Incastri fuorisede

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Un omicidio in pieno centro, uno studente in cerca di casa, due tossici che cercano di far quadrare i conti in maniera tutt’altro che onesta, una ragazza tradita, un giovane che suona la chitarra e il cuore di Napoli che batte. Potente, preciso, assordante, come un immenso tamburo, segnando il ritmo di un’umanità instancabile, variopinta e imprevedibile.

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Salvatore Viola

Incastri fuorisedeStorie di studenti, farabutti e vicoli

Vietata ogni forma di duplicazione e citazione anche parziale. Fatti e personaggi di questo libro sono da ritenersi di pura immaginazione. Per informazioni: [email protected]

Grafica a cura di Zefiro www.zefiro-comunicazione.it

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Incastri fuorisede

a Luigi, Francesco, Giuseppe, Vincenza, Savino, Enrico, Peppino, Rosa, Angela, Michele, Raniero, Nadia, Teresa, Tetta,

Maria Carmela, Gerry, Donatella, Ornella, Davide, a tutti gli studenti fuorisede che ho incontrato a Napoli

e a Laura che mi ha convinto a scrivere

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Il venditore di frutta secca

(Di come uno certe volte può essere anche un po’ seccato e agire senza la dovuta ponderatezza)

Mi chiamo Gennaro Coppola e oggi è pro prio una giornata di cazzo! Forse però così non è tanto chiaro. Vabbene, comincio dac capo.

Sono venuto al mondo a Napoli, in vico del Purgatorio ad Arco, un budello puzzolente di via dei Tribunali che quando i netturbini fanno sciopero rimane completamente iso lato dal re-sto della città, tanta è la spazza tura che vi si accumula nell’arco di una nottata. Tu te ne vai a dormire tranquillo e la mattina scopri che l’imbocco del vicolo è completamente ostruito da sacchetti fetenti, scatole di cartone e a volte perfino qualche vecchio elet-trodomestico.

Ho abitato nella casa di vico del Purgatorio per trentuno anni, fino a quando ho conosciuto Titina. Poi l’ho messa incinta e me la sono sposata. Ad essere sinceri, all’epoca la cosa non mi dispiaceva minimamente... Il problema è adesso. E pensare che a quei tempi mi pia ceva leggere e ogni tanto scrivevo pure. Per ca-rità nulla di eccezionale, cose da poco, qualche scarabocchio sui muri con la bom boletta spray o una canzone romantica per un amico borseggiatore che nel tempo libero faceva il cantante neo-

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melodico ai matri moni. E già, io ero nato per fare l’intellettuale. E invece la vita certe volte è come una pisciata in mez-zo alla strada: non puoi mai sapere dove va a finire… Vabbene, vabbene, lo so. Così non si capisce ancora niente. An-diamo per ordine.

Titina non è napoletana come me, lei è “ca fona”. Veniva da Torre Annunziata tutte le mattine a vendere le uova fresche nel mio quartiere. Ricordo ancora la sua voce acuta e tagliente come una sferzata sulla schiena. Passava puntualmente sotto casa mia, alle sette in punto, urlando a squarciagola per rendere partecipe tutto il mondo della fre schezza delle sue uova. Io non ce la facevo più a svegliarmi ogni mattina con quel la trato rauco nelle orec-chie, senza parlare poi del suo sguaiatissimo accento torrese.

- Ll’ove, accattateve ll’ove, zucateve ll’ove fre sche!

Continuava con questa cantilena fino a quando svoltava ver-so piazza Mira glia e la sua voce sfumava piano piano, coperta dal delicato suono dei motorini truccati. Alcune volte però la venditrice si accampava sotto il mio palazzo e ci restava pure per mezzora. E quelli erano do lori. A nulla serviva sprofondare la testa sotto le coperte e farmi scudo con il cu scino. Niente! Quella fastidiosa voce s’insinuava come una serpe a tormentare i miei più placidi sogni.

Una mattina decisi finalmente che bisognava farla finita. A questo punto è indispensabile precisare che io Titina non l’avevo mai veduta di persona, di lei cono scevo, mio malgrado, solo la voce. Se però avessi dovuto descriverla, me la sarei im maginata brutta, unta, corpulenta. Voi non sapete quanto mi sbagliavo.

Era l’alba del 9 maggio, me lo ricordo come fosse ieri. Mi ero svegliato ancora una volta con le uova fresche nei timpani e avevo detto, basta!

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Mi alzai dal letto ancora stordito e rigirai il materasso sotto-sopra. Agguantai il mal loppo di maglie che vi tenevo nascosto sotto, lo aprii e tirai fuori la calibro 38 che papà mi aveva regala-to per i diciotto anni. Me la infilai nelle mutande, sotto il pigia-ma, e andai spedito verso la porta. Mamma era in cucina e stava preparando il caffè, nel vedermi già in piedi a quell’ora assunse un’espressione preoccupata. Mi chiese dove me ne andavo così di fretta e con ancora il pigiama addosso. Esternai la mia decisione di togliere di mezzo la zotica rompicoglioni, una volta per tutte. Mamma mi ricordò che al ritorno dovevo passare al bar Macario perché era finito lo zucchero. Sbattei la porta. Scesi le scale di corsa e mi trovai in un attimo fuori del palazzo.

Lei era lì, di spalle, stava continuando il suo giro. A Ti tina ho sempre detto che mi innamorai di lei nell’attimo in cui si girò a guardarmi. In realtà era stato prima. Sì, è vero, me ne in namorai quando lei stava ancora girata di spalle. Cominciai a correrle die-tro, rallen tando man mano che mi avvicinavo. La se guii fino a piazza Miraglia, poi mi feci co raggio e la chiamai.

Lei si girò. Quello che vidi mi bloccò il fiato. Una figura flo-rida e altera si presentò davanti ai miei occhi ac cennando un sorriso, probabilmente dovuto al mio abbigliamento inconsue-to. Aveva una camicetta bianca sbottonata esagerata mente e una gonna lunga che le fasciava due fianchi di marmo. Teneva un paniere pieno di uova nell’incavo del gomito sinistro e un ven-taglio nella mano destra che agi tava irrequieta. Un sottile riga-gnolo di su dore si insinuava indisturbato, nell’ampio bagagliaio del petto. Lo seguii con lo sguardo. Fino alla fine. E fu in quel preciso istante che me ne innamorai, per la se conda volta. Lei mi guardò sorridente. Aveva due incredibili occhi neri. La gola mi si era improvvisamente seccata. Inghiottivo saliva e cercavo invano di ritrovare quella rabbia che mi aveva tirato giù dal letto,

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fa cendomi scendere di corsa in mezzo alla strada. Poi decisi. Mi infilai una mano nelle mutande e con un gesto che avevo visto centinaia di volte nei film di Al Pacino sfoderai l’arma.

Lei smise di sventolarsi. Per strada non c’era nessuno, due stu-dentesse che mi avevano visto arrivare si allontanarono in fretta. A scuola avrebbero parlato di un pazzo in pigiama che alle sette di mattina, puntava una pistola contro una giovane venditrice di uova. Puntai la canna sul riga gnolo di sudore, poi con una voce strana mente sforzata, parlai.

- Sono veramente fresche quelle uova?

- Freschissime!

- Sei sicura?

- Sicurissima.

- Stai attenta, perché se cerchi di fregarmi fai una brutta fine! - La voce mi era ritor nata di nuovo forte e chiara. Ero soddi sfatto.

- E chi ti vuole fregare! - Fu la risposta secca. La ragazza par-lava troppo.

- Dammene dodici! - Risposi senza esi tare.

Mangiai frittate, uova alla coque, zabaioni e spaghetti alla car-bonara per un mese e mezzo, poi alla fine di luglio mi annunciò che era rimasta incinta e ci sposammo. Quando nacque il bam-bino, visto che era nato per colpa delle uova, lo chiamammo Pasquale. Pasqualino Coppola, per la preci sione.

Del nostro viaggio di nozze non ricordo molto. Festeggiammo a Gragnano, da mio zio Tonino che aveva un ristorante molto ri-nomato chiamato Chez Antoine ma cono sciuto dai più con il

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nome di ‘O Zuzzus’1. Dopo l’abbondante pranzo nuziale avvertii subito i primi sintomi di una fortissima in fezione gastrointesti-nale, probabilmente do vuta alla scarsa freschezza dell’impepata di cozze. In quel momento capii subito cosa aveva spinto i clienti di zio Tonino a dare un secondo nome al ristorante. Fui portato ur gentemente all’ospedale Cardarelli dove ri masi per otto lun-ghissimi giorni. Titina che si annoiava a morte, approfittò della mia degenza per andare a consolarsi sulle spiagge di Mondragone insieme a sua ma dre. “Mi dispiace, disse, ma io non ce la fac cio a vederti in questo stato. E poi, così questo inverno non piglio neanche il raff reddore”.

Subito dopo il matrimonio mi resi conto che i soldi non ba-stavano mai e il nostro bilo cale con vista sul pozzo luce e sul vi-colo dei Maiorani, necessitava di un’entrata fissa, così cominciai il mio pellegrinare fra una lunga serie di lavori. All’inizio andai ad esprimere il meglio delle mie capacità nel mercatino della Duchesca2: prelevavo con disinvoltura e precisione chirurgica, porta fogli a volte pieni a volte vuoti, dalle tasche e dalle borse di quelli che si allungavano sulla bancarella di Ciro ‘O Fetente a rigirare maglie e stracci in cerca dell’affare. ‘O Fe tente metteva i pezzi migliori lontani dal bordo del suo banco, cosicché per af-ferrarli era necessario piegarsi a circa novanta gradi: la posizione ideale per farmi lavorare in tutta comodità. D’inverno cambiavo sede, mi facevo la linea del 185 e a tutti quelli che me lo doman-davano, rispondevo che lavo ravo nell’Atan3. Fu un periodo pie-no di sod disfazioni. Esercitai questa professione per molti anni

1 Termine dialettale che significa “Lo Sporcaccione”2 Mercato nei pressi della Stazione Centrale di Napoli dove è facile fare ottimi affari ed

altrettanto facile essere derubati da borseggiatori e delinquenti di ogni specie.3 Azienda Trasporti Automobilistici di Napoli.

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alternandola con quella di venditore di macchine fotografiche, impianti stereo e telecamere “soloperaffare”. Quest’ultima pro-fessione era quella che rendeva di più, perché si sa: se è vero che anche i mattoni hanno un costo, bisogna ammettere che è sicuramente inferiore a quello di macchine fotografiche, stereo e telecamere. Ma ero stanco di quella vita e decisi di trovarmi una sistemazione più tranquilla. Fu così che venni assunto, vabbè as-sunto per modo di dire, da una ditta di import-export che aveva sede in vico Scassacocchi. Il nostro lavoro consisteva nell’impor-tare segatura (di altissima qualità) e nel lavorarla con grande ma-estria al fine di ottenere Marlboro e Lucky Strike (di bas sissima qualità) da rivendere ai turisti di passaggio nella zona di piazza Garibaldi. Dopo quasi due anni di onesta professione uno dei fratelli Ramaglia, titolari della ditta, lasciò cadere un mozzicone ancora acceso nel deposito della segatura e fu così che il destino si fumò, a scrocco, tutta la nostra scorta di sigarette. In poche ore ci ritro vammo tutti disoccupati.

Nel frattempo Pasqualino cresceva e questo era bene, ma il guaio era che cresceva an che mia moglie, e questo, diciamolo pure, mi piaceva di meno. Oggi Titina pesa 82 chili scarsi. Lei dice che è perché trattiene i liquidi, ma io penso che è soprat-tutto per ché trattiene i solidi: pastasciutta, cotiche, melanzane, salsicce e friarielli ecc. Certe volte la guardo e mi chiedo dove sia finita la ragazza gentile e dalla voce angelica che ho conosciuto 15 anni fa. Boh! Proprio non lo so. Una sola cosa è certa: non ce la faccio più. Titina non solo è diventata grassa e brutta. Per dipiù se ne sta tutti i giorni davanti alla te levisione a guardare carto-manti e telenove las. È sempre scontrosa e qualche volta mi mena pure perché, dice, sono troppo di verso da Ridge Forrester e non la faccio sentire “pienamente donna”! Vista l’abbondanza della sua taglia, io penso che più piena di così non potrebbe sentirsi ma evidentemente la pensiamo ambedue in maniera diversa.

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Da qualche anno a questa parte ho un altro lavoro: ven-do, noccioline, semi di zucca, pi stacchi e mais tostato a piaz-za San Dome nico di notte, quando gli studenti fuorisede e i pankabestia scendono a fare lo struscio. Torno a casa la mat-tina presto con gli occhi a fessura e incontro sempre il so-lito stronzo che anche a quell’ora, tutte le sere, cerca di scroccarmi una sigaretta o “una monetina per la birretta”. Sto veramente raggiun gendo il limite!

Stamattina è arrivata una lettera di Pa squalino che sta in “col-legio” a Nisida con i suoi due amichetti Ciruzzo e Franchitiello. Dice che sta bene e quando torna mi darà grandi soddisfazioni. Io, quando dice così, mi metto paura. Volevo dargli un avvenire sicuro e così l’ho mandato a studiare all’Istituto professionale di Secondigliano, ma lui niente. «Voglio lavorare in una grossa catena di distribuzione» aveva detto, e così fece. L’hanno beccato due mesi fa nella Rinascente con una “refurtiva compo sta da do-dici camice e sette paia di jeans indossati contemporaneamente”, così hanno detto le guardie. Lui continua ad aff ermare che si era perso e non era riuscito a trovare la cassa, ma sarebbe ri tornato sicuramente.

Certo che la mia esistenza non è proprio delle migliori. Dopo una vita passata a lavo rare onestamente cambiando mille me-stieri diversi pur di sbarcare il lunario mi ritrovo con una moglie rivoltante e un figlio in ga lera. Per favore, non chiedetemi se mi sento realizzato, potrebbero venirmi dei dubbi! E pensare che quella mattina del 9 maggio mi sarebbe bastato sparare un col-petto piccolo, piccolo invece di comperare le uova.

Come se non bastasse questo stronzo di pankabestia che ogni sera mi viene vicino e mi chiede una sigaretta proprio non lo sop porto. Ogni tanto l’istinto omicida che mi spinse a conoscere Titina ritorna prepotente a galla dagli abissi delle mie viscere e io

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trattengo il fiato e deglutisco per rimandarlo indietro. Cerco di tenerlo buono ma è come una bomba a orologeria. Nell’elenco delle persone che vorrei eliminare le prime due posizioni sono occupate da Titina e dal pankabestia che si contendono il titolo in uno spareggio senza fine. Ma stanotte è successo.

Alle undici e mezzo ho parcheggiato, come al solito, la mia Ape 50 truccata e ho acceso le luci del gruppo elettrogeno sulla mia bancarella ambulante. Ho venduto un euro e dieci cente-simi di pistacchi e due di mais tostato a uno studente stronzo che sembra sempre voglia prendermi per il culo. A mezzanotte una macchina della Finanza è arrivata e mi ha sequestrato tutto. Ho cercato di spiegare che io in questo modo mi ci guadagno da vivere, ma loro niente. Volevano vedere la licenza oppure si prendevano tutto. Io, manco a dirlo, la licenza non l’ho mai pos-seduta e così mi sono ritrovato a piedi e senza lavoro. A nulla è valso promettere di non fami trovare più e mettermi in regola, piangere, offrire loro un po’ di frutta secca. Niente da fare, si sono presi tutto. I finan zieri sono fatti così: vogliono fumare e ti se questrano il banchetto delle sigarette, vo gliono uno stereo e ar-restano un povero cri sto che se lo è appena “procurato”. Loro di-cono: «Ce l’hai lo scontrino, no? E allora ce lo prendiamo noi!». Ieri sera, secondo me, dovevano fare una festa e si sono presi tutta la mia frutta secca e visto che era tanta e nella volante non ci andava, mi hanno se questrato pure l’Ape 50. La licenza è sola-mente una scusa, ma quant’è vero Iddio me la farei apposta per farli sentire di fottere, mannaggia la morte!

Dopo due ore di frenetico girovagare ero an cora lì che be-stemmiavo come un forsen nato. Neanche a farlo apposta il solito pan kabestia mi è venuto vicino con una faccia di cazzo e mi ha chiesto la solita sigaretta.

- Non ne ho! - Gli ho risposto trattenendo uno sputo.

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- Mi lasci due tiri? - Ha detto, mentre il sangue cominciava a ribollirmi in corpo. Ma lui insisteva, mi ha chiesto pure la mone tina! È stato allora che gli ho detto di to gliersi dai coglio-ni e altre delicatezze del ge nere. Lui mi ha guardato e senza aggiungere nulla mi ha scaricato in faccia una fumata di alito puzzolente. Poi mi ha chiesto nuovamente da fumare e all’en-nesimo rifiuto mi ha chiamato “sporco fascista di merda!” E se n’è andato. A me “sporco fascista di merda”! Non ci ho visto più, la mia mente ha comin ciato ad andare da sola. Dopo una vita in tera passata a combattere contro l’oppressione dei po-tenti che mi sentivo quasi come Robbinud che rubava ai ricchi per dare ai poveri (i poveri sarei io). Dopo che due finanzieri traditi ripetutamente dalle rispettive mogli, mi hanno seque-strato la bancarella sfogando così il risentimento e il dolore causato dai due rigonfiamenti posti nella zona frontale e debi-tamente coperti dalle visiere dei loro cappelli. Dopo quindici anni passati a maledire le galline e tutti i loro derivati (le uova, mia moglie e mio fi glio), che cosa devo sentirmi dire? Sporco fascista di merda! No, non posso accettarlo!

In quel momento ho deciso che volevo giu stizia: un verme alcolizzato, puzzolente e sporco aveva urtato la mia sensibilità. La rabbia mi era salita alla testa come aveva fatto poco prima la bottiglia di gin comprata nel basso di donna Amalia.

- Non ti preoccupà Gennarì, tanto tu sei giovane, te la puoi sempre comperare un’altra ape 50 e ti rifai l’attività: a te i mezzi non ti mancano. Comunque domani parlo con don Ciro il salumiere che conosce un cugino di secondo grado del cognato di uno che è finanziere, così vediamo se può fare qualcosa. - Aveva detto quella santa donna.

- Grazie donn’Ama’, voi si che mi fate spe rare. - Avevo risposto.

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Ero poco distante da casa. Con passo feb brile ho attraversato piazzetta Nilo e Spac canapoli, ho imboccato vico dei Maiorani e dopo aver dato una spallata a Gigino Mez zacanna che spacciava fumo sotto al mio palazzo, mi sono infilato nel portone. Ho fatto le scale di corsa, ho aperto la porta e mi sono precipitato in camera da letto come un matto. Titina era imbalsamata davanti al televi-sore. Su Telemiracoli il mago Gennaro elargiva consigli e chiedeva a tutti :«Chi è Pasquale? Io sono sicuro che nella tua vita c’è uno che si chiama Pasquale. Non puoi negare! Confessa…». Con un gesto automatico che mi ricordava qualcosa, ho afferrato il mate-rasso e l’ho sbattuto a terra. Ho preso il malloppone di stracci e, dopo averlo aperto, ho estratto la calibro 38 che papà mi aveva regalato per i diciotto anni. Titina mi ha chiesto dove andavo così di fretta. Non si è neppure girata, rapita com’era dal mi sticismo del televeggente. Ho esternato la mia intenzione di far fuori il pan-kabestia rompicoglioni, lei mi ha detto che era finito lo zucchero. Ho sbattuto la porta. Mi sono ritrovato in strada e in pochi minuti ero di nuovo a piazza San Domenico. Il tipo puz zolente e sporco era ancora lì. Mi si è avvicinato e ha chiesto una sigaretta. Un cer-chio spaven toso mi attanagliava la testa, le tempie mi pulsavano al ritmo di quegli instancabili bongos che qualche allegra tribù di fottuti studenti del cazzo stava torturando all’esasperazione.

- Non ne ho, me l’hanno offerta! - Ho ri sposto nervosamente.

- Mi lasci due tiri o una monetina? - Dio come puzzava! L’ho mandato a fare in culo. Mi ha chiamato nuovamente “sporco fascista di merda”. Era quello che aspettavo. Mi sono messo una mano nelle mutande e ho estratto la pistola. L’ho visto impalli-dire ancora prima del colpo. Mi ha detto che stava scherzando. - Io no! - ho risposto.

Ora vado a casa. Ma che giornata di cazzo!

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Indice

Il venditore di frutta secca 5

Anna 17

Genny e Lametta 31

Le Siciliane 47

Max cerca casa 63

Paride e Max 79

Questioni di lealtà 93

Movimenti paralleli 117

La penna d’oro 132

Prendere la rincorsa 145

Incastri che si sistemano 157

Correre o aspettare 169