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Indice

Evento e storia. Introduzione p. 1 Merio Scattola

1 2. Cartografia politica 5 3. Prima 6 4. Durante 12 5. Dopo 40 6. Alla fine 56

Alcune osservazioni su Il libro del Cortegiano di Baldassarre Castiglione p. 57 nel sistema del dialogo rinascimentale Giacomo Comiati

Per una epistemologia delle dottrine politiche europee p. 73 Merio Scattola

1. Punto di partenza. Linguaggio e politica 73 2. Ragione e forza nel Novecento 74 3. Storia del pensiero politico e storia dei concetti 76 4. Storia del linguaggio politico e repubblicanesimo 80 5. Forma e contenuto 81 6. Definizione formal 84 7. Una comunità di discorso esemplare. La scuola di Salamanca 85 8. terpretazione formale dei testi 88 9. Le 90

10. La relazione tra le forme e i contenuti politici 94 11. Anche le forme possono determinare i contenuti 95 12. Gli scambi tra le comunità di discorso 101 13. La forma e il suo significato storico 106

IV

Iconografia del Leviatano. p. 109L’importanza del frontespizio nelle opere politiche del SeicentoFederica Poletti

1. Introduzione 1092. Leviatano. Iconografia del frontespizio 1103. Il corpo politico nell’immaginario aristotelico.

Caspar Faccius e John Case 1114. La teoria della sovranità di Hobbes 1165. Il Leviatano e la tradizione 1216. Conclusioni. La filosofia politica tramite le immagini 124

Le parole e le cose nella lingua del Leviatano p. 127Marco Malvestio

1. Introduzione 1272. La teoria del linguaggio di Hobbes prima del Leviatano 1283. La teoria del linguaggio nel Leviatano 1334. Motivazioni e conseguenze

di una teoria del linguaggio nel Leviatano 1375. Il Leviatano e le teorie del linguaggio dell’antichità classica 1416. Conclusione 149

Diritto di resistenza e legittimità del potere p. 151Paolo Scotton

1. Un’aporia nel dispositivo del Leviatano 1512. Il diritto di resistenza. Interpretazioni a confronto 1593. L’autorevolezza a servizio dell’autorità 1684. Individuo e legittimità del potere. Considerazioni finali 176

Dal teatro allo scacchiere. La concezione del potere di Bernard Mandeville p. 181Giacomo Gambaro

V

Tirranide e stato di natura. Sul rifiuto d p. 193 nelle Tragedie Cinque di Gian Vincenzo Gravina Enrico Zucchi

1. Diritto naturale e stato di natura da Grozio a Rousseau 193 2. Giusnaturalismo in Italia.

Tempi e modi della ricezione italiana tra Sei e Settecento 202 3. La riflessione graviniana sul giusnaturalismo moderno tra punti

di contatto e prese di distanza. D ius sapientioris 210 4. Oltre Machiavelli.

le Tragedie Cinque di Gravina e il diritto naturale moderno 215

Kant. Politica, morale e storia p. 227 Silvia Gabbatore

1. Introduzione 227 2. Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico.

Storia e diritto 229 3. 236 4. La collocazione intermedia del diritto 241

244 6. Conclusioni 249

La statistica. L Università di Padova p. 251 Francesca Garbin e Clara Silvano

1. Introduzi 251 2. Un nuovo approccio ai fenomeni sociali 256 3. atistica 257 4. La formulazione probabilistica

261 5. La stati 266 6. Una figura tra mondo politico e accademico. Luigi Bodio 275 7. Gli oppositori della statistica 279

Appendice p. 283

Indice dei nomi p. 287

Merio Scattola

Per una epistemologia delle dottrine politiche europee

1. Punto di partenza. Linguaggio e politica

Poniamo come punto di partenza un’affermazione generale che possa fungere come il primo assunto concesso da entrambi i contendenti impegnati in un’ in-dagine dialettica, e tale principio sia il seguente: «La politica è una forma di e-sperienza umana inerente all’ordine dell’argomentazione». Potremmo poi e-stendere e approfondire questa prima nozione convenuta e procedere identifi-cando e valutando le caratteristiche dell’argomentazione che interviene nel di-scorso politico: se essa sia razionale e di quale tipo di razionalità debba trattarsi. Per confermare questa identità tra politica e discorso, possiamo naturalmente portare a conferma le definizioni classiche di Aristotele (384-322) e di Platone (428-348). Il primo notoriamente fa coincidere la sfera pratica della politica (e anche la scienza che da essa può derivare e che verte su di essa) con l’esercizio del linguaggio e del ragionamento.

L’essere umano è infatti un πολιτικὸν ζῷον perchè possiede il λόγος, cioè può ragionare e può comunicare i suoi pensieri, e in questo scambio genera azioni comuni1. Entro lo stesso arco di considerazioni Platone ritiene che la relazione politica sia essenzialmente un πείθειν καὶ πείθεσθαι, un convincere ed obbedire2, che per funzionare correttamente deve essere simmetrico e che corrisponde perciò a quella stessa relazione che Senofonte (430?-355?) e Aristotele descris-sero come ἄρχειν καὶ ἄρχεσθαι e che in questa formulazione troviamo inalterata fino alla prima età moderna3. Il punto di partenza è dunque il λόγος, non il κράτος o la δύναμις.

1 Aristoteles, Politica, a cura di William David Ross, Oxonii, E typographeo Claren-

doniano, 1957, lib. I, cap. 2, 1253a 1-29, pp. 3-4. 2 Plato, Κρίτων [Crito], in Id., Opera. Tomus I tetralogias I-II continens, a cura di Ioannes

Burnet, Oxonii, E typographeo Clarendoniano, 1900, 51E-52A. 3 Xenophon, Opera omnia. Tomus IV. Institutio Cyri, a cura di E. C. Marchant, Oxonii,

E typographeo Clarendoniano, [1910], lib. I, cap. 6, par. 20; Aristoteles, Politica, lib. I, cap. 1, 1252a 15-16; cap. 5, 1254b, 21-35; lib. III, cap. 4, 1277b 11-16; Pierre Grégoire [Petrus Gregorius Tholosanus], De republica libri sex et viginti, in duos tomos distincti, Lugdu-ni, Sumptibus Ioannis Baptistae Buysson, 1596, lib. I, cap. 1, par. 18, pp. 9-10; Iohannes Althusius, Politica methodice digesta atque exemplis sacris et profanis illustrata. Editio tertia

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2. Ragione e forza nel Novecento

Molti orientamenti storiografici e filosofico-politici del Novecento hanno screditato intenzionalmente e sistematicamente l’essenza argomentativa o lin-guistica della dimensione politica e hanno semmai identificato il suo fondamen-to in un nucleo irrazionale ed extralinguistico, in qualcosa che, essendo anterio-re al principio di formazione e di rappresentazione, deve essere pensato, ma meglio sarebbe dire ‹posto› giacché esso può solo imporsi, come forza, tensio-ne, volontà, potenza. Tra i molti indirizzi che nel Novecento hanno seguito questa via nell’intendere la politica, si possono ricordare in primo luogo la criti-ca dell’ideologia e la sociologia della conoscenza, che, mentre dimostrano o ten-tano di dimostrare che ogni argomento nell’ordine del discorso è la razionaliz-zazione di un impulso personale o di un interesse sociale, cioè di una forza e-xtrarazionale ed extrascientifica, concludono che nessun prodotto dell’ideologia è mai disinteressato, ingenuo, neutrale, ma dipende da una ‹struttura sociale›, parziale o totale, sottostante4. Eventualmente solo la scienza che analizza l’ideologia può rivendicare per sé di essere una forma di conoscenza disinteres-sata e perciò razionale. Il pensiero viene in tal modo riportato alla forza in due modi. In primo luogo il ragionamento critico, che scopre un motivo ulteriore al di sotto dell’argomentazione razionale è riflessivo e può applicare gli stessi strumenti anche a se stesso. Perciò la stessa critica che la scienza rivolge alla i-deologia può essere ritorta contro la scienza che a sua volta può essere sma-scherata come un’ulteriore ideologia. In questo circolo ermeneutico vizioso nessun ragionamento può essere indipendente, autoconsistente, ma funge sem-pre da strumento in vista di un fine non argomentativo che lo supera. Forse la prima formulazione di questo metodo si trova nella genealogia della morale, dove Friedrich Nietzsche (1844-1900) sostiene che le argomentazioni ideali del

(1603), Herbornae Nassoviorum, (Christophorus Corvinus), 1614, rist. Aalen, Scientia Verlag, 1981, cap. 1, par. 34, p. 10.

4 Karl Mannheim, Ideology and Utopia. An Introduction to the Sociology of Knowledge (1929), trad. amer. di Louis Wirth e Edward Shils, New York, Harcourt, Brace and Co., Lon-don, Routledge and Kegan Paul, 1954, cap. 5, par. 1, pp. 237-239. Cfr. Vilfredo Pareto, Trattato di sociologia generale (1916), Firenze, G. Barbera, 1923, vol. 1, cap. 6, parr. 850-861, pp. 434-438; Id., Compendio di sociologia generale, a cura di Giulio Farina, Firenze, G. Barbera editore, 1920, capp. 6-7, pp. 154-277; Mario Stoppino, Ideologia, in Dizionario di politica, a cura di Norberto Bobbio e Nicola Matteucci, Torino, Utet, 1976, pp. 464a-476a; Ferruccio Rossi-Landi, Ideologia. Per l’interpretazione di un operare sociale e la ricostruzione di un concetto, Roma, Meltemi, 2005, pp. 83-84.

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cristianesimo corrispondono a una condizione di tensione energetica partico-larmente bassa5. In secondo luogo una considerazione sociologica della cono-scenza concepisce gli atti di pensiero e le sue manifestazioni, le argomentazioni (o ‹derivazioni› nel linguaggio di Vilfredo Pareto)6, come funzioni dell’equilibrio sociale, che servono a realizzare, mutare o stabilizzare una determinata situa-zione collettiva. In tal modo la verità dell’argomento deriva dalla sua efficacia nell’intervenire su una situazione complessa di fattori e il pensiero stesso vale come una forza che entra in un gioco complesso di forze, quale è il mondo so-ciale. Anche in questo caso si può pensare che il tentativo di Friedrich Nie-tzsche di pensare nei suoi ultimi scritti il mondo come un campo di forze in una sofisticata combinazione di azioni e reazioni sia una conseguenza della sua criti-ca genealogica o sia strettamente legato a essa7.

Tra gli altri orientamenti del Novecento che hanno applicato questo schema alla politica, si può ricordare in primo luogo la dottrina delle relazioni interna-zionali che, soprattutto nella versione proposta da Hans Morgenthau (1904-1980)8, ha immaginato i rapporti tra stati in condizione di perfetta anarchia per-ché i soggetti di questi rapporti, gli stati, sarebbe individui in sé autocentrati, ir-risolvibili in un discorso comune e quindi, da questo punto di vista, irrazionali9.

Dobbiamo a Friedrich Meinecke (1862-1954) una delle più lucide ed efficaci formulazioni di questo rifiuto della sfera argomentativa o etica ovvero del trion-fo della forza contro il linguaggio. Nell’introduzione alla sua Idea della ragion di stato (1924) Meinecke sostiene infatti che la storia degli stati moderni sarebbe

5 Friedrich Nietzsche, Zur Genealogie der Moral. Eine Streitschrift (1887), in Id., Werke in

drei Bänden. Zweiter Band, a cura di Karl Schlechta, München, Carl Hanser Verlag, 1966, Abhandl. 1, par. 10, pp. 782-785; Id., Aus dem Nachlaß der Achtzigerjahre, in Id., Werke in drei Bänden. Dritter Band, a cura di Karl Schlechta, München, Carl Hanser Verlag, 1966, (W II 2), p. 612 e (Mp XVII), pp. 866-867. Cfr. Id., Der Wille zur Macht. Versuch einer Umwertung aller Werte (1906), a cura di Peter Gast ed Elisabeth Förster-Nietzsche, Stutt-gart, Kröner, 1952, Buch II, Kap. 2, par. 266, pp. 189-190.

6 Pareto, Compendio di sociologia generale, cit., cap. 67 pp. 219-277. 7 Nietzsche, Aus dem Nachlaß der Achtzigerjahre, cit., (Mp XVII), p. 874: «Eine Vielheit

von Kräften, verbunden durch einen gemeinsamen Ernährungsvorgang, heiißen wir ‹Leben›»; (W II 5), p. 775.

8 Hans Morgenthau, Politics among Nations; id., L’uomo scientifico versus la politica di po-tenza. Un’introduzione al realismo politico (1946), Roma, Ideazione Editrice, 2005.

9 Sergio Pistone, Relazioni internazionali, in Dizionario di politica, a cura di Norberto Bobbio, Nicola Matteucci e Gianfranco Pasquino, Torino, Torino, Utet, 21983, pp. 949a-959b.

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costitutivamente dominata da due principi contrapposti che egli chiama κράτος ed ἦθος. Κράτος è il principio irrazionale della forza che spinge e costringe ogni stato a espandersi sia verso l’esterno sia verso l’interno senza rispettare alcun limite e non obbedendo ad altre norme che a quelle della sua conservazione e del suo incremento. Ἦθος è al contrario il principio di razionalizzazione o di argomentazione, che riporta il comportamento degli stati a regole universali di giustizia. Per la loro stessa natura i due principi sono asimmetrici perché solo l’uno è in grado di agire, mentre l’altro è disarmato e può solo intervenire con la dissuasione su una materia che gli resta estranea10. Perciò ἦθος non può mai go-vernare o guidare le manifestazioni di κράτος, ma può solo frenarlo o moderare le sue manifestazioni, così che alla fine il dualismo risulta essere in realtà un monismo e mezzo11.

3. Storia del pensiero politico e storia dei concetti

Il merito di aver invece sottolineato nella seconda metà del Novecento l’essenza comunicativa della politica spetta in ambito più filosofico-politico a Hannah Arendt (1906-1975), che di fronte alle minacce dell’economia e della tecnica ha insistito sull’esistenza di una dimensione peculiare e insostituibile dell’agire umano12, mentre nel campo della storia politica o della storia delle dottrine politiche o della storia delle idee in generale un grande contributo in tal senso è stato dato da un lato da John Pocock e Quentin Skinner, cioè dalla Scuola di Cambridge e dall’altro lato dalla Begriffsgeschichte tedesca13.

10 Friedrich Meinecke, L’idea della ragion di stato nella storia moderna (1924), trad. it. di

Dino Scolari, Firenze, Sansoni editore, 1977, (1. ed. it. 1942), Introduzione, pp. 1-22. 11 Merio Scattola, Meinecke, Machiavelli e la ragion di stato, in Machiavelli nella storiografia e

nel pensiero politico del XX secolo, a cura di Luigi Marco Bassani e Corrado Vivanti, Milano, Giuffrè Editore, 2006, pp. 167-206. Il problema del rapporto tra monismo e dualismo risale ad Alfred Vierkandt, Der Dualismus im modernen Weltbild, Berlin, Pan-Verlag Heise, 1923. Cfr. Id., Recensione a Friedrich Meinecke, Die Idee der Staatsräson in der neueren Geschichte, in «Kant-Studien», 33, 1928, pp. 299-300.

12 Hannah Arendt, Vita activa. La condizione umana (1958), trad. it. Milano, Bompiani, 1994, pp. 18-57. Cfr. Gaetano Rametta, Comunicazione, giudizio ed esperienza del pensiero in Hannah Arendt, in Filosofia politica e pratica del pensiero. Eric Voegelin, Leo Strauss, Hannah Arendt, a cura di Giuseppe Duso, Milano, Franco Angeli, 1988, pp. 235-287, qui pp. 236-251.

13 Il merito di avere avvicinato l’uno all’altro questi due orientamenti scientifici e di avere tentato una loro sintesi spetta a Melvin Richter, Conceptual History (Begriffsgeschichte)

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L’uno e l’altro indirizzo mettono a fuoco due aspetti diversi del linguaggio politico ovvero della politica come linguaggio, nel primo caso più rivolto alle dinamiche dell’uso, alla pragmatica linguistica, nell’altro caso più consono alle strutture permanenti, alla grammatica. Se non si fa troppo torto ai termini in-trodotti da Ferdinand de Saussure (1857-1913) nella linguistica generale14, si po-trebbe dire che la scuola di Cambridge si è più rivolta alla parole, mentre la Begrif-fsgeschichte si è occupata prevalentemente della langue.

Entrambi gli indirizzi sono stati avviati da un saggio nel quale furono stabili-ti i principi metodologici fondamentali che ciascuno dei due orientamenti a-vrebbe dovuto applicare e sviluppare. Reinhart Koselleck (1923-2006) propose il manifesto della sua storia concettuale nel 1967 nell’articolo Richtlinien für das Lexikon Politisch-sozialer Begriffe der Neuzeit, pubblicato nell’Archiv für Begrif-fsgeschichte15. Ancora più esplicita è stata la presa di posizione di Quentin Skinner a favore della politica come linguaggio in un suo intervento metodologico pub-blicato in History and Theory nel 196916 e questa posizione è stata difesa da John Pocock in molti suoi saggi17. Come è noto, Skinner muove dalle riflessioni sul

and Political Theory, in «Political Theory», 14, 1986, pp. 604-637; Id., The History of Political and Social Concepts. A Critical Introduction, New York, Oxford University Press, 1995; Id., Appreciating a Contemporary Classic. The Geschichtliche Grundbegriffe and Future Scholar-ship, in The Meaning of Historical Terms and Concepts. New Studies on Begriffsgeschichte, a cura di Hartmut Lehmann e Melvin Richter, Washington D. C., German Historical Institute, 1996, pp. 7-19.

14 Ferdinand de Saussure, Corso di linguistica generale (1916), trad. it. di Tullio De Mau-ro, Bari, Editori Laterza, 1974, Introduzione, cap. 4, pp. 28-30. Cfr. Giulio Lepschy, La linguistica strutturale, Torino, Giulio Einaudi editore, 1966, pp. 45-46.

15 Reinhart Koselleck, Richtlinien für das Lexikon politisch-sozialer Begriffe der Neu-zeit, in Archiv für Begriffsgeschichte, 11, 1967, pp. 81-99. Cfr. Id., Begriffsgeschichte und Sozial-geschichte 1972, in Historische Semantik und Begriffsgeschichte, a cura di Id., Stuttgart, Klett-Cotta, 1978, pp. 19-36; Id., Futuro passato. Per una semantica dei tempi storici (1979), Geno-va, Marietti, 1986, pp. 110-122.

16 Quentin Skinner, Meaning and Understanding in the History of Ideas, in «History and Theory», 8, 1969, pp. 3-53, rist. abbreviato in Id., Visions of Politics. Volume 1: Regarding Method, Cambridge, Cambridge University Press, 2002, pp. 57-89.

17 John Greville Agard Pocock, Texts and Events: Reflections on the History of Political Thought, in Politics of Discourse. The Literature and History of Seventeenth-Century England, a cura di Kevin Sharpe e Steven N. Zwicker, Berkeley, University of California Press, 1987, pp. 21-34; Id., Languages and Their Implications. The Transformation of the Study of Politi-cal Thought (1989), in Id., Politics, Language, and Time. Essays on Political Thought and History, Chicago, The University of Chicago Press, 1989, pp. 3-41; Id., The History of Political

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linguaggio avanzate da John Austin (1911-1960) e da John Searle (1932-)18. La lingua non è infatti solamente trasmissione denotativa di dati, ma articola anche altre funzioni metalinguistiche e illative. Alcune azioni degli uomini avvengono infatti attraverso la lingua. Si può perciò pensare che ampie sfere dell’esperienza umana siano regolate da questa pragmatica linguistica. Assieme al diritto questo può essere certamente il caso della politica19.

La politica può quindi essere immaginata come una dimensione comunicati-va vigente all’interno di una determinata comunità umana. La lingua politica deve inoltre essere costituita da due sfere o componenti. Dobbiamo infatti pen-sare che esista una grammatica della politica, una langue, che stabilisce quali cose si possono fare con la lingua e in che modo. Questa dimensione, pur conser-vando inalterata la sua forza normativa, risulta tuttavia invisibile e astratta, pre-sente solo nella mente dei parlanti. Ciò che invece è perfettamente visibile sono i singoli atti di parole, che tuttavia sono sempre realizzazioni imperfette e mate-riali della langue. Ma gli atti di parole, proprio perché avvengono nel campo reale della comunicazione, producono sermpre l’effetto di confermare o di contestare una determinata regola linguistica, quando la applicano fedelmente ovvero quando la violano. Perciò la comunicazione politica può anche essere conside-rata come una continua lotta per la convalida delle regole e/o per la loro sosti-tuzione con paradigmi linguistici concorrenti, i quali nascono in un primo tem-

Thought. A Methodological Inquiry (1962), in Id., Political Thought and History. Essays on Theory and Method, Cambridge, Cambridge University Press, 2009, pp. 3-19; Id., Verbalizing a Political Act. Towards a Politics of Speech (1973), ibidem, pp. 32-50; Id., Political Ideas as Histor-ical Events. Political Philosophers as Historical Actors (1980), ibidem, pp. 20-50; Id., The Recon-struction of Discourse. Towards the Historiography of Political Thought (1981), ibidem, pp. 51-66; Id., The Concept of Languae and the métier d’historien. Some Considerations on Practice (1987), ibidem, pp. 87-105; Id., Quentin Skinner. The History of Politics and the Politics of History, ibidem, pp. 123-142.

18 John Langshaw Austin, How to do things with words. The William James Lectures deliv-ered at Harvard University in 1955, Oxford, Clarendon, 1962; John Searl, Speech Acts. An Essay in the Philosophy of Language, Cambridge, Cambridge University Press, 1969.

19 Quentin Skinner, The Foundations of Modern Political Thought. Volume One. The Renais-sance, Cambridge, Cambridge University Press, 1978, Preface, p. xiii: «What exactly does this approach enable us to grasp about the classic texts that we cannot grasp simply by reading them? The answer, in general terms, is I think that it enables us to characterize what their authors were doing in writing them.»

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po come usi devianti, ma infine si impongono nelle consuetudini dei parlanti e diventano a loro volta langue ovvero grammatica20.

Questo modello di lingua politica ha importanti conseguenze per la costru-zione della dimensione storica perché in primo luogo risulta evidente che ogni discorso pubblico andrà riferito al suo contesto, alla sua grammatica, d’origine, all’interno del quale sono decifrabili le intenzioni comunicative originarie del parlante. Poiché la storia è un insieme complesso di testi e di contesti, un testo può ovviamente anche essere decontestualizzato, cioè spostato dalla sua collo-cazione storica originaria, dove è stato prodotto, e può essere trasferito in un altro luogo o in un altro tempo, che lo recepisce21. Le intenzioni originarie an-dranno in questo caso perdute e saranno generati nuovi sensi del testo. In se-condo luogo la storia intera appare come un interagire di testi e di azioni lingui-stiche, poste tutte sullo stesso livello. In terzo luogo andrà persa la distinzione tra un livello profondo o strutturale dell’esperienza umana, nel quale agiscono le forze storiche e il livello superficiale o sovrastrutturale, che può valere come luogo delle giustificazioni ideologiche o delle ripercussioni e delle reazioni nel campo del pensiero22. Il modello interpretativo ‹struttura vs. sovrastruttura› di-strugge infatti la possibilità di avere una dimensione autonoma o autosufficiente della politica, che è ridotta a strumento per giustificare le dinamiche di forze più profonde. Perciò, in quarto luogo, se si pensa alla politica in termini linguistici, si conserva la sua perfetta autonomia, almeno nei termini di una sfera del di-scorso.

20 Ibidem, p. xiii: «We can begin to see not merely what arguments they were present-

ing, but also what questions they were addressing and trying to answer, and how far they were accepting and endorsing, or questioning and repudiating, or perhaps even polemically ignoring, the prevailing assumptions and conventions of political debate.»

21 Hans Robert Jauß, Literaturgeschichte als Provokation, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1970; Id., Ästhetische Erfahrung und literarische Hermeneutik, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1982; Id., Rückschau auf die Begriffsgeschichte des Verstehens (1992), in Id., Wege des Verstehens, München, Wilhelm Fink Verlag, 1994, pp. 11-29. Cfr. Helmut Pfeiffer, Rezeptionsästhetik, in Reallexikon der deutschen Literaturwissenschaft, a cura di Klaus Weimar, Harald Fricke e Jan-Dirk Müller, Berlin, Walter de Gruyter, 2003, Bd. 3, pp. 285b-288a.

22 Cfr. Herfried Münkler, Machiavelli. Die Begründung des politischen Denkens der Neuzeit aus der Krise der Republik Florenz, Frankfurt am Main, Fischer Taschenbuch Verlag, 1984, p. 15: «Der von Machiavelli eingeleitete Paradigmawechsel […] ist nicht die einsame Tat eines Genies […], sondern das Ergebnis der politischen, ökonomischen und sozialen Veränderungen, die in Florenz seit dem 13. Jahrhundert stattgefunden haben.»

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4. Storia del linguaggio politico e repubblicanesimo

La lettura della dimensione politica come lingua e come scambio comunica-tivo può essere intesa sia in senso formale sia in senso materiale. Con l’espressione ‹senso materiale› si possono comprendere le posizioni che concre-tamente vengono difese nel dibattito politico di un certo contesto; con ‹aspetto formale› si possono indicare le norme o le forme linguistiche utilizzate per co-municare determinati contenuti. La dottrina della repubblica mista è, per esem-pio, un contenuto particolare che può essere trasmesso o discusso in forme dif-ferenti23, in un libero commento alle Storie di Tito Livio (59 a. C.-17 d. C.), in un trattato dedicato a una sola città, in un’esposizione sistematica del sapere politi-co tramandato, in una tavola sinottica illustrata24. Nello stesso modo la dottrina della monarchia e del re può essere esposta in un’orazione, in un trattato o in uno speculum principis25. Poiché nel lavoro storico sulle epoche passate abbiamo a che fare con testi scritti o con artefatti umani, edifici, manufatti, prodotti, che valgono come segni e come testimoni, possiamo generalizzare le ultime consi-derazione e dire che le dottrine o le ideologie sono elaborate in differenti generi letterari.

Le premesse metodologiche di Quentin Skinner, che esaltano l’aspetto lin-guistico e comunicativo della politica, promettono perciò di porre in forte rilie-vo anche gli aspetti formali della lingua politica e fanno sperare in una vasta messe di dati e di indagini sul versante delle forme utilizzate dal discorso politi-co, cioè nel campo dei suoi generi letterari, dei codici e delle convenzioni. Di fatto il suo lavoro si concentra quasi esclusivamente sull’identificazione e sulla difesa della tradizione repubblicana quale variante costituzionale della libertà26,

23 Wilfried Nippel, Mischverfassungstheorie und Verfassungsrealität in Antike und früher

Neuzeit, Stuttgart, Klett-Cotta, 1980; Merio Scattola, Le tradizioni tedesche della costituzione mista alle soglie dell'età moderna, in «Filosofia politica», 19, 2005, pp. 97-108; Alois Riklin, Machtteilung. Geschichte der Mischverfassung, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 2006.

24 Cfr. infra il saggio di Federica Poletti, pp. 109-125 e l’Appendice. 25 I diversi significati del concetto di monarchia sono ricostruiti da Horst Dreitzel,

Monarchiebegriffe in der Fürstengesellschaft. Semantik und Theorie der Einherrschaft in Deutschland von der Reformation bis zum Vormärz. Band 1. Semantik der Monarchie, Köln, Weimar, Wien, Böhlau Verlag, 1991.

26 Skinner, The Foundations of Modern Political Thought. Volume One. The Renaissance, cit., pp. 3-65; Id., The Republican Ideal of Political Liberty, in Machiavelli and Republicanism, a cura di Gisela Bock, Quentin Skinner e Maurizio Viroli, Cambridge, Cambridge University

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che non viene caratterizzata in alcun modo formalmente pregnante rispetto ad altre situazioni. Dunque l’operazione metodologica consiste nell’accoppiamento di un programma di pragmatica linguistica con una costruzione dottrinale parti-colare, quella repubblicana, mentre resta ancora del tutto intatto, e forse anche ignorato, il campo d’indagine delle forme e del loro significato nel quadro di una politica concepita come linguaggio. È dunque indifferente che Niccolò Ma-chiavelli (1469-1527) abbia composto discorsi e non trattati? A che cosa si deve questa scelta? Alla sua insufficiente preparazione umanistica e quindi fonda-mentalmente alla contingenza? Oppure c’è un legame necessario, o quanto me-no argomentabile, fra i ragionamenti che Machiavelli propose e il modo in cui li espresse? E a che punto o a che livello si deve collocare questo legame? È una scelta tattica legata alle condizioni del discorso politico a Firenze negli anni 1513-1517? Oppure ha un nesso più profondo, strategico, con il discorso poli-tico che Machiavelli formula nei suoi manoscritti e che consegna, volontaria-mente o involontariamente, alle tradizioni della repubblica e della ragion di sta-to? Queste domande sono certamente ancora più rilevanti se pensiamo che esse sono formulate all’interno di un quadro teorico che intende la politica come comunicazione linguistica e che esse valgono per materiali che si concepiscono come uno scambio argomentativo.

5. Forma e contenuto

Per la tradizione repubblicana, ammesso che essa esista in quest’accezione, come per qualsiasi altra comunità di discorso, dobbiamo dunque interrogarci se esista questo collegamento fra forma e contenuto. Ma prima ancora dobbiamo chiederci che cosa siano e quali siano queste che abbiamo qui ora chiamato ‹comunità di discorso›, come esse siano definibili e soprattutto se esse si possa-no determinare in termini formali27.

Press, 1990, pp. 293-309; Martin van Gelderen, Aristotelians, Monarchomachs and Republi-cans: Sovereignty and respublica mixta in Dutch and German Political Thought, 1580-1650, in Republicanism. A Shared European Heritage. Volume I. Republicanism and Constitutionalism in Early Modern Europe, a cura di Id. e Quentin Skinner, Cambridge, Cambridge University Press, 2002, pp. 195-217.

27 Merio Scattola, Zu einer europäischen Wissenschaftsgeschichte der Politik, in Werkstatt Poli-tische Kommunikation. Netzwerke, Orte und Sprachen des Politischen, a cura di Christina Antenhofer, Lisa Regazzoni e Astrid von Schlachta, Göttingen, Vandenhoeck und Rup-recht, 2010, pp. 23-54, qui pp. 32-34; Id., La storia dei saperi politici nell’Europa moderna, in

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Potremmo pensare che le ‹comunità di discorso› siano semplicemente ‹tradi-zioni politiche›, cioè l’insieme degli interlocutori che condividono un determina-to ragionamento o una certa ideologia. Machiavelli è stato per esempio ascritto alla scuola del repubblicanesimo umanistico28 e nello stesso ambito è stata iden-tificata un’esplicita linea atlantica29, così come, in termini più generali, Martin Wight (1913-1972) ha riportato tutte le opzioni possibili nella storia delle rela-zioni internazionali a quelle che ha chiamato ‹le tre tradizioni›30, mentre per il federalismo è stata usata la metafora della sorgente per indicare il punto in cui una corrente di pensiero avrebbe origine31. In tutti questi casi abbiamo tuttavia una definizione contenutistica della tradizione perché quest’ultima è concepita come la linea lungo la quale un determinato materiale viene trasmesso da un un’epoca all’altra. I singoli, i gruppi o le generazioni sono pensati come un in-sieme di persone disposte in fila, cioè sull’ordine del tempo, e impegnate a pas-

Concordia Discors. Scritti in onore di Giuseppe Duso, a cura del Gruppo di Ricerca sui Concet-ti Politici, Padova, Padova University Press, 2012, pp. 197-225, qui pp. 206-209. Per una definizione sociologica della comunità di discorso cfr. Robert Wuthnow, Communi-ties of Discourse: Ideology and Social Structure in The Reformation, The Enlightenment and Europe-an Socialism, Cambridge, Massachusetts, Harvard University Press, 1989; Randall Collins, The Sociology of Philosophies. A Global Theory of Intellectual Change, Cambridge, Massachu-setts, Belknap Press of Harvard University, 1998.

28 Skinner, The Foundations of Modern Political Thought. Volume One. The Renaissance, cit., pp. 180-185 intende il discorso di Machiavelli, fatte salve due eccezioni, «as a relatively orthodox contribution to a well-established tradition of Republican political thought». Cfr. Id., Machiavelli’s Discorsi and the pre-humanist origins of republican ideas, in Machiavelli and Republicanism, cit., pp. 121-141. Cfr. anche Münkler, Machiavelli, cit., p. 15:

29 John Greville Agard Pocock, The Machiavellian Moment. Florentine Political Thought and the Atlantic Republican Tradition, Princeton, Princeton University Press, 1975. La tra-duzione italiana di Alfonso Prandi utilizza un termine diverso. Cfr. Id., Il momento ma-chiavelliano. Il pensiero politico fiorentino e la tradizione repubblicana anglosassone (1975), Bologna, Il Mulino, 1980.

30 Martin Wight, International Theory. The Three Traditions, a cura di Gabriele Wight e Brian Porter, Leicester and London, Leicester University Press, 1991; Id., Four Seminal Thinkers in International Theory. Machiavelli, Grotius, Kant and Mazzini, a cura di Gabriele Wight and Brian Porter, Oxford, Oxford University Press, 2005. Cfr. anche Traditions of International Ethics, a cura di Terry Nardin e David R. Mapel, Cambridge, Cambridge University Press, 1992.

31 Charles S. McCoy e Joseph Wayne Baker, Fountainhead of Federalism. Heinrich Bullinger and the Convenantal Tradition. With a Translation of De testamento seu foedere Dei unico et aeterno (1534), Louisville, Kentucky, John Knox Press, 1991.

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sarsi di mano un mano un blocco di idee ben definito che è stato escogitato dal capofila e che nel procedere passo dopo passo rimane invariato o subisce cam-biamenti tali da non intaccare la sua identità. Può naturalmente anche darsi il caso che la fila sia talmente lunga che il suo inizio si perde nell’oscurità dei tem-pi passati. In ogni caso, la tradizione si definisce a partire dal fatto che tutti i suoi membri condividono lo stesso materiale ovvero il medesimo complesso di idee o giudizi sul mondo. Se infatti, nel passare da un membro all’altro della ca-tena il contenuto subisse un mutamento che cambiasse la sua identità, la linea di trasmissione sarebbe spezzata e nascerebbe una nuova tradizione.

Per definire invece in termini puramente formali una comunità di discorso dovremmo concentrarci non tanto, o non solo, sui contenuti ideologici, ma so-prattutto sui modi in cui essi sono trasmessi e sui loro linguaggi. Ricorrendo alle teoria delle funzioni linguistiche32, potremmo tentare di stabilire in primo luogo chi siano i protagonisti dello scambio comunicativo, chi siano cioè gli emittenti e i riceventi del messaggio. In tal senso il significato dell’espressione ‹comunità di discorso› potrebbe risultare molto vicino a ciò che di solito si intende con ‹comunità politica›. Per quanto questo sembri un compito semplice, è effetti-vamente difficile stabilire con qualche esattezza quale sia l’ambito a cui si rivol-ge un autore quando si esprime in termini politici. A chi parlava Francisco de Vitoria (1492-1546) quando compose la sua duplice lezione sulla guerra e sugli Indiani d’America? Ai suoi allievi di Salamanca? Ai suoi colleghi? Al re di Spa-gna, ai sudditi spagnoli, alla cristianità, ai nativi del Nuovo Mondo? A chi si ri-volgeva Giacomo VI Stuart (1566-1625, re di Scozia dal 1567, re d’Inghilterra dal 1603) dal quando compose il Basilikon doron nel 1599? Al principe Henry e poi al principe Charles? Ai sudditi del regno di Scozia o a quelli del regno d’Inghilterra? Agli altri regnanti europei33? Fortunatamente, almeno in alcuni casi, le comunità nelle quali hanno operato i parlanti o gli autori politici si pos-sono definire in termini formali abbastanza sicuri. Si può cioè identificare il loro contesto in base alle categorie o alle funzioni del linguaggio che essi adottano e in tal senso esse perimetrano anche la loro estensione. Nello stesso modo, tau-tologicamente, diciamo che parlanti italiani sono tutti coloro che parlano

32 Roman Jakobson, Linguistica e poetica (1958), in Id., Saggi di linguistica generale, Mila-

no, Feltrinelli, 2008, pp. 181-218, qui pp. 185-193. 33 Merio Scattola, A Challenge in Political Theology. James I and Early English Puritans on

the Sources and Limits of Secular Authority, in Queen and Country. The Relation between the Mon-arch and the People in the Development of the English Nation, a cura di Alessandra Petrina, Bern, Peter Lang, 2011, pp. 259-295.

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l’italiano e nel momento stesso in cui qualcuno parla, sappiano se appartiene o no a questo gruppo.

6. Definizione formale di una ‹comunità di discorso›

Per nostra fortuna alcuni testi del passato – e questa situazione vale partico-larmente per i secoli della prima età moderna – dichiarano esplicitamente o in forma non troppo criptica da chi siano stati prodotti, a chi si rivolgano e per quale motivo essi instaurino un rapporto di comunicazione con i loro interlocu-tori. Essi in tal modo definiscono esplicitamente la comunità entro la quale av-viene l’argomentazione che essi propongono, e di tale comunità danno non tan-to le coordinate materiali, cioè le dottrine in cui quel gruppo umano si ricono-sce, quanto le specifiche formali, cioè i codici linguistici e comportamentali che lo caratterizzano. Alcuni testi, spesso specializzati in questa funzione, ricostrui-scono anche espressamente i singoli elementi del codice linguistico che deve essere applicato in un certo contesto: la lingua, i generi letterari, i temi ammissi-bili, le forme dell’argomentazione, i metodi dell’esposizione34. Altri testi defini-scono il loro ambito di comunicazione ovvero la comunità all’interno della qua-le operano perché i loro componenti si riconoscono facendo l’uno riferimento all’altro e generando quella che possiamo chiamare una ‹comunità di citazione› nella quale tutti i membri identificano esplicitamente chi faccia parte legittima-mente del medesimo discorso35. Questa può anche essere definita una ‹comuni-

34 Queste informazioni erano raccolte e trasmesse nella prima età moderna da scritti

che avevano il compito di avviare allo studio di una determinata disciplina, come la giu-risprudenza o la medicina, o che erano pensati come introduzione nell’esposizione si-stematica di una singola materia. Cfr. Id., Dalla virtù alla scienza. La fondazione e la trasfor-mazione della disciplina politica nell’età moderna, Milano, Franco Angeli, 2003, pp. 47-82; Id., Kaspar Schoppe und die Entwicklung der politischen propädeutischen Gattungen, in Kaspar Schoppe (1576-1649) Philologe im Dienste der Gegenreformation. Beiträge zur Gelehrtenkultur des europäi-schen Späthumanismus, a cura di Herbert Jaumann, Frankfurt am Main, Vittorio Kloster-mann, 1998, pp. 177-200. Una funzione propedeutica o isagogica poteva essere affidata anche al genere letterario delle bibliografie. Cfr. Id., Geschichte der politischen Bibliographie als Geschichte der politischen Theorie, in «Wolfenbütteler Notizen zur Buchgeschichte», 20, 1995, pp. 1-37.

35 Merio Scattola, Konflikt und Erfahrung. Über den Kriegsgedanken im Horizont frühneu-zeitlichen Wissens, in Kann Krieg erlaubt sein? Eine Quellensammlung zur politischen Ethik der Spanischen Spätscholastik, a cura di Heinz-Gerhard Justenhoven e Joachim Stüben, Stutt-gart, Verlag W. Kohlhammer, 2006, pp. 11-53, qui pp. 16-18; Id., Krieg des Wissens-Wissen

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tà di citazione orizzontale o trasversale› e si può distinguere da un’altra variante che possiamo chiamare ‹comunità di citazione verticale o longitudinale›, nella quale i partecipanti di un medesimo discorso si dispongono sull’asse del tempo e si riconoscono come un raggruppamento omogeneo perché ammettono le stesse fonti o lo stesso capostipite, come avviene nella comunità religiosa, ovve-ro si dispongono l’uno dopo l’altro nella successione dei momenti storici.

Proviamo a formulare un esempio di uno di questi fenomeni storici.

7. Una comunità di discorso esemplare. La Scuola di Salamanca

Francisco de Vitoria, che abbiamo citato brevemente sopra, viene inserito nella così detta ‹Scuola di Salamanca› o ‹Tarda Scolastica› o ‹Scolastica Spagnola› e viene anzi ritenuto il fondatore di questa corrente o tradizione teologica e giu-ridica, che a sua volta viene distinta nelle due fasi ‹prima› e della ‹seconda gene-razione della Scuola di Salamanca›, e, viene fatta terminare con Francisco Suá-rez, dopo circa un secolo di intensa attività e produzione letteraria36. Per defini-re l’identità della Scuola di Salamanca si fa generalmente ricorso alle dottrine difese e propagate dai suoi esponenti, ovvero si applica quella che sopra abbia-mo chiamato una definizione contenutistica di questa comunità intellettuale, ed è proprio per seguire fedelmente questa scelta che diviene inevitabile introdurre articolazioni e fratture interne. Infatti se l’interesse per Tommaso d’Aquino (1225-1274) resta generalmente costante e può essere utilizzato come un crite-rio unificante, altri elementi di contenuto mostrano tante e tali differenze che, se dovessimo giudicare solamente in base a essi, dovremmo concludere che non esiste nessuna unitaria Scuola di Salamanca. Francisco de Vitoria e i suoi colle-ghi, che operavano nella prima metà del Cinquecento, erano infatti rigorosa-mente intellettualisti; intellettualismo e volontarismo teologico si scontrarono

des Krieges. Konflikt, Erfahrung und System der literarischen Gattungen am Beginn der Frühen Neu-zeit, Padova, Unipress, 2006, pp. 41-43.

36 Questa divisione in fasi è stata difesa da Luciano Pereña, Estudio preliminar. La tesis de la paz dinámica, in Francisco de Vitoria, Relectio de iure belli o paz dinámica. Escuela Española de la Paz. Primera generación 1526-1560, a cura di Luciano Pereña, Vidal Abril, Carlos Baciero, Antonio Garcia e Francisco Maseda, Madrid, Consejo superior de investigaciones científicas, 1981, pp. 27-94. Cfr. anche Id., La Universidad de Salamanca, forja del pensamiento político español en el siglo XVI, Salamanca, Universidad de Salamanca, 1954.

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aspramente alla fine del medesimo secolo, mentre all’inizio del secolo successi-vo Francisco Suárez sostenne una posizione moderatamente volontarista37.

L’affinità di questi autori è invece molto più evidente quando si considera l’aspetto formale. Essi infatti si citano reciprocamente quando le circostanze cronologiche lo permettono. Domingo de Soto (1494-1560) nomina Francisco de Vitoria come suo amico e maestro38; Diego de Covarrubias y Leyva (1524?-1602) e Domingo Báñez (1527-1604) a loro volta ricordano esplicitamente Domingo de Soto39, e Francisco Suárez (1548-1617) menziona Diego de Covar-rubias e Domingo de Soto40, i quali, tra l’altro, assieme a Fernando Vázquez de Menchaca (1512-1569), entrano nel canone delle fonti teologiche e giuridiche di ambito europeo interconfessionale, tanto da essere frequentemente presenti nelle opere di Iohannes Althusius o di Hugo Grotius41. Quest’ultimo inoltre

37 Franco Todescan, Lex, natura, beatitudo. Il problema della legge nella scolastica spagnola

del secolo XVI, Padova, Cedam, 1973; Id., Il problema del diritto naturale fra Seconda Scolastica e giusnaturalismo laico secentesco. Una introduzione bibliografica, in Iustus ordo e ordine della natu-ra. Sacra doctrina e saperi politici fra XVI e XVIII secolo, a cura di Fausto Arici e Franco Todescan, Padova, Cedam, 2007, pp. 15-61; Id., «Nolite silere theologi in munere alieno». Il perché di una ricerca sulla Seconda Scolastica, in «Silete theologi in munere alieno.» Alberico Gentili e la Seconda Scolastica, a cura di Marta Ferronato e Lucia Bianchin, Padova, Cedam, 2011, pp. 185-217, qui pp. 203-208.

38 Domingo de Soto, Relección De dominio, a cura di Jaime Brufau Prats, Granada, Universidad de Granada, 1964, par. 36, pp. 162-164.

39 Domingo Báñez, El derecho y la justicia. Decisiones de iure et iustitia. Salamanca 1594, Venecia 1595, a cura di Juan Cruz Cruz, Pamplona, Ediciones Universidad de Navarra S.A., [2008], quaest. 57, art. 1, arg. 6, p. 42; art. 4, concl. 2, p. 80; Diego de Covarrubias y Leyva, Regulae Peccatum, De regulis iuris, Libro Sexto, relectio (1554), in Id., Opera omnia multo quam prius emendatiora ac multis in locis auctiora, in duos divisa tomos. Tomus primus, Venetiis, Apud haeredem Hieronymi Scoti, 1581, pp. 521-586, qui part. 1, par. 1, p. 524a; par. 5, p. 527b e 528a.

40 Francisco Suárez, De legibus I. De natura legis (1612), a cura di Luciano Pereña, Madrid, Consejo Superior de Investigaciones Científicas Instituto Francisco de Vitoria, 1971, lib. I, cap. 8, par. 4, p. 150; Prooemium, p. 7; lib. I, cap. 5, par. 1, p. 78; cap. 6, par. 20, p. 122; cap. 7, par. 1, p. 128.

41 Iohannes Althusius cita questi tre autori, tra gli altri casi, quando introduce la fi-gura degli efori e quando discute il diritto di resistenza. Cfr. Althusius, Politica methodice digesta, cit., cap. 18, parr. 18 e 20, pp. 282-283 e cap. 38, par. 9, p. 887: «Similiter, quando summus magistratus absoluta potestate seu plenitudine potestatis in administratione sua utitur et repagula atque vincula, quibus humana societas est obserata, revellit et perfrin-git.

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considerò nella stesura del suo De iure praedae commentarius del 1606 circa questi autori come una sorta di gruppo omogeneo che rappresentava omnium theologo-rum iurisque prudentum consensus e si propose di confutare le conclusioni degli av-versari con le loro stesse armi42.

A questo mutuo riconoscimento, che spesso avviene sul piano trasversale della contemporaneità, si può aggiungere anche l’asse longitudinale della succes-sione nel tempo, e utilizzando entrambe le coordinate è possibile sviluppare un criterio di giudizio specifico di queste situazioni. La tecnica biblioteconomica ha infatti elaborato uno strumento specifico per l’identificare in modo certo i libri antichi, soprattutto incunaboli e cinquecentine, nelle loro diverse edizioni, va-rianti e ristampe, che spesso sono indiscernibili se si considera il solo frontespi-zio. Questo accorgimento si chiama ‹impronta› o fingerprint e consiste in una stringa di caratteri riuniti in quattro gruppi, ciascuno dei quali è a sua volta for-mato da quattro lettere, simboli o numeri, rilevati nelle ultime due righe di quat-tro pagine prestabilite nella pubblicazione da classificare. A questi sedici caratte-ri segue un numero, che indica la carta o la pagina da cui è tratto il terzo gruppo di caratteri, e infine l’indicazione dell’anno di pubblicazione dell’opera. Il pre-supposto su cui si basa questo metodo è che un’unica stringa di sedici caratteri può essere identica in due esemplari solo se essi sono stati stampati con i mede-simi tipi, senza alcuna variazione, mentre cambiamenti anche minimi nella composizione, come aggiunte, tagli e sostituzioni, dovrebbero riflettersi imme-diatamente in un diverso ordine delle righe e dello specchio di stampa e do-vrebbero perciò generare impronte divergenti.

Possiamo costruire uno strumento analogo anche per gli autori della Scuola di Salamanca e ottenere così un’impronta delle loro fonti rilevando quali autori-tà risultino citate da ciascuno scrittore, in quale proporzione esse compaiano e in quale ordine siano disposte. Applicando questo semplice metodo statistico

42 Hugo Grotius, De iure praedae commentarius. Ex auctoris codice descripsit et vulgavit H. G.

Hamaker, Hagae Comitum, Apud Martinum Nijhoff, 1868, cap. 8, p. 84. Cfr anche ibi-dem, cap. 6, p. 63; cap. 15, p. 322. Cfr. Alfred Dufour, Les Magni Hispani dans l'œvre de Grotius, in Die Ordnung der Praxis. Neue Studien zur Spanischen Spätscholastik, a cura di Frank Grunert e Kurt Seelmann, Tübingen, Max Niemeyer Verlag, 2001, pp. 351-380; Franco Todescan, «Sequuntur Dogmatica De Iure Praedae.» Law and Theology in Grotius’s Use of Sources in De Iure Praedae, in Property, Piracy and Punishment. Hugo Grotius on War and Booty in De iure praedae - Concepts and Contexts, a cura di Hans Blom, Leiden and Boston, Brill, 2009, pp. 280-309, qui p. 283. Sulle fonti spagnole di Hugo Grotius cfr. Peter Haggen-macher, Grotius et la doctrine de la guerre juste, Paris, Presses Universitaires de France, 1983, pp. 274-275, 348-351 e 365-367.

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agli autori spagnoli del Cinquecento, si può chiaramente osservare che essi da un lato essi si citano l’un l’altro, trasversalmente, mentre dall’altro lato, nel sen-so longitudinale della storia, essi si riferiscono sempre alle stesse autorità e sem-pre nello stesso modo, ossia secondo una medesima distribuzione statistica. Se, per esempio, consideriamo gli scritti sulla guerra di Francisco de Vitoria, di Domingo de Soto, di Melchor Cano (1509-1560) e di Diego de Covarruvias, notiamo in primo luogo che si tratta di lectiones o di relectiones, di opere molto si-mili per codice stilistico, occasione della creazione, destinatari43. Inoltre questi tre autori mostrano la medesima impronta delle fonti44. L’autorità maggiormen-te citata è infatti in tutti i casi Tommaso d’Aquino, che con la sua Quaestio 40. De bello, compresa nella Prima Secundae della sua Summa theologiae, fornisce anche la base del commento. Seguono alcuni importanti passi presi dal Vecchio testa-mento, in modo particolare dal Deuteronomio, e quindi alcuni luoghi del Nuovo te-stamento. Al terzo posto per frequenza compaiono i libri del diritto canonico, con un’evidente prevalenza del Decreto sulle Decretali. Infine sono ricordati autori del sedicesimo secolo di orientamento irenico, quali Adrian Florisz, cioè papa Adriano VI (1459-1523, papa dal 1522), e Iohannes Driedo di Turnhout (1480?-1535). Tra gli autori del Cinquecento frequenti sono anche i compilatori di Summae o Summulae confessorum, come Silvestro Mazzolini da Prierio (Sylvester Prierias, 1456?-1523).

8. Schemi per l’interpretazione formale dei testi

Già con l’aiuto di questo primo esempio si intuisce facilmente che una co-munità di discorso ossia una comunità di citazione, cioè un gruppo di autori u-niti da un vincolo di solidarietà comunicativa, si caratterizza non solamente per il riconoscimento reciproco, nel senso orizzontale e trasversale del tempo, o per il riferimento a un canone costitutivo comune, nel senso verticale e longitudina-le della storia, ma anche per alcune rilevanti circostanze del comportamento condivise da tutti i suoi esponenti. Ma come possiamo classificare e schematiz-zare gli ambiti e le categorie nelle quali si manifestano queste affinità?

43 Francisco de Vitoria, Relectio de iure belli, in Id., Relectio de iure belli o paz dinámica, cit.,

pp. 95-207; Id., Quaestio de bello, ibidem, pp. 209-261; Domingo de Soto, Quaestio 40 de bello, ibidem, pp. 299-321; Melchor Cano, Quaestio 40 De bello, ibidem, pp. 323-342; Diego de Covarrubias, De iustitia belli adversus Indos, ibidem, pp. 343-363.

44 Scattola, Konflikt und Erfahrung. Über den Kriegsgedanken im Horizont frühneuzeitlichen Wissens, pp. 18-21; Id., Krieg des Wissens-Wissen des Krieges, pp. 43-50.

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Poiché si tratta di funzioni linguistiche, potremmo usare strumenti tratti dal-la teoria generale del linguaggio e dalla semiotica contemporanee, ma possiamo anche rammentare che già la retorica antica elaborò schemi utili per la classifi-cazione delle componenti di un discorso o per descrivere la situazione nella quale esso si produce. Avendo quest’agio, è certamente preferibile guardare all’età protomoderna con i suoi stessi occhi e usare gli stessi strumenti di cui es-sa disponeva.

Giacomo Aconcio (1492?/1520?-1566?) ricordò nel suo De Methodo, hoc est de recta investigandarum tradendarumque scientiarum ratione (1558)45 uno schema dell’argomentazione che risaliva a Quintiliano (34?-96) e, attraverso di lui, alla retorica ellenistica di Ermagora di Temno (I sec. a. C.) e alla sua dottrina delle sette circostanze (chi, che cosa, dove, quando, perché, in che modo, con che mezzi)46. Lo schema di Giacomo Aconcio e di Quintiliano prevedeva cinque elementi. «Primum itaque considerandum est et quis et in qua causa et apud quem et in quem et quid dicat» 47.

45 Giacomo Aconcio, De methodo, hoc est de recta investigandarum tradendarumque scientia-

rum ratione, Basileae, Per Petrum Pernam, 1558, p. 26: «Primum (Quintilianus inquit) considerandum est et quis, in qua causa, et apud quem, et in quem, et quid dicat. Haec omnia in qua causa et apud quem et quid dicat, non alio pertinere arbitrabamur quam ad orationis materiam et subiectum.» Cfr. Id., De methodo e opuscoli religiosi e filosofici, a cura di Giorgio Radetti, Firenze,Vallecchi, 1944; Paolo Rossi, Giacomo Aconcio, Milano, Fra-

telli Bocca, 1952; Charles Donald OʼMalley, Jacopo Aconcio, trad. it. di Delio Cantimori, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1955; Jacopo Aconcio: il pensiero scientifico e l’idea di tolleranza, a cura di Paola Giacomoni e Luigi Dappiano, Trento, Editrice Università degli Studi di Trento, 2005.

46 Marcus Tullius Cicero, De inventione (1949), a cura di H. M. Hubbell, Cambridge Massachusetts, Harvard University Press, 1976, lib. I, cap. 6, pp. 16-18; Franz Susemihl, Geschichte der Griechischen Litteratur in der Alexandrinerzeit. Zweiter Band, Leipzig, Druck und Verlag von B. G. Teubner, 1892, pp. 471-477; Georg Thiele, Hermagoras. Ein Beitrag zur Geschichte der Rhetorik, Straßburg, Verlag von Karl J. Trübner, 1893, pp. 37-43 (dottrina delle circumstantiae); Ludwig Radermacher, Hermagoras 5-8, in Paulys Realencyclopädie der classischen Altertumswissenschaft. Neue Bearbeitung, a cura di Georg Wissowa, Stuttgart, J. B. Metzlersche Buchhandlung, 1912, Hbd. 15, coll. 692-696, qui num. 5, pp. 692-695; Ar-mando Plebe, Breve storia della retorica antica, Milano, Nuova Accademia editrice, 1961, pp. 109-114.

47 Marcus Fabius Quintilianus, [Institutio oratoria] The Orator’s Education. Book 6-8, a cura di Donald A. Russell, Cambridge Massachusetts, Harvard University Press, 2001, lib. VI, cap. 3, par. 28, p. 76; cfr. lib. III, cap. 11, par. 1, pp. 156-168. Cfr. anche lo schema in tre parti di Aristoteles, [Rhetorica]. The ‹Art› of Rhetoric, a cura di John Henry

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Possiamo eliminare da questa lista la circostanza Quid perché ci interessano qui solamente gli aspetti formali. In qua causa e In quem si possono poi ritenere come due aspetti diversi della stessa situazione, come il fine difensivo oppure offensivo di uno stesso discorso, che talvolta si escludono reciprocamente, tal-volta sono complementari. Restano dunque tre sole grandi parti del discorso: «Chi dice, dove e a qual fine».

9. Le ‹comunità di discorso› europee

Se ora consideriamo il discorso politico europeo, ossia l’insieme di scambi comunicativi letterariamente formalizzati, che tradizionalmente includiamo nei molteplici livelli della storia delle dottrine politiche e della filosofia politica, sia i ‹maggiori›, sia i ‹minori›, sia i ‹minimi›, se nel complesso di questa lunga vicenda isoliamo un singolo periodo, che nel nostro caso potrebbe opportunamente es-sere l’epoca moderna e particolarmente l’intervallo che include i secoli sedice-simo e diciassettesimo, e se infine a questo campione applichiamo i tre criteri appena definiti, cioè il ‹Chi?›, il ‹Dove?› e il ‹A favore di chi/Contro chi?›, il ri-sultato che otteniamo non è omogeneo né nello spazio né nel tempo. Gli autori politici europei della età moderna non si assomigliano infatti tutti indistinta-mente, non operano tutti nei medesimi luoghi e non si rivolgono agli stessi in-terlocutori. La distribuzione delle loro caratteristiche non è tuttavia casuale, ma disegna alcuni profili in sé omogenei e ben definiti, e distribuiti con una certa regolarità sulla carta geografica dell’Europa moderna. Essi formano in tal modo alcuni, pochi, raggruppamenti che vagamente coincidono con le grandi lingue europee o con le nazioni maggiori, intendendo questo termine in un significato assai lato.

Possiamo chiamare questi raggruppamenti come ‹comunità di discorso› in senso proprio perché effettivamente essi sono caratterizzati dalla presenza di una pratica comune di ragionamento, da uno stile unitario di argomentazione o di discussione. La presenza di questo legame comune attraverso il discorso può essere rilevata in tre modi. In primo luogo i membri di ciascuna di queste co-munità sono, diremmo oggi, figure omogenee, ossia appartengono allo stesso ceto o al medesimo segmento cetuale. In secondo luogo essi si riconoscono re-ciprocamente come interlocutori del medesimo discorso, mentre escludono gli

Freese, Cambridge Massachusetts, Harvard University Press, 1926, lib. I, cap. 3, par. 1, p. 32.

Per una epistemologia delle dottrine politiche europee 91

estranei dalla loro cerchia, e ciò in modi sia espliciti sia impliciti. Per questo mo-tivo le ‹comunità di discorso politico› possono essere facilmente considerate an-che come ‹comunità di citazione›. In terzo luogo ciascuno di questi gruppi uti-lizza un ben definito codice linguistico o letterario, caratterizzato da una rigoro-sa combinazione di forme e di contenuti48.

Per chiarire le definizioni ora presentate forniamo due rapidi esempi. Il di-scorso politico a noi più vicino nella prima età moderna è certamente, accanto al filone scolastico rappresentato da teologi cattolici come Roberto Bellarmino (1542-1621), quel nutrito gruppo di autori italiani che si interessarono tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento dei problemi della deroga e di dottrine quali la ratio status, gli arcana imperii, la potentia rerum publicarum e che spesso tras-sero le loro considerazioni che su questi temi leggendo autori antichi come Ta-cito (56-117) e Seneca (4-65). Effettivamente la letteratura sulla ragion di stato fu ufficialmente fondata in Italia da Giovanni Botero (1544-1617) e conobbe nel nostro paese una grande diffusione con trattati sia in volgare sia in latino, composti da Giovan Francesco Lottini (1512-1572), Giovan Battista Pigna (1530?-1575), Scipione Ammirato (1531-1601), Ludovico Settala (1552-1633), Ciro Spontone (1554?-1610), Federico Bonaventura (1555-1602), Girolamo Frachetta (1558-1619), Gabriele Zinano (1557?-1635?), Giovanni Antonio Pa-lazzo (1560?-1620?), Scipione Chiaramonti (1565-1652), Ludovico Zuccolo (1568-1630), Pietro Andrea Cannoniero (1575?-1639), Virgilio Malvezzi (1595-1653)49. Traiano Boccalini (1556-1613), Gasparo Scioppio (Kaspar Schoppe, 1576-1649) e Tommaso Campanella (1568-1639) non furono estranei a questa tradizione.

D’altronde anche i contemporanei intuivano che gli scrittori italiani erano accomunati da interessi ben precisi e li riconoscevano come cultori di queste dottrine che spargevano attorno a sé un certo alone inquietante. Non infre-quentemente perciò nelle polemiche confessionali attizzate dalle guerre di reli-

48 Scattola, La storia dei saperi politici nell’Europa moderna, cit., pp. 199-206. 49 Su questa letteratura cfr. Gianfranco Borrelli, Ragion di stato e Leviatano. Conserva-

zione e scambio alle origini della modernità politica, Bologna, Il Mulino, 1993, pp. 63-222; Horst Dreitzel, Die "Staatsräson" und die Krise des politischen Aristotelismus. Zur Entwicklung der politischen Philosophie in Deutschland im 17. Jahrhundert, in Aristotelismo politico e ragion di stato, a cura di Artemio Enzo Baldini, Firenze, Leo S. Olschki editore, 1995, pp. 129-156; Vittor Ivo Comparato, Il pensiero politico della Controriforma e la ragion di Stato, in Il pen-siero politico dell'età moderna, a cura di Alberto Andreatta e Artemio Enzo Baldini, Torino, Utet, 1999, pp. 127-168. Cfr. anche Tommaso Bozza, Scrittori politici italiani dal 1550 al 1650. Saggio di bibliografia, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1949.

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gione nel regno di Francia i difensori della parte ugonotta o i loro sostenitori riformati accusavano gli ‹italiani› di essere consiglieri di male arti50.

Se finora il ‹Che cosa?›, l’argomento degli autori italiani, è risultato assai compatto, non meno omogenei sono i tre criteri formali che definiscono la co-munità di discorso italiana. Se consideriamo in primo luogo il ‹Chi?›, si può age-volmente osservare che tutti gli esponenti di questa letteratura impersonavano varianti che oggi chiameremmo del ‹funzionario› di corte o di cancelleria: erano infatti segretari, consulenti, consiglieri segreti, ambasciatori, addirittura spie. Niccolò Machiavelli, riconosciuto come il capostipite di questo discorso, è in-fatti il Segretario per antonomasia, e tutti questi autori si riconoscevano come parti di un medesimo discorso, di una élite riservata che aveva la sua rappresen-tazione finzionale nelle conversazioni del Parnaso di Traiano Boccalini.

Per la loro comunicazione questi scrittori elaborarono un proprio genere let-terario che già da Niccolò Machiavelli fu fissato nella forma dei ‹discorsi› e che ebbe molte realizzazioni nei secoli sedicesimo e diciassettesimo, pubblicate o manoscritte, anche come discursus latini, un genere con il quale si intendeva un ragionamento stilisticamente abbastanza sciolto, spesso organizzato nella forma di un commento libero a un’autorità storica, a Tito Livio o a Tacito, ma non vincolato alle consuetudini dotte della filologia intra- o intertestuale51. Ideal-

50 [Innocent Gentillet], Discours, sur les moyens de bien gouverner et maintenir en bonne paix

vn Royaume ou autre Principauté. Divisez en trois parties: asauoir, du Conseil, de la Religion et Police que doit tenir un Prince. Contre Nicolas Machiavel Florentin, [Genève], [Stoer], 1576, Preface, p. 14: «Mais dont procede ceste impudence à Machiavel de taxer et blasmer les François de desloyauté et perfidie? veu que luy-mesme enseigne, que le Prince ne doit tenir la foy qu’à son profit, et que l’observation de la foy est pernicieuse. Ie ne veux pas nier que de ce temps ci plusieurs François Italianisez ne soyent perfides et desloyaux, ayans apris de l’estre par la doctrine de Machiavel; mais ie nie bien que du temps de Machiavel, asavoir du regne des Rois Charles VIII, Louys XII et François premier, ny auparavant, ny de long temps apres, la nation Françoise ait esté contaminee de ce vice. Comme encores il y a plusieurs bons et naturels François (grace à Dieu) qui detestent la perfidie et de-sloyauté, et ne sont point aderans aux exploits d’icelle qui font en France les Italiens et Italianisez»; [Pietro Perna], Typographus candido lectori s. d., in Niccolò Machiavelli Nicolai Machiavelli Princeps. Ex Sylvestri Telii Fulginatis traductione diligenter emendata. Adiecta sunt eius-dem argumenti aliorum quorundam contra Machiavellum scripta, de potestate et officio Principum, et contra Tyrannos, Basileae, [Perna], 1580, fo. a2r-6v, qui fo. a4r.

51 Cornel A. Zwierlein, Discorso und Lex Dei. Die Entstehung neuer Denkrahmen im 16. Jahrhundert und die Wahrnehmung der französischen Religionskriege in Italien und Deutschland, Göttingen, Vandenhoeck und Ruprecht, 2006.

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mente un tale genere di scritture, pur entro le convenzioni della finzione lettera-ria, presupponeva una comunità ristretta di privati, di amici, che si scambiavano opinioni inter parietes domesticos52 con un forte senso di complicità. I trattati sulla ragion di stato, sia in Italia sia all’estero, adottarono generalmente questo codice dei discursus, il quale, accanto al riconoscimento esplicito attraverso la citazioni trasversale o longitudinale, permetteva anche un’altra e più sottile forma del consentire, proprio di una comunità di custodi di un comune segreto che co-municano in pubblico con un linguaggio cifrato accessibile solo agli iniziati.

In questo modo sono definiti anche il ‹Dove?› e il ‹Per chi?›. Il luogo nei quali opera e comunica questa comunità è evidentemente la corte o, meglio, so-no i suoi spazi di servizio, non quelli di rappresentazione, e nella sua comunica-zione essa include tutti coloro, che pur essendo attivi in luoghi diversi, sono in grado di decodificare la lingua, in parte segreta, di questa comunità di elezione.

Se solo per confronto consideriamo la situazione della penisola iberica, rile-viamo che lì, sebbene siano presenti anche profili simili a quelli italiani, il di-scorso politico è dominato nella seconda metà del Cinquecento da figure intel-lettuali del tutto differenti. I grandi esponenti della Scuola di Salamanca, come Francisco de Vitoria, Domingo de Soto, Melchor Cano, Martín de Azpilcueta (1491-1586), fino a Francisco Suárez, sono teologi e canonisti che operano con-temporaneamente nelle università del regno e a corte come consiglieri del re nelle vesti di suoi confessori. I luoghi e simboli della loro autorità sono la catte-dra, in primo luogo quella di teologia, e il confessionale. Il genere letterario che essi praticano è il commento alla Summa theologiae di Tommaso d’Aquino, dal quale presto si autonomizzò la parte De iustitia et iure fino a definire uno tipo di trattato teologico-giuridico destinato a essere il prodotto caratteristico della co-munità di discorso spagnola53.

52 Jakob Bornitz, Discursus politicus de prudentia politica comparanda, a cura di Ioannes

Bornitius, Erphordiae, Sumptibus Heinrici Birnstilii, 1602, Amice Lector, fo. A6r: «Subsiste paulisper, non te diu morabor; quae praemonenda visa, praefabor. De mediis prudentiae civilis consequendae discursum habes, sed discursum tantum, amicis olim intra privatos parietes propositum, nunc iisdem aliisque bonis viris urgentibus publicatum. Hoc enim te cumprimis monitum vult author, ne forte quid amplius tibi promittas aut in lectione desideres. Vestigia quaedam sunt et adytus, qui ad adyta prudentiae civilis ducere visi, non ipsa prudentia.»

53 Merio Scattola, Domingo de Soto e la fondazione della Scuola di Salamanca, in «Veritas. Revista de filosofia», 54, 2009, pp. 52-70.

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10. La relazione tra le forme e i contenuti politici

Possiamo dunque definire le comunità di discorso politico identificando il profilo culturale degli interlocutori che formavano ciascuna di esse, il luogo in cui tali figure operavano e il codice linguistico e letterario che essi utilizzavano in modo esclusivo. A questo proposito si possono avanzare tre osservazioni, che vengono ora anticipate sinteticamente e saranno esplicate con alcuni esempi nei successivi tre paragrafi. Si può infatti osservare che il rapporto tra i contenu-ti e le forme del discorso politico, tra ciò che si dice e il modo in cui lo si dice, tra le idee o ideologie propugnate e lo stile scelto per la comunicazione possiede una sua necessità. In secondo luogo si può precisare questa prima constatazione e verificare che il nesso di implicazione agisce in entrambe le direzioni. È cer-tamente vero che certi temi esigono un loro proprio stile, ma si danno anche casi nei quali la preferenza per determinate forme influenza la scelta dei conte-nuti. In terzo luogo le comunità di discorso si riconoscono certamente come cerchie chiuse, ma allo stesso tempo possono intrattenere vari tipi di scambi, i quali sono necessariamente filtrati dai codici attivi in ciascuna tradizione.

Non è difficile confermare anche empiricamente la prima osservazione, cioè la constatazione che il rapporto tra forme letterarie e contenuto di dottrina, sempre implicato dalla presenza di un codice stilistico, non è ingenuo, ma è go-vernato da una sua necessità interna. Non può essere effetto del caso o della contingenza storica se un certo contenuto viene espresso in una determinata forma, ovvero, detto altrimenti, non tutte le argomentazioni politiche possono legarsi indifferentemente a tutte le forme. Abbiamo infatti già osservato che i discursus furono utilizzati solo o prevalentemente per le dottrine della deroga oppure che il Tractatus de iustitia et iure era dedicato a materiali della teologia sco-lastica e del diritto canonico. Allo stesso modo anche la comunità di discorso politico operante nei territori del Sacro Romano Impero utilizzava soprattutto i generi della comunicazione scientifica universitaria: la disputatio, il collegium, il systema54. Nel caso dei discursus e del Tractatus de iustitia et iure abbiamo inoltre constatato come questi due generi letterari fossero stati appositamente creati per i materiali che dovevano esseri discussi nelle rispettive comunità di apparte-nenza e che la vicenda o evoluzione storica di questi modelli di scrittura dipese strettamente dalla diffusione, dal successo o dall’insuccesso dei contenuti che essi diffondevano.

54 Id., Dalla virtù alla scienza, cit., pp. 21-32.

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11. Anche le forme possono determinare i contenuti

Assodato che tra forme e contenuti esiste un nesso necessario, possiamo in secondo luogo constatare che tale rapporto non è sempre unilaterale o unidire-zionale giacché in alcuni casi esso si muove in entrambe le direzioni. Potremmo infatti a prima vista pensare che, dati determinati temi, essi implichino soluzioni stilistiche specifiche e che siano solo gli uni a selezionare le altre. In tal senso la ragion di stato, che è una dottrina scabrosa e sfuggente, poteva effettivamente essere trattata in modo opportuno solamente con un genere plastico, quasi ela-stico, quale era quello dei discursus. Ma talvolta notiamo anche che sono le for-me a condizionare i contenuti, in modo tale che, una volta eletto un particolare genere letterario, l’autore è costretto a toccare alcuni temi prestabiliti, per cia-scuno dei quali sono date poche posizioni alternative. Un caso significativo po-trà chiarire questa situazione.

Se prendiamo come esempio il discorso politico tedesco, possiamo notare che nel secolo diciassettesimo esso si svolse prevalentemente nelle università, nelle quali a partire dai primi del Seicento si diffusero le cattedre di politica e nelle quali fu elaborato uno specifico curriculum su base filosofica per la for-mazione del personale di corte e di governo. Questo progetto, che dominò la prima metà del secolo ed ebbe i massimi riconoscimenti nei suoi primi due de-cenni, può essere chiamato anche ‹aristotelismo politico› e come tale in effetti è stato definito dalla storiografia55. Questa politica dotta e accademica fissò molto presto le consuetudini letterarie che governavano la sua elaborazione e la sua trasmissione e che si cristallizzarono in un sistema molto articolato e chiara-mente definito di generi letterari. Possiamo ricostruire con grande precisione tutti i dettagli di questi modelli letterari perché essi sono stati descritti nelle bi-bliografie politiche del periodo, in schemi ed elenchi espliciti che accompagna-vano le pubblicazioni e in un genere letterario particolare, la Disputatio de natura politices, che si può chiamare anche ‹epistemologico› perché era deputato a chia-rire preliminarmente le caratteristiche della disciplina politica in quanto forma di sapere e rispondeva a domande quali: «Che tipo di conoscenza è la politica?»

55 Horst Dreitzel, Protestantischer Aristotelismus und absoluter Staat. Die Politica des Hen-

ning Arnisaeus (ca. 1575-1636), Wiesbaden, Franz Steiner Verlag, 1970; Id., Der Aristote-lismus in der politischen Philosophie Deutschlands im 17. Jahrhundert", in Eckhard Keßler, Char-les H. Lohr e Walter Sparn (cur.), Aristotelismus und Renaissance. In memoriam Charles B. Schmitt, Wiesbaden, Otto Harrassowitz, 1988, pp. 163-192; Artemio Enzo Baldini, Pre-messa, in Aristotelismo politico e ragion di stato, cit., pp. 5-10.

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«Si può apprendere e come?», «Quali sono le sue parti?» e così via56. Sulla scorta di questi materiali è possibile ricostruire fin nei minimi dettagli il sistema dei ge-neri letterari della politica tedesca, accademica e non solo, il quale si presenta in conclusione come lo schema articolato e complesso, ma completo dei luoghi comuni che organizzavano tutti i possibili argomenti di questo insegnamento57.

Secondo tale topica una descrizione completa della disciplina politica, talvol-ta chiamata anche systema, doveva essere divisa in un numero finito di parti, spesso dieci o dodici; ciascuna di queste doveva affrontare un tema fondamen-tale della materia e andava ordinata secondo una sequenza fissa. Per esempio, il primo argomento della esposizione disciplinare doveva essere la già citata di-sputazione epistemologica De natura politices, alla quale doveva seguire la defini-zione della materia, identificata necessariamente nelle famiglie e in generale nel-la sfera economica, mentre in terzo luogo doveva comparire la discussione della forma o essenza della comunità politica, ovvero della res publica, la quale richie-deva che preliminarmente si introducesse la distinzione tra civitas e res publica e si chiarisse la nozione di civis. Ciascuno di questi grandi argomenti doveva poi es-sere suddiviso al suo interno in una serie di questioni particolari, anch’esse or-dinate in una distribuzione rigorosamente prefissata. Johann Gerhard (1582-1637), che sarebbe diventato un decennio più tardi il massimo esponente dell’ortodossia luterana, Heinrich Velsten (1580?-1611), Christoph Besold (1577-1638), Christian Liebenthal (1586-1647) hanno fatto precedere alle loro raccolte di disputazioni politiche elenchi dettagliati delle domande attinenti a ciascuna di esse58. Heinrich Velsten, per esempio, prescrive che la seconda di-sputazione della sua Decade debba discutere tradizionalmente la società coniuga-le e debba rispondere ai seguenti dieci interrogativi.

1. Che cosa sia la famiglia e di quante persone abbia bisogno? 2. In quali gruppi

furono raccolti o avrebbero dovuto essere raccolti i primi uomini, quali furono i lo-

ro inizi e il fondamento e i progressi? 3. Che cosa sia la società coniugale e di quali

persone abbia bisogno? 4. Quale sia la causa efficiente del coniugio? 5. Se il consen-

so dei genitori o di chi fa le loro veci sia [fo. A4v] non solo opportuno, ma anche

56 Scattola, Kaspar Schoppe und die Entwicklung der politischen propädeutischen Gattungen,

pp. 177-200. 57 Id., Repertorio sistematico, in Id., L’ordine del sapere. La bibliografia politica tedesca del Sei-

cento, numero monografico di «Archivio della Ragion di Stato», 10-11, 2002-2003, pp. 337-439.

58 Id., Appendice B. Schemi topologici della disciplina politica, in Id., L’ordine del sapere, cit. pp. 449-467.

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necessario per un coniugio legittimo? 6. Quale sia la materia del coniugio? 7. Se

dunque la poligamia debba essere condannata senza condizioni e che cosa si debba

pensare della poligamia dei patriarchi? 8. Quale sia la forma del vincolo coniugale?

9. Per quali cause oggi, al tempo del Nuovo Testamento, i coniugi possano divorzia-

re in modo giusto e legittimo? 10. Quale sia il fine del coniugio?59

Ciascuna di queste domande ammette due o più risposte, alternative o com-plementari, articolabili per mezzo della distinzione dialettica. Per esempio sem-bra sensato rispondere che la famiglia richiede il coniugio di due persone, ma è anche vero che una famiglia rimane tale anche quando viene a mancare uno dei due coniugi purché resti intatto il legame giuridico e si conti anche la prole.

Ognuna delle domande indicate nello schema della disputazione funge da centro di aggregazione per differenti ragionamenti o argomentazioni e vale di conseguenza come un luogo dell’invenzione, una sede ideale alla quale possia-mo rivolgerci quando dobbiamo identificare quali argomenti siano possibili, quali siano disponibili e quali siano stati elaborati e trasmessi a noi dalla tradi-zione. In tal senso ciascuna delle domande elencate negli schemi introduttivi rappresenta in realtà un locus communis della dialettica e l’insieme complessivo di tutti gli interrogativi disegna la topologia dell’intera disciplina della politica, la carta geografica nella quale trovano collocazione tutte le nozioni prodotte da questo sapere. Ovviamente il concetto di locus communis utilizzato in questo caso ha subito una particolare evoluzione rispetto alla dottrina classica dei Topica di

59 Henricus Velstenius, Centuria quaestionum politicarum de natura et constitutione politices,

de societate coniugali, paterna et herili, de societatibus ortis, domo, pago, civitate et c., de ipsa republica eiusque forma, legibus, iuramentis, de speciebus reipublicae, maiestate et magistratu, consiliariis, legatis et principum administris et c., quae [...] praeside et autore magistro Henrico Velstenio [...] in inclyta academia Witebergensi discussae et ventilatae, Witebergae, Excudebat Iohannes Schmidt, 1610, Index quaestionum, fo. A4r-B2v, qui fo. A4r-v: «1. Quid sit familia et quot perso-nae ad eam requirantur? 2. Quinam primi hominum coetus colligendi aut collecti fue-rint, initia et fundamentum et quaenam progressiones? 3. Quid sit societas coniugalis et quaenam ad eam referantur? 4. Quae sit causa efficiens coniugii? 5. An consensus pa-rentum aut eorum, qui loco parentum sunt, sit [fo. A4v] non modo de honestate, sed etiam de necessitate legitimi coniugii? 6. Quaenam sit materia coniugii? 7. An ergo pol-ygamia simpliciter non sit ferenda et quid de polygamia patrum habendum sit? 8. Quae-nam sit forma vinculi coniugalis? 9. Ob quas causas hodieque in Novo Testamento in-ter coniuges iuste et legitime divortium fieri possit? 10. Quis sit finis coniugii?»

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Aristotele, di Cicerone (106-43) o di Boezio (475?-524)60, che prevedeva un numero assai limitato di luoghi, tanto generali da fungere da categorie del di-scorso. Evidentemente nella dialettica del sedicesimo secolo la nozione di luogo comune tendeva a coincidere con quella di argomento o, meglio, di rubrica o capitolo degli argomenti così che l’insieme dei luoghi comuni concepiti in tal modo, la topica, coincideva con la distribuzione dei contenuti in una disciplina, con la dispositio disciplinae61 ovvero con l’ordine delle sedes materiarum.

Si può facilmente verificare che tutte le disputazioni politiche dedicate al tema del matrimonio seguono lo schema di Velsten o modelli simili e che esse articolano con un ordine diverso lo stesso limitato numero di domande. Se schemi di tal natura sono nella loro sostanza topologie e se essi valgono per tut-te le parti e per tutti gli argomenti della disciplina politica universitaria, quest’ultima apparirà, se la consideriamo nel suo complesso e, per così dire, vi-sta da una certa distanza, come un grande e articolato sistema di luoghi comuni ordinati.

Con questa consapevolezza possiamo ora tornare alla nostra domanda sul modo in cui le forme possono influenzare i contenuti, i generi letterari le prese di posizione ideologiche. È ora evidente che ogni scrittore politico si trovasse a operare con gli strumenti che abbiamo appena descritto, se sceglieva di com-porre una disputazione o un trattato – e a ciò era costretto dalla sua posizione accademica di professore o di studente – prima ancora di prendere in mano la penna, sapeva esattamente a quante e a quali domande doveva rispondere e quali argomenti aveva a disposizione per ciascun compito. Naturalmente poteva scegliere tra soluzioni alternative o complementari, e perciò la sua prestazione era combinatoria e compositiva. Ciascuno di quelli che finora abbiamo chiama-

60 Anicius Manlius Severinus Boethius, De differentiis topicis libri quatuor, in Patrologiae

cursus completus. Series Latina, a cura di Jacques-Paul Migne, Lutetiae Parisiorum, 1847, to. 64, coll. 1173-1216.

61 Bartholomaeus Keckermann, Manuductio ad studium philosophiae practicae atque adeo inprimis ad studium politicum et historicum [= Apparatus practicus, sive idea methodica et plena to-tius philosophiae practicae, nempe ethicae, oeconomicae et politicae] (1609), in id., Operum omnium, quae exstant, tomus secundus, in quo speciatim methodice et uberrime de ethica, oeconomica, politica disciplina nec non de arte rhetorica agitur (1613), a cura Johann Heinrich Alsted, Genevae, Apud Petrum Aubertum, 1614, coll. 7-248, qui cap. 2: De locis communibus regulae quaedam tam generales quam speciales, pertinentes ad volumina locorum communium practicorum, coll. 8-12. Cfr. Merio Scattola, L’utopia delle passioni. Ordine della società e con-trollo degli affetti nell’Isola di Felsenburg (1731-1745) di Johann Gottfried Schnabel, Padova, Unipress, 2002, pp. 48-59.

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to ‹generi letterari› coincide dunque con una parte del sistema topologico di una disciplina e di conseguenza non può essere pensato come un semplice insieme di prescrizioni stilistiche perché esso allo stesso tempo contiene e gestisce un nucleo di contenuti.

Questo quadro generale, che potremmo chiamare anche ‹topica politica›, de-scrive le possibilità di argomentazione lasciate alla scelta dell’autore e, fungendo come un paradigma, definisce tutti i valori alternativi che possono occupare una singola posizione sintagmatica e che, in tal modo, costruiscono e limitano il mondo praticato dalla lingua. All’interno di questo universo strutturato, che rappresenta il livello più generale della lingua politica, esistono anche altri livelli inferiori che limitano ulteriormente la scelta dell’autore, ulteriori procedimenti di formalizzazione che segnalano una prevalenza della forma sul contenuto.

Già ciascuna cerchia di discorso, elaborando e utilizzando specifici codici e sistemi letterari, seleziona e riduce drasticamente le possibilità a disposizione dei suoi interlocutori; all’interno di ciascuna cerchia, e quindi su un piano logica-mente e cronologicamente successivo, si formano ulteriori grammatiche e para-digmi settoriali che introducono limitazioni aggiuntive e strutturano il discorso politico in modo ancora più rigido. Un altro esempio sarà utile a comprendere questi fenomeni.

All’interno della tradizione italiana della ragion di stato o in stretta relazione con essa prese vita nella seconda parte del secolo sedicesimo un intenso dibatti-to sulle dottrine di Machiavelli, che conobbero alcuni estimatori, ma per una porzione statisticamente preponderante furono combattute con reazioni di net-to rifiuto o di critica severa62. La condanna morale di Machiavelli si costituì ben presto in un vero e proprio paradigma antimachiavellico, una serie fissa di ag-gettivi, di formule, di verbi (pseudopoliticus, versipellis, Machiavellismus, Machiavellista-e, Machiavellicus, Machiavellizatio, Achitophel, Achitophelismus, vulpeculae …), di colle-gamenti concettuali che erano assunti dagli interlocutori in modo irriflesso, qua-

62 Rodolfo De Mattei, Dal premachiavellismo all’antimachiavellismo, Firenze, G. C. San-

soni, 1969, pp. 239-245; Giuliano Procacci, Machiavelli nella cultura europea dell’età moderna, Roma-Bari, Giustino Laterza e figli, 1995, pp. 83-121. Cfr. soprattutto Antonio Posse-vino, Iudicium de Nuae militis Galli scriptis, quae ille Discursus politicos et militare inscripsit. De Ioannis Bodini Methodo historiae, libris De republica et Daemonomania. De Philippi Mornei libro De perfectione Christiana. De Nicolao Machiavello, Romae, Ex typographia Vaticana, (Apud Dominicum Basam), 1592; Tommaso Bozio, De imperio virtutis sive imperia pendere a veris virtutibus non a simulatis libri duo. Adversus Macchiavellum, Romae, Ex typographia Bartho-lomaei Bonfadini, 1593; Id., De robore bellico diuturnis et amplis catholicorum regnis liber unus. Adversus Macchiavellum, Romae, Ex typographia Bartholomaei Bonfadini, 1593.

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si inconsapevole, spesso senza alcuna conoscenza diretta dell’opera di Machia-velli. Antonio Possevino (1533-1611)che formulò il suo giudizio contro il Prin-cipe, non su Machiavelli, ma sull’Antimachiavelli (1576) di Innocent Gentillet (1535-1588)63.

Di questo fenomeno, di questa autonomizzazione della lingua, si resero pre-sto conto anche i contemporanei e infatti già Pietro Perna (1519-1582), l’editore del Principe latino di Basilea, e Johann Niklaus Stupanus ovvero Giovanni Nic-colò Stopani (1542-1625), il traduttore latino dei Discorsi, lamentarono il for-marsi di uno spesso strato di linguaggio antimachiavellico che già alla fine del secolo sedicesimo aveva compromesso seriamente la comprensione dell’opera di Machiavelli64. Hermann Conring (1606-1681) ripeté le medesime considera-zioni verso la metà del secolo successivo e notò come il Principe fosse criticato anche nel dettaglio senza essere letto perché si era formato un repertorio di giudizi standardizzati e presso che universalmente utilizzati65. Quasi un secolo dopo Johann Friedrich Christ (1701-1756)compose il miglior studio su Machia-velli di tutto il secolo diciottesimo66, i De Nicolao Machiavello libri tres, partendo dall’assunto che l’intera tradizione machiavellica e antimachiavellica andasse sottoposta a un severo giudizio filologico e critico per separare la dottrina di Machiavelli dal castello linguistico che si era formato su di essa e che viveva ormai di esistenza autonoma. Le intenzioni dell’autore e il significato della sua

63 Possevino, Iudicium de Nuae militis Galli scriptis […]. De Nicolao Machiavello, cit., Cau-

tio de iis, quae scripsit tum Machiavellus tum is, qui adversus eum scripsit Antimachia-vellum, cui nomen haud adscripsit, pp. 157-166, qui pp. 157-162.

64 [Pietro Perna], Typographus candido lectori s. d., in Niccolò Machiavelli, Nicolai Ma-chiavelli Princeps. Ex Sylvestri Telii Fulginatis traductione diligenter emendata. Adiecta sunt eiusdem argumenti aliorum quorundam contra Machiavellum scripta, de potestate et officio Principum, et contra Tyrannos, Basileae, [Pietro Perna], 1580, fo. a2r-6v; [Johann Niklaus Stupanus], Interpres humano lectori s., in Niccolò Machiavelli, Disputationum de republica, quas Discursus nuncupa-vit, libri tres, trad. lat. di Johann Niklaus Stupanus, Mompelgarti, Folietus, 1588, fo. ¶2r-3v.

65 Hermann Conring, Viro generoso Gebhardo ab Alvensleven, in Niccolò Machiavelli, Princeps cum animadversionibus Hermanni Conringii (1660), in Hermann Conring, Operum to-mus II. [...], continens varia scripta ad historiam prudentiam civilem, et ius publicum imperii Romano-Germanici spectantia, a cura di Iohannes Wilhelmus Goebelius, Brunsvigae, Sumtibus Fri-derici Wilhelmi Meyeri, 1730, pp. 973-980, qui pp. 974-975.

66 Procacci, Machiavelli nella cultura europea dell’età moderna, cit., pp. 282-286.

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opera sarebbero stati accessibili solo dopo avere separato del tutto Machiavelli sia dal machiavellismo sia dall’antimachiavellismo67.

12. Gli scambi tra le comunità di discorso

A proposito delle comunità di discorso e dei sistemi dei generi letterari resta una terza e ultima osservazione da avanzare. Finora abbiamo considerato le comunità di citazione come gruppi trasversalmente e longitudinalmente chiusi, come tradizioni che insistono su se stesse e che si evolvono per cause interne e con dinamiche autonome, se non addirittura autoctone.

Se volessimo portare un ulteriore esempio di questi processi interni, po-tremmo citare il caso della scolastica spagnola e della così detta ‹Scuola di Sala-manca›, che, come abbiamo visto, elaborò come suo precipuo genere letterario il Tractatus de iustitia et iure. Nel corso del secolo sedicesimo l’aspetto delle opere incluse in questo gruppo non rimase tuttavia immutato, ma subì una costante evoluzione verso una indipendenza formale sempre maggiore68. I primi prodotti della Scuola di Salamanca sono infatti commenti diretti alla Summa theologiae di Tommaso d’Aquino che conservano fedelmente l’ordine originale delle materie e adottano rigorosamente lo stile della lettura e dell’interpretazione testuale. Tali sono anche le lezioni di Francisco de Vitoria, che vale come il fondatore dell’intera scuola69. Nel corso del sedicesimo secolo questa forma tradizionale fu modificata e arricchita da sempre più frequenti intrusioni di materiali prove-nienti da altre sedi e da argomentazioni formulate direttamente dai commenta-tori. Il trattato De iustitia et iure di Domingo de Soto segna il primo movimento in questa direzione, che fu perseguita da Luis de Molina (1535-1600)70 e portò

67 Johann Friedrich Christ, De Nicolao Machiavello libri tres, Lipsiae et Halae Magde-

burgicae, Apud Iohannem Christophorum Krebsium, 1731. 68 José Barrientos García, Los tratados De legibus y De iustitia et iure en la Escuela de

Salamanca de los siglos XVI y XVII, in «Salamanca. Revista de Estudios», 47, 2001, pp. 371-415; Scattola, Domingo de Soto e la fondazione della Scuola di Salamanca, cit., pp. 56-61.

69 Francisco de Vitoria, Comentários a la Secunda secundae de Santo Tomás, a cura di Vicente Beltrán de Heredia, Salamanca, (Spartado), 1932-1952, voll. 1-6; Id., De legibus, a cura di Simona Langella, Salamanca, Ediciones Universidad de Salamanca, 2009.

70 Luis de Molina, De iustitia et iure opera omnia (1602), Venetiis, Apud Sessas, 1611-1614, tractt. 1-5.

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con Francisco Suárez (1548-1617) alla dissoluzione del tradizionale genere del commentario71.

Si possono testimoniare molteplici casi o linee di evoluzione interna delle comunità di discorso e dei loro generi, ma altrettanto frequenti sono anche gli scambi da una comunità all’altra, che si possono comprendere sotto il concetto, altrimenti noto, di ‹trasfert culturale›72. Poiché tuttavia la comunicazione avviene nel nostro caso tra comunità caratterizzate da codici propri, il passaggio dall’una all’altra, sia esso unilaterale o bilaterale, può avvenire sia in parte come diffusio-ne di contenuti che rimangono invariati e sono perciò ‹recepiti› nella nuova cul-tura, sia in parte, e forse in massima parte, anche come una ricodificazione dei materiali di partenza nella lingua di arrivo. Il ‹paradigma antimachiavellico›, che abbiamo già considerato come caso di microlingua, offre un ottimo esempio della prima situazione perché si propagò e quasi rimbalzò da una comunità all’altra, superando tutte le differenze confessionali, rimanendo invariato nella ricezione e arricchendosi a ogni nuovo passaggio di ulteriori elementi.

Restando nello stesso ambito italiano, la dottrina della ragion di stato può valere come esempio della seconda situazione perché i contenuti di partenza di questa tradizione furono profondamente risemantizzati nei codici di arrivo. La ragion di stato, come abbiamo già detto, fu il prodotto tipico dei circoli dotti italiani nel tardo sedicesimo e nel primo diciassettesimo secolo. Come proble-ma, se non come nozione, essa fu rinvenuta anche nelle opere di Machiavelli, ma la sua formulazione esplicita avvenne verso la fine del secolo e in senso

71 Francisco Suárez, Tractatus de legibus ac Deo legislatore in decem libros distributus,

Coninbricae, Gomez de Luoreyro, 1612. 72 Wolfgang Schmale, Cultural Transfer, in: «European History Online (EGO)», Leib-

niz Institute of European History (IEG), Mainz, 2012.12.05. URL: http://www.ieg-ego.eu/schmalew-2012-en [2014.02.13]; Cornel A. Zwierlein, Komparative Kommunikati-onsgeschichte und Kulturtransfer im 16. Jahrhundert. Methodische Überlegungen entwickelt am Bei-spiel der Kommunikation über die französischen Religionskriege (1559-1598) in Deutschland und Italien, in Kulturtransfer. Kulturelle Praxis im 16. Jahrhundert, a cura di Wolfgang Schmale, Innsbruck, Studien-Verlag, 2003, pp. 85-120; Geoffrey P. Baldwin, The translation of po-litical theory in early modern Europe, in Cultural Translation in Early Modern Europe, a cura di Peter Burke e Ronnie Po-chia Hsia, Cambridge, Cambridge University Press, 2007, pp. 101-124; Irene Dingel, Streitkultur und Kontroversschrifttum im späten 16. Jahrhundert. Versuch einer methodischen Standortbestimmung, in Kommunikation und Transfer im Christentum der Frü-hen Neuzeit, a cura di Ead., Mainz, P. von Zabern, 2007, pp. 95-112.

Per una epistemologia delle dottrine politiche europee 103

conservativo a opera di Giovanni Botero73. Nel corso di una riflessione che si estese lungo tutto il primo trentennio del Seicento, la comunità politica italiana arrivò a un risultato di equilibrio, nel quale distinse una buona da una cattiva ragion di stato, identificando la prima con le abilità e le soluzione prudenziali di cui deve disporre il politico per governare la sua comunità e la seconda con le male arti del tiranno74. Questa formula fu esportata in tutti i paesi europei con esiti molto diversi, dipendenti in gran parte dalla ricodificazione nelle lingue po-litiche locali. Se consideriamo il regno di Francia e l’impero tedesco, ci troviamo di fronte a due risultati opposti perché nell’un caso il valore simbolico della ra-gion di stato fu accentuato, mentre nell’altro caso esso fu indebolito, da una parte sopravvalutazione, dall’altra sottovalutazione, innesco e disinnesco della carica derogativa prodotta dalla dottrina. Nel regno di Francia la tematica della ragion di stato fu infatti importata nel contesto delle polemiche che accompa-gnarono le guerre di religione e la violenta contrapposizione tra partiti religiosi. In tal senso da Innocent Gentillet in poi, in forma implicita o esplicita, essa di-venne la quint’essenza di tutte le male arti praticate dal tiranno, cioè dall’oppressore della vera confessione75. Anche la sua rivalutazione nel concetto di colpo di stato a opera di Gabriel Naudé (1600-1653) conserva, rovesciata in positivo, la stessa deroga alla morale fino a quel momento condannata dalla tra-dizione teologica76.

73 Gianfranco Borrelli, Sapienza, prudenza ed obbedienza nel paradigma conservativo di Bote-

ro, in Botero e la ‹ragion di stato›, a cura di Artemio Enzo Baldini, Firenze, Leo S. Olschki editore, 1992, pp. 91-103; id., Il modello conservativo della monarchia cattolica. La costruzione dell’obbedienza in Botero, Bozio e Charron, in Repubblica e virtù. Pensiero politico e Monarchia Cat-tolica fra XVI e XVII secolo, a cura di Chiara Continisio e Cesare Mozzarelli, Roma, Bul-zoni editore, 1995, pp. 497-509.

74 Rodolfo De Mattei, Il problema della ‹ragione di Stato› (locuzione e concetto) nei suoi primi affioramenti, in Il problema della ‹ragion di Stato› nell’età della Controriforma, Milano-Napoli, 1979, pp. 1-23; Chiara Continisio, Introduzione, in Giovanni Botero, La ragion di stato, Roma, Donzelli, 1997, pp. XI-XXXII, qui pp. XIV-XVI.

75 Cfr. Corrado Vivanti, Le guerre di religione nel Cinquecento, Roma-Bari, Editori Later-za, 2007.

76 [Gabriel Naudé], Considerations politiques sur les coups d’Estat, A Rome [= Paris], [D’après Barbier], 1639. Cfr. Julien Freund, La situation exceptionelle comme justification de la raison d’Etat chez Gabriel Naudé, in Staatsräson. Studien zur Geschichte eines politischen Begriffs, a cura di Roman Schnur, Berlin, Duncker und Humblot, 1975, pp. 141-164; Yves Charles Zarka, Raison d’État, maximes d’État et coups d’État chez Gabriel Naudé, in Raison et déraison d’État. Théoriciens et théories de la raison d’État aux XVIème et XVIIème siécles, a cura

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Anche nell’impero tedesco la ragion di stato fu immediatamente riconosciu-ta come un argomento ‹italiano›, legato alle forme comunicative dei discursus e alle pratiche della prudenza; essa tuttavia fu ricodificata nelle consuetudini dei generi letterari della disciplina accademica77. Essa fu arricchita della dottrina complementare degli arcana imperii o arcana rerum publicarum, il cui concetto era stato elaborato in un trattato di Arnold Clapmar (1574-1604) pubblicato po-stumo nel 1605 e portato a dignità accademica da una disputazione di Chri-stoph Besold (1577-1638) del 161478. Essa tuttavia entrò nella discussione poli-tica del mondo tedesco dapprima nei generi letterari pertinenti al mondo della

di Id., Paris, Presses Universitaires de France, 1994, pp. 151-169. Cfr. anche Gabriel Naudè, Bibliographia politica et arcana status, cum notis et observationibus literario-criticis, quae auctorem partim illustrant, partim supplent, partim corrigunt. Praemissa Praefatione apologetica, in qua Naudaeus a variis liberatur imputationibus. Auctore magistro Gladovio (1633), a cura di Friedrich Gladow, Lipsiae, Apud Christophorum Hülsium, 1712.

77 Eberhard von Weyhe [pseud. Mirabilis de Bonacasa], Ficta Iuditha et falsa ex ea sumpta doctrina, licere hostem quemcunque omni in loco sub praetextu amicitiae et simulationis religio-nis et ratione status interficere. Proposita et refutata per Mirabilem de Bonacasa contra Rosaeum, Ma-rianam, Veronae [= Francofurti ad Moenum], Prostat in bibliopolio Emmeliano, 1614; Wilhelm Ferdinand von Efferen, Manuale politicum de ratione status seu idolo principum, in quo de vera et falsa forma gubernandi rempublicam, de religione, de virtutibus principum, de potestate eccle-siastica, de bello et pace compendiose agitur, Francofurti, Apud Ioannem Godefridum Schö-newetterum, 1630; Sigismund Pichler, Discursus politicus de vera ratione status regii seu pruden-tia politica regia statum principis regnique firmandi, Christianorum principum non idolo, sed palladio, resp. Theodericus a Bandemern, Regiomonti, Literis Reusnerianis, 1641; Johann Hie-ronymus Im Hof, Singularia politica, quae 25 capitibus sub nomine rationum status ea, quae a principe in salutem status sui observanda et simul in republica imitanda sunt, docent, Norimbergae, Impensis Wolfgangi Iunioris et Iohannis Andreae Endterorum, 1652, partt. 1-2; [Phi-lipp Andreas Oldenburger], Politica curiosa sive discursus iuridico-politicus de statistis Christianis eorumque officio et iure politico potissimum extraordinario per rationem status prudenter in politicis applicando, ubique rationibus et exemplis novissimis repletus, Osterodae, Sumtibus et impensis Bartholdi Fuhrmanni, 1686; [Johann Christoph Wagenseil], Directorium aulicum de ratione status, in aulis imperatorum, regum, principum aliarumque personarum illustrium observanda, tracta-tus singularis ex itineribus variis aularumque frequentationibus annotatus, Hagae-Comitis [?], [s. e.], 1687.

78 Arnold Clapmar, De arcanis rerumpublicarum libri sex. Ad amplissimum atque florentissi-mum senatum reipublicae Bremensis, a cura di Iohannes Clapmarius, Bremae, In officina ty-pographica Iohannis Wesselii, 1605; Christoph Besold, De arcanis rerumpublicarum, et prin-cipum inter ipsos dignitatis praerogativa, resp. Daniel a Rantzow, in id., Collegii politici classis posterior, Tubingae, Typis Iohannis Alexandri Cellii, 1614, disp. 5, pp. 18.

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corte e dei consiglieri, in modo particolare legati all’imperatore e ai ceti cattolici, e fu in seguito consacrata nella politica universitaria da una dissertazione di Hermann Conring del 165179. Da questo momento essa poté valere come un argomento scientificamente giustificato accanto agli altri, senza alcun particolare valore eversivo dell’ordine morale, tanto che la discussione accademica attorno ai suoi temi si concentrò soprattutto sulla possibilità di poter determinare una ragion di stato specifica del Sacro Romano Impero80. Infatti, come la compagi-ne imperiale doveva essere dotata di una sua particolare costituzione, argomen-to di cui si occupava assiduamente la disciplina del diritto pubblico81, così do-veva esistere anche una serie di scelte e accorgimenti prudenziali propri dell’imperatore e delle altre figure di governo tedesche, e tali argomenti dove-vano essere pertinenti esclusivamente alla disciplina politica. Attraverso questa divisione della costituzione dall’amministrazione, la ragion di stato sarebbe stata concepita nel passaggio tra il diciassettesimo e il diciottesimo secolo come il nu-cleo centrale della dottrina degli affari di governo, cioè della politica ripensata nel quadro del diritto naturale moderno82. Se in Italia erano state originariamen-

79 Hermann Conring, Dissertatio de ratione status, resp. Henricus Voß, Helmestadii,

Typis Henningi Mulleri, 1651. 80 Bogislaus Philipp von Chemnitz [pseud. Hippolythus a Lapide], Dissertatio de

ratione status in imperio nostro Romano-Germanico, in qua tum qualisnam revera in eo status sit, tum quae ratio status observanda quidem, sed magno cum patriae libertatis detrimento neglecta hucusque fuerit, tum denique quibusnam mediis antiquus status restaurari ac firmari possit, dilucide explicatur, [s. l.], [s. e.], 1640; Johann Wolfgang Textor, Tractatus iuris publici de vera et varia ratione status Germaniae modernae, Altdorphii, Impensis Iohannis Henrici Schönnerstaedt, 1667; Johann Heinrich Boeckler, In Hippoliti a Lapide dissertationem de ratione status in imperio nostro Romano Germanico animadversiones, Argentorati, Impensis Iosiae Staedelii, 1674. Cfr. Michael Stolleis, Arcana Imperii und Ratio Status. Bemerkungen zur politischen Theorie des frühen 17. Jahrhunderts (1980), in Id., Staat und Staatsräson in der frühen Neuzeit. Studien zur Geschichte des öffentlichen Rechts, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1990, pp. 37-72.

81 Cfr. Merio Scattola, Jakob Lampadius und die Auseinandersetzung um die Verfassung des Heiligen Römischen Reiches, in Konfessionalität und Jurisprudenz in der frühen Neuzeit, a cura di Christoph Strohm e Heinrich de Wall, Berlin, Duncker und Humblot, 2009, pp. 365-391.

82 Id., Von der Politik zum Naturrecht. Die Entwicklung des allgemeinen Staatsrechts aus der politica architectonica, in Science politique et droit public dans les facultés de droit européennes (XIIIe-XVIIIe siècle), a cura di Jacques Krynen e Michael Stolleis, Frankfurt am Main, Vittorio Klostermann, 2008, pp. 411-443; Id., Von der prudentia politica zur Staatsklugheitslehre. Die Verwandlungen der Klugheit in der praktischen Philosophie der frühen Neuzeit, in Phronêsis – Prudentia – Klugheit. Das Wissen des Klugen in Mittelalter, Renaissance und Neuzeit, a cura di

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te escogitate e distinte due parti contrapposte, una virtuosa e una viziosa, in Francia fu dunque recepita e riconosciuta solo la cattiva ragion di stato, mentre in Germania fu accolta solo quella buona.

13. La forma e il suo significato storico

Abbiamo a più riprese constatato che la politica si può definire come un’ at-tività comunicativa e che essa consiste in uno scambio di argomenti o ragiona-menti capaci di produrre un ordine di comando e di obbedienza senza violenza, quello che Socrate nel Critone chiama un rapporto basato sul πείθειν καὶ

πείθεσθαι, sul convincere e sull’essere convinti. Perciò, trattandosi di un rappor-to argomentativo e linguistico, la teoria della politica e la ricostruzione della sua storia non può limitarsi a identificare solamente chi comanda e chi obbedisce e le ragioni portate a giustificazione di questa distribuzione, ma deve anche indi-care con quali mezzi e con quali codici si instaura questo rapporto. In questo caso la forma è il contenuto, perché è il modo in cui viene realizzata la comuni-cazione che stabilisce come e chi debba comandare e come e chi debba obbedi-re. Se lo scambio argomentativo costituisce il nucleo essenziale del rapporto po-litico, le forme e i contenuti che lo caratterizzano sono un prodotto della rifles-sione, singolare o collettiva, la quale si manifesta in varie forme e in diversi stili, occasioni e ambiti, dall’orazione privata fino al trattato filosofico accademico, ma ha nella dottrina la sua espressione più alta, pura, consapevole. Perciò la sto-ria del rapporto politico è in gran parte una storia delle ‹comunità di discorso politico›, delle cerchie nelle quali sono stati elaborati, trasmessi e scambiati co-dici politici.

Dovremmo a questo punto chiederci se la storia del pensiero politico attua-le, in tutte le sue varianti, assolva il compito che abbiamo delineato finora, e so-prattutto se la storiografia di Cambridge, con la sua attenzione esclusiva per la libertà repubblicana, e la storia concettuale, con la sua fissazione per il tempo moderno, siano all’altezza di questo fine e possa ricostruire compiutamente questa vicenda. Una storia delle comunità di discorso politico o semplicemente una storia del discorso politico europeo resta dunque ancora tutta da scrivere, ed essa sarà la vera storia delle dottrine politiche europee perché essa narra la vicenda di un aspetto essenziale, forse del vero aspetto essenziale, di quella e-

Alexander Fidora, Andreas Niederberger e Merio Scattola, Porto, Fédération Internati-onale des Instituts d’Études Médiévales, 2013, pp. 227-259.

Per una epistemologia delle dottrine politiche europee 107

sperienza della conoscenza umana che è la politica. Questa nuova ‹storia del di-scorso politico› comincia dalla Grecia antica e continua fino ai nostri giorni, ha un’identità storica e non antropologica e descrive i modi nei quali è stato orga-nizzato il discorso politico nello spazio europeo. Essa delinea le ‹comunità di discorso› nelle quali esso si è organizzato, utilizzando le categorie retoriche del ‹Chi?›, del ‹Dove?› e del ‹Per chi?›, in modo da costruire una carta geografica eu-ropea dei codici del ragionamento politico. Questa storiografia opera su quatto direttrici o in quattro campi, che sono quelli definiti dall’incrocio delle due pos-sibilità nello spazio, la ricostruzione dell’interno e dell’esterno, con le due pos-sibilità nel tempo, la narrazione sincronica e quella diacronica.

Spazio Tempo

Interno Esterno

Sincronia

‹Chi?›, ‹Dove?›, ‹Per chi?› Codici, attori, contesti, testi

Confini e confronti Geografia del discorso politico

Diacronia Evoluzione dei linguaggi e dei codici

Ricezione e transfert

Ricostruire sincronicamente lo spazio interno di ciascuna comunità di di-

scorso significa identificare gli attori, i luoghi, i destinatori, i codici linguistici, le convenzioni comunicative (‹Chi?›, ‹Dove?› e ‹Per chi?›) che la costituiscono. Lo spazio esterno nella sincronia, che è descritto dai confini di ciascuna comunità e dai rapporti che essa intrattiene con tutte le altre comunità, produce una geo-grafia politica europea. La diacronia interna è l’evoluzione dei linguaggi politici sulla base di principi e forze autonomi, mentre, proiettandosi all’esterno, la dia-cronia genera la storia della ricezione e il transfert culturale.

La ricostruzione dell’aspetto formale ha anche un’ulteriore e più profonda ripercussione sulla storia del pensiero politico. Essa infatti opera sempre in due sensi complementari perché mette in luce sia le differenze sia le somiglianze tra le varie comunità di discorso. Considerando soprattutto le differenze si identifi-ca il sistema di varianti all’interno dell’epoca. Per esempio, come abbiamo fatto noi nei casi citati sopra, si delinea le geografia dei codici linguistici europei nella prima età moderna. Se tuttavia si registrano le somiglianze comuni a tutte le comunità di uno stesso momento, si disegna il profilo epistemico di un’epoca, si stabiliscono le caratteristiche che la differenziano dalle altre epoche. Tali pro-fili sono la base di una storia epistemica della politica, capace di mostrare i grandi quadri nei quali si è articolata l’esperienza collettiva del mondo. In modo

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particolare essa può descrivere il passaggio da un concezione topologico-dialettica a una sistematico-deduttiva del sapere pratico, dalla prudenza alla teo-ria dell’agire umano, e più in generale a due modi affatto diversi di esperire il mondo che indicano cambiamenti a livelli anche più profondi di quello episte-mico83.

83 Id., Ideen zu einer politischen Metaphysik, in Das Politische als Argument, a cura di Ange-

la De Benedictis, Gustavo Corni, Brigitte Mazohl, Daniela Rando e Luise Schorn-Schütte, Göttingen, Vandenhoeck und Ruprecht Unipress, 2013, pp. 61-103.