Il senso del silenzio

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Federica Speranza, romance. Ho sempre pensato che il destino non c’entrasse nulla, che la storia della mia vita fosse un libro bianco su cui scandire le parole della mia esistenza. Ho creduto di poter andare avanti per inerzia, per il bene di chi ami più di te stessa. Mi sono aggrappata alle illusioni e ai ricordi per obbligarmi a non impazzire. Ho tentato di dare un senso all’immobilità di un tempo che pareva essere eterno, convincendomi che la mia anima potesse prescindere dalla tua. Ho raccolto i cocci, frammenti di cuore disseminati dentro alla tua immagine. Mi sono dedicata a essere tutto per non sentirmi ridotta a essere niente. Mi sono spogliata della mia sostanza, perché solo così potevo sentire di essere ancora viva.

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FEDERICA SPERANZA

IL SENSO DEL SILENZIO

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IL SENSO DEL SILENZIO Copyright © 2013 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-594-6 Copertina: Foto di Simon James Maflin

Prima edizione Settembre 2013 Stampato da

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A chi non abbandona mai i propri sogni.

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PREFAZIONE Forse stavo sognando o forse no. Il punto era che mi sembrava tutto così maledettamente reale che persino i battiti del mio cuore stentavano ad avere un ritmo regolare. Avevo rivissuto gli ultimi due anni della mia vita attimo per attimo, lentamente, senza perderne neppure un frammento. Le Bahamas, l’incontro con Manuel, lo stupore e la nostra paura nel sentirci essenza l’uno dell’altra. Era come se ci stessimo cercando da sempre, come se il nostro trovarci fosse una condizione inevitabile. Ero insieme a lui, alla sua voce e alla sua musica in quell’angolo di mondo che ci eravamo presi solo per noi. Vedevo i suoi occhi sorridermi, sentivo le sue mani accarezzarmi, sfogliavo le pagine della nostra vita insieme, fino a quando arrivai alla parola fine. In pochi secondi mi trovai intrappolata in quell’ospedale. Aprii gli occhi, senza sapere dove mi stessi trovando. Sudavo freddo sotto le lenzuola, cercavo di coprirmi con il piumone in fondo al letto, ma non ci riuscivo. Le luci fredde e quella stanza asettica mi avevano incastrata dentro a quello che era diventato un incubo dentro la realtà. Risentivo l’odore del sangue, rivedevo l’espressione straziata di Anna mentre i medici cercavano di portarla fuori da quella camera. Percepivo nella bocca il sapore acre dell’anestesia. Rivedevo il buio avvicinarsi inesorabile mentre perdevo i sensi. Sentivo il dolore insopportabile in ogni cellula del mio corpo mentre rivivevo l’attimo in cui mi dissero detto che avevo perso il mio bambino. Poi, quasi a placare l’insopportabile, si materializzò il volto di Roberto e il dolore diventò accettabile. Mi girai sul fianco e per un momento sentii la federa completamente fradicia.

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La percezione di quanto stava accadendo nella realtà svanì in un istante. Tornai ai miei ricordi, a Roberto che cercava di strapparmi dalla mia disperazione. A quel suo modo di farmi sentire presente in una vita che non mi apparteneva più. A tutte quelle notti in cui lo guardavo dormire mentre la mia mente andava in cerca di Manuel. Ai sensi di colpa e a tutte quelle volte in cui ho pensato di andarmene. A quando ho deciso che sarei rimasta con lui. A quando sono andata via.

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Lascia che ti parli col tuo silenzio, chiaro come una lampada, semplice come un anello.

Sei come la notte, silenziosa e costellata. Il tuo silenzio è di stella, così lontano e semplice.

Pablo Neruda

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Ho sempre pensato che il destino non c’entrasse nulla, che la storia della mia vita fosse un libro bianco su cui scandire le parole della mia esistenza. Ho creduto di poter andare avanti per inerzia, per il bene di chi ami più di te stessa. Mi sono aggrappata alle illusioni e ai ricordi per obbligarmi a non impazzire. Ho tentato di dare un senso all’immobilità di un tempo che pareva essere eterno, convincendomi che la mia anima potesse prescindere dalla tua. Ho raccolto i cocci, frammenti di cuore disseminati dentro la tua immagine. Mi sono dedicata a essere tutto per non sentirmi ridotta a essere niente. Mi sono spogliata della mia sostanza a ogni alito di vento, perché solo così potevo sentire di essere ancora viva.

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Non ce la facevo davvero a staccarmi da lei. Era già capitato di allontanarmi per qualche ora o per una giornata intera, ma mai per tre giorni di fila. Avevo fatto mente locale sulle indicazioni da lasciare, le pappe da preparare e i numeri da chiamare in caso di necessità, ma la sensazione che stessi dimenticando qualche cosa non riusciva ad abbandonarmi. Posai la borsa sul tavolo e la strinsi ancora una volta a me. I suoi occhi scuri mi scrutavano divertiti, mentre le sue manine paffute rovinavano il mio trucco. Non me ne importava niente, volevo solo non dover partire. Sprofondata sul sedile posteriore del taxi, mentre viaggiavo verso l’aeroporto, pensavo se fosse il caso di telefonare a casa e dare qualche indicazione in più. Ma sapevo benissimo che Steven se la sarebbe cavata egregiamente, come sempre. Emma lo adorava e Steven stravedeva per lei. Lui era davvero una persona speciale e lei lo aveva capito fin dal primo sguardo. Era con noi da parecchio tempo ormai, da quando, tre mesi dopo la nascita di mia figlia dovetti rientrare al lavoro. Lasciai cadere il capo sul poggiatesta e mi abbandonai ai ricordi del nostro primo incontro. Era un sabato mattina quando lui bussò alla mia porta. Avevo già scartato quattro possibili tate e una matta che sosteneva di poter parlare il linguaggio dei neonati.

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Aprii distrattamente, rassegnata a dover continuare a cercare per chissà quanto tempo. Lui si presentò allungando la mano e con un simpatico sorriso s’indicò. «Sì, lo so, può sembrarle strano ma sono un uomo» disse guardandomi negli occhi «E… non parlo una parola di Italiano» si affrettò ad aggiungere. Corrugai le sopracciglia. «Ho avuto il suo indirizzo da Patricia. Posso entrare?» dichiarò indicando il piccolo corridoio di fronte a lui. Mi scansai e gli indicai il soggiorno, chiedendomi il perché la mia più fidata collaboratrice avesse dato il mio indirizzo a quell’uomo. Ci sedemmo l’una di fronte all’altro e gli domandai se gradisse qualche cosa da bere. «La lingua non è un problema ma …» «Sono qui per il posto di tata» mi interruppe. «Ma è sicuro?» domandai perplessa. In quell’istante Emma incominciò a strillare e dovetti abbandonare per un momento il mio ospite in soggiorno. La sollevai delicatamente e la avvicinai al mio petto. «Cosa c’è, piccolina?» domandai sussurrando al suo orecchio. La strinsi a me e scesi le scale in direzione della cucina. Steven era ancora seduto sul divano, ma appena mi vide scendere si alzò in piedi. Gli chiesi di seguirmi in cucina dove avremmo continuato a parlare mentre preparavo il latte per Emma. La legai dentro il seggiolino appoggiato sul tavolo e incominciai a scaldarle il biberon. Steven si sedette accanto a lei e iniziò a parlarle con tono dolce. Mi voltai verso di loro e per un momento vidi Emma con un’espressione sorpresa e divertita. Lui le stava facendo dei versi buffissimi e lei, dopo aver indugiato per qualche istante, si lasciò andare a risate irrefrenabili. Ridevano a crepapelle entrambi e non riuscii a fare a meno di unirmi alla loro allegria. Mia figlia aveva le lacrime agli occhi, non l’avevo mai vista ridere così di gusto e Steven, forse più divertito di lei, continuava a fare delle facce assurde. «Steven, perdona la mia sorpresa» dissi, «ma non mi capita spesso di vedere uomini fare i Tati» aggiunsi sorridendo.

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«Non mi stupisco. Sarei meravigliato anch’io» dichiarò in tono rassicurante. «Non vorrei sembrare indiscreta ma mi piacerebbe sapere per quale motivo hai deciso di intraprendere questo tipo di professione.» «Necessità» rispose lui incrociando le mani. «Sarei un ipocrita se ti dicessi che è sempre stata la mia massima aspirazione, ma credimi se ti dico che è certamente il lavoro più gratificante che abbia mai svolto. Dieci anni fa mi sono affidato a una persona che ha mandato in fumo tutto quanto avevo costruito sino allora. Ero un promotore finanziario ed esercitavo tra Londra e Bristol. Ero uno di quei giovani neolaureati assetati di potere e con la fretta di guadagnarsi il vertice dell’azienda. Tanto assetato da non badare al fatto che le persone affidavano a me ingenti somme di denaro, nella maggior parte dei casi i risparmi di una vita intera. Per me era solo Cash, Pay Out, un gradino in meno da dover scalare per arrivare alla tanto agognata meta. Dopo appena un anno dal mio ingresso in società andava tutto per il verso giusto. Il mio nome era già presente nella lista dei vertici aziendali e le mie partite di golf con l’amministratore delegato erano sempre più frequenti. Ma, tanto avevo sudato per arrivare fino a quel punto, tanto era stato facile precipitare nel baratro.» Strinse i pugni, mentre il suo viso non tradiva un’espressione affranta. Emma finì il suo biberon, così chiesi a Steven di seguirmi al piano superiore e lo esortai a continuare il suo racconto mentre cambiavo la mia bimba. «Mi sono innamorato della persona sbagliata, tutto qui» disse sospirando. «Mi ero fatto convincere a investire i soldi dei miei clienti in un’operazione che oggi definirei “Kamikaze”, perdendo fino all’ultima sterlina. Sapevo che non era la cosa giusta da fare e che avrei rischiato troppo, ma la persona che mi stava accanto trovava il modo di farmi sentire in colpa ogni volta che provavo a esporre le mie perplessità. Ho voluto far finta di non vedere, per non voler credere di essere manipolato. E così, per restituire tutto quello che mi ero fumato nel giro di pochi giorni e riprendere la mia la dignità, mi sono ritrovato senza lavoro e quattrini. Bell’idiota vero?»

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Ascoltai attentamente osservando il suo sguardo e mi resi conto che quel ragazzo era sincero. «Sei stato stupido, questo sì, ma te ne sei tirato fuori in modo pulito e questo non è da tutti» replicai. «Dopo essermi ripreso da quello scossone, mi guardai in giro per cercare un altro lavoro, ma ormai nel campo della finanza la mia credibilità era andata a farsi benedire e così m’ingegnai a fare quello di cui ero capace. Sono il primo di cinque figli e con una mamma impegnata venti ore su ventiquattro a cucire tende e un padre che lavorava in ferrovia ho dovuto imparare a prendermi cura dei miei fratelli.» «E così hai deciso di fare il “Tato”» dissi. «Sì, è un lavoro come un altro, con la sola differenza che adoro i bambini e che con loro non devo fingere di essere quello che non sono.» Mentre scendevamo in soggiorno mi chiese di portare giù lui Emma e io glielo lasciai fare. Mia figlia era tranquilla tra le sue braccia. Succhiava beata il suo ciuccio, mentre con gli occhi continuava a studiare quel viso ormai conosciuto. «Hai fame?» domandai a Steven. «Un pochino» rispose. «Se vuoi posso cucinare una pasta» aggiunse per ricambiare la mia cortesia. «No, lascia perdere la pasta, perdonami ma voi inglesi non ci sapete fare con i fornelli.» «Bè, come darti torto, ma se ti può consolare sono per metà irlandese.» Ecco perché il tuo inglese ha questo strano accento. Pensai. «Mmm, allora mi saprai consigliare sulla birra, ma alla pasta ci penso io» affermai sorridendo. Con la coda dell’occhio osservavo l’espressione tranquilla di mia figlia. Era a suo agio con lui e mi sorpresi a esserlo anch’io. A un tratto lo vidi sdraiato sul tappeto, mentre spiegava in modo giocoso a mia figlia come una pallina rotonda non fosse potuta entrare in una forma quadrata. Lei lo scrutava senza capire una sola parola, ma aveva ancora quello sguardo attento e divertito. Sistemammo Emma sul seggiolone e iniziammo a mangiare. «Steven, quanti anni hai?» domandai arrotolando gli spaghetti sulla forchetta.

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«Quarantuno» rispose appena finì di masticare. «Bè, mi serviranno i tuoi documenti se vorrai lavorare qui. Per noi vai bene» dissi strizzando l’occhio a Emma. Posò la forchetta sul bordo del piatto e mi guardò sorridendo. «Grazie Sara, sono sicuro che ci troveremo bene insieme. Ma prima c’è un’ultima cosa che vorrei dirti.» Spostai gli occhi dal viso paffuto di mia figlia e lo guardai impaziente in attesa delle sue parole. «Sono omosessuale» disse abbassando lo sguardo. «Spero che la cosa non ti causi problemi» aggiunse tornando a guardarmi. Inarcai le sopracciglia stupita. «Steve, a me non importa un fico secco se sei omosessuale, etero o quel che più ti aggrada. M’importa solo che con mia figlia tu tenga un atteggiamento irreprensibile. Da oggi lei si abituerà alla tua presenza, porrà in te delle speranze. E anch’io. A me basta sapere che non ci deluderai» dissi fissando il mio sguardo nel suo. «Affare fatto allora!» rispose allungando la mano. Passammo parte del pomeriggio a discutere su come ci saremmo organizzati a partire dal lunedì seguente, sugli orari e sullo stipendio che avrebbe percepito. Io avrei portato Emma al nido, lui sarebbe andato a prenderla verso mezzogiorno e avrebbe trascorso l’intero pomeriggio in sua compagnia. Eravamo d’accordo che qualsiasi ora dopo le diciotto gli sarebbe stata pagata extra e che i sabati o le domeniche sarebbero valsi il doppio. Mi diede la sua disponibilità anche per le sere in cui sarei voluta uscire, ma lo informai che a parte qualche sporadica occasione di lavoro non ce ne sarebbe stata necessità. Non disse nulla, ma lessi nel suo sguardo un moto di comprensione nato da chissà quale istinto.

* * * Quasi senza accorgermene arrivai all’aeroporto. L’autista scaricò la mia borsa e mi salutò con un cordiale arrivederci. Varcai la soglia dell’aeroporto di Heathrow due ore prima della partenza del mio volo. Feci il check-in e m’indirizzai verso la sala di

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attesa. Posai il mio soprabito sul bracciolo della poltrona di pelle e mi sforzai di guardare il notiziario trasmesso sul canale della Tv nazionale. Non avevo il benché minimo interesse per le notizie che si susseguivano tragiche e veloci, ma almeno mi sarei distratta dalla sensazione di agitazione crescente che avvertivo. Stavo tornando a casa. Per la prima volta dopo quasi due anni. L’indomani mattina avrei avuto una riunione alla quale non potevo mancare. E poi dovevo ancora firmare in originale una sfilza di documenti riguardanti la mia promozione. La mia esistenza stava viaggiando su binari paralleli. Il lavoro e la vita privata erano perfettamente conciliati e l’aspettativa di guadagno che avevamo ipotizzato per il nuovo punto vendita era stata di gran lunga superata. Fu per quel motivo che decisero di promuovermi a capo filiale. La notizia mi giunse direttamente dall’amministratore delegato durante una delle sue improvvisate a Londra. Me l’ero sudata quella promozione. Sapevo che quel posto sarebbe stato mio, solo pensavo che ci sarebbe voluto ancora qualche anno. Non avvertii nessuno del mio arrivo. Non avevo bisogno di districarmi tra mia madre e mio padre. Volevo solo terminare al più presto le faccende che avevo in sospeso e tornare da mia figlia. Arrivai a Milano con un quarto d’ora di ritardo. Anna mi aspettava all’aeroporto e mi avrebbe accompagnato a quella che sarebbe stata, ancora per poco, la mia casa. Come da accordi, dopo aver preso la valigia mi diressi verso l’uscita sette. Il cielo era limpido e stranamente blu. Una calda brezza primaverile mi accarezzò il viso. Attraversavo lentamente la prima corsia cercando di riconoscere la macchina di Anna. Improvvisamente sentii una voce familiare provenire da lontano. Mi voltai nella direzione da dove giungeva il mio nome e la vidi sbracciarsi vicino a una macchina nera. «Ciao Anna!» esclamai appena la raggiunsi, abbracciandola. Non ci vedevamo da più di tre mesi.

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«Ciao Tesoro, come stai? Simone?» domandai ormai seduta sul sedile del passeggero intenta ad allacciarmi la cintura di sicurezza. «Stiamo tutti bene» rispose. Anna sapeva bene che non avrebbe potuto parlare più chiaramente di così. Sapeva che se avesse voluto continuare ad avere un rapporto con me non avrebbe potuto spingersi oltre. Anna non aveva detto tutto a Luca, a lei bastava sapere che lui non avrebbe raccontato a Manuel che Roberto e io un tempo eravamo stati insieme. E così avevano fatto Ines e tutte le persone coinvolte in questa storia. Per Ines non era stato facile gestire quella situazione, ma per Roberto doveva essere stato atroce. «Ti dispiace se passiamo a prendere Simone all’asilo?» chiese Anna riportandomi alla realtà. «No, anzi! È passata una vita dall’ultima volta che l’hai portato a Londra con te.» «Sara, ti rendi conto vero che non potrò più portarlo con me? Ormai parla e non vorrei che…» Lasciai che le sue parole si adagiassero nel vuoto. Non avevo pensato a questo e l’idea di non vederlo più tanto spesso mi riempì di tristezza. Anna parcheggiò la macchina nel vialetto adiacente all’asilo e scendemmo ad aspettarlo fuori dal portone. Dopo pochi minuti sentimmo suonare una campanella e lo vedemmo uscire mano nella mano con una bambina poco più alta di lui. Mi sorpresi nel vederlo così cresciuto. «Zia Sara!» strillò appena mi mise a fuoco. Lasciò la mano della bambina e corse tra le mie braccia. Lo sollevai con meno facilità dell’ultima volta e lo riempii di baci. Poco dopo sentimmo due colpetti di tosse acconto a noi. «Ehm ehm, ci sarei anch’io…» disse Anna con le mani posate sui fianchi. Simone e io ci scambiammo un’occhiata e scoppiammo a ridere. Anna sistemò Simone sul seggiolino e ci avviammo verso casa mia. Ci accordammo per vederci la sera seguente e poco dopo sparì in fondo alla via. Sperai di non incontrare nessuno dei miei vicini e fui accontentata.

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Aprii la porta con le chiavi che per lungo tempo avevo tenuto sepolte in un cassetto della mia casa di Richmond e vi entrai lentamente. Appoggiai la valigia appena dopo l’ingresso e mi sfilai il soprabito. Anna aveva badato a farmi pulire casa. L’aria era fresca e non c’era traccia di polvere. Andai in camera da letto e scoprii che mi aveva fatto mettere anche le lenzuola pulite. La adoro pensai. Mi sfilai le scarpe e cominciai a vagare per quelle poche stanze, riconoscendole ancora troppo familiari. Aprii la porta a vetri della cucina e uscii in terrazzo. Il gelsomino era fiorito, anche se i suoi rami non mantenevano più un senso logico. Mi avvicinai e sistemai i rami attorno all’arrampicatoio. Tornai in cucina e con un gesto distratto aprii il frigorifero. Rimasi sorpresa nel vedere che Anna aveva provveduto ad accenderlo e a infilarci una bottiglia d’acqua, un paio di birre e qualche cosa da mangiare. Feci mente locale e mi ricordai dove avevo riposto i cuscini dell’arredo del terrazzo. Ne estrassi uno dall’armadio in corridoio e lo posizionai su una delle poltrone in vimini. Presi una bottiglia di birra e mi sdraiai al sole. Nel pomeriggio mi costrinsi a uscire dallo stato di apatia dentro il quale ero sprofondata e chiamai il ragazzo dell’agenzia immobiliare per avere aggiornamenti sulla trattativa della casa. Mi diede notizie confortanti, comunicandomi che secondo il suo parere, a breve, avrei ricevuto una proposta. Il problema ovviamente restavano i cinque piani senza ascensore. Tra le ultime lettere che Anna non mi aveva spedito in Inghilterra ma che prontamente mi aveva lasciato sul tavolo della sala, ne scorsi una dell’amministratore del palazzo. La aprii e con mia immensa sorpresa lessi che durante la prossima riunione condominiale si sarebbe votato sulla possibilità di considerare l’istallazione di un piccolo ascensore ricavato nel vano scale. Richiamai di corsa l’agenzia e intimai alla persona che seguiva la mia vendita di sospendere il tutto fino a mie nuove indicazioni. Concordò con me sul fatto che la casa avrebbe goduto di un forte riprezzamento. Guardai l’orologio e constatai che a quell’ora Emma doveva essere uscita dal nido. Composi il numero del cellulare di Steven che mi rispose dopo appena due squilli.

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«Ciao Steve, come state? Emma è lì con te?» «No, l’ho lasciata al parco mentre mi andavo a prendere un gelato.» Sapevo che stava scherzando, ma questo non m’impedì di farmi venire la pelle d’oca. «Certo che è qui» aggiunse appena prima di sentire la sua vocina. Fu abbastanza da riempirmi il cuore. «Amore, la mamma torna presto» dissi certa che potesse capirmi. «Cosa state facendo, dove siete?» chiesi subito dopo. «Dunque, siamo al parco ed Emma sta cercando di farti assaggiare il gelato attraverso il telefono.» Guardai ancora una volta l’orologio «Steven? Quale gelato?» «Sara, non è come pensi tu, non le ho dato il gelato prima di pranzo. È che le do il pranzo dopo il gelato.» «Steven» borbottai, ma mi venne quasi subito da ridere. «Vi chiamo questa sera. Metti il telefono vicino a Emma» dissi. «Ciao Amore!» aggiunsi immediatamente dopo. «Ciao Amore» sentii riecheggiare nel microfono. «Stupid!» esclamai sorridendo. Posai il telefono sul tavolo e accesi il portatile. Mi collegai e diedi una breve lettura alle mail della giornata. Subito dopo aprii un file Excel e incominciai a lavorare. Quasi senza accorgermene arrivarono le sette. Saltai in piedi e corsi in camera da letto. Spalancai l’armadio e infilai il primo abito che mi capitò sotto mano. Mi truccai appena e con le scarpe ancora in mano uscii di corsa da casa chiamando un taxi. Paolo e sua moglie mi stavano aspettando all’ingresso del ristorante. Feci un cenno appena mi videro arrivare. Ci fecero accomodare a un tavolo in fondo alla sala. La serata non si prospettava tra le più divertenti. Paolo aveva organizzato una cena con il direttore generale portandosi dietro anche sua moglie Cecilia, la quale pareva rassegnata alla noia mortale che incombeva sul nostro tavolo. Paolo mi domandò subito di Emma. L’aveva vista per la prima volta, quando aveva quasi un mese durante uno dei suoi viaggi di lavoro a Londra. Cecilia mi chiese di poter vedere qualche foto e, visto che il direttore non era ancora arrivato, accettai di buon grado.

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Estrassi il mio IPhone dalla borsetta e mostrai loro gli ultimi scatti di Emma. Paolo rimase impressionato nel vedere quanto fosse cresciuta dall’ultima volta che l’aveva vista. «Non ti offendere, ma se appena nata ti assomigliava poco, ora non ti somiglia per niente» disse in tono amichevole. Per me fu solo una conferma. Ogni volta che guardavo mia figlia, mi sembrava di rivedere Manuel. Anna sosteneva che se qualcuno dei nostri conoscenti l’avesse vista tra cento bambini non avrebbe faticato a capire chi fosse il padre. Non sapevo cosa rispondergli, ma fortunatamente in quel momento si presentò al tavolo l’ingegner Pirro. «Signorina Franchi, che piacere rivederla finalmente in Italia.» Contraccambiai il saluto e una schiera di camerieri comparve al nostro fianco. Paolo mi passò il telefono da sotto il tavolo e io lo infilai in borsa senza farmi notare. Solo i vertici aziendali erano al corrente che avessi una figlia. Ovviamente anche l’ingegner Pirro lo sapeva, ma non mi sentivo abbastanza in confidenza da doverne parlare a una cena di lavoro. Come temevo la serata si tradusse in compositi monologhi su strategie aziendali e analisi dei costi. E quello era solo l’inizio. Il giorno seguente avrei dovuto sorbirmi la pappardella per intero. Il pensiero mi fece venir voglia di ordinare un'altra bottiglia di vino. Salutammo l’ingegner Pirro verso mezzanotte. L’autista lo stava aspettando con l’ombrello aperto sotto una pioggia incessante. «Sara, ti accompagniamo noi» disse Cecilia vedendomi comporre il numero del taxi. Furono le prime parole che pronunciò dopo circa tre ore di mutismo completo. «Sicuri? Voi abitate dall’altra parte della città, non vorrei farvi perdere tempo.» «Ma fammi il piacere, abiti a cinque minuti, ti accompagniamo noi» rispose perentorio Paolo. Aprì l’ombrello e ci chiese di attenderlo sotto la tettoia dell’entrata del ristorante. «Mi dispiace per la serata noiosa, Cecilia» dissi una volta sole. Non so perché, ma sentivo di dovermi scusare.

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«Paolo mi aveva avvertito che questa serata sarebbe stata noiosa, ma sono voluta venire comunque e poi mi ha fatto piacere rivederti.» «Anche a me ha fatto piacere Cecilia. Perché qualche volta non lo accompagni a Londra?» «Lo farò presto» rispose con un sorriso tirato. Salendo le scale per la seconda volta in quella giornata mi resi conto che avevo scordato quanto fossero impegnative. Lasciai le scarpe vicino alla porta della cucina e accesi solo la piccola lampada sopra il mobile della tv. Mi guardai un po’ in giro, non avevo sonno e incominciai a scorrere la fila di cd. Scelsi Cat Power e nella luce fievole del soggiorno mi misi ad ascoltare la sua versione di I’ve Been Loving You Long. Non fu una buona mossa. Sapevo che questo avrebbe scatenato in me il tormento di cui avevo paura, ma fu inevitabile. I movimenti che mi spingevano a cercare qualche cosa di loro erano istintivi e necessari. Il giorno seguente Paolo mi accompagnò in sala riunioni verso le undici. Avevo incontrato un paio di colleghi per i corridoi scambiando qualche breve battuta, senza fermarmi veramente a chiacchierare. La sala era gremita, mancavano solo due persone, una delle quali era la ragazza che aveva occupato il mio posto in sede. Dopo pochi istanti Paolo incominciò a parlare. Descrisse con minuziosa dovizia di particolari l’attività svolta durante il processo di ampliamento avvenuto in Inghilterra e l’enorme sforzo che era costato in termini economici e umani. Sapevo bene di cosa stava parlando. Per quanto mi riguardava non avevo mai smesso di lavorare, se non durante i tre giorni in cui ero stata ricoverata in ospedale dopo il parto. Ero stata in maternità tre mesi, ma questo non mi aveva impedito, tra un biberon e l’altro, di continuare a svolgere il mio lavoro. L’ingegner Pirro prese la parola subito dopo l’intervento di Paolo e con non poco clamore, rese noto che i vertici aziendali avevano deciso di distaccare il punto vendita di Londra. Annunciò che si sarebbe creata una nuova sede indipendente direttamente sul territorio. A capo di quella sede ci sarebbe stato Paolo. Sgranai gli occhi.

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La sera precedente né lui, né l’Ingegner Pirro avevano minimamente accennato alla cosa. Improvvisamente mi ricordai dell’atteggiamento rassegnato di Cecilia. I miei pensieri furono interrotti, quando sentii pronunciare il mio nome. Scattai in piedi e con sguardo inquisitorio guardai Paolo. «C’è un’altra novità» disse indicandomi. «Sara sarà il nuovo vice direttore» aggiunse. Il mio sguardo si era spostato in direzione dell’ingegner Pirro. Avevo bisogno di avere una conferma che arrivò immediatamente tramite il cenno d’assenso che mi fece con la testa. Rimasi qualche secondo imbambolata, mentre i miei colleghi plaudivano la mia promozione. Ci trattenemmo dentro la sala riunioni per altre due ore discutendo su quanti e quali mezzi avremmo ottenuto per riuscire ad aprire entro l’anno un nuovo punto vendita in Inghilterra. Per l’ora di cena riuscii a raggiungere la casa di Anna. Durante il tragitto finalmente trovai il tempo di chiamare Steven e sentire la voce di mia figlia. Se la stavano cavando benissimo, tanto che parlare con loro riuscì a far allentare la tensione che provavo avvicinandomi sempre di più a casa di Anna. Avevo provato inutilmente a declinare l’invito. Il pensiero di dover stare nella stessa stanza insieme a Luca mi dava il tormento. Per lui sarebbe stata una nuova pugnalata alle spalle di Roberto. Anna non volle sentire ragioni, disse che prima o poi avrei dovuto affrontarlo. Provai a spiegarle che se fossi stata al posto di Luca con ogni probabilità avrei reagito allo stesso modo. Ma evidentemente non riusciva a condividere, né il mio, né il suo punto di vista. Per lei era inconcepibile che suo marito e io non potessimo avere un rapporto. «Zia Sara!» sentii urlare appena varcata la soglia. Prima ancora di capire da che parte arrivava la sua vocina, Simone mi aveva già abbracciato una gamba. «Tesoro, guarda un po’ cosa ho qui» dissi sventolando un pacchetto azzurro tra le mani. Simone prese il suo regalo e si dimenticò di me nel giro di pochi secondi.

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«Smettila di viziare mio figlio. È possibile che ogni volta che ti vede ti associa a un regalo?» esordì Anna comparendo in soggiorno. «Senti chi parla…» risposi sottovoce mentre si avvicinava per prendermi la giacca. Nello stesso istante vidi comparire Luca. Le mie mani avevano incominciato a tremare. Non riuscivo neppure a trovare la voce per dirgli un semplice ciao. Il suo sguardo era pieno di rancore e ostilità. Si avvicinò lentamente, aspettandosi forse un cenno da parte mia. Ma io non potevo muovermi, nemmeno se avessi voluto. I miei occhi erano gonfi di lacrime. Stavo soffrendo per la pena che gli avevo procurato obbligandolo a tradire il suo più grande amico. «Ciao, bentornata» disse avvicinando la sua guancia alla mia, sotto lo sguardo attento di Anna. Rivedevo già la discussione che avevano dovuto affrontare a causa del mio arrivo. Non mi voleva lì e io non volevo esserci. Ma entrambi lo facevamo per Anna. «Luca» dissi ritrovando il controllo della mia voce. «Mi dispiace per tutto questo» dissi fissando un punto del pavimento. «Va bene, ma ora ci sediamo a tavola? Altrimenti si fredda tutto» disse Anna, prima ancora che Luca potesse controbattere. Simone aveva già mangiato, quindi Anna non tentò neppure di togliergli dalle mani il camioncino dei pompieri che gli avevo regalato e lo lasciò giocare sul tappeto della sala. Durante la cena Luca e io ci sforzammo di sembrare naturali, anche se la tensione era palpabile. Parlammo del più e del meno, del mio lavoro e della promozione che avevo ottenuto quel pomeriggio. Anna azzardò perfino un brindisi. Lasciai che il tempo trascorresse lento, fino a quando non accadde qualche cosa che spezzò il sottile filo che ci teneva uniti. Il cellulare di Luca iniziò a squillare e l’espressione che comparve sul suo viso non lasciò scampo a nessun dubbio. «Vuoi rispondere tu?» disse con disprezzo allungandomi il suo cellulare. Il nome di Roberto lampeggiava a ogni squillo. Anna si sporse verso di me, tentando di afferrargli il cellulare dalle mani.

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«Luca, ma sei impazzito?» strillò furiosa. Deglutii e quando finalmente il telefono smise di suonare, ricominciai a respirare. «Mi spieghi che diavolo ti salta in mente? Che cavolo pensi di fare, eh?» gridò Anna. Luca non si girò neppure per guardarla in faccia. Voleva che a parlare fossi io, e non potevo biasimarlo. «Anna, siediti» dissi con tono calmo. Lei mi fissò impietrita «Se tu fossi al suo posto, cosa faresti?» domandai, saldando mio sguardo nel suo. «Che cosa c’entra questo? Lui non può, non ha idea di quello che hai dovuto passare» disse sempre più incredula. «Lui sa quello che c’è da sapere. Come pensi che si senta ogni volta che guarda in faccia Roberto?» Luca provò a parlare, ma si bloccò appena alzai la mano per fermarlo. «È assurdo pensare che sia nel torto. Quello che lui prova guardandomi è la medesima cosa che sento io ogni volta che respiro.» Spostai il mio sguardo verso di lui. «Non sono fiera di me e non passa giorno in cui non mi senta uno schifo per le menzogne che ti obbligo a raccontare e per il dolore che ho causato a Roberto.» Restammo tutti e tre in silenzio per alcuni istanti. Tolsi il tovagliolo dalle gambe e mi alzai pronta ad andarmene. «Fermati Sara» disse Anna, sbarrandomi la strada. «Luca, vieni qui per favore» aggiunse allungando un braccio verso di lui. La fissavamo entrambi, senza riuscire a capire fino a che punto correvano le sue intenzioni. Luca non obbiettò e si avvicinò a noi. «Io vi amo. Entrambi» dichiarò Anna spostando lo sguardo, prima su Luca e poi su di me. «Non posso più sopportare questa situazione. Luca, lei ha sbagliato, ma non puoi odiarla, altrimenti dovresti odiare anche me. Io sono colpevole quanto Sara.» Vidi lo sguardo interrogativo di suo marito passare in rassegna il suo volto. Sapevo a cosa si riferiva, ma non volevo credere che avesse deciso di dirgli quale fosse stato il motivo della fine della mia storia con Manuel. Le strinsi la mano nel vano tentativo di bloccare le sue parole, ma non si fermò. Riportò per filo e per segno cosa accadde la notte in cui lei e Manuel si scambiarono quel maledetto bacio. Luca aveva sgranato gli

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occhi, ma il vero shock arrivò quando Anna gli raccontò che persi il bambino che aspettavo. «Non è la sola che si sente in colpa. Credi che non mi senta responsabile per tutto quello che le è successo?» disse con gli occhi pieni di lacrime. Luca era rimasto ammutolito e mi fissava immobile. Anna non riusciva a smettere di piangere ed era una condizione in cui, né io, né suo marito, eravamo abituati a vederla. Improvvisamente le braccia di Luca si allargarono e mi avvolsero in una stretta fraterna. «Scusami» sussurrò al mio orecchio. Prese Anna e la trascinò nel nostro abbraccio. Restammo immobili ognuno perso dentro le proprie coscienze. Salutai Simone con un bacio sulla fronte, prima che Anna lo portasse a letto. Seguii Luca in cucina e mentre preparava il caffè mi avvicinai a lui. «Non arrabbiarti con lei, non te l’ha raccontato perché si sente ancora troppo in colpa» affermai triste. «Lo so» disse pensieroso. «Penso che ti sia capitata una cosa terribile e mi dispiace che tu abbia dovuto affrontare un dramma simile» aggiunse prendendomi le mani. Sentivo che ci doveva essere un ma, che non tardò ad arrivare. «Ma Sara, io non posso più continuare a mentire a Roberto. Non ce la faccio a guardarlo negli occhi e fingere che non sappia più nulla di te. Soprattutto adesso che ha deciso di andarsene.» All’improvviso sentii la voce di Anna alle mie spalle. «No Luca, le ho giurato di non dirle più nulla.» Anna non fece neppure in tempo a finire la sua frase. Lui la interruppe prevaricando la sua intenzione di mantenere integro il nostro patto. Il mio sguardo saettò sul volto d Luca implorando spiegazioni “Dove? Perché vuole andarsene? È accaduto qualche cosa a Manuel?” urlavano i miei pensieri. Luca parve leggermi nella mente. «Non ce la fa più nemmeno lui. È stanco di dover mentire a suo fratello. Non può andare avanti ad ascoltare i pensieri di Manuel, riesci a capirlo questo?»

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Mi lasciai andare contro lo schienale della sedia. «Ma è passato più di un anno» sospirai sconsolata. «Sara, a te è bastato?» domandò Luca tranquillo. Anna invece gli stava accanto inquieta. «È diverso…» Avrei voluto poter trovare una scusa migliore, ma non riuscii neppure a finire la frase. «Non avrei mai immaginato che Anna sarebbe riuscita a nasconderti tutto quanto» disse Luca voltandosi appena. I loro occhi s’ incrociarono e lessi la resa in quelli di Anna. «Ha fatto semplicemente quello che le ho chiesto» dissi passandole una mano sul braccio. «Non mi importa di quello che sai, mi importa solo che tu riesca a far cambiare idea a Roberto.» «Luca, ma cosa vuoi che faccia? Come posso fargli cambiare idea. A che titolo mi ripresento nella sua vita e gli chiedo di fare o non fare qualche cosa» dissi sbigottita. «Anche se volessi non vedo proprio come possa…» «Dicendo la verità» m’interruppe lapidario. Restai a fissarlo negli occhi. «Non posso. Mi dispiace» risposi con un filo di voce. Vidi la mascella di Luca contrarsi. «E allora lo farò io.» Sentii una scossa attraversarmi il corpo. «Anna, ti prego lui non può farlo, devi convincerlo a non…» Anna si avvicinò cingendomi la vita «Sara, deve farlo. Io per te avrei fatto la stessa cosa» disse guardandomi negli occhi. «Ma cosa vi passa per il cervello? Me lo dite?» dichiarai alzando il tono della voce. «Anna, ti prego, tu sai perché non posso» aggiunsi disperata. Luca spostò lo sguardo verso sua moglie, incredulo del fatto che avesse potuto nascondergli ancora qualche cosa. Avevo costretto Anna a non digli di Emma, giurandole che prima o poi l’avrei fatto io. Era evidente che non fosse mia intenzione farlo, non quella sera. «Sara, pensi che Roberto sia uno stupido?» domandò Luca spietato «Credi che si sia bevuto tutte le fandonie che Anna gli ha raccontato? Nemmeno per sogno. Lui ha sempre saputo per quale motivo sei

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scomparsa. Non ha mai parlato solo perché ha paura per Manuel.» Fece una breve pausa prima di continuare. «E di lui? Cosa sai?» aggiunse infilzandomi con lo sguardo. Feci solo un piccolo cenno con la testa «Appunto» sospirò scuotendo il capo. «Tu non sai niente perché te ne sei andata lasciandolo affrontare l’inferno dei suoi ricordi da solo. Sgranai gli occhi «Te lo chiedo per favore, non farle anche questo» mugugnò Anna. Sì che poteva, anzi era diventato necessario. Mi sentivo come un sordo che all’improvviso, dopo anni di silenzio assoluto, rincominciava a sentire. Rumore, frastuono e poi ancora rumore. Luca la ignorò continuando a fissarmi. «Tu non hai idea di cosa ha dovuto affrontare» disse. Lo lasciai continuare senza opporre la minima resistenza. «Manuel ha incontrato Ines e Venturi due giorni dopo la tua partenza.» Anna si avvicinò e mi prese la mia mano. «Aspetta Luca, forse è giusto che glielo racconti io» disse interrompendolo. Sono certa che se avesse potuto trascinarmi fuori da quella casa lo avrebbe fatto in un istante. Ma oramai era troppo tardi. Le poche parole di Luca erano riuscite a paralizzarmi sul divano. «Sara, incontrai Manuel davanti alla fermata della metropolitana di Cadorna. Era impaziente di capire cosa stesse accadendo. Pensava che tutto quello che stava capitando aveva a che fare con te. Gli provai a spiegare che in qualche modo eri coinvolta in questa storia anche tu, ma che le persone che dovevamo incontrare non c’entravano nulla con la vostra relazione. Gli dissi che per puro caso conoscevo le persone che doveva vedere e che mi sembrava giusto accompagnarlo. Dopo un centinaio di metri arrivammo di fronte all’ingresso del palazzo che mi aveva indicato Venturi. La receptionist ci indicò la strada e prendemmo l’ascensore. Ci fermammo all’undicesimo piano. Ad attenderci c’era una donna che ci accompagnò nell’ufficio di Venturi. Lui era seduto in fondo al tavolo, Ines gli sedeva accanto. Presi la mano di Manuel e lo invitai a seguirmi. Mi guardava senza capire, mi seguiva fiducioso e ignaro. Ines si alzò dalla sedia e ci venne incontro. Guardò

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Manuel solo un istante prima di scoppiare in un pianto disperato. Non aveva avuto il coraggio neppure di sfioragli una mano. Manuel guardò Ines senza capire il motivo di quelle lacrime. Venturi prese immediatamente la parola. Allungò la mano e si presentò. Mi sedetti dall’altro capo del tavolo lasciando Manuel vicino a Ines e ascoltai le parole che Venturi riuscì sapientemente a dosare. Manuel restò ad ascoltare sbigottito per tutto il tempo, guardando di tanto in tanto Ines. Era come se le parole di Venturi gli attraversassero il cuore. Leggevo nel volto di Manuel una sofferenza inaudita, un dolore che gli diede modo di parlare solo dopo venti minuti. “Ines, quindi tu sei l’unico legame che mi resta con il mio passato. L’unica persona che mi può raccontare cosa è capitato ai miei genitori” disse incastrando i suoi occhi neri nei suoi. “No Manuel, non sono l’unico legame che hai con il tuo passato” disse in spagnolo. Manuel si alzò con calma, si avvicinò e le prese la mano. “Il tuo tono di voce… è saltato fuori nella mia mente in passato e ora me lo ritrovo davanti” disse improvvisamente. Venturi e io ci scambiammo una rapida occhiata prima che Ines tornasse a parlare. “Manuel, non siamo gli unici sopravvissuti” dichiarò accarezzandogli il viso. Lui rimase fisso ad aspettare quelle parole con espressione indecifrabile. “Hai un fratello” disse Ines rompendo quell’interminabile silenzio. Lui ritrasse la testa sbigottito. Rimase a fissare i nostri volti, in cerca di una conferma che gli diedi con un leggero cenno del capo. Stavo piangendo, stavamo piangendo tutti. Manuel appoggiò le mani sul tavolo e una lacrima si posò sul vetro del piano. Inspirò prima di tornare a parlare. “Ho un fratello” ripeté a bassa voce, scuotendo leggermente la testa. All’improvviso tornò a guardare Ines. “Dov’è? Voglio vederlo” disse con la voce rotta dal pianto. Ines tirò su con il naso prima di tornare a parlare. “Manuel, quando sei scomparso lui era molto piccolo. Non aveva idea che esistessi fino a quando la famiglia che l’ha adottato non ha deciso di raccontagli tutta la verità sul vostro passato. Ti ha cercato tanto…” dichiarò infine.» Fine anteprima.Continua...