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Immagini della provincia fascista Culto e reinvenzione delle tradizioni popolari in Friuli di Anna Maria Vinci Scopo della ricerca, di cui il presente saggio offre i primi risultati, è quello di studiare i modi ed i termini in cui, durante il ventennio fascista, ven- gono elaborate e/o reinventate tematiche cultu- rali e modelli propagandistici volti a caratteriz- zare l’Italia ed il popolo italiano come unità di stirpe, di cultura e di tradizioni, negando recisa- mente o tentando di occultare le mille articola- zioni di una realtà (sociale e territoriale) molto frastagliata e diseguale. ‘Nazionalizzare’ l’italiano è uno degli obiettivi che il regime certamente si pone: al di là della va- lutazione sui risultati conseguiti, il problema è di ‘svelare’ i meccanismi istituzionali ed organizza- tivi che presiedono alla diffusione nella società civile di un corpus ideologico spesso magmatico ed incoerente. Gli esempi possibili sono numero- si, anche uscendo dai tracciati già noti e dai mon- di dell’alta cultura. Ho tentato poi di scoprire in che modo questa particolare raffigurazione dell’Italia si rifletta in provincia; in che modo interagisca, cioè, con le culture e le tradizioni locali e con le immagini che la periferia elabora su se stessa mentre è alla ri- cerca di una precisa identità nell’Italia che cam- bia. Il caso studiato è quello friulano: durante il ventennio, sodalizi ed istituzioni culturali di an- tica origine e di più recente costituzione sono im- pegnate a delineare e diffondere — mantenendo alcuni margini d’autonomia rispetto all’appara- to fascista — un modello d’identità locale (la “friulanità”) capace di coagulare consensi e di resistere nel tempo. This essay deals with the first results o f a long- range investigation into the cultural policy of the fascist regime, a policy focused on the con- struction or reinterpretation o f themes and my- ths representing Italy as a unity o f race, culture and tradition, regardless of all long-standing differences that characterize the Italian social and regional realities. The “nationalization” of the Italians is one outstanding target o f the regime: apart from the actual achievements, the problem is to di- scern the institutional and organizational me- chanisms that secure the spreading o f an ideo- logical corpus often heterogeneous and inconsi- stent. The possible examples are numerous, even neglecting the usual topics and high cultu- re circles. The author also seeks to understand how this particular image o f Italy is mirrored at provin- cial level; how it interacts, in other words, with local culture and tradition, including the image that peripheral circles make out o f themselves in their quest fo r a precise identity. The case study is that o f Friuli: during the fa - scist era, cultural associations and institutions, both of ancient origins and recent birth, are engaged in devising and divulging a model of local identity (“ friulanity”) partially indepen- dent o f fascist control and capable o f raising a long-lasting support. Italia contemporanea”, settembre 1991, n. 184

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Immagini della provincia fascistaCulto e reinvenzione delle tradizioni popolari in Friuli

di Anna Maria Vinci

Scopo della ricerca, di cui il presente saggio offre i primi risultati, è quello di studiare i modi ed i termini in cui, durante il ventennio fascista, ven­gono elaborate e/o reinventate tematiche cultu­rali e modelli propagandistici volti a caratteriz­zare l’Italia ed il popolo italiano come unità di stirpe, di cultura e di tradizioni, negando recisa­mente o tentando di occultare le mille articola­zioni di una realtà (sociale e territoriale) molto frastagliata e diseguale.‘Nazionalizzare’ l’italiano è uno degli obiettivi che il regime certamente si pone: al di là della va­lutazione sui risultati conseguiti, il problema è di ‘svelare’ i meccanismi istituzionali ed organizza­tivi che presiedono alla diffusione nella società civile di un corpus ideologico spesso magmatico ed incoerente. Gli esempi possibili sono numero­si, anche uscendo dai tracciati già noti e dai mon­di dell’alta cultura.Ho tentato poi di scoprire in che modo questa particolare raffigurazione dell’Italia si rifletta in provincia; in che modo interagisca, cioè, con le culture e le tradizioni locali e con le immagini che la periferia elabora su se stessa mentre è alla ri­cerca di una precisa identità nell’Italia che cam­bia. Il caso studiato è quello friulano: durante il ventennio, sodalizi ed istituzioni culturali di an­tica origine e di più recente costituzione sono im­pegnate a delineare e diffondere — mantenendo alcuni margini d’autonomia rispetto all’appara­to fascista — un modello d’identità locale (la “friulanità”) capace di coagulare consensi e di resistere nel tempo.

This essay deals with the first results o f a long- range investigation into the cultural policy o f the fascist regime, a policy focused on the con­struction or reinterpretation o f themes and my­ths representing Italy as a unity o f race, culture and tradition, regardless o f all long-standing differences that characterize the Italian social and regional realities.The “nationalization” o f the Italians is one outstanding target o f the regime: apart from the actual achievements, the problem is to di­scern the institutional and organizational me­chanisms that secure the spreading o f an ideo­logical corpus often heterogeneous and inconsi­stent. The possible examples are numerous, even neglecting the usual topics and high cultu­re circles.The author also seeks to understand how this particular image o f Italy is mirrored at provin­cial level; how it interacts, in other words, with local culture and tradition, including the image that peripheral circles make out o f themselves in their quest for a precise identity.The case study is that o f Friuli: during the fa ­scist era, cultural associations and institutions, both o f ancient origins and recent birth, are engaged in devising and divulging a model o f local identity (“friulanity”) partially indepen­dent o f fascist control and capable o f raising a long-lasting support.

Italia contemporanea”, settembre 1991, n. 184

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Intorno alle tematiche specifiche del culto e della reinvenzione delle tradizioni popolari e locali durante il fascismo, suggestioni nuove e nuove curiosità sono state senza dubbio ri­destate dall’interesse che anche in Italia han­no suscitato in questi anni le ben note ricer­che condotte da Hobsbawm e dai suoi colla­boratori: la stessa fortuna dell’espressione terminologica “invenzione della tradizione” segnala un’attenzione diversa, se non pro­prio un pullulare di nuovi studi in relazione a tali questioni1. I contributi che la storio­grafia italiana ha già dato sia per quanto at­tiene la rilettura delle tradizioni colte sia per quanto riguarda la reinterpretazione di quel­le popolari, durante e per opera del fasci­smo, non sono comunque pochi: dai lavori di Luciano Canfora al volume di Victoria De Grazia, per citare solo i più noti2. In molti casi le ricerche sulla politica linguistica del fascismo, soprattutto per gli aspetti rela­tivi all’uso dei dialetti, svelano una diretta attinenza al tema3; allo stesso modo elemen­ti di contiguità sono facilmente rintracciabili nelle analisi condotte da critici letterari e storici intorno al fenomeno di “strapaese” e del selvaggismo4. Ricchi di notizie e dati —

suscettibili di comparazioni a più largo rag­gio — appaiono spesso gli studi di storia lo­cale e regionale5; esistono d’altra parte inda­gini già molto articolate6 sull’ideologia e sul­l’organizzazione degli intellettuali (i folklo- risti soprattutto) che negli anni del regime possono essere considerati ‘i sacerdoti’ del culto e/o della reinvenzione delle tradizioni popolari.

È indubbio che su alcune acquisizioni in­terpretative non ci sia più molto da aggiun­gere: negazione — da parte del regime — di ogni forma di autonomia locale; ‘manipola­zione’ dall’alto — ai fini di un più ampio consenso — delle manifestazioni folkloriche e regionalistiche; tradizioni locali e “piccole patrie” rivisitate ed esaltate in funzione della “grande patria” e di una “unità di popolo” senza divisioni di classe. Restano in ombra, invece, molti dei meccanismi istituzionali ed organizzativi che presiedono alla diffusione nella società civile di un corpus ideologico spesso incoerente e magmatico. Da questo punto di vista, la “dimensione locale” e cioè la storia dei sodalizi che custodiscono le tra­dizioni patrie ed i percorsi biografici degli intellettuali di provincia permettono di co-

Legenda. Acs, Archivio centrale dello Stato; Pcm, Presidenza del consiglio dei ministri; Som, Servizio organizza­zione mostre; Asu, Archivio di Stato di Udine; Adp, Archivio della deputazione provinciale 1866-1946; Apu, Ar­chivio della prefettura di Udine; Mos, Movimento operaio e socialista; Msf, Memorie storiche forogiuliesi, rivista trimestrale [nell’impaginazione per volume si è persa l’indicazione dei fascicoli]; Sff, Società filologica friulana; Saf, Società alpina friulana.1 Eric J. Hobsbawm - Terence Rancer (a cura di), L ’invenzione della tradizione, Torino, Einaudi, 1987; cfr. anche il dibattito L ’invenzione della tradizione, “Passato e presente”, 1987, n. 14-15, pp. 11-37.2 Luciano Canfora, Ideologie del classicismo, Einaudi, Torino, 1980; per un bilancio al riguardo cfr. anche Gino Bandelli, La storia della storiografia. Tendenze recenti in campo antichistico, in Metodologia e ricerca storica, A tti del Seminario internazionale, Tavagnacco (Udine), 14-15 ottobre 1983, pp. 123-144. Victoria De Grazia, Consenso e cultura di massa nell’Italia fascista, Bari, Laterza, 1981.3 Gian Carlo Jocteau et al., Parlare fascista, “Movimento operaio e socialista”, 1984, n. 1; Gabriella Klein, La po­litica linguistica del fascismo, Bologna, Il Mulino, 1986; Gian Paolo Gri, Dialetti e folklore nelle scuole, in Petro­nio Giuseppe - Marando Antonio, Letteratura e società, Palermo, Palumbo, 1980, pp. 741-752.4 Per tutti: Alberto Asor Rosa, La cultura, in Storia d ’Italia, vol. IV, tomo 2°, Torino, Einaudi, 1975, p. 1500 e sgg.; Luisa Mangoni, L ’interventismo della cultura. Intellettuali e riviste del fascismo, Bari, Laterza, 1974, pp. 136-172 e passim.5 Ad esempio, Gabriele Turi, La cultura tra le due guerre, in Storia d ’Italia. Le regioni dall’Unità ad oggi. La To­scana, Torino, Einaudi, 1986, pp. 537-581.6 In particolare Stefano Cavazza, La folkloristica italiana e il fascismo. // Comitato Nazionale per le Arti Popola­ri, “Ricerca folklorica”, 1987, n. 15, pp. 109-122.

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gliere con maggior precisione la complessità del fenomeno, tanto nella sovrapposizione di spinte centrali e periferiche, quanto nel­l’intreccio tra vecchi substrati culturali e nuove esigenze. Di fatto la difficile reperi­bilità di fondi d’archivio relativi a tali so­cietà, il silenzio quasi totale delle carte di polizia intorno agli aspetti consuetudinari della vita culturale, la frettolosità con cui molto spesso anche gli organismi di regime (l’Opera nazionale dopolavoro provinciale in particolare) elencano manifestazioni ed iniziative, complicano il lavoro di ricerca, e non di poco. Spesso, tuttavia, la stessa analisi delle fonti edite appare ricchissima di stimoli.

Prima di presentare il caso di una di esse — la Società filologica friulana Graziadio Isaia Ascoli — tenterò comunque di avanza­re alcuni spunti di riflessione su quel reticolo di enti e di istituzioni e su quei gruppi di in­tellettuali che, sotto l’egida e per conto del regime, mirano a sublimare ed a trasfigurare i localismi e l’Italia dalle cento città.

La ‘nazionalizzazione’ del carattere e delle tradizioni popolari

Allargare l’angolo di visuale al di là degli esempi più importanti e già noti7 mi sembra esercizio utile proprio per capire la ricca ar­ticolazione di quella che a ragion veduta può essere definita una politica culturale per la ‘nazionalizzazione’ dell’italiano. Che tale progetto spesso incentivi esiti discor­danti (il radicarsi dei municipalismi) non è sicuro indizio di fallimento; che altrettan­to spesso manchi l’obiettivo e sveli smaglia­

ture e rozzezze non ne cancella la portata.Se si vuol far riferimento alla cerchia dei

folkloristi, va osservato innanzitutto che per buona parte di questi studiosi lo ‘spirito dei tempi’ non rimane esclusivamente entro i confini di un’applicazione posticcia da esi­bire al momento opportuno, in occasione di manifestazioni pubbliche o convegni. Molti dei principi ideologici che essi traggono — mediandoli — dal coacervo dottrinario del fascismo diventano infatti motivi condutto­ri per il lavoro di ricerca, stimolo per una particolare selezione del materiale da racco­gliere e da esibire: il criterio dell’arretratez­za che generalmente si adotta nel valutare questo tipo di studi, per quanto ineccepibi­le, risulta — a mio parere — ancora troppo parziale.

Le tradizioni popolari italiane — afferma Luigi Sorrento in occasione del III Congres­so nazionale di arti e tradizioni popolari te­nutosi a Trento nel 1934 — poggiano su un principio di unità: “unità di fondo, unità come ideale”8.

Il tema “dell’unità” è senza dubbio cen­trale per gli esponenti più noti della folklo- ristica italiana in quegli anni, per coloro cioè che intendono mettersi a capo della va­riopinta schiera dei ricercatori e dei cultori della materia. In questa accezione il motivo dell’unità significa in primo luogo coordi­namento di tutte le risorse e di tutti coloro che più facilmente potevano accedere ai pa­trimoni della storia e delle usanze locali, ai fini di uno sviluppo generale della scienza: tale è il senso del discorso inaugurale tenuto da Raffaele Pettazzoni al I Congresso na­zionale delle tradizioni popolari che nel 1929 a Firenze sancisce la nascita del comi-

Alla nazionalizzazione del pubblico in epoca fascista dedica un importante capitolo V. De Grazia, Consenso, cit., pp. 175-215; da questo punto di vista essenziali si rivelano gli studi sui mezzi di comunicazione di massa: cfr. il bi­lancio storiografico di Peppino Ortoleva, Sull’ “onda” del fascismo, “I viaggi di Erodoto”, 1990, n. 12, pp. 88- 106.8 Luigi Sorrento, L ’Unità delle tradizioni popolari italiane, in A tti del III Congresso nazionale di arti e tradizioni popolari, Roma, Ond, p. 46.

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tato nazionale per le tradizioni popolari9. In quella stessa sede congressuale, tuttavia, si affacciano letture ben più vincolanti della problematica unitaria: Paolo Emilio Pavoli- ni, presidente del neocostituito Comitato nazionale parla più volentieri di “discipli­na”10. Sullo sfondo non ci sono infatti sol­tanto bizzarri raccoglitori o solitari speciali­sti, ma anche sodalizi e circoli che, sviluppa­tisi già a partire dalla fine dell’Ottocento (e soprattutto nel primo dopoguerra), sono ora desiderosi di prestigio e rappresentatività al di fuori dei confini della “piccola patria” . Mi riferisco, per esempio, alla Famiglia me­neghina, con sede a Milano, che promuove nei primi anni venti ben due convegni sui dialetti italiani, tentando di coordinare le iniziative demologiche nazionali e soprattut­to del Nord d’Italia11; ricordo la Società fi­lologica friulana (Sff) che proprio nel 1929, attraverso le pagine del suo bollettino12, si candida per un ruolo di guida della folklori- stica italiana. Il tema dell’unità delle tradi­zioni popolari italiane, inteso però questa volta come espressione della nazione italiana — una nella stirpe, nella cultura e nella “spi­ritualità” ben prima della sanzione risorgi­mentale e ben oltre i limiti imposti dai trat­tati internazionali — diventa così l’intelaia­tura ideologico-culturale che sostiene (e le­gittima) la nuova “corporazione nazionale”

dei folkloristi13. Non originale e di nobili ascendenze (il romanticismo e l’irredentismo ne sono gli incunaboli), quell’idea in epoca fascista viene richiamata a nuova vita tra­sformandosi appunto in un programma am­pio e capillare di reinterpretazione delle tra­dizioni e dei multiformi aspetti della storia e delle culture locali. Luigi Sorrento significa­tivamente parla di “unità come ideale” sot­tolineando che “non si può trascurare [la] spiritualità popolare del Paese, la tradizione di un passato storico e culturale che, se si sente, c’è, e si deve ritrovare”14.

Parallelamente l’immagine del popolo ita­liano come popolo “virtuoso”, “lontano da­gli eccessi della violenza e degli appetiti più grossolani”, quasi speculare a quella del po­polo senza classi e stratificazioni sociali, si riforma spesso nelle pagine degli studi de­mologici più seri. Gli esempi più significativi sono proprio quelli che si possono cogliere da espressioni indirette e nelle pieghe della narrazione. Così per l’importante intervento critico compiuto da Giuseppe Vidossi sull’o­pera principale di Valentino Ostermann, La vita in Friuli, scritta nel 1894. Nella premes­sa alla seconda edizione del 1940, uscita sot­to gli auspici dell’Ond e del Cniap (Comita­to nazionale italiano per le arti popolari) Vi­dossi avverte il lettore delle numerose corre­zioni apportate rispetto all’originale15. Un

9 Raffaele Pettazzoni, Discorso inaugurate, in A tti del I Congresso nazionale delle tradizioni popolari, Firenze, Ri- nascimento del Libro, 1930, p. 6.10 Paolo Emilio Pavolini, Discorso inaugurale, in A tti del I Congresso, cit., p. 5. (Il congresso fu inaugurato da due discorsi).11 X Congresso sociale, “Ce fastu?” [Cosa fai?], Bollettino ufficiale della Società filologica friulana Graziadio Isaia Ascoli, 1929, n. 10-11, p. 186. Di stretti rapporti tra Sff e Famiglia meneghina ai fini di un coordinamento na­zionale delle attività demologiche si fa cenno anche nel corso del V Congresso sociale, “Ce fastu?”, 1925, n. 4-5, p. 150.12 II Friuli alla testa del Folklorismo italiano?, in “Ce fastu?”, 1929, n. 1.13 Sulla fondazione del Comitato nazionale per le tradizioni popolari (Cntp), poi trasformatosi in Comitato nazio­nale per le arti popolari (Cniap) alle dipendenze dell’Ond (Opera nazionale dopolavoro) cfr. S. Cavazza. La folklo- ristica italiana, cit.14 L. Sorrento, L ’unità, cit., p. 51.15 Giuseppe Vidossi, Premessa alla seconda edizione, in Valentino Ostermann, La vita in Friuli, Udine, Istituto delle Edizioni accademiche, 1940 [1894]; G. Vidossi, Nota alla seconda edizione della “Vita in Friuli’’, dell’Oster-

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confronto diretto tra le due edizioni riserva tuttavia non poche sorprese. In più punti i rimaneggiamenti cancellano con un silente tratto di penna quanto di disordinato, di sboccato, di erotico e di irriverente soprat­tutto nei confronti della religione cattolica, Ostermann aveva colto nelle tradizioni po­polari friulane: di possibili “mondi alla ro­vescia” appartenenti al passato non è con­cessa così neppure la memoria16.

Se si volesse proseguire per questa via se­gnalando tutti i casi in cui le tematiche pro­pagandistiche del regime, innestandosi su ben solide radici di conservatorismo, ripro­ducono la “pianta della cultura fascista” an­che in questo settore specifico della ricerca e degli studi, il percorso sarebbe lungo: altret­tanto doveroso, poi, segnalare i dissensi e le difformità17.

Più utile — ai fini di questo lavoro — è capire invece i modi in cui avviene la tra­smissione di questo tipo di messaggi al di fuori delle sedi accademiche, per un pubbli­co più vasto.

La manipolazione delle diversità

Inevitabilmente in un’epoca in cui è negata la libera circolazione delle idee, l’immagine dell’Italia e del popolo italiano che quei messaggi delineano diventa forma di cono­scenza, anzi una delle poche possibili dell’I­

talia e degli italiani tra loro. La parola d’or­dine “far conoscere l’Italia agli italiani” che in questi anni sottolinea l’impegno pubblico e civile di numerosi circoli intellettuali, per i folkloristi si traduce nello sforzo di organiz­zare tanto i musei etnografici regionali e provinciali quanto le mostre d’arte e tradi­zioni popolari: l’Ond e le stesse gerarchie dello Stato e del partito diventano — a loro volta — i vincoli principali dell’iniziativa.

In molti casi sono proprio le periferie ad inviare il primo impulso propositivo. Così nel 1936 Pier Silverio Leicht, senatore e stu­dioso che può vantare fama e prestigio sia in campo nazionale sia nei circoli e nelle sedi istituzionali della cultura e della politica friulana, lancia l’idea della creazione di una rete finalmente efficiente di musei e di rac­colte etnografiche in tutti i principali centri della regione orientale alpina e prealpina, culminante nell’istituzione di un Museo del­le Alpi orientali a Bolzano. L’obiettivo indi­cato è appunto quello di conservare i resti delle antichissime tradizioni autonome delle popolazioni alpine “[proprie] dei tempi nei quali quei luoghi erano in gran parte [..] la­dini; affini più alle contermini regioni roma­niche che a quelle tedesche”18. L’urgenza politica del momento (i buoni rapporti italo- tedeschi non avevano cancellato affanni e diffidenze intorno alla questione austriaca) rivitalizza un’ideologia della montagna già sedimentata negli anni: le Alpi come barrie-

mann, “Ce fastu?”, 1940, n. 11-12. Indicazioni sulla biografia e sull’opera di Giuseppe Vidossich (poi Vidossi) in S. Cavazza, Ricerca, cit., nota 84; in particolare per l’opera svolta in Friuli cfr. Alida Londero, Giuseppe Vidossi e gli studi di tradizioni, in Gian Franco D’Aronco (a cura di), Studi di letteratura popolare friulana, Udine, Sff, voi. Ili, p. 1-28.16 Vidossi negando, ad esempio, validità al punto di vista dell’autore (“illuminista ed anticlericale”) non cancella solo i pregiudizi di Ostermann ma anche quanto egli aveva ‘scoperto’ proprio grazie alla sua formazione culturale. Altri esempi: dall’edizione del 1894 scompare un lungo paragrafo sui balli popolari osceni (p. 612). Intorno alla condizione degli ebrei nel Quattrocento una correzione sintattica muta il significato complessivo del discorso: “Gli ebrei erano semplicemente tollerati, ma sottoposti pure a frequenti atti che ne ledevano la libertà personale” [1894, p. 607]; “Gli ebrei, anche se esposti sovente ad atti che ne limitavano la libertà personale, erano tollerati” [1940, p. 471],17 Indicazioni utili su uomini e tendenze in Giuseppe Cocchiara, Storia del folklore in Italia, Palermo, Sellerio, 1981, e in particolare, in Alberto Maria Cirese, Cultura egemonica e culture subalterne, Palermo, Palumbo, 1986.18 Pier Silverio Leicht, La popolaresca in Carnia, “Ce fastu?”, 1936, n. 11-12, p. 237.

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ra fisica contro il nemico esterno, testimo­nianza suprema d’italianità; le Alpi come barriera morale contro il pericolo delle “for­ze livellatrici della civiltà moderna” e contro qualsiasi forma di corruzione dei costumi19. Leicht, d’altra parte, si fa mediatore di preoccupazioni ancor più inquietanti per la periferia montana, prima fra tutte quella causata dal grave (e relativamente recente) fenomeno dello spopolamento dell’alpe20: al museo — meta ambita di un lungo e pazien­te lavoro in molti casi già avviato da etno­grafi e raccoglitori del posto — spetterebbe così il compito di fissare nel tempo le ultime vestigia di un mondo in via d’estinzione ed insieme di attivare nuove risorse per inverti­re la rotta del declino.

Progettati al crocevia tra passato e pre­sente, tra la ripulsa della modernità e la suggestione tutta moderna della valorizza­zione turistica della montagna, i musei poi effettivamente aperti in quelle zone conser­vano nei loro ordinamenti interni anche tracce di altri innesti e/o giustapposizioni. Così per il Museo carnico di Tolmezzo, inaugurato proprio nel 193721: la perfetta conoscenza dell’ambiente e l’attenzione per le dure condizioni di vita di quelle popola­zioni che ai raccoglitori deriva da una lunga consuetudine all’osservazione diretta e da una matrice culturale positivista, si stinge spesso in una raffinata ricerca del bello, in

un’immagine idealizzata del popolo carnico come ‘stirpe’. Laddove lo stimolo locale è debole, solo la mobilitazione voluta dal par­tito riesce a mettere in piedi raccolte e mo­stre: nel 1936 le direttive di Starace per la promozione di mostre d’arte popolare in tutt’Italia avviano un meccanismo del tutto nuovo di interventi da parte di prefetti e po­destà, enti per il turismo, dopolavoro pro­vinciali e comunali22. I folkloristi, cui è affi­dato il compito dell’organizzazione scientifi­ca, non di rado sembrano vestire i panni de­gli spettatori colti ed anche un po’ stupiti.

Scrive la studiosa Carmelina Naselli a proposito dell’organizzazione della Mostra internazionale di arti popolari siciliane tenu­tasi a Catania nell’autunno del 1936:Quando il Comitato [Cniap] iniziò i sopralluoghi per la scelta del materiale che, a una data conve­nuta, doveva essere già raccolto dai Dopolavoro Comunali, trovò in più di un luogo raccoltine di notevole interesse e conobbe che, per metterle in­sieme, erano state esplorate anche lontane cam­pagne, ed erano stati escogitati tutti i mezzi, non ultimo quello, in perfetto carattere, di fare appel­lo al popolo mediante il pubblico banditore23.

In alcuni casi le organizzazioni del partito impongono l’allestimento delle mostre d’ar­te popolare anche in zone non ritenute ido­nee dai folkloristi: così per Milano, così per Trieste, città nelle quali i ritmi della vita mo­derna avevano cancellato — secondo la loro

19 Cfr. soprattutto Diego Leoni, La montagna violata, “Materiali di lavoro”, 1989, n. 3, pp. 5-31.20 Lo studio sullo spopolamento montano in Italia è promosso dall’Istituto nazionale di economia agraria (Inea) agli inizi degli anni trenta. In quest’ambito la ricerca sulla montagna friulana è curata da Michele Gortani e Giaco­mo Pittoni, Lo spopolamento montano nella montagna friulana, Roma, Treves-Treccani-Tuminelli, 1938.21 Michele Gortani, La raccolta etnografica comica, “Ce fastu?”, 1931, n. 8-10; Id., L ’arte popolare in Carnia, Udine, Sff, 1965; Carlo Someda De Marco, Laboriosa storia dei Musei del folklore friulano, “Sot la nape” [Sotto il camino], 1963, n. 2. Sui musei etnografici nell’Italia del ventennio cfr. G. Cocchiara, Storia del folklore, cit., pp. 234-245; anche gli organismi istituzionali del regime si mobilitano per l’apertura dei musei etnografici: cfr. Nel Co­mitato delle Tradizioni di Capitanata, “Lares”, 1931, n. 1.22 Sull’apparato organizzativo delle mostre cfr. S. Cavazza, La folkloristica, cit., p. 43; Massimo Tozzi Fontana, I! ruolo delle mostre etnografiche in Italia nell’organizzazione del consenso 1936-1940, “Italia Contemporanea”, 1979, n. 137, pp. 97-104; ancora P.S. Leicht, La popolaresca in Carnia, cit.; Mostre provinciali di arte popolare, “Lares”, 1936, n. 2.23 Carmelina Naselli, La Mostra interprovinciale di arti popolari siciliane, “Lares”, 1936, n. 4, p. 235.

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opinione — gli aspetti più significativi delle tradizioni passate24.

Tenendo conto della raccolta e della cata­logazione del materiale, gli studiosi valutano comunque positivamente già le prime mani­festazioni, tanto da ritenerle il migliore avvio per l’apertura di musei etnografici in ogni provincia d’Italia25. Sono mostre urbane, non itineranti, organizzate preferibilmente nei capoluoghi di provincia e di regione: in al­cuni casi si inaugurano mostre “zonali” e cioè interprovinciali e interregionali, non tanto — ritengo — per le preoccupazioni di rispec­chiare aree demologiche precise, quanto piut­tosto per creare motivi di comparazione e percorsi unitari capaci di rompere il funzio­namento localistico delle province e dei muni­cipi. Secondo quanto riferiscono descrizioni e cataloghi, alla lunga seriazione del materia­le esposto, un senso interpretativo è dato (più che dalla descrizione dei valori d’uso, spesso solo genericamente indicati) da un unico schema di classificazione preordinato dal centro: l’obiettivo di “rivelare il popolo a se stesso” alla luce delle sue inveterate tradizioni si traduce infatti nell’imposizione di alcuni nuclei tematici, quali ad esempio la famiglia, la maternità, la casa, il lavoro dei campi ed il lavoro artigianale, la religiosità. Allo stesso modo ad ‘ancorare’ le rutilanti immagini

provvedono tanto le cornici sceniche ispirate spesso al mito della romanità, quanto i motti propagandistici ed in particolare l’epigrafe che — ossessivamente — di mostra in mostra ripete le parole del duce esaltanti la superiore armonia dell’unità nazionale26. L’effetto d’insieme ricorda molto da vicino l’immagine raffinata e statica che la folklorista Amy de Bernardy usa per indicare la ricca bellezza delle varietà regionali: una tavola apparec­chiata con “una tovaglia di sfilato siciliano [...] coi vetri del contado fiorentino [...] o con un cestino istoriato di Sardegna”27.

La celebrazione massima della reductio ad unum delle culture e delle difformi realtà so­ciali e regionali doveva tuttavia avvenire gra­zie alla Mostra delle tradizioni popolari pro­gettata nella cornice dell’E 42 (Esposizione universale di Roma28). Ai più bei nomi (i To­schi, i Sorrento, i Borrelli...) della disciplina folklorica nazionale, che alla preparazione della stessa sono invitati a concorrere fin dal 1937, viene promesso dalla dirigenza dell’En­te Eur il più ampio rispetto per l’autonomia del loro ruolo di esperti29.

Per i folkloristi e per gli etnografi chiamati in causa, la mostra appare da subito come la migliore occasione per giungere finalmente alla fondazione del Museo etnografico italia­no in Roma30. Per l’immediato tuttavia essi si

24 La Mostra delle arti popolari lombarde a Milano, “Lares”, 1938, n. 5; Catalogo della prima Mostra provinciale d ’arte popolare organizzata dal dopolavoro provinciale di Trieste, ottobre-novembre 1937, Trieste, Tipografia del Pnf, 1937.25 A tti del Comitato, “Lares”, 1937, n. 4.26 Catalogo della prima Mostra provinciale d ’arte popolare organizzata dal dopolavoro provinciale di Trieste, cit.; C. Naselli, La Mostra interprovinciale, cit.; Doro Levi, La Mostra delle arti popolari della Sardegna in Cagliari, “Lares”, 1937 n. 3. “Lares” riporta anno per anno descrizioni abbastanza dettagliate delle mostre tenutesi nelle di­verse regioni italiane. Cfr. anche Catalogo della Mostra delle arti popolari del Friuli, della Venezia Giulia e della Marca Trevigiana, Udine 10-31 Agosto X IX , Udine, Tipografia Doretti, 1941.27 Amy de Bernardy, Rinascita regionale, Roma, Libreria Littorio, 1930, p. 42.28 Tullio Gregory - Achille Tartaro (a cura di), E 42. Utopia e scenario del regime, Venezia, Marsilio, 1987, vol. 1, pp. 108-109 e passim.29 Acs, E42, Som, b. 1012 fase. 9770 sf. 4-1/4, Carteggio Starace-Cini/Cini-Oppo dell’ottobre 1938.30 Emilio Bodrero, Per la fondazione di un Museo delle Arti popolari in Roma, “Lares”, 1936, n. 1; la Commissio­ne ordinatrice per la Mostra delle tradizioni popolari predispone la schedatura, il riordino ed il trasferimento della collezione Loria per il futuro Museo: cfr. Acs, E42, Som, b. 1012, fase. 9770, sf. 4-1/D e, ivi, b. 1013, fase. 9770, sf. 4-1/F.

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impegnano a far opera di divulgazione e di educazione a favore del vasto pubblico: il no­to adagio dell’unità del popolo italiano (le connotazioni razziste si accentueranno a ri­dosso della guerra) rappresenta il concetto cardine intorno al quale ruota tutto il dibatti­to preparatorio ed in nome del quale ogni “pensiero divergente” — pur timidamente espresso — si ottunde. Motivazioni di ordine politico-strumentale ed imposizioni esterne sembrano incidere ben poco su una convin­zione profondamente sentita31. L’ultimo atto di una mostra mai realizzata si chiude con la programmazione, nella sua veste definitiva, stilata da Paolo Toschi nel febbraio 1943: la manipolazione delle diversità, l’idea del po­polo come fonte di virtù primigenie per “la grande arte, la grande storia e la grande poe­sia” , il potere unificante (tra gli alti ed i bassi strati della società) del “genio italico” vi tro­vano l’espressione più compiuta e la rappre­sentazione iconografica più coerente32.

D’altra parte, l’Italia come sintesi di vario­pinte tipicità trova durante il regime altri mil­le canali di elaborazione e di diffusione. Le caratteristiche locali vengono spesso e volen­tieri messe a confronto nell’ambito di mostre di vario genere, interprovinciali, interregio­nali e nazionali che pullulano a ritmo sempre più incalzante nell’Italia del ventennio. Al ri­guardo, un utile serbatoio di notizie è costitui­to dai fondi della Presidenza del consiglio dei ministri presso l’Archivio centrale dello Sta­to: ne esce, tuttavia, un quadro di segnalazio­ni largamente lacunoso per una serie di ragio­ni di cui — non ultima — la probabile disper­

sione di documenti tra le carte dei diversi mini­steri che rivendicavano la supervisione diretta sulle stesse33. Per questi motivi l’osservatorio locale diventa ancor più prezioso: l’Archivio della deputazione provinciale di Udine, ad esempio, registra tutte le domande di contri­buto (accompagnate da brevi descrizioni) per le mostre che si vogliono organizzare e per quelle cui si vuole partecipare. Le esposizioni che servono a riconoscersi all’interno dei con­fini regionali, mettendo a confronto le realtà economico-culturali del vecchio e del nuovo Friuli recentemente annesso, si alternano a quelle che servono a farsi conoscere ‘fuori’. Nel 1925, alla Mostra didattica nazionale di Firenze, le “Terre redente” partecipano con un intero padiglione che mira ad esaltare i contorni di un’organizzazione scolastica — frutto della vecchia legislazione austroungari­ca — assolutamente efficiente e nello stesso tempo atta a trasmettere i nuovi valori nazio­nali: il pericolo da esorcizzare — appare evi­dente — è quello di assimilazioni troppo af­frettate nell’alveo della realtà italiana34.

L’orgogliosa riproposizione della propria identità ritorna nel 1928, in occasione del de­cennale della vittoria, con una Mostra della distruzione e della ricostruzione nell’ambito della decima Fiera campionaria di Padova. Come scrive uno degli'organizzatori per l’a­rea friulana, si tratta anzituttodi mostrare agli italiani lo sforzo spiegato dai friulani a ricostruirsi le loro case, i loro opifici e [di] onorare la nostra provincia e portarla, di fronte al giudizio d’Italia, a quella valorizzazione che essa veramente merita35.

31 Acs, E42, Som, b. 1013 fase. 9970, sf. 4-1/F, Relazione Paolo Toschi del 9/6/1937 e, ivi, Relazione L. Sorrento, s.d. [ma 1937],32 Acs, E42, Som, b. 1012, fase. 9770, sf. 4-1/E, Programmazione Toschi, inviata da Luciani, direttore Som, ad Oppo in data 21/4/1943.33 Cfr. ad es. Acs, Pcm, 1940-1942, 3, 3-9, sf. 46187, Celebrazioni regionali artistico, culturali e folkloristiche.34 Mario Stanta, Gorizia e la sua scuola in alcune recenti manifestazioni scolastiche nazionali, in Studi goriziani, Gorizia, Tipografia Sociale, 1926.35 Adp, Cat. I, b.919, fase. 1928, Lettera di Gino di Caporiacco, 26/4/1928. L’Adp di Udine è conservato presso l’Archivio di Stato della stessa città.

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Poco dopo la mostra diventa permanente accentuando i suoi caratteri di testimonian­za patriottica: la sede prescelta è il Salone delle glorie del Monumento dei caduti in Roma36. E poi si sviluppa via via un turbinio di iniziative per essere presenti alle mostre- mercato nazionali dei vini e della pesca, a quelle internazionali di economia domestica, alle fiere campionarie di Milano e Padova, alle rassegne annuali delle arti decorative a Monza, alle manifestazioni interprovinciali delle arti giovanili, ai concorsi nazionali per l’ammobiliamento e l’arredamento popolare (ed altro ancora): arte, economia e turismo rappresentano sempre delle buone occasioni per mettersi in lizza37.

Gli organismi di regime, l’Ond, i consigli provinciali dell’economia, associazioni e co­mitati locali, i neocostituiti enti provinciali per il turismo si pongono alla guida di que­sto fermento di vitalità che anima la provin­cia friulana non meno di molte altre: se un divario si avverte, sulla base dei sondaggi compiuti, è quello tra Nord e Sud, per quan­to attiene, almeno, ad un’autonoma capaci­tà propositiva. Se le parole d’ordine che chiamano a raccolta le province vengono dall’alto (la valorizzazione del prodotto arti­gianale, quella del prodotto autarchico; “il mare nostro”, 1’ “italianità delle terre di confine” : tutta la simbologia della casa e del focolare domestico, eccetera), l’impressione è che la risposta forte che sale da esse sia in grado, più di una volta di scardinare gli schemi precostituiti: che riesca ad imporre, ad esempio, la concorrenzialità al posto del­la più astratta formula dell’emulazione, il frazionamento al posto della compattezza. Dietro le quinte delle rappresentazioni uni­tarie più e più volte orchestrate dal regime

non solo rinvigoriscono gli orgogli munici­pali chiamati ad inusitate esibizioni, ma si muovono anche realtà economiche che si stanno rinnovando, nuove ‘conquiste’ del territorio nazionale, nuovi spostamenti al­l’interno dello stesso: affermare con forza la propria identità (il veicolo della riscoperta turistica è spesso importante), distinguerla dalle altre, può significare pretendere (o di­fendere) una particolare dislocazione negli equilibri territoriali e di potere.

II Tci e la creazione del “turista italiano”

Sul filo della valorizzazione/manipolazione delle differenziazioni locali si muove pure la vasta opera del Touring club italiano che meriterebbe un’attenzione molto maggiore di quanto sia possibile dedicarvi in questa sede. Attraverso le riviste (“Le Vie d’Italia” soprattutto) e le guide uscite in copiosa serie durante il ventennio, l’impegno del sodalizio è proprio quello di far conoscere a fondo ogni angolo d’Italia. Bisogna educare, anzi creare “il turista italiano”: il messaggio è ri­volto ad un ceto piccolo-medio borghese (nel corso degli anni trenta la cifra dei soci organizzati oscilla dalle trecentomila alle quattrocentomila unità) che non solo può permettersi di viaggiare, ma anche di acce­dere a pubblicazioni di un certo tono, pensa­te per un pubblico colto38.

Se l’ispirazione nazionalpatriottica non aspetta il fascismo per affermarsi all’interno del Tei, tuttavia l’Italia tratteggiata nei pri­mi anni venti dalla rivista “Le Vie d’Italia” è ben diversa da quella rivisitata poi, negli anni d’oro del regime. Nord e Sud, zone montane e isole, regioni orientali recente-

16 La Mostra permanente della distruzione e della ricostruzione a Roma, “La Panarie” [La Madia], 1929, n. 36.37 Cfr. Adp, Cat. X, Corrispondenza in materia di contributi 1931-1938 con privati, enti, associazioni, buste varie. “ Luigi Bozzini, Turismo insieme: l ’associazionismo ed il Tei, in 90 anni di turismo in Italia 1894-1984, Milano, Tei, 1984, pp. 34-45. La stessa pubblicazione offre una prima ricostruzione dell’attività e delle vicende del Tei du-

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mente annesse: il profondo divario non è nascosto. I viaggi di Luigi Vittorio Bertarelli per constatare di persona lo stato delle stra­de e la ricettività degli alberghi diventano una interessante stazione mobile d’osserva­zione dell’Italia minore del primo dopoguer­ra39. Certo si tratta sempre di un’Italia vista passo passo “dall’interno di una limousine” che già di per sé simboleggia i motivi di dif­ferenziazione e di distacco (e quindi di so­stanziale incomprensione) rispetto alla realtà complessa dei popoli e delle culture osserva­te. Nel nuovo clima degli anni trenta, quan­do anche il Tei perde parte della sua autono­mia40, la rappresentazione delle diversità si interrompe. Tutto diventa macchia di colo­re, elemento ‘caratteristico’ e folkloristico: anche la miseria. La leggenda del gaio popo­lano, le trasfigurazioni letterarie dei disere­dati si impongono41.

Ogni tanto, tuttavia, in quest’immagine dell’Italia compatta e tirata a lucido, qual­cosa s’incrina: sono le statistiche, regolar­mente pubblicate da “Le Vie d’Italia”, sulla circolazione veicolare e ciclistica che segna­no in modo netto il divario Nord/Sud; è l’accenno all’esistenza di un “mondo a par­te” (quello degli immigrati) nel cuore di Mi­lano; è lo sguardo “beffardo” del pastore sardo, improvviso lampo di luce su un uni­verso ignoto che con gli scongiuri del nazio­nalismo si tenta di allontanare42. La reinven­zione dell’Italia che trascolora in mito rim­balza quindi negli ambienti colti e meno col­ti, orchestrata per il ceto piccolo-medio bor­ghese e per i ceti popolari: una forma di ‘co­

noscenza’ per la cui definizione nuove strade sono state percorse. All’imposizione di uno schema ideologico determinato per tutte le ramificazioni istituzionali fa da contrappun­to l’incentivazione della partecipazione loca­le (uomini e risorse): si tratta di una ‘mobili­tazione dall’alto’ che tuttavia non sempre — lo si è visto — riesce ad irreggimentare ogni tipo di risposta. Tutto ciò non incide meno profondamente dei divieti e delle censure (come si può vedere dalla questione dell’uso dei dialetti) messe in campo dal regime per ‘uniformare’ la nazione: come e se questa ‘conoscenza’ dell’Italia si trasformi in men­talità comune e/o in una nuova forma di pregiudizio resta comunque un interrogativo parzialmente irrisolto.

Definizione e ridefinizione della friulanità

Per molti aspetti le vicende locali permetto­no di controllare l’impatto di proposizioni ideologiche e disegni di tal fatta proprio nei luoghi della diversità negata e/o manipola­ta; permettono di cogliere l’intreccio tra le immagini della nazione reinventata e quelle che la periferia elabora su se stessa — sce­gliendo dal bagaglio delle sue tradizioni — alla ricerca di una identità nell’Italia che cambia. A tal fine mi è sembrato particolar­mente significativo il caso della definizione (o ridefinizione) della “friulanità” : protago­nista principale ed indiscussa è, come già ac­cennato, la Sff. Nasce nel 1919 raccogliendo l’eredità del culto per la “patria del Friuli”

rante il ventennio; per una fase antecedente cfr. soprattutto Susanna Raccagni, II Touring Club e il governo de! tempo libero, “Cheiron”, 1989, n. 9-10, p. 233-256. Per forme di propaganda più popolari, tuttavia, cfr. Vita del Touring, “Le Vie d’Italia” , 1930, n. 3.39 Ad esempio: Luigi Vittorio Bertarelli, Materiali da costruzione, “Le Vie d’Italia” , 1922, n. 10; Id., Una novità che matura, “Le Vie d’Italia”, 1922, n. 11.40 Alcune indicazioni, anche se insufficienti, in L. Bozzini, Turismo insieme, cit.41 Ad esempio: Bino Sanminiatelli, Il Circeo e l ’Agro Pontino, “Le Vie d’Italia”, 1938, n. 3; Ermanno Biagini, Venditori ambulanti delle vie palermitane, “Le vie d ’Italia”, 1938, n. 7.42 La circolazione ciclistica del 1937, “Le Vie d’Italia”, 1938, n. 12; Prefazione, in Tei, Attraverso l'Italia. La Lombardia, 1931; Antonio Taramelli, In Sardegna e in Corsica col T.C.I., “Le Vie d’Italia”, 1930, n. 2.

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già cresciuto vigorosamente nell’alveo della cultura positivista ad opera di eminenti figu­re di geografi, antropologi, glottologi e let­terati43. Per fare solo un esempio, la Società alpina friulana (Saf) — fondata nel 1874 da Giovanni Marinelli — aveva promosso pro­prio sul finire del secolo meticolose ricogni­zioni del territorio regionale: attraverso l’e­dizione della rivista “In Alto” e di alcune accuratissime guide44 veniva così per la pri­ma volta delineata un’immagine a tutto ton­do del Friuli, comprensiva tanto degli aspet­ti naturalistici e paesaggistici quanto di quel­li etnici, linguistici e folklorici. A sua volta la rivista “Pagine friulane”, uscita nel 1888, aveva raccolto il meglio dell’intellettualità regionale intorno ad un programma di risco­perta della storia e delle culture locali.

Sulla via — qui solo fuggevolmente de­scritta — che a partire dalla seconda metà dell’Ottocento conduce, tra rigore scientifi­co e mito, alle prime organiche definizioni dell’identità friulana confluiscono anche al­tri percorsi: l’amore per le tradizioni popo­lari e locali diventa veicolo di riaffermazione dell’italianità, soprattutto dopo il 1866, quando “l’assurdo confine” dei trattati san­cisce un nuovo smembramento del Friuli45.

A “Pagine friulane” collaborano intellettuali triestini e goriziani, mentre poco dopo na­scono a Gorizia ed in Istria riviste ‘sorelle’, quasi a dimostrare l’unità antica ed incancel­labile della regione nei costumi, nelle forme di vita e nelle affinità dialettali46: a sua volta il mito di Roma, che proprio allora comin­ciava a lievitare nella cultura erudita giuliana e friulana, arricchisce di nuove sfaccettature e di nuove ritualità la passione nazionale47. Si tratta, in realtà, di un processo culturale non semplice e non del tutto noto che per un verso accompagna la crescita e lo sviluppo dei ceti dirigenti locali nel corpo dello stato italiano e, per l’altro, sostiene la “voglia d’i­dentità e di affermazione” della borghesia italiana ancora parte viva della monarchia austroungarica, formazione plurietnica e plurinazionale48. La Sff nasce quindi nel se­gno della continuità: è significativo il fatto che l’assemblea costitutiva del sodalizio si svolga proprio a Gorizia e che una delle pri­me proposte della presidenza sia appunto l’unificazione amministrativa tra il Friuli oc­cidentale e quello orientale, recentemente an­nesso al regno d’Italia.

L’anno 1919 rappresenta tuttavia anche una data simbolica di svolta: la raccolta, lo

43 Verbale dell’Assemblea costitutiva, “Bollettino della Sff - G.I. Ascoli”, 1920, n. 1. L’origine dell’espressione “Patria del Friuli” è fatta risalire all’alto medioevo: cfr. P.S. Leicht, Breve storia dei Friuli, Udine, Libreria Editri­ce “Aquileia”, 1976, p. 106. Sulla funzione e l’importanza delle correnti culturali positiviste in Friuli: cfr. G.P. Gri, La cultura popolare ne! Friuli-Venezia Giulia: un problema aperto, in Enciclopedia monografica del Friuli Venezia Giulia, La Storia e la cultura, Udine, Istituto per l’Enciclopedia del Fvg, 1980, parte terza pp. 1321-1339.44 Sulla costituzione della Saf cfr. Giuseppe Occioni-Bonaffos (a cura di), Guida del Friuli, Illustrazione del Comu­ne di Udine, Udine, Saf Editrice, 1886, p. 240 e sgg. Per le guide, alcuni esempi: Luigi Gortani, Guida della Car- nia, Udine, Saf Editrice, 1898; Giovanni Marinelli, Guida del Canal de! Ferro, Udine, Doretti, 1894. Su tale vasta produzione di guide cfr. Silvia Clama, Il costume popolare negli studi demologici friulani, tesi discussa presso la facoltà di Lettere e filosofia di Trieste nell’anno accademico 1981-1982, relatore G.P. Gri, cap. IL45 A tale proposito, emblematica la figura e l’opera di G.I. Ascoli: cfr. Fulvio Salimbeni, G.I. Ascoli, intellettuale dei Risorgimento, “Quaderni friulani di storia” , 1983, n. 1, pp. 99-123. Inoltre sui rapporti tra irredentismo giulia­no ed irredentismo friulano cfr. P.S. Leicht, Breve storia, cit., p. 270 e sgg.46 Ercole Carletti, Domenico Del Bianco in A tti dell’Accademia di Udine a. 1932-33, Udine, Arti grafiche friulane, 1934, pp. 211-225. Domenico Del Bianco è il fondatore di “Pagine friulane”. Le riviste cui si fa cenno sono: “Pagi­ne istriane” di Capodistria, “Nuove pagine” e “Forum Julii” di Gorizia.47 G. Bandelli, Con la lente deformante dell’ideologia, “Il Territorio”, 1989, n. 25, pp. 132-141.48 Interessanti indicazioni al riguardo in Giorgio Negrelli, A l di qua del mito. Diritto storico e difesa dell’autono­mismo della Trieste asburgica, Udine, Del Bianco, 1979.

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studio e la più ampia divulgazione delle fonti della cultura friulana che la società intende promuovere attraverso la piena valorizzazio­ne del dialetto — primo e principale veicolo per l’autoidentificazione collettiva — rap­presenta a sua volta solo in parte la nostalgi­ca reincarnazione del passato. Di certo, con il suo pesante fardello di invasioni, distruzio­ni, sradicamenti e trasferimenti di popolazio­ne (la rotta di Caporetto rappresenta l’acme della tragedia ed il momento lacerante della memoria) la guerra aveva contribuito a fare dell’idea della “piccola patria” un sentimen­to diffuso: sede mitica del “focolare dome­stico” e della “tiepida pace del chiuso”49, simbolo di un ritorno disperatamente ago­gnato e di un desiderio di purificazione da tutte le brutture e le sofferenze provocate proprio dalle moderne invenzioni dell’uomo.

Gli intellettuali della Sff sono un po’ i sa­cerdoti di questa liturgia della consolazione e del ritrovarsi dopo la tragedia: una liturgia che — com’è noto — non si celebra solo nel­l’appartata provincia friulana50. Per altri versi, tuttavia, l’obiettivo di rinvigorire le ra­dici della propria identità costituisce una ri­sposta politica precisa al caos del dopoguerra che minaccia di intaccare la struttura tradi­zionale della società. Nell’amore per il pro­prio paese e per la propria terra — sostiene infatti nel 1921 Bindo Chiurlo, una delle gui­de culturali della Sff51 — possono trovar ri­fugio i “rivoluzionari rossi e bianchi” che non nutrono simpatia per l’idea di patria e

più ancora “gli onesti piccolo-borghesi [...] che si trovano a disagio per le stretture della demagogia e quelle del pescecanismo grande e piccolo”52.

Una proposta di pacificazione, quindi, ma soprattutto l’offerta di un punto d’approdo per alcuni strati sociali della popolazione: nel 1919, Ugo Pellis, uno dei fondatori sostiene esplicitamente la necessità di limitare l’acces­so all’assemblea costitutiva della Filologica “ai soli friulani che abbiano assolto una scuo­la media”53. La proposta di pacificazione, appena citata, è d’altra parte tutt’altro che neutra: il messaggio è “Fare la politica buona della realtà, del lavoro, della considerazione onesta e pensosa delle cose [...] ritornare al­l’umile nostra gente [...] sana e pacata”54. L’antiretorica delle piccole cose diventa po­pulismo, la negazione delle più moderne in­terpretazioni politiche di una realtà sociale in fermento diventa proposta moderata. A ciò si aggiunga — vecchia bandiera dell’irredenti­smo issata sulle ceneri del dopoguerra — la netta contrapposizione tra slaviSmo e latini­tà, tra “barbarie” e “civiltà superiore” . Su questa base s’intende certamente delineare un modello culturale per i ceti dirigenti usciti da­gli sconvolgimenti del conflitto: ceti dirigenti che si vogliono fedeli alle tradizioni, ma an­che capaci di rivolgersi al nuovo, nella pro­spettiva di costruire finalmente un ampio or­ganismo regionale. L’importanza del mes­saggio va ben oltre le tensioni che esso poi di fatto innesca aH’interno del sodalizio per i so-

49 Chino Ermacora, Piccola Patria, Udine, “La Panarie” Editrice, 1928, p. 24 e passim.50 Mario Isnenghi, / / mito della grande guerra, Bari, Laterza, 1973; Id., I vinti di Caporetto, Padova, Marsilio, 1967 e, per molti aspetti anche Paul Fussel, La grande guerra e la memoria moderna, Bologna, Il Mulino, 1984 [edizione originale 1975].51 Lelia Sereni (catalogo a cura di), Bindo Chiurlo nel centenario della nascita, Udine, Arti grafiche friulane, 1986. Molto stimolante anche la biografia tracciata da G. Vidossi, Bindo Chiurlo, in A tti dell’Accademia di Scienze, Let­teree Arti di Udine, 1948-1951, Udine, Arti grafiche friulane, 1953.52 Bindo Chiurlo, Risvegli di cultura regionale, “Rivista della Sff”, 1921, n. 1.53 Lettera di Ugo Pellis a Chiurlo, in Manlio Michelutti, Bindo Chiurlo e la Sff, A tti del Convegno della Sff, Spi- limbergo, Tipografia Menini, 1986, p. 72.54 B. Chiurlo, Risvegli di cultura, cit.

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spetti e le diffidenze che l’idea del “grande Friuli”, esteso dal fiume Livenza fino alle porte di Trieste, suscita nella componente goriziana55. Solo una classe dirigente pro­fondamente coesa, ed in grado di spezzare l’involucro delle vecchie culture particolari­stiche, può — secondo le indicazioni della Sff — dare buona prova di sé sul confine “più caldo” d’Italia, quello orientale appun­to56. È al clero friulano, ai maestri, agli uo­mini politici ed ai funzionari della regione — insistono gli intellettuali della Sff — che va affidato un ruolo guida per un’efficace “politica di confine” intesa essenzialmente come “azione di conquista” nei confronti delle popolazioni slovene delle province friulane e giuliane. La contiguità di obiettivi con lo schieramento fascista in ascesa non impedisce (e forse anzi accentua) questa ri­vendicazione di specificità57.

La polemica — spesso venata di antimeri­dionalismo — contro una burocrazia statale inetta ed incapace di intervenire in una realtà tanto complessa è infatti molto forte. Altret­tanto infastidita è la reazione — come espri­me Ugo Pellis — contro commercianti, indu­striali, militariindegni [...] ciarlatani e filibustieri d’ogni specie e d’ogni partito, dal comunista al fascista, dai mas­soni ai mafiosi volgari che [...] dopo la guerra ven­nero a diminuire il prestigio della Patria in questa sacra terra di confine58.

L’ostilità (comune del resto a moltissimi am­bienti delle province orientali) verso queste nuove forme “d’invasione” e la rivendicazio­ne di una competenza autorevole ed insosti­tuibile in relazione a tutte le questioni — cul­turali e politiche — dell’italianizzazione delle terre di confine, non induce tuttavia la socie­tà ad assumere convinte posizioni autonomi­ste. Anzi, per meglio dire, tutte le istanze che pur si affacciano in tal senso nel dibattito in­terno agli inizi degli anni venti vengono osteggiate con durezza dai vertici della Filo­logica. La formazione irredentista e naziona­lista di molti esponenti della stessa ed il timo­re — più volte reso esplicito — che attraverso l’autonomia amministrativa gli sloveni po­tessero “riprendere quello che non erano riu­sciti ad ottenere sul terreno politico”59, sof­foca gli ultimi barlumi dell’idea autonomista (già patrimonio prezioso del popolarismo friulano e goriziano) ben prima del consoli­darsi del fascismo al potere. La regione come “fatto squisitamente spirituale” e la ricerca di un’identità specifica come parte della na­zione rappresentano dunque obiettivi cultu­rali altrettanto limpidamente enucleati: di certo, al di là della censura di regime, la so­stanziale staticità del quadro economico-so- ciale, contro cui finisce per arenarsi anche il progetto di dar vita ad una classe dirigente regionale, costituisce un potente freno con­tro ipotesi più ardite60.

55 Verbale dell’Assemblea generale ordinaria, “Rivista della Sff”, 1922, n. 2; Il terzo congresso sociale a Gorizia, ivi 1923, n. 2.56 Ugo Pellis, Politica di confine, “Rivista della Sff” , 1924, n. 1.57 L’antislavismo e la costituzione della “grande provincia friulana” sono temi programmatici del fascismo friula­no dei primi anni venti: cfr. Andrea Leonarduzzi, Storiografia e fascismo in Friuli, “Italia contemporanea”, 1989, n. 177, pp. 27-47. Cfr. anche Alvaro Piani, Nazione e regione agli esordi del fascismo attraverso il giornale “La Pa­tria del Friuli”, tesi di laurea discussa presso la facoltà di Lettere e filosofia di Trieste, a.a. 1984-1985, relatore Lui­gi Ganapini, p. 110 e sgg.58 U. Pellis, Politica, cit., p. 52. La Sff si fa promotrice di interventi legislativi a favore del reclutamento regionale del personale insegnante: cfr. Personale insegnante nelle scuole elementari delle province di confine, “Rivista della Sff”, 1924, n. 3. Per una “scuola friulana” cfr. IX Congresso della Sff, “Ce fastu?”, 1928, n. 1-2.59 Verbale dell’Assemblea ordinaria, cit., “Rivista della Sff” , 1922, p. 140.60 Indicazioni utili ed una bibliografia aggiornata sull’argomento in Anna Maria Preziosi, Udine e il Friuli dal tra­monto dell’Italia liberale all’avvento del fascismo, “Storia contemporanea”, 1984, n. 2, pp. 213-244.

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Al fine di delineare, diffondere e radicare i tratti della “friulanità”, nulla invece è trascu­rato. La programmazione delle attività preve­de una parte più propriamente scientifica a carattere filologico-linguistico: la compilazio­ne di una bibliografia ragionata della parlata e della letteratura friulana, una nuova edizio­ne del vocabolario friulano, la definizione della grafia più corretta per il dialetto, la rac­colta di materiale per la toponomastica, l’o­nomastica e gli usi giuridici tradizionali, la co­stituzione di un Archivio demologico e di un Museo del costume friulano. Per la divulga­zione si mira ad edizioni tascabili del vocabo­lario, ad una diffusione capillare della cultura regionale nelle scuole — sfruttando gli spazi offerti dai programmi ministeriali del 1923 —, all’edizione di concorsi a premi per la let­teratura ed i canti popolari, a conferenze ed a lezioni61. Nel corso degli anni, superando non poche difficoltà, larga parte della program­mazione va in porto. Sotto l’egida della Sff nasce già nel 1922 una Compagnia per il tea­tro dialettale, mentre un’attenzione particola­re viene dedicata al coordinamento (ed al con­trollo) dei gruppi corali sorti spontaneamente nei paesi e nei borghi più lontani alla fine del­la guerra: l’importanza del coro come stru­mento di “propaganda morale” viene infatti sottolineata con insistenza dal sodalizio62.

Altrettanto articolata diventa nel tempo la rete delle pubblicazioni periodiche che alla Sff fanno capo: l’organo ufficiale è la “Rivi­

sta della Sff” , edita per la prima volta nel 1921. Dal suo tronco nasce nel 1926 il “Ce fa- stu?” (Che fai?), bollettino mensile, ideato per tentare un compromesso tra esigenze di studio e di ricerca specialistica e necessità di divulgazione: nelle intenzioni programmati- che esso doveva funzionare soprattutto da ba­cino collettore dei contributi e delle testimo­nianze dei soci e dei lettori, stimolati a com­porre in dialetto oppure a farsi attenti tra­scrittori delle tradizioni locali63. Questo ca­rattere ‘aperto’ della rivista di fatto non sorti­sce i risultati sperati ed il “Ce fastu?” resta la palestra di filologi, letterati ed intellettuali di professione. Maggior successo di pubblico è decretato invece per “Il Strolic furlan” (L’Al­manacco friulano) che rilancia un genere let­terario fortunatissimo nella seconda metà dell’Ottocento: quello degli almanacchi e dei lunari, veri e propri “opuscoli da saccoccia” , dispensatori di pronostici e notizie utili per l’annata agraria, ricchi di proverbi e massi­me, bestiari e storielle di tipo seriale64. “Il Strolic furlan” del 1919 è tuttavia soprattutto un mensile letterario, che raccoglie forse il meglio della produzione poetica dialettale na­ta nel seno della Sff65: il tono ‘popolareggian­te’ della pubblicazione, comunque, in qual­che modo scopre e soddisfa esigenze profon­de del pubblico non colto. A completare il quadro va ricordata “La Panarie” (La Madia), rivista illustrata di “cronaca, arte e cultura friulana”, uscita nel 192466. Scritta

61 Assemblea generale della SFF, “Bollettino”, 1920, n. 3. Per una prima costituzione di commissioni per settore di interesse cfr. Verbale dell’Assemblea generale ordinaria, “Rivista della Sff”, 1922, n. 2. Note programmatiche e il­lustrazione dei risultati raggiunti si inseguono anno dopo anno nelle pagine della rivista. Cfr. anche G.P. Gri, Dia­letti e folklore, cit.62 II terzo congresso sociale a Gorizia, “Rivista della Sff”, 1923, n. 3; VII Congresso della S f f a Spilimbergo, Udi­ne, Edizione de “La Panarie”, 1926; cfr. soprattutto X I Congresso della Sff, Commemorazione di Arturo Zardini, “Ce fastu?”, 1930, n. 11-12.63 A i Soci ed ai Corrispondenti, “Ce fastu?”, 1927, n. 1.64 Soprattutto Rienzo Pellegrini, Tra lingua e letteratura. Per una storia degli usi scritti del friulano, Udine, Casa­massima, 1987, cap. Vili.65 Cfr. Appunti e Notizie, “Msf”, 1937-1938, p. 205 e sgg.66 Fondata da Chino Ermacora “scrittore e combattente”, è quella che meglio fa rivivere la mitologia della grande guerra. Subisce numerose interruzioni (1928-1936) per motivi d’ordine finanziario. Dal 1937 al 1940 riceve un diret-

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prevalentemente in italiano, mira appunto a far conoscere fuori regione l’immagine della realtà friulana: l’esperienza della guerra e della ricostruzione, il pane amaro dell’emi­grazione, la bellezza della natura — scelti come motivi conduttori — ne esaltano i trat­ti di laboriosità e quiete, sacrificio ed eroismi.

Gli anni venti quindi — prima che il regi­me riesca ad imporre il suo controllo centra­lizzato — sono per la Sff anni di grande fer­mento: studi e ricerche, ma anche feste, “sa­gre e giornate della friulanità” delineano un attivismo culturale che muovendo dal capo­luogo udinese si estende a cerchi concentrici (lo schema dei rapporti centro-periferia è ri­prodotto in scala minore) a tutta la provin­cia ed oltre67. Nel 1924, inoltre, la Sff assu­me un ruolo di guida nel progetto di ricerca relativo all’edizione del primo Atlante lin­guistico nazionale; nel 1931, in segno di grande considerazione per il carisma scienti­fico ormai conquistato, il Comitato nazio­nale delle tradizioni popolari sceglie Udine come sede del suo secondo Congresso nazio­nale68.

‘Ultimogenita’ dell’associazionismo friu­lano di stampo ottocentesco, la Sff, grazie alla vitalità della sua battaglia ideale, di fat­to rimette in moto anche i meccanismi or­mai anchilosati delle vecchie istituzioni. Co­sì avviene per la Società storica friulana, che nel 1921 si trasforma in Regia deputa­zione di storia patria, rivendicando un’au­

tonoma specificità rispetto alla Deputazione veneta69.La storia friulana offre [...] un vastissimo cam­po di studi che con Venezia ha soltanto relazioni indirette [...] Basterebbe perciò ricordare Aqui- leia romana e cristiana.

La distinzione — si sottolinea ancora — è rimarcata da numerose altre vicende stori­che edalla speciale fisionomia etnografica della regio­ne friulana, giacché il suo dialetto parlato da cir­ca un milione di abitanti si stacca del tutto dai dialetti veneti, formando gruppo con i dialetti romano-ladini70.

Che la deputazione orienti poi, nel pro­sieguo degli anni, il suo impegno di ricerca verso la conoscenza della “piccola patria” nel segno di un percorso storico tutto spe­ciale da scoprire (e da sublimare) non è dubbio: ne fa fede la prevalenza di studi sul patriarcato aquileiese, sul Friuli longo­bardo e medioevale, sulle grandi famiglie friulane, sul culto delle piccole glorie muni­cipali.

Quel che impedisce che l’esaltazione e l’o­stinata ricerca delle diversità (soprattutto ri­spetto alle regioni contermini) si trasformi si­stematicamente in particolarismo di bassa le­ga è forse solo la preparazione scientifica di studiosi come Pier Silverio Leicht, Pio Pa- schini, Antonio Battistella71. Lo stesso mito di Roma subisce una singolare traslazione: Aquileia viene sì rievocata come centro di ir­

to sostegno dall’Ente provinciale per il turismo. Nel 1940 si fonde con la rivista illustrata “Le Tre Venezie”, edita a Venezia a cura della Federazione provinciale fascista.61 Adp, b.833, Celebrazioni e feste. Per le manifestazioni fuori provincia, cfr. ad esempio Cronache, “La Pana­rie”, 1927, n. 2-3.68 Acs, Pcm 1931-1932, 14-1-1938 Congressi nazionali per le tradizioni popolari. Cfr. Per l ’Atlante linguistico ita­liano, “Rivista della Sff” , 1924, n. 2; Matteo Bartoli, Piano generale dell’Atlante linguistico italiano, ivi, 1924, n. 3.69 A tti della Deputazione, “Msf”, 1921, n. 3-4. Sulla Società storica friulana cfr. A tti della Società Storica Friula­na, “Msf”, 1911, n. 1.0 A tti della Deputazione, “Msf”, 1921, cit., p. 238.' 1 Guido Astuti, L ’opera scientifica di P.S. Leicht, in A tti dell'Accademia di Scienze, Lettere e Arti di Udine, Udi­ne, Arti grafiche friulane, 1954-1957, p. 265-286; su Pio Paschini cfr. Tiziano Tessitori, Storia deI Movimento cat­tolico in Friuli, Udine, Del Bianco, 1964, p. 120 e passim.

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radiazione della romanità al di là delle Alpi, verso oriente, ma anche — e soprattutto — come “Madre della Romanità friulana”72.

Mentre l’interesse e l’impegno del regime, di studiosi di gran fama e di moderni mece­nati (uomini politici e finanzieri) trasforma l’importante centro archeologico in uno dei più grandi cantieri di scavo dell’Italia del ventennio ed in un nuovo simbolo naziona­le, questa lettura friulana proposta invece dalla deputazione (e dagli altri sodalizi) esprime tutto l’orgoglio di una tradizione propria che nella ritualità di regime conflui­sce senza annullarsi.73. Che la Sff, la Depu­tazione di storia patria, la Saf e perfino l’an­tica Accademia di Udine74 debbano insieme concorrere ad un identico progetto culturale è più volte ribadito in occasione di convegni o riunioni informali: c’è chi addirittura pro­pone, nei primi anni venti, di istituire a Udi­ne una Casa friulana, sede di tutte le asso­ciazioni culturali, e di fondare una rivista unica per tutti i sodalizi. Intanto, fino al 1931, il quotidiano locale “La Patria del Friuli” , diretto da Domenico Del Bianco, in­terpreta e divulga a più ampio raggio esigen­ze ed aspirazioni di tali ambienti intellettua­li75. Attraverso il gioco delle reciproche inve­stiture all’interno dei consigli direttivi dei

suddetti istituti si verifica in effetti un pro­cesso, almeno parziale, di integrazione; e so­no i nomi dello stesso gruppo di notabili a rimbalzare dall’una all’altra istituzione, in­seriti nei diversi livelli (soci ordinari, onora­ri, corrispondenti) dell’assetto societario76. Si tratta di nobili e membri dell’alta e media borghesia, proprietari terrieri, esponenti del­le libere professioni e politici. In ogni caso sono uomini le cui fortune economiche e po­litiche si sono già consolidate in epoca libe­rale: esponenti delle vecchie classi dirigenti che nell’era fascista continuano il loro cur­sus honorum secondo una casistica (sono podestà, presidi dell’amministrazione pro­vinciale o senatori) non originale né tipica dell’area friulana.

Si può dire che solo la Sff tenti realmente di estendere il reticolo dei soci cercando ade­sioni — come già si è detto — anche tra la piccola borghesia, tra le figure più rappre­sentative di borgate e paesi: il prete, il bi­bliotecario, il segretario comunale, la mae­stra, l’artigiano. Per le altre istituzioni, l’im­pressione — suffragata dall’analisi degli sta­tuti — è che restino ancora operanti alcuni vecchi schemi di preclusione cetuale e di rigi­dità gerarchica. Di certo il nucleo attivo è rappresentato da una manciata di intellet-

72 A tti della Deputazione, “Msf”, 1934, p. 101. In onore di Aquileia romana e friulana, vengono scritte anche poe­sie in dialetto: U. Pellis, Aquileia, “Il Strolic Furlan”, 1932, p. 6.73 Utilissimi spunti in G. Bandelli, La ricerca su Aquileia tra scienze e politica (1866-1918), saggio in corso di pub­blicazione, gentilmente messo a mia disposizione dall’autore. Sotto gli auspici del duca d’Aosta e sotto la direzione del conte Volpi di Misurata viene istituita l’Associazione nazionale per Aquileia che dal 1930 pubblica il bollettino semestrale “Aquileia Nostra” . La Deputazione friulana di storia patria aveva compiuto un tentativo per sostenere gli scavi archeologici di Aquileia, mettendosi alla testa di enti ed istituti friulani: cfr. A tti delta Deputazione, “Msf”, 1926.74 Storia e prospettive per l ’Accademia di Udine, in Verbale dell’adunanza privata de! 18 dicembre 1924, A tti del­l ’Accademia di Udine, Udine, Tipografia Doretti, 1924-1925, pp. 3-21.75 A tti della Deputazione, “Msf” , 1925; ivi 1927; cfr. anche A. Piani, Nazione e regione, cit.; su D. Del Bianco, ti­pografo ed editore, cfr. B. Chiurlo, Necrologio di Domenico del Bianco, “Msf”, 1931-1932-1933.76 Solo alcuni esempi: P.S. Leicht, presidente della Sff dal 1925 al 1945 è presidente dal 1921 al 1935 anche della deputazione e socio corrispondente dell’accademia. Ugo Pellis, Bindo Chiurlo, Giovan Battista Corgnali, Michele Gortani, Giovanni Brusin, Enrico Morpurgo, Giovanni Lorenzoni, Enrico del Torso, Luigi Suttina sono gli intel­lettuali costantemente presenti ai vertici dei sodalizi. I conti Gino, Giuliano e Ludovico di Caporiacco, il conte En­rico del Torso, i conti Enrico ed Elio Morpurgo, il senatore Giorgio Bombig, Alberto Asquini, Luigi Spezzoni sono alcuni dei nomi che si ripetono nel reticolo comune dei soci.

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tuali che orientano l’attività scientifica, te­nendo saldamente nelle mani tutte le fila dell’organizzazione culturale. È un piccolo mondo ricco di sfaccettature: eruditi, filolo­gi, glottologi, geografi, archeologi e storici di grande levatura la cui formazione è tut- t’altro che provinciale e le cui carriere non si esauriscono affatto nelle appartate regioni orientali. Alla scuola viennese di filologia e di storia dell’arte, nei seminari di archeolo­gia, organizzati ad Aquileia dai più noti maestri d’area tedesca, sono cresciuti molti di essi77. Per la maggior parte, la consuetu­dine con il mondo culturale germanico è co­munque strettissima: per Giovanni ed Olinto Marinelli che si fanno mediatori in Italia delle teorie geografiche ratzeliane78; per Pier Silverio Leicht che, dopo essersi laureato in giurisprudenza a Padova, si specializza a Li­psia; per tutti gli altri — anche meno famosi — che tramite contatti personali o attente segnalazioni critico-bibliografiche continua­no a guardare a quella realtà con vigile inte­resse79. Stupisce la capacità che molti hanno (Leicht, Paschini, Marinelli, Chiurlo) di vi­vere con eguale intensità la propria vicenda intellettuale sia sul piano locale sia su quello

nazionale: al Friuli essi ritornano come ad “un porto tranquillo dove non giungono i marosi della vita” , ma anche come ad un la­boratorio di nuove esperienze scientifiche80; sempre — comunque — come al luogo miti­co delle proprie radici ed alla sede privilegia­ta della propria legittimazione.

Accanto ai più grandi, una schiera di colti autodidatti, cultori delle tradizioni e del co­lore locale, poeti dialettali: versatili perso­naggi che spesso uniscono alla fatica del la­voro impiegatizio (la figura di Zeno Cosini ne rappresenta un po’ l’archetipo) il diletto della fantasia poetica e letteraria81. E poi an­cora una piccola pattuglia di donne, poetes­se ed artiste, che nel linguaggio dialettale trovano probabilmente una maggior sicurez­za d’espressione82. Infine moltissimi espo­nenti del clero che, nelle vesti di intellettuali organici di una realtà contadina — ancora quasi intatta — oppure in quelle di dotti rappresentanti di un universo di valori e di una cultura profondamente radicata e diffu­sa, fanno da interlocutori e referenti privile­giati83.

Le molte biografie di questi intellettuali, scritte in epoca fascista, esaltano due tappe

77 Matteo Bartoli e Giuseppe Vidossi studiano a Vienna; Giovanni Lorenzoni ed Ugo Pellis si laureano ad Inn­sbruck in filologia romanza; l’archeologo Giovan Battista Brusin si forma nei seminari organizzati ad Aquileia: cfr. G.P. Gri, La cultura popolare, cit., p. 1324; G. Bandelli, La ricerca, cit.8 Notizie in Maria Pia Pagnini, Geografia, in La ricerca scientifica. Enciclopedia monografica del Friuli Venezia

Giulia, Aggiornamenti, Udine, Istituto per l’Enciclopedia del Fvg, pp. 615-638.7 Tra tutti la figura più singolare è quella di G.B. Corgnali, direttore della Biblioteca comunale, studioso di topo­

nomastica e di onomastica, curatore, per conto della Sff, del catalogo unico delle opere riguardanti il Friuli: “cono­sceva un paio di dozzine di lingue”; era in rapporto con studiosi europei di gran fama: cfr. Carte Corgnali, b. 12 e b. 15 presso la Biblioteca civica di Udine e Leo Pilosio, G.B. Corgnali, “Ce fastu?”, 1954, n. 1-6.80 Leicht insegna Storia del diritto italiano all’università di Bologna, Giovanni ed Olinto Marinelli a Firenze, B. Chiurlo letteratura italiana a Torino, Pio Paschini storia ecclesiastica all’università lateranense; per i lavori scienti­fici dei Marinelli in Friuli cfr. M.P. Pagnini, Geografia, cit.81 Per tutti, Necrologio di Alberto Michelstaedter, in Studi goriziani, Gorizia, Tipografia Sociale, 1929; vice presi­dente della Sff dal 1923 al 1929, poeta dialettale, traduttore di testi dall’ebraico ed impiegato presso le Assicurazio­ni generali.82 Soprattutto: Lea d’Orlandi, pittrice, poetessa e studiosa di tradizioni popolari: cfr. Novella Cantarutti, Lea d ’Orlandi, premessa a L. D’Orlandi, // Friuli, Tolmezzo, Sff, 1987, ristampa anastatica [19241]; Anna Fabris, Ma­ria Gioitti del Monaco, Anna Maria di Villanova, poetesse; Licia Gasparini e Novella Cantarutti, scrittrici.83 I più noti: Giuseppe Ellero, autore, tra l’altro, di testi per il teatro popolare cattolico; Giuseppe Vale, Giovanni Trinko, Pio Paschini, Alceste Saccavino, direttore de “Il Strolic furlan”; ma poi: Luigi Ridolfi, Antonio Gallo, impegnati nell’assistenza degli emigranti. Ed i parroci: Tita Bulfon, Battista Monai.

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cruciali che, al di là delle multiformi espe­rienze personali, accomunano il gruppo: l’irredentismo e la guerra. Da una parte si colloca quindi — quasi fosse un rito iniziati­co — il maturare dell’idea di patria e di na­zione reinventata dai biografi sotto forma di modello unico e totalizzante; dall’altra, la partecipazione alla guerra in trincea, oppure presso il Comando supremo dell’esercito e nelle file dell’amministrazione civile per l’as­sistenza alla popolazione84. Al di là dell’ico­nografia apologetica, appare comunque cer­to che molti di essi proprio con la guerra ac­cedono a quel ruolo di funzionari dello Sta­to che il fascismo sarà poi in grado di esalta­re pienamente: ne ritroviamo infatti più d’u­no nei paesi dell’Europa danubiano-balcani- ca come propagatori della cultura italiana all’estero. Per tutti valga l’esempio di Chiur­lo che, a metà degli anni venti, riesce nel­l’impresa di fondare a Praga un Istituto di cultura italiana attraverso il coordinamento — che ben interpreta le nuove regole dello scambio culturale — di forze intellettuali, economiche e politiche85.

Sul confine orientale, intanto, i Pellis, i Lorenzoni, i Bartoli non sono solo generici ispiratori dell’opera di assimilazione delle popolazioni slovene, ma anche artefici in prima persona: a quel mondo, di cui ben co­noscono le vie d’accesso culturali e linguisti­che, essi si propongono inizialmente come “rieducatori” dei ceti colti dirigendo scuole e corsi preparatori per i maestri sloveni da conquistare alla “superiore civiltà italia­na”86. Più tardi, come membri delle com­

missioni ufficiali per l’onomastica italiana e come studiosi di toponomastica, avallano lo stravolgimento del linguaggio dei nomi e dei luoghi, memoria di una tradizione ‘diver­sa’87. A questi intellettuali che sanno usare le formule del ventennio, ma che possono vantare un tragitto più lungo e tutto l’orgo­glio di una sorta di primogenitura su idee e valori ereditati dal fascismo solo più tardi, il regime — nelle articolate ramificazioni loca­li — non ha suoi uomini da opporre. Dall’e­ditoria e dalla pubblicistica, dalle organizza­zioni collaterali del fascismo friulano — scosso frequentemente da violente crisi — non escono nuove carriere: così come nella gestione politica, il compromesso con il vec­chio mondo è d’obbligo anche nell’organiz­zazione culturale.

L’affidabilità politica e la militanza di molti degli esponenti della Sff e delle altre istituzioni costituisce in qualche modo una garanzia per il potere fascista: è significati­vo, tuttavia, che dagli organismi dirigenti delle stesse (e dalla cerchia più prestigiosa dei soci) siano rigidamente escluse anche le più autorevoli presenze del personale più prettamente politico del Pnf (Partito nazio­nale fascista). Questo riconoscersi tra ‘pari’, che la sociabilità promossa dai sodalizi così bene esprime, non sembra ammettere dero­ghe: il senatore Leicht, giunto tardi al fasci­smo dalle fila liberali, rappresenta un po’ la figura del patrono e del garante del mondo culturale (e politico) locale e delle sue tradi­zioni di fronte al regime, che malvolentieri indossa i panni del semplice comprimario.

84 Dopo la rotta di Caporetto, fu costituito a Roma un Alto commissariato per i profughi; cfr. Aldo Battistella, Un secolo di storia friulana (1866-1966), Udine, Del Bianco, 1967, pp. 74-78. Uno degli organizzatori è Olinto Mari­nelli; Anna Fabris ne diviene la segretaria.85 Notizie utili in “Bollettino dell’Istituto di Cultura Italiana” pubblicato a Praga dal 1923 al 1927, anno in cui si trasforma in “Rivista” . Tra i soci fondatori, le Assicurazioni generali, la Riunione adriatica di sicurtà (Ras), l’am­basciatore Bordonaro a Praga.86 Cfr. Giovanni Lorenzoni, Gli istituti di istruzione media del goriziano, in Studi Goriziani, Gorizia, Tipografia Sociale, 1924. Biblioteca per gli allogeni, “Rivista della Sff” , 1925 n. 1. Per l’interesse dimostrato da questi studiosi verso le tradizioni popolari slovene e croate cfr. sempre G.P. Gri, La cultura popolare, cit.87 G. Klein, La politica linguistica, cit., p. 98, p. 107 e passim.

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Mentre tuttavia tale protezione mette al ri­paro da urti troppo violenti la deputazione, l’accademia e la Saf — almeno fino ai de­creti del 193588 — i tentativi d’incursione fascista nei confronti della Sff appaiono più difficilmente arginabili. Non è in gioco solo il contrasto sull’uso del dialetto che esplode sul finire del 1931 e che si riduce in realtà ad un episodio sostanzialmente circo- scritto. “Piccola polemica giornalistica troppo leggermente iniziata” la definisce Leicht nel 193289. Le gerarchie del regime sono tentennanti nel pretendere l’abolizione radicale del dialetto mentre da parte sua la Sff sarà disposta a sminuirne il valore, ri­ducendolo al rango di un parlare esclusiva- mente domestico, da sot la nape (sotto la cappa del camino). Che per la Sff si tratti di espedienti tattici si può certo supporre: espedienti tuttavia capaci di dare corso a nuove chiusure e rivalità municipali. Le ar­gomentazioni tirate in ballo a difesa del friulano — parlata ‘ladina’ sensibilissima alle influenze della romanità, ma distinta dall’italiano — finiscono a loro volta col denunciare altri dialetti (il veneto soprattut­to) come fonte di inquinamento e come ostacolo al “giusto impero della lingua na­zionale”90. In ogni caso, a parte alcune for­zature e limitazioni, l’uso del dialetto nelle pubblicazioni della Sff non si interrompe.

Diventa emblematico, invece, l’assalto armato subito nel 1927 dall’Associazione

“Pietro Zorutti” di Cervignano, affiliata alla Sff: il fatto che il piccolo sodalizio sia il luogo d’incontro dei maggiorenti del pae­se e che mostri scarsa sollecitudine verso i rappresentanti del fascio locale, mette in moto il meccanismo dell’aggressione. Per intervento del prefetto la vicenda si risolve prontamente con l’arresto dei fascisti più scalmanati: il segnale tuttavia è preoccu­pante anche perché acquista il sapore di un ammonimento91.

Tra la Sff e il Pnf provinciale si stanno infatti svolgendo intense trattative proprio per definire i rapporti con l’Ond che evi­dentemente rivendicava un ampio controllo sulle manifestazioni pubbliche — in parti­colare, folkloriche — promosse dalla Sff. Dopo un periodo di crisi ed incertezza, si raggiunge nel 1928 una forma di precario compromesso: la Sff riesce a delimitare la presenza di esponenti dell’Ond in seno al suo consiglio direttivo, ma deve cedere la supervisione sulla Compagnia dialettale udinese e sul coro da essa stessa istituiti92. Tutto ciò senza contare il fatto che l’Ond, nelle sue ramificate articolazioni, apre il fronte della concorrenza sostituendo la Sff nell’organizzazione delle corali di paese, provvedendo da sé alla promozione di feste folkloriche, progettando l’edizione di una propria rivista dedicata esclusivamente alla produzione letteraria dialettale ed alle tra­dizioni popolari93.

8 In seguito al r.d. 20 giugno 1935 n. 1176, Approvazione del regolamento per le Regie Deputazioni di Storia Pa­tria; La Deputazione friulana viene ridotta al rango di sezione ed aggregata alla Deputazione di storia patria delle Venezie, presieduta dal senatore F. Salata: cfr. A tti Ufficiali, “Msf”, 1935. La Sff diventa nel 1936 ente morale, con gli statuti uniformati alla nuova legislazione: “Ce fastu?”, 1936 n. 11-12.89 X III Congresso della S f f “Ce fastu?” 1932, n. 10.90 U. Pellis, A i margini della friulanità, “Ce fastu?”, 1933, n. 10.91 Tutta la vicenda in Asu, Apu, busta 6 sf. Cervignano, Associazione Zorutti.92 Delle laboriose trattative riferisce Leicht, IX Congresso della Sff, “Ce fastu?” 1928, n. 1: entra nel Consiglio di­rettivo Vittorio Marcovich (poi Marcovigi), responsabile provinciale dell’Ond. Inizialmente la Sff sembra conserva­re margini di autonomia nella gestione del coro e della compagnia dialettale: più tardi pare debba senz’altro rinun­ciarvi: cfr. XVCongresso della Sff, “Ce fastu?”, 1934, n. 5-6.93 Cfr. Attività dell’Ond, “La Panarie” , 1927, n. 23. Una sezione locale dell’Ond fa rinascere la tradizione dei fuo­chi dell’Epifania [Lis cidulis]. Cfr. Spigolando, “Ce fastu?”, 1930, n. 1.

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L’intera vicenda si presta in ultima anali­si, ad una serie di ‘letture incrociate’ di grande interesse. Di certo alla Sff viene in- ferto un duro colpo proprio negli anni in cui, dopo lo slancio iniziale, avverte con preoccupazione di perdere terreno tra il grande pubblico dei non specialisti ed in particolare tra le giovani generazioni94. D’al­tro canto l’Ond, molto più capillarmente presente su tutto il territorio regionale e molto più pronta ad attrarre il pubblico con un’offerta differenziata di proposte culturali (sport, turismo, feste, eccetera), può giunge­re laddove la Sff non avrebbe mai osato spe­rare. Implicito in questo passaggio di mano è il rischio di scolorire i tratti di quella “friu- lanità” di cui la società si sente unica artefi­ce e depositaria: contro i tentativi di diffon­dere un’immagine “massificata e coreografi­ca” del Friuli la presidenza della Sff inter­viene infatti più e più volte ammonendo al rispetto delle “fonti originarie d’ispirazione tradizionale e paesana”95. Per l’Ond, a sua volta, la via d’accesso alla realtà locale è da­ta dal reticolo culturale preesistente, dal dia­letto e dalle tradizioni: alle regole di quel mondo antico si deve adattare, con esse deve convivere, pur iniziando una lenta opera di trasformazione.

Consonanze fasciste

Per quanto idoleggiata nelle sue espressioni di diversità, l’identità friulana in questi anni è composta da molti degli stessi elementi che formano l’intelaiatura ideologica del fasci­smo: l’una e l’altra cultura sono spesso avvi­luppate dagli stessi miti, dalle stesse rituali­

tà, da comuni valori. Così per le tematiche più sopra ricordate del nazionalismo, così per quello che può essere definito il ‘pregiu­dizio della latinità’. Ancora una volta il fa­scismo non inventa, bensì raccoglie, esalta e diffonde i tratti di un culto già ben sedimen­tato in alcuni settori significativi della cultu­ra locale: per questo, forse, i miti della ro­manità e della nazione non restano vuoti in­volucri di cartapesta.

Per la Sff scrivere “il friulano da italiani” diventa la parola d’ordine che imposta le nuove norme per la corretta grafia del dia­letto, emarginando di fatto varietà di scrit­tura non omologabili allo schema96. La lotta tra romanità e germanesimo costituisce l’as­se portante del breve ma fortunatissimo compendio sulla Storia del Friuli scritto da Leicht97: il popolo friulano (borghesia citta­dina in unione alle plebi urbane e rurali) in­carna la continuità della tradizione romano- aquileiese nell’agitato periodo medioevale divenendo così il più importante veicolo d’affermazione d’italianità. Nel più lontano passato viene dunque proiettata l’origine di una coscienza sia dell’italianità sia della friulanità, ambedue già compiutamente sbozzate: è quasi un percorso parallelo, un rispecchiarsi reciproco, la reinvenzione di una “genialità friulana” nel grembo del “primato italiano”. In effetti l’impressione è che tanto il mito di Roma quanto, e forse più, quello deha grande guerra costituiscano il filtro attraverso cui si tenta di liberare l’immagine del “friulano” da scorie ed im­purità. Il “friulano, civis romanus”, eroico combattente, soldato ed alpino, non può es­sere lo stesso che le dicerie, le leggende ed i “blasoni popolari” hanno delineato e fatto

94 IX Congresso della Sff, cit., pp. 156-157; V ili Congresso della S ff, “Ce fastu?”, 1927, n. 11-12. Lentamente, nel corso degli anni trenta, la Sff perde anche soci: 1600 nel 1938 al posto dei 2500 del 1931.95 V ili Congresso della Sff, cit., p. 8. Soprattutto: Una lettera de! Podestà di Udine e i canti popolari friulani, “Ce fastu?”, 1940, n. 1.96 Commissione per la grafia, “Il Bollettino della Sff”, 1920, n. 4 e R. Pellegrini, Tra lingua, cit., p. 281 e sgg.97 P.S. Leicht, Breve storia del Friuli, cit.

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circolare nel passato: testardo, greve, chiu­so, taccagno selvatico98. A sua volta la roz­zezza agreste è trasfigurata dall’ideologia del regime secondo moduli che dilatano ed innovano forme di idealizzazione del mondo contadino care alla cultura cattolica e positi­vista. Un solo esempio. Nel 1928, a Roma, si celebra la più importante kermesse della “scoperta del Friuli”: dedicata alla “terra martoriata dalla guerra” viene infatti proiet­tata in alcune sale cinematografiche della ca­pitale la prima pellicola della serie di “films .nazionali” che l’Istituto Luce intendeva pro­durre in collaborazione con l’Ond, allo sco­po di far conoscere al grande pubblico “l’e­norme ricchezza suggestiva ed estetica disse­minata in ogni zona d’Italia”. Il film Senti­nella della patria — la cui regia è affidata a Chino Ermacora, direttore de “La Panarie”— ripercorre la via sacra dei ricordi e dei ci­meli di guerra in uno scenario di vita di pae­se fatto di tradizioni, cori ed operosità. “L’ondata di poesia montana” che trabocca dalla pellicola, e dalle manifestazioni folklo- riche organizzate a latere, avvince ed incanta— commenta la stampa — perfino gli smali­ziati spettatori romani99. “L’impronta rude della coraggiosa anima friulana” è il topos che ricorre nei discorsi dei più alti gerarchi fascisti in visita in regione100, dove reinven­zione e legittimazione di una realtà cristalliz­zata nelle sue strutture sociali sembrano in­trecciarsi e confondersi.

Quale riverbero potesse poi ricevere dalla mitologia unitaria della nazione il concetto stesso di “popolo friulano” inteso come uni­

tà organica e come ethnos nel solco della tradizione ottocentesca, è appena il caso di ricordare: identità nazionale ed identità lo­cale, anche da questo punto di vista, si rico­noscono e si rinsaldano vicendevolmente. Su queste basi gli intellettuali costruiscono mo­delli edificanti e raffigurazioni elevate in cui i tratti indelebili dell’indole friulana si ri­specchiano sotto forma di onestà e sobrietà, spontaneità e dominio delle passioni, forza e misura. L’intento educativo è pari al deside­rio di riscatto: tant’è che immagini ingentili­te varcano l’oceano e si impongono negli ambienti delle “famiglie friulane” del Nord e del Sud America (Buenos Aires, New York, Toronto) che organizzano ed assisto­no gli emigranti della regione e che già dalla metà degli anni venti intrattengono stretti rapporti di interscambio culturale con la Sff.

Nel clima di controllo ed esaltazione na­zionalistica che il regime ha creato intorno alle colonie d’italiani all’estero, la nuova ico­nografia del “friulano” trova la cornice più adatta. Essa diventa, tra l’altro, strumento ideologico per emarginare dai sodalizi un Lumpenproletariat di emigranti meno facil­mente disciplinabile101. In patria, questa effi­gie del “popolo friulano” comporta poi una particolare selezione del materiale relativo alle tradizioni popolari: la raccolta delle “vii- lotte”, ad esempio, promossa e curata dalla Sff sembra escludere sistematicamente le espressioni meno edulcorate attribuendo a tali canti corali la virtù di manifestare la “ve­ra anima friulana”102. Vizi e devianze di-

8 Su queste tematiche cfr. G.P. Gri, La cultura popolare, cit.; G. Vidossi, Il friulano nel blasone popolare, “Ce fastu?”, 1932, n. 1-2.99 La Sentinella della Patria, “La Panarie”, 1928, n. 25.100 Si tratta del discorso di Giuseppe Bottai in occasione dell’inaugurazione della mostra di Giovanni Antonio Por­denone. Cfr. // ritorno de! Pordenone tra la sua gente, “La Panarie”, 1939, n. 86.101 La famee furlane di Buenos Aires, “Ce fastu?”, 1928 n. 1 e La famee furlane di New York, “Ce fastu?”, 1940, n. 1-2.102 Per tutti cfr. Enrico Morpurgo, Della pillotta friulana, “Ce fastu?”, 1933, n. 2-3; cfr. Luigi Ciceri (a cura di), Villotte e canti popolari del Friuli, Udine, Sff, 1986, pp. XIV-XV.

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ventano oggetto di raffigurazione macchiet- tistica. Così per il grave problema dell’al- coolismo: ancora argomento di studio nelle sedi più appartate, cessa di essere motivo di sensibilizzazione deH’opinione pubblica, co­me invece avveniva con la propaganda an- tialcoolica di inizio secolo. Nelle pagine del “Ce fastu?” e soprattutto de “Il Strolic fur- lan” la figura dell’ubriacone è ricorrente: occasione di riso e/o di tollerante complici­tà, non certo di riflessioni più articolate e approfondite103.

Resta da capire se l’identità friulana così rimodellata (tra l’orgoglio della diversità ed il forte senso di appartenenza ad una civiltà che — grazie all’inveramento fascista — pro­mette a tutti fulgidi destini) sia poi in grado di orientare insieme cultura colta e cultura popolare ottenendo lo stesso consenso in tut­ti gli ambienti sociali. Una risposta non gene­rica — in questa fase della ricerca — mi pare difficile. Diventa quindi un indizio impor­tante il fatto che tanto ne “Il Strolic furlan” quanto in altre fortunate serie di almanac­chi104 rivolti — come è noto — ad un pubbli­co di contadini, artigiani e bottegai, gli au­tori debbano giustapporre ai modelli edifi­canti raffigurazioni meno levigate. Da que­sti lunari balza fuori il popolo dei paesi e delle borgate. Un mondo che ruota intorno ai ritmi lenti della vita quotidiana e che rico­nosce in alcune figure chiave (il prete soprat­tutto, la maestra, il podestà, il commercian­te) i suoi punti essenziali di riferimento. Mi­serie, furberie e stravaganze compongono l’affresco: al popolo friulano unito nella sua compattezza fanno da contrappunto “i friu­lani” spesso in lotta tra loro da municipio a municipio; hanno udienza le inflessioni dia­

lettali più diverse. Certo si tratta ancora di stereotipi, di ritratti fatti in serie per far ri­dere e commuovere, che tuttavia lasciano af­fiorare brani di una realtà difficile da com­primere. Trapela spesso un conservatorismo greve che nella delineazione dei rapporti uo­mo-donna, moglie-marito si dispiega piena­mente; un antimeridionalismo più acceso; lo scherno più becero contro le ‘modernità’ in­trodotte (l’imputato principale ancora una volta è donna) negli usi e nei costumi tradi­zionali. Accanto a ciò si rendono manifesti chiari segnali di insofferenza per le durissi­me condizioni di vita in cui il Friuli ristagna a cavallo della grande crisi. Frequenti le cri­tiche — sotto forma di parodia — contro “che che comandin [...] parcè che il pùar al ven spelât a sane a fuarze di tassis”105.

L’esaltazione del piccolo mondo di paese come sintesi di tutte le cose, come autentica dimensione del reale, rappresenta a sua vol­ta l’esempio di un contrasto non sanato tan­to con le altisonanti raffigurazioni della grandezza e della potenza d’Italia lanciate dalla propaganda quanto con il modello di rapporto autorità/cittadino imposto dal re­gime. Se per “parlare al popolo” gli intellet­tuali usano moduli diversi, diverse sembra­no essere dunque, anche le proposte per l’autoidentificazione. Nella costruzione del­l’identità friulana un ordine gerarchico è ri­spettato: un modello elevato più confacente alle classi dirigenti ed un modello di tono minore più adatto ai ceti subalterni convivo­no sotto il manto dell’unità mitizzata e fun­zionante come ideologia di orientamento e di riconoscimento. Tutta la forza della fin­zione e tutta l’ingombrante presenza di un drammatico vissuto trovano in questi anni

103 Cfr. Daniela De Bianchi - Nicoletta Stradi, li rifugio negato: iniziativa antialcoolica e “società del vino" nei Friuli del primo Novecento, “Mos”, 1985, n. 1.104 Si tratta degli Almanacchi scritti da Arturo Feruglio che hanno come protagonista “Titule Lalele, botegar di Surisins” [Titule Lalele bottegaio di Surisins]: cfr. Appunti e Notizie, “Msf” 1937-1938, cit.105 Traduzione letterale: “quelli che comandano [...] perché il povero viene scorticato a sangue a forza di tasse”.

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emblematica rappresentazione nei servizi fotografici che Umberto Antonelli cura per la Sff. Le foto artistiche che ritraggono flo­ride e serene donne friulane nei costumi tra­dizionali (futuro soggetto di una fortunata serie di cartoline illustrate) trattengono, oc­cultati ai margini, i segni di un ambiente umano diverso e sofferente: l’ingrandimen­to dell’immagine permise tempo fa ad alcu­ni ricercatori la singolare scoperta106. Sulla stessa lastra resta impresso quindi il Friuli reinventato sotto forma di “Eden silenzioso profumato di lisciva” e la miseria che non può avere né cantori né illustratori ufficiali; ideologia e realtà strette insieme da un lega­me indissolubile, aspetti che nell’Italia d’al- lora sembrano essere ugualmente ‘veri’, ugualmente insopprimibili.

Alla fine della seconda guerra mondiale, la “piccola patria” , forte del proprio parti­colarismo ma cresciuta nelle pieghe della dittatura, ribelle ad ogni tentativo di omo­logazione e appiattimento, ma incapace di nutrire di nuova linfa la propria alterità, offre un’altra occasione di rifugio: vecchie indicazioni di moderazione e di pacificazio­ne si mescolano a nuove (ed affrettate) as­

soluzioni. Il fascismo — vien detto — fu fenomeno importato “da fuori” e non potè quindi contaminare l’identità dei friulani. All’appuntamento della seconda ricostru­zione, la Sff e gli altri sodalizi si presenta­no con un ricco bagaglio di esperienze e di cultura: i materiali raccolti, i messaggi dif­fusi (sarebbero stati gli stessi senza l’eco fa­scista?), le vie battute nel tentativo di ag­gregare più ampi strati di popolazione pos­sibile intorno al paradigma della friulanità costituiranno un serbatoio di acquisizione e di valori preziosissimo per il futuro. Vi at­tingeranno a piene mani le nuove genera­zioni di cultori della “piccola patria”, le nuove forze autonomiste, cresciute nel flus­so di rapide trasformazioni economico-so- ciali in grado — certo per la prima volta — di scardinare dalle fondamenta il vecchio mondo. Alla base delle nuove ritualità e della nuova simbologia che vuol segnare il distacco (e la separatezza) dal ‘centro ro­mano’, alla base della radicalità dei nuovi linguaggi non è difficile scorgere tuttavia il tracciato di antichi percorsi107.

Anna Maria Vinci

106 Marco Puppini et al., La Carnia di Antonielli, Trieste, La editoriale libraria, 1980.107 Soprattutto Francesca Ulliana, Tornare con la gente. Clero ed identità friulana, Udine, Il Campo, 1982. Su au­tonomia e problemi d ’identità nazionale/regionale, vedi anche in Le autonomie etniche e speciali in Italia e nell'Eu­ropa mediterranea. Cagliari, Pubblicazioni del Consiglio regionale della Sardegna, 1988.

Anna Maria Vinci, ricercatrice presso il Dipartimento di storia dell’Università di Trieste ha studiato tematiche relative alla storia della società e delle culture locali nell’Italia fascista. Tra i suoi lavori Ma­lattie e società: il caso istriano (1985); Venezia Giulia e fascismo. Alcune ipotesi storiografiche (1988); “Geopolitica” e Balcani: l’esperienza di un gruppo di intellettuali in un ateneo di confine (1990).