mol-ti pensano che non li riguardi! Ma adesso sanno che non è così”.

Nei mesi successivi al suo rilascio, Don junior ha trasformato l’Asc in una società cinese convenzionale: ha assunto come di-rettore generale un ex funzionario del go-verno che ha molti contatti e conosce la legge. Da anni gli stranieri si lamentavano dell’assenza di una normativa, ma intanto la sfruttavano. Oggi, dice Don, “penso che quello che è successo a noi dimostri chiara-mente che se ti metti in afari sei soggetto alle stesse regole degli altri” (nel marzo del 2010 il gruppo giapponese Suntory ha ac-quisito il 70 per cento delle azioni di pro-prietà della Swarovsky, Don si è ritirato

dall’azienda e il iglio è stato nominato am-ministratore delegato).

In fondo alla strada che ospita gli uici dell’Asc c’è la Wine Residence, un circolo “per rainati amanti del vino” situato in un ediicio tranquillo e restaurato da poco. I soci possono conservare le bottiglie in ar-madietti di legno scuro, con una targhetta in ottone che porta il loro nome, in una can-tina a temperatura controllata. È aperto al pubblico per i pasti e per corsi che l’Asc chia-ma di “educazione al vino”. Una mattina ho partecipato alla lezione di un corso inter-medio e mi sono seduto a un lungo tavolo apparecchiato con una serie di bicchieri vuoti.

Intorno al tavolo c’erano dieci studenti cinesi, uomini e donne che andavano dai venti ai quarant’anni. Alcuni si erano iscrit-

GIU

LIO

SA

RC

HIO

LA

(CO

Nt

RA

StO

) (2)

Soitel Fizi Tianmu Lake, Shanghai

Ospiti al bar dell’hotel

Page 58: Internazionale 870

58 Internazionale 870 | 29 ottobre 2010

Portfolio

A novembre decine di stampe del grande fotografo statunitense saranno messe in vendita. Gli scatti raggiungeranno quotazioni record, scrive Christian Caujolle

Avedonall’asta

Approittando della forza di attrazione di Paris Photo, che si è imposta come la migliore iera fotograica internaziona-le, frequentata da collezionisti prove-nienti da tutto il mondo, la casa d’aste Christie’s venderà il 20 novembre più

di sessanta lotti (compresi alcuni inediti) di Richard Ave-don. È un vero evento perché le vendite monograiche sono molto rare e perché è la prima iniziativa di questo tipo dopo la morte dell’artista nel 2004. Solo la vendita da Christie’s a New York, nell’aprile del 2010, di Three deca-

RIC

hA

Rd

Av

ed

oN

– t

he

RIC

hA

Rd

Av

ed

oN

fo

uN

dA

tIo

N (2

)

Page 59: Internazionale 870

Internazionale 870 | 29 ottobre 2010 59

Page 60: Internazionale 870

60 Internazionale 870 | 29 ottobre 2010

Portfolio

des with Irving Penn: photographs from the collection of Patricia McCabe (le 67 stampe di Penn hanno fruttato 3,8 milioni di dolla-ri) può essere paragonata a quella in prepa-razione a Parigi.

Avedon – artista di una precisione ma-niacale, dalla scelta delle inquadrature alla stampa dei provini (per i quali dava indica-zioni dettagliate segnando con una matita rossa le zone da ammorbidire o accentua-re) – ha un posto di primo piano nella storia della fotograia e le quotazioni delle sue stampe continuano a salire, anche se ave-vano già raggiunto livelli elevati quando era in vita. I suoi ritratti e le sue immagini di moda sono ormai icone della seconda metà del novecento.

A pagina 58-59, foto grande: Andy Warhol e gli altri della Factory, New York, 30 ottobre 1969. A pagina 58, foto piccola: autoritratto di Richard Avedon, 1963 circa. Qui sopra: Buster Keaton, New York, 19 settembre 1952. Qui accanto, foto grande: Suzy Parker e Robin Tattersall, vestito di Dior, Place de la Concorde, Parigi, agosto 1956. A destra, dall’alto: Brigitte Bardot, Parigi, 27 gennaio 1959; Pablo Picasso, Beaulieu, Francia, 16 aprile 1958

Nato a New York nel 1923 in una fami-glia di ebrei russi, Avedon si è interessato presto alla fotograia, che ha praticato da giovane con una macchina che gli era stata regalata dal padre. Le sue prime foto sono state pubblicate sul giornale della scuola realizzato insieme a James Baldwin, che rimarrà suo amico e diventerà un famoso scrittore. È a lui che Avedon chiederà di scrivere il testo per il libro Nothing personal, la sua opera più politica, incentrata sulla lotta per i diritti umani e contro la guerra in Vietnam. Allievo di Alexey Brodovitch, Avedon ha trovato molto presto lavoro all’Harper’s Bazaar, di cui il grande graico era direttore artistico, e il successo è stato quasi immediato.

Le sue immagini di moda, in studio o altrove (compresa la serie parigina per Vo-gue) s’impongono per l’eleganza, il con-trollo perfetto dell’illuminazione, la ricer-ca costante dell’innovazione (dall’illusione del reportage alla radicalità delle immagi-ni frontali in studio). Sono scatti che all’esi-genza di “mostrare i vestiti” uniscono l’in-venzione di nuove visioni. La celebre im-magine Dovima con gli elefanti, scattata nel

rIc

HA

rd

AV

ed

oN

– t

He

rIc

HA

rd

AV

ed

oN

fo

uN

dA

tIo

N (4

)

Page 61: Internazionale 870

Internazionale 870 | 29 ottobre 2010 61

Marilyn Monroe triste, che indossa un ve-stito di paillettes. La foto è valutata più di centomila euro, ma considerando i risulta-ti ottenuti da altre stampe della stessa im-magine in occasione di aste precedenti, sarà probabilmente venduta a un prezzo molto più alto. Questa immagine su sfon-do bianco, tipico dell’approccio scarno e ricco di tensione che Avedon usava per i ritratti, lascia intravedere la fragilità dell’attrice che si sarebbe suicidata qual-che anno dopo, e giustiica questa aferma-zione del fotografo: “Un ritratto non è una somiglianza. Appena un’emozione o un fatto viene tradotto in fotograia, smette di essere un fatto per diventare un’opinione. L’inesattezza non esiste in fotograia. Tut-te le foto sono esatte, ma nessuna è la veri-tà”.

Personaggi emblematiciAll’asta ci saranno anche alcuni ritratti del-la serie The American west. Dal 1979 al 1984 Avedon ha percorso il grande ovest ameri-cano fotografando personaggi emblemati-ci, quasi tutti lavoratori. Ranch, miniere di carbone, giacimenti petroliferi, stazioni di servizio, cacciatori di serpenti, iere di be-

1955 al Cirque d’hiver di Parigi mentre una delle modelle più famose dell’epoca indos-sava un vestito da sera di Dior e giocava con due pachidermi, è tra quelle che Chri-stie’s metterà in vendita. Stimata tra i 400 e i 600mila euro, la foto è una delle ultime grandi stampe ancora in possesso della Ri-chard Avedon foundation.

La spettacolare asta è stata organizzata dalla fondazione voluta dal fotografo per

valorizzare la sua opera, ma anche per svi-luppare attività formative e sostenere i gio-vani fotograi. Per avviare le attività dopo la morte di Avedon, la fondazione ha dovu-to vendere lo studio dell’artista e, cosa an-cor più triste, tutti i suoi oggetti personali.

Una delle opere più interessanti dell’asta è una foto di piccole dimensioni, una stampa vintage del 1957, realizzata al momento dello scatto. È il ritratto di una

Page 62: Internazionale 870

62 Internazionale 870 | 29 ottobre 2010

Portfolio

Dovima con gli elefanti, vestito da sera di Dior, Cirque d’hiver, Parigi, agosto 1955. Nella pagina accanto Marilyn Monroe, New York, 6 maggio 1957

rIc

ha

rd

av

ed

on

– t

he

rIc

ha

rd

av

ed

on

fo

un

da

tIo

n (

2)

Page 63: Internazionale 870

Internazionale 870 | 29 ottobre 2010 63

INFORMAZIONI

La vendita all’asta delle stampe di Richard Avedon si svolgerà il 20 novembre da Christie’s, a Parigi (christies.com).

stiame: Avedon segue un itinerario preci-so, cerca di creare dei legami tra un ritratto e l’altro e cattura la realtà grezza di un’Ame-rica lontana dal glamour hollywoodiano. I ritratti di grandi dimensioni, montati su cornici in alluminio, frontali, di forte im-patto graico, appaiono abbastanza di rado in un mercato per lo più incentrato sulle immagini delle celebrità. Del resto altre importanti fotograie di Avedon usate per il libro An autobiography non sono state quasi mai messe in vendita. Il libro, frutto di più di tre anni di lavoro, è costituito dalle immagini dell’ospedale psichiatrico in cui è morta la sua giovane sorella, che Richard

amava e che era stata la sua prima modella. Sono immagini scattate con una Leica, mosse, sensibili, sconvolgenti, ma che non sembrano destinate a decorare una pare-te.

Avedon è stato un protagonista fonda-mentale del ritratto fotograico negli anni sessanta e settanta, e a lui si devono molti ritratti dei più importanti musicisti, artisti e scrittori dell’epoca. Non si può dimenti-care la sua foto dei Beatles, un montaggio di quattro ritratti psichedelici di John Len-non, Paul McCartney, George Harrison e Ringo Starr. Questa immagine, che detie-ne la più alta quotazione per un’opera

dell’artista venduta all’asta (464mila dol-lari da Christie’s a New York nel 2005), rag-giungerà probabilmente un prezzo ancora più alto. Presto sapremo se a Parigi i colle-zionisti europei saranno in grado di arriva-re a queste cifre e se il celebre ritratto di Brigitte Bardot del 1959 raggiungerà i 121mila euro sborsati per la stessa foto l’8 ottobre a New York da Phillips, un’altra ca-sa d’aste. u adr

Page 64: Internazionale 870

64 Internazionale 870 | 29 ottobre 2010

Ritratti

Wall street perché i banchieri volevano sa-pere come fare per rendere New York simi-le alla Silicon valley”, dice Shirky. “La mia risposta era sempre la stessa: ‘Non è possi-bile’. L’unica cosa che potevamo fare era rendere la città un buon posto per avviare un’attività”.

Venticinque anni dopo essere arrivato a New York con una laurea in ine arts a Yale e la speranza di farla fruttare nel campo della scenograia teatrale, Shirky è diven-tato, in modo inaspettato, l’esponente principale della nuova scuola newyorchese del pragmatismo tecnologico.

Il suo ultimo libro, Surplus cognitivo (Codice Edizioni 2010), è un saggio sui be-neici sociali della rete, che secondo Shirky in parte sono dovuti al fatto che internet ci aiuta a liberarci dalla teledipendenza. Mol-ti l’hanno descritto come un ciberutopista, ma Shirky riiuta il termine e dice di rifarsi soprattutto al ilosofo pragmatista ameri-cano Richard Rorty. “La tecnologia non è un bene tout court”, dice. “Ma fornisce alla società la materia prima per fare cose nuo-ve e interessanti”.

Nemici agguerritiNei primi anni novanta Shirky ha fatto un ottimo uso del suo surplus cognitivo. In quel periodo a New York dirigeva un grup-po teatrale sperimentale che presentava testi documentali (come la conversazione tra controllori del traico aereo durante un incidente o la relazione sulla pornograia di Edwin Meese).

Un giorno sua madre, una bibliotecaria di Columbia, in Missouri, gli raccontò che durante un corso di aggiornamento profes-sionale stava imparando a usare un nuovo strumento: internet. Shirky rimase conqui-stato. Invece di tornare a Yale, dove era stato ammesso a un corso di laurea in arte drammatica, cominciò a studiare pro-grammazione con un gruppo di eccentrici responsabili di sistemi Unix che lavorava-no in banca. “Tornavo a casa dal teatro alle undici di sera, poi mi dedicavo a internet ino alle quattro del mattino. Stavo diven-tando webdipendente. Avevo solo due possibilità: smettere o farlo diventare un lavoro”.

Alla ine Shirky è entrato nel mondo del design interattivo. “Molti di quelli che han-no dato vita al settore, a New York, veniva-no dal teatro. In parte perché quando fai quel lavoro hai molto tempo a disposizio-ne, in parte perché le cose che non capisci non ti spaventano. Il teatro ti abitua all’idea di non sapere come andrà a finire”. Nel frattempo collaborava con alcune riviste

Il 6 giugno la Cnn ha mandato in onda un’intervista a James Fal-lows in cui il giornalista parlava di un suo articolo uscito su The Atlantic (Internazionale 847) che esaminava l’impatto di Google

sul mercato dell’informazione. Di solito questi articoli sono pessimisti. Quello, in-vece, era iducioso. Secondo Fallows il mo-tore di ricerca, dopo aver contribuito in vari modi ad aggravare la situazione eco-nomica dei giornali, ha cominciato a lavo-rare a un nuovo modello di business per salvaguardare il giornalismo di qualità.

Durante l’intervista, Fallows ha citato il lavoro di uno studioso dei mezzi d’infor-mazione che, con il suo slogan “niente fun-zionerà, ma tutto potrebbe funzionare”, ha fornito il quadro teorico per il lavoro degli ingegneri di Google. Di solito i visionari che si afannano a spiegare i beneici socia-li della tecnologia all’opinione pubblica statunitense vengono dalla Silicon valley. Fallows, invece, si riferiva al lavoro di Clay Shirky, professore alla New York Universi-ty.

Incontro Shirky nel suo uicio all’Inte-ractive telecommunications program (Itp),

al quarto piano di un palazzo che si afaccia sulla Broadway. Shirky ammette che di so-lito le persone non pensano a New York come a una città che trasuda tecno-ottimi-smo. “Ho sempre fatto parte di comunità creative – artisti, gente di teatro, imprendi-tori”, spiega Shirky. “Non importa quanto sia logoro o cinico il contesto esterno. Se sei in un gruppo di persone creative, è nor-male pensare in modo ottimista”.

Nel corridoio davanti all’uicio alcuni studenti stanno mettendo in scena una proiezione futuristica di luce che ricorda la danza di un millepiedi sul pavimento. “Ne-gli anni novanta facevo avanti e indietro da

Clay Shirky L’ottimista della rete

È una delle voci più ascoltate del web. Tutti sperano che sia in grado di rispondere a una domanda: è possibile salvare il giornalismo di qualità?

Felix Gillette, The New York Observer, Stati UnitiFoto di David Levene

◆ 4 marzo 1964 Nasce a Columbia, Missouri, negli Stati Uniti.◆ 1986 Si laurea in ine arts all’università di Yale. ◆ 1990 Fonda, a New York, la compagnia teatrale Hard place theater. Si appassiona all’informatica, a internet e alle nuove tecnologie. ◆ 2001 Comincia a insegnare all’Interactive telecommunications program, presso la New York University.◆ 2008 Pubblica Uno per uno, tutti per tutti

(Codice Edizioni 2009), nel quale analizza gli efetti di internet sulle moderne dinamiche di gruppo.◆ Autunno 2010 Tiene un corso all’università di Harvard dal titolo “New media and public action”. Pubblica Surplus

cognitivo (Codice Edizioni 2010), sui beneici sociali della rete.

Biograia

Page 65: Internazionale 870

EY

EV

INE

/CO

NT

RA

ST

O

Internazionale 870 | 29 ottobre 2010 65

Page 66: Internazionale 870

66 Internazionale 870 | 29 ottobre 2010

che si occupavano della nuova cultura del-la rete, oltre a scrivere una serie di libri tec-nici per l’editore Zif Davis.

Shirky dice di essere sempre stato otti-mista nei confronti del web. E ino a poco tempo fa la contrapposizione tra ottimisti e pessimisti gli sembrava solo una messa in scena: “Tutto si riduceva a una polemica tra chi amava internet e chi non lo capiva”.

Ma oggi i pessimisti del web sono molto più agguerriti. “Negli ultimi cinque anni è aumentato il pessimismo tra chi usa inter-net e lo conosce abbastanza bene dal punto di vista sia tecnico sia sociale”, dice Shirky. In particolare, lui ha molto rilettuto sul nuovo saggio di Jaron Lanier, Tu non sei un gadget (Mondadori 2010), che critica il “maoismo digitale” di internet e la scaden-te collaborazione collettiva tipica della re-te.

Shirky si è confrontato anche con Ni-cholas Carr, che in The shallows sostiene che il web, dopo aver preso il posto della carta stampata, sta ridisegnando il nostro cervello e distruggendo la nostra capacità di concentrazione.

“Ho letto quei libri aspettandomi che gli autori dicessero: ‘Ecco quello che dob-biamo fare’”, dice Shirky. “Ma l’analisi di Carr è sbagliata. Credo che il problema principale sia la distrazione. La cosa più interessante di The shallows è che non pro-pone soluzioni” (Shirky l’ha fatto notare a Carr, che in un’email gli ha risposto: “Mi interessa la descrizione, non la prescrizio-ne”).

Secondo Shirky l’errore di Carr consiste nel confrontare la cultura della stampa con quella della rete, che esiste da meno di un quarto di secolo. “Il vecchio sistema ha alle spalle istituzioni robuste e ben oliate”, dice Shirky. “Quello nuovo è ancora poco cono-sciuto, eppure Carr è convinto che non ab-bia margini di miglioramento”.

Shirky è convinto del contrario. La chia-ve, a suo parere, è analizzare i problemi a mano a mano che si presentano, e fare esperimenti pratici per costruire una nuo-va serie di istituzioni e di abitudini cultura-li che afrontino i problemi di internet mas-simizzando la sua libertà. Agli occhi di Shirky anche l’aumento dei pessimisti del-la rete è una buona cosa, perché permette di richiamare l’attenzione sui problemi della cultura digitale. “Per ironia della sor-te, saranno proprio queste persone a farci avanzare su temi come l’anonimato in rete e la perdita di attenzione”.

Alla ine, però, saranno i pragmatici ot-timisti, sostiene Shirky, a mettere ordine tra le varie questioni, molto probabilmente

attraverso un aumento graduale e prolun-gato di piccole innovazioni, soluzioni e ot-timizzazioni.

Dall’autunno del 2001 Shirky lavora co-me docente associato presso l’Itp della New York University, che fa parte della Tisch school of the arts. Cominciato negli anni settanta, il programma si è sviluppato in un laboratorio di sperimentazione digi-tale dove gruppi di studenti danno vita a combinazioni originali tra arte, program-mazione e interattività sociale.

Un abile narratore

Nel corso degli anni Shirky ha sviluppato un seminario chiamato Social facts, il cui piano di studi si estende da gruppi che af-frontano dilemmi sociologici senza tenere conto dalla tecnologia (come la tragedia dei beni comuni o il dilemma del prigionie-ro) a gruppi online che affrontano sfide speciiche.

Al termine del corso, agli studenti viene chiesto di pensare come designer: cosa fa-resti se volessi cambiare uno spazio esi-stente o crearne uno nuovo? Shirky tiene inoltre un corso di produzione in cui gli studenti sviluppano progetti tecnologici in collaborazione con l’Unicef. “Basta stare con lui un’ora per sentirsi una superstar”, dice Dennis Crowley, cofondatore di Foursquare, diplomato all’Itp nel 2004. “Come se potessi capire le cose in maniera molto più chiara”.

Crowley descrive Shirky come il teorico del programma, la igura a cui si rivolgono gli studenti che vogliono avere una pro-spettiva più ampia di quello che stanno fa-cendo e sapere perché è così importante. Nell’autunno del 2003 Shirky è stato consi-gliere di uno studio indipendente realizza-to da Crowley e da uno dei suoi compagni, Alex Rainert, che due anni dopo hanno venduto la loro società di software e social networking, la Dodgeball, a Google. “Non credo che ci stiamo sbarazzando della vec-chia cultura della stampa e che d’ora in poi vivremo in una specie di pura e sacra fusio-

ne con la natura umana”, aferma Shirky. “Il mio ottimismo nasce dalla convinzione che i giovani sapranno creare le istituzioni necessarie per il web, diverse da quelle della carta stampata”.

Nel marzo del 2009 Shirky ha pubblica-to sul suo blog un saggio sulle cause della crisi della stampa (Internazionale 787). L’articolo è diventato immediatamente una lettura obbligata per molti addetti ai lavori. A diferenza della maggior parte de-gli studiosi di mezzi di comunicazione ot-timisti nei confronti della rete, Shirky può parlare diffusamente dei problemi del giornalismo senza sembrare un brontolo-ne. E non dà mai l’impressione di voler cor-teggiare i mezzi d’informazione tradizio-nali con idee che servono solo a peggiorare le cose.

Il 26 maggio Shirky ha partecipato a un evento organizzato da Michael Zimbalist, responsabile del gruppo di ricerca e svilup-po del New York Times. David Carr, opi-nionista del quotidiano, è rimasto molto colpito dalla sintesi narrativa di Shirky: “Le persone che lo ascoltano non si accor-gono che la storia inisce con loro che han-no i capelli bianchi. Si fanno cullare dalla sua presentazione e dalla musicalità della sua voce. Lui espone delicatamente la par-te che li riguarda e poi conclude: ‘E inine sarete tutti ricoperti dalla polvere’”.

Carr dice che se un giorno avesse mezz’ora di tempo per ascoltare qualcuno parlare dei mezzi di comunicazione, Shirky sarebbe in cima alla lista. “È un accademi-co in senso clinico, con interessi profondi e ramiicati”.

Negli ultimi dieci anni Shirky ha tenuto corsi per artisti e appassionati di tecnolo-gia ma non per giornalisti. Le cose stanno per cambiare. Da questo autunno ha co-minciato a dedicarsi al dilemma del nuovo modello giornalistico come docente pres-so il Joan Shorenstein center on press, poli-tics and public policy, all’università di Har-vard. “M’interessa la possibilità di far fun-zionare il giornalismo come un ecosiste-ma”, ha detto Shirky. “Invece di avere una serie di giornali dedicati alla produzione di notizie inite, penso a un insieme di risorse condivise, con la stessa modalità con cui opera ProPublica”.

Una volta che sarà tornato a New York, nel 2011, Shirky comincerà a lavorare con il dipartimento di giornalismo della New York University. “Negli ultimi due anni mi sono dedicato soprattutto a scrivere saggi sull’argomento”, dice Shirky. “Limitarsi ad analizzare il problema non è molto diver-tente”. u sv

Ritratti

“Basta stare con lui un’ora per sentirsi una superstar” dice Dennis Crowley. “Come se potessi capire le cose in modo molto più chiaro”

Page 67: Internazionale 870
Page 68: Internazionale 870

68 Internazionale 870 | 29 ottobre 2010

Viaggi

no l’esperienza del iglio Fidel nella selva. C’è ancora il vecchio guardaroba di Ángel, pieno di vestiti, e tutte le cianfrusaglie di famiglia. In un paese che vive a porte chiu­se, e che è esperto di gestione dei musei quanto lo è di gestione dei fondi d’investi­mento, tutto questo è veramente insolito. Il merito è di Celia Sánchez, amica e presunta amante di Fidel, che nel 1979 restaurò la fattoria salvandola dal degrado. Come molti antimperialisti cubani, Fidel trascor­se un’infanzia agiata nella zona orientale dell’isola, circondato dalla povertà e lonta­no dalle luci dell’Avana. Nella provincia di Oriente bastava pochissimo a scatenare le passioni insurrezionaliste e rivoluzionarie dei contadini.

Questa resta la parte dell’isola dei sogni più sfrenati, lontana anni luce dai bagnanti stesi al sole, dai cocktail e dai musicisti che suonano a ripetizione Guantanamera. Ci sono itte giungle, iumi nascosti e coste inesplorate.

Il clima è più umido e variabile. Le stra­de s’interrompono e diventano sentieri. Le persone hanno la carnagione più scura, le tradizioni sono più vicine all’Africa e i modi sono quelli rilassati dei caraibici.

Economia ruraleLa Sierra Maestra, la catena montuosa più alta di Cuba, è il luogo dove i ribelli si na­scondevano mentre preparavano la rivolu­zione (come racconta Che, il ilm biograico di Steven Soderbergh). Santo Domingo, nella Sierra Maestra, è il punto di passaggio per La Comandancia, quartier generale di Castro. Ci arriviamo al tramonto.

Villa Santo Domingo non è altro che una serie di cabañas allineate lungo la strada che costeggia il iume, circondata da cime imponenti. Attraversato il iume arriviamo in un villaggio pieno di baracche di legno e cavalli legati, dove gli animali sembrano in miniatura: pulcini, maialini e caprette ap­pena nate. Lungo il sentiero ci sono due pietroni: su uno c’è scritto “Fidel” e sull’al­

tro “Raúl” (Raúl Castro, fratello di Fidel). Non si tratta dei soliti murales ordinati dal governo, ma è opera degli abitanti del vil­laggio. Per molti di loro lo spirito rivoluzio­nario è ancora vivo.

Il mattino dopo, al risveglio, scopriamo il rovescio della medaglia di questo appa­rente idillio: la totale mancanza di organiz­zazione. Sulla montagna si sale solo in taxi. C’è un centro turistico ma bisogna pagare il trasporto alla guida. E i taxi non sono di­sponibili ino a mezzogiorno. Come d’abi­tudine a Cuba, le guide del centro turistico sono tutte occupate: stanno guardando un ilm tipo Rambo. L’accompagnatore che ci è stato assegnato non ha alcuna voglia di venire con noi e non fa nulla per nascon­derlo. E, sempre secondo il tipico costume cubano, alla ine si rivela simpatico e diver­

Lo stereo della vecchia Mosk­vich manda a tutto volume i Charanga Forever. Il pro­prietario, Yasser, è stato pagato per portarci alla Sierra Maestra. I inestrini

oscurati servono a nascondere il carico ille­gale: la yuma (“la straniera”, cioè io) e il suo coniuge cubano. Passiamo per la baia di Nipe, sfrecciando a tutta velocità su strade iancheggiate da canne da zucchero, men­tre la Sierra Cristal si proila all’orizzonte. Yasser c’informa che la fattoria dove l’ex presidente Fidel Castro ha passato l’infan­zia è a cinque chilometri. Lo convinco a fare una deviazione. Venti minuti dopo, supera­to un minuscolo eremo chiamato Birán, arriviamo a una fattoria sperduta, circon­data dalle montagne e da prati illuminati dal sole. Ci sono solo un paio di guardie, che mandano subito a chiamare una guida. Ci siamo imbattuti per caso in un luogo straordinario: la tenuta dove i nove fratelli Castro hanno trascorso la loro infanzia do­rata.

Il padre di Fidel era emigrato dalla Spa­gna. Dopo aver sposato Lina, una ragazza cubana di 28 anni più giovane di lui, Ángel Castro comprò una fattoria e ne estese i conini (una volta al potere, Fidel avrebbe coniscato la terra anche a lui). Ángel Ca­stro costruì un emporio, una stazione del telegrafo, una scuola, un albergo e un pic­colo stadio per i combattimenti dei galli. È possibile visitare la casa dove vissero i geni­tori di Fidel. La camera da letto di Lina è tappezzata di statuine religiose. Sotto la lastra di vetro che ricopre la cassettiera c’è una serie di ritagli di giornali che racconta­

L’infanziadei CastroLydia Bell, South China Morning Post, Hong Kong

BE

NjA

MIN

RO

ND

EL

(CO

RB

IS)

A Cuba, nella selva e tra le città dell’ex provincia dell’Oriente. Nei luoghi dove sono cresciuti Raúl e Fidel Castro e dov’è nata la rivoluzione

Page 69: Internazionale 870

Internazionale 870 | 29 ottobre 2010 69

◆ Arrivare Il prezzo di un volo dall’Italia (Air Europa, Air France, Iberia) per L’Avana parte da 670 euro a/r . La compagnia aerea Cubana (cubana.cu) collega l’Avana con i vari aeroporti dell’isola. Da maggio del 2010 chi arriva a Cuba deve avere un’assicurazione medica. ◆ Muoversi Gli autobus, i guagua, sono il mezzo più economico per muoversi a Cuba. Il taxi è un mezzo molto usato dai turisti. Una legge obbliga i tassisti a caricare anche i cubani nel caso in cui nell’auto ci sia ancora posto.

◆ Arte Il museo Emilio Bacardí Moreau, a Santiago di Cuba (Calle Pío Rosado esquina Aguilera, 0053 22 628 402), è uno dei più importanti dell’isola. Ha una collezione che va dall’arte

precolombiana a quella contemporanea.◆ Dormire L’hotel Casa granda si trova nella zona centrale di Santiago di Cuba. Il prezzo di una stanza parte da 35 euro a persona.◆ Leggere Juanita Castro, I

miei fratelli Fidel e Raúl. La

storia segreta, Fazi 2010, 19,50 euro.◆ La prossima settimana Viaggio a Isfahan, in Iran. Ci siete stati e avete suggerimenti su tarife, posti dove mangiare o dormire, libri? Scrivete a [email protected].

Informazioni pratichetente, ricco d’informazioni preziose sulle difficoltà dell’economia del posto. Fidel scelse di stabilire il suo quartier generale in questa zona a causa dell’impenetrabilità della foresta vergine, dove i ribelli poteva-no godere della protezione dei simpatiz-zanti locali. Ci fermiamo a casa di una fa-miglia che al tempo della rivoluzione se-gnalava la presenza di estranei. Nella casa ci sono tacchini, pavoni e polli, e da una ter-razza arredata con sedie a dondolo si gode una vista panoramica. I nostri ospiti ci of-frono delle arance afettate con una sciabo-la.

Arrivati a La Comandancia, scopriamo che gli ex rifugi sono in realtà baracche co-perte di paglia. In quella di Fidel un nido d’api si è piazzato sulla porta d’ingresso. Anche per chi non è un ammiratore di

Cuba. Un campo da basket nella Sierra Maestra

Page 70: Internazionale 870

70 Internazionale 870 | 29 ottobre 2010

Viaggi

quanto è successo a Cuba dopo la rivoluzio­ne, è diicile rimanere indiferenti davanti al romanticismo e all’idealismo che carat­terizzano questi posti.

Lasciamo Santo Domingo e ci dirigia­mo a Santiago. Il tassista ci dice che lì ci sono i poliziotti più fastidiosi di Cuba. Per evitarli esce dall’autostrada nei pressi di El Cristo, un paesino sulle montagne proprio sopra Santiago, con ville e piantagioni spet­tacolari, in incredibile stato di abbandono. Più ci avviciniamo a Santiago e più il caldo e l’umidità diventano insostenibili.

Santiago ha pochi locali interessanti. Per ascoltare la salsa e la rumba il posto più noto è La Casa de la Trova, dove i tavoli so­no pieni di turisti e prostitute.

Dal tetto dell’hotel Casa granda si vede tutta la città, a cominciare dai campanili della bellissima chiesa di Nuestra señora de la asunción. Per chi è interessato alla storia rivoluzionaria questo è il posto giu­sto. A Santiago c’è la caserma Moncada, dove Fidel tentò un colpo di stato nel 1953. Ben più decadente è il museo Emilio Bacar­dí Moreau, che ospita la collezione artistica e archeologica dell’ex sindaco di Santiago e re del rum.

La nostra ultima tappa è a Baracoa, la città più orientale dell’isola. La strada che parte da Santiago attraversa la cittadina di Guantánamo e scavalca Guantánamo Bay, prima d’immettersi in una strada costiera deserta. L’atmosfera è simile a quella del far west. È diicile immaginare che la pri­gione di “Gitmo” sia proprio laggiù, dall’al­tra parte della barriera dei cactus, con i suoi minicinema e i McDonald’s. L’autobus si arrampica per La Farola, la strada costruita negli anni sessanta che taglia in due la Sier­ra del Purial e apre Baracoa al resto del pae­se. Tra i tornanti spuntano delle piccole case di legno con il giardino, dove le donne vendono mandarini, cioccolato di Baracoa e cucurucho, un preparato stucchevole fatto con noce di cocco, arancia, guava e zucche­ro, servito in coni di foglie di palma.

Cuba fu il secondo approdo di Colombo nel nuovo mondo. Il suo primo scalo cuba­no fu proprio a Baracoa. Nel 1492 il naviga­tore genovese piantò una croce nel terreno e fu accolto con entusiasmo dagli sventura­ti indiani taino. Nel 1512 Diego Velázquez

de Cuéllar vi fondò la prima città coloniale delle Americhe, che fu capitale dell’isola dal 1518 al 1522. Non si direbbe. La città non fa sfoggio della tipica, e sbiadita, grandeur coloniale. Somiglia piuttosto a un villaggio in rovina, con ile di cadenti case coloniali dove galli, maiali e cani randagi si mescola­no ai bambini. La parte nord della città è intrisa dell’aroma del cacao: a Baracoa c’è l’unica fabbrica di cioccolato di Cuba.

Tagliata fuori dalle montagne per seco­li, Baracoa resta ancora una città isolata. I volti della popolazione locale conservano ancora qualche tratto degli indiani taino. La città si arrampica sulle colline, con case sparse tra le palme e gli alberi di mango. Il museo archeologico si trova in una serie di grotte che ospitano le antiche tombe dei taino: accanto ai reperti precolombiani si vedono scheletri raggomitolati. Intorno a noi ci sono capanne e alberi di banano. L’hotel El Castillo è una delle vecchie forti­icazioni di Baracoa. Dalla piscina dell’al­bergo si può ammirare il panorama sulla campagna: dalla cima piatta e coperta di foschia del monte El Yunque ino ai iumi che si gettano in mare. È senza dubbio il panorama più incantevole di tutta l’isola.

Per quasi tutto il nostro soggiorno a Ba­racoa, tuona e piove a dirotto. Ci sediamo sulle sedie a dondolo sotto la veranda e guardiamo il paesaggio cambiare aspetto: il cielo si rischiara, i iumi diventano di uno strano color borgogna e il mare si tinge apo­calitticamente di marrone. Quando la piog­gia si placa andiamo a visitare la sorgente del río Toa. Sotto un cielo carico di nubi mi­nacciose scopriamo una spiaggia deserta piena di noci di cocco e assi di legno trasci­nate dalle correnti. Il Toa, di un intenso verde smeraldo, si getta nel mare tra rapide e mulinelli.

Tre persone pescano e alcune ragazze lavano i panni. Due innamorati si abbrac­ciano sulla secca. Alla foce del río Yumurí, che scorre tra una serie di gole mozzaiato, le donne preparano dentice in salsa di coc­co nelle case diroccate sulla spiaggia. Arri­viamo a playa Maguana, una spiaggia 25 chilometri a nord di Baracoa. Ci fermiamo a villa Maguana, un elegante capanno di tronchi di legno in riva al mare, con 12 stan­ze spaziose. Sulla spiaggia un abitante del villaggio di nome Javier ci serve aragosta fatta in casa, accompagnata da piantaggine e insalata, il tutto per meno di tre euro. Ja­vier taglia le estremità di due noci di cocco verdi per farci bere.

Mangiamo l’aragosta sotto lo sguardo di un enorme maiale puzzolente, pensando a come andarcene di qui. u fas

Tagliata fuori dalle montagne per secoli, Baracoa resta ancora una città isolata

A tavola

u “Trovare un buon ristorante a Cuba, con un servizio accettabile e prezzi onesti, è un’impresa”, scrive il New York Times. La maggioranza dei locali che servo­no i turisti è gestita dallo stato e ofre una cucina mediocre a prez­zi salatissimi. Un’alternativa, pe­rò, esiste: sono i paladares, piccoli ristoranti ospitati in case private che hanno il permesso di cucina­re per gli stranieri a patto di ri­spettare una serie di regole e vin­coli molto severi, dal numero dei coperti alle materie prime che possono comparire nei menù. “È qui che si trova la vera cucina cu­bana”, scrive El País: cioè cucina creola, un misto di inluenze eu­ropee, soprattutto spagnole, e afrocaraibiche.

Alla base di ogni pasto di soli­to c’è la carne – maiale, manzo o pollo, arrostito o fritto –– accom­pagnata da riso, fagioli, yucca e plátanos, le grandi banane carai­biche. Frutti di mare e pesce sono invece riservati ai ristorante degli alberghi e ai locali di stato. Tra i piatti tradizionali ci sono la ropa vieja (manzo, peperoni e cipolle), l’ajiaco (uno stufato speziato di carne e verdure) e il congrí (riso con fagioli rossi). Per assaggiare la cucina popolare cubana il quo­tidiano spagnolo consiglia La co­cina de Liliam, uno storico pala-dar dell’Avana che è stato trasfor­mato dalla padrona, Liliam Domínguez, in un vero e proprio ristorante, perdendo però quel fa­scino familiare che hanno le pic­cole casas particulares della città. Un altro buon indirizzo è la Gua­rida, sempre nel centro dell’Ava­na. Qui è stata girata all’inizio de­gli anni novanta buona parte del ilm Fragola e cioccolato. L’am­biente, “intimo e ricercato”, rico­struisce la Cuba degli anni venti, e i piatti sono realizzati con atten­zione e buone materie prime.

Alla scopertadei paladares

Page 71: Internazionale 870
Page 72: Internazionale 870

72 Internazionale 870 | 29 ottobre 2010

Graphic journalism

Page 73: Internazionale 870

Internazionale 870 | 29 ottobre 2010 73

Francesca Ghermandi è un’autrice di fumetti. Vive a Bologna. Ha 46 anni.

Page 74: Internazionale 870

Cultura

Libri

A colpi di cifre è diicile dimo-strare che gli abitanti di Bue-nos Aires leggono più degli altri. Ma basta guardarsi in-torno. La signora alla ferma-

ta dell’autobus alza lo sguardo dalle pagine di un romanzo di Alan Pauls, come se cer-casse la complicità di chi è in ila con lei. L’uomo nella metropolitana che, nonostan-te la calca, estrae dalla valigetta la copia di un corso di inglese. I porteños, gli abitanti di Buenos Aires, leggono riviste e trattati di sociologia, best seller, classici americani. Leggono sugli scalini del tribunale, nei caf-fè, sotto i platani. Spesso si ha l’impressione

che questa città rumorosa, febbrile, ansi-mante e molto bella, sia una gigantesca sala di lettura.

In Argentina ci sono 2.409 librerie, circa 900 nell’area di Buenos Aires. In rapporto al numero di abitanti, l’Argentina, con più di 20mila novità editoriali all’anno, supera la concorrenza del Messico, dove si svolge la più grande iera del libro di tutti i paesi di lingua spagnola.

Punti d’incontro

Le librerie di Buenos Aires sono luoghi d’iniziazione e punti d’incontro, isole di quiete in un oceano di chiasso e attrazioni turistiche. La recente guida El libro de los li-

bros è dedicata proprio alle librerie della città, che sopravvivono malgrado un caoti-co sistema di distribuzione, mentre l’inai-dabilità delle poste blocca l’e-commerce. Se una libreria chiude, due giorni dopo ne apre un’altra tre isolati più in là.

Da quando i giovani creativi e i turisti hanno invaso Palermo Viejo, il quartiere è stato soprannominato Palermo Soho. Loca-li bio e costose boutique di stilisti argentini spuntano nelle strade costeggiate dagli edi-ici bassi con balconi in ferro battuto. È in-credibile la densità di riferimenti letterari in questo quartiere.

Se chiediamo di indicarci la migliore li-breria della zona, capitiamo al civico 5574 di Honduras. La libreria Eterna Cadencia, molto ben fornita, esiste da appena cinque anni. Ma le assi in legno del pavimento scricchiolano come se fossero qui da sem-pre. Nel patio del negozio, con il tetto in ve-tro, ci si può immergere nella lettura. Sedu-te ai tavolini, alcune coppie pranzano con-versando sottovoce. Dal soitto scendono sculture fatte con i libri. Nel cafè la sera si svolgono spesso incontri di lettura, work-shop e seminari.

Lo scrittore Carlos Gamerro riconduce la passione dei giovani per la lettura anche alla dittatura militare. Gli insegnanti rivolu-zionari che non erano stati sequestrati da-vano lezioni private. In quegli anni era pos-sibile ottenere un buon livello di istruzione solo in clandestinità. Il trauma della ditta-tura ha lasciato ferite non rimarginate.

All’entrata della Librería de las Madres, sulla avenida de Mayo, ci sono le sculture di due donne, riproduzioni a grandezza natu-rale delle coraggiose manifestanti di plaza de Mayo. La piccola libreria è specializzata in temi politici: diritti umani, antologie sul-

JuA

N M

AN

uE

L C

ASt

ro

Pr

IEt

o (V

u/B

Lo

BC

G)

I porteños leggono ovunque. A Buenos Aires ci sono novecento librerie e nel 2011 sarà capitale del libro

La città dei lettori

Karin Ceballos Betancur, Die Zeit, Germania

74 Internazionale 870 | 29 ottobre 2010

Page 75: Internazionale 870

Avenida 9 de Julio, a Buenos Aires. Nella pagina accanto: la Librería de las Madres e l’Ateneo Grand Splendid

la storia della rivolta negli anni della crisi inanziaria. Ci sono delle targhette incise che indicano le sezioni delle opere fonda-mentali di Lenin, Marx ed Engels, libri che, durante la dittatura, potevano costare la vi-ta a chi li possedeva.

A pochi passi, accanto alla Casa Rosa-da, all’angolo Alsina/Bolívar, nel 1764 aprì La Botica, la prima libreria della città. Ol-tre ai libri vendeva anche medicinali e pro-dotti alimentari. Insomma tutti beni di prima necessità. Il negozio cambiò più vol-te proprietario inché fu il turno della Li-brería del Colegio, nome con cui è cono-sciuta ancora oggi in tutta la città, anche se uicialmente da qualche anno si chiama Librería de Ávila.

El libros de los libros dedica due pagine alla grande sala principale, che si snoda su due piani con una galleria in mezzo. Proba-bilmente custodisce molti tesori. Basta riu-scire a trovarli. Libri di ogni epoca trabocca-no dagli scafali e dai tavoli, ordinati secon-do misteriosi princìpi. Il commesso non trova il libro di una giornalista argentina molto famosa che sto cercando. In compen-so scrive il suo numero di telefono su un fo-glio di carta. E il libro? Prova direttamente dall’editore, mi consiglia. “Oppure torna fra due giorni”, dice, “possiamo chiamarla insieme”.

Nel mercato librario argentino non esi-stono molti intermediari. Questo permette alle librerie di sopravvivere, perché aumen-ta il loro margine di guadagno. In compen-so la distribuzione è caotica, e gli stessi li-brai faticano a orientarsi. Chi ha urgente bisogno di un volume che non sia in cima alle classifiche, lo deve cercare da solo. “Leggere”, dice lo scrittore argentino Álva-ro Ábos, “richiede molta passione”.

Se la Librería de Ávila è come una ragaz-zina bella ma disordinata, l’Ateneo Grand Splendid, sulla larga avenida Santa Fe, è la sorella vanitosa. Il vecchio teatro dei primi del novecento, ristrutturato, è la libreria più grande e più bella del continente. Ci sono soprattutto novità. La scelta non è delle più originali, ma Ateneo, una catena di librerie, punta sul lettore medio.

Fino a tarda notte

Torniamo su avenida de Mayo, in una tra-versa chiamata Suipacha, nella libreria di Alberto Casares. Con dedizione Casares, aiutato da due dei suoi quattro igli, sceglie i libri preziosi in mezzo ai lasciti bibliotecari della città. Le poche novità librarie sono esposte su lunghi tavoli, come premi di con-solazione. Senza i pezzi da collezione, dice uno dei igli di Casares, avrebbero dovuto chiudere da tempo.

La sera una luna pallida illumina l’Obe-lisco, emblema della città. Un fascio di luce proveniente da alcuni riflettori illumina avenida Corrientes. Nelle buie traverse i

cartoneros, che raccolgono materiale rici-clabile, cercano carta nella spazzatura. Una parte di quei riiuti tornerà nelle librerie. Da quasi dieci anni la cooperativa Eloísa Car-tonera collabora con i cartoneros pubblican-do libri rilegati con il loro cartone.

Avenida Corrientes è un chilometro d’asfalto e di chiasso, lungo il quale si allinea no teatri, ristoranti, cafè e librerie aperte ino a tarda notte. Buenos Aires, di-chiarata dall’Unesco capitale mondiale del libro per il 2011, ha inaugurato il program-ma “Yo leo en el bar” (Io leggo nel bar), così anche nei locali dell’avenida si trovano libri da prendere in prestito.

Dopo la crisi molte delle librerie più par-ticolari hanno chiuso, lasciando il posto ad altri negozi. Ma anche questi danno il loro contributo, difondendo letteratura a prezzi che la gente si può permettere, libri da leg-gere in metropolitana, in autobus, alla fer-mata. Jack London con testo a fronte ingle-se/spagnolo si può acquistare a cinque o sei pesos (due o tre euro).

Sul retro della libreria Cátedra, dove i-no a poco tempo fa si gestiva la distribuzio-ne di riviste porno usate, oggi si trovano vecchi numeri di periodici di moda e di ar-chitettura. Lacan si alterna a manuali di sessuologia e saggi politici. E c’è anche un catalogo di abbigliamento sportivo dell’estate del 2005 a 25 pesos. Evidente-mente a Buenos Aires ci sono poche pubbli-cazioni per le quali, da qualche parte, non si trovi comunque un lettore. u az

JUA

N M

AN

UE

L C

AST

RO

PR

IET

O (V

U/B

LO

BC

G)

Internazionale 870 | 29 ottobre 2010 75

Page 76: Internazionale 870

76 Internazionale 870 | 29 ottobre 2010

Cultura

Cinema

Dieci ilm nelle sale italiane giudicati dai critici di tutto il mondo

Massa critica

MediaL

E F

IGA

RO

Francia

TH

E G

UA

RD

IAN

Gran B

retagna

LIB

ÉR

AT

ION

Francia

LE

MO

ND

E

FranciaT

HE

WA

SHIN

GT

ON

PO

ST

Stati

Unit

i

TH

E D

AILY

TE

LE

GR

AP

H

Gran B

retagna

GL

OB

E A

ND

MA

IL

Canada

TH

E IN

DE

PE

ND

EN

T

Gran B

retagna

LO

S AN

GE

LE

S TIM

ES

Stati

Unit

i

TH

E N

EW

YO

RK

TIM

ES

Stati

Unit

i

Legenda: ●●●●● Pessimo ●●●●● Mediocre ●●●●● Discreto ●●●●● Buono ●●●●● Ottimo

burieD 11111 - 11111 11111 11111 - - - 11111 11111 11111

innocenti bugie 11111- - 11111 11111 11111 11111 11111 11111 11111 11111

salt 1111111111 11111 11111 11111 11111 11111 11111 11111 11111 11111

cattivissimo me 11111- 11111 11111 - - - 11111 11111 11111 11111

mangia prega ama 11111- - 11111 - - - 11111 - 11111 11111

Wall street… 1111111111 11111 11111 11111 11111 11111 11111 11111 1111111111

lo zio boonmee… 1111111111 - 11111 11111 11111 11111 - 11111 - -

step up 3D 1111111111 - 11111 11111 11111 - 11111 - 11111 11111

11111tHe toWn 1111111111 11111 11111 11111 11111 11111 11111 11111 11111

inception 1111111111 - 11111 11111 - 11111 11111 11111 11111 11111

Italieni I ilm italiani visti da un corrispondente straniero. Questa settimana lee marshall, collaboratore di Condé Nast Traveller e Screen International.

GORBACIOF

Di Stefano Incerti. Con Toni Servillo, Geppy Gleijeses, Mi Yang. Italia 2010, 85’ ●●●●●

Il cinema non ha necessariamente bisogno di parole per funzionare. Sarebbe bello se più sceneggiatori (soprattutto quelli italiani) capissero questa cosa. L’hanno capita benissimo Stefano Incerti e Diego De Silva, coautori di questo bel ilm diretto dallo stesso Incerti. Per almeno un quarto d’ora il protagonista – interpretato da Toni Servillo e soprannominato Gorbaciof – non parla. È una specie di automa: fa il suo lavoro di cassiere, asseconda il suo vizio (il gioco d’azzardo), cammina e guarda le persone, sempre con la stessa espressione, quasi di disgusto, e gli stessi movimenti. Ma più che meccanica la sua vera natura sembra animale: quando incontra un into matto in metropolitana che gioca a fare la scimmia, Gorbaciof lo zittisce diventando lui stesso una scimmia cattiva. E ci rendiamo conto subito che, a diferenza dell’altro, sta facendo sul serio. Gorbaciof è tutto qui. La trama è debole, soprattutto quando scivola verso una storia d’amore un po’ stucchevole (o forse solo poco credibile) fra Gorbaciof e una bella cameriera cinese. Ma regalarci un personaggio così originale e memorabile non è da poco.

l’edizione 2010 del festival di Karlovy vary ha deluso. la sorpresa è un ilm bri-tannico ignorato in patria Negli ultimi anni il festival ce-co di Karlovy Vary si è costrui-to una solida fama. Anche se si svolge in un momento dell’an-no non proprio felice (all’inizio di luglio), gli organizzatori era-no riusciti a mantenere uno standard alto proponendo otti-mi ilm soprattutto dall’Euro-pa dell’est. Non quest’anno.

Tra i ilm più promettenti c’era There are things you don’t know, dell’iraniano Fardin Saheb Zamani, che però è riu-scito solo a dimostrare che un

ilm su un taxi che gira per Teheran, se non è di Kiarosta-mi, può risultare molto noioso. Mother Teresa of cats, di Pawel Sela, è un ilm adatto quasi esclusivamente a un pubblico polacco. Al contrario Woman with broken nose, di Srdjan Ko-ljevic, è una specie di Crash

ambientato nella Belgrado di oggi. È un ilm ricco di energia balcanica, umorismo nero e fede nella natura umana. Ma la rivelazione è stato un ilm britannico, riiutato in patria da festival e distributori. The be all and end all di Bruce Webb è la storia di due adole-scenti ossessionati dall’idea di perdere la verginità. Ma non si deve pensare a una comme-diola. Si ride, ma quando a uno dei due è diagnosticata una malattia al cuore, cosa che lo rende ancora più determinato nel suo intento, c’è spazio an-che per commuoversi.nick roddick, sight & sound

Dalla Repubblica Ceca

Più ombre che luci

the be all and end all

Page 77: Internazionale 870

Internazionale 870 | 29 ottobre 2010 77

In uscita BHUTTO

Di Jessica Hernandez, Johnny O’Hara. Stati Uniti/Gran Bretagna 2010, 115’●●●●● In un periodo in cui il Pakistan compare sulle pagine dei gior-nali quasi sempre per calamità naturali o per la sua precaria si-tuazione politica, Bhutto ofre un’immersione condensata ma ampia nelle complessità di una nazione con una storia movi-mentata e caotica che l’occiden-te da tanto tempo cerca dispera-tamente di capire, spesso senza riuscirci. In più getta uno sguar-do inedito nella vita pubblica e privata di una donna e della sua eredità politica e personale. Il ilm è stato messo insieme sele-zionando ore e ore di interviste ad amici, parenti e rivali di Be-nazir Bhutto, arricchite con rari materiali d’archivio. Dà la sen-sazione di essere al centro della storia e di assistervi direttamen-te. Il commento politico è ai-dato a grandi nomi del giornali-smo come Tariq Ali e Reza Aslan. Hanno accettato di com-parire perino Condo leezza Ri-ce e l’ex presidente del Pakistan Pervez Musharraf. In più gran parte della vicenda la ascoltia-mo proprio dalla voce di Bena-zir Bhutto. Ma è diicile non ac-corgersi che questa lezione di storia non è esattamente obiet-tiva. Il ilm è molto “pro-Bhut-to” e anche l’atturale presidente del Pakistan Asif Ali Zardari è inquadrato con una luce un po’ troppo angelica. Come ilm sul-la vita di una donna e sul suo la-

scito, Bhutto è commovente. Ma come documentario sembra pura propaganda. Un peccato perché rischia di far passare in secondo piano la notevole storia di una donna riuscita a diventa-re primo ministro in un paese islamico. Una cosa mai vista pri-ma di allora. Huma Qureshi, The Guardian

MAMMUTH

Di Benoît Delépine e Gustave Ker-vern. Con Gérard Depardieu. Francia 2010, 89’●●●●● In un certo senso, ognuno di noi ha avuto vent’anni nel 1969 e ognuno di noi ha amato Easy ri-der di Dennis Hopper, diventa-to un faro della controcultura e più in genere del desiderio di li-bertà. E nessuno di noi, per dirla in un altro modo, pensa di aver sprecato la sua giovinezza. Chi si riconosce in tutto questo farà bene a evitare Mammuth, un ilm che mostra, con una certa crudezza, quello che sono di-ventati gli uomini di quella ge-nerazione, in cosa si è trasfor-mato il mondo e che ine hanno fatto gli ideali di quel tempo. E anche se il ilm fa ridere, fa an-che male. Benoît Delépine e Gu-stave Kervern rispolverano il road movie pataisico giocando sulle diferenze nei limiti spazio temporali del genere. Da Easy rider sono passati quarant’anni, in più siamo dall’altra parte dell’Atlantico, in Francia. Già questo, di per sé, segna un certo ridimensionamento del mito. Le grandi autostrade tra Los An-geles e New Orleans si trasfor-mano nelle più familiari strade della Charente-Maritime. Peter Fonda e Dennis Hopper si fon-dono in un unico voluminoso Gérard Depardieu, un sessan-tenne annientato da una vita da operaio, capelli lunghi e canot-tiera al vento. La moto non è più un chopper Harley Davidson, ma una Munch 4TTS-E, un mo-stro teutonico da 1.300 di cilin-drata e quattrocento cavalli,

chiamata afettuosamente mammuth, soprannome che di-vide con il protagonista del ilm. Inine non si tratta di spendere in giro per il mondo dei soldi guadagnati con la droga, ma di recuperare dai vecchi datori di lavoro i documenti necessari per poter andare in pensione. Inuti-le dire che Mammuth non ha bi-sogno di essere ucciso da bifol-chi reazionari, perché il sistema, più sottile, l’ha trasformato in un morto che rotola. Jacques Mandelbaum, Le Monde

L’ILLUSIONISTA

Di Sylvain Chomet. Francia/ Gran Bretagna 2010, 90’●●●●●

È senz’altro lui, con il suo sguar-do malinconico, la sua lunga silhouette impacciata. Lo rico-nosciamo dai pantaloni un po’ corti, come se avesse continua-to a crescere nel suo vestito. Il protagonista dell’Illusionista è Jacques Tati, reinventato come personaggio a cartoni animati. Un personaggio simile al Tati di Jour de fête compariva già nel primo lungometraggo di Sylvain Chomet, Appuntamento a Belle-ville. Nell’Illusionista, che Cho-met ha portato a termine in set-te lunghi anni, è il protagonista nei panni di un taciturno presti-giatore che ricorda tanto mon-sieur Hulot. E Jacques Tati è an-che autore della sceneggiatura, scritta nel 1959 e mai realizzata. La storia di un illusionista che decide di mettersi in viaggio per cercare un pubblico disposto ad applaudirlo, sullo sfondo di un’epoca che tramonta per la-

sciare spazio alla modernità. Quanto Appuntamento a Belle-ville era comico e movimentato, L’illusionista è un ilm tenero e contemplativo, in cui un mondo ormai dimenticato luttua tra poesia e realismo. Un pezzo di antiquariato restaurato a mano. Evidentemente Sylvain Chomet crede ancora nell’antica magia dei conigli che escono dai cilin-dri e dei disegni che si animano sulla carta, prima che sullo schermo.Cécile Mury, Télérama

POST MORTEM

Di Pablo Larraín. Con Alfredo Castro, Antonia Zegers. Cile/Messico/Germania 2010, 98’●●●●●

Chiunque abbia apprezzato To-ny Manero, il precedente ilm di Pablo Larraín, non rimarrà de-luso dal suo nuovo lungome-traggio, Post mortem. Indimen-ticabile nel ruolo dell’impassibi-le serial killer ossessionato dalla Febbre del sabato sera, Alfredo Castro torna anche in questo ilm, apertamente più politico del precedente e forse ancor più inquietante. Castro interpreta un enigmatico impiegato dell’obitorio di Santiago del Ci-le, impassibile anche quando un colpo di stato rovescia il gover-no socialista del suo paese, os-sessionato da una ballerina di cabaret che abita alla porta ac-canto e che ha perso il lavoro perché sta diventando anoressi-ca. I punti di contatto tra Post mortem e Tony Manero non ini-scono qui. I due ilm condivido-no anche l’atmosfera di profon-do squallore e una messa in sce-na che riesce a provocare un certo disagio in chi guarda. Il to-no del ilm sale gradualmente di intensità man mano che il Cile si avvia verso un regime di corte marziale e il protagonista è co-stretto ad assistere il medico le-gale che deve compiere l’autop-sia sul corpo dell’ex presidente Salvador Allende. J. Hoberman, The Village Voice

FAIR GAME

Di Doug Liman (Stati Uniti, 104’)

UOMINI DI DIO

Di Xavier Beauvois (Thailandia, 114’)

INCEPTION

Di Christopher Nolan (Stati Uniti, 142’)

Mammuth

I consigli della

redazione

Bhutto

Page 78: Internazionale 870

78 Internazionale 870 | 29 ottobre 2010

Cultura

LibriItalieni I libri italiani letti da un corrispondente straniero. Questa settimana Gerhard Mumelter, del quotidiano austriaco Der Standard.

MARIA GRAZIA CALANDRONE

Sulla bocca di tutti Crocetti editore, 140 pagine, 15,00 euro

●●●●●

“La poesia”, sostiene Maria Grazia Calandrone, “allena a una spiritualità libera da dogmi”. L’ultimo volume del-la poetessa e performer roma-na di 46 anni sembra darle ra-gione. Sono liriche forti dal linguaggio complesso dedica-te alla precarietà della condi-zione umana. Corporalità, morte e rinascita si intreccia-no in immagini visionarie, la poesia serve come “autopsia degli arti vivi”: “Sia vendem-miata / l’uvaspina dell’osso / e l’osso sia uno stelo falciato. / Venga lasciato aperto il foro d’ingresso delle aracnidi / e le parole messe a disposizione / del ferro disumano del cuore”. Calandrone cerca di dare voce al “corpo senza verbo che fu all’inizio” e lo fa con immagini struggenti dense di allusioni tragiche, che spesso ricordano le oscure visioni di Paul Celan: “Il iume è viola / mio plum-beo paramento profano: / so-no concime fatto per trasfor-marsi in luce / sono passato per l’intestino di carpe, rovelle e anguille / e tutto si moltipli-ca e si arrende / dentro l’acqua corrotta dal dolore”. Nel suo nuovo libro Maria Grazia Ca-landrone si conferma come personaggio singolare e afa-scinante. Entrare nel suo complesso mondo poe tico non è sempre facile, ma è stimo-lante e suggestivo.

GABRIELA ADAMESTEANU

L’incontro Nottetempo, 384 pagine, 18,00 euro

Nell’anno 1986, un vecchio scienziato di nome Manu Traian, da tempo residente in Italia, è invitato a tornare per una conferenza nel suo paese natale, la Romania di Ceauşescu, per conto di un ente internazionale. È accompagnato dalla moglie tedesca, Christa. Il viaggio in macchina, andata e ritorno, è il colloquio tra due vecchi, tra loro e con se stessi e tra un prima e un dopo, nel passato

di Christa sotto il nazismo e la guerra, e di Traian tra distacco e reincontro con la realtà da cui proviene e che ritrova, di un regime e dei tipi umani che esso produce e sollecita, delle resistenze e delle adesioni e degli opportunismi e delle paure che produce, di un privato che è condizionato assolutamente dal pubblico. Questo pubblico è anche e soprattutto controllo, polizia, spionaggio, e nulla dell’impossibile “ritorno a casa” del vecchio Traian deve sfuggire al regime.

Il modello indiretto per il personaggio di Traian è forse Dinu Adamesteanu, il grande archeologo romeno, zio della scrittrice, vissuto e morto in Italia, autore di scavi famosi, amico di Carlo Levi e altri meridionalisti. Ma la costruzione romanzesca dilata le esperienze e, se ne è perno una coppia di vecchi diversamente provati dalla storia, si fa necessariamente corale.

Adamesteanu, tradotta per la prima volta in italiano, è un nome nuovo e importante della letteratura europea. u

Il libro Gofredo Foi

Viaggio in Romania

Dalla Gran Bretagna

Un’impresa impossibile

Le biblioteche hanno co-minciato a conservare con-tenuti web. Ma non si può salvare tutto

Nell’era digitale si compie un piccolo paradosso. Da una par-te Google si afretta a digitaliz-zare libri, dall’altra le bibliote-che nazionali hanno comincia-to ad archiviare contenuti pub-blicati esclusivamente online. Nel 1996 Brewster Kahle ha fondato Internet archive, un’organizzazione non proit che si occupa di salvaguardare siti web. Dal 2003 Internet ar-chive e undici biblioteche na-zionali hanno lanciato un pro-getto comune per archiviare e conservare contenuti che non sono mai arrivati sulla carta.

I problemi sono tanti. In-tanto è complicato trovare un

formato per conservare i docu-menti che non rischi di diven-tare obsoleto in pochi anni. E poi c’è una questione di costi. La biblioteca del congresso statunitense ha calcolato che conservare un documento di-gitale costa la metà che con-

servarne uno cartaceo. Ma co-sta comunque molti soldi. Per ora ogni biblioteca darà la priorità ai documenti di inte-resse nazionale. Ma l’impresa potrebbe dimostrarsi estrema-mente diicile. The Economist

Co

NT

RA

STo

/AN

zE

MB

ER

GA

GE

NC

y

Page 79: Internazionale 870

Internazionale 870 | 29 ottobre 2010 79

ADAM GOPNIKUna casa a New YorkGuanda, 396 pagine, 20,00 euro ●●●●●

Adam Gopnik, che scrive per il New Yorker dal 1986, è cono-sciuto soprattutto per un bellis-simo libro che raccoglie le sue osservazioni su Parigi, in cui ha lavorato dal 1995 al 2000. Ora arriva un altro libro su una città, New York, dove è tornato sette anni fa con la moglie e i due bambini e dove, in certa misu-ra, preserva il suo stato di out-sider, anche se è cresciuto in Canada ed è venuto per la pri-ma volta a New York da ragazzi-no e poi, dopo la laurea, ci si è trasferito. “Fin da allora, New York è il luogo in cui concreta-mente sono e il posto in cui vor-rei essere anche quando sono lì”. Gopnik ama le città, e riesce a cogliere istintivamente il mo-do in cui funzionano (la loro psicologia più che le loro fogna-ture e metropolitane, sebbene descriva altrettanto bene gli ediici e le infrastrutture). Que-ste due New York – quella dove vive e quella di cui è sempre in cerca – hanno la loro storia d’amore, ma anche le loro fru-strazioni: “A New York, lo spa-zio tra ciò che vuoi e ciò che hai crea una sorta di prurito civico: non conosco un solo newyor-chese soddisfatto”. L’eccezione a questa regola potrebbe essere proprio Gopnik. In questo libro, il suo amore per la città sopra-vanza le sue lamentele. La sua adorazione è l’amore febbrile di chi è tornato, e anche un’altra conseguenza dell’undici set-tembre. New York, città dei mil-le cliché, è stata riportata sor-prendentemente in vita.Rachel Cooke, The Guardian

KARIN ALVTEGEN

OmbraNottetempo, 438 pagine, 15,00 euro●●●●●

L’amore per la cultura rende le persone migliori? Nel nuovo ro-

manzo di Karin Alvtegen, Om-bra, troviamo una risposta ine-quivoca alla domanda: no. La trama ruota intorno all’apprez-zato scrittore Axel Ragnerfeldt, che ha ottenuto il premio Nobel per la letteratura ed è un inat-taccabile simbolo di saggezza etica. I suoi romanzi sono con-siderati ritratti penetranti del bene e del male degli uomini. Ma è passato molto tempo da quando ha scritto l’ultimo libro. Dopo l’ictus che lo ha colpito, è il iglio Jan-Erik ad amministra-re il suo capitale morale, viag-giando in lungo e in largo per difondere il vangelo paterno. Al centro di questa storia di successo, tuttavia, è nascosto un gigantesco buco nero, accu-ratamente rimosso. Le appa-renze sono ingannevoli: Axel non è decisamente un santo. Sua moglie ha abbandonato la carriera di scrittrice per pren-dersi cura dei bambini, caden-do nella disillusione e nell’alco-lismo. E anche con i igli le cose non sono andate molto bene. Jan-Erik, per esempio, è emoti-vamente menomato, incapace di mostrare qualunque senti-mento per la moglie e la iglia. Cerca sollievo nell’alcol e nelle amanti che incontra nei suoi in-terminabili giri di conferenze. Ma all’esterno rimane intatta l’immagine ideale della fami-glia Ragnerfeldt, unita e fortu-nata. Alvtegen smantella in modo lento ma inesorabile i se-greti piccoli e grandi della fami-glia. E quel che emerge non è bello. Magnus Persson, Svenska Dagbladet

LEONARDO PADURA FUENTES

L’uomo che amava i caniTropea, 601 pagine, 22,00 euro ●●●●●

L’uomo che amava i cani rico-struisce l’assassinio di Lev Trotskij in Messico per mano dello spagnolo Ramón Merca-der. Uno dei motivi centrali è quello dell’esilio: in anni con-

LORE SEGAL

Shakespeare’s kitchen (Cargo)

ELIZABETH STROUT

Resta con me (Fazi)

V.S. NAIPAUL

Scrittori di uno scrittore (Adelphi)

JONATHAN LITTELL

Cecenia, anno III Einaudi, 120 pagine, 18,00 euro ●●●●●

È la cronaca di un viaggio nel paese di Ubu, in una piccola re-pubblica montanara esangue dopo quasi vent’anni di guerra, sottomessa al pugno di ferro di un satrapo megalomane, allo stesso tempo melliluo e san-guinario. Ramzan Kadyrov re-gna attraverso la corruzione, il terrore, l’islamizzazione, ma soprattutto grazie alla protezio-ne di Vladimir Putin, l’uomo forte di Mosca che lo ha impo-sto per succedere ad Akhmad Kadyrov, suo padre, ex muftì indipendentista ucciso in un at-tentato dai ribelli.

Sul taxi preso all’aeroporto, Jonathan Littell vede silare “la città nuovissima deposta sulle orme della vecchia città rovina-ta, devastata, distrutta senza ri-uscire ad annullarla come se l’una fosse il sogno dell’altra”. Appariscenti moschee nuove di zecca, viali pieni di iammanti fuoristrada. Non un solo palaz-zo danneggiato.

Il presidente ha dato ordine di riparare tutto. “Parigi sembra conservare più tracce della se-conda guerra mondiale che Grozny dei suoi due conlitti”, scrive Littell, stupito. Il restauro delle facciate della capitale è l’espressione dell’ingannevole “normalità” della Cecenia in questo terzo anno di regno di Kadyrov.

Lo scrittore conosce bene questa repubblica caucasica perché ci ha vissuto come vo-lontario di Action contre la faim durante la guerra dei primi anni novanta e quella del 2001. Ci è tornato per un mese, ad aprile, curioso di vedere in che consi-ste davvero la “paciicazione” vantata da Mosca. La sua prima

Il saggio

Ritorno in Cecenia

impressione è stata quella di una normalizzazione di facciata che copre un terrore più seletti-vo ma ancora più implacabile.

Nel 2002 Putin lanciò la “ce-cenizzazione” di questo conlit-to interminabile, vale a dire che insediò un potere ilorusso composto di ex ribelli. Il racket del potere è sistematico e tutti i livelli prendono la loro quota, ma il grosso del denaro della corruzione deve restare sul po-sto. Così le sue ricadute alimen-tano un’economia parassitaria e la dittatura ne ricava una cer-ta legittimità. Il regime cerca di convincere gli esuli a tornare. Molti si lasciano tentare: sono soprattutto ceceni con il pa-triottismo di un popolo che combatte da un secolo e mezzo per la libertà e la sopravviven-za. Altri riiutano: “L’inferno, anche se diventato abitabile, re-sta l’inferno”.

Dopo un successo come quello delle Benevole, Littell è tornato alla grande. È capace di vedere e di far vedere. Ha tro-vato un tono lontano dalle iori-ture e dalle morbose preziosità del romanzo che lo ha reso fa-moso. Marc Semo, Libération

I consigli della

redazione

BA

LTz

ER

/zE

NIT

/LA

IF

Jonathan Littell

Page 80: Internazionale 870

80 Internazionale 870 | 29 ottobre 2010

Cultura

Librivulsi Trotskij si rifugiò tempo-raneamente in vari paesi – Tur-chia, Francia, Norvegia – ino ad approdare in Messico. Il ro-manzo dello scrittore cubano è itto di tenebrose cospirazioni, cambi d’identità di personaggi come Kotov o lo stesso Merca-der, tradimenti inaspettati, in-certezza davanti al senso delle azioni. Il canovaccio della sto-ria è rispettato a grandi linee, ma la costruzione romanzesca lo supera in dalla concezione stessa del racconto, che è una variante dell’espediente del “manoscritto ritrovato”: Da-niel, uno scrittore cubano, di-vulga un manoscritto del suo amico Iván. Padura alterna così tre piani tematici: le peregrina-zioni di Trotskij, le manovre dello spionaggio sovietico e in-ine il “romanzo di Iván Cárde-nas”, giovane cubano che arriva a conoscere – senza saperlo – Mercader da vecchio e che sco-pre grazie a lui la perversione dell’utopia comunista, com-prendendo più a fondo anche la storia di Cuba.Ricardo Senabre, El Cultural

niCk Laird

L’errore di GloverMinimum fax, 305 pagine, 16,50 euro●●●●●

Il nuovo romanzo di Nick Laird è strutturato intorno a un vec-chio espediente: quello del nar-ratore inaidabile. Sebbene non sia scritto in prima perso-na, è presentato dal punto di vi-sta del protagonista, David Pin-ner. Inizialmente, questo inse-gnante di 33 anni sembra un ti-po scialbo ma inofensivo. Poi, però, diventa chiaro che è de-terminato ad afossare le chan-ce di felicità del suo coinquilino più giovane, un bel ragazzo di nome James Glover che lavora come barista. David è un mi-santropo ripugnante che si di-verte soprattutto a seminare zizzania. Quasi inevitabilmen-te, David e James vengono ai ferri corti su una donna. L’errore di Glover è una storia d’amore contemporanea che si trasfor-ma in un thriller psicologico, e nel inale riesce a creare una tensione considerevole. Ma per quanto si faccia leggere con fa-cilità, dopo la lettura resta poco.

Alastair Sooke, The Daily Telegraph

John Marks

West Side Transilvaniae/o, 497 pagine, 19,50 euro ●●●●●

La giovane reporter novizia Evangeline Harker viene spe-dita in Transilvania a intervi-stare il perido gangster Ion Torgu. Evangeline, anche se porta lo stesso cognome del protagonista di Dracula di Bram Stoker ed è stata messa in guardia da un collega sulla mitologia sanguinaria della re-gione, si presenta con un po’ di incoscienza al castello di Tor-gu. Presto scoprirà che il suo ospite, capo della malavita lo-cale, è un mostro che si nutre di sangue umano. Per metà sa-tira, per metà romanzo di vam-piri, West Side Transilvania ha una struttura assurdamente complicata, in cui si avvicen-dano molte voci narranti, e tira un po’ troppo per le lunghe l’analogia umoristica tra gior-nalisti e succhiatori di sangue. Joe Queenan, The new York Times

Bruno Munari

Disegnare un albero Corraini, 88 pagine, 10,00 euro

Per chi è nato dopo gli anni ot-tanta ed è stato abituato in da piccolo ad associare il termine “design” con l’aggettivo “esclusivo” può essere sor-prendente scoprire che nel 1978, nella stessa Italia in cui si sparava per le strade, un de-signer di successo internazio-nale si preoccupava di spiega-re a bambini e adulti qual è il trucco per disegnare un albero esattamente come è nella real-tà. Il principio è semplice,

spiegava Bruno Munari in questo libro fatto di pochissi-me parole e di moltissimi dise-gni (tutti di alberi): basta deci-dere quante ramiicazioni mettere. Se ne vogliamo met-tere due, dopo aver fatto il tronco basta disegnare due ra-mi da ognuno dei quali ne par-tono altri due e così via. L’im-portante è rispettare la regola: “Il ramo che segue è sempre più sottile del ramo che lo pre-cede”.

Il resto è a discrezione (con o senza foglie, rigido o ondula-to, piegato o diritto…) e serve a

dare carattere, ma la struttura resta sempre quella. Scorren-do le pagine è diicile resiste-re alla tentazione di disegnare il proprio albero, ricavandone grande soddisfazione non tan-to per aver imparato a esegui-re un compito, quanto per aver capito come funziona qualco-sa a cui non si era mai fatto ca-so. Forse, pensava Munari, chi capisce come funziona la real-tà che lo circonda al punto da poterla riprodurre ne ha anche un po’ meno paura. E un albe-ro può essere un inizio inco-raggiante. u

non iction Giuliano Milani

Per fare un albero

in inglese

John Le Carré

Our kind of traitor VikingDima, un magnate russo che ha fatto i soldi riciclando denaro del narcotraico, ora è inseguito dai suoi clienti gangster e per salvarsi la pelle cerca l’aiuto dei servizi segreti britannici. In cambio è disposto a dare infor-mazioni sulla criminalità inter-nazionale.

ToM MCCarThY

C Jonathan CapeAmbientato nell’Inghilterra di inizio novecento, C segue la breve e intensa vita di Serge Carrefax attraverso una serie di scene: la nascita, nel 1898, da una madre muta e un padre che dirige una scuola per sordomuti e fa esperimenti di trasmissione radiofonica, la seconda guerra mondiale, la prigionia in Ger-mania, l’eroina, un viaggio in Egitto. McCarthy è nato nel 1969. Vive a Londra.

CoLM TóiBín

The empty family Viking Nove racconti in cui lo scrittore irlandese esplora temi a lui fa-miliari: l’esilio e il ritorno in Ir-landa, spesso al capezzale di una persona cara morente, la perdita, gli amori diicili, le dif-ferenze tra le famiglie in cui sia-mo nati e quelle che formiamo.

seaMus heaneY

Human Chain Faber & FaberLa nuova raccolta di poesie di Heaney parla di eredità nel sen-so più ampio della parola. Una catena umana i cui anelli sono composti di tolleranza, una pietas quasi virgiliana, amore e sopportazione. E sono raforzati dalla letteratura.Maria Sepa

DA

VID

LE

VE

NS

oN

/GE

TT

y I

MA

GE

S

Page 81: Internazionale 870
Page 82: Internazionale 870
Page 83: Internazionale 870

Fumetti

Fuga in avanti

JACQUES TARDI

Le straordinarie avventure di Adèle Blanc-secRizzoli Lizard, 200 pagine,

18,00 euro

Quando Jacques Tardi disegna i grigi palazzi parigini e i grandi boulevard voluti da Georges-Eugène Haussmann, il realismo fotograico d’epoca (siamo nel 1911-1912) è restituito attraverso un tratto mobile, sottile, quasi fragile, ma preciso.

Abile è l’intreccio tra questo realismo fotograico, che restituisce appieno la belle époque, adottato anche per le igure di sfondo o di contorno, e i personaggi dall’aspetto grottesco. In questi racconti concepiti tra il 1976 e il 1978, se non vi fosse il disegno di Tardi, che rende così onirico il realismo (si veda la sequenza notturna d’apertura dell’uovo di pterodattilo che si schiude, da antologia) e così realistico l’onirismo (la sequenza del sogno con i dinosauri),

amalgamando alla perfezione il tutto, questa rivisitazione ante litteram del feuilletton e dell’archeologia misteriosa (prima cioè di Indiana Jones, Martin Mystère, eccetera) e del complottismo farsesco (prima di Men in black, eccetera), sarebbe da leggere appena, perché privo della poesia rainata di cui il segno di Tardi è intriso.

Vincent Amiel, autorevole critico di cinema del mensile francese Positif, scrisse che il segno di Tardi sembra sempre correre – “in fuga” – in avanti: simboleggia quasi il segno del fumetto.

Ma dove corrano i personaggi di Tardi, poiché qui l’approccio è postmoderno, non si sa, proprio come noi. L’opera più leggera di uno dei massimi autori del fumetto contemporaneo, che in Francia si è ormai conclusa e ha tirature folli, giunge in Italia in edizione cronologica.Francesco Boille

Internazionale 870 | 29 ottobre 2010 83

Cultura

LibriRicevuti

SILVINA OCAMPO

Un’innocente crudeltàLa nuova frontiera, 185 pagine, 15,00 euro Il ilo conduttore di questa antologia è rappresentato da bambini e bambine narrati senza concessioni al mito dell’infanzia come “età d’oro” e intenti a spiare il mondo dietro porte socchiuse, a commettere seraici delitti quanto a esserne vittime.

AUTORI VARI

Libro sui libriLupo editore, 163 pagine, 13,00 euroNove racconti sull’esperienza della lettura attraverso Sciascia, Scerbanenco, Roth, DeLillo, Balzac, Pontiggia, Eco, Cervantes, Sartre, Collodi, Bernhard, Austen, Céline.

ERRI DE LUCA

E DANILO DE MARCO

Le rivolte inestirpabili Forum, 111 pagine, 14,50 euroIl diario di viaggio di De Luca e De Marco alla ricerca dei propri ideali, “resistenti” contro la disillusione. Dai rom ai sans papier: “Irriducibili messaggeri del cambiamento”.

KIRIL KIRILOV MARITCHKOV

ClandestinationCooper,244 pagine, 16,00 euro Immigrazione, schiavitù moderne, degrado sociale: ritratto scomodo del nostro paese, un romanzo crudo e avvincente.

RAYMOND HINNEBUSCH

La politica internazionale in Medio OrienteIl Ponte, 293 pagine, 23,00 euroIl Medio Oriente è costituito intorno a un nucleo arabo con un’identità comune, ma frammentato in molteplici stati territoriali. Il nucleo è circondato da una periferia di stati non arabi che sono parte integrante dei conlitti della regione e del suo equilibrio.

JAMES HANSEN

TempesteEdizioni Ambiente, 256 pagine, 24,00 euroHansen chiarisce molti aspetti della scienza del clima. La situazione è drammatica eppure le soluzioni ci sono.

DEON MEYER

Tredici oree/o, 480 pagine, 19,50 euroMeyer mostra i diversi volti del nuovo Sudafrica, un paese in cui la razza e il colore della pelle continuano a regolare rapporti sociali ed economici.

WILLIAM G. CLOTWORTHY

Censurato!Sagoma, 303 pagine, 18,00 euroAnalisi in chiave psicoanalitica della tv statunitense che permette di comprendere le logiche che animano il backstage del piccolo schermo e di valutare l’evoluzione del gusto e della morale nella contraddittoria società americana.

MOHAMED ADEN SHEIKH

La Somalia non è un’isola dei CaraibiDiabasis, 321 pagine, 19,00 euro I principali personaggi della Somalia di oggi, dai signori della guerra di Mogadiscio ai ras, civili e militari, che regnano su un mosaico di regioni, fazioni e clan.

JOSEPH E. STIGLITZ

BancarottaEinaudi, 429 pagine, 21,00 euro La verità sulla crisi globale: cosa bisognava fare, cosa è stato fatto, come inirà.

A CURA DI JOANNA EEDE

Siamo tutti unoLogos, 224 pagine, 29,95 euro Fotograie che testimoniano le culture straordinariamente diverse di tante tribù indigene di tutto il mondo. I proventi della vendita del libro saranno devoluti a Survival international.

Page 84: Internazionale 870

84 Internazionale 870 | 29 ottobre 2010

Cultura

1Brigitte Ma Benz “Wine comme une vipè-

re/ si t’as le savoir-faire / T’in-quiète pas, y à pas d’galère/ J’le dirai ni à ton père ni à ta mère”. Un vecchio tube dei più infoiati dell’hip hop francese, gli Ntm dalla banlieue di St. Denis: una mostruosità machi-sta di desiderio nero che si tra-sforma qui nel divertissement di due parigine che decidono d’inzuppare nella seduzione il loro folk da biscotti caserecci; e le rime insidiose diventano sinuose. Nella compilation Hôtel Costes Vol. 14, come sem-pre assemblata da Stephane Pompougnac, ergastolano del-la lounge.

2 Esperanza Spalding Inutil paisagem Complicata come i suoi

boccoli afro, questa 28enne contrabbassista gallese carai-bicoportoghese di Portland si guarda bene dai pezzi facili. Nel suo ultimo lavoro, Cham-ber music society, non mette conini tra bossa, jazz e musica da camera. Acrobatica a ol-tranza, a volte a scapito dell’immediatezza. Qui però sminuzza le sottigliezze ritmi-co-melodiche di Tom Jobim con il solo aiuto del suo grosso grasso basso, e di sovraincisio-ni multiple della sua educatis-sima voce, raggiunge il tra-guardo che di rado sembra cer-care: la semplicità.

3 Emily Jane White The lawEsiste anche questo ge-

nere: il dark folk. Viene da una californiana tenebrosa, di quelle che si fanno scoprire prima dai francesi. Il suo al-bum è in arrivo, intanto si può scaricare questo assaggio dal suo sito. E constatare come l’insieme di una voce chiara appena increspata di tristezza, un arpeggio di chitarra sempli-ce, qualche accordo di piano-forte in crescendo, qualche in-distinto riverbero notturno e una vena di introspezione sia-no elementi di una seduzione americana furtiva, senza an-cheggiamenti né acrobazie: la conquista di un pezzo d’anima.

MusicaDal vivoCLUB TO CLUB

Plaid & Southbank Gamelan Players, Joy Orbison, Four Tet, Jef Mills, Oni Ayum, Modeselektor, Cassius, Oneohtrix Point Never Torino, Istanbul, 4-7 novembre, clubtoclub.it

JAMIE LIDELL

Bologna, 5 novembre, locomotivclub.it

FOUR TET

Roma, 4 novembre, circoloartisti.it; Bologna, 6 novembre, locomotivclub.it

THE CORAL

Milano, 1 novembre, tunnel-milano.it;

THE PARLOTONES

Roma, 3 novembre, circoloartisti.it; Milano, 4 novembre, tunnel-milano.it; Torino, 6 novembre, spazio211.com

PONTIAK

Roma, 2 novembre, circoloartisti.it; Segrate (Mi), 3 novembre, circolomagnolia.it; Madonna dell’Albero (Ra), 4 novembre, bronsonproduzioni.com; Pescara, 5 novembre, wakeupmusic.splinder.com; Padova, 6 novembre, unwound.it

CHARLIE HADEN

Milano, 31 ottobre, teatromanzoni.it

CHEMICAL BROTHERS

Torino, 31 ottobre, movement.it

Un tour musicale tra violini e kantele, alle radici del folk nordeuropeo

Il Folk music festival di Kau-stinen, piccolo comune della campagna inlandese, è la più importante rassegna di musi-ca popolare del nord Europa. L’evento attira da più di qua-rant’anni persone di ogni età. Chi arriva da fuori viene ospitato dalle famiglie del posto.

All’inizio degli anni no-vanta, la recessione che ha colpito il paese ha fatto sì che il festival si ridimensionasse. Ma gli organizzatori hanno sfruttato la situazione a loro vantaggio, spostando l’atten-

zione verso i musicisti locali emergenti. A Kaustinen è sempre stato normale sentire suonare il violino e il kantele, lo strumento musicale nazio-nale. E, quando i matrimoni tradizionali sono diventati desueti, l’accompagnamento di archi, armonium e banda

che li contraddistingueva è sopravvissuto grazie al festi-val e a band come i Tötters-sön – qui considerati dei veri e propri eroi – i Frigg, i Baltic Crossing e i Jpp. Questi grup-pi sono riusciti a rinnovare le melodie pelimanni locali, fondendo la polka, il valzer e la marcia con la musica con-temporanea, e oggi sono la new wave di Kaustinen.

Proprio alcuni di loro han-no animato una delle serate più attese dell’edizione 2010, la grande sauna del sabato, insieme a centinaia di giova-ni voci e a star come Hilja Grönfors e il cantante heavy metal Timo Rautiainen.Andrew Cronshaw, Froots

Dalla Finlandia

La casa del folk

Playlist Pier Andrea Canei

Machismo femminile

LU

CIU

S F

oN

TE

No

T

Chemical Brothers

Cedric Watson, Folk music festival 2010

Page 85: Internazionale 870

Internazionale 870 | 29 ottobre 2010 85

Elettronica

THE GLIMMERS

Whomp that sucker!(Gomma/Dance Tracks)

●●●●●Spesso la descrizione della mu-sica pop dà vita a cascate di pa-role incredibilmente complesse. Tra i vari strani neologismi si possono ricordare lo speedcore doom metal funk o l’afro latin bossa nova jazz soul. Un contri-buto importante lo ha dato an-che la musica elettronica. La musica del duo belga The Glim-mers, per esempio, potrebbe es-sere descritta come new beat funk house technoparty elektro new wave postdisco rockpop. In realtà è molto meglio dire che il lavoro di Mo Becha e David Fouquaert, cioè questo conti-nuo mix di tempi bassi pulsanti e beat in quattro quarti alla Che-mical Brothers, è musica dance nella sua forma più pura. I Glim-mers vogliono semplicemente giocare con la loro tecnica e con le nostre gambe. Basta ascoltare il brano di apertura, U rocked my world, o quello che dà il titolo all’album.Jan Freitag, Die Zeit

Rock

INTERPOL

Interpol(Soft Limit)

●●●●● Al cuore di ogni grande canzone degli Interpol è agganciato un uncino che potrebbe sanguina-re, non importa quanto sia pe-sante l’atmosfera gotica intorno.

sorpreso: la voce di Jenkins su un tappeto sonoro non molto di-stante dalle produzioni dei Pin-back. Uno strano destino che forse impedirà al gruppo di es-sere riconosciuto come uno dei tesori persi degli anni novanta.Ian Cohen, Pitchforkmedia.com

BOB DYLAN

The Witmark demos: 1962-1964(Columbia)

●●●●● Un momento di leggerezza, in netto contrasto con la seriosa immagine del Dylan di quel pe-riodo. Con i 47 pezzi raccolti nei Witmark demos, l’intenzione era semplicemente di documentare l’esistenza di una canzone in modo che altri artisti potessero registrarla in seguito. Non sem-bra che ci sia da aspettarsi gran-ché, e in efetti più di una volta Dylan pare stancarsi e darci un taglio, come in Let me die in my footsteps. Ma l’illuminazione è sempre dietro l’angolo, ed è fa-cile perdersi nella profondità, l’audacia e la bellezza della sua musica.Luke Torn, Uncut

PopLAUREN PRITCHARD

Wasted in Jackson(Universal)

●●●●● Il pezzo d’apertura dell’album di debutto di Lauren Pritchard è l’apologia di una relazione mo-notona ma aidabile. Un inizio che potrebbe portare a farsi

un’idea sbagliata sull’album, vi-sto che Pritchard, una ragazza di ventidue anni con una gran vo-ce, passa la maggior parte del tempo in Wasted in Jackson a parlare di come fuggire dalla routine quotidiana. La canzone che dà il nome all’album fa rife-rimento alla fuga di Pritchard dalla sua casa in Tennessee, quando aveva 16 anni. Dopo es-sere campata per un po’ a New York e a Los Angeles, Pritchard si è trasferita a Londra e ha co-minciato a scrivere il suo grinto-so album country-pop insieme a Eg White. Tutte le canzoni dell’album hanno una nota amara, ma l’ottima produzione di White rende il tutto molto leggero. Killian Fox , The Guardian

ClassicaANDRÉ MARCHAL

César Franck: L’opera per organo André Marchal, organo (Solstice)

●●●●● Questo cofanetto ha vinto il Grand prix du disque del 1959, poi è rimasto in catalogo a sprazzi, diventando un oggetto da collezione. Ed è senza om-bra di dubbio un punto fermo nella storia dell’interpretazione su disco. Oggi la Solstice lo ri-stampa restituendoci il timbro ormai dimenticato dell’organo di Victor Gonzalez a Saint-Eu-stache prima dei restauri. Cer-to, la registrazione non è una meraviglia, ma chi se ne frega! Il miracolo è nell’arte dell’ese-cutore, che trasforma il papa degli strumenti in un poeta ispi-rato. André Marchal (1894-1980) è stato il primo organista a impegnarsi soprattutto come interprete di altri musicisti, da quelli antichi ai contemporanei. Oggi si rimane più fedeli alla lettera dello spartito. Ma Mar-chal ne mantiene integro lo spi-rito: la libertà nel rigore e il mo-vimento costante del discorso melodico e ritmico. Paul de Louit, Diapason

Ma da qualche parte, tra Antics del 2004 e il tiepido debutto per una major, Our love to admire, i cupi newyorchesi hanno perso i ritmi ballabili che rendevano così accattivanti brani d’esordio come PDA e NYC. Questa traiettoria continua nel quarto album, in cui il gruppo devia da dove un tempo riusciva meglio. Questo non signiica che tutto è perduto: Barricade ricorda quanto manchino le linee di basso di Carlos D (uscito dal gruppo quest’anno) e di quanto ne avrebbe beneiciato la dina-mica complessiva. Buona parte di Interpol intorpidisce più che ipnotizzare: cerca di assemblare grattacieli ma alla ine confonde senza avere delle forti fonda-menta. Quando dei musicisti creano un album omonimo a metà carriera, spesso c’è dietro la volontà di rideinirsi, ma pur-troppo non è questo il caso. In-terpol suona sia stranamente di-stante sia familiare, come se la band lottasse per ricordarsi del-la propria identità.Josh Modell, Spin

THREE MILE PILOT

The inevitable past is the future forgotten(Temporary Residence)

●●●●● Negli anni novanta le case di-scograiche erano alla ricerca della “nuova Seattle” e assicura-vano contratti anche a band che non avevano nessuna prospetti-va commerciale. Si spiega così l’ingaggio ottenuto alla Gefen dai Three Mile Pilot, piccola band di San Diego che oggi tor-na in scena con The inevitable past is the future forgotten, dopo più di un decennio di silenzio. In questi anni i componenti del gruppo, Pall Jenkins e Armi-stead Burwell Smith IV, non so-no stati con le mani in mano. Jenkins ha guidato i Black Heart Procession, mentre Smith si è dedicato ai Pinback insieme a Rob Crow. Chi conosce la musi-ca dei Black Heart Procession e dei Pinback, quindi, non resterà

THE GOOD ONES

Kigali Y Ihazabu (Dead Oceans)

Resto del mondo

Scelti da Marco Boccitto

The Glimmers

Lauren Pritchard

JOSEPH TAWADROS

The Hour of Separation(Enja)

CELSO FONSECA

Voz e Violão(Microcosmo)

CH

AR

MF

AC

TO

RY

MY

SPA

CE

Page 86: Internazionale 870

86 Internazionale 870 | 29 ottobre 2010

Cultura

oil

Lunedì 1 novembre, ore 21.10 Current

Film-inchiesta sulla Saras, una delle più grandi rainerie d’Eu-ropa, afacciata sul golfo di Ca-gliari, che documenta l’impatto sulla salute dei lavoratori e degli abitanti della cittadina di Sar-roch. Il ilm è stato osteggiato dall’Eni e dai Moratti, che han-no tentato di bloccarlo.

le pouvoir du vatiCan

Mercoledì 3 novembre, ore 20.40, Arte

Nel novecento il Vaticano e la sua diplomazia hanno conqui-stato un ruolo sempre più in-luente sulla scena politica mon-diale. Questo documentario si basa sulle nuove ricerche possi-bili dal 2006, quando gli archivi della Santa Sede sono stati aper-ti agli storici.

SuiCidio aSSiStito

Mercoledì 3 novembre, ore 21.10 Current

In Italia è un tema tabù sul quale il dibattito si accende per casi come quelli di Piergiorgio Wel-by ed Eluana Englaro, ma che spesso non va oltre il confronto tra posizioni inconciliabili.

Cartoline dall’iraq

Venerdì 5 novembre, ore 21.00 Rai Storia

Due reportage dal Medio Orien-te. Un viaggio nell’Iraq di oggi, sette anni dopo la caduta di Sad-dam. Poi immagini e voci da Zarqa, città giordana dov’è nato il luogotenente di Bin Laden in Iraq, Abu Mussa al Zarqawi.

i televiSionari

Venerdì 5 novembre, ore 22.00 History Channel

“Quando in Italia la tv era libe-ra”: nel 1966 partono i primi esperimenti di tv locale. Con materiali d’archivio e testimo-nianze dei pionieri, questo do-cumentario inedito ricostruisce le origini delle tv private, quan-do la controinformazione veni-va prima delle televendite.

tv

datajournalism.stanford.edu Infograica può voler dire molto di più che graici a torta e carte geograiche. I giornalisti e le redazioni di quotidiani e riviste, alle prese con un lusso enorme di informazioni, ricorrono sempre più spesso a tecniche di analisi e di visualizzazione dei dati presi a prestito da scienziati, ricercatori e perino artisti. Non basta più fornire i numeri, ma è necessario fonderli con il racconto giornalistico, presentandoli in modo comprensibile e d’impatto. Questo documentario è stato realizzato all’università di Stanford nell’ambito di una ricerca sullo stato e le prospettive dell’infograica in ambito giornalistico, con interviste ad alcuni dei designer che sono già delle star del genere.

in rete

Journalism in the age of data

Più noto con il titolo originale Girls on the air, il ilm di Valen-tina Monti ha per protagonista Humaira, giovanissima gior-nalista nata e cresciuta in Af-ghanistan, che nel 2003 ha fondato Radio Sahar, prima emittente del paese gestita in-teramente da donne.

Le sue reporter, armate so-lo di microfono e registratore,

afrontano grandi rischi e ata-vici pregiudizi per raccontare un paese in dolorosa trasfor-mazione, segnato da analfabe-tismo e povertà, in cui nono-stante il tentativo di democra-tizzazione della società persi-ste la violenza sulle donne e gli attentati suicidi non concedo-no tregua. Il dvd è in vendita a 15,90 euro.

dvd

radio Sahar

In questi giorni Wikileaks, il cui obiettivo è pubblicare in-formazioni sui governi e sul mondo dell’impresa, ha messo in rete un iume di documenti sulla guerra in Iraq. Al Penta-gono ci sono un centinaio di funzionari incaricati di valuta-re l’impatto di queste informa-zioni sull’opinione pubblica.

I documenti pubblicati da Wikileaks (poco meno di 400mila) formano la più im-ponente fuga di materiale sen-sibile mai vista prima. Non re-steranno senza conseguenze.

Ma non si può fare a meno di pensare a quello che alme-no i funzionari del Pentagono potrebbero valutare come un precedente. Il “precedente” è di natura diversa, ma fu deter-minante per far rivoltare l’opi-nione pubblica statunitense contro la guerra in Vietnam.

Il 27 giugno 1969 fu pubbli-cato un numero di Life Maga-zine, che all’epoca era uno dei mezzi d’informazione più in-luenti negli Stati Uniti, con una decina di pagine di foto dei 242 soldati statunitensi uc-

cisi nell’arco di una settimana. Una di queste foto fu messa in copertina.

L’impatto fu devastante, e si cita ancora quel numero di Life come riferimento cruciale per la teoria (comunque discu-tibile) secondo cui “una foto vale più di mille parole”.

Non so quante foto ci sono nei più di 391mila documenti pubblicati il 22 ottobre da Wi-kileaks. Ma senz’altro sarebbe il caso di pubblicarne qualcu-na, magari una di quelle che fanno male. u

Fotograia Christian Caujolle

Mille parole

Page 87: Internazionale 870

����������������� ���������� ��� ������ ���� ������ ����� ���������� ����� �������������������� �

��������� � �����������

���!!"���!��"�#"$"�!�"�#%����%�$#%�!%� �&

"�$%&��'��((����%��"�)�#*+�,-�((�

���.&��$!� ��!��&%�$#%�!%�+� �&"�$%&��'(�((����%��"�)�#*+�,-�((�

/0(

1

�����2%���"33%�"���!�1$�!%�4�35�4446�"$!%�&���6�!������7�"�&5���2%8�"$!%�&���6�!���!�&�2%�%5��9969996����������������� ������ �������� ������������������� � ������ ���� ����������������������������� !�!�����" ��#��������#$�������!�������������� ���#$�������!���%���

&�������������� '� ����(��������!��!����!) ����"����������� !�!�����" ��#��������#$�������!���%�!�������� ���#$�������!�����!�

*+������,� ������"�� -���!��!��������

����������� ����������� �������������� ����������������������� ������������#% �#��,-'���(',,�,(�

��

Page 88: Internazionale 870
Page 89: Internazionale 870

Internazionale 870 | 29 ottobre 2010 89

One new Change

Londra, jeannouvel.com

Il principe Carlo, secondo cui la Luftwafe a Londra ha fatto me­no danni dell’architettura con­temporanea, già nel 2005 aveva chiesto che a Nouvel fosse tolto l’incarico di realizzare il centro commerciale One New Change. Il centro inaugura il 28 ottobre dirimpetto alla St Paul’s Cathe­dral e promette polemiche. Le immagini sul sito di Nouvel mo­strano un ediicio simile a un enorme meteorite, un gioiello che brilla nel cuore della City. La realtà nel grigiore di Londra sarà ben diversa. The Guardian

OUTSIDeR aRT

The Museum of everything, Londra, Fino al 24 dicembre, museumofeverything.com

La collezione di James Brett è una galleria di opere che hanno poco a che fare con l’arte, molto con la follia. Si chiama outsider art, sono opere prodotte da arti­sti autodidatti, malati di mente, disadattati, artisti per caso. Nek Chand, per esempio, faceva il guardiano per le strade di Chan­digarth. Raccoglieva pezzi di ri­sulta dai cantieri di Le Corbu­sier e li usava per costruire le sculture che popolano un giar­dino abusivo. The Daily Telegraph

nOam BRaSlavSky

Kishon gallery, Tel Aviv, ino al 12 novembre, kishongallery.com

Una statua a grandezza naturale dell’ex primo ministro israelia­no Ariel Sharon in coma è espo­sta in una galleria di Tel Aviv. Steso su un letto di ospedale, con gli occhi semiaperti, la le­bo, il pigiama azzurro e il respi­ro pesante, la scultura sembra viva. L’artista Noam Braslavsky ha scelto Sharon “perché per la società israeliana è una ferita aperta”. Secondo il curatore del­la mostra, invece, la scultura è un’allegoria dell’inerzia politica di Israele. The New York Times

RaChel-mOnIqUe

Palais de Tokyo, Parigi, ino al 27

novembre, palaisdetokyo.com

Di memorie da beccamorto co­me quelle del funerale della ma­dre di Sophie Calle non se ne erano ancora viste. Rachel, o Monique, Sindler, che amava presentarsi con il nome di Ava Gardner, sosteneva di avere avuto quattromila amanti e a chi le chiedeva spiegazioni diceva: “Se non sono stati proprio quat­tromila, ne ho avuti sicuramen­te più di tua madre”. Quanto al­la sua cerimonia funebre aveva precisato: “Se dovesse fare fred­

do o minacciasse di piovere, che non sia troppo lunga. Che si par­li solo di me, anche per dire ma­le. Se qualcuno volesse essere tragico, così sia, sarà il momen­to giusto”. Siamo stati a render­le omaggio la settimana scorsa in occasione della mostra di So­phie Calle dedicata alla morte di sua madre, un lavoro presen­tato alla Biennale di Venezia nel 2007. Una telecamera issa sul primo piano di Monique Sindler Calle stesa sul letto di morte, re­gistra i suoi ultimi minuti di vi­ta. Il video è arricchito dalle fo­tograie delle tombe che attra­

versano l’opera di Sophie Calle dal suo debutto a oggi. A Mont­parnasse sulla tomba semplice della madre, sotto una foto clownesca, c’è scritto “Già mi annoio”. Più in là c’è un posto per Bob Calle, suo padre. Il ci­mitero di Montparnasse è un ri­cordo d’infanzia per Sophie Calle, un parco giochi dove le iscrizioni sul marmo erano l’in­cipit di storie fantastiche. Ma in fondo tutta l’opera di Sophie Calle è il racconto voyeuristico delle vite degli altri. E anche della sua.Les Inrokuptibles

Parigi

Sophie Calle a montparnasse

CO

UR

TE

Sy G

AL

ER

IE E

MM

AN

UE

L P

ER

RO

TIN

, PA

RIS

; A

RN

DT

& P

AR

TN

ER

, BE

RL

IN /

ZU

RIC

h ;

KO

yA

NA

GI,

TO

Ky

O ;

GA

LL

ER

y P

AU

LA

CO

OP

ER

, Ny

(2)

Cultura

arte

Page 90: Internazionale 870

90 Internazionale 870 | 29 ottobre 2010

Mia moglie dà precise istruzioni ai ristoranti cinesi perché consegni-no tutte le ordinazioni in scatole di cartone. I miei igli sanno bene, purtroppo, cos’è il cambiamento climatico. La nostra è una fami-

glia ambientalista: rispetto a loro, io sono un relitto dell’età dell’innocenza ecolo-gica. Ma chi è che gironzola per la casa spegnendo le luci e controllando i rubi-netti che gocciano? Chi è favorevole alle riparazioni fai da te invece che alla sosti-tuzione dell’intero pezzo? Chi ricicla gli avanzi e conserva con cura la vecchia carta da regalo? I miei igli ammiccano agli amici: papà è cresciuto nella povertà. Nient’affatto, li correggo io: sono cre-sciuto nell’austerità.

Dopo la guerra scarseggiava tutto. Per sconfiggere Hitler, Churchill aveva ipotecato la Gran Bretagna e mandato in bancarotta il tesoro. Gli abiti furono razionati ino al 1949, i mobili – senza fron-zoli e di produzione rigorosamente nazionale – ino al 1952, i generi alimentari ino al 1954. Queste restrizioni furono brevemente sospese per l’incoronazione della regina Elisabetta, nel giugno 1953: fu concesso a tutti mezzo chilo in più di zucchero e poco più di un etto di margarina. Ma questo esercizio di zelante generosità servì solo a sottolineare il tetro regime della vita quoti-diana.

Per un bambino, il razionamento era nell’ordine na-turale delle cose. In efetti, per molto tempo dopo che era inito, mia madre mi convinse che le caramelle era-no ancora contingentate. Quando protestai che i miei compagni di scuola sembravano avere un accesso illi-mitato ai dolci, lei mi spiegò con aria di disapprovazio-ne che i loro genitori facevano il mercato nero. La sua storia era perfettamente credibile, anche perché l’ere-dità della guerra era onnipresente. Londra era crivella-ta dai segni dei bombardamenti: dove un tempo c’erano case, strade, scali ferroviari o magazzini adesso c’erano ampi spazi di terra battuta recintati da cavi, di solito con un avvallamento al centro, dov’era caduta la bomba. Nei primi anni cinquanta erano stati rimossi quasi tutti gli ordigni inesplosi e i siti dei bombardamenti non era-no più pericolosi, anche se l’accesso rimaneva proibito. Ma questi improvvisati terreni di gioco erano irresisti-bili per i bambini.

Il razionamento e i sussidi signiicavano che tutti

potevano soddisfare le necessità di base quotidiane. Per gentile concessione del governo laburista postbel-lico, i bambini avevano diritto a una serie di prodotti che fanno bene alla salute: latte gratis, ma anche succo d’arancia concentrato e olio di fegato di merluzzo, di-sponibile solo in farmacia dopo aver dimostrato la pro-

pria identità. Il succo d’arancia era forni-to in bottiglie di vetro rettangolari come quelle delle medicine e non ho mai di-menticato del tutto questa associazione. Ancora oggi, un bel bicchiere pieno mi procura una itta di rimorso sublimato: meglio non berlo tutto insieme. Dell’olio di fegato di merluzzo, magniicato a ma-dri e casalinghe da autorità tanto benevo-le quanto invadenti, meglio non parlare afatto.

Noi eravamo fortunati perché erava-mo in aitto in un appartamento sopra il

negozio di parrucchiere dove lavoravano i miei genito-ri, ma molti miei amici vivevano in alloggi scadenti o temporanei. Ogni governo inglese dal 1945 a metà anni sessanta s’impegnò in vasti progetti di edilizia pubblica: tutti delusero le aspettative. Nei primi anni cinquanta migliaia di londinesi vivevano ancora nei prefab: par-cheggi di camper per i senza tetto, che si presumeva dovessero rimanere temporaneamente, ma spesso du-ravano anni.

Le direttive postbelliche per i nuovi alloggi erano minimaliste: per le case di tre stanze da letto erano pre-visti almeno 28 metri quadri di supericie abitativa, più o meno le dimensioni di uno spazioso monolocale a Manhattan. A ripensarci, queste case mi sembrano non solo anguste, ma anche fredde e semivuote. All’epoca c’erano lunghe liste d’attesa: queste case, gestite dalle autorità locali, erano molto ambite.

L’aria sopra la capitale sembrava quella di una brut-ta giornata a Pechino. Il carbone era il combustibile preferito: economico, abbondante e non importato. Lo smog era un pericolo costante. Ricordo che mi sporge-vo dal inestrino della macchina, con il volto immerso in una densa foschia gialla, e davo istruzioni a mio pa-dre sulla nostra distanza dal marciapiede: non si vedeva letteralmente a due spanne dal naso e l’odore era terri-bile. Ma tutti “se la cavavano in un modo o nell’altro”. Dunkerque e la guerra lampo erano invocati senza om-bra d’ironia per illustrare la fermezza nazionale e la capacità dei londinesi di “resistere”: prima a Hitler, ora a questo.

Pop

L’austeritàci farebbe bene

Tony Judt

TONY JUDT

è morto il 6 agosto 2010. Era uno storico britannico. Questo articolo fa parte di una serie di note autobiograiche scritte per la New York Review of Books nei mesi scorsi. Sono pubblicate in Italia da Internazionale.

Londra era crivellata dai segni dei bombardamenti: dove un tempo c’erano case, strade, scali ferroviari o magazzini erano rimasti ampi spazi di terra battuta recintati da cavi

Page 91: Internazionale 870

Internazionale 870 | 29 ottobre 2010 91

Da piccolo, la prima guerra mondiale mi era familia­re come quella appena terminata. Veterani, memoriali ed evocazioni abbondavano, ma il pomposo patriot­tismo dell’America guerrafondaia di oggi era del tutto assente. Anche la guerra era austera: due miei zii aveva­no combattuto nell’ottava armata di Montgomery dall’Africa ino all’Italia e non c’era niente di trionfali­stico e nostalgico nei loro racconti di penuria, errori e incompetenza. Le arroganti evocazioni dell’impero nei teatri di varietà durante la guerra erano state sostituite dal lamento via radio di Vera Lynn: “We’ll meet again, don’t know where, don’t know when”. Perino di fronte alla vittoria, le cose non sarebbero più state le stesse.

I continui riferimenti al recente passato creavano un

ponte tra la generazione dei miei genitori e la mia. Il mondo degli anni trenta era ancora con noi. La strada per Wigan Pier di George Orwell, La via dell’angelo di J.B. Priestley o The grim smile of the ive towns di Arnold Bennett parlavano tutti di un’epoca ancora molto pre­sente.

Ovunque si alludeva con afetto alla gloria imperia­le: l’India era stata “perduta” pochi mesi dopo la mia nascita. Le scatole di latta dei biscotti, i portapenne, i libri di scuola e i cinegiornali ci ricordavano chi erava­mo e cosa avevamo realizzato. “Noi” non era una sem­plice convenzione grammaticale: quando Humphrey Jennings produsse un documentario per celebrare il Festival of Britain del 1951, lo intitolò Family portrait. La

ste

FA

NO

rIc

cI

Page 92: Internazionale 870

92 Internazionale 870 | 29 ottobre 2010

Pop

famiglia forse attraversava tempi diicili, ma eravamo uniti.

Era questa “unità” a rendere tollerabili la penuria e il grigiore che caratterizzavano la Gran Bretagna del dopoguerra. Naturalmente, non eravamo davvero una famiglia: se lo eravamo, allora al comando c’erano an-cora i membri sbagliati, come aveva osservato una vol-ta Orwell. Eppure, dopo la guerra i ricchi preferivano mantenere un proilo prudentemente basso. In quegli anni c’erano poche manifestazioni di consumismo di massa. Tutti sembravano uguali, vestivano con gli stes-si materiali: lana pettinata, lanella, velluto a coste. La gente preferiva i colori sobri – marrone, avana, grigio – e conduceva una vita molto simile. Noi studenti accetta-vamo senza storie le nostre uniformi perché anche i nostri genitori dimostravano abitudini sartoriali analo-ghe. Nell’aprile 1947, l’arcigno Cyril Connolly scrisse dei nostri “abiti tetri, le nostre tessere annonarie e i no-stri gialli. Londra oggi è la più grande, la più triste e la più sporca delle grandi città”.

Alla ine, la Gran Bretagna uscì dalla penuria del do-poguerra, anche se con minore baldanza e spavalderia dei suoi vicini europei. Quello di “austerità” è un con-cetto astratto per chiunque abbia ricordi solo dai tardi anni cinquanta in poi. I razionamenti e le restrizioni erano initi, gli alloggi non mancavano: lo squallore del-la Gran Bretagna postbellica stava scomparendo. Per-ino lo smog era diminuito, ora che il carbone era stato sostituito da elettricità e nafta a buon mercato.

Curiosamente, dopo il cinema britannico d’evasio-ne degli anni immediatamente successivi alla guerra – L’impareggiabile Richard (1948) o Il paradiso delle donne (1949) – era arrivato il realismo del kitchen sink con gio-vani esponenti della classe operaia interpretati da Al-bert Finney o Alan Bates in squallide atmosfere indu-striali: Sabato sera, domenica mattina (1960) o Una manie ra d’amare (1962). Ma erano ilm ambientati al nord, dove l’austerità non se ne voleva andare. Vederli a Londra era come rivedere la propria infanzia attraver-so una distorsione temporale: a sud, nel 1957, il primo ministro conservatore Harold Macmillan poteva assi-curare che per molti “non era mai andata così bene”. Aveva ragione.

Non credo di aver apprezzato ino in fondo l’impatto dei miei anni d’infanzia ino a questi ultimi tempi. Ri-pensando al passato, i pregi di quel periodo in cui tutto era ridotto all’essenziale sono più chiari. Nessuno sa-rebbe felice di vederlo tornare. Ma l’austerità non era solo una condizione economica: aspirava a diventare un’etica collettiva. Clement Attlee, primo ministro la-burista dal 1945 al 1951, era nato – come Harry Truman – all’ombra di un carismatico leader di guerra e personi-icava le minori aspettative di quell’epoca. Churchill lo descrisse befardamente come un uomo modesto “che ha molti motivi per esserlo”. Ma fu Attlee a guidare la più grande epoca di riforme della storia inglese moder-na, paragonabile ai risultati di Lyndon Johnson vent’an-ni più tardi, ma in circostanze molto meno propizie. Come Truman, Attlee visse e morì parsimoniosamen-te, ricavando ben pochi vantaggi materiali da una vita passata al servizio dello stato. Fu un rappresentante

amnesia karaokea molti non conoscono tutte le pa-role neppure di una sola canzone, soprattutto di quelle che amano di più (vedi anche creta lirica).

avversione malfattoria la capacità di capire quello che non sai fare nella vita e smettere di farlo.

cecità alla nube l’incapacità di alcune persone di ve-dere facce o forme nelle nuvole.

Dizionario del futuro prossimo

Douglas Coupland

esemplare della grande età dei riformatori borghesi edoardiani: moralmente serio e un po’ austero. Quale dei nostri leader di oggi potrebbe aspirare alla stessa deinizione, o addirittura capirla?

L’onestà nella vita pubblica è come la pornograia: è diicile da spiegare, ma quando la vedi la riconosci. De-scrive una coerenza tra intenzione e azione, un’etica della responsabilità politica. La politica è l’arte del pos-sibile. Ma anche l’arte ha la sua etica. Se gli uomini po-litici fossero paragonati a dei pittori, Franklin Delano Roosevelt a Tiziano e Churchill a Rubens, allora Attlee sarebbe il Vermeer della professione: preciso, compo-sto e a lungo sottovalutato. Bill Clinton potrebbe aspi-rare alle altezze di Salvador Dalí (e ritenersi onorato dal confronto), Tony Blair alla posizione – e all’avidità – di Damien Hirst.

Nell’arte, serietà signiica economia di forma e rigo-re estetico: il mondo di Ladri di biciclette. Qualche setti-mana fa ho fatto vedere I quattrocento colpi, un classico di François Trufaut, a nostro iglio dodicenne. Lui, che è cresciuto con una dieta di cinema contemporaneo ricco di “messaggi”, da The day after tomorrow ad Ava-tar, è rimasto incantato: “È essenziale. Fa così tanto con così poco”. Esattamente. La quantità di risorse investita nell’intrattenimento serve solo a proteggerci dalla po-vertà del prodotto. Lo stesso vale per la politica, dove il chiacchiericcio continuo e la retorica magniloquente mascherano il vuoto pneumatico.

Il contrario di austerità non è diventato prosperità, ma luxe et volupté. Abbiamo sostituito l’interesse pub-blico con il commercio ininito, e dai nostri leader non ci aspettiamo aspirazioni più nobili. A sessant’anni da quando Churchill poteva ofrire solo “sangue, fatica, sudore e lacrime”, il nostro presidente di guerra – mal-grado il debordante moralismo della sua retorica – dopo l’11 settembre 2001 non ha trovato nulla di meglio da chiederci che continuare a comprare. Questa visione immiserita della comunità – unità nel consumo – è tutto quello che ci meritiamo da chi ci governa oggi. Se vo-gliamo dei governanti migliori, dobbiamo imparare a chiedere di più da loro e meno per noi stessi. Un po’ di austerità potrebbe farci bene. u gc

DOUGLAS COUPLAND

è uno scrittore canadese. Il suo ultimo libro uscito in Italia è Generazione A (Isbn 2010). Questo dizionario è uscito sul New York Times con il titolo A dictionary for the near future.

Page 93: Internazionale 870

Internazionale 870 | 29 ottobre 2010 93

Storie vereIsaac Stoltzfus, giudice distrettuale del paese di Intercourse (che in inglese signiica “rapporto”), in Pennsylvania, è stato arrestato per molestie: si accostava a donne nel parco e ofriva dei preservativi. In almeno due casi il preservativo era nascosto in un cestino di ghiande. Il giudice ha ammesso le accuse, sostenendo che era uno scherzo.

cecità alla voce interiore la quasi universale incapa-cità degli individui di articolare il tono e la personalità della voce che forma il loro monologo interiore.

confusione zoosonnale L’idea che gli animali pro-babilmente non vedono una gran diferenza tra sogno e veglia.

colletti blandi ex lavoratori della classe media che non saranno mai più classe media e non se ne faranno mai una ragione.

controcaso una condizione dell’universo in cui esi-stono norme rigide per impedire che si verifichino coincidenze. Considerando il numero ininito di coin-cidenze che si possono veriicare, in realtà se ne verii-cano molto poche. L’universo esiste in uno stato di controcaso anticoincidenziale.

coveronzìo la sensazione che proviamo ascoltando la cover di una canzone che conosciamo già.

creta lirica le parole che inventiamo quando non sap-piamo le vere parole di una canzone.

denarrazione il processo attraverso il quale la nostra vita smette di sembrarci un racconto.

deselizzazione diluire intenzionalmente il proprio io inondando internet del maggior numero di infor-mazioni possibile (vedi anche stress da onniscienza, dedeselizzazione).

dedeselizzazione il tentativo, di solito frenetico e inutile, di invertire il processo di deselizzazione.

deviazione di standard sentirsi unici non è un’indi-cazione di unicità, eppure è proprio quella sensazione di unicità a convincerci che abbiamo un’anima.

disforia identitaria da aeroporto deinisce la misu-ra in cui i viaggi moderni spogliano il viaggiatore della sua identità quel tanto che basta a creare il bisogno di acquistare adesivi e articoli regalo per puntellare una personalità lievemente erosa: bandiere del mondo, stemmi nobiliari, gadget di scuole e università.

disinibizione situazionale situazioni sociali in cui si è autorizzati a essere disinibiti, cioè momenti di di-sinibizione culturalmente approvata: quando si parla con un’indovina, con un cane o altri animali domesti-ci, con estranei e baristi nei locali pubblici, o con un medium.

domenicofobia paura delle domeniche, una condi-zione che rilette la paura del tempo libero. Anche nota come ansia acalendarica. Da non confondersi con domingofobia o kyriakofobia, paura del giorno del Si-gnore.

frankentime il tempo come lo percepiamo quando ci rendiamo conto di passare la maggior parte della no-stra vita con e intorno a un computer e a internet.

humanalia cose fatte da umani che esistono solo sul-la Terra e in nessun altro posto dell’universo. Alcuni esempi: il telon, l’aspartame, la paroxetina, pezzi di dimensioni rilevanti di tecnezio.

ikeasi il desiderio, nella vita quotidiana e nella vita del consumatore, di aggrapparsi a oggetti dal design

AL

e &

AL

e

Page 94: Internazionale 870

94 Internazionale 870 | 29 ottobre 2010

Pop

“generico”. Questo bisogno di forme chiare ed essen­ziali è un mezzo per sempliicarsi la vita sotto un bom­bardamento di informazioni.

legge di Bell della telefonia qualunque tecnologia usiate, la vostra bolletta del telefono resterà magica­mente invariata.

malinconia interainitaria contro malinconia extrainitaria cosa è peggio: essere single e sentirsi soli, o sentirsi soli in un rapporto morto?

memesfera il regno delle idee culturalmente tan­gibili.

memoria interrodiretta ci ricordiamo solo i sema­fori rossi, mai quelli verdi. Quelli verdi ci fanno segui­re il lusso, quelli rossi c’interrompono e ci disturba­no.

miottrie l’incapacità di vederci chiaramente come ci vedono gli altri. postumano qualunque cosa sia quello che diventere­mo poi.

procelerazione l’accelerazione dell’accelerazione.

pseudoalienazione l’incapacità degli esseri umani di creare situazioni autenticamente alienanti.

reincarnazione lampo il fatto che quasi tutti gli adulti desiderano un cambiamento radicale anche quando hanno una vita fantastica. Il desiderio di rein­carnarsi da vivi è quasi universale.

ricerca di Dio una versione estrema della sindrome da mattina di Natale.

riposo ittizio l’incapacità di molti individui di ad­dormentarsi se non hanno letto anche solo una mini­ma quantità di iction. scienza familiare intravincolare il bisogno di stare con persone di famiglia, non perché siano quelle con cui possiamo parlare di tante esperienze comuni, ma perché sono quelle che sanno esattamente quali argo­menti evitare.

separazione complessa la teoria, in musica, secon­do cui una canzone ha una sola occasione per lasciare una prima impressione. Dopodiché, il cervello comin­cia a frammentare l’esperienza musicale nelle sue va­rie componenti: testo, melodia eccetera.

sindrome da mattina di Natale sensazione prodot­ta dalla stimolazione dell’amigdala anteriore che ci lascia carichi di aspettative.

stress da onniscienza il sovrafaticamento che col­pisce chi sa già quasi tutto quel che legge in rete.

L’ultimo libro di Steven John son, Where good ideas come from: the natural history of innovation, è per alcuni versi un tipi­co libro di John son: usando fonti e di­scipline diverse, l’autore racconta i progressi scientiici che hanno segnato

la storia ricavando paralleli con la tecnologia moderna, soprattutto con il collegamento in rete dei computer e con il modo in cui questo fenomeno inluenza le socie­tà. Ma è anche un libro molto diverso dagli altri. Rispet­to agli ultimi lavori, The ghost map e The invention of air, Johnson non si limita a un resoconto dettagliato di una singola invenzione. Where good ideas come from è piut­tosto un ampio studio su tante invenzioni, che in alcuni casi risalgono all’antichità.

Ed è anche un confronto tra queste innovazioni e quelle che avvengono su grande scala – nell’evoluzione naturale delle nuove specie e degli ecosistemi – e su pic­cola scala, come le reti neurali che per generare nuove idee alternano un’attività sincronizzata e ordinata a una caotica.

Questo è il cuore della tesi di Johnson: ci sono ana­logie da trovare (e lezioni da imparare) nel modo in cui la isica, la chimica e la biologia introducono variazioni eicaci nella vita, nel modo in cui gli esseri umani col­laborano per creare nuove tecnologie e nel modo in cui i cervelli umani fanno la stranezza d’immaginare idee nuove come se spuntassero dal nulla.

Il posto giustoper le buone idee

Cory Doctorow

CORY DOCTOROW

è un giornalista e blogger canadese. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Anime nel futuro (Fanucci 2007). Questo articolo è uscito sul blog BoingBoing con il titolo Multidisciplinary

hymn to diversity,

openness and

creativity.

stufax un farmaco micromirato del futuro per curare casi assolutamente particolarissimi di disturbo osses­sivo­compulsivo: in questo caso, una compulsione che riguarda l’incapacità di alcuni individui di convincersi, una volta usciti di casa, di avere spento la stufa.

teorema di Rosenwald la convinzione che solo le persone sbagliate sono dotate di autostima.

teoria cristallograica del denaro l’ipotesi che il denaro sia una cristallizzazione o condensazione di tempo e libero arbitrio, le due caratteristiche che sepa­rano l’essere umano dalle altre specie.

teoria del numero chiuso amoroso la convinzione che ci sia un numero inito di volte in cui ci si può inna­morare, di solito sei.

triste verità siete più intelligenti della tv. E allora?

vip shock il modo sproporzionato in cui reagiamo in­contrando una celebrità, simile a quando riceviamo una notizia che ci cambia la vita. u dic

Page 95: Internazionale 870

Internazionale 870 | 29 ottobre 2010 95

Il piccolo s’era sporcato tanto

giocando nella cenere

che quando lo richiamarono in casa,

quando gridarono il suo nome sulla cenere,

fu una manciata di cenere

a rispondere.

Manciatina di cenere, dissero,

eccoti un’altra manciata di cenere per cena,

che ti faccia venir sonno,

e ti faccia crescere forte.

Charles Simic

Poesia

Sillabario

Per Johnson, il segreto sta in questo “nulla”, nello spazio insondabile a cui attribuiamo i lampi di genio e gli errori fortunati che creano nuovi collegamenti, stra-tegie e pensieri. Per Johnson non è un nulla, ma piutto-sto il risultato abbastanza prevedibile che emerge da alcune precondizioni.

L’innovazione nasce dove ci sono cose sparse in gi-ro, discipline che s’intrecciano, un buon sistema di dif-fusione delle idee e un ambiente che non punisce gli esperimenti falliti o che esclude certe aree di esplora-zione per paura che minaccino lo status quo. Dalla chi-mica organica e dal modo in cui le catene complesse di carbonio riescono a formare innumerevoli combina-zioni costruite l’una sull’altra, agli organismi che evol-vono insieme al loro ambiente, ino a invenzioni come la stampa a caratteri mobili, il gps, Twitter, per inire con la formazione delle idee secondo la neuroscienza d’avanguardia: tutto dimostra, secondo Johnson, che l’innovazione è frattale.

Signiica che per essere innovativi bisogna vivere in ambienti innovativi: posti dove s’incrociano tante idee contraddittorie che appartengono a discipline diverse, dove governi e istituzioni non regolamentano troppo e non cospirano per distruggere le nuove idee, dove le piattaforme esistenti sono capaci di sostenerne di nuo-ve, come è successo per i protocolli Tcp/Ip, il metalin-guaggio Sgml e per altri esperimenti informali, durati decenni, che hanno permesso a Tim Berners-Lee di in-ventare il web (il web stesso è una piattaforma da cui tante persone tirano fuori altre innovazioni).

Questa è roba forte: una difesa vigorosa delle reti aperte, delle idee condivise, della fortunata casualità (le “piacevoli sorprese” destinate ai lettori), del con-trollo minimo sulle idee, in modo che possano migrare e arrivare ad altri che le useranno in modi del tutto ina-spettati.Tutto questo è scontato per molti di noi che sono cresciuti con internet e la rete, ma è davvero inco-raggiante veder difendere questi princìpi attraverso ri-

ferimenti alla paleontologia, alla biologia evoluzionisti-ca, all’urbanistica e a tante altre discipline.

Ovviamente aiuta il fatto che Johnson è uno dei gior-nalisti più interessanti in questo campo, appassionato di temi scientiici e con il dono di saper trovare esempi comprensibili e chiari (certo, forse aiuta anche il fatto che io sono d’accordo con lui!).

Ma Where good ideas come from è davvero uno di quei libri che vorresti sbattere sotto il naso di chi si aspetta la creatività negli ambienti meno creativi, dai dirigenti ai politici, agli insegnanti, agli urbanisti. Ed è una guida per le persone, i gruppi e le società che vogliono dare il meglio di sé. u cab

CHARLES SIMIC

è un poeta nato a Belgrado. Vive negli Stati Uniti dal 1954. Questa poesia è tratta da Zoo, a cura di Damiano Abeni (L’obliquo 2002).

LU

IgI B

Icc

O

Page 96: Internazionale 870

Scienza e tecnologia

96 Internazionale 870 | 29 ottobre 2010

Il tempo non è ininito

“Il tempo potrebbe inire”, ha detto Ben Freivogel durante un semi-nario al Massachusetts institute of technology. Molti colleghi ave-

vano l’aria perplessa e un premio Nobel era evidentemente irritato. “So che potrà sem-brarvi folle”, ha ammesso Freivogel. La sua ipotesi è che il tempo, così com’è deinito dalla teoria della relatività generale di Ein-stein, potrebbe inire, portandoci tutti con sé, più o meno tra cinque miliardi di anni.

Questa ipotesi nasce da una teoria det-ta dell’inlazione eterna, secondo cui parti diverse dello spazio possono attraversare periodi di forte crescita, goniandosi e di-ventando degli universi paralleli con le loro caratteristiche isiche. Il processo accade un numero ininito di volte, creando un nu-mero ininito di universi, chiamato multi-verso. Questo vuol dire che qualsiasi cosa in grado di accadere, accade un numero ininito di volte. Ma allora quanto è comu-ne un universo come il nostro? “Le nostre intuizioni sulla deinizione di probabilità vacillano”, spiega Raphael Bousso, collega di Freivogel all’università di Berkeley.

Testa o croce?Per aggirare il problema i isici prendono un cut-of, o valore di taglio, del multiverso, ritagliando un tratto inito di spazio-tempo e contando gli universi al suo interno per avere un campione rappresentativo. Così, però, si tagliano inevitabilmente i singoli universi al bordo del campione, generando probabilità scorrette dei risultati sperimen-tali nel multiverso a meno che, dice Freivo-gel, i cut-of matematici non abbiano con-seguenze reali, disastrose, sui punti d’in-tersezione. Lì il tempo inirebbe facendo svanire tutto. L’idea è più che strana, anche

perché non è chiaro come questi costrutti matematici possano incidere sul mondo reale. Secondo i ricercatori, però, se per cal-colare le probabilità nel multiverso si usano i cut-of, questi devono essere ritenuti reali. “E se non si accetta il cut-of, non c’è modo di fare previsioni e di stabilire quanto c’è di probabile nell’inlazione eterna”.

Il problema è sorto nel 2009 durante un convegno, quando Alan Guth dell’Mit e Vi-taly Vanchurin dell’università di Stanford

Secondo il isico Ben Freivogel, il tempo potrebbe inire tra cinque miliardi di anni. Una tesi provocatoria che alimenta la rilessione dei cosmologi sul multiverso

Rachel Courtland, New Scientist, Gran Bretagna

AN

GE

Lo

Mo

NN

E

hanno proposto un esperimento mentale. Hanno ipotizzato una situazione in cui si lancia una moneta e si punta una sveglia a seconda del risultato. Se esce testa ci si do-vrà svegliare dopo appena un minuto, se esce croce si vince un miliardo di anni di sonno. Prima di addormentarsi, le probabi-lità di svegliarsi dopo un minuto o un mi-liardo di anni sono 50 e 50.

Immaginate che l’esperimento avvenga in un numero ininito di universi. Se si pren-de un cut-of per studiare un sottoinsieme di universi, qui – oppure ovunque venga fat-to il cut-of – sono molte di più le persone che si sveglieranno dopo un pisolino che dopo un lungo sonno. Le probabilità, quin-di, non sono più 50 e 50. Come possono cambiare le probabilità a seconda di quan-do ci si sveglia?

Secondo il team, l’unico modo per da-re un senso al cambiamento delle proba-bilità è che il cut-of sia reale. In questo caso, molti di quelli a cui è uscita croce – che si sono addormentati per un miliardo di anni – arriverebbero alla ine del tempo prima che suoni la sveglia. “Ipotizzare la ine del tempo è strano, ma almeno risol-ve questo paradosso”, spiega Ken olum della Tufts university di Medford, in Mas-sachusetts. u sdf

u Gli esperimenti mentali, come quello che ha portato all’idea della ine del tempo, sono ideati per evidenziare i punti deboli del nostro pensiero. Hanno una lunga storia. Quando Erwin Schrödinger formulò il suo esperimento mentale felino, non cercava di sostenere che i gatti chiusi nelle scatole sono contemporaneamente vivi e morti, ma faceva una dimostrazione per assurdo delle peculiarità della meccanica quantistica. Allo stesso modo le rilessioni di Albert Einstein sulla luce e il movimento portarono alla relatività ristretta e poi a quella generale. Ipotizzando la ine del tempo, il lavoro di Freivogel spingerà i isici a rilettere in modo più approfondito sul multiverso.New Scientist

Da sapere

Page 97: Internazionale 870

Internazionale 870 | 29 ottobre 2010 97

IN BREVE

Spazio Sulla supericie della Luna c’è molta acqua, ma non allo stato liquido. Science pub-blica l’analisi completa dei dati raccolti dalla missione Lcross, in cui è stata fatta schiantare una sonda al polo sud lunare (nell’immagine) per studiare le polveri e i detriti sollevati. Salute Solo l’8 per cento degli studi che usano i placebo ne di-chiara il contenuto. Secondo gli Annals of Internal Medicine, a volte il placebo non è inerte e in-terferisce con i risultati dei test. Genetica Un test sui topi ha ri-velato che anche l’alimentazio-ne del padre, oltre a quella della madre, incide sul rischio di dia-bete delle iglie. Secondo Natu-re, i padri non trasmettono una sequenza di dna alterata, ma al-cune modiiche chimiche che variano l’attività di certi geni.

Le morti per malaria in India potrebbero essere 13 volte di più di quanto stimato. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) i decessi da attribuire al plasmodio sarebbero ogni anno 15mila. Ma una ricerca su The Lancet stima che le vittime siano in realtà 205mila. I ricercatori hanno raccolto

le testimonianze verbali di oltre 122mila decessi e, sulla base delle descrizioni dei sintomi, hanno deciso se la causa della morte era stata la malaria. La proiezione del campione su base nazionale ha portato a 205mila vittime, con un’oscillazione possibile tra 125mila e 277mila. La stragrande maggioranza dei decessi considerati nello studio, l’86 per cento, è avvenuto lontano da una struttura sanitaria, e questo potrebbe spiegare la diferenza con le statistiche dell’Oms. I numeri uiciali tengono infatti conto delle diagnosi di malaria confermate, e da queste si stima il numero di vittime. Ma molti casi possono sfuggire alla registrazione. “Il tasso di mortalità della malaria in India rimane incerto”, scrive The Lancet, ma gli indizi secondo cui è stato ampiamente sottostimato aumentano. Secondo i ricercatori, si dovrebbero rivedere le stime dell’Oms sulla malaria in tutti i paesi. u

Salute

Malaria indiana

The Lancet, Gran Bretagna

Contro i germi, è meglio usare gli asciugamani di carta o quelli elettrici?

Il segreto delle mani pulite è semplice: lavarsi bene con ac-qua e sapone. I batteri prospe-rano sulle mani bagnate, quin-di il metodo che rimuove me-glio l’umidità dovrebbe essere il più eicace. Da alcuni studi emerge che gli asciugatori elettrici sarebbero dei vivai di batteri, che contaminano le mani e spargono germi. Que-

gli studi, però, presentano un conlitto d’interessi, perché sono inanziati dall’industria della carta. Nel 2000 la Mayo Clinic ha condotto uno dei po-chi studi indipendenti sul te-ma. I ricercatori hanno reclu-tato cento persone, a cui han-no contaminato le mani e chiesto di lavarle con acqua e sapone. Poi alcuni le hanno te-nute 30 secondi sotto un asciu-gatore elettrico ad aria tiepida e altri le hanno stroinate per 15 secondi con un asciugama-

no di stofa o di carta. Risulta-to? La parità. Entrambi i meto-di asciugano le mani con cura e riducono i germi (i disinfet-tanti per le mani a base di alcol eliminano gran parte dei bat-teri, ma non tutti i virus. Per essere davvero eicaci devono avere almeno il sessanta per cento di alcol).Conclusioni Contro i germi, non conta il metodo con cui si asciugano le mani, ma il tem-po impiegato: più è meglio è.The New York Times

Davvero? Anahad O’Connor

L’arte di asciugarsi le mani

SCIE

NC

E/A

AA

S

SPAZIO

La galassia più lontana Più di 13 miliardi di anni luce ci separano dalla galassia UDFy-38135539. È l’oggetto celeste più lontano dalla Terra mai “foto-grafato”, nonché il più antico: si è formato solo 600 milioni di anni dopo il big bang, quando l’universo era avvolto da una coltre di idrogeno. La scoperta, presentata online da Nature, aiuta a capire “come le isole stellari si formavano e cresceva-no nel periodo buio dell’univer-so”. Secondo i segnali intercet-tati da Hubble e confermati dal Very large telescope in Cile, la galassia è apparsa all’epoca del-la rionizzazione, quando le ra-diazioni delle prime galassie co-minciarono a spazzare via la nebbia di materia intergalattica. UDFy-38135539 emette però una radiazione debole. Forse è stata aiutata da altre galassie vicine a rendere trasparente lo spazio, diventando così visibile.

BIOLOGIA

L’embrione del moscerino Un embrione di Drosophila me-lanogaster di venti ore ha vinto il concorso fotograico della So-ciety of biology britannica nella categoria close-up. Il proilo dell’embrione è delineato da tre proteine di membrana colorate di blu, rosso e verde. Si vedono alcune strutture interne, come il sistema tracheale e lo stomaco. La foto è stata scattata dalla bio-loga Samantha Warrington con un microscopio confocale a luorescenza.

SAM

AN

TH

A W

AR

RIN

gT

ON

(UN

IVE

RSI

DI S

HE

FF

IEL

D)

Page 98: Internazionale 870

98 Internazionale 870 | 29 ottobre 2010

Il diario della Terra

45,0°CLa Mecca,

Arabia Saudita

Thailandia

-65,6°CVostok,

Antartide

Indonesia7,7 M

IndonesiaSingapore

Giri

Togo

Brasile Indonesia

Indonesia

Stati Uniti

Richard

MegiMessico6,5 M

Cile5,7 M

Taiwan4,0 M

Gli ospedali inquinano. Un’ in-dagine del 2010, scrive Slate, ha rivelato che negli Stati Uniti ogni giorno si producono più di 15 chili di rifiuti per posto letto. Considerando che nel paese ci sono 951mila posti let-to, gli ospedali producono 5,2 milioni di tonnellate l’anno di spazzatura, non pochi rispetto ai 227 milioni di tonnellate di rifiuti urbani.

Carta e cartone rappresen-tano circa la metà dei rifiuti ospedalieri e sono riciclabili. Alcuni ospedali stanno speri-mentando il riciclo del mate-riale usa e getta e il compo-staggio degli scarti alimentari. Ma non tutti i rifiuti ospedalie-ri si smaltiscono facilmente. I farmaci scaduti seguono pro-cedure complesse e così pure il materiale potenzialmente in-fetto, come le bende sporche di sangue (le camere operato-rie generano il 20-30 per cento dei rifiuti). Gli ospedali usano anche reagenti chimici, com-ponenti elettronici e altri ma-teriali che devono essere trat-tati separatamente. E poi c’è anche il consumo di energia. Gli edifici dedicati alla sanità, compresi gli ambulatori e gli studi medici, rappresentano il 9 per cento dell’energia consu-mata dal settore commerciale. Consumano il doppio rispetto alla media di un ufficio: negli ospedali l’aria è controllata ar-tificialmente, l’illuminazione è continua, e alcuni apparec-chi, come le macchine per la risonanza magnetica, hanno bisogno di molta energia. Di conseguenza, gli ospedali pro-ducono anche grandi quantità di anidride carbonica: negli Stati Uniti, il 3 per cento delle emissioni del paese.

I riiutiospedalieri

Ethical living

Tsunami Almeno 272 per-sone sono morte e 412 risulta-no disperse dopo essere state travolte da uno tsunami nell’ar-cipelago indonesiano delle Mentawai, al largo di Sumatra. L’onda anomala è stata causata da un terremoto di magnitudo 7,7 che aveva colpito la regione poche ore prima, causando la morte di due persone.

Terremoti Un sisma di ma-gnitudo 6,5 sulla scala Richter ha colpito la Baja California, nel nordovest del Messico. Al-tre scosse sono state registrate nel centro del Cile e a Taiwan. Alluvioni Cinquantasei persone sono morte nelle allu-vioni causate dalle forti piogge che hanno colpito la Thailan-dia. u Dieci persone sono mor-te negli allagamenti in Togo.

Cicloni Ventisette persone sono morte nel passaggio del ciclone Giri sull’ovest della Bir-mania. Migliaia di case sono state distrutte. u L’uragano Ri-

chard ha perso forza prima di raggiungere il Belize. u Qua-rantotto persone sono morte nel passaggio del tifone Megi sulle Filippine e su Taiwan.

Siccità Le autorità dello stato brasiliano di Amazonas hanno proclamato lo stato di catastrofe naturale nella regione, colpita dalla più grave siccità dal 1963.

Incendi Il fumo provenien-te da alcuni incendi sull’isola indonesiana di Sumatra ha causato problemi respiratori agli abitanti di Singapore. Ogni anno i contadini indo-nesiani appiccano il fuoco alla vegetazione per preparare il terreno alla semina.

Vulcani Venticinque per-sone sono morte nell’eruzione del vulcano Merapi, sull’isola indonesiana di Java. Il governo ha trasferito più di duemila persone.

Squali Un ragazzo di 19 anni è stato ucciso da uno squalo in California, negli Stati Uniti.

Insetti In una miniera d’am-bra in India sono state trovate nella resina oltre 700 specie di insetti, aracnidi e crostacei,

insieme a piante e funghi, ri-salenti a 50 milioni di anni fa. Secondo Pnas, sono le tracce di un’antica foresta.

Biodiversità Un quinto dei vertebrati nel mondo è a rischio di estinzione, scrive Science. Il più vasto studio mai compiuto su mammiferi, uccelli, rettili, pesci e anibi rivela che le popolazioni di vertebrati sono diminuite in media del 30 per cento negli ultimi quarant’anni.

Felini Più la foresta è densa e le abitudini di caccia notturne, maggiore è la complessità delle macchie sulla pelliccia dei felini. Al contrario, gli ani-mali che vivono in spazi aperti tendono ad avere un mantello uniforme. È quanto risulta da uno studio pubblicato sui Pro-ceedings of the Royal Society B, che ha paragonato 35 specie di felini a seconda del com-portamento e dell’habitat.

RE

UT

ER

S/C

On

TR

AST

O

FO

nT

E: S

CIE

nC

E

I vertebrati a rischioPercentuali

Anibi41

Pescicartilaginei

33

Mammiferi25

Rettili22

Pesci ossei

15

Uccelli13

Pagai, Mentawai

Page 99: Internazionale 870

Internazionale 870 | 29 ottobre 2010 99

u Proprio come i iumi, anche i ghiacciai scendono a valle in-grossati dagli aluenti. Spostan-dosi, il ghiaccio raccoglie polve-re e fango, e porta con sé le trac-ce dei movimenti passati. Il ghiacciaio Susitna in Alaska ha rivelato una parte del suo lungo e tormentato viaggio il 27 ago-sto 2009, quando l’Advanced

spaceborne thermal emission and relection radiometer (Aster), a bordo del satellite Ter-ra della Nasa, lo ha sorvolato.

L’immagine combina lun-ghezze d’onda di luce infraros-sa, rossa e verde, creando dei colori artiiciali. La vegetazione è rossa e la supericie del ghiac-ciaio è marmorizzata, con il ghiaccio pulito in celeste e quel-lo sporco in marrone. Il ghiaccio relativamente pulito arriva dagli aluenti a nord. La trama è par-ticolarmente complessa al cen-tro, dove un aluente ha spinto il ghiacciaio principale verso sud. Una foto del Susitna nel 1970 mostra una trama altret-tanto complessa, con i ghiacci

puliti e quelli sporchi che for-mano strisce e curve.

Il Susitna si trova in una zo-na sismica. I geologi hanno ipo-tizzato che fossero stati i terre-moti a creare i dirupi e le falde del ghiacciaio, ma in realtà la maggior parte dipende da im-provvise avanzate (surge) dei ghiacciai che aluiscono. Que-sti surge possono veriicarsi quando si accumula dell’acqua alla base del ghiacciaio, lubrii-cando il lusso. L’acqua di disge-lo può arrivare dai laghi, visibili nell’angolo in basso a sinistra. Anche la roccia madre sotto-stante può contribuire ai surge, soprattutto le rocce molli facil-mente deformabili.– M. Scott

Questa immagine dai colo-ri artiiciali evidenzia il movimento dei ghiacci e il modo in cui quelli puliti si mescolano a quelli pieni di detriti.

Il pianeta visto dallo spazio

Il ghiacciaio Susitna, in Alaska

u

eA

rT

ho

bSe

rv

AT

or

y/N

ASA

Susitna, 1970

Page 100: Internazionale 870

100 Internazionale 870 | 29 ottobre 2010

Economia e lavoro

Diversi segnali indicano che gli Stati Uniti stanno cercando una tregua con la Cina nella guerra delle monete. Prima il

dipartimento del tesoro ha deciso di non pubblicare un rapporto che accusa Pechino di “manipolare” la sua valuta. Poi il Penta-gono ha annullato una serie di esercitazioni navali nel mar Giallo per non irritare i cine-si. Cosa sta succedendo? Uno dei motivi potrebbe essere che il presidente Barack Obama è già abbastanza preoccupato dalle elezioni di metà mandato del 2 novembre, che potrebbero indebolirlo. Inoltre, non c’è nessun bisogno di aggravare le ostilità con la Cina in vista del prossimo vertice del G20, che si svolgerà l’11 e il 12 novembre in Corea del Sud.

Probabilmente il segretario del tesoro Timothy Geithner ritiene che sia possibile

convincere i cinesi a rivalutare lo yuan. Do-po i negoziati al vertice di Gyeongju, la loca-lità turistica sudcoreana dove il 22 e il 23 ot-tobre si sono riuniti i ministri delle inanze e i banchieri centrali dei paesi del G20, Geith-ner ha parlato di progressi importanti con la Cina e altri paesi. “Il risultato principale”, ha detto, “è stato l’accordo per correggere gli squilibri commerciali. I paesi con ingen-ti surplus devono liberarsi della dipendenza dalle esportazioni e puntare su una crescita dei consumi interni”.

Inizialmente Geithner è stato snobbato da paesi esportatori come la Germania, il Giappone e la Russia, che hanno respinto la proposta statunitense di ridurre il surplus commerciale al 4 per cento del pil. In so-stanza, Geithner avrebbe voluto che ogni

paese s’impegnasse a mantenere entro questa soglia l’eccedenza derivante dal commercio, dai trasferimenti di capitale dall’estero e dai pagamenti di interessi e di-videndi. L’obiettivo era impedire alla Cina e alla Germania di sommergere il mercato con le loro esportazioni e spingerle a impor-tare di più. Nel comunicato inale, i ministri del G20 hanno dichiarato di appoggiare la proposta statunitense, ma hanno rimanda-to l’applicazione a una serie di linee guida ancora da deinire. Per quanto riguarda la guerra valutaria, i ministri hanno espresso l’intenzione di “astenersi dalla svalutazione competitiva delle monete”. Ma anche in questo caso non sono stati issati obiettivi e piani precisi.

La riforma del FondoL’unico risultato concreto raggiunto al ver-tice di Gyeongju è stata la riforma del Fon-do monetario internazionale (Fmi). I mini-stri hanno raggiunto un accordo per l’attri-buzione di poteri più ampi, nel Fondo, a paesi emergenti come la Cina e l’India. Se-condo l’intesa, l’Europa cederà due dei 24 posti del consiglio esecutivo ai paesi emer-genti, che quindi aumenteranno del 6 per cento la loro quota di voti.

Gli Stati Uniti resteranno il paese con più voti, ma ora la Cina sale al terzo posto e l’India all’ottavo. “Il Fondo si comporta sempre più come un onesto mediatore”, ha detto Dominique Strauss-Kahn, direttore generale dell’Fmi. “Questa è una data im-portante. Cose del genere non capitano tut-ti i giorni”.

Dopo l’incontro con i colleghi del G20, il 24 ottobre Geithner si è spostato nella città costiera cinese di Qingdao per un incontro fuori programma con il massimo responsa-bile economico di Pechino, Wang Qishan, il vicepremier incaricato degli afari econo-mici. Ma, secondo diverse fonti, la riunione è stata breve e i colloqui non si sono spinti oltre il contenuto degli accordi raggiunti al vertice di Gyeongju. u fp

Una fragile treguaper le monete

I ministri delle inanze e le banche centrali dei paesi del G20 promettono di porre ine alle svalutazioni. Ma inora non hanno issato obiettivi e impegni precisi

Donald Kirk, Asia Times, Hong Kong

TO

MO

hIR

O O

hSU

MI (

BL

OO

MB

ER

G/G

ET

Ty

IM

aG

ES)

Gyeongju, Corea del Sud, 22 ottobre 2010

Surplus e disavanzi commerciali, percentuale rispetto al pil. Fonte: The Wall Street Journal

Germania

Stati Uniti

Cina

Gran Bretagna

Giappone

Brasile

Da sapere

2007 2009 2011 2007 2009 2011 2007 2009 2011 2007 2009 2011 2007 2009 2011 2007 2009 2011

10

7,5

5,0

2,5

0

-2,5

-5,0

(stime)

Page 101: Internazionale 870

Internazionale 870 | 29 ottobre 2010 101

BANGLADESH

Dhaka impara dal passato In Bangladesh i prezzi del riso hanno ripreso a salire come nel 2008, quando nel paese scop-piarono violente proteste. Ma oggi Dhaka, scrive il Financial Times, sta dimostrando di aver imparato la lezione. Negli ultimi due anni il governo ha cercato di aumentare la produzione lo-cale, potenziando i sistemi d’ir-rigazione e la distribuzione di fertilizzanti e sementi, per ri-durre il ricorso alle importazio-ni. Così quest’anno sono stati raccolti 18 milioni di tonnellate di riso, contro i 14 di due anni fa.

IN BREVE

Cina Pechino limiterà le espor-tazioni dei cosiddetti metalli ra-ri, essenziali per la produzione di prodotti high-tech come cel-lulari e iPod. La Cina controlla il 97 per cento di questo mercato. L’Unione europea, gli Stati Uniti e il Giappone hanno minacciato il ricorso alla Wto. Singapore La borsa di Singapo-re ha oferto 8,3 miliardi di dol-lari per la fusione con la borsa di Sydney, che darà vita a un mer-cato da 1.900 miliardi di dollari.

Il parlamento argentino ha approvato una legge che vieta lo sfruttamento dei giacimenti minerari nei ghiacciai della Cordigliera delle Ande, ricchi d’oro e d’argento. La presidente Cristina Kirchner non ha messo il veto, come fece con un provvedimento analogo presentato nel 2008. A un anno dalle elezioni presidenziali, scrive Le Figaro, il dibattito su questi ghiacciai al conine tra Argentina e Cile è diventato un argomento sensibile, visto che nella zona si concentra il 75 per cento delle riserve di acqua potabile del paese. Ma ora molti economisti temono che la legge freni il boom minerario. Tra il 2003 e il 2008 l’estrazione di oro in Argentina è cresciuta del 6.000 per cento. A questi ritmi il paese sudamericano dovrebbe entrare tra i primi dieci produttori di metallo giallo del mondo. u

Argentina

Una legge per le miniere

PA

v J

or

DA

N (r

EU

TE

rS/

Co

NT

rA

STo

)

Tagli draconiani Il governo portoghese ha pre-sentato un piano d’austerità per il 2011 che taglia le spese dello stato del 5,3 per cento, pari a 4,5 miliardi di euro. L’obiettivo è ri-durre il deicit pubblico dal 7,3 al 4,6 per cento rispetto al pil. Co-me scrive El País, 1,2 miliardi saranno tagliati nella sanità, fa-cendo aumentare il prezzo dei medicinali. Gli stipendi dei di-pendenti pubblici subiranno ri-duzioni comprese tra il 3,5 e il 10 per cento. Inoltre, aumenterà l’iva su molti prodotti di largo consumo: quella applicata al lat-te, per esempio, passerà dal 6 al 23 per cento. Il parlamento vote-rà il piano il 3 novembre.

RUSSIA

Il governo privatizza Mosca ha approvato un vasto piano di privatizzazioni. Il vice-premier russo Igor Shuvalov, scrive il quotidiano inanziario Vedomosti, ha spiegato che il governo prevede di vendere en-tro il 2015 novecento aziende di stato. Le privatizzazioni dovreb-bero generare entrate per 1.800 miliardi di rubli, pari a 60 mi-liardi di dollari, che serviranno a ridurre il deicit del bilancio pubblico. Il piano prevede la vendita di quote in alcune aziende molto ambite dagli in-vestitori stranieri, come la so-cietà petrolifera rosneft, le fer-rovie e la banca Sberbank.

Il ghiacciaio Toro II, al conine tra Cile e Argentina

PORTOGALLO

2,5

0

-2,5

-5,0

-7,5

-10,0(stime)

%

2008 2009 2010 20112006 2007

Deicit pubblicorispetto al pil

variazione del pil

Fonte: The Economist

Il surplus del commercio este-ro della Germania tra il 2002 e il 2009 è stato pari al 7 per cento del pil. Il 60 per cento dell’avanzo deriva dagli scam-bi con i paesi dell’unione mo-netaria. All’origine del surplus tedesco c’è una straordinaria crescita della produttività, che ha spinto le imprese a guada-gnare quote di domanda inter-nazionale, ma solo nel settore manifatturiero.

Al contrario della produtti-vità, il salario industriale è sceso del 14,5 per cento in rap-porto al valore del prodotto medio del lavoro tra il 2002 e il 2007. retribuzioni e prezzi te-deschi sono scesi del 10 per cento rispetto ai partner, e i di-vari di competitività si sono ampliati. Come nota Sergio de Nardis su lavoce.info, non po-tendo apprezzare il tasso reale di cambio, l’onere del riequili-

brio cade per intero sui paesi dell’eurozona, chiamati ad ab-bassare prezzi e salari sotto i li-velli dell’economia tedesca, emulandone l’espansione sbi-lanciata nella manifattura.

volenti o nolenti questo è il quadro con cui anche il nostro paese deve fare i conti. Per questo ci vorrebbe un ministro dello sviluppo economico in carica che non si occupi solo delle esigenze di Mediaset. u

Il numero Tito Boeri

7 per cento del pil

Page 102: Internazionale 870

Annunci

102 Internazionale 870 | 29 ottobre 2010

Page 103: Internazionale 870

Annunci

Internazionale 870 | 29 ottobre 2010 103

Vuoi pubblicare un annuncio su queste

pagine?

Per informazionie costi contatta:

Anita Joshi

[email protected]

06 4417 301

Page 104: Internazionale 870

104 Internazionale 870 | 29 ottobre 2010

StrisceM

r. W

igg

les

Nei

l Sw

aa

b, S

tati

Un

iti

Th

ing

pa

rtJo

ey A

liso

n S

aye

rs, S

tati

Un

iti

Re

d M

ea

t M

ax

Ca

nn

on, S

tati

Un

iti

Ma

can

ud

o

Lin

iers

, Arg

enti

na

Mi dispiace Karen, ma sono costretto ad arrestarti perché sei salita con la bicicletta

sul marciapiede.

Io sono costretta ad arrestarti per avermi intossicato pubblicamente.

Potremmo risolvere la questione davanti a una lunga abbuffata non stop. Per fortuna ho qui con me dieci scatole da cinque chili di filetto

di bisonte speziato.

Ottimo, mi sono appena fatta stringere l’apparecchio.

Wow. La situazionesi complica.

Non credo proprio.

...E QUANDO IL FANTASMA TORNÒ A CASA, C’ERA UN UNCINO ATTACCATO ALLA MANIGLIA.

ALLA PORTIERA DELL’AUTO, CIOÈ. RICORDATE CHE ALL’INIZIO

IL FANTASMA AVEVA SENTITO ALLA RADIO CHE C’ERA IN GIRO UN ASSASSINO CON UN UNCINO AL

POSTO DELLA MANO?

E COSÌ, EHM, C’ERANO QUESTI STRANI RUMORI. E INSOMMA L’ASSASSINO, ECCO, VOLEVA AGGREDIRE IL FANTASMA,

E IL FANTASMA AVEVA PAURA.

AH, DIMENTICAVO, L’ASSASSINO ERA VIVO!

AAAAAAAH!

continuo a uscire con delle pollastrelle sexy senza

personalità.chi ha deciso che la parte

migliore per pensare è il cuore: il fegato, forse? oppure

la milza?

da oggi in poi voglio pensare solo con il mio pancreas. oh, Mr.

Wiggles...

credi che il mio pancreas abbia il pisello?

e che ti consiglia di

fare?

dormirecon una

pollastrella.

forsedovresti

pensare conil cuore invece

che conil pisello.

Page 105: Internazionale 870

Rob Brezsny

L’oroscopo

inte

rna

zion

ale

.it/

oros

copo

ILL

UST

RA

ZIO

NI

DI

FR

AN

CE

SCA

GH

ER

MA

ND

I

Internazionale 870 | 29 ottobre 2010 105

lissimo diario, un neurochirurgo fai da te.

VERGINE

Alle ultime elezioni politi-che nessuno dei tre princi-

pali partiti britannici ha avuto la maggioranza assoluta. Per un po’ il paese è rimasto senza un leader. Alla ine i conservatori e i liberal-democratici hanno formato una strana coalizione. Qualcuno non era convinto che fosse la soluzione giusta. “Ho detto che sembrava un incrocio tra un bulldog e un chihuahua”, ha commentato il sin-daco di Londra, Boris Johnson. “Ma intendevo dire che avrà una grande forza, come tutti gli ibridi”. Credo che una fusione che hai in mente, Vergine, susciterà senti-menti simili. Travestimento consi-gliato per Halloween: un incrocio tra un bulldog e un chihuahua, tra un colibrì e un coccodrillo, tra Gandhi e Napoleone.

BILANCIA

Le cinque tigri bianche di un parco zoologico cinese

sono diventate troppo mansuete. Forse perché hanno passato molto tempo con gli umani o perché la loro vita è troppo comoda. Uno dei loro istinti fondamentali si è atro-izzato. Un guardiano ha messo delle galline con i felini, sperando che gli saltassero addosso e le di-vorassero. Invece le tigri sono in-dietreggiate spaventate. Così la di-rezione dello zoo ha deciso di prendere altri provvedimenti per stimolare la loro spavalderia. Ti di-co questo, Bilancia, perché ho pau-ra che tu stia andando nella stessa direzione. Travestimento consi-gliato per Halloween: un grosso animale feroce.

SAGITTARIO

Quella di un soldato che combatte in guerra è la più

alta forma di coraggio? Il poeta ir-landese William Butler Yeats non la pensava così. Secondo lui, en-trare nell’abisso del proprio incon-scio richiede altrettanta audacia. A mio parere, nei prossimi giorni quello sarà il luogo in cui darai prova di maggiore eroismo. Le tue esperienze più utili e illuminanti saranno le lotte che farai con le

bellissime tenebre che sono den-tro di te. Travestimento consiglia-to per Halloween: un guerriero pa-ciico.

CAPRICORNO

Uno spammer manda in media 12.414.000 email

prima di riuscire a strappare un po’ di soldi a un babbeo credulone. Tu non avrai bisogno di essere così proliico per far sapere cos’hai da ofrire, ma dovrai essere comun-que tenace. Fortunatamente, per aumentare le tue possibilità di successo ti basterà puriicare le tue intenzioni. Perciò, guarda bene dentro di te e assicurati che il tuo dono, la tua idea, il tuo prodotto o servizio siano di un’integrità im-peccabile. Travestimento consi-gliato per Halloween: un piazzista divino, un angelo che cerca di ven-dere una proprietà in paradiso.

ACQUARIO

In questi giorni, per te la lu-ce del sole sarà profumata

di spezie o di muschio. Il vento avrà il gusto di un liquore al cioc-colato o di una pesca matura. Il ronzio della rotazione terrestre ti sembrerà una sinfonia ascoltata una volta in sogno. Il tuo corpo sa-rà elettrico. La tua anima musco-losa. In altre parole, Acquario, la magia è in arrivo. Le colline saran-no popolate di ricordi futuri dal sa-pore delizioso. Ti muoverai più del solito su terreni sacri. Travesti-mento consigliato per Halloween: il personaggio di un ilm che ha cambiato in meglio la tua vita.

PESCI

A metà del secolo scorso, il regista d’avanguardia Ken-

neth Anger organizzò una festa in maschera che chiamò “Impersona la tua follia”. Una delle invitate era la scrittrice dei Pesci Anaïs Nin. Si presentò nelle vesti dell’antica dea della fertilità Astarte, ma con una piccola aggiunta: una gabbia per uccelli in testa. Per il prossimo Halloween ti consiglio di ispirarti all’idea di Nin di rappresentare la sua follia come una dea, ma senza gabbia sulla testa. Trova un trave-stimento che ti permetta di incar-nare la parte migliore e più bella della tua pazzia, e lasciala libera.

SCORPIONE

Avresti proprio bisogno di un portiere personale, qual-cuno che ti accompagni ovunque vai e ti apra le porte che ti trovi davanti. Ma questo assistente dovrebbe fare

anche di più. Dovrebbe trovare porte segrete e spalancarle pro-nunciando parole magiche. Trasformarsi in falegname e costruir-ti un varco nel momento opportuno. Se non riesci a trovare qual-cuno in grado di svolgere questo ruolo, fallo tu stesso. Travesti-mento consigliato per Halloween: un portiere uscito da una iaba.

COMPITI PER TUTTI

Pensa alla morte come alla liberazione da tutto ciò che è logoro e superato. In questo senso, qual è la

morte migliore che hai mai vissuto?

ARIETE

Nella provincia cinese del Fujian un tempo c’erano

persone che pensavano di poter comunicare direttamente con i morti. Se dormivano sulla tomba della persona che desideravano contattare, in sogno avrebbero in-contrato lo spirito del defunto. Ti suggerisco di tentare qualcosa di simile, Ariete. Il motivo? Secondo la mia lettura dei presagi astrali, faresti bene a entrare in comunio-ne con i tuoi antenati. Se non puoi passare le notte vicino al luogo del loro ultimo riposo, trova un altro modo per contattarli in sogno. Metti le loro foto sotto il cuscino, o magari addormentati stringendo in mano uno dei loro oggetti prefe-riti. Travestimento consigliato per Halloween: l’antenato della cui in-luenza hai più bisogno ora.

TORO

In occasione di una mostra al Moma di New York, la

performance artist Marina Abra-movic ha issato negli occhi una serie di sconosciuti per 700 ore. Penso che potrebbe essere diver-tente per te, Toro, tentare una va-riazione su questo tema, per sen-tirti più vicino agli alleati con i quali vorresti sviluppare un rap-porto più profondo. Sei pronto ad afrontare questa prova? Travesti-mento consigliato per Halloween: un veggente mistico, un dio o una dea con il terzo occhio, un supere-roe con la vista a raggi X.

GEMELLI

Conosci i tartui? Sono co-me dei funghi bitorzoluti

che crescono sottoterra vicino agli alberi. Per scovarli è necessario il iuto di maiali o di cani apposita-mente addestrati. In alcune regio-ni d’Europa il loro gusto è così ap-

prezzato che possono costare an-che ottomila euro al chilo. Il tartu-fo dovrebbe essere la tua metafora del mese di novembre. Prevedo che andrai a caccia di un tesoro brutto ma delizioso o di un adora-bile mostro. Travestimento consi-gliato per Halloween: una reginet-ta di bellezza o una modella che somigli alla creatura di Franken-stein, un rinoceronte in abito da sera, una torta di compleanno fat-ta con la carne in scatola.

CANCRO

Non devi sforzarti di più, Cancerino, devi sforzarti di

meno. Usa la tua attenzione in modo rilassato per giocare con va-rie possibilità. Non tirar fuori la tua ferocia guerresca e non sfoga-re la tua giusta rabbia solo perché la vita si riiuta di adeguarsi alle tue esigenze. Lascia che il tuo cor-po sia percorso da onde di tenerez-za, apri il cuore all’esperienza di mescolare la tua energia con il lusso imprevedibile della vita, meravigliati delle sorprendenti ri-velazioni e degli inviti che ricevi continuamente. Travestimento consigliato per Halloween: signor Morbido, signora Velluto, dottor Delizioso, dj Setoso.

LEONE

“Volevo cambiare il mondo, ma ho scoperto che l’unica

cosa che una persona può essere sicura di cambiare è se stessa”, ha scritto Aldous Huxley. Ti consiglio di adottarla come ipotesi operati-va. Forse tra qualche settimana fa-rai bene a inondare i tuoi cari di consigli. Ma per ora il tuo compito è revisionare, ricalibrare e perfe-zionare il tuo io meravigliosamen-te imperfetto. Travestimento con-sigliato per Halloween: un eremi-ta, un anarchico, l’autore di un bel-

Page 106: Internazionale 870

106 Internazionale 870 | 29 ottobre 2010

L’ultima

Karzai e i taliban. “Morte agli infedeli”. “Abbasso l’America”. “Bene, stanno parlando”.

ch

Ap

pAt

te

, th

e In

te

rn

At

Ion

Al

he

rA

ld

tr

IBu

ne

, fr

An

cIA

“la parte peggiore sono le strisce orizzontali”.

“Questa storia di Wikileaks ci fa sembrare cattivi”.

el

ro

to

, el

pA

ís, s

pAg

nA

dIf

fe

e

Belgio: moto perpetuo.

“I leader avevano tendenze paranoiche: credevano che la gente li seguisse”.

Be

rt

rA

Ms,

he

t p

Ar

oo

l, p

Ae

sI B

Ass

IW

IlK

Inso

n, p

hIl

Ad

el

ph

IA d

AIl

y n

eW

s, s

tA

tI u

nIt

I

Le regole Discoteca dopo i trent’anni1 raddoppia la dose di cafè nella settimana precedente. 2 non tentare di vestirti alla moda. 3 parole bandite: night club, pista da ballo, Village people. 4 È inutile cercare di stare al passo con i nomi dei cocktail. non si chiamano più neanche cocktail. 5 più si avanza con l’età, più la selezione all’entrata è dura: se non sei in lista non uscire nemmeno di casa. [email protected]

Page 107: Internazionale 870
Page 108: Internazionale 870