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INTERPRES RIVISTA DI STUDI QUATTROCENTESCHI FONDATA DA MARIO MARTELLI XXXV (XX DELLA II SERIE) SALERNO EDITRICE · ROMA MMXVII

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INTERPRESRIVISTA DI STUDI QUATTROCENTESCHI

FONDATA DA MARIO MARTELLI

XXXV

(XX DELLA II SERIE)

SALERNO EDITRICE · ROMAMMXVII

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Direttore responsabile

Francesco Bausi

Vicedirettore

Paolo Orvieto

Comitato scientifico

Stefano Carrai, Raffaella Castagnola, Emanuele Cutinelli-Rèndina, Sebastiano Gentile,

Enrico Malato, Jean-Jacques Marchand, Paola Ventrone, Paolo Viti, Raffaella Maria Zaccaria

Comitato di redazione

Stefano U. Baldassarri, Armando Bisanti, Sondra Dall’Oco, Enrico De Luca, Elisabetta Guerrieri, Nicoletta Marcelli,

Maria Domenica Muci, Maria Agata Pincelli, Alessandro Polcri

Autorizzazione del Tribunale di Roma n. 463 del 9 ottobre 1998

isbn 978-88-6973-259-1

Tutti i diritti riservati - All rights reserved

Copyright © 2017 by Salerno Editrice S.r.l., Roma. Sono rigorosamente vietati la ri pro duzione, la traduzione, l’adattamento, anche parziale o per estratti, per qual sia si uso e con qualsiasi mezzo effettuati, senza la preventiva autorizzazio-ne scritta della Salerno Editrice S.r.l. Ogni abuso sarà perseguito a norma di

legge.

issn 0392-0224

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erasmo e L’Umanesimo itaLiano neL ciceRonianUs*

1. Per una letteratura “utile”

Il Ciceronianus è un libro difficile da classificare. Questo dialogo, in-fatti, è al tempo stesso una polemica contro l’imitazione pedissequa e formale di Cicerone, criticata sotto l’aspetto sia linguistico-stilistico (in quanto antistorica, inutile e inconcludente) che religioso (giacché con-duce a un neo-paganesimo che rifiuta la tradizione cristiana); una teo-ria dell’imitazione “eclettica”; e una vasta rassegna degli scrittori anti-chi, medievali e coevi, che – una volta constatato come nessuno di essi possa definirsi compiutamente ciceroniano – vale da conferma e sug-gello delle argomentazioni esposte nelle sezioni piú propriamente “teo-riche” dell’opera. Da ciò consegue anche la natura ibrida del libro, a me-tà fra il dialogo vero e proprio e la diatriba, insomma fra i Colloquia (con i quali ha in comune il ricorso a personaggi immaginari dagli al lusi vi nomi grecizzanti, e insieme ai quali fu stampato da Froben nel marzo 1529) e il Moriae encomion (con cui presenta evidenti punti di con tatto, soprattutto nella satira del ciceroniano e nella descrizione della ridicola “malattia” o “mania” che lo affligge),1 con i conseguenti e non sempre ar monizzati “scarti” stilistici, tra la brevitas al limite dell’oscurità di certe frasi e, viceversa, l’ampiezza di periodi protratti fino al rischio di smar-rirne il filo sintattico.

Questa intrinseca ambiguità può riflettere la predilezione di Erasmo

* Il saggio recupera e rielabora alcune parti della mia Introduzione a Erasmo da Rot-terdam, Il Ciceroniano, a cura di F. Bausi e D. Canfora, con la collaborazione di E. Ti-nelli, Torino, Loescher, 2016, pp. 7-59, per gentile concessione della casa editrice e del direttore della collana « Corona Patrum Erasmiana », Renato Uglione; da questa edizio-ne sono tratte anche le citazioni, e ad essa fa riferimento la paragrafatura del testo. Nelle note adotto le seguenti sigle: ASD = Desiderii Erasmi Roterodami Opera omnia, Am-sterdam-Leiden, North Holland Publishing Company-Brill, 1969-; EE = Desiderii Era-smi Roterodami Opus epistolarum, ed. P.S. Allen, H.M. Allen, H.W. Garrod, 12 voll., Oxford, Clarendon Press, 1906-1958.

1. P. Mesnard, Introduction a Desiderius Erasmus Roterodamus, Ciceronianus, ed. P.M. (ASD, i.2, 1971), pp. 584-96, alle pp. 593-94.

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per la varietas stilistica e tematica, ma senza dubbio scaturisce anche dal-la rapidità con cui il dialogo venne composto e pubblicato. Se nella tar -da primavera del 1526 l’idea del Ciceronianus era già stata concepita ed es posta al Froben,2 dell’opera non si fa alcuna menzione nella lettera a Francisco de Vergara del 15 ottobre 1527, dove ne troviamo anticipata in nuce la materia,3 e dove è da credere che, se il libro fosse stato già in can-tiere, Erasmo vi avrebbe fatto cenno; cosí non essendo, siamo autoriz-zati a pensare che lo abbia scritto in non piú di quattro-cinque mesi, poi-ché nella lettera a Johann von Vlatten del 14 febbraio 1528 (poi utilizza-ta come dedica) l’opera risulta già finita,4 e la princeps apparve nel mar-zo dello stesso anno. Né c’è da meravigliarsene, conoscendo i tempi e i modi di lavoro dell’umanista, il quale, nella medesima epistola al Ver-gara, affermò che ormai gli mancava il tempo non soltanto di rifinire i suoi lavori, ma addirittura di rileggerli, e che talvolta si trovava nella ne-cessità di scrivere in un solo giorno un intero libro. Non a caso, po co dopo la prima, Erasmo – come spesso gli accadeva di dover fare – ap-prontò nel breve giro di un anno altre tre stampe dell’opera (marzo 1529, ottobre 1529, marzo 1530), procedendo tanto a correzioni formali, quan-to a significative integrazioni, nell’intento di porre rimedio ad alcune omissioni e di precisare certi giudizi; anche se le varie revisioni, condot-te con la consueta rapidità, non riuscirono né a eliminare del tut to le ri-petizioni, le lungaggini e le interne disarmonie, né a sanare certe apo-rie concettuali.5

Difetti evidenti, questi, che si riscontrano anche in altri scritti del-l’umanista olandese, ma che nel Ciceronianus, se sarebbe forse eccessivo considerare voluti, svolgono comunque una funzione precisa, perché sono quasi un contrassegno del modo di lavorare di Erasmo e della sua idea di letteratura, l’uno e l’altra antitetici a quelli dei seguaci ortodossi dell’Arpinate. Erasmo, come è risaputo, lavora in fretta: senza sosta scri-

2. Come risulta dalla lettera di Leonard Casembroot a Erasmo, Padova, 6 giugno 1526 (EE, vi pp. 355-56, a p. 356).

3. EE, vii pp. 191-95. Per questa lettera vd. anche infra, p. 254 n. 70.4. La lettera è anche in EE, vii pp. 325-27.5. Per la storia redazionale del dialogo e per le quattro stampe curate da Erasmo vd. la

Nota al testo, da me redatta, nella cit. ed. Bausi-Canfora, pp. 60-76.

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ve e stampa, riscrive e ristampa, compone a gran ritmo lettere, opusco-li, dialoghi, manuali e trattati, prepara edizioni, commenti e parafrasi, e interviene di continuo nei campi piú disparati del sapere e della vita pratica. Come potrebbe condurre una simile attività se si attenesse ai det-tami del piú rigoroso ciceronianesimo? Il dialogo, non per nulla, risul-ta fondato proprio sulla contrapposizione dei due tipi opposti di lette-rato: il ciceroniano Nosopono (che scrive con estrema lentezza, nella so-litudine e nell’isolamento piú completi, sciolto da legami familiari e pri-vo di incarichi pubblici o ecclesiastici, soppesando ogni parola e ogni iunc­tura in base all’uso di Cicerone, e che pertanto impiega giorni e giorni per comporre una letterina di appena sei periodi)6 e lo stesso Erasmo, la cui attività letteraria viene presentata da Nosopono in questi termini:

Abiicit et praecipitat omnia, nec parit, sed abortit, interdum iustum volumen scribit « stans pede in uno », nec unquam potest imperare animo suo, ut vel se-mel relegat quod scripsit, nec aliud quam scribit, quum post diutinam lectio-nem demum ad calamum sit veniendum, idque raro. Quid, quod ne affectat quidem tulliano more dicere, non abstinens a vocibus theologicis, interim ne a sordidis quidem? (parr. 1329-30).7

Siamo di fronte alla netta contrapposizione fra una letteratura pura-mente esteriore, fatta solo di verba, costruita “a freddo” e intenta al me-ro diletto, e una letteratura che si misura con la vita reale e che pertanto, anche se meno eloquente, avvince in virtú della sua utilità, perché inse-gna a vivere meglio.8 Utilitas è la parola-chiave,9 su cui Erasmo insiste

6. Ciceronianus, parr. 258-62. Identica polemica nel Moriae encomion (1511), dove vengo-no ridicolizzati dapprima quei retori che impiegano trent’anni a scrivere un discorso (mentre la Moria afferma: « Mihi porro sempre gratissimum fuit, o{ttiken ejp’ ajkairivman glw'ttan e[lJh/ », cioè ‘dire tutto quello che viene sulla punta della lingua’) e poi quei let-terati che rielaborano senza sosta i loro scritti (Moriae encomion, ed. C.H. Miller, in ASD, iv.3, 1979, risp. pp. 74 e 140-42).

7. Rispetto a Orazio e al suo labor limae, Erasmo si pone, con autoironia, quale novello Lucilio: se questo infatti era in grado di scrivere in un’ora duecento versi stando su un solo piede (cfr. Hor., Sat., i 4 9-10), l’Olandese è capace di comporre un libro in un solo giorno (cosí nella lettera al Vergara del 15 ottobre 1527: vd. supra, p. 229).

8. Ciceronianus, par. 1465.9. « Utilitas commendat etiam mediocrem eloquentiam », si legge nel passo del Cice­

ronianus di cui alla nota precedente.

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anche altrove, in particolare in quel fondamentale testo autoapologeti-co che è l’ “adagio” Herculei labores, dove, fin dalla prima stesura (1508), l’Olandese si difendeva dalle critiche che, egli immaginava, sarebbero piovute sulla scarsa eleganza e accuratezza della sua raccolta paremio-grafica, presentandola come un’opera concepita non per arrecare gloria all’autore, ma utilità ai lettori (« opus […] ad communem utilitatem pa-ratum »), e affermando che lasciava volentieri ad altri il compito, per lui improbo, di abbellirla nella forma.10

Combattendo il ciceronianesimo, Erasmo combatte in prima istan-za un’idea di letteratura che ritiene antistorica e superata: la letteratura come attività lenta, umbratile, solitaria, formalistica, edonistica, e dun-que nella sostanza “egoistica”, cui contrappone la “sua” letteratura, uti-le, attiva, calata e impegnata nel mondo, e per questo intesa non tanto alla fama dell’autore, quanto piuttosto al bene e al profitto dei lettori. L’autore, a questo scopo, sacrifica volentieri la gloria che gli derivereb-be dalla composizione di pochi scritti ben meditati e rifiniti, e accetta di buon grado critiche come quelle mossegli da Nosopono (e da molti suoi contemporanei): le critiche, vale a dire, di trascuratezza stilistica, di fretta, di superficialità, di scarsa cura per la precisione. Erasmo si preci-pita a scrivere, senza considerare se sia sufficientemente ferrato in quel-l’argomento, e poi non ha tempo né pazienza di rivedere ciò che ha scrit-to; e questo modo di lavorare lo ha costretto a correggere e a ripubbli-care piú volte gli Adagia, il Nuovo Testamento e l’edizione di san Ge ro-lamo.11 Ma chi potrebbe biasimarlo, visto che il suo scopo primario è quello, pratico, di diffondere le buone lettere presso gli incolti?

10. Adagia, iii, pars prior, ed. F. Heinimann and E. Kienzle, in ASD, ii.5, 1981, pp. 34-35 e 38-39 (miei, qui e sempre, i corsivi nelle citazioni). Allo stesso modo, nell’ “adagio” 219 (Manum de tabula), egli riferisce il noto detto del pittore greco Apelle – che si riteneva superiore al collega Protogene solo in una cosa, nel fatto cioè di saper togliere, a differen-za di lui, la mano dal quadro, ponendo cosí fine alla diuturna rielaborazione delle proprie opere – agli scrittori che per « nimia diligentia » continuano ad accanirsi sulle loro pagine, sempre aggiungendo, togliendo e cambiando, e che proprio in questo sbagliano, nel cercare di non sbagliare mai niente (Adagia, ii, pars prior, ed. M. Szymanvski, in ASD, ii.1, 2005, p. 334).

11. Cosí leggiamo in due fondamentali epistole erasmiane, la lettera-catalogo a John Botzheim del 20 gennaio 1523 e l’epistola a Haio Herman di Emden del 31 agosto 1524 (EE, risp. i pp. 2-3 e v p. 516).

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Molti, soprattutto fra gli italiani, gli rimproverano di pubblicare a stam-pa i suoi scritti prima di averne eliminati gli errori, cosí da trovarsi poi nell’imbarazzante condizione di doverne allestire ristampe emendate; e lo accusano di praticare una filologia sbrigativa, troppo incline a sosti-tuire le faticose collazioni con le disinvolte congetture.12 Erasmo ribatte che si tratta di accuse infondate,13 e che in ogni caso tutti i maggiori uma-nisti italiani si sono comportati allo stesso modo: nessuno mette in cro-ce Ermolao Barbaro per aver largamente congetturato nel restaurare la Naturalis historia di Plinio o per essere incorso in errori nella sua la ti-nizzazione di Temistio, cosí come errori hanno inevitabilmente com-messo tutti coloro che, giovando alla comunità degli studiosi, si sono impegnati nella traduzione e nell’edizione di testi, da Filelfo a Valla, da Gaza a Beroaldo.14 Coloro che « negant quicquam aedendum nisi quod sit absolutum »15 sacrificano alla propria ambizione personale l’utilità co-mune:16 evitano la colpa, ma si privano anche della lode, giacché « non fraudatur sua laude, qui pro tempore quod potuit praestitit, ac viam aperuit caeteris elimatiora moliendi ».17

La polemica non era nuova, e già aveva fatto la sua comparsa nella disputa epistolare che nel 1493-1494 oppose Angelo Poliziano e Barto-lomeo Scala. Il cancelliere fiorentino, nella lettera all’Ambrogini del 31 dicembre 1493, si era scagliato contro quanti, prima ancora che l’inchio-stro fosse asciutto, correvano a stampare i loro scritti e ne disseminava-no migliaia di copie per l’Italia, affrontando poi la difficoltà e il disono-re di doverli correggere pubblicamente. Non si trattava di una notazio-ne gratuita: lo Scala alludeva velenosamente al suo interlocutore (« quae ita edideris […] si quid humano more aberraveris, ad limam vix redire

12. Per queste accuse rivolte alla filologia erasmiana vd. ad es. B. Clausi, Ridar voce all’antico padre. L’edizione erasmiana delle ‘Lettere’ di Gerolamo, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2000, pp. 70-71 e 170-76.

13. « Nec ista molimur absque veterum exemplarorum praesidiis, ubi nancisci licuit: ne errent qui me nihil aliud putant quam divinatorem » (EE, v p. 517, a Haio Herman).

14. Considerazioni analoghe anche nella lettera al Botzheim (EE, i p. 15).15. Ivi.16. « Nec ullos patimur iudices iniquiores quam istos qui nihil omnino aedunt, ac ne

docent quidem, velut invidentes utilitati publicae » (ivi).17. Ivi.

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possunt sine dedecore, quod etiam quibusdam, qui festinatius sua im-pressere, accidisse certum est »), che poco dopo l’edizione della prima centuria dei Miscellanea (1489) ne aveva stampato e diffuso una lista di emendationes,18 e che in calce all’edizione bolognese della selva Ambra (Pla-tone de’ Benedetti, giugno 1492) aveva inserito un corposo errata corrige relativo alla selva Nutricia, pubblicata a Firenze l’anno precedente per i tipi del Miscomini.19

Replicando allo Scala, Poliziano rifiutava di condividere la tesi secon-do cui solo chi non dà alle stampe le proprie opere scrive correttamen-te: poiché tenersi lontano dai torchi significa seppellire i frutti del pro-prio lavoro, chi pubblica non è da considerarsi arrogante o temerario, né correggersi è disonorevole, visto che lo fecero Ippocrate, Cicerone e Agostino, e che la loro fama non è minore per questo. Infine, mostran-do di avere ben compreso dove il cancelliere intendeva andare a parare, l’Ambrogini passa senz’altro al proprio caso personale: « Me vero nec pudeat emendare sequentibus scriptis, si quid in prioribus quandoque delinquerim, quo videlicet, ut quidam inquit, et scribendo proficiam, et proficiendo scribam ».20 La citazione finale è ricavata non casualmen-te dall’appena menzionato Agostino, e in particolare dall’epistola 143 a Marcellino (« Ego proinde fateor me ex eorum numero esse conari, qui proficiendo scribunt, et scribendo proficiunt »: par. 2), in cui il vescovo di Ippo-na, riferendosi a certi dubbi sollevati dal suo De libero arbitrio, afferma

18. V. Fera, Il dibattito umanistico sui ‘Miscellanea’, in Agnolo Poliziano poeta scrittore filologo. Atti del Convegno di Montepulciano, 3-6 novembre 1994, a cura di V.F. e M. Martelli, Firenze, Le Lettere, 1998, pp. 333-59, a p. 343.

19. F. Bausi, Nota al testo a Angelo Poliziano, Silvae, a cura di F.B., Firenze, Olschki, 1996, pp. xlv-xlviii.

20. I due passi in Angeli Politiani Liber epistolarum, v 2-3, in Id., Omnia opera, Vene tiis, In aedibus Aldi Romani (rist. anast. Roma, Bibliopola, 1968), risp. ff. f6r (Scala) e f8r (Po-liziano, la cui lettera non è datata). L’intera polemica fra i due umanisti occupa le epistole 1-6 del libro quinto (ff. f3v-g1v). È interessante osservare che pochi anni piú tardi lo Scala chiuderà la stampa della sua Apologia contra vituperatores civitatis Florentiae (Firenze, Misco-mini [?], non prima del 6 ottobre 1496) con un’epistola ai lettori in cui la decisione di pubblicare l’opera a tamburo battente – secondo un costume da lui solitamente biasima-to – viene giustificata con ragioni di necessità politica, che lo hanno indotto ad anteporre, ai propri, gli interessi della città (B. Scala, Essays and Dialogues, translated by R. Neu Watkins, Introduction by A. Brown, Cambridge [Mass.]-London, Harvard Univ. Press, 2008, p. 278).

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che anche i propri errori sono utili, se, una volta corretti, permettono agli altri di non errare a loro volta.21 Erasmo, che ben conosceva la po-lemica fra i due umanisti fiorentini, sapeva dunque di avere come pre-cursore nientemeno che l’amato Poliziano, e nel Ciceronianus anche per questo inseriva un paragone fra l’Ambrogini e lo Scala (che si credeva un fedele seguace dell’Arpinate e che si permetteva di criticare il Poli-ziano perché poco ciceroniano), concludendolo con un giudizio impie-toso: « ego malim somnia Politiani, quam quae Scala sobrius summo-que studio elaboravit ».22

Come in tutte le polemiche erasmiane, anche in questa giocano un ruolo rilevante motivi personali, che spingono l’umanista a calcare la mano, con compiaciuta auto-ironia e apparente deminutio di se stesso, sul proprio ritratto di letterato “barbaro”, in confronto ai piú raffinati colleghi italiani.23 Ma, ancora una volta, non solo di questo si tratta. Era-smo, nuovamente, difende la letteratura in cui crede, che per po ter incidere sulla realtà e sulla storia ha esigenze di rapidità: rapidità di scrit-tura, e rapidità di diffusione. Erasmo è il poligrafo che lavora per l’hic et nunc, non l’umanista sedentario che può permettersi di non staccare mai la penna dal foglio e che preferisce, al rischio della tipografia, la rassicurante dimensione del manoscritto. La finalità in senso lato “pe-dagogica” è centrale in tutta la sua opera;24 e questa finalità esige il pron-to raggiungimento di un largo pubblico internazionale, grazie a un’abi-

21. Augustini Epistulae, iii, ed. A. Goldbacher, Vindobonae-Lipsiae, Tempski, 1904, p. 251.

22. Ciceronianus, par. 1578. Anche l’accenno alle critiche mosse dal Poliziano ai tipogra-fi tedeschi (ivi, par. 416) deriva dalla sua prima epistola allo Scala, datata 25 dicembre 1493 (Liber epistolarum, cit., v 1, f. f4v). La polemica Scala-Poliziano è ricordata inoltre da Era-smo nella sua lettera a Maarten van Dorp del maggio 1515 (EE, ii p. 92); e vd. qui anche infra, pp. 241-42.

23. Come scrive E.V. Telle, Erasmus’s ‘Ciceronianus’: A Comical Colloquy, in Essays on the Works of Erasmus, ed. by R.L. Demolen, New Haven-London, Yale Univ. Press, 1978, pp. 211-20, a p. 211, « there can be little doubt that Erasmus’s main intent […] was to vindicate his own kind of practical stylistics ».

24. F. Rico, Il sogno dell’Umanesimo. Da Petrarca a Erasmo, trad. it., Torino, Einaudi, 1998, p. 92: « Il suo fu sempre lo spirito del pedagogo prima che dell’erudito, piú preoccupato di imparare cose utili per insegnarle agli altri che di scoprire verità nuove di incerta appli-cazione ».

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le strategia editoriale della quale sono parte anche le ristampe “aggior-nate” ed emendate di vecchi scritti, che consentono a Erasmo – oltre che di guadagnare il necessario per vivere del proprio lavoro in piena indipendenza – di ribadire e propagare nel tempo, con insistenza quasi ossessiva, le sue convinzioni e i suoi insegnamenti.

L’ortodossia ciceroniana, palesemente, è inconciliabile con tutto que-sto. Il poligrafo ha bisogno di una lingua e di uno stile che non lo inca-teni al rispetto di normative rigide, ma che gli lasci la libertà di espri-mersi nel modo di volta in volta piú adeguato alla materia e alla circo-stanza, e che al tempo stesso gli permetta di scrivere con celerità ed ef-ficacia, puntando al risultato “retorico” piú che alla perfezione formale. La proteiforme varietas stilistica che Erasmo propone nel De copia verbo­rum ac rerum (1512),25 e che consente di trattare qualunque argomento in modo piacevole, si offre pertanto come lo strumento migliore per chi debba parlare e scrivere ex tempore, e in particolare per il letterato che si dedichi a lavori di “divulgazione” culturale: commenti, parafrasi, ma-nuali, edizioni, traduzioni. La sequela di Cicerone si addice soprattutto all’umanesimo burocratico, celebrativo e oratorio (prosastico come poe-tico), che si giova di un latino regolato e uniforme, e che predilige un re-gistro di solenne magniloquenza: il ciceronianesimo romano è l’ideo-logia dei funzionari della Curia, e non è certo un caso se Pietro Bembo venne nominato segretario apostolico da Leone X nel 1513, all’indoma-ni della sua polemica de imitatione con Giovan Francesco Pico. Non si addice, invece, all’umanesimo “militante” di chi componga a gran ritmo libelli, “colloqui” e trattati su molteplici questioni di attualità; né all’u-manesimo dei filologi, degli eruditi, dei filosofi, degli enciclopedisti, l’u-manesimo delle res, di un sapere “concreto” fatto di conoscenze, ricer-che, accumulo e interpretazione di dati.

I cultori di siffatti umanesimi sono spinti o verso la negligenza stili-stica, spesso peraltro piú dichiarata che reale (sull’esempio di Manilio e della sua celebre massima: « ornari res ipsa negat, contenta doceri »),26 o

25. In casi come questo indico sempre, salvo diverso avviso, la data della prima stampa dell’opera in questione. Cfr. al riguardo J. Glomski-E. Rummel, Annotated Catalogue of Early Editions of Erasmus, Toronto, Centre for Reformation and Renaissance Studies, 1994.

26. Manil., Astron., iii 39, cit. da Giovanni Pico nel proemio del De ente et uno (1490-’91:

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verso il preziosismo raffinato, l’intarsio erudito, insomma l’eclettismo, imposto dallo stesso tecnicismo degli argomenti e dalla forzata discon-tinuità del discorso: due soluzioni esemplificate rispettivamente – per restare al Poliziano – dal Panepistemon (la prolusione al corso del 1490-1491 sull’Ethica di Aristotele) e dai Miscellanea. Quel Poliziano che insie-me al Barbaro, e talora anche a Giovanni Pico (i tre autori celebrati da Giovan Francesco nella sua polemica col Bembo),27 è additato conti-nua mente da Erasmo, lungo tutto l’arco della sua vita, come il vero nu- me tutelare della sua idea di umanesimo, anche sotto il profilo della lin-gua e dello stile. Con la prefazione dei Miscellanea, in particolare, en-triamo in un territorio prossimo a quello del cosiddetto apuleianesimo, da intendere in senso largo come pratica di una lingua composita che ama andare in cerca dei suoi materiali, di preferenza, nelle zone pe-riferi che della latinità arcaica e di quella argentea e tarda. Erasmo cri-tica spesso lo stile apuleiano, ma ciò che in realtà disapprova – proprio come nel caso del ciceronianesimo – è la sua degenerazione esasperata e fanatica, di cui è responsabile chi (Giovan Battista Pio, ad esempio) lo ha trasformato in una “setta” e in una “norma”;28 nel De recta pronun­tiatione (1528), che venne pubblicato insieme al Ciceronianus, la condanna non per nulla colpisce allo stesso modo gli esponenti delle due scuo-le.29

ed. a cura di R. Ebgi e F. Bacchelli, Milano, Bompiani, 2010, p. 204) e da Poliziano nel coevo Panepistemon (Opera, Basileae, Henricus Petri, 1553 [rist. anast. a cura di I. Maïer, Torino, Bottega d’Erasmo, 1971], p. 462) in riferimento all’inopportunità di ricorrere ad ornamenti stilistici e retorici in opere di carattere tecnico e filosofico.

27. Le epistole “de imitatione” di Giovanfrancesco Pico della Mirandola e di Pietro Bembo, a cura di G. Santangelo, Firenze, Olschki, 1954, p. 74.

28. Cosí ad es. nel De conscribendis epistolis, ed. J.-C. Margolin, in ASD, i.2, 1971, p. 218 (« Et merito ridentur hoc nostro seculo quidam Apuleiani, et obsoletae antiquitatis affec-tatores »); e nel Moriae encomion (ed. C.H. Miller, in ASD, iv.3, 1979, pp. 76 e 138). Che l’a-puleianesimo costituisca per certi aspetti l’altra faccia del ciceronianesimo dimostra del re-sto l’esistenza di una linea apuleiana anche all’interno dell’umanesimo romano.

29. Erasmus, De recta latini graecique sermonis pronuntiatione, ed. M. Cytowska, in ASD, i.4, 1973, p. 99: « Nunc quibusdam putet quicquid in libris Ciceronis non deprehenditur. Rursus alii, si quam scripturam in cariosa charta, aut in saxo vetustate semeso, aut in no-mismate pervetusto reperiunt, eam vocant in exemplum dicendi scribendique ». Visto che nel De recta pronuntiatione « viene formulata in modo diverso la stessa dottrina del Ci­ceronianus » (M. Fumaroli, L’età dell’eloquenza. Retorica e “res literaria” dal Rinascimento alle

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Di fatto, l’Olandese guarda con favore – non per scelta puramente estetizzante, ma laddove l’argomento lo richieda o al fine di assicurare al discorso l’opportuna varietas – all’impiego di parole rare e obsolete; e il canone “allargato” che egli traccia (in opere quali il De copia, la prefa-zione alla prima edizione degli Adagia, il De ratione studii, del 1514, e il De recta pronuntiatione) quando elenca gli autori da seguire sotto l’aspetto della lingua e dello stile dimostra con chiarezza il suo atteggiamento an-ti-puristico e il suo gusto “contaminatorio”.30 D’altronde, come si di ce-va, è la materia a dettare lo stile. Opere quali i Miscellanea e gli Adagia so -no espressione di amore per la varietas, per l’erudizione recondita e mul-tiforme, per il capriccioso disordine: e sono tipici prodotti dell’uma ne-simo filologico italiano del tardo ’400, che – guardando ai modelli di Gel-lio, di Eliano, di Clemente Alessandrino – si compiacque di sillogi in-titolate di volta in volta Observationes, Castigationes, Racemationes, Emen­dationes, Annotationes.31 Come i Miscellanea del Poliziano, gli Adagia sono esempio tra i piú insigni non soltanto di questa cultura e di questo gu-sto, ma anche di questa eloquenza, che traduce la predilezione per la

soglie dell’epoca classica, trad. it., Milano, Adelphi, 2002, p. 87), probabilmente l’accostamen-to delle due opere in un medesimo volume da parte di Froben nel marzo 1528, benché sgradito a Erasmo, non fu casuale.

30. Per il De copia cfr. ASD, i.6, 1988 (ed B.I. Knott), p. 34 (ivi, pp. 40 e 68, si sostiene che « ex omni scriptorum genere verba quam optima seligenda; deinde qualiacunque erunt, tamen in congeriem addentur, neque vox ulla reiicienda, quae modo apud scrip-torem non omnino pessimum reperiatur », e che « neque enim ullum verbum nobis vi-deri debet durum aut obsoletum, quod apud scriptorem probatum reperiatur », sulla scorta di Quint., x 1 8-9); per la prefazione alla prima edizione degli Adagia vd. EE, i pp. 291-93; per il De ratione studii cfr. ASD, i.2, 1971 (ed. J.-C. Margolin), pp. 115-17; per il De recta pronuntiatione vd. ASD, i.4, p. 100. Anche nel Ciceronianus, parr. 794-95, si afferma che, per trattare argomenti non affrontati da Cicerone, è giocoforza servirsi di vocaboli di altri autori (ad es., Tertulliano, Gerolamo e Agostino, qualora si parli del matrimonio; o Vir-gilio, Catone, Varrone e Columella, se ci si occupi di agricoltura). Un analogo canone “eclettico” si compone elencando gli autori latini da Erasmo curati e/o commentati: a parte Cicerone (De officiis, De amicitia, De senectute, Paradoxa, Tusculanae, Somnium Scipionis) e i cristiani (Cipriano, Prudenzio, Girolamo, Ilario, Ambrogio, Ireneo, Agostino, Euche-rio, Arnobio), troviamo Plauto, Terenzio, Orazio, Plinio il Vecchio, Seneca, Svetonio, Curzio Rufo, i Disticha Catonis.

31. V. Fera, Dionisotti e il ciceronianesimo, introduzione a C. Dionisotti, Gli umanisti e il volgare fra Quattro e Cinquecento, a cura di V.F., con saggi di V.F. e G. Romano, Milano, 5 Continents Editions, 2003 (19681), pp. vii-xxxv, a p. xxiv.

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brevitas e la varietas in una prosa brillante e frastagliata, aperta a usi lessi-cali e sintattici attinti dagli autori piú diversi, e caratterizzata dalla piú completa libertà stilistica.32 Né si tratta solo di gusto, giacché in opere di questo genere l’eclettismo formale e lessicale scaturisce naturaliter da-gli argomenti affrontati: potrebbe forse essere ciceroniano chi, come Ermolao Barbaro, lavora sul testo dell’enciclopedia pliniana, o chi, di-scutendo e glossando passi difficili desunti dalle opere piú disparate, oppure commentando proverbi, deve occuparsi non solo e non tanto di pura “letteratura”, quanto, in prevalenza, di ogni aspetto del mondo an-tico, dalla filosofia alle scienze, dalla storia all’antiquaria, dalla tecnica al -la vita quotidiana? Anche il ciceroniano Paolo Cortesi, che pure aveva polemizzato con l’eclettico Poliziano, diventò “apuleiano” quando, sul finire della vita, compose il De cardinalatu, dove l’attenzione alla realtà contemporanea gli impose di ricorrere con frequenza a grecismi, hapax, arcaismi, tecnicismi e voci del latino tardo, tanto che la stampa dell’ope-ra (1510) fu corredata di annotationes linguistiche dal fratello Lattanzio.33

La rigorosa imitazione ciceroniana è un fatto tutto e solo letterario e poetico; ma dove prevale la funzione pratica del linguaggio (come nel-l’oratoria, nella scuola, nell’epistolografia, nella filologia, nella filosofia, nelle scienze), l’eclettismo, ossia l’adattamento della forma al con tenu-to e all’occasione, è una necessità. Se non si voglia ricorrere ai neologi-smi e ai barbarismi, bisogna pescare da ogni angolo della lingua latina, e soprattutto dal latino “tecnico” (Plinio il Vecchio, Columella, Varrone, Frontino, Celso, Macrobio) o da quello degli autori che descrivono la vita quotidiana (i satirici – soprattutto Marziale e Persio – e i comici).

32. Fumaroli, L’età dell’eloquenza, cit., pp. 90-95. Va detto tuttavia che nel De conscriben­dis epistolis Erasmo non approva la varietas e l’inaequalitas stilistica e linguistica dei Miscella­nea, ritenendole piú idonee al genere epistolare (ASD, i.2, p. 223, dove la critica coinvolge anche le Noctes Atticae di Gellio). Del resto, l’ammirazione erasmiana per lo stile del Po-liziano riguarda principalmente l’epistolografia, benché egli definisse l’Ambrogini « vi-rum modis omnibus et incomparabilem et inimitabilem » (Adagia, 1801, in ASD, ii.4, 1987 [ed. F. Heinimann and E. Kienzle], p. 216; passo aggiunto nell’ed. 1515).

33. R. Cardini, Antichi e moderni in Paolo Cortesi, in « La Rassegna della Letteratura Ita-liana », viii 1991, pp. 20-28, alle pp. 26-27; e anche Dionisotti, Gli umanisti e il volgare, cit., pp. 48 e 70-71; V. Fera, Il problema dell’ “imitatio” tra Poliziano e Cortesi, in Vetustatis indagator. Studi offerti a Filippo Di Benedetto, a cura di V.F. e A. Guida, Messina, Centro Interdiparti-mentale di Studi Umanistici, 1999, pp. 155-81, alle pp. 178-81.

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Sono, non per nulla, gli autori dai quali Erasmo ricava molti dei suoi adagia, come egli stesso scrive nella prefazione alla prima stampa della raccolta, dove l’elenco comprende Plauto, Terenzio, Varrone, Catullo, Orazio, Marziale, Persio, Ausonio, Plinio il Vecchio, Gellio, Macrobio, Donato, Gerolamo, e i “moderni” Pico, Barbaro e Poliziano.

2. Erasmo e l’anticiceronianesimo italiano

Nella sopra citata lettera a Haio Herman, Erasmo, all’autodifesa dal-le accuse mossegli per la fretta con cui scrive e stampa, collega diretta-mente la polemica contro chi biasima la sua scarsa purezza stilistica, ossia, in sostanza, la sua scarsa “ortodossia” ciceroniana:

De stili formula nunquam fui superstitiose sollicitus. Sat est si utcunque, non spurce loquens, intelligor.34 Quam vero veterem Latini sermonis formulam in me desiderant, quum inter veteres scriptores tam multa sint phraseos discrimi-na? Quid convenit Senecae cum Quintiliano? quid Quintiliano cum Cicero-ne? quid Valerio Maximo cum Salustio? quid Livio cum Quinto Curtio? quid Ovidio cum Horatio? Non obsto quo minus alii mirentur dictionem Pontani; ego praeter orationis non inamoenum fluxum et verborum tinnitum, nihil in illo magnopere suspicio. Marullus mihi videtur nihil aliud sonare quam paga-nismus. Et ob hoc ipsum fortassis istis gratior est Marullus quam Mantuanus. Oderunt Christi nomen: quod nostra barbaries utinam perinde synceriter ac vehementer amplecteretur! Verum quid haec ad rem? Ut palatorum, ita inge-niorum sempre fuere diversa iudicia, nec ideo non cuique libera.35

Ciò conferma, una volta di piú, come dietro la testa di turco del cicero-nianesimo si nascondano, per l’umanista di Rotterdam, nodi ben piú rilevanti di una semplice questione linguistica e stilistica. In gioco c’era-

34. Allo stesso modo, in un importante scritto contiguo al Ciceronianus come la prefa-zione alla seconda edizione senechiana (1529), Erasmo, dopo aver proclamato la grande utilità – anche per i cristiani – degli scritti del filosofo di Cordova, replica alle critiche mossegli da Quintiliano in fatto di stile osservando che, se un pensiero è eccellente, poco importa come venga espresso: « Quod quum sit optimum, quid refert qua phrasi id effi-cias? » (EE, viii p. 33).

35. EE, v pp. 518-19. Ma fin dalla prima stesura del già citato Herculei labores possiamo trovare considerazioni di questo genere, accompagnate ancora dalla polemica anticicero-niana (Adagia, iii, pars prior, in ASD, ii.5, pp. 35-36).

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no tre questioni fondamentali: la difesa di una concezione “pedago gi-ca” e “utilitaristica” della letteratura, contro l’edonismo formalistico di tanto umanesimo sia ciceroniano che apuleiano (indicative, al riguar -do, le parole appena lette relative al Pontano);36 la connessa aspirazione a un’eloquenza “cristiana” che eviti i rischi di neo-paganesimo insiti in una troppo pedissequa osservanza classicheggiante; il rifiuto dell’ideo-logia curiale che faceva del latino (e in ispecie di quello ciceroniano) lo strumento espressivo e il simbolo stesso del potere pontificio e dell’au-torità anche temporale della Chiesa, intesa quale erede dell’impero ro-mano.37

Nel Ciceronianus le tre tematiche si intrecciano e si sovrappongono, e in ciascuna di esse giocano un ruolo decisivo gli umori e gli interessi personali di Erasmo, che si intrecciano di continuo alle spinte ideali, so-stanziandole di una tutta passionale concretezza autobiografica. Basti vedere come, nella lettera a Haio Herman, si trapassi in modo del tutto naturale dall’auto-apologia alla chiara, lapidaria enunciazione dei fon-damenti dell’anticiceronianesimo erasmiano: la varietà stilistica dei mag-giori autori latini; lo strisciante paganesimo che si nasconde dietro il cul-to fanatico di Cicerone e in genere dell’antico; la diversità delle nature e dei gusti degli individui, cui non può essere imposta un’unica e me-desima “regola” di espressione e di vita.

In quelle poche righe epistolari c’è già in nuce tutto il Ciceronianus, che in effetti, nella sua essenza, poco aggiunge di nuovo rispetto alle posizioni enunciate da Erasmo su quegli argomenti negli anni e nelle opere precedenti, perché intimamente anticiceroniano Erasmo lo era

36. Sul Pontano, Erasmo si pronuncia negativamente piú volte, nel Ciceronianus e al-trove (vd. infra, n. 70). In particolare, nel dialogo torna la riduzione della poesia pontania-na a un mero « vocum tinnitus » (par. 1479: « verborum dulce quiddam resonantium amae-no tinnitu demulcet aures »), espressione che nell’ “adagio” Herculei labores era stata impie-gata a proposito dello stile dei ciceroniani (Adagia, iii, pars prior, in ASD, ii.5, pp. 35-36); e si sostiene inoltre che nei suoi trattati morali il Pontano affronta temi quali la fortezza, l’ubbidienza e lo splendore in modo tale « ut aegre possis agnoscere christianus fuerit necne » (par. 1482).

37. Su quest’ultimo aspetto hanno insistito in particolare J.F. D’Amico, Renaissance Humanism in Papal Rome: Humanists and Churchmen on the Eve of the Reformation, Baltimore, The Johns Hopkins Univ. Press, 1983, pp. 115-43; e L. D’Ascia, Erasmo e l’umanesimo roma­no, Firenze, Olschki, 1991, soprattutto alle pp. 173-207.

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stato sempre.38 Tuttavia, i temi centrali del Ciceronianus già ricorreva-no, in buona parte, anche nella cultura classica e, soprattutto, in quel-la umanistica italiana fra Tre e Quattrocento. Se le ascendenze classiche sono state ampiamente indagate (in primis per quanto riguarda l’ecletti-smo in materia di imitazione, che trova le sue radici in Seneca e soprat-tutto in Quintiliano; e la nozione di aptum, elaborata dal medesimo Quin-tiliano e da Cicerone nell’Orator),39 quelle umanistiche meritano forse un ulteriore approfondimento. In termini generali, Erasmo poteva de-durre i lineamenti fondamentali dell’anticiceronianesimo dalle tre gran-di polemiche umanistiche sull’argomento:40 quelle tra Poliziano e Cor-tesi, tra Poliziano e Scala, e tra Giovan Francesco Pico e Pietro Bembo, cui si deve aggiungere anche il duro scontro tra Poggio Bracciolini e Lo-renzo Valla, il quale nei primi due Antidota in Pogium (1452-1453) nega con forza di aver voluto, nelle Elegantiae, ergersi a detrattore della lingua di Cicerone, e accusa Poggio di essere lui, col suo presunto e approssima-tivo ciceronianesimo, l’autentico vituperatore dell’Arpinate.41

Oltre a quanto abbiamo già avuto modo di osservare in merito alla disputa fra il Poliziano e lo Scala, va detto che nella sua prima epistola al cancelliere (dove, contro chi ritiene degno di imitazione il solo Cice-rone, egli si chiede perché mai dovrebbero essere rigettati come « bar-bari » Livio, Sallustio, Quintiliano, Seneca, i due Plinii e « multos alios

38. Anche se nel Ciceronianus il suo alter ego Buleforo afferma di essere stato in passato affetto dal morbo del ciceronianesimo, e di esserne guarito in virtú del piú efficace dei medici, la ragione (parr. 1039-51).

39. Vd. infra, p. 244 e n. 49. Per Seneca vd. Epist. ad Luc., lxxxiv; per Quintiliano, x 2 21-23 e xi 1 1-15.

40. Cfr. D’Ascia, Erasmo e l’umanesimo romano, cit., pp. 111-39, con la precisazione di Fera, Dionisotti e il ciceronianesimo, cit., p. xii: « Erasmo si inseriva nella quaestio prescinden-do dalla drammatica situazione linguistica della penisola e senza interrogarsi su cosa in realtà si celasse dietro lo scontro di quaranta anni prima tra i due [scil. Poliziano e Cortesi] sul terreno di Cicerone; ormai l’umanesimo era sganciato dalla realtà italiana e dietro Cicerone si profilavano altri nodi di un dibattito anche piú drammatico e lacerante: l’or-todossia, il rinnovamento religioso, la nuova pedagogia destinata a formare l’uomo mo-derno ».

41. Vd. in particolare il primo Antidotum, in Laurentii Vallae Opera, Basileae, Hen-ricus Petri, 1540 (rist. anast. Torino, Bottega d’Erasmo, 1962, con una premessa di E. Ga-rin, vol. i), pp. 259-63.

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praeterea tot saeculorum suffragiis comprobatos ») l’Ambrogini enun-ciava con chiarezza la teoria dell’apte dicere:

Fateor tamen rationem habendam vel materiae quam scribas, vel personae ad quam scribas, vel temporis in quo scribas. Non enim idem Ciceronis actiones et Apulei Millesias fabellas decuerit. Alia enim quasi lingua qua ludimus, alia qua seria peragimus, nec eodem sermone puerum quo doctum hominem ad-loquaris, nec rursus eodem modo ad amicos quo ad ignotos, nec eodem ad principes quo ad privatos scribas. Quare Cicero quoque tuus, fortasse autem et meus, ita sibi dissimilis aliquando deprehenditur, ut non omnia perinde quae scribit eiusdem prorsus esse auctoris videantur.42

Nella medesima lettera, Poliziano dichiarava inoltre lecito il ricorso agli « ascita nimium verba et remota » (come il ferruminator biasimato dallo Scala): infatti, in una lingua ormai puramente letteraria quale è il latino, il richiamo all’usus dei parlanti è fuori luogo, e niente vieta per-tanto di impiegare parole rare e obsolete, desunte da ogni area cronolo-gica e tematica della latinità, purché attestate in buoni autori.43 Una po-sizione, questa, condivisa in toto da Erasmo, che la fa sua in vari scritti, compreso il Ciceronianus:

Ab istis vero velut a peste cavendum, qui clamitant esse nefas uti voce quae non reperiatur in libris Tullianis: posteaquam enim ius Latini sermonis desiit esse penes vulgarem consuetudinem, quicquid vocabulorum deprehenditur apud idoneos scriptores usurpemus nostro iure, quum opus est, et si durius obsole-tumque videtur, quod a paucis sit usitatum, nos in lucem proferamus crebra-que ac tempestiva usurpatione molliamus. Quae tandem invidia sit, cum ve-teres Graecorum voces mutuo sumpserint, quoties Latinae vel deerant vel mi-nus significantes habebantur, nos, ubi res postulat, a dictionibus quas apud pro-bos auctores comperimus temperare? (parr. 1615-16).44

42. Poliziano, Liber epistolarum, cit., v 1, f. f4r. Non meraviglia che l’Ambrogini appa-risse ad Erasmo maestro sommo di stile epistolare: cfr. ad es. De conscribendis epistolis, in ASD, i.2, p. 226; Ciceronianus, par. 1595; De pueris statim ac liberaliter instituendis, ed. J.-C. Margolin, in ASD, i.2, p. 76.

43. Su questo punto vd. S. Rizzo, Il latino nell’Umanesimo, in Letteratura italiana, dir. A. Asor Rosa, vol. v. Le questioni, Torino, Einaudi, 1986, pp. 379-408, alle pp. 385-86.

44. E vd. i parr. 794-807. Per simili idee in altre opere erasmiane cfr. il De copia (in ASD, i.6, pp. 40 e 68), il De conscribendis epistolis (ivi, i.2, pp. 218-19) e il De recta pronuntiatione (ivi, i.4, pp. 34 e 99-100).

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Ben nota a Erasmo era anche la polemica fra Poliziano e Cortesi (1489-’90), riassunta con larghezza nel Ciceronianus.45 Nella breve ma densa let-tera polizianesca, l’Olandese poteva trovare vigorosamente ribadite la piena valorizzazione delle specifiche qualità individuali; l’idea dello sti-le come creazione personale, prodotta e quasi “fermentata” da « recondi-ta eruditio, multiplex lectio, longissimus usus »; l’esortazione a cammi-nare con le proprie gambe e a nuotare senza salvagente, anziché preoc-cuparsi di seguire strade da altri tracciate e di andare mendicando paro-le e iuncturae dai libri degli autori; insomma, l’invito deciso a mettere da parte il feticismo ciceroniano, la « sollicitudinem […] illam morosam ni-mis et anxiam […] effingendi tantummodo Ciceronem », esau rendo in essa tutte le proprie forze e capacità.46 Spunti presenti anche in un altro scritto polemico dell’Ambrogini conosciuto e utilizzato dall’Olandese nel Ciceronianus, ossia la praelectio al suo primo corso universitario (1480), la Oratio super Fabio Quintiliano et Statii Silvis, in cui viene rivendicata con forza la pari dignità culturale e scolastica degli autori “non canonici”, e viene al tempo stesso riproposta, con le consuete argomentazioni, la li-nea eclettica in materia di imitazione.47

Ma è soprattutto la disputa tra Giovan Francesco Pico e Bembo (1512-’13) che lascia le maggiori tracce in Erasmo. Pico, infatti, pone alla base del suo anticiceronianesimo un’argomentata teoria filosofica fon-data sulla singolarità irripetibile di ogni umano carattere,48 dalla quale

45. Ai parr. 1579-97. 46. In Prosatori latini del Quattrocento, a cura di E. Garin, Milano-Napoli, Ricciardi,

1952, pp. 902-4. E cfr. da ultimo Fera, Il problema dell’ “imitatio”, cit.47. Cfr. il mio Le prolusioni accademiche di Angelo Poliziano, in Umanesimo e università in

Toscana (1300-1600). Atti del Convegno internazionale di Fiesole-Firenze, 25-26 maggio 2011, a cura di S.U. Baldassarri, F. Ricciardelli, E. Spagnesi, Firenze, Le Lettere, 2012, pp. 275-304, alle pp. 286-88.

48. « [Homo] proprium tamen et congenitum instinctum et propensionem animi nac-tus est ab ipso ortu, quam frangere et aliorsum vertere est ipsam plane violare naturam »: cosí nella prima lettera di Pico (19 settembre 1512), cui fece seguito la replica di Bembo (gennaio 1513) e la finale contro-replica di Pico (non datata). Cito da Le epistole “de imita­tione”, cit., p. 27. Vd. da ultimo V. De Caprio, L’epistola ‘De imitatione’ di Pietro Bembo e la tradizione curiale, in Leone X. Finanza, mecenatismo, cultura. Atti del Convegno di Roma, 2-4 novembre 2015, a cura di F. Cantatore et alii, 2 voll., Roma, Roma nel Rinascimento, 2016, i pp. 21-44.

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derivano l’impossibilità e l’assurdità di ogni sforzo teso a imitare o ri-produrre un solo modello. Ciò era ben chiaro agli antichi, che per que-sto, a suo avviso, rifuggivano dalla vera e propria “imitazione”:

Carpebant ex unoquoque quantum satis esse videbatur ad phrasim vel consti-tuendam, vel ornandam, quae tamen essent vel propria cognata naturae, vel accommoda materiae quae tractaretur; […] imitationem in illis nihilominus vel nullam, vel certe parvam es deprehensurus: genium propensionemque na-turae eorum quisque sequebatur.49

Parole, come si vede, che fanno posto anche alla nozione di aptum e di decorum (« accommoda materiae quae tractaretur »), presentandola, co-me avviene in Erasmo, alla stregua di un corollario della molteplicità infinita delle nature individuali. Affinità ancora maggiori il Ciceronianus rivela però con il terzo e ultimo testo della disputa, la contro-replica pi-chiana, dove troviamo, fra l’altro, la descrizione di un patologico “cice-roniano” che anticipa quella di Nosopono:

Ac memini olim me hospitio ad multos menses quendam excepisse virum doctum alioqui, nec malorum ut videbatur morum; sed tanta in effingendo Cicerone cura, ne insaniam dixerim, laborabat, ut semetipse dum quod vole-bat omnino non posset assequi, pene cruciaret: quapropter saepe quae compo-suerat dum recitaret, ut qui se filium esse non nosset, exclamabat identidem repetebatque « Audite simiam Ciceronis! ».50

Ed erasmiane ante litteram sono, in questa medesima epistola, l’idea che la vera imitazione ciceroniana non è quella che si ferma al lessico e alle formule, ma quella che scende nel profondo, riproducendo, dell’Arpi-nate, l’animo e lo spirito; e la consapevolezza che lo stesso Cicerone

49. Le epistole “de imitatione”, cit., p. 27; e nella contro-replica, ivi, p. 63: « nihilo tamen minus genium invertendum non esse penitus admonebam, sed dirigendum esse filum orationis ad cognatam animi propensionem ideamque dicendi ». Cfr. in merito Cic., Orat., 70-74, in partic. 70 (« Ut enim in vita sic in oratione nihil est difficilius quam quid deceat videre. Πρέπον appellant hoc Graeci, nos dicamus sane decorum. […] est autem quid deceat oratori videndum non in sententiis solum sed etiam in verbis »); e anche De orat., iii 210: « id quidem perspicuum est, non omni causae neque auditori neque personae neque tempori congruere orationis unun genus » (nonché Quint., x 2 21-23; xi 1 1-15).

50. Le epistole “de imitatione”, cit., p. 71.

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padroneggiava e alternava registri stilistici diversi, impiegandoli a se-conda delle circostanze e delle materie, per cui abbiamo un Cicerone nelle orazioni (rivolte al popolo), un altro nelle opere filosofiche (scrit-te per i dotti) e un altro ancora nelle epistole, dove lo stile muta di con-tinuo in base allo stato d’animo, all’argomento e al destinatario.51 Ana-logamente, entrambi gli umanisti negano con forza che l’eclettismo da loro propugnato consista nell’attingere senza criterio qua e là, e si iden-tifichi dunque con un mero procedimento centonario:

neque etiam volo ut ex hoc et ex illo quicquam decerpat, ut ex modis loquendi dissimilibus, ita orationem tanquam ex diversis pannis centonem consuat, sed ut conflentur omnia exque iis ipsis tua propria phrasis, quae nulla sit eorum, praeclara illa tamen et digna laude coalescat, atque ita instar apum diversis ex floribus non ipsos exprimes flores, sed dulcissimum illud aut Hymetium, aut Hybleum mel coagmentatum (G.F. Pico).52

Rursus imitationem probo non uni addictam praescripto, a cuius lineis non ausit discedere, sed ex omnibus autoribus aut certe praestantissimis quod in quoque praecellit maxime tuoque congruit ingenio decerpentem, nec statim attexentem orationi quicquid occurrit bellum, sed in ipsum animum velut in stomachum traiicientem ut transfusum in venas ex ingenio tuo natum, non aliunde emendicatum esse videatur, ac mentis naturaeque tuae vigorem et in-dolem spiret, ut qui legit non agnoscat emblema Ciceroni detractum, sed foe-tum e tuo natum cerebro, quemadmodum Palladem aiunt e cerebro Iovis vi-vam parentis imaginem referentem, nec oratio tua cento quispiam videatur aut opus musaicum, sed spirans imago tui pectoris, aut amnis e fonte cordis tui pro-manans (Ciceronianus, par. 1543).53

51. Ivi, p. 72.52. Ivi, p. 69.53. E vd. anche p. 84. Alla topica metafora del miele (peraltro ripresa in un altro luogo

del Ciceronianus, par. 964: « Apes num ex uno frutice colligunt mellificii materiam, an potius ad omnes florum, herbarum, fruticum species mira sedulitate circumvolant, fre-quenter e longinquo petentes quod condant in alvearia? »), Erasmo sostituisce qui quel-le non meno consuete della digestione dei cibi (già proposta in precedenza, par. 962) e della somiglianza tra padre e figlio. Mette conto osservare che per Erasmo il vero “cen-tonatore” non è l’eclettico, ma proprio il ciceroniano, e in generale l’ “imitatore”, che costruisce a tavolino i suoi scritti con frammenti ricavati da altri testi (parr. 491-93). Che le idee espresse nel Ciceronianus siano affini per molti aspetti a quelle di Giovan Francesco Pico fu sottolineato già da R. Sabbadini, Storia del ciceronianismo e di altre questioni letterarie

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Siamo davvero sulla stessa linea del dialogo di Erasmo: non a caso, l’ul-tima lettera pichiana si chiude nel segno della medesima triade umani-stica “anticiceroniana” (Ermolao Barbaro, Giovanni Pico, Angelo Poli-ziano, con l’aggiunta di Teodoro Gaza, apprezzatissimo però anche dal-l’Olandese), che anche per Giovan Francesco comprende i migliori scrit-tori contemporanei.

È vero che Erasmo menziona la disputa Pico-Bembo solo a partire dalla terza edizione del Ciceronianus (ottobre 1529), e che nella lettera a Vlatten del 24 gennaio 1529, pubblicata in calce alla seconda edizione, afferma di esserne venuto a conoscenza solo molto tempo dopo la pri-ma pubblicazione del dialogo;54 né può negarsi che, essendo le argo-mentazioni di Giovan Francesco intessute di « motivi generici in difesa dell’eclettismo »,55 le analogie fra le sue due epistole al Bembo e il dia-logo erasmiano possono ricondursi in buona parte alle comuni ascen-denze culturali e letterarie. Nondimeno, su alcune questioni la dipen-denza di Erasmo da Pico sembra piú diretta, e l’umanista di Rotterdam potrebbe averla a bella posta occultata sia al fine di far meglio risaltare la forza e la peculiarità della propria posizione, sia allo scopo di non urtare il Bembo, che egli astutamente, nel dialogo, sgancia dal novero dei ciceroniani “estremisti”, ascrivendolo – col Sadoleto – a quello dei ciceroniani “moderati” e presentandolo quindi come un suo alleato.56

Una simile ipotesi è resa plausibile da due elementi: il fatto che le tre epistole di cui consta la disputa fossero state edite proprio da Froben a Basilea nel 1518, e che per questo fin dal 1519 esse risultino note nell’am-

nell’età della Rinascenza, Torino, Loescher, 1885, p. 63, e da M. Pomilio, Una fonte italiana del ‘Ciceronianus’ di Erasmo, in « Giornale Italiano di Filologia », viii 1955, pp. 193-207.

54. La lettera è anche in EE, viii pp. 17-21.55. D’Ascia, Erasmo e l’umanesimo romano, cit., p. 139. 56. Cosí anche nella tarda Responsio ad Petri Cursii defensionem (1535), in Desiderii Era-

smi Opera omnia, studio et opera J. Clerici, 10 voll., Lugduni Batavorum [Leiden], Pieter van der Aa, 1703-1706 [rist. anast. Hildesheim, Olms, 1961-1962], vol. x coll. 972-1026, alla col. 1751. Calde lodi del Bembo (e di altri italiani favorevoli a Erasmo, quali Giovan Bat-tista Egnazio, Andrea Alciato e Jacopo Ceratino) si leggono anche nell’epistola a Karel Uutenhove del 1° settembre 1529, non a caso aggiunta in appendice nella terza edizione del Ciceronianus (ottobre 1529): vd. la mia Nota al testo nella cit. ed. Bausi-Canfora del Ciceronianus, p. 62.

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biente “erasmiano” dell’Alto Reno;57 e il modo singolare in cui della disputa lo stesso Erasmo tratta nella appena citata lettera al Vlatten del gennaio 1529. Lí, infatti, Erasmo passa sotto silenzio le tesi di Pico, de-scrivendo la propria posizione come piú vicina a quella, in realtà inte-gralmente ciceroniana, del Bembo: quest’ultimo, a suo avviso, parla però solo degli ingegni singolarmente felici, e invita sí a imitare Cicero-ne, anzi a emularlo, ma senza distogliere dalla lettura di tutti i buoni autori, cosicché non può considerarsi un idolatra dell’Arpinate e dun-que deve essere escluso dalla schiera di coloro contro i quali il dialogo è rivolto.58 Una vera e propria acrobazia argomentativa, questa, che in mo-do assai sospetto pare escogitata per minimizzare l’accordo sostanziale delle tesi esposte nel Ciceronianus con quelle di Giovan Francesco, evi-tando cosí di far esplicitamente emergere l’effettiva lontananza di Era-smo dalle teorie bembiane de imitatione e di inimicarsi l’influente uma-nista veneziano.

Una prova a mio avviso decisiva è costituita dai parr. 416 e 420 del dialogo, dove Buleforo si sofferma su quei ciceroniani che imitano, del loro modello, anche gli errori sfuggiti alla sua penna e persino quelli introdotti dai copisti:

Quid, quod Ciceronem habemus non modo truncum ac lacerum, verum etiam ita depravatum, ut si revivisceret ipse, opinor, nec agnosceret sua scripta nec restituere posset, quae librariorum ac semidoctorum audacia incuria insci-tiaque corrupta sunt […]? […] Proinde si devotis animis nos unius Ciceronis imitationi dediderimus, citra delectum expressuri quicquid apud illum com-pererimus, nonne nosmet in summum coniecerimus discrimen, ne quum diu multumque nos ipsos torserimus, tandem Gotticas voces aut Teutonum soloe-cismos pro ciceronianis flosculis amplectamur aemulemurque?

Considerazioni identiche, queste, a quelle di Giovan Francesco Pico nella sua prima epistola al Bembo:

Ab iis non dissimiles, quibus magna est cura, ut rara quaepiam vocabula, quae

57. G. Santangelo, Introduzione a Le epistole “de imitatione”, cit., pp. 1-19, alle pp. 9-10 e 16-18; D’Ascia, Erasmo e l’umanesimo romano, cit., pp. 138-39.

58. Questa tesi si trova, attribuita a Nosopono, anche nel Ciceronianus (par. 647), in un passo, non a caso, aggiunto nella seconda stampa del dialogo (marzo 1529), in appendice alla quale Erasmo accluse la lettera al Vlatten datata 24 gennaio 1529.

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forte aut Ciceroni exciderunt multa scribenti, aut vitio temporum fuere in eius libros introducta, adeo ut si ab inferis excitaretur, a se prompta negaret, gestien-tes surripiant.59

Non solo: secondo Pico, questi imitatori pedissequi di Cicerone non differiscono dai pittori che, nel ritrarre un uomo, si soffermano sui det-tagli piú insignificanti o ripugnanti, anziché concentrarsi sull’aspetto fi-sico e sulla fisionomia complessiva della persona: « Sunt enim qui ne-vos, qui cicatrices, qui maciem, qui excrementa etiam effingere velint, vel nulla vel minima ratione habita et lacertorum, et vividi roboris, et gratiae ».60 Identico paragone viene proposto nel Ciceronianus, quando, per confermare questo assunto di Buleforo: « Si nostrum simulachrum, quo M. Tullium effingimus, careat vita, actu, affectu, nervis et ossibus, quid erit imitationis nostra frigidius? Sed multo magis erit ridiculum, si tuberibus, nervis, cicatricibus aliave membri deformitate demum effi-ciamus, ut lector agnoscat nos legisse Ciceronem » (parr. 578-79), Ipolo-go riferisce di quel pittore che, incaricato di dipingere il ritratto del loro comune amico Murio, si perse nel tentativo di tener dietro ai particola-ri piú minuti (cicatrici, bitorzoli, peli) e alle piccole trasformazioni che col tempo interessarono certi dettagli (barba, berretto, colore della pel-le, capelli, ecc.: parr. 580-89).

In effetti, Erasmo e in ispecie il Ciceronianus denunciano a chiare let-tere i loro debiti nei confronti dell’umanesimo italiano, sotto moltepli-ci punti di vista, a cominciare dall’eclettismo stilistico, che è connotato distintivo della cultura umanistica quattrocentesca. La linea erasmia-na, certamente, è quella anticiceroniana, che potremmo riassumere nei nomi di Alberti,61 Valla, Poliziano, Ermolao Barbaro, Teodoro Gaza e Giovanni Pico; ma è tutto l’umanesimo, fin da Petrarca, ad essere eclet-tico « per tradizione e per vocazione », con rare eccezioni che comun-

59. Le epistole “de imitatione”, cit., pp. 29-30.60. Ivi, p. 29.61. Basti ricordare il proemio al settimo libro delle Intercenali, dove, fondandosi su

Quintiliano, Alberti polemizza coi ciceroniani, e attribuisce la palma dello stile migliore agli scrittori che possiedono la rara capacità di « dicere apte et eloquenter » (L.B. Alberti, Intercenales, a cura di F. Bacchelli e L. D’Ascia, premessa di A. Tenenti, Bologna, Pen-dragon, 2003, p. 450).

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que non sono in alcun modo riconducibili a una “ideologia” ciceronia-na paragonabile a quella del secolo successivo.62 A questa stessa cultura, non a caso, fa capo – sempre in un’ottica tendenzialmente antinorma-tiva – il grande motivo dell’individualismo, che, centrale già nel Petrar-ca, ispirò la grande fioritura pedagogica del Quattrocento ita liano, vera e propria humus della libera, non violenta e non costrittiva pe dagogia era-smiana.63

Particolarmente congeniale ad Erasmo è l’umanesimo “sperimen ta-le”, erudito e filologico di fine secolo, non solo per le già discusse ra-gioni di stile e di generi, ma anche per la sua onnivora disponibilità ad avventurarsi nei territori piú diversi del sapere, spesso al di fuori degli àmbiti strettamente letterari, e anzi con una spiccata attenzione verso discipline immerse nella “realtà” del mondo naturale, della vita pratica, delle relazioni umane e sociali. Una cultura, di conseguenza, refrattaria a qualunque “purismo” linguistico come a ogni vuoto “formalismo” letterario. Da questo punto di vista, un ruolo importante riveste il mo-dello di Giovanni Pico della Mirandola, nella fattispecie il Pico della grande epistola de genere dicendi philosophorum indirizzata a Ermolao Bar-baro il 3 giugno 1485.64 In quella lettera, nota a Erasmo fin dalla gio vi-nezza,65 si possono rintracciare – espresse con uno stile brillante, con

62. Fera, Dionisotti e il ciceronianesimo, cit., p. xix. Per un’essenziale storia del dibattito italiano ed europeo sul ciceronianesimo da Petrarca al ’500, oltre al classico Sabbadini, Storia del ciceronianismo, cit., e a A. Gambaro, Il ‘Ciceronianus’ di Erasmo, introduzione a Era-smo da Rotterdam, Il Ciceroniano o dello stile migliore, testo latino critico, trad. italiana, pref., intr. e note a cura di A. Gambaro, Brescia, La Scuola, 1965, pp. ix-cxii, alle pp. xxxii-xlix, rimando a Fumaroli, L’età dell’eloquenza, cit., pp. 67-115, a D’Ascia, Erasmo e l’uma­nesimo romano, cit., pp. 105-59, e a F. Tateo, Ciceronianismus, in Historisches Wörterbuch der Rhetorik, hrsg. von G. Ueding, ii, Tübingen, De Gruyter, 1994, pp. 225-39; per il XV e il XVI secolo cfr. F. Bausi, Poésie et imitation au Quattrocento, e P. Galand-Hallyn - L. Deitz, Poésie et imitation au XVIe siècle, in Poétiques de la Renaissance. Le modéle italien, le monde franco-bourguignon et leur héritage en France au XVIe siècle, sous la direction de P. Galand-Hallyn et F. Hallyn, Genève, Droz, 2001, risp. pp. 438-62 e 462-88.

63. L. D’Ascia, Introduzione a Erasmo da Rotterdam, Per una libera educazione, a cura di L.D’A., Milano, Rizzoli, 2004, pp. 5-26.

64. Cfr., anche per l’edizione del testo, E. Barbaro-G. Pico della Mirandola, Filo­sofia o eloquenza?, a cura di F. Bausi, Napoli, Liguori, 1998, pp. 36-65.

65. Cfr. S. Seidel Menchi, Alcuni atteggiamenti della cultura italiana di fronte a Erasmo (1520-1536), in Eresia e riforma nell’Italia del Cinquecento. Miscellanea i, Firenze-Chicago, San-

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una ricchezza di erudizione e con un gusto del paradosso e del “rove-sciamento” che certo piacquero all’Olandese – molte delle idee poi sviluppate nel Ciceronianus: la superiorità sostanziale dei moderni sugli antichi, cui era sconosciuta la vera fede; la maggiore importanza del “contenuto” rispetto alla forma (cosicché, dice il filosofo “barbaro” cui Pico finge di affidare la propria autodifesa, Giovanni Scoto, rozzo ma cristiano, è decisamente da anteporre all’elegante ma empio Lucrezio); e una teoria dell’aptum assai vicina a quella del nostro dialogo.

Pico, infatti, sostiene che quando si trattano questioni della massima profondità ed importanza (come sono quelle della filosofia, della scien-za naturale, della logica, della teologia) la raffinatezza e gli ornamenti dello stile sono non soltanto superflui, ma dannosi, perché inopportuni e inadatti:

Est ob hanc causam legere res sacras rustice potius quam eleganter scriptas, quod nihil sit magis dedecens et noxium in omni materia, in qua de vero co-gnoscendo agitur, quam universum istud dicendi genus elaboratum. Hoc fo-rensium est quaestionum, non naturalium atque caelestium; non est eorum qui in Academia, sed qui in republica illa versantur, in qua quae fiunt quaeque dicuntur populari trutina examinantur, apud quam flores fructibus longe prae-ponderant. Nonne scis illud? « Non omnia omnibus pari filo conveniunt ». Est elegans res (fatemur hoc) facundia plena illecebrae et voluptatis, sed in philo-sopho nec decora, nec grata. […] Non ergo nos, sed illi inepti, qui ad pedes Ve-stae agunt bacchanalia, qui gravitatem philosophicarum rerum et castitatem ludicris veluti et calamistris dehonestent.66

Inepti vale, etimologicamente, ‘non apti’, e in questo senso il termine ri corre spesso in Erasmo, il quale da parte sua, nel Ciceronianus, altro non fa se non riprendere e sviluppare a piú riprese simili considerazioni:

Qua igitur fronte nos exigimus a Christiano ciceronianam eloquentiam, hoc est et inimitabilem et quam ethnici viro gravi vix decoram existimarunt? (par. 1021).

soni, The Newberry Library, 1974, pp. 71-133, alle pp. 86-89, dove viene ricondotto all’e-pistola pichiana anche il tema tipicamente erasmiano del “sileno”.

66. In Barbaro-Pico, Filosofia o eloquenza?, cit., p. 42. Da questa epistola Erasmo ricava anche (parr. 670 e 673-75) il paragone con le diverse acconciature e i diversi abiti che si addicono alle diverse circostanze e alle diverse persone.

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Atque haud scio utrum sit magis reprehendendum si christianus prophana tractet prophane, christianum se esse dissimulans, an si materias christianas tractet paganice, siquidem Christi mysteria non solum erudite, verum etiam religiose tractanda sunt. Nec satis est temporaria delectatiuncula delinire lec-toris animum: excitandi sunt affectus Deo digni. […] Quale porro sit, materiam piam ob hoc ipsum putere nobis, quod pie tractata sit? At pie tractari qui potest, si nunquam dimoveas oculos a Virgiliis, Horatiis ac Nasonibus? (parr. 1497-98, 1500-1).

Minus, opinor, convenit Musis, Apollini reliquisque diis poeticis cum Chri s-tianae pietatis mysteriis, quam serpentibus cum avibus aut tigribus cum agnis, praesertim in argumento serio. Alioqui, si quid obiter per iocum aspergatur ex veterum fabulis, ferendum arbitror magis quam probandum; oportebat enim omnem Christianorum orationem resipere Christum, sine quo nec suave nec splendidum est quicquam, nec utile nec honestum, nec elegans nec facundum nec eruditum. Liceat sane praeludere ad seria pueris; in veris, in seriis, quodque gravius est, in piis materiis quis ferat ista paganica progymnasmata? (parr. 1512-14).

Sul tronco di questa tesi si innesta poi – come appare evidente già nel-l’ultimo passo, estrapolato da un ampio brano in cui si biasima la troppo classicheggiante poesia cristiana coeva – un rigorismo che potremmo definire in senso lato “savonaroliano”, e che in realtà è il contrassegno di una linea assai forte dell’umanesimo italiano quattrocentesco, da Gio-vanni Dominici ad Antonino Pierozzi, da Ugolino Verino allo stesso Giovanni Pico: la linea di quanti, religiosi o laici, rifiutavano il travesti-mento paganeggiante e mitologico della materia sacra, giudicando in-trinsecamente “pagani” gli ornamenti della retorica antica, e critican-done l’uso da parte di poeti e letterati cristiani.67

Quando Erasmo (par. 1496) dichiara di preferire di gran lunga il bre-ve e semplice inno composto da Prudenzio per il Natale di Gesú all’in-tero De partu Virginis, cui rimprovera il pesante armamentario mitologi-co col quale il Sannazaro ha voluto rivestire il medesimo argomento, le sue parole non suonano diverse, neppure nei toni, da quelle scagliate da

67. Cfr. al riguardo due miei contributi: Poésie et religion au Quattrocento, in Poétiques de la Renaissance, cit., pp. 219-38 e 286-91; Gli umanisti e la Bibbia, in La Bibbia nella letteratura italiana, dir. P. Gibellini, v. Dal Medioevo al Rinascimento, a cura di G. Melli e M. Sipione, Brescia, Morcelliana, 2013, pp. 363-98.

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un Dominici o da un Savonarola contro la poesia latina a tema biblico dell’epoca loro; e da quella tradizione l’Olandese non si discosta neppu-re allorché, nel dialogo, mette in guardia contro i rischi insiti in un’edu-cazione che avvezza i fanciulli ad anteporre i lenocini della forma ai contenuti della fede e dell’etica, col rischio di inoculare nei giovani pe-ricolosi germi di paganesimo.68 Il Ciceronianus, in effetti, si caratterizza in primo luogo per il superamento del classicismo umanistico e di una idea prettamente “erudita” e “formalistica” della letteratura; supera-men to che si traduce anche – questa la specificità del dialogo rispetto al-le opere erasmiane precedenti – nel ridimensionamento dell’ammira-zione per l’umanesimo filologico del secondo ’400 italiano; in un mino-re entusiasmo per Cicerone uomo e letterato; nella battaglia contro le implicazioni a suo avviso paganeggianti del classicismo umanistico ita-liano, e ancor piú contro l’idea di Chiesa e di cristianesimo (monumen-tale e autoritaria) che questo classicismo piú o meno esplicitamente gli sembrava veicolare.

Tutto ciò dipende da una profonda trasformazione dell’idea e della funzione della cultura, nonché da ragioni “tattiche” che spingono l’ul-timo Erasmo a rivendicare con forza e con orgoglio l’importanza e il va-lore dell’umanesimo d’oltralpe (forse meno raffinato, ma piú “pragma-tico” e piú autenticamente cristiano),69 anche per non apparire troppo filo-italiano e filo-papale agli occhi dei luterani. L’entusiasmo da neo fita che gli Antibarbari (composti in due redazioni fra il 1488-’89 e il 1494-’95, ma editi solo nel 1520) esibivano nei confronti della tradizione umani-stica italiana – Valla in testa – giunge fino all’edizione aldina degli Ada­gia, ma va poi progressivamente attenuandosi per ragioni insieme bio-

68. Ciceronianus, par. 871: « per speciosi tituli [scil. ciceroniani] praetextum insidiae tenduntur simplicibus et ad fraudem idoneis adulescentibus », e par. 1621: « caeterum illud ante omnia providendum, ne simplex ac rudis aetas, ciceroniani cognominis prae-stigio decepta, pro Ciceroniana fiat pagana ». L’affinità di queste posizioni con quelle savonaroliane è segnalata già da A. Traina, La prima edizione e traduzione italiana del ‘Ci­ceronianus’ (1966), in Id., Poeti latini (e neolatini). Note e saggi filologici, ii, Bologna, Pàtron, 1981, pp. 185-95. Va detto peraltro che in un luogo precedente del dialogo (parr. 806-7) Erasmo sembra far sua una posizione piú sfumata, affermando di non convenire con quanti credono che adottare lo stile di Cicerone significhi deturpare la maestà della fi-losofia cristiana.

69. Cfr. Rico, Il sogno dell’Umanesimo, cit., pp. 86-88.

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grafiche e storiche: l’esperienza italiana (1506-1509) mette Erasmo di fronte all’incapacità di quella raffinatissima cultura di arginare la deca-denza morale, politica e religiosa della Chiesa e dell’intera penisola; e i sempre piú drammatici eventi europei degli anni successivi lo persua-dono della necessità di coltivare e propugnare un genere di letteratura che, lungi dall’appagarsi dell’eleganza stilistica, della vastità dell’eru-dizione e dell’ingegnosità dei procedimenti filologici, affronti con elo-quenza e passione argomenti di attualità e delicate questioni etiche o teologiche, attribuendo maggiore importanza alla quantità e alla larga e rapida diffusione di opere rivolte a un vasto pubblico che non alla la-boriosa perfezione formale di scritti destinati a pochi dotti.

È questo il fondamento “pratico” e “attuale” dell’anticiceronianesi-mo erasmiano: non a caso, nel Ciceronianus si insiste sul fatto che per trattare gli argomenti attinenti alla fede cristiana servono una lingua perspicua e uno stile chiaro, non inutili flosculi che rendono piú oscura una materia già di per sé ardua (parr. 778-80). Ciò è di essenziale im-portanza nei tempi presenti, in cui le dispute che devono essere porta-te avanti con gli eretici richiedono allo scrittore di esprimersi con la massima chiarezza, in modo da poter confutare gli errori dell’avver-sario e dare forza ai dogmi cristiani: cosa che, ad esempio, non riuscí al Longolio, il quale, discutendo con Lutero, pretese di utilizzare uno stile – come quello ciceroniano – incapace di aderire a tematiche del tutto ignote all’Arpinate e alla sua epoca (parr. 1570-76). Né cambia il discorso quando si affrontano – come in molti dei Colloquia, o ad esem-pio nel De pueris instituendis – importanti tematiche sociali, politiche e morali che presentano implicazioni e risvolti sconosciuti al mondo an-tico.

3. La setta dei ciceroniani

La composizione e la pubblicazione del Ciceronianus sono precedute da una sorta di preparazione diplomatica finalizzata alla ricerca di al-leanze trans-nazionali (dal francese Noël Béda agli italiani Bembo e Sa-doleto) in vista dell’attacco che Erasmo si appresta a sferrare, e da alcu-ne lettere che, fra 1526 e 1527, anticipano la materia e lo spirito del dialo-go. Queste epistole – in alcune delle quali si stigmatizza la nascita della

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nuova setta o fazione dei “ciceroniani”, che si affianca a quelle non meno pestifere dei luterani e dei nemici delle humanae litterae –70 con-sentono di ricostruire l’antefatto o, se si preferisce, la piattaforma psico-logica e culturale su cui sta per nascere il Ciceronianus. Appare con chia-rezza, intanto, la caratteristica e già evidenziata commistione di spinte ideali e motivazioni personali. Alcuni umanisti italiani hanno comin-ciato a criticare aspramente Erasmo per il suo stile latino, opponendogli quello ben altrimenti ciceroniano di Cristoforo Longolio e del Ponta-no; Erasmo reagisce con asprezza, convinto che simili accuse scaturi-scano al tempo stesso da miope nazionalismo italico, da insidiose incli-nazioni “paganeggianti” e da preconcetta diffidenza (e invidia) nei con-fronti di un letterato che, come lui, ad onta dei suoi barbari natali gode di un larghissimo successo europeo e viene ormai da molti considerato un maestro di vita, di spiritualità e di letteratura.

Gli attacchi, a dire il vero, non provenivano solo dall’Italia: ma sono questi che piú urtano l’umanista olandese, per quell’ambiguo atteggia-mento di amore-odio e attrazione-repulsione da lui sempre nutrito nei confronti della cultura italiana71 e per la comprensibile benché mai con-fessata aspirazione a veder riconosciuti i propri meriti nella patria del-l’Umanesimo. Questo complesso stato d’animo è ben espresso nella lun-ga lettera erasmiana al Maldonado del 30 marzo 1527, dalla quale traspa-iono quella sensazione di “assedio” e quella sorta di mania di persecu-zione che diventeranno ancora piú acute negli anni successivi alla pub-

70. Ricordo, fra le altre, la lettera a Philip Nicola del 29 aprile 1526, quella ad Andrea Alciato dei primi di maggio del 1526 (che fa posto anche a una sintetica, esaustiva e lucida enunciazione dei concetti di aptum e di decorum che saranno alla base del dialogo) e ancor piú quella, già menzionata, del 13 ottobre 1527 al Vergara, autentica sinopia dell’ormai imminente Ciceronianus, nella quale l’accento cade esplicitamente sul neo-paganesimo dei moderni imitatori dell’Arpinate, e dove ritorna anche la polemica contro gli ammi-ratori del Pontano, i quali « Pontanum in coelum tollunt laudibus, Augustinum et Hiero-nymum fastidiunt ». Cfr. nell’ordine EE, vi p. 329; vi p. 336; vii pp. 193-94.

71. Cfr. ad es. J.-C. Margolin, Pétrarque et Erasme, in Id., Erasme: le prix des mots et de l’homme, London, Variorum Reprints, 1986, pp. 184-97, a p. 197. Significativo quanto si legge nella Responsio ad Petri Cursii defensionem, cit., col. 1755, dove pure Erasmo si profon-de nelle lodi dell’umanesimo italiano: « iam fere quadragenarius Italiam adii, non discen-di (iam enim serum erat), sed videndi gratia; et utriusque litteraturae plus habebam in-grediens Italiam quam extuli, quamquam id omne fateor esse perquam exiguum ».

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blicazione del Ciceronianus.72 I nemici, sparsi in mezza Europa, sono i soliti: gli avversari degli studi letterari (gli « ἂμουσοι ac philobarbari » che lo hanno accusato di aver contaminato « fucis rhetoricis » il semplice stile di Gerolamo e di aver voluto correggere il Nuovo Testamento); i seguaci di Lutero; e naturalmente i ciceroniani. Erasmo rivendica i suoi meriti, che sono in prima istanza quelli di aver “cristianizzato” le lette-re, fino ad allora – a suo dire – imbevute di paganesimo.73 È grazie a lui che il mondo si è svegliato dal letargo: gli studi letterari sono risorti, i sofisti sono in rotta, i teologi sono stati ricondotti alla pura fonte delle Scritture e ai Padri.74 Una visione eroica di sé stesso e della propria atti-vità, questa, che sottostà anche al Ciceronianus, dove pure gioca un ruolo importante la difesa dell’umanesimo erasmiano ed europeo contro le pretese di eccellenza e lo snobismo degli italiani: non per nulla, nell’am-pio elenco dei letterati viventi che occupa la parte finale dell’opera, gli italiani sono in netta minoranza, appena una dozzina a fronte degli ol-tre cinquanta umanisti d’Oltralpe,75 i cui nomi, spesso poco o pochissi-mo noti, vengono elencati da Erasmo col puntiglio e la pietas di chi in-tende strapparli all’oblio (di alcuni, infatti, Erasmo ricorda con parole commosse la morte recente) e farli conoscere al piú largo pubblico dei dotti (benché egli debba ammettere, non di rado, che poco o nulla han-no pubblicato dei loro scritti), per mostrare come non solo in Italia al-berghi il culto delle humanae litterae.76

72. P. Mesnard, La bataille du ‘Ciceronianus’, in « Études », fasc. cccxxviii, février 1968, pp. 240-55. Per alcune delle reazioni suscitate dal dialogo in Italia e fuori cfr. Gambaro, Il ‘Ciceronianus’ di Erasmo, cit., pp. lxxxv-cviii, e B.I. Knott, Introductory Note to Erasmus, Ciceronianus, in Erasmus, Literary and Educational Writings, ed. C.R. Thompson, vol. vi, Toronto, Univ. of Toronto Press, 1986, pp. 324-36, alle pp. 330-32; delle prime dà conto lo stesso Erasmo già nella lettera al Vlatten del 24 gennaio 1529, donde emerge che ovvia-mente le polemiche piú aspre furono suscitate dall’elenco di umanisti incluso nella se-conda parte dell’opera.

73. EE, vii p. 16. Analogamente nella lettera al teologo francese Noël Béda del 15 giu-gno 1526 (ivi, vi p. 90).

74. Ivi, vii p. 19, lettera a Juan Maldonado.75. In maggioranza francesi, tedeschi, inglesi, olandesi, spagnoli e portoghesi, cui si

affiancano, in minor numero, svizzeri, pannoni, russi e danesi.76. Questa intenzione apologetica è confermata dagli scritti in prosa e in versi che –

opera di Erasmo stesso e di altri – seguono il Ciceronianus in tutte le stampe curate dall’au-tore, e che sono in prevalenza testi in lode e in memoria di umanisti d’Oltralpe (cfr. la mia

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In questa rivendicazione ha larga parte la condanna del paganesimo degli umanisti italiani e specialmente romani: una « sodalitas quaedam » cui appartiene uno sparuto gruppo di presuntuosi letterati « qui plus ha-bent literaturae quam pietatis ».77 Le accuse di paganesimo mosse ai ci-ceroniani da Erasmo sono certo enfatizzate ad arte e in buona misura pre testuose, ma riflettono la persuasione dell’umanista che il fulcro del cristianesimo piú autentico e insieme della cultura piú viva e moderna si sia spostato – grazie a lui, soprattutto, ma non solo a lui – nell’Europa settentrionale, con una translatio che ha capovolto i parametri tradizio-nali: per cui i “barbari” sono divenuti i piú civili, i piú letterati e i piú cristiani, e i non ciceroniani sono ormai i veri ciceroniani e pertanto i depositari del migliore stile latino, posto che “migliore” non significa ‘piú raffinato’, ma piú adeguato al nuovo contesto storico-sociale e, di conseguenza, piú efficace, piú aderente alla realtà, meglio capace di con-vincere, educare e ammaestrare uditori e lettori. Con grande abilità dia-lettica, l’Olandese, assegnando diverso e anzi opposto valore ai termini, li piega alla sua visione delle cose per ritorcere contro i suoi avversari le loro stesse accuse: cosicché, nell’ottica del ciceronianesimo “idea le” o “trascendentale” da lui propugnato, il non ciceroniano Erasmo può pre-sentarsi come il solo, vero seguace moderno dell’Arpinate, non quanto alla “forma”, ovviamente, ma quanto alla “sostanza”, con una nuova riproposizione del motivo “silenico” (Erasmo, infatti, che esternamen-te appare come un anticiceroniano, è in realtà, nel profondo, l’au tenti-co Cicerone dei suoi tempi). Ma non solo di questo si tratta, né sol tanto della guerra privata di un vecchio letterato periferico in preda a com-plessi di inferiorità e a ossessioni di complotto,78 giacché dietro la batta-

Nota al testo alla cit. ed. Bausi-Canfora, pp. 60-62). Per l’elenco di letterati inserito nel Ciceronianus, e per il criterio tendenzioso e spesso arbitrario con cui Erasmo lo ha redatto, cfr. Knott, Introductory Note, cit., pp. 331-33. Altri nomi di umanisti tedeschi furono ag-giunti nella lettera al Vlatten del 24 gennaio 1529.

77. Vd. parr. 1015 e 1016: « quatuor Italos, qui se nuper iactare coeperunt ciceronia-nos »; « ut a quatuor ineptis Italis adolescentibus recipiaris in catalogum ciceronianorum ». Quanto alla « sodalitas quaedam » (par. 1425), dovrebbe trattarsi in particolare dell’Acca-demia romana.

78. Erasmo, poco prima della morte, arriverà ad affermare che dietro l’agguerrita le-gione dei suoi oppositori si cela addirittura Satana in persona (lettera a Filippo Melanto-ne del 6 giugno 1536: EE, xi p. 334). Nella medesima lettera, egli imputa poi all’ex amico

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glia del Ciceronianus si scorgono in realtà alcuni obiettivi di grande por-tata, lucidamente individuati e perseguiti. Innanzitutto, quello di re sti-tuire dignità alla cultura cristiana, respingendo la sua sistematica conta-minazione con la retorica e la letteratura dei pagani; in secondo luogo, quello di combattere, come si diceva, il cristianesimo “romano” – mo-numentale e ierocratico – che nel latino ciceroniano trovava il suo lin-guaggio d’elezione e, per cosí dire, il proprio corrispettivo formale; in-fine, quello di dare nuovo slancio a un umanesimo che, riducendosi o a specialismo tecnicistico o ad apparato celebrativo, sempre piú andava perdendo la sua capacità di comprendere e trasformare il mondo.

Riguardo al primo aspetto, sarà il caso di osservare che Erasmo già nella lettera al Maldonado aveva proclamato con grande chiarezza la specifica dignità del latino cristiano, ecclesiastico e scritturale.79 La Bib-bia ha la sua lingua, storicamente fondata e determinata: rifiutarla per-ché non “ciceroniana” e non “classica” è insensato, anzi, per il cristia-no, è sacrilego. Il moderno ciceroniano sarà dunque il filosofo cristia no, che tratta « de christianis christiane »,80 che cioè discute i temi della fede e della religione nella maniera piú appropriata relativamente sia al me-todo, sia allo stile, rispettando non soltanto le istituzioni e i dogmi del-la Chiesa, ma anche la lingua in cui essa si esprime (parr. 1624-25). Ogni disciplina e ogni scienza dispone del suo specifico linguaggio e ha pieno diritto di servirsene; ma, mentre nessuno si scandalizza se i grammatici o i matematici lo fanno, i cristiani vengono aspramente criticati se trat-tano gli argomenti della loro religione con le parole ad essi appropriate, anziché ricorrere al latino classico e ciceroniano. Per questo nel dialo-go, prendendo spunto dalla paganeggiante poesia sacra del Sannazaro, Erasmo afferma senza esitazione che i soggetti cristiani devono essere

Girolamo Aleandro la colpa di aver suscitato contro di lui l’odio degli umanisti italiani; da tempo, del resto, Erasmo era convinto che i capi della fazione italiana a lui avversa fossero lo stesso Aleandro e Alberto Pio da Carpi.

79. EE, vii p. 16: « Iam quum in rhetorum praeceptionibus ferant “statum”, “finem”, “superlationem”, “gradationem” aliasque voces innumerae, quae per se Latinis aut nihil omnino declarant aut longe aliud declarant, non possunt perpeti “fidem”, “gratiam in Domino”, et his similes aliquot voces linguae Scripturarum? Habent enim et hae suam quandam linguam peculiarem ».

80. Ciceronianus, par. 1473.

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affrontati non solo dottamente, ma soprattutto religiosamente, e che pertanto è opportuno rifuggire da ogni forma di “travestimento” mito-logico e linguistico, evitando di abbellire la materia sacra con verba, sen­tentiolae, figurae e numeri desunti da Cicerone, o, come nel caso di Sanna-zaro, da Omero e Virgilio.81

Cosí, sempre applicando la teoria a lui cara dell’aptum e del decorum, Erasmo non soltanto supera la vecchia linea, piú che mai fiorente nel pieno Cinquecento (e da lui stesso, in precedenza, talora abbracciata),82 che propugnava e praticava la riscrittura umanistica della Bibbia, della teologia e dell’agiografia, ma va anche oltre la gloriosa tradizione della piú avanzata filologia biblica, che dall’amato Valla aveva condotto alla stessa revisione erasmiana del Nuovo Testamento. Una filologia che spesso aveva finito col sacrificare sull’altare di astratti criteri linguistici e stilistici la specifica valenza culturale e spirituale del latino cristiano e segnatamente biblico,83 assegnando eccessiva importanza ad aspetti for-mali – la fedeltà “filologica” e la proprietà linguistica del sacro testo – che non necessariamente e non sempre sono in diretto rapporto con il contenuto di verità della Parola e dunque, soprattutto ma non solo nel

81. « Oportebat enim omnem Christianorum orationem resipere Christum, sine quo nec suave, nec splendidum est quicquam, nec utile, nec honestum, nec elegans, nec fa-cundum, nec eruditum » (par. 1513). Parole simili nella lettera a Germain de Brie del 6 settembre 1528: « Si sumus ex animo Christiani, nihil nobis eruditum, elegans aut venu-stum videri debet quod non spiret Christum, quoties materia postulat » (EE, vii p. 491).

82. Come osserva J. Chomarat, Grammaire et rhetorique chex Erasme, 2 voll., Paris, Les Belles Lettres, 1981, ii pp. 830-31, anche Erasmo in alcune sue opere aveva adoperato sino-nimi o perifrasi – al fine di evitare termini sconosciuti al latino classico – per designare realtà proprie della religione cristiana: ad es. nelle Paraphrases (1 Cor., 1 1) troviamo, in luogo di apostolus, legatus, parola che nel Ciceronianus è invece inserita in una lunga lista di termini il cui impiego è tacciato di fanatico ciceronianesimo (par. 772).

83. Cfr. M. Fois, Il pensiero cristiano di Lorenzo Valla nel quadro storico-culturale del suo am­biente, Roma, Gregoriana, 1969, p. 528: « a Lorenzo Valla è sfuggito, almeno in massima parte, il grande problema di questo linguaggio [scil. quello cristiano], che si pose ai primi cristiani sia greci che latini, e la soluzione data a questo con una mutazione semantica del lessico corrente, oppure creando vocaboli completamente nuovi, o infine mutuando termini da un’altra lingua, come fece il latino dal greco. Queste due ultime soluzioni fu-rono adottate nel primitivo latino cristiano, per la notevole forza creativa che può notar-si nei primi traduttori della Bibbia, appunto per evitare parole del linguaggio classico ca-riche di un contenuto pagano ».

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credente comune, con il rafforzamento e la maggiore profondità della fede.

Erasmo, in tal modo, fa sua la lezione di Giovanni Pico (con cui l’ac-cordo sostanziale diventa ora piú stretto, soppiantando di fatto la prece-dente ammirazione tutta letteraria per il Poliziano), del quale arriva a condividere la “difesa” dei teologi scolastici84 e, generalmente parlan-do, la presa di distanze dal « bello stile » umanistico come metro di giu-dizio principale degli autori che trattano argomenti attinenti alla reli-gione cristiana. Ma lungi dall’essere, come ad alcuni è parso, un deluso e timoroso letterato incline a ripiegare su piú prudenti e piú tradiziona-li posizioni “ortodosse”, rinnegando cosí la sua antica fede umanistica,85 l’ultimo Erasmo porta a pieno compimento il proprio cammino di filo-sofo e di umanista cristiano, nel tentativo di risollevare le sorti tanto del cristianesimo quanto degli studia humanitatis, e di fare dell’uno e degli altri, anzi della loro concorde collaborazione, gli strumenti primari del-l’educazione, del progresso e della pace nella dilaniata Europa del suo tempo; con un ritorno alla lezione dei Padri che era anche, in virtú di ciò, un ritorno alle gloriose e limpide scaturigini del movimento uma-nistico.

Francesco Bausi Università della Calabria [email protected]

84. Cfr. Ciceronianus, par. 752, dove Buleforo proclama Tommaso, Scoto e Durando di San Porciano piú ciceroniani dei moderni seguaci di Cicerone, giacché sanno esprimersi nel modo piú adeguato all’argomento di cui trattano; e par. 790, dove, partendo al solito dal presupposto secondo cui « melius dicit qui dicit aptius », si afferma che trattando argo-menti sacri è preferibile scrivere come Tommaso e Scoto, anziché cercare di riprodurre lo stile di Cicerone. E vd. anche la lettera a Noël Béda del 15 giugno 1525: « Ego quemad-modum nullum scriptorem soleo contemnere, ita in scholasticis istis quos vocant, praeter orationis filum fere nihil humile video » (EE, vi p. 89).

85. È la vecchia tesi, fra gli altri, di B. Croce, Erasmo e gli umanisti napoletani, in Id., Aneddoti di varia letteratura, 3 voll., Napoli, Ricciardi, 1942, i pp. 131-40, a p. 135, e di J. Hui-zinga, Erasmo, trad. it., Torino, Einaudi, 1941, p. 251, contro la quale vd. ad es. le argomen-tazioni di Gambaro, Il ‘Ciceronianus’ di Erasmo, cit., pp. lxxix-lxxx e cix-cxii, e di F. De Michelis Pintacuda, Tra Erasmo e Lutero, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2001, pp. 154-55.

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Il saggio indaga le fonti umanistiche italiane del Ciceronianus di Erasmo, che de-vono essere ricercate in primo luogo nelle polemiche sull’imitazione e negli scritti degli umanisti “eclettici” (Poliziano e i due Pico, soprattutto); ed esamina il com-plesso e contraddittorio rapporto, insieme di attrazione e di repulsione, che l’uma-nista olandese intrattenne nei confronti della cultura italiana contemporanea e dei suoi piú illustri esponenti, e che nel Ciceronianus emerge con particolare evidenza.

This essays investigates the Italian humanistic sources of Erasmus’ Ciceronianus, which are mainly to be found in the polemics on imitation and in the writings by eclectic humanists (above all, Poliziano and the two Picos). As such, it also examines the complex and contradictory rela­tionship (of simultaneous attraction and repulsion) that this Dutch humanist had with the Ital­ian culture of his time and its main representatives — a relationship that the Ciceronianus re­veals in a particularly striking way.