Il silenzio verde
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– Tu aspetti solo che muoiono tuo padre e tua madre per prenderti
la casa.
Gabry una sera gliel’aveva detto in faccia, seria seria. Poi aveva tira-
to su gli angoli della bocca, per tentare un sorriso; ma nessuno c’aveva
creduto, che voleva scherzare. Matteo si girò da un’altra parte, con un
piccolo scoppiettio isterico in gola, e si mise a fissare due tre facce
sconosciute nella folla di via Roma.
È una parola, aspettare che muoiono: Matteo non ha nemmeno
trent’anni, e i genitori si sono sposati giovani, come tante coppie di ar-
tisti all’inizio degli anni Settanta. C’era questa fretta di fare figli, per
dimostrare che si potevano educare diversamente, per vestirli di stracci
e farli rotolare nell’erba e nel fango, o circondarli di pastelli e tempere,
senza nessuno che diceva: “Non toccare, è cacca!”.
No, che i suoi genitori morissero non c’era da farci affidamento per
almeno qualche decina d’anni. Scoppiavano di salute e insegnavanoall’istituto d’arte. Niente stress, quindi, e una moderata attività intellet-
tuale che aiuta a tenersi giovani. E poi Matteo aveva pure una sorella, e
metà della casa, vuoi o non vuoi, spettava a lei. Sparte ricchezza, addeventa
puvertà .1
Casa di Matteo sta a via Trotula de Ruggiero, una stradina della Sa-
lerno vecchia che sale vigorosamente, lasciandosi dietro, di giorno, la
luce sfrenata delle piazze e delle strade vicine al mare; di sera, le chiac-
chiere rumorose dei ragazzi. A forza di arrampicarsi su quella salita,
che gli scrollava di dosso, un passo dopo l’altro, ogni contaminazione,
Matteo aveva cominciato a nutrire pensieri da nobile decaduto: con la
1 In dialetto napoletano: “Dividi la ricchezza, diventa povertà”.
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stessa signorile condiscendenza posava lo sguardo sul bucato steso a
mezz’aria in un vasto androne che sapeva di umido, e sulle facce popo-
lari che di tanto in tanto incrociava, o che si affacciavano insensata-
mente, come staccate dal corpo, sull’uscio di qualche basso.2 A volte
quegli incontri gli lasciavano uno stupore doloroso, come se si aspet-
tasse da tutti un cenno rispettoso che non gli veniva concesso mai.
– Pitto’!
Fu questo, accompagnato da un movimento del mento dal basso
verso l’alto, il saluto irriverente di un ragazzotto che affondava nella
discesa con un amico che gli stava quasi attaccato, mezzo passo dietro.
Uno tarchiato, l’altro segaligno, erano affratellati dai capelli rasati, co-
me se nei geni familiari il terrore dei pidocchi fosse sopravvissuto alla
loro materiale estinzione. Anche i capelli di Matteo erano rasati, ma
appartenevano a un’altra specie, perché il taglio serviva soltanto a na-
scondere la stempiatura e un precoce ingrigimento. Matteo rispose conun ciao distratto e risentito.
– Pittame ’stu cazzo! – concluse il tarchiato, artigliandosi i genitali
con la mano e scuotendoli vigorosamente. Aveva parlato a voce più
bassa, quando Matteo era passato e non poteva sentirlo. Matteo sentì
però la risata del segaligno, una specie di rantolo convulso, e seppe che
si rideva di lui. Il tarchiato aggiungeva quella frase oscena ogni volta
che salutava il pittore, come un proverbio, e il segaligno ogni volta ran-
tolava di piacere.
L’ascesa del giovane rampollo si concludeva scalando le due rampe
di scale che lo portavano alla porta di casa. Ma prima bisognava attra-
2 I “bassi” ( vasci , in napoletano) sono quelle modestissime abitazioni al pianterreno chedanno direttamente sulla strada.
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versare l’androne del palazzo, una grossa caverna buia e fredda, mala-
mente protetta da una vecchia cancellata di un ferro verdastro mezzo
scrostato. La cosa che più lo indispettiva erano le cassette delle lettere,
dalle forme incomprensibilmente diverse, dai colori in conflitto, aggan-
ciate al muro ad altezze diverse. E i nomi, poi! Nessuno, per esempio,
aveva pensato di armonizzare lo stile e le dimensioni dei caratteri. Non
c’era un amministratore per queste cose? C’era o non c’era? Matteo si
accorse che non lo sapeva con certezza.
“Devo ricordarmi di chiederlo a mamma”, pensò.
Matteo fa il pittore. Il suo studio è una stanza rettangolare, con un
balconcino sul lato corto da dove la luce si spande nella stanza come
una secchiata d’acqua. Dal balcone puoi vedere e nominare a uno a
uno tutti i punti della città. Più in là c’è il mare, smisurato, e sulla destra
il malinconico porto commerciale, e la scura costa rocciosa che lo
chiude da quel lato. Sembrerebbe di affacciarsi su una cartolina, se ilpanorama non fosse guastato da una quantità di costruzioni che inter-
rompono il pittoresco con l’incuria e la speculazione criminale.
Neanche il più piccolo rumore disturba Matteo quando lavora, a
parte qualche sparuta e fioca sirena di nave, e qualche gabbiano che
plana gracchiando verso le colline quando il cielo s’imbroglia .3 Le sue te-
le e le sue carte sono appese e accatastate dappertutto, con la sprezza-
tura dell’artista che non si preoccupa di dare il giusto rilievo alle sue co-
se , e lascia che gli amici lo rimproverino dolcemente per questo. Casa
sua è sempre piena di amici, tutti artisti, ciascuno a modo suo. In gene-
re basta entrare in casa sua per farselo amico, e questa liberalità lo e-
3 Imbrogliarsi , in napoletano, equivale a “rannuvolarsi”.
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spone talvolta a qualche errore di valutazione. Vedi Gabry, per esem-
pio: le aveva prestato la monografia su Picasso che non era mai uscita
dalla sua stanza, e lei lo ripagava con quella pugnalata...
– Che cosa sei, che cosa sei, che cosa seeeeeeei? Non cambi mai, non cambi mai,
non cambi maaaaaaaaai!
Matteo sfugge ai discorsi noiosi degli amici non ancora fidati met-
tendosi a cantare le canzoni di Mina. Quando comincia, è come se an-
dasse in trance , e non si riesce a farlo smettere. Allora gli amici non an-
cora fidati smettono di frequentare casa di Matteo perché lo trovano
noioso con quella mania di mettersi a cantare quando meno te l’aspetti.
Appena mise piede in casa, la madre lo chiamò dalla cucina, che
stava in cima alle scale.
– Che c’è? – fece Matteo.
– Vieni un attimo, ti devo dire una cosa.
– Arrivo! – disse, ma prima passò nello studio a posare il quader-netto indonesiano che portava sempre con sé, quello coi disegni a
penna e le poesiole scritte di getto, su una panchina del lungomare o
accucciato sul marciapiede di Largo Campo, davanti all’Alcool. Il qua-
derno finì sul tavolo, che era ingombro di carte, cataloghi e pennelli.
“L’amministratore!”, pensò, quando mise piede sul primo gradino;
ma prima dell’ultimo se n’era già dimenticato.
– Che c’è, ma’?
La madre di Matteo stava lavando i piatti, ma aveva addosso un ve-
stitino nero che avrebbe fatto buona figura a un vernissage , e un dito di
matita intorno alle palpebre. Era appena mezzogiorno.
– Senti, stamattina ho incontrato l’architetto Marciano, te lo ricor-
di? È amico pure di papà...
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– Ha-ha, – fece Matteo, con la testa ficcata nel frigo. Non se lo ri-
cordava affatto, ma non aveva voglia che la madre partisse con una
delle sue lunghe genealogie che confondevano le idee invece di schia-
rirle.
– Ci siamo messi a parlare… Le solite cose… Poi mi ha chiesto di
te. Ti ricordi che era venuto anche alla tua ultima mostra?
– Ha-ha, – fece Matteo, mentre si riempiva un bicchiere di succo di
albicocca. Figuriamoci, alla sua mostra era venuta tanta di quella gen-
te...
– Dice se vuoi passare da casa sua: vorrebbe mettere un quadro in
testa a una porta, se ho capito bene, e stava pensando a una delle tue
tavole triangolari.
– Hu, – fece Matteo, col succo fresco che gli scorreva in gola. –
Uno già fatto o da fare?
– Da fare, credo. Un paesaggio con animali, se ho capito bene.Matteo fece una smorfia.
– Un paesaggio con animali? Non lo so. Nelle tavole triangolari ci
stanno meglio le figure umane.
– Vedi un po’ tu… Magari li puoi mettere mischiati, animali e uo-
mini. Gli piacerà. Sicuro.
– Hum, vediamo… Lo chiami tu per prendere appuntamento? –
Matteo prese un fico da un cestino di vimini.
– No, lasciali stare. Me li ha portati zio Michele da Paestum, ma so-
no ancora acerbi. L’appuntamento l’ho già preso per oggi alle cinque,
se per te va bene. Magari una scena di caccia, che dici?
Matteo era un po’ seccato: alle cinque avrebbe fatto ancora un gran
caldo, e non gli andava di discutere di pittura con quel tempo afoso.
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Ma più di tutto gli dava fastidio che sua madre prendesse appuntamen-
ti per lui senza consultarlo: e che diavolo, poteva anche avere un impe-
gno, no? Ma non disse nulla: lasciò il fico nel cesto e tornò alla bottiglia
di succo di albicocca. D’altra parte, nemmeno gli andava di costringere
sua madre a richiamare per spostare l’appuntamento; e poi, che diavo-
lo!, alla fine impegni non ne aveva.
– Dove abita st’architetto?
– A via Francesco Gaeta. Me lo ha scritto su un tovagliolino del bar
dove abbiamo preso il caffè.
– E dov’è questo posto?
– Il bar Arechi, quello al corso, dove fanno gli aperitivi con tutti gli
stuzzichini…
– Non il bar, la via dove abita.
– Ah! Sta a Pastena, vicino alla chiesa della Madonna di Fatima.
A Matteo bastava sentire il nome di uno di quei quartieri periferici: Torrione, Pastena, Mariconda, e perfino Sala Abbagnano, che era un
posto per ricchi all’inizio della collina; gli bastava sentirli pronunciare,
che subito inorridiva. Fece schioccare le labbra: gli sembrò di sentire
nel succo di albicocca un retrogusto amaro.
– A Pastena? E che ci fa un architetto a Pastena?
– Guarda che a Pastena non ci stanno gli zingari. Perché, il dottor
Langella non ha lo studio là?
Matteo finì con gli occhi sul telecomando e accese la televisione.
– Sì, ma un architetto dovrebbe avere un poco più di gusto. Tutti
quei palazzi orrendi...
Un canale locale trasmetteva un dibattito politico.
– Figuriamoci come sarà la casa dentro.
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Due politici si azzannavano su una questione di immondizia e ince-
neritori.
– Se sei circondato dalla bruttezza, la bellezza non la vedi più! – Fe-
ce una rapida piroetta e disse: – Alé! – Era il suo modo di festeggiare
una frase felice.
Sua madre intanto gli aveva voltato le spalle per finire i piatti.
– Fai come ti pare. Se vuoi andare, vai, se no lo chiamo e gli dico
che hai altro da fare.
Matteo si avviò giù per le scale con un’arancia in mano. Aveva vo-
glia di dipingere. Sua madre si asciugò le mani con uno straccio e cercò
il telecomando per spegnere la tivù. Il vestito nero era tutto schizzato
di acqua e detersivo, e si chiese perché l’avesse tenuto per quel lavoro
infame.
– No, no, ci vado, se no poi ti lamenti un’altra volta che perdo le
occasioni, – gridò Matteo da sotto.Qualche occasione, in effetti, Matteo l’aveva avuta davvero. Piccole
cose, ma che a saperci fare gli potevano dare un briciolo di fama, qual-
che buon contatto, e magari un agente che lavorasse per lui (ah, la pro-
verbiale pigrizia di Matteo!). Gli era capitato di infilarsi in qualche col-
lettiva in giro per l’Italia, e una volta anche in Germania, ad Amburgo.
Poi aveva cominciato con le personali, a Salerno e nei dintorni. Un cri-
tico salernitano che pubblicava con editori di buon livello gli aveva
scritto un’introduzione a un catalogo. Poi, un po’ la pigrizia, un po’ un
talento che tardava a esplodere, Matteo si era adattato a vivere una bo-
hème casalinga, con l’ampio cielo della sua stanza al posto dell’angusta
soffitta di Montmartre, e la confortevole e soffocante presenza dei fa-
miliari invece di un doloroso ed esaltante sradicamento.
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“Devo dare qualcosa a Carlos”, pensò Matteo, in piedi nell’autobus
numero otto che lo portava a Pastena. Nella tasca degli ampi pantaloni
di cotone, stampati a disegni etnici, aveva il fazzolettino del bar Arechi
con l’indirizzo dell’architetto. Aveva appena oltrepassato la grande
piazza della Concordia, il confine del centro cittadino per chi si dirige a
sud, e già guardava fisso fuori dal finestrino: la madre gli aveva consi-
gliato di scendere alla fermata delle giostrine, e non voleva rischiare di
finire oltre, in mezzo ai leoni.4 L’autobus costeggiava il lungomare, ol-
tre il quale si estendeva la spiaggia, costipata di ombrelloni e bagnanti,
un grumo di cose e persone inscindibili le une dalle altre, come se fos-sero tutte partecipi di una stessa materia.
Carlos era un ragazzo argentino che da anni, per motivi rimasti
sempre oscuri, si era trasferito a Salerno. Dipingeva e creava bizzarre
sculture con fili di ferro, stoffa, e qualunque altro materiale gli capitas-
se sotto mano; ma soprattutto organizzava mostre con l’associazione
culturale che aveva fondato: ne metteva su almeno tre o quattro l’anno,
ogni volta su un tema diverso. Quelli che restavano immutabili erano
gli artisti, un gruppuscolo di giovani di valore discutibile, che si inco-
4 Matteo aveva pensato alla frase latina Hic sunt leones (“Qui ci sono i leoni”), che gli antichicartografi ponevano sui territori inesplorati nelle loro mappe, per non confessare che nonavevano la minima idea di chi li abitasse. Naturalmente, minacciare la presenza di leoni eraanche un ottimo modo per scoraggiare la curiosità di quegli esploratori che avrebbero po-tuto smentirli.
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raggiavano a vicenda, credendo che le reciproche congratulazioni ba-
stassero a farne dei buoni pittori, scultori, performers . A ogni mostra si
ritrovavano un po’ meno giovani, ma conservavano intatta la fiducia in
un futuro luminoso. A volte qualcuno litigava con Carlos e veniva e-
stromesso dal gruppo. Prima o poi gli esclusi diventavano una massa
consistente, mettevano in piedi una nuova associazione, e contendeva-
no a quella di Carlos i finanziamenti del Comune. Naturalmente smet-
tevano subito di congratularsi con gli artisti concorrenti.
– Il silenzio verde. Il silenzio verde. – Matteo ripeteva il titolo della
mostra come una giaculatoria, sperando di vedersi apparire davanti agli
occhi, strappata alle tenebre, l’opera che avrebbe esposto. Non aveva
chiesto a Carlos il perché di quel titolo; non lo chiedeva mai. In genere
se lo ripeteva a mezza voce, poi immancabilmente piegava la testa da
un lato, puntava l’indice col braccio teso, e: – Bello! – diceva, – Mi pia-
ce!Così fece pure col silenzio verde. E come le altre volte spiegò per-
ché si sentiva molto attratto dal silenzio, e perché amava il verde, e so-
prattutto perché la congiunzione di quel sostantivo e di quell’aggettivo
gli squarciavano l’anima come un’anguria precipitata a terra.
– Per me le colline di Paestum sono il silenzio verde, – disse a Carlos,
fremendo come se un fiotto di ricordi puri e terribili l’avesse invaso.
Peccato che Matteo non avesse mai dipinto una collina di Paestum, e
quasi mai paesaggi. A lui interessava soltanto l’uomo. Un volto
dall’incarnato verdognolo, forse olivastro come gli ulivi di Paestum. Un
uomo senza bocca, privo della parola, silenzioso. Ecco cosa ci voleva,
per la mostra!
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“Le giostrine,” pensò, vedendosi scorrere davanti il verde acido
dell’impianto dell’autoscontro. Nessuno aveva prenotato la fermata,
così fu costretto a scendere a quella successiva, davanti al distributore
di benzina. Era molto seccato, perché le indicazioni di sua madre par-
tivano dalle giostrine, e ora la sua sbadataggine gli aveva scompigliato i
piani.
Senza bocca, d’accordo, ma anche senza orecchie. Un uomo privo
di voce, ma anche privo della possibilità di ascoltare i suoni del mondo.
Un uomo non solo silenzioso, ma anche immerso nel silenzio. Niente di più
angosciante. Il quadro era fatto. Ora Matteo avrebbe voluto trovarsi
nella sua stanza, aprire le imposte per far entrare una secchiata di sole,
mettere un cd di Mina e dipingere cantando in un duetto epocale.
– Se telefonando io potessi dirti addio…
Invece gli toccava cercare via Francesco Gaeta, partendo pure dal
posto sbagliato. Per un attimo pensò di tornare a piedi alle giostrine, edi là riagganciarsi alle indicazioni di sua madre; ma il suo obiettivo si
trovava, rispetto alle giostrine, a una ventina di metri in direzione sud,
e non gli andava di percorrerne quaranta inutilmente: non voleva darla
vinta alla sua sbadataggine. Così attraversò la strada, e si lasciò risuc-
chiare dalle vie di Pastena, giurando che mai più in vita sua si sarebbe
distratto così scioccamente.
I palazzi moderni gli parevano tutti uguali, come frotte di cinesi,
che a guardarli bene le differenze ci sono pure, ma non siamo mai in
grado di nominarle. I palazzi della città vecchia no, quelli avevano o-
gnuno un’irriducibile personalità. Matteo credeva che fosse per via del-
la Storia di cui si erano nutriti nei secoli, ma forse era solo per la rela-
zione spaziale che avevano con casa sua. Ecco, quello è il palazzo col
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portone di legno scuro e poroso che resta a destra appena imboccata la
prima traversa; quella è l’ampia scalinata che s’allarga nello spiazzo da-
vanti alla chiesa sconsacrata, alla fine della quale, di sera, si comincia a
sentire il brusio dei ragazzi che oziano nella piazzetta lì sotto, quella
che si raggiunge percorrendo la stradina dei quindici passi (li aveva
contati una volta chissà perché, e ora quel vicoletto aveva preso il no-
me della sua lunghezza); questa nera pietra, invece, è quella del palaz-
zone che per primo attira il suo sguardo quando si affaccia al balcone
nelle mattine luminose.
A immaginarla da Pastena, casa sua era come un sole che emana
raggi paralleli, cosicché ogni punto di quelle vie ampie e squadrate ri-
mane ugualmente e misteriosamente distante da essa. Fu così che Mat-
teo, svoltando e risvoltando, si perse. Quando se ne convinse, si fermò
a un piccolo incrocio e tirò fuori il fazzolettino del bar Arechi, come se
si aspettasse di leggervi la soluzione al problema. Invece c’era scrittosolo un indirizzo che conosceva già a memoria. Ormai inutile, il fazzo-
lettino finì appallottolato in un cestino.
Si avviò verso il lungomare, rassegnato a tornare alle giostrine. Nel-
la città vecchia, se si vuole arrivare al mare basta fare come i fiumi, but-
tarsi giù per ogni pendenza; lì a Pastena, invece, tutto è piatto, e in certi
punti ti sembra che la terraferma potrebbe estendersi per chilometri e
chilometri intorno a te. Ma l’istinto di Matteo per il mare era infallibile,
e prese subito la direzione giusta.
– Scusate, mi sapete dire se ci sta una farmacia da qua attorno?
Era un uomo anziano che gli aveva rivolto questa domanda; aveva
il viso rosso striato di venuzze viola, e una camicia celeste di un cotone
troppo pesante per il caldo di quel giorno. Forse gli serviva così robu-
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sta per tenere a bada il ventre quasi smisurato, sodo e compatto. Aveva
un braccio proteso in avanti, e teneva bene in vista nella mano un fo-
glio mezzo piegato: una prescrizione, forse, per rendere più credibile la
domanda.
Matteo non ne sapeva niente di farmacie a Pastena, e quell’uomo lo
angosciava per quella immotivata umiltà da contadino, e perché gli ri-
cordava che anche lui aveva un’ostinata tendenza a ingrassare. Girò la
testa verso il mare e si avvide di un uomo baffuto che attraversava len-
tamente la strada con le mani ficcate in tasca. Lo indicò all’uomo an-
ziano con un gesto eccessivo del braccio: – Io non lo so. Però potete
chiedere a quel signore là.
Matteo guardò un’ultima volta l’uomo anziano, per accertarsi che
avesse compreso bene, e proseguì per la sua strada. L’uomo anziano,
però, roteò lentamente dall’altra parte, come un telescopio, finché av-
vistò una giovane donna che spingeva un carrozzino, e andò a chiederea lei, facendosi annunciare dal ventre sodo e dalla prescrizione.
Matteo è convinto di essere un eccellente fisionomista: i tratti più
insignificanti del viso di un uomo, i gesti più riposti sono per lui un
formicaio di segni, un brulicare di effetti di cui forse lui solo intuisce le
cause. L’uomo baffuto, a giudicare dalla serena indolenza dei suoi mo-
vimenti, era senz’altro un indigeno di Pastena. Ora si dirigeva proprio
verso di lui; per un attimo estrasse la mano destra dalla tasca dei panta-
loni per lisciarsi i baffoni neri alla Stalin, poi la rimise al suo posto,
come un utensile che non serve più. Matteo pensò che se conosceva la
farmacia, probabilmente conosceva anche via Francesco Gaeta. Allora
gli si parò davanti, aprì le braccia e glielo chiese d’un fiato, senza nean-
che un “Buonasera” o un “Chiedo scusa”. L’uomo tirò fuori l’utensile
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dalla tasca e si lisciò due volte i baffi. La sua mano era un quadrato
quasi perfetto. Tacque un attimo, ma non per un’incertezza, tutt’altro:
voleva gustarsi a fondo il piacere della sua competenza. Prima con il
solo indice puntato, poi con tutta la mano aperta e tesa, l’uomo diede a
Matteo le indicazioni di cui aveva bisogno. Matteo faceva “Ha-ha” e
guardava nella direzione indicata, come se il suo sguardo potesse attra-
versare i muri e le cantonate. Infine ringraziò, ma l’uomo gli prese un
braccio nella sua mano quadrata e rifece pazientemente il percorso.
Matteo assicurò che aveva capito perfettamente, e questa volta l’uomo
lo lasciò andare. Per tutto il tempo la mano sinistra era rimasta nasco-
sta in tasca: forse non ce l’aveva, o forse la estraeva soltanto per farle
svolgere determinate mansioni.
*
Il condominio di via Francesco Gaeta numero sei era la quintessen-
za di quello che Matteo detestava: un palazzo di sei piani sotto il quale
si aprivano negozi senza alcuna connessione logica fra loro: una misera
merceria ingombra di qualunque oggetto, un elettrauto unto e tetro,
una macelleria con solo un capretto appeso per le zampe e due salsicce
pendenti in vetrina, e fogli di carta attaccati con lo scotch, con scritte
incerte di prezzi imbattibili. L’intonaco della facciata era di un bianco
chiazzato di vecchia e nuova sporcizia, che metteva tristezza al solo
vederlo; niente, però, al confronto con i balconi sbrecciati, dalle infer-
riate rugginose e senza stile; perfino peggio erano gli infissi di alluminio
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anodizzato, che in certi piani erano dorati, in altri argentati. Qualcuno
doveva aver rotto l’uniformità convinto che un certo colore fosse più
bello di un altro, come se l’alluminio anodizzato potesse avere un qua-
lunque rapporto con la bellezza e le sue gradazioni.
Matteo sperava di essere arrivato, ma davanti al citofono si perse di
nuovo. Si accorse con un doloroso sbigottimento che non ricordava il
cognome dell’architetto: l’aveva ascoltato una volta sola da sua madre,
e sul fazzolettino non c’era che l’indirizzo. Gli venne in mente il verde
acido dell’autoscontro che gli sfilava davanti agli occhi, e imprecò de-
bolmente contro la sua irreparabile svagatezza.
Sulle targhette tutte uguali del citofono erano indicati solo i co-
gnomi; le scritte erano tutte stampate nello stesso carattere moderno,
in maiuscole tutte della stessa dimensione. Quando lo lesse, a Matteo
sembrò che il cognome Marciano fosse quello giusto, ma andando a-
vanti trovò un Marzano, e poi un altro Marciano, con sotto un co-gnome diverso che doveva appartenere alla moglie. Non sapeva deci-
dersi, non sopportava di trovarsi a un bivio senza sapere dove andare.
Pastena era proprio il luogo dell’anonimato: doveva essere un ottimo
nascondiglio per un latitante. Rimpianse perfino il citofono sbrindella-
to di casa sua, e gli fu chiaro che dietro a quell’ordine da ragioniere do-
veva esserci la mano di un amministratore troppo zelante.
Era già un minuto che Matteo scorreva le targhette su e giù, ma
non riusciva a vederci nessun formicaio di segni. Pensò di telefonare a
sua madre per farsi dare un’ultima indicazione decisiva, ma rischiava di
farsi prendere per un idiota. Si guardò intorno, sperando di rivedere
l’uomo baffuto: certamente conosceva l’architetto, e forse lui stesso
avrebbe schiacciato il pulsante giusto, per maggiore sicurezza. Ma o-
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ramai chissà dov’era arrivato, l’uomo baffuto, con quella sua calma de-
terminazione! Doveva sbrigarsela da sé. Decise che non era il momen-
to di fare ragionamenti, e buttò il tocco.
– Amblimblancia... – cominciò a mormorare, passando velocemente
l’indice sui pulsanti. A litania conclusa, il pulsante che il destino gli a-
veva fatto premere era anche quello giusto.
Erano le cinque e mezza quando Matteo entrò nell’ascensore che lo
portava al quinto piano.
L’architetto lo accolse con una festosità eccessiva: una stretta di
mano vigorosa e prolungata appena varcata la soglia, poi un’altra mano
che, con piccole e opportune pressioni sulla spalla, lo spingeva nel
mezzo del salone luminoso. Matteo si sentiva come dal barbiere, che ti
posa le dita sulla faccia e te la muove come quella di un manichino.
Un’altra mano ancora gli strinse la sua: era quella della moglie, che
l’architetto mandò subito a prendere qualcosa da bere. – Un po’ d’acqua? Coca-cola? Un tè freddo? Lo facciamo noi, non
lo compriamo, eh! – disse l’architetto; ma intanto sua moglie era già
sparita in cucina.
Matteo rispondeva appena, con quella timidezza che in lui oscillava
continuamente fra la sincerità e l’affettazione. Nella sua testa risuona-
vano i nomi di quelle bevande: c’era qualcosa di strano, come se celas-
sero un misterioso tranello. Lo capì quando fu messo a sedere in pol-
trona, e si ritrovò davanti agli occhi, sul mobile di fronte a lui, il ripiano
con i liquori. Ecco, l’architetto gli aveva offerto soltanto bibite analco-
liche, come si fa con i ragazzini. Aveva dimenticato l’orzata, però.
La moglie arrivò con un vassoio pieno di brocche e bottiglie.
– Ecco qua, scegli pure.
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A Matteo diedero noia quello spreco e quell’aria condiscendente.
Già pensava di vendicarsi, alzare l’indice e puntarlo sui liquori: – Maga-
ri prendo un bicchierino di whisky, se non vi dispiace. – E poi aggiun-
gere una battuta da vecchio film: – Dalle cinque in poi bevo solo alco-
lici, – e far partire una bella risata, e vedere se l’architetto e la moglie
ridevano con lui.
Invece si versò un po’ di tè, e l’unica malizia fu di chiedere del
ghiaccio, tanto per costringere la signora Marciano a un nuovo viaggio
in cucina.
– Guarda che è già bello freddo, è in frigo da stamattina.
– Ah, allora va bene così.
In fondo al salone si apriva una balconata affacciata a mare, da do-
ve entrava dell’aria tiepida. Matteo avrebbe voluto lasciare marito e
moglie a sprofondare in poltrona, posare il bicchiere di tè troppo dolce
sul tavolino, uscire sul balcone e, ammirando l’immensa distesa d’acquatranquilla, cantare: “ Mare, mare, mare, voglio annegare...”.
– E tuo padre, come sta tuo padre?
– Mio padre? Bene, bene... Solo che quando si avvicina la scuola
comincia a essere un po’ nervoso....
– Eh, ha ragione, Nicolino... Vorrebbe già essere in pensione, eh?
Eh, ma è giovane, è ancora giovane... Gli tocca soffrire ancora un po’...
Matteo guardava nel bicchiere con un sorriso sforzato. Con gli oc-
chi fissi in quella brodaglia fredda si chiedeva cosa avesse
dell’architetto quell’uomo dozzinale, calvo e peloso, che indossava una
maglietta quasi uguale a quella del teppistello che gli aveva detto “Pit-
to’!”, e si muoveva in maniera esagitata; e quella moglie, con quei ricci
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stopposi e gli occhi sporgenti, e quelle mani sempre chiuse in grembo
che pareva una serva...
– Ottimo questo tè, – disse Matteo dopo il secondo sorso, e posò il
bicchiere sul tavolino per non riprenderlo più.
– Sai che ho dei disegni di tuo padre, qui nel salone? Vieni, vieni, te
li mostro.
Si alzarono. La moglie chiese permesso e tornò in cucina. Matteo si
rammaricò non essere riuscito a mandarcela lui.
– Me li regalò vent’anni fa, quando insegnavamo tutti e due
all’Artistico di Sapri. Tempi eroici! Tu eri piccolo così, mi ricordo bene
di te e di tua sorella... Rosanna, giusto?
– Rossana.
– Rossana, sì, sì...
I tre piccoli disegni a carboncino del padre erano appesi uno
sull’altro su un pilastro che si ergeva in un lato del salone. Raffigurava-no scene campestri: vallate, bufale, casolari, e frasi misteriose sulle di-
vinità della terra e della fertilità. Non avevano cornice: solo un vetro li
isolava e li proteggeva. Matteo pensò che l’architetto, valutandole ope-
re di scarso valore, non aveva voluto spenderci soldi, e si sentì offeso:
dopotutto stimava suo padre, e le sue quotazioni non erano così basse.
– Si vede la mano di tuo padre, eh?
– Sì sì, è proprio la sua... Noi abbiamo la casa piena di questi vecchi
disegni: se si decidesse a venderli...
Matteo fece intendere che ne avrebbero ricavato un mucchio di
soldi. Vendicato suo padre, diede un’occhiata in giro: vide sui muri due
stampe di Klimt, una di un quadro astratto di Klee, e un paio di inci-
sioni di autori contemporanei a lui ignoti. Sui mobili bassi, mescolate
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alla solita paccottiglia di souvenir e bomboniere, alcune riproduzioni di
statuine greche e romane, in creta e bronzo. L’architetto ora seguiva
Matteo, lo assecondava, e ogni tanto gli forniva qualche spiegazione su
nomi e provenienze. Matteo era nauseato, ma inorridì addirittura
quando si trovò di fronte a un pessimo ingrandimento di una foto che
ritraeva l’architetto con moglie e due ragazzi sullo sfondo delle Pirami-
di.
– Ah, siete stati alle Piramidi! – fu l’unica cosa che Matteo riuscì a
dire.
– Sì, un viaggio di dieci anni fa. Adesso Michele e Giacomo sono
grandi e le vacanze se le fanno per conto loro. Tu li hai conosciuti, ve-
ro?
– Non so, non mi ricordo.
– Eh, Michele ha ventisei anni, si è laureato in Fisica e adesso lavo-
ra a Padova: si occupa di nanoparticelle. Giacomo invece ne ha venti-quattro. Lui è come te, vuole fare l’artista! Ma non il pittore, no:
l’attore. Studia all’Accademia di Arte Drammatica, a Roma. La conosci,
no? È una bella scuola, prestigiosa...
“È come te, vuole fare l’artista!”. Come se fosse una questione di
volontà o di capriccio, e non un impulso irrefrenabile, una necessità
che più la soffochi più riemerge con prepotenza. E poi questo parlare
di Padova e di Roma, come se Salerno non fosse sufficiente a nutrire e
a soddisfare qualunque ambizione...
L’architetto prese Matteo per un braccio come aveva fatto l’uomo
baffuto, e gli indicò la porta che dava in cucina. In realtà la porta non
c’era: c’erano solo gli stipiti e l’architrave, di legno laccato bianco. Era
lassù che l’architetto voleva il suo quadro.
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– Per me e mia moglie la cucina è un tempio, il tempio del cibo,
della gastronomia; e tu sai benissimo quanta cultura c’è, dietro al cibo!
Matteo assentì gravemente, ma dentro di sé sbalordì a pensare che
la sacerdotessa di quel tempio era una donnetta dagli occhi sporgenti e
dai modi da serva.
– Ecco, avrei bisogno di una specie di frontone, un triangolo ligneo
decorato con animali e cibi. Frutta, soprattutto. Ho pensato a te perché
mi piacciono quelle tue cose un po’ astratte; sempre figurative, ma un
po’ astratte, e soprattutto come usi i colori; sai che intendo, no? Pasto-
si, pieni... Sto pensando ai quadri che hai esposto l’anno scorso, come
s’intitolava la mostra?
– Naufragi dell’anima.
– Bravo, quella!
– Ma lì erano tutte figure umane; volti, soprattutto.
– Sì, ma se non ricordo male c’erano pure delle cose, degli oggetti...Matteo si stava spazientendo: gli sembrava di essere lì per un equi-
voco, o forse solo perché era il figlio di Nicola e Barbara.
Quell’accoglienza così festosa, che gli era sembrata stonata perché si
addiceva soltanto ai vecchi amici, acquistava ora un senso nuovo: essa
si adattava bene anche ai figli dei vecchi amici, per una specie di diritto
ereditario. In quel momento, in quella casa, Matteo non era altro che
un figlio. Si sentì un idiota per non averlo capito prima.
– Naturalmente si tratta di lavoro, ci mancherebbe! Ma lo so che tu
di queste cose non ti vuoi occupare, e da un certo punto di vista fai
bene! Quindi non ti preoccupare, me la sbrigo io con Barbara.
Proprio un idiota. Ora doveva soltanto ringraziare e dire che avreb-
be fatto del suo meglio.
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– Va bene, allora: adesso preparo un paio di bozze e poi magari ne
discutiamo insieme.
– Perfetto! – disse l’architetto con un gran sorriso, e gli strinse la
mano vigorosamente, come se la stringesse a Nicola.
Matteo si avvicinò all’ingresso del tempio.
– Volevo salutare sua moglie...
– Ma come, mi dai del lei? Chiamami Annibale.
Piuttosto che chiamarlo Annibale, Matteo si sarebbe tagliato la lin-
gua.
– Va bene, – disse.
– Ma tu che fai, oltre a dipingere, eh? Che fai?
La domanda era arrivata inaspettata e, sebbene formulata con be-
nevolenza, Matteo la interpretò come un’accusa implacabile. Stava per
rispondere “Scrivo poesie”, ma di sicuro non era quella, la risposta che
Marciano si aspettava da lui. Provò un confuso senso di vergogna, co-me ogni volta che qualcuno gli poneva quella stessa domanda; eppure,
non si era mai preparato una risposta: gli pareva impossibile che nella
sua vita avrebbe incontrato ancora persone così indelicate.
– Eh, adesso sto preparando un’altra mostra: “Il silenzio verde”,
s’intitola. – Aveva detto un’altra idiozia: come se preparare una mostra
fosse cosa distinta dal dipingere. E aveva tralasciato di dire che si trat-
tava di una collettiva, che avrebbe esposto una sola opera, che per
giunta non aveva ancora dipinto.
L’architetto ignorò la risposta.
– So che sei laureato in Beni Culturali, è così?
– Sì.
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– No, perché io lavoro alla Soprintendenza... Stavo pensando... vi-
sto che fra poco esce un bando per un posto di Conservatore di Beni
Culturali, perché non partecipi? È un lavoro interessante, e potresti
continuare tranquillamente a dipingere.
– Ah, sì... Perché no? Interessante, sicuramente... – Matteo era pa-
ralizzato dall’imbarazzo.
– Davvero, pensaci! È un lavoro a tempo indeterminato, quindi ca-
pisci bene cosa significa: le ferie, la pensione... Ti puoi fare un mutuo
per la casa... Naturalmente, per quello che posso, ti darei una mano i-
o...
– Certo, grazie...
– Dai, poi quando torni ti faccio avere il bando! Teresa!!!
La sacerdotessa uscì dal tempio. Si scusò per essersi assentata così a
lungo, ma stava preparando le cotolette per la cena. Le cotolette, cibo
fra i più sacri agli dei. Vennero i saluti, e gli ultimi accordi per rivedersi. Poi Matteo si lan-
ciò giù per le scale, senza aspettare l’ascensore che l’architetto gli aveva
chiamato.
– Salutaci mamma e papà, – gli urlò dietro Marciano.
– Senz’altro, – rispose Matteo, tuffando gli occhi nelle rampe che si
spalancavano sotto di lui.
*
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“Vuoi animali e frutta? Una testa di maiale con un limone in bocca,
allora. Questo ti meriti! E sotto ci scrivo: Il tempio della trippa!”.
Matteo era talmente nero che aveva deciso di tornare in centro a
piedi. Era un viaggio di almeno tre quarti d’ora, ma aveva bisogno di
annusare il mare e di rimettere in fila i fatti. Non fu difficile, era tutto
abbastanza chiaro: suo padre e sua madre ci avevano riprovato. Era già
successo l’estate dell’anno precedente, quando sua sorella Rossana, i-
stigata da loro, gli aveva suggerito di iscriversi alla SICSI, la scuola di
abilitazione all’insegnamento. Rossana aveva tre anni meno di lui, ma
già era docente di ruolo in italiano e storia in una scuola media di Fer-
rara. Matteo non voleva saperne: c’era da sostenere un test d’ingresso,
e se per caso ti prendevano, allora veniva il peggio, perché bisognava
seguire corsi tutti i pomeriggi per due anni, dare gli esami, e la tesina
finale. Sua madre provò ad insistere, con molto tatto: in fondo tutti in
famiglia insegnavano, e tutti portavano avanti le loro aspirazioni artisti-che; anche Rossana, che era piuttosto brava con la ceramica. Matteo
disse che ci avrebbe pensato, e intanto preparava la mostra “Naufragi
dell’anima”. Ogni volta che pensa a quella mostra, oggi, Matteo si
scandalizza di quanto siano disonesti i galleristi, che ti prendono il cin-
quanta per cento per darti uno stanzone male illuminato e il loro nome
sulle brochure . Ma allora Matteo pensava solo ad avere successo. La mo-
stra si chiuse il venti agosto, una settimana prima della scadenza del
bando della SICSI. Matteo aveva venduto una decina di quadri e ne
aveva ricavato duemilaottocento euro, che sarebbero stati cinquemila-
seicento, se non ci fosse stata la rapina del gallerista. Con quei soldi sul
piatto, il discorso SICSI per lui era chiuso, e nessuno in famiglia ne
parlò più.
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Questa volta gliel’avevano fatta ancora più sporca: era stato attirato
in una trappola bella e buona: era chiaro che quell’architetto dozzinale
non aveva nessun interesse per i suoi quadri. Probabilmente non
l’avrebbe neanche pagato, e sua madre gli avrebbe consegnato quattro-
cinquecento euro fingendo di averli avuti da Marciano. E magari, se
Marciano fosse riuscito a fargli vincere il concorso, suo padre gli a-
vrebbe regalato, per sdebitarsi, une delle sue grandi tele da qualche mi-
gliaio di euro. Peccato che quest’anno non aveva una mostra in pro-
gramma: solo quel quadro per “Il silenzio verde”. A questo punto non
aveva altra scelta: doveva dipingere una tela enorme, che gliela pagasse-
ro quanto le dieci dell’anno prima. Un olio, doveva essere, niente tem-
pera o acquerello: soltanto per gli oli la gente è disposta a spendere un
mucchio di soldi.
Sì, stavolta gliel’avevano fatta proprio sporca. Ma lui non era più un
bambino che si può raggirare impunemente. Avrebbe voluto vederlimorti, suo padre e sua madre, per non subire più le loro angherie. E
pure Rossana, che li assecondava, e che avrebbe preteso la sua parte di
eredità, anche se aveva un lavoro fisso e poteva farsi il mutuo, e com-
prarsi una casa a Ferrara. Tutti e tre, dovevano morire. Solo così pote-
va liberare la mente da quei pensieri cupi e opprimenti che gli soffoca-
vano il talento; solo così avrebbe potuto cercare l’ispirazione senza
nessuno che lo interrompesse per chiamarlo a pranzo o per venirgli a
raccontare storielle di nessuna importanza.
Stava attraversando piazza della Concordia quando gli arrivò una
telefonata da suo padre. Era un fatto insolito, perciò decise di rispon-
dere, ma solo per trattarlo male.
– Matteo, dove sei?
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– A piazza della Concordia.
– Stai tornando a casa?
– Sì.
– Mi compreresti una lattina d’acqua ragia? Devo pulire i pennelli e
l’ho finita.
– Agli ordini.
– Senti, mamma mi ha detto che sei andato da Marciano per un
quadro...
Ecco, ora c’era da divertirsi.
– Sì, infatti.
– E com’è andata?
– Bene, penso che ci metteremo d’accordo.
– Ha-ha.
– Solo che a un certo punto se n’è uscito con la storia di un concor-
so alla Soprintendenza. Dice che potrei farlo... Bah, chissà come gli è venuto in mente!
– Un concorso alla Soprintendenza? Beh, mica è male come idea.
– Ma figurati, tu mi vedi in un ufficio a passare carte?
– E perché no? Ti resterebbe sempre un sacco di tempo per dipin-
gere.
Eccola, la prova del complotto: suo padre aveva usato lo stesso ar-
gomento dell’architetto. Si vede che ne avevano discusso a lungo.
– Vabbè, poi ne parliamo. Vado a prenderti l’acqua ragia.
Ora restava solo da capire come l’avrebbe usata, l’acqua ragia: se
l’avrebbe fatta scorrere a forza nella gola di mamma e papà, o se
gliel’avrebbe versata addosso per poi dargli fuoco.
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*
Erano le otto di sera, quando Matteo attaccò la salita di via Trotula
de Ruggiero. Nel lungo tragitto si era distratto a seguire il tramonto del
sole dietro il costone di roccia declinante; aveva incontrato un amico, e
passeggiando insieme per un tratto avevano rievocato un vecchio viag-
gio; si era fermato a osservare certi oggetti curiosi da un rigattiere, e si
era quasi del tutto dimenticato del suo livore e della sua vendetta. In
mano teneva la lattina d’acqua ragia, avvolta in un foglio di giornale. La
faceva roteare su e giù per sentire quel glu-glu familiare, e ne pregusta-
va l’odore aspro e aromatico. Già non era più un’arma mortale, ma di
nuovo un comune solvente, uno dei tanti attrezzi da lavoro di un pitto-
re. Per prima cosa, pensò, doveva farsela rimborsare, poi se ne sarebbetenuta un po’ per i suoi pennelli, e se suo padre provava a dire qualco-
sa, gliene avrebbe cantate quattro. Intanto, al suo passaggio (ma forse
era solo per l’ora) i mezzibusti impagliati si staccavano dagli usci e ri-
tornavano nel buio, come quadri invenduti alla chiusura di una mostra.
Povero Matteo, quanti ne aveva tirati giù di quadri dai muri! Ma
stavolta pensava con fiducia al suo silenzio verde, a quella tela enorme,
che sarebbe passata a fatica sotto le architravi; avrebbe proposto
all’architetto due bozzetti incompatibili con la sacralità del tempio; si
sarebbe goduto le facce ammirate dei suoi amici pittori; avrebbe chie-
sto un bicchiere di whisky irlandese e avrebbe cantato fuori al balcone;
avrebbe venduto la tela per una cifra non inferiore ai duemilaottocento
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euro; avrebbe ringraziato per il bando, e l’avrebbe gettato nel primo
cestino.
Per un altr’anno almeno, questo è certo, nessuno gli avrebbe più te-
so altre trappole.