Il sacramento della penitenza

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venerdì 10 novembre 2000- La Penitenza Aspetti Storici ENRICO MAZZA 1

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Dispensa Di Don E. Mazza sul sacramento della penitenza

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mercoledì 5 maggio 1999-

La Penitenza

Aspetti Storici

ENRICO MAZZA

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PREMESSA

Quando oggi si parla del rito, o sacramento, della penitenza si fa riferimento alla “confessione” così com’è nota dalla prassi recente della chiesa, ossia alla prassi di questi ultimi secoli. Il rito è presto descritto: si tratta di confessare al sacerdote i propri peccati e questi, costatato il pentimento, assolve il peccatore che, pertanto, ritorna nella grazia di Dio. Il rapporto tra il penitente e il sacerdote è personale e privato, tutelato dal segreto, senza alcuna dimensione pubblica o sociale: il segreto riguarda sia le colpe accusate, sia l’identità del penitente, sia la pena inflitta che, d’altra parte, è solo simbolica. Questo rito è chiamato sia confessione, dato che l’elemento fondamentale dal quale tutti gli altri dipendono è l’accusa dei peccati, sia penitenza auricolare, per il suo carattere quasi privato che la distingue dalla cosiddetta penitenza solenne1.

La penitenza non è sempre stata così; questa penitenza auricolare così com'è giunta fino a noi, ha avuto la sua formulazione a partire dal dodicesimo e tredicesimo secolo quando si è cominciato a considerare l’intenzione e le motivazioni interiori dell’agire umano come decisive per considerare e valutare l’uomo e il suo comportamento2. L’odierna penitenza auricolare è espressione di questa nuova maniera di intendere l’uomo; tutta l’attenzione è posta sulla coscienza del penitente e sul suo mondo interiore in modo da valutare la sua azione e il suo pentimento in base alle motivazioni interiori del penitente stesso.

La storia del sacramento della penitenza è molto complessa perché rappresenta lo sforzo pastorale della chiesa nei confronti del peccatore. In questa sede ci occuperemo non della penitenza auricolare ma delle altre forme della penitenza che la storia ci ha documentato 3, per mettere in evidenza come sia stato inteso il rapporto colpa e pena soprattutto per i problemi posti alla vita della comunità.

I periodi in cui si articola la storia della penitenza sono diversi a seconda che si prenda in considerazione l’Oriente o l’Occidente, oppure che si considerino aspetti specifici della prassi, o rito, della penitenza.

Il prof. Cyrille Vogel, studioso della penitenza occidentale, ha elaborato una suddivisione delle varie epoche in funzione degli sviluppi della penitenza in Occidente. Ecco le quattro tappe principali.

1) Epoca paleocristiana: penitenza antica. 2) Alto Medioevo: penitenza tariffata. 3) Periodo carolingio, fino al XII secolo: penitenza pubblica per le colpe

gravi pubbliche, e penitenza tariffata per le colpe gravi occulte. 4) A partire dal XII secolo convivono tre forme di penitenza: penitenza

pubblica solenne, penitenza privata sacramentale, pellegrinaggio penitenziale4.

1 L’efficacia di questo rito sta nell’assoluzione proferita dal sacerdote; da parte del peccatore, oltre all’accusa dei peccati, si richiede solo il pentimento, ossia il dolore e la detestazione del male commesso, la volontà di non più peccare e la riparazione del danno arrecato. Questa celebrazione liturgica ha lo scopo di conferire il perdono di Dio al peccatore che, in forza di ciò, è reso di nuovo giusto ad immagine di Dio. Si tratta dunque dell’eliminazione del peccato nel senso più radicale del termine.2 Questo argomento è stato trattato in modo magistrale da CHENU M. D., L’eveil de la conscience dans la civilisation médiévale, (= Conférences Albert le Grand), Vrin, Paris 1969.3 La storia del sacramento della penitenza risulta molto ricca e sfaccettata perché ogni epoca ha lasciato la sua traccia sulla celebrazione di questo rito. 4 C. VOGEL, Il peccatore e la penitenza nel medioevo, LDC, Torino Leumann, 1970, p. 30 (Cf. anche: IDEM, Il peccatore e la penitenza nella chiesa antica, LDC, Torino Leumann, 1967).

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Il domenicano Marie-François Berrouard affronta il problema dal punto di vista generale della storia della chiesa e prende in esame solo i primi sei secoli, ossia il primo periodo considerato da Vogel. Per Berrouard questa prima epoca della storia della penitenza si divide in quattro tappe caratteristiche5.

1) I primi due secoli sono il tempo delle piccole assemblee di convertiti e la penitenza sembra essere un fatto eccezionale.

2) Con il terzo secolo la chiesa si istituzionalizza e la penitenza segue il medesimo cammino divenendo una delle istituzioni della chiesa; sulla spinta delle circostanze si va creando un impianto dottrinale che chiarisca e giustifichi la prassi penitenziale che viene adottata.

3) Dal quarto secolo alla metà del quinto la penitenza diventa un fatto giuridico e viene giustamente definita penitenza canonica.

4) Dalla metà del quinto secolo alla fine del sesto la penitenza si riduce sempre più ai suoi aspetti rituali.

5 M.-F. BERROUARD, La pénitence publique durant les six premièrs siècles. Histoire et sociologie, “La Maison-Dieu”, 118 (1974), pp. 92-130.

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CAPO PRIMO

LA PENITENZA NELLA SACRA SCRITTURA

Nei primi due secoli la penitenza è un fatto abbastanza raro e appartiene alla vita cristiana più come eccezione che come regola. Si tratta di episodi aneddotici di piccole comunità caratterizzate da quel fervore e da quel rigore etico che è tipico di ogni minoranza religiosa. Si tenga presente inoltre che il battesimo ricevuto in età adulta aveva garantito una forte formazione di base. Il rigore morale e il fervore erano rinforzati anche da quella particolare cultura che si accompagna all’attesa escatologica. In questo quadro, dunque, il peccato postbattesimale era un’eccezione. Le fonti parlano solo di casi singoli e di penitenze individuali: di fronte a questi casi isolati ogni chiesa si comportava in modo autonomo e cercava la soluzione che sembrava la più conveniente: questo fenomeno non aveva ancora generato il bisogno di una istituzione penitenziale 6. Ciò che conosciamo del rito della penitenza in quest’epoca non è molto, e può essere così riassunto: la penitenza esige che il peccatore riconosca il proprio peccato, che cessi di peccare e che si sottometta alla volontà di Dio con un deciso cambiamento di condotta. Per ottenere il perdono di Dio il peccatore fa ricorso ai consueti mezzi: preghiera, digiuno, elemosina. Si tratta di piccole comunità e quindi tutta la chiesa si sente coinvolta e interviene con la correzione fraterna e con la preghiera, personale e liturgica, perché il peccatore possa ravvedersi e rientrare nella comunione della chiesa. Questo è quanto possiamo ricostruire del rito, o prassi, penitenziale fino alla fine del secondo secolo.

1. Gesù è in mezzo all’assemblea Soprattutto a causa della riforma liturgica, negli anni immediatamente seguenti il Concilio

vaticano II, la preghiera liturgica prevale nettamente sulla preghiera privata e silenziosa. Solitamente si adduce, come motivazione, che la preghiera liturgica ha un valore teologico superiore alla preghiera privata: la preghiera liturgica, infatti, è preghiera della chiesa, mentre le preghiera personale è solo la preghiera di quel determinato individuo. Come fondamento biblico di questa posizione si adduce Mt 18, 19-20: «In verità vi dico ancora: se due di voi sopra la terra si accorderanno per domandare (a„t»swntai) qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli ve la concederà1. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome (sunhgmšnoi e„j tÕ ™mÕn Ônoma), io sono in mezzo a loro2»3. Se consideriamo attentamente l’interpretazione degli esegeti, vediamo che questo testo ha una valenza un po’ diversa da quella or ora descritta a proposito del valore della preghiera comunitaria. E’ vero che, «già nell’ambito giudaico, la preghiera in comune è ritenuta più valida di quella personale»4, ma qui si parla non tanto della preghiera, quanto della

6 M.-F. BERROUARD, La pénitence publique..., p. 94. 1 Questo v. 19 è assai simile, per contenuto, a Mt 21, 22 e a Mc 11, 24. Presenta particolarità linguistiche che sono proprie di Mt.2 «Il v. 20 è da molti ritenuto un’imitazione di una massima rabbinica, che dice: “Se due siedono insieme e si occupano della torà, la shekina (= la presenza di Dio), è tra loro” (Ab. 3, 2)» (Gnilka J., Il vangelo di Matteo, Parte seconda, (= Commentario teologico del Nuovo testamento, I/2), Paideia, Brescia 1991, p. 205).3 Ambedue i versetti sono patrimonio particolare di Matteo (Sand A., Il vangelo secondo Matteo, Volume secondo, (= Il Nuovo testamento commentato), Morcelliana, Brescia 1992, p. 561); originariamente i due logia appartenevano a due redazioni diverse (Derret J. D. M., Where two or three are convened in my name... A sad misunderstandig, «Expository Times», 91 (1979-1980) 83-86.4 Gnilka J., Il vangelo di Matteo, Op. cit., p. 210.

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domanda (a„t»swntai): qui si chiede a Dio qualcosa che, secondo Joachim Gnilka, riguarda un fratello che ha peccato, il cui caso è discusso nella comunità. L’argomentazione si basa sul contesto immediatamente precedente che tratta del peccato e della correzione fraterna (Mt 18, 15-17) 5. Si noti, tuttavia, che Gnilka non distingue tra “domanda” e “preghiera”, come, invece, distingue bene Sand.

Alexander Sand, allineandosi a Derret, mette in evidenza che qui non si tratta di una assemblea di preghiera, ma di una riunione di correzione fraterna, nella quale ci si rivolge a Dio per domandare qualcosa in ordine alla soluzione del caso: «Quindi ciò che, riguardo a una mancanza commessa, fanno, progettano e presentano a Dio due membri della comunità, costiuisce l’adempimento di un mandato divino»6. Il testo dice “due” al versetto 19, e aggiunge “tre” al versetto 20: quest’aggiunta sarebbe stata fatta per contemplare il caso «che due “pacificatori” non si trovino d’accordo fra loro, sì che un terzo arbitro imparziale renda possibile una sentenza» 7. Secondo la concezione ebraica queste decisioni hanno validità anche “in cielo”. Altrettanto avviene nella comunità cristiana che, riunita in assemblea, sa che il Cristo siede in mezzo ad essa «al centro di due (o tre) giudici arbitrali e legittima la loro sentenza»8.

A parte il diverso modo di intendere il verbo chiedere, “domanda” o “preghiera”, i due autori concordano ampiamente sulla interpretazione del brano che, dunque, riguarderebbe un’assemblea liturgica che è riunita (davanti a Dio) nel nome di Cristo per decidere qualcosa che appartiene all’area della penitenza e della correzione fraterna. Qualsiasi cosa sarà chiesta, posta l’«armonia interiore degli oranti»9, verrà da Dio concessa.

2. Alcune caratteristiche della penitenza nelle Lettere di Paolo Nel suo stadio iniziale la penitenza rappresenta lo sforzo pastorale della chiesa affinché il

battezzato, che eventualmente abbia peccato, possa ritrovare la via tracciata da Cristo. Questo stadio della penitenza è privo di particolari elementi rituali e si realizza nell’iniziativa dei singoli che, nelle varie chiese, cercano di rispondere al bisogno delle singole situazioni.

2.1 La comunione con la chiesa

E’ nel Nuovo Testamento che troviamo le prime testimonianze sulla penitenza, e precisamente in alcuni testi delle lettere di Paolo. Nelle chiese paoline c’è qualche caso di peccato ed è l’apostolo stesso che detta l’atteggiamento da tenere. Iniziamo con il primo di questi casi, il più noto: c’è un cristiano che vive in modo incestuoso con la moglie di suo padre 1. Paolo scrive ai Corinzi che questo battezzato deve essere escluso dalla comunità e “questo individuo sia dato in balìa di Satana per la rovina della sua carne, affinché il suo spirito possa ottenere la salvezza nel giorno del Signore” (1Cor 5, 5).

Al problema del peccato si risponde dunque con la scomunica; questo è il dato fondamentale. In questo testo paolino non si dice nulla di un'eventuale riammissione alla comunità qualora il peccatore si ravveda, ma la possibilità del ritorno del penitente alla vita della comunità va da sé. D’altra parte, abbiamo una esplicita conferma di ciò in un altro testo, a proposito di un caso

5 Cf. Op. cit., pp. 211-213.6 Sand A., Il vangelo secondo Matteo..., op. cit., p. 562.7 Ibidem.8 Ibidem.9 Gnilka J., Il vangelo di Matteo, Op. cit., p. 210.1 Il testo non dice con esattezza quale fosse la situazione incriminata, ossia se si trattasse di incesto reale o puramente giuridico a causa della doppia legislazione, quella romana e quella ebraica, per cui c’erano azioni legittime per la legge romana, che invece erano illegittime per la Legge ebraica. In ogni caso, per Paolo si tratta di una situazione inammissibile alla quale bisogna provvedere.

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accaduto nella medesima comunità di Corinto e narrato nella Seconda ai Corinzi2. Non sappiamo quale fosse la colpa in questione, sappiamo solo che Paolo ritiene che l’allontanamento dalla comunità, ossia la scomunica, abbia già prodotto l’effetto desiderato e che il peccatore non debba più essere lasciato al potere di Satana. Paolo ritiene che, a questo punto, il peccatore possa essere riammesso alla vita della comunità. Paolo non dice che debba essere assolto dai suoi peccati o riconciliato con Dio: parla solo di riammissione alla comunità.

Nel corpus paulinum le lettere pastorali sono state scritte da un discepolo di Paolo, e qui troviamo altri due casi che concordano con quanto abbiamo appena detto per Corinto. Ci sono due cristiani che “hanno fatto naufragio nella fede” e che, pertanto, sono stati scomunicati, ossia “consegnati a Satana perché imparino a non più bestemmiare” (1Tim 1, 19-20). L’esclusione dalla comunione dei fratelli ha funzione terapeutica e medicinale, e viene praticata come modo normale perché i fedeli che hanno gravemente peccato possano ravvedersi. In questi testi non c’è alcun accenno a un rito particolare con il quale il peccatore viene riammesso alla comunità, ad eccezione forse di 1Tim 5, 203 che fa pensare che ci sia un rito di imposizione delle mani. Anche la scomunica pare essere sprovvista di elementi rituali, ma deve essere deliberata in un’assemblea liturgica della chiesa: “Voi vi riunirete, voi e il mio spirito, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo e con la sua potenza” (1Cor 5, 1-5). Diciamo che si tratta di un’assemblea liturgica perché è tenuta nel nome di Cristo.

Non sembra rilevante che esista o non esista un determinato rito di riammissione, dato che, nella prospettiva di questi testi, gli effetti desiderati sono legati al fatto della scomunica e al fatto della riammissione piuttosto che al modo rituale con cui si celebra l’esclusione o la riammissione alla comunione. Ciò che conta, in conclusione, è di dover vivere fuori della comunione della chiesa e, rispettivamente, di poter tornare a vivere nella comunione della chiesa dato che è nella chiesa che c’è la salvezza. La spiegazione di ciò si trova nella dottrina paolina sulla chiesa, la quale è definita semplicemente così: corpo di Cristo. Questa dottrina avrà un'eco costante nella concezione della liturgia nella chiesa delle origini e la ritroveremo presentata in varie maniere. E’ utile citare un testo liturgico degli inizi del terzo secolo che esprime con chiarezza l’importanza della partecipazione alla chiesa: si tratta della Tradizione apostolica che esorta a partecipare all’assemblea liturgica perché “lì fiorisce lo Spirito”4.

Se la chiesa è il corpo di Cristo e il luogo dello Spirito Santo, si comprende perché sia importante, anzi, decisivo essere ammessi alla comunione oppure esserne allontanati e consegnati a Satana. La consegna a Satana non è l’ultima parola, poiché la scomunica è data in vista del ravvedimento e del ritorno.

Tutto questo non è da confondere con la remissione dei peccati, come vedremo subito a proposito dell’uso paolino del lemma riconciliare.

2 “Se qualcuno mi ha rattristato, non ha rattristato me soltanto, ma in parte almeno, senza voler esagerare, tutti voi. Per quel tale però è già sufficiente il castigo che gli è venuto dai più, cosicché voi dovreste piuttosto usargli benevolenza e confortarlo, perché egli non soccomba sotto un dolore troppo forte. Vi esorto quindi a far prevalere nei suoi riguardi la carità; e anche per questo vi ho scritto, per vedere alla prova se siete effettivamente obbedienti in tutto. A chi voi perdonate, perdono anch’io; perché quello che io ho perdonato, se pure ebbi qualcosa da perdonare, l’ho fatto per voi, davanti a Cristo, per non cadere in balìa di Satana, di cui non ignoriamo le macchinazioni” (2Cor 2, 5-11). 3 “Quelli poi che risultino colpevoli riprendili alla presenza di tutti, perché anche gli altri ne abbiano timore. Ti scongiuro davanti a Dio, a Cristo Gesù e agli angeli eletti, di osservare queste norme con imparzialità e di non far mai nulla per favoritismo. Non aver fretta di imporre le mani ad alcuno, per non farti complice dei peccati altrui. Conservati puro!” (1Tim 5, 20-22).4 Cf. BOTTE B. (éd.), La Tradition apostolique de saint Hippolyte. Essai de reconstitution, 5 edizione a cura di A. Gerhards (= Liturgiewissenschaftliche Quellen und Forschungen, 39), Aschendorffsche Verlagsbuchhandlung, Münster Westfalen 1989, n. 35, p. 82.

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2.2 In Paolo la ‘penitenza’ non è da confondere con la ‘riconciliazione’

Philippe Rouillard mette in evidenza che Paolo introduce un termine e una concezione che non appartiene agli altri scritti del Nuovo Testamento: la riconciliazione5. Dando la sua vita per gli uomini, il Cristo ha riconciliato l’umanità con il Padre (Rom 5, 10- 11). E ancora: il Padre, in Cristo, si è riconciliato con il mondo (2Cor 5, 18-20). Questo ministero della riconciliazione ora è stato affidato agli uomini che dunque proseguono quest’opera (2Cor 5, 18-20). Ebbene “Paolo non dà alcuna espressione liturgica o sacramentale di questa riconciliazione: tutto pare accadere sul piano interiore e spirituale”6. Il ministero dell’apostolo come opera di riconciliazione si realizza nell’annuncio del vangelo, nella testimonianza di Cristo e nella carità che è vissuta e testimoniata in vari modi. Senza dubbio il battesimo, gli altri sacramenti, nonché l’annuncio evangelico, appartengono all’attività di riconciliazione propria dell’apostolo, tuttavia non esiste alcun rito specifico che possa essere chiamato rito della riconciliazione.

Concludendo, dunque, c’è una precisa differenza tra l’opera di riconciliazione dell’apostolo, o della chiesa, e l’azione espellere o riammettere alla comunità. La concezione paolina della riconciliazione riguarda l’opera della redenzione, ossia riguarda, direttamente, il rapporto tra l’uomo e Dio, mentre la scomunica e la riammissione del battezzato nella comunità riguardano, direttamente, solo il rapporto tra l’uomo e la chiesa. Solo secondariamente, ossia in seconda battuta, il nuovo rapporto con la comunità media il rapporto con Dio e pertanto il suo effetto si può configurare come appartenente all’area della riconciliazione7.

5 ROUILLARD Ph., Histoire de la pénitence des origines à nos jours, (Histoire), Cerf, Paris 1996, p. 21. 6 ROUILLARD Ph., Op. cit., p. 22.7 Questo non è un problema marginale dato che da qui nasce la questione, ancora irrisolta, se la penitenza sia, direttamente, assoluzione dei peccati o riammissione alla chiesa.

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venerdì 10 novembre 2000, h. 21/04/2023-

CAPO SECONDO

LA PENITENZA CANONICA IN OCCIDENTE

1. I primi elementi della penitenza in Occidente Un buon esempio di questa situazione non istituzionale e non ritualizzata è

dato dalla Prima lettera ai Corinzi di Clemente Romano. Un altro caso è descritto da Ireneo che fa vedere come sia stato l’impegno dei fratelli a provocare il ritorno alla chiesa della moglie di un diacono sedotta dal mago Marco1. La preoccupazione per i fratelli affinché si salvino è ben attestata anche dalla Seconda lettera ai Corinzi di Clemente.

In questo periodo c’è un primo dato storico di cui dobbiamo tenere conto: la testimonianza di Erma, autore di un’opera di grande successo, Il Pastore, scritta verosimilmente ai tempi di Clemente Romano (fine I secolo) con aggiunte posteriori attribuite all’epoca di Pio I (140-150) 2. A quest’ultima parte appartengono le parti sulla penitenza che ci interessano. Erma si riferisce a una persecuzione che noi non riusciamo a identificare; in ogni caso si tratta di una persecuzione che ha dato una forte scossa alla comunità cristiana: accanto ai martiri si erano rivelati i codardi e gli apostati3. Qui, come anche altrove in circostanze analoghe, c’è una corrente rigorista (encratiti) che nega agli apostati il ritorno alla chiesa, ossia che nega la loro riammissione alla comunione della chiesa. Dato che la chiesa è comunità di salvezza, ne segue che per gli apostati non c’è speranza di salvezza.

Infatti il battesimo è l’unica forma di penitenza, come ben si esprime il Pastore: “Udii, dico, Signore, da alcuni maestri che non c’è altra penitenza se non quella di quando discendemmo nell’acqua e ricevemmo la remissione dei nostri peccati passati. Mi dice: bene udisti; è così infatti. Bisognerebbe che chi ha ricevuto la remissione dei peccati non peccasse più, ma si stabilisse nell’innocenza”4.

Di fatto, però, gli uomini continuano a peccare e la cosa, dopo le persecuzioni, è ben evidente. E’ a causa di ciò che Erma, per incarico di un angelo in una visione, ha il compito di annunciare che c’è ancora una possibilità anche per i peccatori. Essi debbono ravvedersi “prima di un giorno fissato come limite”5, ma questo giorno non è determinabile dato che si tratta di qualcosa che è tributario del genere apocalittico ed escatologico. In ogni caso è evidente che per Erma la riconciliazione con la chiesa è ancora possibile ed egli afferma chiaramente che c’è possibilità di penitenza e riconciliazione per tutti quelli che hanno peccato, ma questa è l’ultima occasione per ottenere il perdono di Dio6.

1 Adversus haereses, 1, 13, 5.2 J. QUASTEN, Patrologia, Vol. I, Marietti, Casale Monferrato 1967, p. 89.3 G. BOSIO - E. DAL COVOLO - M. MARITANO, Introduzione ai Padri della chiesa. Secoli I e II, SEI, Torino 1990 (Strumenti della Corona patrum), p. 120. 4 Mand. 4, 3.5 Vis. 2, 2, 6.6 Mand. 4, 1-3.

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Nella prospettiva di Erma, dunque, la penitenza è unica, quella del battesimo, nondimeno la misericordia di Dio ha predisposto che ci sia una seconda penitenza per i peccatori che si convertono; tuttavia, per evitare che i battezzandi e i neofiti si impegnino di meno nelle responsabilità che comporta il battesimo, l’annuncio è decisamente restrittivo: la penitenza postbattesimale può essere fatta una sola volta. Dalla penitenza inoltre sono esclusi quelli che “sono volontariamente induriti nel male, la cui penitenza sarebbe solo un’ipocrisia e una nuova profanazione del nome di Dio”7.

La penitenza attestata dal Pastore è un regime di misericordia, del quale abbiamo altre attestazioni in epoche successive, come, ad esempio, nel caso segnalato da Ireneo quando Policarpo, giunto a Roma, riuscì a ricondurre alla chiesa molti eretici8.

2. Il ruolo di Tertulliano L’epoca successiva è quella segnata dalla presenza di Tertulliano che,

secondo alcuni, sarebbe all’origine della prassi dell’unica penitenza in vita. L. M. Chauvet oppone la testimonianza di Erma a quella di Tertulliano dicendo che mentre nel Pastore c’era una ‘pastorale’ per il peccatore, per portarlo a conversione, invitandolo a cogliere l’occasione unica della misericordia di Dio prima dei tempi ultimi, Tertulliano mette in piedi l’‘istituzione’ dell’unicità della penitenza1. Credo che questo giudizio abbia bisogno di essere sfumato per meglio cogliere la posizione di Tertulliano sulla quale ci dobbiamo soffermare un poco.

Nell’epoca di Tertulliano la chiesa si dà le sue istituzioni e si organizza anche nella propria prassi con una più precisa impostazione dottrinale. Dobbiamo usare con circospezione i testi di Tertulliano sia perché egli ha conosciuto due periodi, nella sua riflessione dottrinale, il periodo cattolico e il periodo montanista segnato dal rigorismo, sia perché egli non sembra avere una prospettiva sistematica o teoretica. Sappiamo che Tertulliano è testimone della penitenza una sola volta in vita, ma sappiamo che questa non è l’unica testimonianza che egli ci trasmette e quindi, ci dobbiamo collocare all’interno di un quadro più ampio, per chiederci perché egli asserisca l’unicità della penitenza.

Effettivamente Tertulliano parla anche della penitenza ricevuta più volte in vita. Infatti egli attesta che Marcione, espulso due volte dalla chiesa, ricevette la possibilità di una terza riconciliazione2. Da qui si vede che la norma di una

7 Sim. 8, 6, 2.8 Adversus haereses, 3, 3, 4.1 L. M. CHAUVET, Evolutions et révolutions du sacrement de la réconciliation, in: L. M. CHAUVET - P. DE CLERCK, Le sacrement du pardon entre hier et demain, Desclée, Tournai 1993 (Culte et culture), pp. 33-39. 2 “Nam constat illos (= Marcion, Valentinus) neque adeo olim fuisse, Antonini fere principatu, et in catholicae primo doctrinam credidisse apud ecclesiam romanensem sub episcopatu Eleutheri benedicti, donec ob inquietam semper curiositatem, qua fratres quoque uitiabant, semel et iterum eiecti, Marcion quidem cum ducentis sestertiis quae ecclesiae intulerat, nouissime in perpetuum discidium relegati, uenena doctrinarum suarum disseminauerunt. Postmodum Marcion paenitentiam confessus cum condicioni datae sibi occurrit, ita pacem recepturus si ceteros quoque, quos perditioni erudisset, ecclesiae restitueret, morte praeuentus est” (De praescriptione haereticorum, 30; REFOUL R. F. (ed)‚ Q. S. F. Tertulliani. De Praescriptione haereticorum, (= Corpus christianorum. Series latina, 1), Brepols, Turnholti, 1954, p. ? ).

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sola penitenza in vita non ha ancora ricevuto una formulazione completa. Di conseguenza, questo dato richiede una interpretazione migliore e più sfumata.

Nel periodo cattolico Tertulliano scrive il De paenitentia (198-206) nel quale tratteggia il regime penitenziale in parallelo con il catecumenato che nasceva nello stesso periodo. Dalla fine del secondo secolo la penitenza ha perso il suo carattere eccezionale e diventa un fatto ordinario: di fronte a ciò Tertulliano si preoccupa che aprire le porte alla penitenza non sia interpretato come un aprire le porte al peccato. Inoltre, in questa stessa linea, Tertulliano ha trasmesso un interessante detto che possiamo attribuire a Montano : ““Sed habet, inquis, potestatem ecclesia delicta donandi”. Hoc ego magis et agnosco et dispono, qui ipsum paracletum in prophetis nouis habeo dicentem: “Potest ecclesia donare delictum, sed non faciam, ne et alia delinquant””3.

Queste testimonianze ci dicono che Tertulliano durante il periodo cattolico non ha conosciuto la dottrina della penitenza una sola volta in vita, ma una prassi più articolata e possibilista che egli ha cercato di spingere verso un maggior rigore.

Nel periodo montanista Tertulliano assume una posizione più rigida e censura il vescovo Agrippino che aveva promesso la riconciliazione agli adulteri e ai fornicatori che facevano penitenza4. Ma restiamo al Tertulliano cattolico ed esaminiamo una delle sue più famose frasi sull’unicità della penitenza; nel De paenitentia, volendo spiegare il perché dell’unicità della penitenza in vita egli risponde: “semel quia iam secundo, sed amplius numquam quia proxime frustra. Non enim et hoc semel satis est?”5.

Questa espressione va vista alla luce della preoccupazione pastorale di Tertulliano, vista più sopra, di non interpretare il regime penitenziale come cedimento al peccato. Inoltre dobbiamo aggiungere due osservazioni: 1) Tertulliano è corretto nel designare con il termine penitenza sia la penitenza prima sia la penitenza seconda, ossia il battesimo e la riconciliazione dei penitenti; 2) Tertulliano ammette la possibilità di riconciliazione, ma una sola volta in vita perché è già la seconda dato che, a rigore, la prima penitenza è stata quella battesimale. Tertulliano dunque, dicendo una sola volta, dice due volte. E’ fine il ragionamento di Tertulliano, perché, in tal modo, nessuno può accusarlo di sostenere che la penitenza c’è una sola volta in vita. Da un lato Tertulliano patrocina una più rigorosa applicazione del regime penitenziale, ma dall’altro lato egli non vuol negare che la penitenza possa essere data due volte. E’ per questo che, inserendo il battesimo nel computo, egli può affermare che la penitenza va data una sola volta dato che è già la seconda.

Da ultimo dobbiamo rilevare che Tertulliano fa un discorso di fatto, non un discorso dottrinale: un successiva penitenza non deve essere data perché sarebbe inutile. Il cammino di conversione durava due o tre anni ed era molto rigoroso e impegnativo6. Tertulliano non può credere che lo si possa fare

3 De pudicitia, 21; (DEKKERS E. (ed)‚ Q. S. F. Tertulliani. De pudicitia, (= Corpus christianorum. Series latina, 2), Brepols, Turnholti, 1954, p. ? ).4 “Pontifex scilicet maximus, quod <est> episcopus episcoporum, edicit: "ego et moechiae et fornicationis delicta paenitentia functis dimitto". O edictum cui adscribi non poterit: bonum factum! et ubi proponetur liberalitas ista?” (De pudicitia, 1; DEKKERS E. (ed)‚ Q. S. F. Tertulliani. De pudicitia, (= Corpus christianorum. Series latina, 2), Brepols, Turnholti, 1954, p. ? ).5 De paenitentia, 7; (BORLEFFS J. G. PH. (ed.), )‚ Q. S. F. Tertulliani. De paenitentia, (= Corpus christianorum. Series latina, 1), Brepols, Turnholti, 1954, p. ? ).6 La descrizione del regime penitenziale è nel De paenitentia, 8, 8.

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un’altra volta, dopo che una persona lo ha percorso già due volte, una volta per il battesimo e una volta per la penitenza. Era pensabile che una persona si convertisse per ben due volte e poi, dopo aver peccato ancora, provasse a convertirsi un’altra volta ancora, con un cammino penitenziale di altri due o tre anni? Tertulliano mostra di non credere a questa possibilità.

Possiamo concludere dicendo che la posizione di Tertulliano consiste in un giudizio ‘di fatto’ e non ‘di dottrina’, dato che egli dice che la terza penitenza è inutile (frustra); così facendo egli mette in primo piano non l’atto della riconciliazione dei penitenti, bensì la conversione che, giustamente, va ritenuta come fatto fondamentale del regime penitenziale.

In tal modo si attenua un poco la distinzione tra il Tertulliano del periodo cattolico e il Tertulliano montanista, quando egli fa sfoggio di un radicale rigorismo, anche perché il rigorismo è una deriva comune a tutto l’episcopato africano di quell’epoca ossia dell’epoca che sta tra il De paenitentia e il De pudicitia. Il montanismo ha avuto buon gioco proprio perché ha fatto sue, esacerbandole, le istanze di una parte della chiesa d’Africa. Per il periodo immediatamente successivo abbiamo la testimonianza di Cipriano che attesta che alcuni vescovi africani non ritenevano che la pace dovesse essere data agli adulteri e proibivano decisamente che il peccato di adulterio fosse sottomesso alla penitenza7. Anche a Roma il rigorismo si fa strada; basti guardare la protesta di Ippolito contro le misure di indulgenza introdotte da papa Callisto8.

3. La penitenza una volta in vita Il rigorismo esce sconfitto da questa contesa della fine del secondo e inizi

del terzo secolo, ma, come sempre accade, alcune delle ragioni degli sconfitti finiscono per essere accettate, di fatto, e per imporsi alle epoche successive. Effettivamente bisognava evitare che il regime penitenziale cadesse nel lassismo.

Per evitare questo, vengono resi più severi gli interdetti del regime penitenziale che, pertanto, restano presenti anche dopo che il penitente è stato riconciliato e lo accompagnano per tutta la vita. Entrare in penitenza, dunque, significa entrare in uno stato che di fatto durerà tutta la vita. Come si può entrare in penitenza una seconda volta, se lo stato di penitente non era mai cessato? E’ questo il nucleo della questione, ossia la spiegazione dell’unica penitenza in vita. E’ nata così l’istituzione della penitenza una sola volta in vita.

Questo processo attingerà il suo culmine con la penitenza canonica, ossia quando ci saranno concili che delibereranno alcuni canoni che regolano la penitenza in modo identico per tutti. Ormai la penitenza è un fatto squisitamente giuridico e il vescovo che la amministra è in tutto e per tutto un giudice. Prima di diventare istituzionale, il regime penitenziale è un fatto locale gestito direttamente dai presbiteri e dai vescovi, ma nel trascorrere del tempo il vescovo assume un ruolo sempre più diretto in materia.

In conclusione dobbiamo dire che ciò che è passato alle epoche successive non è la posizione del Pastore di Erma, con il suo valore pedagogico dell’unica occasione che ancora viene offerta ai peccatori perché si convertano; e non è nemmeno la posizione di Tertulliano, nel suo insieme e nella sua complessa problematicità.

7 Ep. 55, 21, 1.8 Philosophoumena, 9, 12.

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E’ prevalso dunque un certo rigorismo che ha assunto la forma di una penitenza sola, unica nella vita (nel senso di paenitentia secunda). Ciò che è passato alle epoche successive è una versione ridotta e puramente giuridica dell’unicità della penitenza in vita; il rigorismo infatti non era fine a se stesso; era solo un modo per far fronte alla difficoltà di un regime penitenziale che non riusciva a raggiungere il suo scopo. Di questo fatto è buon testimone Ambrogio che dice: “Ho incontrato più facilmente dei cristiani che avevano conservato la loro innocenza battesimale che dei peccatori che hanno fatto penitenza nel modo dovuto”1.

4. Gli elementi costitutivi del “regime penitenziale” e l’ordine dei penitenti

Nel periodo che va dalla prima metà del III alla fine del VI secolo, si forma il sistema penitenziale dell’antica chiesa d’occidente.

4.1 Il regime penitenziale e i suoi elementi

Fin dalle sue origini il regime penitenziale può essere suddiviso in tre momenti. 1) L’ingresso in penitenza, che avviene in un incontro con il vescovo il quale, informato del

tipo di colpa commessa dal penitente, gli impone la pena da portare a compimento. Sul tipo di colpa commessa il vescovo viene informato dal penitente stesso, che gli chiede l’ingresso in penitenza; solitamente è così ma può anche accadere che il vescovo sia a conoscenza per altra via delle colpe di un battezzato che, da parte sua, non ha alcuna intenzione di fare penitenza. In tal caso è il vescovo che interviene d’autorità e che impone lo stato di penitente, con le relative opere penitenziali, al peccatore recalcitrante. La difficoltà di questa prassi la si vede anche dal concilio di Nicea che imponeva che, ogni anno, si tenessero due concili provinciali per il riesame delle scomuniche, in modo da controllare che fossero state inflitte correttamente1.

2) Il tempo dell’espiazione penitenziale durante il quale i penitenti praticano la continenza sessuale, fanno frequenti digiuni, si astengono dal mangiar carne e, se hanno cariche pubbliche o sono nel commercio, si astengono da queste attività. La preghiera è un impegno continuo e debbono recarsi a tutte le celebrazioni liturgiche ma restano esclusi dalla comunione eucaristica. La lunghezza di questo tempo penitenziale dipende dalla natura del peccato e dalla valutazione del vescovo. Durante tutto il tempo della penitenza i peccatori pentiti sono al centro della preghiera della chiesa, che continuamente intercede per loro, inserendo i loro nomi nella preghiera liturgica. San Girolamo si lamenta del fatto che i nomi dei peccatori pentiti vengono proclamati ufficialmente nel canone romano, ossia nella preghiera eucaristica, dando a questi penitenti una fama e una notorietà nella chiesa che proprio non meritano, a causa del loro peccato2.

3) Il vescovo riammette il penitente nella comunione della chiesa con un gesto di benedizione, molto usato e polivalente, l’imposizione delle mani. Il gesto è accompagnato dalla preghiera sua e di tutta la comunità che intercede perché Dio voglia accogliere e perdonare il peccatore pentito. Come effetto di questa assoluzione della scomunica il penitente potrà, d’ora in poi, accedere alla comunione eucaristica. L’assoluzione dalla scomunica e il perdono dei peccati sono frutto dello stesso cammino penitenziale: le preghiere di assoluzione parlano di entrambi pur tenendoli adeguatamente distinti.

Tuttavia, col passare dei secoli, a causa della loro mutua implicazione, la dimensione ecclesiale della penitenza si fonde completamente con la dimensione del perdono del peccato da

1 De paenitentia, 2, 10, 96.1 Can. 5.2 In Jeremiam, lib. 2, cap. 11, 15.16 (MIGNE J.-P. (ed.), Patrologiae cursus completus. Series latina, Parisiis 1841-1864, Vol. 25, Col. 175).

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parte di Dio. Conseguentemente il rito della riammissione dei penitenti diventa sempre più il rito del perdono dei peccati. E’ la situazione che troveremo nella penitenza medievale.

4.2 Aspetti giuridici del regime penitenziale

Ogni regione ecclesiastica affronta il problema dei “lapsi” ossia di coloro che hanno abbandonato la professione della fede ma che, in un modo o nell’altro, al termine della persecuzione, desiderano rientrare nella comunità. Potevano essere riammessi? In linea di principio la risposta era positiva, ma a quali condizioni? Come fare per valutare se c’era stata una vera “metanoia”, e come fare per aiutare questa conversione a crescere in modo da consentire il perdono del peccato? Nell’epoca delle persecuzioni la penitenza diviene un “regime penitenziale” perché la chiesa si dà norme generali al riguardo.

Per mezzo di concili regionali e per mezzo di decisioni di singoli vescovi come, ad esempio, san Cipriano, è nato un insieme di norme che regolamentavano la vita dei “lapsi” che chiedevano di ricevere il perdono. Non c’è vera omogeneità tra le norme suddette, dato che sono state redatte da concili differenti, in tempi e luoghi diversi, sotto la spinta di problemi che non sono sempre gli stessi e, soprattutto, ad opera di persone a volte molto diverse tra loro. Se in oriente prevale lo spirito di misericordia e il concetto medicinale della pena, in occidente prevale il valore espiatorio della pena, che va stabilita con giustizia. A causa di questa concezione occidentale della penitenza, nasce il valore giudiziario dell’azione del vescovo che giudica il peccatore e stabilisce la pena. In alcune regioni la pena viene stabilita dai concili con estrema cura, ma altrove no. Ad esempio il concilio di Cartagine del 397 si limita a dichiarare: “Ai penitenti, a seconda della diversità dei loro peccati, sia fissato un tempo di penitenza a giudizio del vescovo”3.

Sant’Agostino confida un giorno a san Paolino di Nola il peso di dover giudicare i penitenti: punire o non punire, tenendo conto delle forze di ciascuno e dello scopo ultimo di tutto ciò, la salvezza del peccatore. Agostino arriva a chiedersi se la punizione che pende sugli uomini ha avuto veramente una funzione. Punendo un colpevole a volte lo si perde, e lasciandolo impunito a volte se ne perde un altro. Che fare dunque? E’ questa la domanda ardua che Agostino si pone e per la quale non esisterà mai risposta alcuna4.

E’ dopo la persecuzione di Diocleziano e dopo l’editto di Milano che la penitenza occidentale diventa un vero e proprio sistema giuridico, anche se con una concezione del diritto diversa da quella di oggi; a ragione questo regime penitenziale si chiama “penitenza canonica”.

Tra i vari “ordini” o classi che ci sono all’interno della chiesa c’è anche l’ordine dei penitenti, nato a imitazione dell’ordine dei catecumeni così come il regime penitenziale nasce a immagine del catecumenato, come ci testimonia Tertulliano all’inizio del terzo secolo.

I penitenti sono molto numerosi, ad ascoltare la testimonianza di Agostino: al momento dell’imposizione delle mani essi formano una lunga fila. Alcuni sono entrati essi stessi nel cammino penitenziale, altri sono stati scomunicati d’autorità dal vescovo e costretti a entrare in penitenza; Agostino lamenta che questi ultimi non sembrano avere la minima intenzione camminare nella penitenza per uscire da questo stato che, per sua natura, deve essere temporaneo: vi si trovano bene, in definitiva, come se fosse uno stato stabile e duraturo5.

4.3 Alcuni esempi di penitenze

Proseguiamo nell’esame del carattere giuridico, e penale, della penitenza antica. In Spagna il concilio di Elvira (300-303) determina chi sia colui che deve assolvere dalla penitenza e stabilisce che determinati peccati siano trattati con eguale

3 Can. 31 (Mansi, Concilia, III, col. 885).4 Epist. 95, 3 (CSEL 34, pp. 508-509).5 Sermo 232, 7, 8 (MIGNE J.-P. (ed.), Patrologiae cursus completus. Series latina, Parisiis 1841-1864, Vol. 38, Col. 1111).

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penitenza da tutti, precisandone la natura e la durata. Può assolvere solo il vescovo che ha scomunicato quel determinato penitente. Il concilio di Arles (314) precisa ulteriormente che il penitente può essere assolto solo nel posto in cui è stato scomunicato. Diamo qualche esempio di canoni penitenziali del concilio di Elvira, famoso per l’ampiezza degli argomenti trattati. Il primo caso riguarda un caso di omicidio: “Se una donna in un impeto d’ira ha colpito la domestica a staffilate e questa muore nei tormenti in capo a tre giorni, mentre si ignora se la padrona abbia ucciso intenzionalmente o meno, abbiamo deciso di ammettere la colpevole alla comunione dopo che avrà compiuto la penitenza canonica: dopo sette anni se l’uccisione è stata intenzionale, dopo cinque, se aveva colpito senza l’intenzione di uccidere. Se, durante il periodo di penitenza, la colpevole si ammala, le si dia la comunione”6.

Il secondo riguarda la gerarchia ecclesiastica. Si consideri questo canone: “I cristiani rivestiti della carica di flamini, che portino solo la corona, ma che non abbiano sacrificato né contribuito ai sacrifici idolatrici con i loro beni, saranno esclusi dalla comunione” (can. 55). Ecco un altro canone: “I vescovi, sacerdoti e diaconi di cui risulta chiaramente che abbiano commesso adulterio mentre erano nelle loro funzioni, abbiamo deciso a causa dello scandalo e a causa dell’empietà manifestata col loro misfatto, che siano privi del viatico alla fine della loro vita”7. Il terzo caso mette in evidenza l’aspetto della colpa soggettiva, i ragazzi non sono colpevoli di eresia, ma gli adulti sì: “Se un cattolico passa all’eresia e poi vuole nuovamente ritornare nella chiesa cattolica, abbiamo deciso di concedergli la penitenza, poiché ha riconosciuto la sua colpa. Farà dieci anni di penitenza e poi riceverà la comunione; se si tratta di fanciulli, bisogna accoglierli subito alla comunione, poiché non hanno colpa”8.

6 Can. 5 (Mansi, Concilia, II, col. 5-19).7 Can. 18 (Mansi, Concilia, II, col. 5-19).8 Can. 22 (Mansi, Concilia, II, col. 5-19).

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sabato 11 novembre 2000, h. 21/04/2023-

CAPO TERZO

LA LITURGIA VISIGOTICA

1. La penitenza nel regno visigotico tra il quinto e il settimo secolo

1.1 Premessa

Le forme della penitenza della chiesa antica, in Occidente, sono quelle della penitenza canonica e arrivano senza significativi cambiamenti fino al quinto e sesto secolo, quando la penitenza antica comincia a subire una forte crisi. Fino a quest’epoca la paenitentia antiqua ha le medesime strutture e le medesime caratteristiche, sia nelle chiese d’Oriente sia in quelle d’Occidente. A seconda dei luoghi e delle epoche possono esserci delle accentuazioni particolari, ma il fondo è sentito come un fondo comune alle varie chiese. In Occidente si è affacciata una caratteristica nuova, la non reiterabilità della penitenza, che si è affermata a poco a poco, a partire dal terzo secolo. Questa caratteristica è già segno di una concezione giuridica della penitenza, dovuta al fatto che gli interdetti penitenziali sono permanenti e collocano il penitente in un particolare Ordo: l’ordine dei penitenti.

C’è un autore che ha interpretato con grande cura le istanze della penitenza canonica e che ha cercato di trovare una soluzione ai problemi che questa penitenza poneva. Si tratta di Cesario di Arles (500 circa - 543) che nel 506 ha presieduto il concilio di Agde, un concilio che, a detta di Berrouard, registra il fallimento della penitenza canonica1. Cesario è un grande pastore, seriamente preoccupato della situazione che si era creata a causa del regime penitenziale basato sull’ingresso nell’ordine dei penitenti. In pratica anche i più ben disposti non potevano permettersi di entrare tra i penitenti a causa degli interdetti che duravano tutta la vita. Di conseguenza la penitenza viene lasciata come occasione per l’età avanzata o per il pericolo di morte.

1.2 La crisi della penitenza occidentale nel sesto secolo

Dai questi canoni ora citati, si vede che siamo nel periodo in cui la crisi della penitenza antica ha raggiunto il punto di non ritorno. Questa non era più praticabile a causa delle opere penitenziali, dato che gli interdetti penitenziali duravano tutta la vita, anche dopo che i penitenti erano stati riammessi alla comunione della chiesa e, quindi, alla comunione sacramentale. Sovente, per il loro particolare carattere espiatorio, questi interdetti equivalevano a una vera e propria morte civile del penitente. L’ingresso nell’ordine dei penitenti aveva un qualcosa di infamante e il penitente restava penitente per tutta la vita anche quando gli interdetti penitenziali erano ridotti a ben poca cosa. Il problema non stava tanto nell’onerosità delle penitenze, quanto nella loro durata. Inoltre c’erano conseguenze giuridiche ben precise, come l’esclusione del portare le armi. E’ evidente che, nel caso di un re o di altri personaggi che esercitavano il potere con la spada, questa norma equivaleva alla deposizione.

1 M.-F. BERROUARD, La pénitence publique..., p. 128.

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2. Chi è Cesario di Arles (470-542) Per parlare della penitenza occidentale è necessario rifarsi a Cesario di Arles, che è un testimone privilegiato. Nato nel 470 in Burgundia da una famiglia agiata, lascia ogni cosa per ritirarsi nel monastero di Lérins, da dove uscirà per motivi di salute. Divenuto vescovo di Arles per designazione del predecessore, suo parente, ebbe molte difficoltà con il mondo dei Visigoti perché considerato, in definitiva, uno straniero, soprattutto quando ci fu la guerra dei Visigoti contro i Burgundi e i Franchi. Le difficoltà personali di Cesario con i Visigoti cessano nel 514 dopo la visita al re Teodorico, a Ravenna, con l’episodio della liberazione dei cittadini di Oranges riscattati da Cesario. Bisogna anzitutto ricordare che Arles1 è una città ricca e attiva, dedita al commercio che si articola sui due porti, fluviale e marittimo, con notevole successo dei mercanti siriani. Città cosmopolita, ospita da secoli una fiorente colonia giudaica e una ben più importante comunità cristiana di lingua greca, cosicché in certi quartieri il greco prevale sul latino e Cesario fa cantare i salmi in latino o in greco a seconda dei luoghi 2. In questa città c’è un cristianesimo molto antico e vivace, con una forte componente di intellettuali3. Dobbiamo ricordare infine che, nel suo insegnamento, Cesario di Arles si fonda quasi esclusivamente sulla Scrittura.

2.1 La penitenza canonica descritta da Cesario di Arles

Cesario nei suoi sermoni tratta dei vari peccati che sono sottoposti alla penitenza canonica4.

Il rito penitenziale si svolge in tre tempi: a) ingresso in penitenza; b) tempo di espiazione nell’ordine dei penitenti, sotto la guida della chiesa; c) riconciliazione ad opera del vescovo. L’espiazione dura per un periodo molto lungo. Il rito della penitenza comincia con la richiesta della scomunica, poi il penitente si veste di cilicio, ossia di un vestito rozzo intessuto con il pelo di capra 5 e si astiene dall’eucaristia, perché ne è indegno6. Con la richiesta della penitenza si invocano i fratelli e tutta la chiesa a pregare e a intercedere presso Dio affinché questi voglia concedere il perdono al penitente; se basta l’accordo di due o tre riuniti nel suo nome per ottenere l’esaudimento, quanto più sarà efficace la preghiera di

1 Questa diocesi è molto estesa e va dal Rodano fin verso Tolone.2 M.-J. DELAGE, «Un évêque au temps des invasions», in: D. BERTRAND - M.-J. DELAGE - P.-A. FÉVRIER (†) - J. GUYON - A. DE VOGÜÉ, Césaire de Arles et la christianisation de la Provence, Actes des journées “Césaire” (Aix-en-Provence - Arles - Lérins, 3-5 novembre 1988, 22 avril 1989), Cerf, Paris 1994, p. 29.3 P.-A. FÉVRIER (†), «Césaire et la Gaule Méridionale au VIe siècle», in: D. BERTRAND - M.-J. DELAGE - P.-A. FÉVRIER (†) - J. GUYON - A. DE VOGÜÉ, Césaire de Arles …, p. 52.4 La lista più ampia è nel Sermone 179. 5 «Ille, qui paenitentiam accipit, cilicio cooperitur; et quia cilicium de pilis caprarum texitur, et caprae peccatorum similitudinem habere videntur, ille, qui paenitentiam accipit, non se agnum sed haedum publice profitetur» (Sermones, 67, 1, in: G. MORIN (éd.), Caesarius Arelatensis. Sermones …, (= Corpus christianorum. Series latina, 103), Brepols, Turnholti 1953, p. 285).6 «Et hoc adtendite, fratres, quod qui paenitentiam petit, excommunicari se supplicat. Denique, ubi acceperit paenitentiam, coopertus cilicio foris eicitur. Ideo enim se excommunicari rogat, quia ad percipiendam eucharistiam domini indignum esse se iudicat: et propterea aliquandiu se ab isto altari alienum vult fieri, ut ad illud altare quod in caelo est mereatur cum secura conscientia pervenire. Propterea se a corpore et sanguine christi quasi reum et impium cum grandi reverentia vult removeri, ut per ipsam humilitatem tandem aliquando ad communionem mereatur sacrosancti altaris accedere» (Sermones, 67, 2, in: G. MORIN (éd.), Caesarius Arelatensis. Sermones …, (= Corpus christianorum. Series latina, 103), Brepols, Turnholti 1953, p. 287).

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tutta la chiesa che prega per un penitente7. Gli interdetti penitenziali restano per tutta la vita, sia per l’espiazione sia per la prevenzione8 di nuove ricadute nel peccato9.

In questa penitenza l’ideale è che il penitente si rechi, egli stesso, dal vescovo per chiedere la penitenza, senza esservi costretto da alcuno, tuttavia Cesario invita i fedeli a denunciare i peccati più gravi, tra i quali l’adulterio e il concubinato10, e Cesario rimpiange di non poter scomunicare tutti i concubini e tutti gli adulteri a causa del loro numero troppo elevato. Il vescovo, chiamato in causa da queste denuncie, esorta il colpevole a entrare in penitenza, oppure procede direttamente alla scomunica. La liturgia dell’ingresso in penitenza è una liturgia pubblica alla presenza della chiesa anche quando si tratta di peccati occulti11. Questo rito comporta l’imposizione delle mani da parte del vescovo e la vestizione del penitente con il cilicio12. Alla fine il penitente viene espulso dalla chiesa. La permanenza nella penitenza ha carattere infamante e quindi anche dopo la riconciliazione non si può accedere agli ordini ecclesiastici. Durante la penitenza non si può svolgere attività commerciale, o entrare nell’esercito, o intentare processi. Durante la penitenza, che dura molti anni, è proibito vivere col proprio coniuge avendo rapporti coniugali e la continenza è obbligatoria anche dopo la riconciliazione. Il penitente divenuto vedovo non può contrarre nuovo matrimonio né prima né dopo la riconciliazione. In Gallia il penitente celibe non può sposarsi prima della riconciliazione e sembra che non possa neanche dopo, mentre a Roma il papa Leone Magno dà l’autorizzazione a sposarsi dopo la riconciliazione. Nella mentalità dei contemporanei lo stato penitenziale esige la castità perfetta come nella professione monastica. Entrando in penitenza il penitente si impegna in uno stato definitivo che non termina nemmeno con la riconciliazione. In pratica egli continua ad appartenere all’ordine dei penitenti fino alla morte: i peccati sono stati perdonati ma restano gli obblighi

7 «Et toto corde paenitentiam petens rogo, ut vestris orationibus a peccatorum meorum paralysi merear liberari». E poco dopo: «Credo enim quod apud illum misericordissimum iudicem sanctae orationes vestrae mihi possint indulgentiam obtinere. … Et quia ipse dixit si duo vel tres consenserint super terram, quicquid petierint fiet illis, pius et misericors dominus, qui duos aut tres se exaudire promittit, potest fieri ut totum populum pro unius paenitentis indulgentia non exaudiat? Absit»» (Sermones, 67, 2, in: G. MORIN (éd.), Caesarius Arelatensis. Sermones …, (= Corpus christianorum. Series latina, 103), Brepols, Turnholti 1953, p. 286).8 «Paenitentia non solum vulnus praeteritum sanat, sed et ultra animam peccato non sinit vulnerari» (Sermones, 108, 4, in: G. MORIN (éd.), Caesarius Arelatensis. Sermones …, (= Corpus christianorum. Series latina, 103), Brepols, Turnholti 1953, p. 449).9 «Et ideo etiam reconciliatus paenitens, ubicumque aut in suo aut in alieno convivio olera aut legumina aut pisciculos invenire potuerit, aliam carnem non debet accipere. Hoc ideo dico, quia, quod peius est, sunt aliqui paenitentes, qui et carnem cum grandi aviditate accipiunt, et vinum forte aliquotiens usque ad ebrietatem bibunt» (Sermones, 67, 3, in: G. MORIN (éd.), Caesarius Arelatensis. Sermones …, (= Corpus christianorum. Series latina, 103), Brepols, Turnholti 1953, p. 287).10 Unioni illegittime contratte con schiavi o con donne libere, oppure convivenza prima del matrimonio. “Più severo della chiesa del suo tempo egli cerca di eliminare l’inaequale connubium dei giureconsulti romani” (C. VOGEL, Il peccatore e la penitenza nella chiesa antica, LDC, Torino Leumann, 1967, p. 30).11 Non si confonda la pubblicità dei riti liturgici della penitenza canonica con la cosiddetta confessione pubblica che non appartenne mai alla tradizione della chiesa.12 In documenti successivi, più tardi di circa un secolo, il capo del penitente sarà cosparso di cenere, all’inizio di quaresima: ancor oggi è in uso il mercoledì delle ceneri, non più come ingresso in penitenza ma solo come atto devozionale.

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penitenziali anche dopo la riconciliazione. E’ questo il senso da dare alla prassi occidentale dell’unica penitenza in vita.

Al termine degli anni di penitenza i penitenti vengono assolti, ossia liberati dalla scomunica, e riammessi alla comunione ecclesiale con l’imposizione delle mani del vescovo, in modo solenne alla presenza della chiesa. Dal quinto secolo la liturgia di riconciliazione dei penitenti ha luogo il giovedì santo.

Com’era sentito questo rito penitenziale? I peccatori erano spaventati da tutte le conseguenze degli interdetti penitenziali: era la morte civile e sociale. Di conseguenza rifiutavano di sottoporsi al regime penitenziale anche se erano sinceramente pentiti e conducevano una vita nuova, lontana dal peccato e priva di cedimenti. Anche i vescovi capivano questa situazione e non insistevano per forzare questi fedeli a entrare nell’ordine dei penitenti. Inoltre la chiesa si rendeva conto che il rischio della ricaduta nel peccato era molto serio e che la penitenza era un’occasione unica nella vita che, per così dire, non andava sprecata; di conseguenza la penitenza una volta in vita veniva sempre rimandata e, di fatto diventava una penitenza alla fine della vita. Non si tratta di un calcolo dei fedeli, un calcolo che potrebbe essere definito furbesco, dato che anche alcuni concili si erano espressi in tal senso.

2.2 Norme penitenziali

Le norme ecclesiastiche stesse, rendendosi conto della situazione, recepivano questo disagi e finivano per sconsigliare i giovani a entrare nella penitenza. Nella prima metà del sesto secolo abbiamo tre concili, quello di Agde (506) e due di Orléans (511; 538), che si muovono nella linea ora descritta.

Cominciamo col citare Agde: “I penitenti nel momento in cui chiedono la penitenza, riceveranno l’imposizione delle mani come pure il cilicio sul capo, dalle mani del vescovo come è stabilito dappertutto. Se non si vogliono tagliare i capelli o se non vogliono abbandonare i loro abiti secolari, saranno espulsi, e se non si correggono non saranno ricevuti”13.

Passiamo al concilio di Orléans: “I peccatori che abbiano ricevuto la penitenza e poi, dimentichi degli obblighi del loro stato, ritornino alle cose secolari, abbiamo deciso che siano tagliati fuori dalla comunione e separati dalle riunioni di tutti i cattolici. Se qualcuno, dopo questo interdetto, si permetterà di mettersi a tavola con uno i loro, sarà anche lui privo della comunione”14. I vescovi stessi si rendono conto delle difficoltà di questo regime penitenziale e, pertanto, sconsigliano di entrare in penitenza; ecco come si esprime il concilio di Agde (506): “Alle persone ancora giovani si conceda molto difficilmente la penitenza a motivo della debolezza della loro età”15. Anche il concilio di Orléans (538) va nella stessa direzione: “Nessuno si permetta di concedere la penitenza a persone ancora giovani. Nessuno si permetta di concederla a persone sposate, senza aver ottenuto il consenso dell’altro coniuge, e a condizione che i coniugi siano di età avanzata”16.

Ricordiamo che chi appartiene all’ordine dei penitenti non può accostarsi alla comunione eucaristica, e che non possono accostarsi nemmeno i peccatori che non possono o non vogliono entrare nell’ordine dei penitenti. Questi per il momento sono esclusi dall’eucaristia e, anche secondo i consigli dei loro vescovi, si preparano a ricevere la penitenza in extremis17. A ciò si

13 Conc. di Agde, can. 15 (CCL 148, pp. 201-202).14 Conc. di Orléans, can. 11 (CCL 148, p. 8).15 Can. 15. 16 Can. 27 (CCL 148 A, p. 124).17 C. VOGEL, Il peccatore e la penitenza nella chiesa antica, LDC, Torino Leumann, 1967, p. 45.

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aggiunga che il concilio di Agde (506) nega la qualifica di cattolico a chi non si accosta all’eucaristia almeno tre volte all’anno18.

Posto questo, bisogna ammettere che l’accesso alla penitenza era un vero problema nella vita della chiesa dato che, in pratica, la penitenza era accessibile solo alle persone anziane e con la clausola che il coniuge desse il suo consenso19.

2.3 Cesario di fronte alla penitenza

Cesario di Arles ha una predicazione molto forte sulla penitenza e i suoi valori. Egli conosce la necessità che ciascuno si emendi dei propri peccati ravvedendosi e cessando di peccare, dopo di che ciascuno confessa le sue colpe e riceve il perdono. Assieme a questa struttura generale, egli considera anche il rito e le esigenze della discipline penitenziale, ossia della penitenza canonica. Per i peccati maggiori, i peccati gravi, non è sufficiente la penitenza quotidiana fatta di carità, elemosine e opere buone; ci vuole un impegno molto maggiore, fatto di lunghi digiuni e lacrime e lontananza dalla comunione ecclesiastica e facendo penitenza anche in modo pubblico20.

Riportiamo in nota un testo sulla disciplina penitenziale, dal quale, tuttavia, non si riesce a distinguere la struttura rituale della penitenza anche perché l’efficacia non è attribuita al rito ma all’insieme degli elementi elencati con l’aggiunta conclusiva: auxiliante Domino nostro Iesu Christo21. Altrettanto si dica di questa sintetica espressione: «Male sperat, qui se sine paenitentia et bonis operibus putat promereri misericordiam»22. Si tratta di frasi che sono inadatte a esprimere l’efficacia del rito. Cesario predica spesso il bisogno della penitenza ma, sapendo che questo termine designa non solo la conversione del cuore ma anche le osservanze della penitenza canonica

18 Can. 18. 19 Questa situazione è descritta formalmente dal concilio di Orléans del 538 (can. 24): «Vt ne quis benedictionem paenetentiae iuuenibus persunis credere praesumat; certe coniugatis nisi ex consensu parcium et aetate iam plena eam dare non audeat» (C. DE CLERCQ (ed.), Concilia Galliae 511-695. Concilium Aurelianense a. 538, (= Corpus christianorum. Series latina, 148A), Brepols, Turnholti 1963, p. 124).20 «Pro capitalibus vero criminibus non hoc solum sufficit, sed addendae sunt lacrimae et rugitus et gemitus, continuata et longo tempore protracta ieiunia, largiores elemosinae etiam plus quam nos ipsi valere possumus erogandae: ultro nos ipsos a communione ecclesiae removentes, in luctu et in tristitia multo tempore permanentes, et paenitentiam etiam publice agentes» (Sermones, 179, 7, in: G. MORIN (éd.), Caesarius Arelatensis. Sermones Caesarii uel ex aliis fontibus hausti, (= Corpus christianorum. Series latina, 104), Brepols, Turnholti 1953, p. 727).21 «Qui fuit superbus, sit humilis: qui fuit incredulus, sit fidelis: qui fuit luxoriosus, sit castus: qui fuit latro, sit idoneus: qui fuit ebriosus, sit sobrius: qui fuit somnolentus, sit vigilis: qui fuit avarus, sit largus: qui fuit bilinguis, sit beneloquius: qui fuit detractor aut invidiosus, sit purus et benignus: qui aliquando ad ecclesiam tarde veniebat, modo frequentius ad eam currat. Elimosinarum copia unusquisque se redimat: quia sicut aqua extinguit ignem, ita elimosina extinguit peccatum. Decimas per annos singulos de omni fructu quod collegitis inter ecclesias et pauperibus erogate. Ieiunium amate, voracitatem et crapulam vini devitate. Esurientes pascite, sitientes potate, nudos vestite, infirmos visitate, et qui positi sunt in carcere requirite. Hospites in domos vestras collegite, et pedes eorum lavate, linteo extergite, ore exosculate, et lecta ipsorum praeparate. Nullus furtum faciat, non homicidium, non adulterium, non periurium, non falsum testimonium dicat. Honoret patrem et matrem, ut sit longaevus super terram. Diligat Deum plus quam seipsum, amet proximum suum sicut seipsum. Quicumque de his supradictis commisit, cito emendet, confessionem donet, veram paenitentiam agat, et remittuntur ei peccata sua. Si haec quae suggessi, fratres, adimplere volueritis, remissionem peccatorum promerebitis, et vitam aeternam consequeritis: auxiliante Domino nostro Iesu Christo, qui vivit et regnat in saecula saeculorum. Amen» (Sermones, 10, 3, in: G. MORIN (éd.), Caesarius Arelatensis. Sermones…, (= Corpus christianorum. Series latina, 103), Brepols, Turnholti 1953, p. 53).22 Sermones, 12, 5 (G. MORIN (éd.), Caesarius Arelatensis…, (= Corpus christianorum. Series latina, 103), p. 62).

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egli si premura di chiarire che la penitenza di cui parla non è la penitenza canonica; ecco il testo: «Sed forte, quando generaliter omnes ad paenitentiam provocamus, aliquis intra se cogitet dicens: ego iuvenis homo uxorem habens quomodo possum aut capillos minuere aut habitum religionis adsumere? Nec nos hoc dicimus, fratres carissimi, non hoc praedicamus, ut iuvenes, qui coniugia habere videntur, habitum magis quam mores debeant conmutare»23. Cesario ripete lo stesso discorso anche per chi è nell’esercito24. Di fronte alla impraticabilità della penitenza antica, Cesario di Arles sceglie di annunciare i valori evangelici senza insistere più sulla disciplina penitenziale sulla quale, tuttavia, egli non pronuncia alcun giudizio negativo. Come c’è un’età in cui non si può dare la penitenza, così c’è un’età in cui la si può e la si deve dare: è la penitenza in extremis25. Cesario conosce bene il costume di non accedere alla comunione eucaristica «ex conscientia gravium adque ingentium peccatorum»26; egli non approva che si possa restare lontani dalla comunione, aumentando, quindi, la gravità del proprio comportamento e suggerisce: «Si quis ex vobis conscius criminum suorum indignum se communione ecclesiastica putat, dignum esse se faciat»27. Bisogna che questi abbandoni gli errori precedenti e chieda la penitenza. E’ la disciplina penitenziale – detta exomologesis satisfactione28 – che lo monda dai peccati.

Che cosa dobbiamo, dunque, pensare della pastorale di Cesario di Arles sulla penitenza? Da un lato, egli conosce bene la disciplina della penitenza canonica e le sue ragioni ma, dall’altro lato egli ammette che questa disciplina non è praticabile da chi è giovane, da chi è sposato o da chi è nell’esercito. Se non è praticabile, è lecito accostarsi all’eucaristia? Egli reputa molto grave che si accosti all’eucaristia colui è in peccato; ma allora, che cosa dobbiamo pensare? Apparentemente il problema è insolubile ma, se così fosse, faremmo torto all’intelligenza di Cesario. La soluzione può essere la seguente: dato che Cesario preferisce lasciare da parte la rigidità della penitenza canonica per appellarsi ai valori evangelici insiti nelle opere penitenziali, in quanto tali, possiamo ritenere che, per Cesario, sia importante che le opere penitenziali ci siano, in ogni modo, tanto che vengano imposte dal vescovo con la penitenza canonica, quanto che vengano scelte dal penitente che si ‘autoimpone’ il rigore della penitenza, ossia preghiere, digiuni, carità e grandi opere penitenziali. E’ la penitenza che conta, non la sua struttura giuridica. Penso che Cesario impegni il peccatore a sottoporsi alla penitenza, scegliendo lui stesso delle opere penitenziali che non sono meno impegnative della penitenza canonica la quale, come abbiamo detto, non può essere ricevuta. Credo che dobbiamo interpretare in questa luce un testo in cui Cesario di Arles ammonisce che non basta invocare il perdono divino, ma che bisogna compiere opere penitenziali: «Illi vero qui et corpora sua ante nuptias adulterina coniunctione corrumpunt, et postea per totam vitam suam male videndo,

23 Sermones, 56, 3 (G. MORIN (éd.), Caesarius Arelatensis…, (= Corpus christianorum. Series latina, 103), p. 250).24 «Sed forte est aliquis qui dicat: ego in militia positus sum, uxorem habeo, et ideo paenitentiam agere quomodo possum? quasi nos, quando paenitentiam suademus, hoc dicamus, ut unusquisque magis sibi capillos studeat auferre, et non peccata dimittere; et vestimenta potius evellat, quam mores. Qui hac dissimulatione decipere se magis quam excusare conatur, adtendat, quia regem david nec honor regni nec dignitas vestimenti ad paenitentiam agendam potuit inpedire» (Sermones, 65, 2, in: G. MORIN (éd.), Caesarius Arelatensis…, (= Corpus christianorum. Series latina, 103), Brepols, Turnholti 1953, p. 280).25 «Non incongrue potest credi tribus modis ad istam subitaneam paenitentiam perveniri… , si a me paenitentiam petierit, et est illi aetas cui aut dari possit aut debeat, paenitentiam illi dare possum» (Sermones, 60, 1-3, in: G. MORIN (éd.), Caesarius Arelatensis…, (= Corpus christianorum. Series latina, 103), pp. 263-265). 26 Sermones, 62, 1 (G. MORIN (éd.), Caesarius Arelatensis…, (= Corpus christianorum. Series latina, 103), p. 271).27 Sermones, 62, 1 (G. MORIN (éd.), Caesarius Arelatensis…, (= Corpus christianorum. Series latina, 103), p. 271).28 Cesario ricava questa espressione da Agostino, In Psalmum 74, 9: «Quid ergo modo faciemus? praeueniamus faciem eius, en exomologêsei» (E. DEKKERS - J. FRAIPONT (ed.), Augustinus Hipponensis. Enarrationes in Psalmos, (= Corpus christianorum. Series latina, 39), Brepols, Turnholti 1956, p. 1032).

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male audiendo, male loquendo, animas suas violare non desinunt, si eis dignae fructus paenitentiae non subvenerit, clausis ianuis sine causa clamabunt: Domine Domine, aperi nobis; et audire merebuntur: amen dico vobis, nescio vos unde sitis»29. Ma allora in che cosa consiste la sacramentalità? Con questa chiave di lettura, la ‘sacramentalità’ – è questa la preoccupazione di oggi – consisterebbe nell’insieme della disciplina penitenziale, la cui parte più rilevante starebbe nelle opere penitenziali stesse30.

Dobbiamo chiederci se il caso di questa penitenza ‘autoimposta’, che abbiamo ora descritto, abbia o non abbia una componente liturgica. Di per sé, questa penitenza è arituale e quindi non ha un suo rito liturgico che la concluda, tuttavia si vede bene che Cesario di Arles la collega alla liturgia del venerdì santo. Sembra che in questo giorno ci sia un rito penitenziale simile a quello della liturgia spagnola, che vedremo nel paragrafo successivo. La cosa è plausibile anche perché l’area geografica della liturgia visigotica comprende sia la Spagna sia la Gallia meridionale. Inoltre possiamo ricordare che siamo in un’epoca di invasioni e che sia la Spagna sia la Provenza sono occupate dai Visigoti31. Parlando della parasceve, Cesario di Arles si raccomanda che i fedeli, che si sono tanto impegnati con il digiuno penitenziale per quaranta giorni, non trascurino di andare in chiesa proprio il venerdì santo. Egli paragona le penitenze quaresimali al lavoro e la parasceve al raccolto della messe32. Se i fedeli non vanno in chiesa in questo giorno, non raccolgono il frutto di tutto il lavoro svolto nella quaresima. Non può trattarsi del digiuno del venerdì santo, in quanto digiuno più impegnativo degli altri giorni, dato che Cesario parla di recarsi alla chiesa; si tratta, dunque, della celebrazione liturgica del venerdì santo, la quale è decisiva se è congiunta con le penitenze e il digiuno quaresimale. Da qui possiamo ricavare che queste penitenze, se non culminano nella liturgia del venerdì santo, non sono sufficienti per la remissione dei peccati. Lo stesso vale per il rito liturgico che non ha una efficacia autonoma, rispetto alla penitenza quaresimale. Infatti, il rito è il raccolto, ma se non c’è il lavoro (i digiuni e le penitenze quaresimali) non può esserci nemmeno il raccolto. Questa conclusione vale anche per la penitenza

29 Sermones, 155, 4 (G. MORIN (éd.), Caesarius Arelatensis…, (= Corpus christianorum. Series latina, 104), p. 634).30 Isidoro di Siviglia – rifacendosi ad Ambrogio – mette in parallelo le lacrime della penitenza con l’acqua battesimale. L’efficacia del battesimo viene legata al rito dell’acqua, mentre quella della penitenza viene legata alle lacrime, che non appartengono agli elementi rituali bensì alle opere penitenziali: «Lacrimae enim paenitentium apud Deum pro baptismate reputantur. Vnde et quamlibet sint magna delicta, quamuis grauia, non est tamen in illis Dei misericordia disperanda. In actione autem paenitudinis, ut supra dictum est, non tam consideranda est mensura temporis quam doloris; cor enim contritum et humiliatum Deus non spernit» (De ecclesiasticis officiis, 2, 17, in: C. W. LAWSON (ed.), Isidorus Hispalensis. De ecclesiasticis officiis, (= Corpus christianorum. Series latina, 113), Brepols, Turnholti 1989, p.80).31 DELAGE M.-J., «Un évêque au temps des invasions», in: D. BERTRAND - M.-J. DELAGE - P.-A. FÉVRIER (†) - J. GUYON - A. DE VOGÜÉ, Césaire de Arles et la christianisation de la Provence, Actes des journées “Césaire” (Aix-en-Provence - Arles - Lérins, 3-5 novembre 1988, 22 avril 1989), Cerf, Paris 1994, p. 26.32 Sottolineo, in corsivo, le espressioni più significative : «Et hoc ante omnia rogo, fratres carissimi, ut gaudium, quod nobis huc usque de vestra devotione fecistis, in die crastina, id est, in passione domini conpleatis. Non enim qui coeperit, sed qui perseveraverit usque in finem, hic salvus erit. Et ideo sic agere debetis, ne per unius diei neglegentiam perdatis, quod per totam quadragesimam acquisistis. Sic est enim tota quadragesima ieiunare, orare vel psallere, et in passione domini, id est, in parasceven de ecclesia se subtrahere, quomodo si aliquis cum grandi labore studeat terram colere, et messem non mereatur accipere. Et ideo rogo vos, ut nullus se de ecclesia subtrahat, nisi forte quem aut corporis infirmitas aut grandis et publica necessitas tenuerit occupatum. Ipse enim in paschali sollemnitate legitimum gaudium poterit celebrare, qui in passione domini se noluerit de ecclesiae conventu subtrahere» (Sermones, 202, 5 (G. MORIN (éd.), Caesarius Arelatensis…, (= Corpus christianorum. Series latina, 104), p. 816).

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in extremis, ossia quando la cattiva salute del penitente non gli consente di fare le opere penitenziali e deve accontentarsi del solo rito liturgico33.

L’omelia 202, 5, che abbiamo citato, è solo un indizio, tuttavia ci permette di affermare che ad Arles c’era una liturgia simile al rito penitenziale della liturgia visigotica del venerdì santo. In conclusione, possiamo dire che Cesario di Arles è teste dei riti della paenitentia antiqua in Provenza, ma è teste anche della sua impraticabilità e, dunque, della sua fine. La penitenza antica è ormai superata. Nella prospettiva di Cesario il rito della disciplina ecclesiastica è meno importante dei valori evangelici della penitenza ed è su questi che egli fonda la sua pastorale in ordine alla penitenza. Egli, dunque, suggerisce una penitenza che, anche se non è stata imposta dal vescovo in modo canonico, ha tutti gli elementi della paenitentia antiqua. L’assenza di un rito liturgico è supplita dalla liturgia della parasceve che è il compimento (conpleatis) dell’impegno quaresimale, al punto che l’assenza da questa liturgia fa perdere tutto ciò che è stato acquisito in quaresima. Dato che la celebrazione pasquale potrà essere celebrata solo da chi ha partecipato all’assemblea liturgica del venerdì santo, possiamo dire che la funzione di questo rito è la stessa della liturgia Ad nonam pro indulgentia della chiesa spagnola.

2.4 Conclusione

Possiamo concludere che la severità e la rigidità giuridica del carattere penale del regime della penitenza canonica, una sola volta in vita, ha ottenuto l’opposto dell’effetto desiderato, rendendo impraticabile l’istituto penitenziale.

Come faceva, dunque, la chiesa a risolvere un problema così intricato come quello del regime penitenziale del sesto secolo? La risposta avrebbe potuto essere quella di riformare l’istituto penitenziale, ma nessuno dei protagonisti di quel secolo riuscì a pensare qualcosa di simile. Il regime penitenziale era quello della tradizione e, anche se di fatto era impraticabile, non si pensava che potesse essere diverso. Cesario, in una serie memorabile di sermoni alla chiesa di Arles, trasferisce i decreti penitenziali nella pastorale della sua chiesa ma, pieno di spirito evangelico, ripropone ai suoi fedeli il valore originario della conversione del cuore e dell’amor di Dio e del prossimo. Pur rispettando pienamente le norme canoniche, delle quali è convinto assertore, egli si rende conto che queste non sono all’altezza del bisogno dei fedeli, e pertanto inizia a praticare una pastorale che si colloca a lato della penitenza canonica, cercando di recuperare quei valori spirituali ed evangelici che le norme sugli interdetti penitenziali lasciavano da parte.

Come rimedio alla situazione Cesario di Arles insiste nel predicare che ciò che conta non è il cilicio o gli anni di mortificazione, bensì un cuore contrito e puro. Nei sermoni nei quali parla della virtù della conversione e nei quali esorta all’amore di Dio e del prossimo, sembra quasi che il regime penitenziale non giochi alcun ruolo nella logica pastorale di questo grande vescovo. Tutto questo va visto non in antitesi ai riti liturgici dato che, oltre ai riti della penitenza

33 In questo caso Cesario di Arles conclude che non si può essere sicuri del perdono divino, come quando si compiono le opere penitenziali: «Numquid dico, damnabitur? Non dico; sed nec liberabitur dico. Et quid mihi dicis, sancte episcope? Quid tibi dico? Nescio. Dixi, non praesumo, non promitto, nescio plus de Dei voluntate. Vis te, frater, a dubio liberare? Vis quod incertum est evadere? Age paenitentiam, dum sanus es. Si enim agis veram paenitentiam, dum sanus es, et invenerit te novissimus dies, curre et reconcilieris. Si sic agis, securus es. Quare securus es, vis dico tibi? Quia egisti paenitentiam eo tempore, quo et peccare potuisti. Ecce dixi tibi quare securus es. Si autem tunc vis agere ipsam paenitentiam, quando peccare iam non potes, peccata te dimiserunt, non tu illa. Sed unde scis, inquis, si mihi Deus misereatur, et dimittat mihi peccata mea? Verum dicis, frater, verum dicis, unde scio? Et ideo tibi do paenitentiam, quia nescio» (Sermones, 63, 3 (G. MORIN (éd.), Caesarius Arelatensis…, (= Corpus christianorum. Series latina, 103), p. 274).

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canonica Cesario di Arles considera il caso della liturgia del venerdì santo che è il corona tutte le opere penitenziali compiute in quaresima, senza la quale queste opere penitenziali resterebbero senza frutto.

3. La penitenza del venerdì santo nella liturgia vetus-hispanica La liturgia mozarabica è nota anche come liturgia vetus-hispanica o visigotica e occupa l’area

geografica della penisola Iberica. Tutto lascia credere, però, che anche le tradizioni liturgiche della Gallia meridionale appartengano a questo ceppo. Nella liturgia vetus-hispanica ci sono varie tradizioni che non sono ancora state completamente isolate e descritte. E’ ben fondata la distinzione di Jordi Pinell Pons tra la Tradizione A e la Tradizione B1. La Tradizione A rappresenterebbe la liturgia della Spagna settentrionale, mentre la Tradizione B, che sarebbe la più antica, rappresenterebbe la liturgia della Spagna meridionale, elaborata soprattutto a Siviglia2.

Nella liturgia vetus-hispanica c’è l’uso di celebrare una liturgia penitenziale al venerdì santo, nell’ufficiatura dell’ora nona: è il rito dell’Indulgentia.

3.1.1 Tradizione B

Il Missale Mixtum3 del card. Cisneros e il Breviarium Mozarabum4 riportano un rito penitenziale In Parasceve ad Nonam pro Indulgentia. L’ultima delle letture bibliche, è il testo di Mt 27, 57-66 ossia il racconto su Giuseppe d’Arimatea che chiede a Pilato di poter togliere il corpo di Gesù dalla croce per seppellirlo. A questo punto ci sono le preci sui penitenti: «Penitentes orate: “Flectite genua Deo: deprecemur Dominum Deum nostrum: ut indulgentiam criminum et remissionem peccatorum nobis donare dignetur”»5. Dopo le preci e l’invitatorio (Tu pastor bone animam tuam pro ovibus posuisti), l’arcidiacono fa recitare al popolo per trecento volte l’invocazione Indulgentiam. L’arcidiacono e il diacono fanno pregare ancora, in forma responsoriale, dopo di che il sacerdote dice l’orazione: «Unigenite Fili Dei Patris, cuius caro preciosa…». Al termine il diacono esclama Indulgentia e fa recitare al popolo la supplica Indulgentiam per duecento volte. Si riprende il rito recitando ancora, come dopo le preci, Tu pastor bone animam tuam pro ovibus posuisti. L’arcidiacono invita a pregare e il vescovo pronuncia una serie di invocazioni alle quali si risponde Indulgentia. Al termine egli pronuncia l’orazione: «Unigenite Fili Dei Patris, qui celum rediturus in terris dignatus es nasci, ut nos elevares ad celos…». Dopo alcune suppliche in forma responsoriale, il diacono dice per la terza volta Indulgentia, e fa ripetere al popolo, per cento volte l’invocazione Indulgentiam.

Come conclusione c’è una preghiera del vescovo, in forma responsoriale, al termine della quale comincia il rito dell’adorazione della croce che si conclude con la comunione dei presantificati.

Nel rito dell’Indulgentia non c’è alcuna preghiera del vescovo per la remissione dei peccati. Tutto è lasciato all’opera dei diaconi che fanno dire al popolo Indulgentiam, per trecento, duecento

1 Le due tradizioni si configurano come due diverse evoluzioni di un fondo comune. I testi della liturgia vetus-hispanica che ci sono pervenuti appartengono al periodo di massima fioritura di questo rito, ossia ai secoli VI-VII. E’ possibile, tuttavia, che si possa risalire più indietro, sia al fondo originario comune, sia alla tradizione africana di cui il rito spagnolo sarebbe un ulteriore sviluppo e rielaborazione.2 J. PINELL, «Unité et diversité dans la liturgie hispanique», in: A. M. TRIACCA - A. PISTOIA (éd.), Liturgie de l'église particulière et liturgie de l'église universelle, (= Bibliotheca Ephemerides liturgicae. Subsidia, 7), CLV - Edizioni liturgiche, Roma 1976, pp. 245-260. 3 J.-P. MIGNE (ed.), Patrologiae cursus completus. Series latina, Parisiis 1841-1864, Vol. 85, col. 421. 4 J.-P. MIGNE (ed.), Patrologiae … Series latina, Vol. 86, col. 607. 5 Missale mixtum secundum regulam beati Isidori (J.-P. MIGNE (ed.), Patrologiae … Series latina, Vol. 85, col. 427).

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e cento volte, per un totale di seicento volte. E’ importante la simbologia di questi numeri nell’alfabeto greco: seicento è scritto con la lettera Chi, iniziale della parola Xristo/j, e trecento è scritto con la lettera Tau, segno della croce di Cristo; duecento è scritto con la lettera Sigma e 100 con la lettera Ro, che sono rispettivamente l’iniziale e la finale della parola swth/r.

Questa supplica non è seguita da alcuna preghiera di remissione dei peccati o di riaccoglienza nella chiesa. E’ il popolo che chiede il perdono a Dio, a lui che solo può rimettere i peccati (Mc 2, 7).

3.1.2 Tradizione A

Al venerdì santo, la Tradizione A ha lo stesso rito dell’Indulgentia della Tradizione B, con qualche variante. Invece di ripetere tre volte l’invocazione, in blocchi di trecento, duecento e cento volte, c’è un solo momento in cui si fa l’invocazione e questa viene ripetuta per non più di settantadue volte. L’altra differenza sta nella conclusione: qui c’è una preghiera del vescovo perché Dio esaudisca i fedeli che hanno chiesto perdono a Dio (Indulgentiam). Passiamo ora allo svolgimento del rito.

Dopo la venerazione della croce, il versus «Popule meus» e il vangelo, il vescovo pronuncia il seguente sermone: «Karissimi, hodie Dominus Deus noster in statera crucis pretium nostrae salutis appendit…»6. Arrivato alle parole pronunciate dal buon ladrone, Memento mei, Domine, dum ueneris in regnum tuum, il vescovo si interrompe per dar modo al popolo di ripetere quelle stesse parole, dopo le quali fa dire il salmo 50. Dopo di che, il vescovo riprende il sermone, per concluderlo con le parole: «Nos autem, Fratres, ea que diximus cum gemitu repetamus». Il popolo ripete: «Memento mei, Domine, dum ueneris in regnum tuum». Il vescovo, dopo essere disceso dal pulpito, fa cantare il responsorio Tu pastor bone. Vengono recitate le Preci, al termine delle quali si risponde Indulgentiam7, il diacono invita il popolo dicendo: «Indulgentiam a Domino postulemus». Un secondo diacono fa dire al popolo Indulgentiam, non più di settantadue volte. Al termine il vescovo prega in silenzio l’orazione «Ingeniti Patris Unigenite Christe…». Dopo altre due orazioni, c’è la preghiera conclusiva: «Exaudi, Domine, supplicum preces, et tibi confitentium parce peccatis: ut quos conscientie reatus accusat, indulgentia tue miserationis absoluat»8. Questo testo raccomanda a Dio la preghiera del popolo ma non può essere definito come assoluzione. Nessuno risponde Amen e così, nel silenzio generale, termina il rito dell’Indulgentia della Tradizione A.

3.2 Il IV concilio di Toledo (a. 633)

I dati sulla liturgia penitenziale del venerdì santo, emersi dall’esame della Tradizione A e della Tradizione B, appartengono alla disciplina penitenziale così come è descritta dal IV concilio di Toledo, tenuto nell’anno 633 sotto la presidenza di Isidoro, vescovo di Siviglia, che ne ha redatto i canoni, diciassette dei quali riguardano la liturgia9. Il concilio lamenta che ci sono certe chiese che

6 M. FÉROTIN (éd.), Le Liber Ordinum en usage dans l'église wisigothique et mozarabe d'Espagne du cinquième au onzième siècle, (= Monumenta ecclesiae liturgica, 5), Librairie de Firmin-Didot et Cie, Paris 1904, col. 200s; cf. anche: J. JANINI (ed.), Liber Ordinum Episcopal. (Cod. Silos, Arch. Monastico, 4), (= Studia silensia, 15), Abadia de Silos, Silos 1991, n. 386ss.7 Per il testo delle Preci, cf.: L. BROU - J. VIVES (ed.), Antifonario visigotico mozárabe de la catedral de León, (= Monumenta Hispaniae sacrae. Series liturgica, V, 1), Barcelona - Madrid 1959, p. 275.8 M. FÉROTIN (éd.), Le Liber Ordinum…, col. 204; J. JANINI (ed.), Liber Ordinum Episcopal…, n. 406.9 «Ognuno dei diciassette canoni dedicati ad argomento liturgico illustrava diligentemente con documentazione storica e argomentazioni dottrinali le prescrizioni che il concilio imponeva ugualmente a tutte le chiese del regno» (J. PINELL, «Storia delle liturgie occidentali non romane», in: A. J. CHUPUNGCO (ed.), Scientia liturgica. Manuale di liturgia, Vol. 1, Ed. Piemme, Casale Monferrato 1998, p. 207).

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restano chiuse nel giorno del venerdì santo e che, a causa di questo, non si celebra l’ufficiatura e non si proclama la passione del Signore10. La liturgia del venerdì santo contiene i seguenti riti: a) l’ufficiatura, b) l’annuncio della passione, c) un rito per la remissione dei peccati che consente la comunione eucaristica il giorno di pasqua, che è descritto così: «… indulgentiam criminum clara voce omnem populum postulare». La precisione di questa descrizione non lascia dubbi: si tratta del rito dell’Indulgentia, che abbiamo visto supra. Il concilio specifica che i peccati in oggetto sono dei crimina, che nel linguaggio dell’epoca si oppongono ai peccata minuta, e che sono anche qualificati peccata capitalia11. I crimina comprendono anche quei peccati che erano sottoposti alla penitenza canonica. L’efficacia del rito dell’Indulgentia è espressa con chiarezza: i peccatori sono sanati dalla conversione del cuore (poenitentiae compunctione mundati) e i peccati sono rimessi (remissis iniquitatibus). La partecipazione a questo rito consente ai fedeli di accedere alla comunione eucaristica nel giorno di pasqua (corporisque ejus, et sanguinis sacramentum mundi a peccatis sumamus)12. E’ evidente che per il concilio Toletano IV la liturgia penitenziale, praticata dalla maggior parte dei fedeli, è ormai questa: il rito dell’Indulgentia del venerdì santo, ferma restando la possibilità che il vescovo abbia imposto una penitenza canonica per qualche caso particolarmente grave che, però, resta un fatto eccezionale.

4. Valutazione della penitenza nella Spagna e nella Gallia meridionale del VI e VII secolo

La situazione della penitenza nel sesto e settimo secolo, e la sua crisi, è ben rappresentata nelle omelie di Cesario di Arles, un pastore d’anime che interviene affinché i peccatori possano accedere ai valori della penitenza anche in una situazione in cui la penitenza canonica non è più praticabile. In definitiva Cesario chiede ai peccatori di convertirsi e di praticare quelle penitenze che erano state il nucleo della disciplina canonica: preghiere, lacrime, digiuni, mortificazioni, astinenza dalle carni e dai rapporti coniugali, elemosine, cilicio, etc. La differenza tra ciò che raccomanda Cesario e la penitenza antica sta nel fatto che, a parità di contenuti, l’una è fatta per libera iniziativa del penitente mentre l’altra è imposta dal vescovo su richiesta del penitente stesso; inoltre, l’una sembra essere senza riti liturgici, mentre l’altra è regolata da una ritualità molto precisa, coordinata con l’anno liturgico, con un forte sapore di teatralità1. A parità di contenuti, la differenza è solo questa: l’una è fatta dal penitente, l’altra viene ricevuta dal vescovo ed eseguita sotto il suo controllo. La sostanza della penitenza è identica in entrambi i casi perché la penitenza consiste nelle opere penitenziali. I valori in gioco sono i medesimi nei due casi, a parte il rito della riconciliazione

10 «Comperimus, quod per nonnullas ecclesias in die sextae feriae passionis Domini, clausis basilicarum foribus, nec celebratur officium, nec passio domini populis praedicatur; dum idem Salvator noster apostolis suis praeceperit, dicens: “Passionem et mortem et resurrectionem meam omnibus praedicate”. Ideo oportet eodem die mysterium crucis quod ipse Dominus cunctis nuntiandum voluit, praedicari, atque indulgentiam criminum clara voce omnem populum postulare; ut poenitentiae compunctione mundati, venerabilem diem dominicae resurrectionis, remissis iniquitatibus, suscipere mereamur; corporisque ejus, et sanguinis sacramentum mundi a peccatis sumamus» (J. MANSI (ed.), Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, Paris-Leipzig 1901, Vol. 10, p. 620).11 J. CHÉLINI, L’aube du Moyen Âge. Naissance de la chrétienté occidentale. La vie religieuse des laïcs dans l’Europe carolingienne (790-900), Préface de P. Riché. Postface de G. Duby, Picard, Paris 1991, 2ème éd. 1997, p. 376ss.12 In età giovanile Isidoro aveva redatto un De ecclesiasticis officiis, ove aveva dedicato un lungo paragrafo ai penitenti; da un lato, egli dava grande importanza alle opere penitenziali che dovevano essere compiute ma, dall’altro lato, egli non dava alcuna indicazione sui riti della liturgia penitenziale (De ecclesiasticis officiis, 2, 17, in: C. W. LAWSON (ed.), Isidorus Hispalensis. De ecclesiasticis officiis, (= Corpus christianorum. Series latina, 113), Brepols, Turnholti 1989, p. 80).1 Si pensi alla riconciliazione dei penitenti secondo la descrizione del sacramentario Gelasiano.

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che non viene citato, sia perché non può esserci un rito di riconciliazione se non c’è stata la scomunica, sia perché si rimanda alla liturgia del venerdì santo che deve essere analogo a quello vetus-hispanico, stante l’insistenza di Cesario di Arles sulla necessità che i penitenti partecipino ai riti della parasceve.

La situazione spagnola, descritta dai libri liturgici visigotici e da Isidoro di Siviglia, attesta l’importanza delle opere penitenziali, e la quaresima è caratterizzata dal sacramentum ieiunii; inoltre, nel rito del venerdì santo c’è il perdono i peccati e la riammissione alla comunione. L’essenza di questo rito sta nella sincera domanda di perdono. E’ la richiesta di perdono che garantisce il perdono divino: effettivamente non c’è alcuna preghiera assolutoria, in questi riti, ma una preghiera insistente perché Dio voglia perdonare.

Possiamo dunque concludere che, per quanto riguarda l’area della Gallia meridionale e della penisola Iberica, la crisi della penitenza canonica viene risolta non dalla ricerca di una soluzione liturgica, o da una soluzione canonica, ma dalla ricerca dei valori evangelici della conversione, concretizzati nell’esecuzione delle opere penitenziali e dall’autenticità della domanda di perdono. Tutto questo richiama da vicino gli elementi della penitenza orientale che abbiamo già descritto.

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CAPO QUARTO

LA PENITENZA TARIFFATA

1. Una nuova forma di penitenza La crisi della penitenza antica è una crisi definitiva che la fa scomparire di scena, anche se i

vescovi ne hanno conservato il ricordo e, di tanto in tanto, hanno cercato di ripristinarla come, ad esempio, in epoca carolingia. Al posto della penitenza antica, che non risorgerà, non ci sarà la linea pastorale elaborata da Cesario di Arles che insiste sull’efficacia delle opere penitenziali, in quanto tali, o la linea liturgica della tradizione mozarabica che propone la preghiera insistente del venerdì santo per ottenere il perdono divino, come abbiamo appena visto. Queste due linee, per quanto importanti, restano localizzate nella loro area geografica e non svolgono alcun ruolo nella pratica penitenziale dei secoli successivi.

Anche se le chiese celtica e anglosassone hanno conosciuto la penitenza antica, come appare da alcuni Ordines, tuttavia sono rimaste celebri per aver creato ed esportato nel continente europeo una nuova forma di penitenza, la penitenza toties quoties, ossia una penitenza che può essere ricevuta non solo una volta in vita ma tutte le volte che il penitente la chiede al confessore.

E’ stato lo sforzo missionario di san Colombano e dei suoi discepoli a propagare questa forma penitenziale che è una vera e propria rottura con il rito della penitenza antica. E’ importante la testimonianza del concilio di Toledo (489) ove questa nuova penitenza, nata da usi monastici e trasferita a tutti i fedeli, viene qualificata come «execrabilis praesumptio» 1. Il concilio prescrive anche di tornare all’antica normativa. Nondimeno il rito antico era di fatto impraticabile e così si impose la penitenza tariffata che conobbe un grande successo. Da questo rito avrà origine la ‘confessione’ nel dodicesimo secolo.

La penitenza tariffata è facile da descrivere non solo perché la sua grande diffusione ha lasciato ampie testimonianze in vari tipi di fonti, ma anche perché ne abbiamo il rituale nel Pontificale romano germanico, composto a Magonza nel 9502, e in altri Ordines liturgici.

Mentre la penitenza canonica era sotto il diretto controllo del vescovo, la penitenza tariffata è amministrata da monaci e preti; la penitenza antica era legata all’ordine dei penitenti, mentre questa non comporta alcun ingresso in detto ordine; quella aveva interdetti penitenziali che duravano tutta la vita, mentre in questa le opere penitenziali cessano con la riconciliazione; in quella sarà certo esistita la confessione delle colpe al vescovo affinché questi potesse dare al peccatore la giusta penitenza, ma l’accusa delle colpe non aveva il ruolo che ha poi nella penitenza tariffata, della quale è il punto centrale. La penitenza antica era possibile solo una volta in vita ed era inaccessibile al clero che, al suo posto, subiva la degradazione o deposizione dall’ordine. La penitenza tariffata invece può essere ricevuta ogni volta che si desidera ed è aperta anche al clero che, quindi, ne può fruire come i laici. La penitenza antica era essenzialmente pubblica in tutte le sue componenti, mentre la tariffata è formalmente ‘privata’, ossia legata all’incontro tra il peccatore e il sacerdote; qui non c’è la pubblicità della dimensione ecclesiale. In tutto questo c’è un chiaro carattere anticanonico; in conseguenza di ciò comincia ad apparire un significativo cambiamento: mentre nella penitenza antica la riconciliazione dei penitenti, dopo la scomunica, va intesa primariamente come riammissione alla comunione della chiesa, nella penitenza tariffata l’atto di riconciliazione viene inteso soprattutto come assoluzione dei peccati.

1 Can. 11. 2 C. VOGEL - R. ELZE (éd.), Le Pontifical romano-germanique du Xème siècle, Tome II: Le texte, Bibliotheca apostolica vaticana, Città del Vaticano 1963 (Studi e testi, 227), pp. 14-20.

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L’elemento specifico della penitenza insulare è la corrispondenza tra il peccato e la tariffa, ossia un’opera penitenziale specifica: ogni peccato è valutato per un certo numero di giorni, mesi o anni di digiuno, oppure, nei casi meno gravi, per una multa da versare al monastero o alla chiesa, oppure, nei casi più gravi, per pellegrinaggi a luoghi santi oppure esilio.

Le tariffe sono raccolte in speciali libri liturgici detti ‘Penitenziali’3 che sono solitamente di composizione privata; quindi ci possono essere notevoli differenze nell’applicazione delle tariffe ai vari peccati. I più antichi penitenziali sono della metà del secolo VI.

1.1 L’origine irlandese della penitenza tariffata

Nei secoli settimo e ottavo, l’erede diretto della penitenza antica è una pratica di origine monastica che, dall’undicesimo e dodicesimo secolo, darà origine alla ‘confessione’ così come la conosciamo oggi: è la cosiddetta penitenza tariffata4 o insulare. Si chiama tariffata perché c’è una lista di peccati ai quali è collegata l’indicazione di determinate opere penitenziali. Si chiama anche insulare perché ha avuto origine dal monachesimo irlandese, in particolare da san Colombano e dai suoi discepoli. J. Chélini afferma che questa chiesa è nata quando la penitenza canonica era già in piena crisi; questo spiegherebbe molto bene perché in Irlanda non sia mai stata praticata 5. Egli riassume bene la tesi, che oggi è la più accettata, secondo la quale la penitenza tariffata sarebbe nata dall’uso monastico irlandese quando i monaci hanno applicato ai fedeli gli usi delle loro regole, che stabilivano che i monaci dovessero accusarsi dei propri peccati e ricevere la penitenza, come mezzo di correzione. La penitenza era sempre proporzionata al peccato e spesso si basava sulla legge del contrappasso. Aumentando la quantità dei peccati, aumentava la penitenza che spesso comportava il digiuno o qualche servizio o corvée. Poiché l’Irlanda non conosceva altro clero che quello monastico, si comprende come il regime interno dei monasteri abbia potuto influenzare la vita di questa chiesa6. Questa tesi, che è la più diffusa, ha origine dai lavori di B. Poschmann 7 ed è stata poi confermata da K. Rahner8. Tuttavia K. Dooley ha sottoposto ad attenta revisione i dati su cui si basa questa tesi ed è giunto a concludere che le prove non reggono al vaglio critico. Infatti esistono documenti che attestano l’esistenza dell’ordine dei penitenti in Irlanda; ad esempio: 1) il Pontificale di Egberto contiene una descrizione dei riti penitenziali che sembra ricalcata sull’uso romano; 2) il secondo Sinodo di san Patrizio ha una penitenza che è simile a quella dell’Europa continentale; 3) il Libro dell’Angelo (fine del settimo secolo o inizio dell’ottavo) riporta l’esistenza dell’ordine dei penitenti9. Possiamo aggiungere che G. Mitchell ritiene che san Patrizio abbia praticato la penitenza antica e che la penitenza tariffata sia nata da usi importati da Lérins.

All’origine dell’interpretazione più diffusa c’è una frase del penitenziale di Teodoro di Canterbury che dimostrerebbe che in Irlanda non c’è mai stata la penitenza canonica 10. Al riguardo dobbiamo fare due osservazioni: a) il testo dice «in hac provincia» e, secondo il commento dell’edizione di P. W. Finsterwalder11, accettato anche da McNeill & Gamer12, la provincia in

3 Per una loro catalogazione cf.: C. VOGEL, Les ‘Libri paenitentiales’, Brepols, Turnhout 1978 (Typologie des sources du moyen âge occidental, 27). 4 Questo termine fu usato per la prima volta da A. Boudinhon (Sur l’histoire de la pénitence, «Revue d'histoire et de littérature religieuses» 2 (1897) 306-344; 496-524).5 Cf. G. MITCHELL, Columbanus on Penance, «Irish Theological Quaterly» 18 (1951) 43-54; IDEM, The Origins of Irish Penance, «Irish Theological Quaterly» 22 (1955) 1-14. 6 J. CHÉLINI, L’aube du Moyen Âge…, p. 369.7 B. POSCHMANN, Die abendlädishe Kirchenbusse im frühem Mittelalter, (= Breslauen Studien zur historischen Theologie, 16), Müller und Seiffert, Breslau 1930.8 K. RAHNER, Tractatus historico-dogmaticus. De paenitentia, Innsbrück 1952 (2 ed.).9 K. DOOLEY, From Penance to Confession: the Celtic Contribution, «Bijdragen» 43 (1982) 390-411.10 «Non è stabilita pubblica riconciliazione in questa provincia, perché non c’è mai stata pubblica penitenza» (Penitenziale di Teodoro, I, 13, can. 4).

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questione è il Northumberland; b) secondo P. Palmer, il penitenziale di Teodoro parlerebbe del rito della riconciliazione degli eretici, non della paenitentia antiqua in quanto tale13.

Lasciamo da parte, dunque, la questione se in Irlanda sia stata o non sia stata praticata la penitenza antica. Dopo le valutazioni critiche di K. Dooley, non possiamo affermare che la penitenza tariffata sia nata per generazione spontanea in Irlanda; possiamo dire, invece, che la cultura celtica ha fatto evolvere la penitenza antica, praticata in Irlanda, verso una disciplina molto particolare: la penitenza tariffata. Tuttavia, indipendentemente da questo, è chiaro che l’influenza del monachesimo deve essere stata grande, se pensiamo che le regole di Tallaght attestano che i penitenti recitavano i salmi con i monaci del monastero al quale erano collegati 14. Nel costume monastico venivano sanzionate le disobbedienze alla regola15. Per la rigidità della vita monastica che è retta dalla regola, le pene che venivano applicate alle violazioni della regola cessarono progressivamente di essere una valutazione estemporanea per la correzione del colpevole, e diventarono un vero e proprio sistema penale, se pure adattato a quel microcosmo che è il monastero. Sono diverse le regole monastiche che contengono liste specifiche di trasgressioni. A. Santantoni ha fatto un confronto puntuale tra le liste penitenziali e gli usi monastici arrivando a concludere che c’è una straordinaria affinità tra le due discipline; inoltre, sia il linguaggio sia la struttura del processo penitenziale richiamano la penitenza canonica16. La principale differenza tra questi due modelli penitenziali, sta nella reiterabilità della penitenza tariffata e nella non persistenza degli interdetti penitenziali. Per il resto, dobbiamo dire che c’è continuità.

Con la missione dei monaci irlandesi nell’Europa continentale, la Peregrinatio Christi, gli usi irlandesi vennero esportati nel continente, limitatamente alle aree geografiche nelle quali i monaci operarono. Per comprendere il successo dell’attività irlandese, dobbiamo ricordare la crisi dell’Europa, crisi economica e culturale, che si ripercuoteva anche sugli scriptoria che non riuscivano più a trascrivere i libri liturgici e le opere della tradizione patristica. E’ in questo quadro che, successivamente, si inscrive la riforma liturgica di Carlo Magno17, consistita nel fornire nuovi libri liturgici, tutti conformi a un unico modello – il Sacramentario Gregoriano adrianeo, espressione della liturgia romana – posto nella biblioteca del re.

1.2 Le differenti tassazioni dei peccati

Alla base della penitenza tariffata c’è l’elenco delle pene stabilite per ogni peccato e questi elenchi danno origine a un nuovo tipo di letteratura, i Libri penitenziali18, che sono delle composizioni private, prive di ufficialità, che circolavano indipendentemente dall’approvazione

11 Die Canones Theodori Cantuariensis und ihre Überlieferungsformen, Weimar 1929, pp. 158-163.12 J. T. MCNEILL - H. M. GAMER (ed.), Medieval Handbooks of Penance. A Translation of the Principal Libri Poenitentiales and Selections from Related Documents, (= Records of Western Civilisation Series), Columbia University Press, New York - Chichister - West Sussex 1938, new reprint 1990, p. 195, nota 89.13 P. PALMER, Jean Morin and Private Penance, «Theological Studies» 6 (1945) 338-339.14 K. DOOLEY, From Penance …, p. 395.15 Tuttavia il peccato, nelle sue dimensioni esteriori, si configurava anche come violazione della norma.16 A. SANTANTONI, La confessione dei pensieri e delle colpe segrete nella “Regula Benedicti”, «Benedictina» 28 (1981) 647-680; IDEM, La penitenza. Una pagina di storia antica utile per i nostri giorni, LDC, Torino Leumann 1983. Cf., la sintesi in: IDEM, «Riconciliazione. C/. In Roma e nell’Occidente non romano», in: A. J. CHUPUNGCO (ed.), Scientia liturgica. Manuale di liturgia, Vol. IV: Sacramenti e sacramentali, Piemme, Casale Monferrato (Alessandria) 1998, p. 146s.17 Cf., ad esempio, C. VOGEL, «La reforme liturgique sous Charlemagne», in: Karl der Grosse. II. Das geistige Leben, Dusseldorf 1964, pp. 217-232.18 Per valutare questa letteratura, cf.: C. VOGEL, Les "Libri paenitentiales", (= Typologie des sources du moyen âge occidental, 27), mise à jour par A. J. Frantzen, Brepols, Turnhout 1978.

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della gerarchia ecclesiastica. L’attività sinodale in Gallia si era arrestata nel 675, quindi l’iniziativa dei monaci poté svilupparsi indisturbata. Tutto si basa su questi libri, senza i quali è impossibile celebrare la penitenza; tutti i sacerdoti ne debbono possedere uno. Il canone 38 del concilio di Châlon-sur-Saône (813) reagirà contro i libri penitenziali e sarà il suo modo di prendere posizione nei confronti di questa penitenza.

1.3 Esempi di penitenze tratte dai penitenziali medievali

Le penitenze medioevali appartengono a un tipo di penitenza differente da quella della chiesa antica. Nonostante questo, è evidente il carattere giuridico, e penale, di queste norme che sono tratte dai libri penitenziali19.

Il Libro penitenziale è una sorta di direttorio pratico destinato ai confessori, nel sistema della cosiddetta penitenza insulare o tariffata. Sostanzialmente si tratta di cataloghi di peccati, ciascuno dei quali è accompagnato dalla corrispondente “pena”, in modo da determinare quale opera penitenziale il penitente debba compiere in espiazione del peccato in oggetto. Non ci si può stupire se, a questo punto, sia insorta una concezione meccanica della penitenza che ha portato a una sopravvalutazione dell’espiazione penitenziale. In pratica la penitenza si riduce al momento espiatorio che può essere anche commutato o riscattato. Nasce una concezione e una prassi puramente giuridica, e penale, del sacramento della penitenza.

Vediamo qualche esempio tratta dal Penitenziale attribuito a Beda (VIII sec.): «Il giovane che pecca con una giovane vergine: un anno di digiuno» (can. II, 1). «Chi uccide per odio o cupidigia un laico: quattro anni di penitenza» (can. III, 2). «Chi uccide in un impeto d’ira o durante una lite: quattro anni di digiuno» (can. III, 4). «Chi uccide per disgrazia: un anno di digiuno» (can. III, 5). «Il soldato che uccide in guerra: quaranta giorni di digiuno» (can. III, 6). «Colui che in una lite ha ferito un altro o lo ha reso infermo in seguito ai colpi che gli ha dato, pagherà il medico e la composizione legale prevista per il suo atto. lavorerà per la sua vittima fino alla guarigione e digiunerà poi per sei mesi. Se non potrà pagare farà un anno di digiuno» (can. III, 9). «La madre che uccide il bambino che porta nel suo seno, prima del quarantesimo giorno che segue il concepimento, digiunerà per un anno. Se uccide il bambino dopo il quarantesimo giorno, digiunerà per tre anni. Però c’è una grande differenza tra la donna povera che ha ucciso il suo bambino perché non lo poteva nutrire e la donna sfacciata che uccide per nascondere il suo peccato» (can. III, 12). «Chi fa un giuramento falso sotto la pressione del suo padrone: tre digiuni di quaranta giorni e, inoltre, i digiuni ufficiali» (can. IV, 1). «Chi in un impeto d’ira maledice suo fratello, andrà a riconciliarsi con lui e digiunerà per sette giorni» (can. IV, 5).

Potremmo trarre delle importanti citazioni anche da altri penitenziali, ma è necessario che ci limitiamo e, di conseguenza, ci rifaremo soltanto al penitenziale di Burchardo di Worms (965-1025), redatto negli anni 1008-1012 utilizzando fonti precedenti; un testo rinomato per la diffusione e l’autorità di cui ha goduto per tutto il medioevo.

Nei canoni 1-6 viene preso in esame il caso di un omicidio volontario, «senza necessità, fuori dalla guerra» per cupidigia ossia per appropriarsi dei beni altrui. La pena inflitta è di quaranta giorni, ossia una quaresima, di digiuno in modo continuo a pane e acqua. Nei sette anni successivi la penitenza continua, anche se un poco mitigata: invece del digiuno a pane e acqua c’è solo l’obbligo di astenersi dal vino, dalla birra, dal lardo, dal formaggio e da qualsiasi pesce grasso. Nel caso che si sia in viaggio e non si possa osservare quanto sopra, il digiuno potrà essere riscattato dando da mangiare a tre poveri. Dopo il primo anno si è riammessi alla chiesa e si riceve il bacio di pace. La penitenza si addolcisce progressivamente negli anni successivi fino al settimo anno,

19 Per una guida in questa importante letteratura, cf.: VOGEL C., Les “Libri paenitentiales”, (= Typologie des sources du moyen âge occidental, 27), Brepols, Turnhout 1978; e anche: IDEM, Medieval Liturgy. An Introduction to the Sources, Revised and translated by W. G. Storey and N. K. Rasmussen, (= NPM Studies in Church Music and Liturgy), The Pastoral Press, Washington D. C., 1986.

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quando si è riammessi alla comunione. Tuttavia la penitenza non è terminata con la riammissione alla chiesa, e al bacio di pace, oppure alla comunione eucaristica: il penitente in questione resta penitente per tutta la vita anche se le pratiche penitenziali che deve osservare sono ormai ridotte a poca cosa rispetto agli inizi della penitenza. Burchardo conclude dicendo: «Ti concediamo per bontà, ma non secondo le disposizioni canoniche, queste mitigazioni. I canoni dicono infatti: se qualcuno uccide volontariamente e per cupidigia, lasci il mondo, entri in monastero e serva Dio umilmente».

J. Chélini ha messo in sinossi alcune delle pene dovute secondo i vari penitenziali 20. Ritengo utile seguirlo e riportare alcuni di questi esempi che mostrano le penitenze da imporre per alcuni peccati.

Penitenziale di S. Colombano21

Penitenziale di Beda22 De synodalibus causis di Reginone di Prum23

Corrector sive Medicus

di Burkardo di Worms24

(fine VI sec.) (VIII secolo) (fine IX sec.) (X sec.)

Omicidio 3 anni a pane e acqua se laico; se chierico 10 anni di esilio e riparerà

Chi uccide per odio un laico 4 anni, 7 se chierico o monaco; 40 giorni in caso di guerra

7 anni; 40 giorni in caso di guerra

Una quaresima a pane e acqua, più 7 anni con pene mitigate

Adulterio 3 anni di castità e astinenza dai cibi cotti

Se laico coniugato con una coniugata: 3 anni, il primo dei quali comporta la castità

Con una donna sposata o religiosa: 7 anni; con una vergine 2; con una vedova 1

Sodomia 7 anni di cui tre a pane e acqua

4 anni di digiuno; 3, se è tra coniugi

40 giorni se con la moglie

10 anni per lo sposato; 40 giorni se non lo è

Aborto 1 anno a pane e acqua, più 2 anni senza vino e carne, più castità

1 anno se prima del quarantesimo giorno dal concepimento, 3 anni se dopo; comprensione per la donna povera

Come Beda Come Beda

Furto Se laico: restituzione e 3 quaresime a pane e acqua

Se in una chiesa, 7 anni

Se in una chiesa, restituzione del quadruplo e 3 anni di digiuno

Ubriachezza 1 settimana a pane e acqua

12 giorni 15 giorni 15 giorni

Nonostante le differenze che ci sono tra i vari penitenziali, si deve rilevare che, in linea di principio, sono tutti accomunati da una grande severità. Questa viene vista come una necessità pedagogica; l’esistenza stessa delle liste di penitenze è vista come fatto pedagogico nel penitenziale di san Colombano: «La vera penitenza consiste nel non commettere più gli atti meritevoli di

20 J. CHÉLINI, L’aube du Moyen Âge…, pp. 430-432.21 Citato secondo C. VOGEL, Il peccatore e la penitenza nel medioevo, LDC, Torino Leumann 1970, p. 51ss.22 Citato secondo C. VOGEL, Il peccatore e la penitenza …, p. 60ss.23 REGINONE DI PRUM, Libri duo de synodalibus causis et de ecclesiastica disciplina (J.-P. MIGNE (ed.), Patrologiae … Series latina, Vol. 132, col. 248-251).24 J.-P. MIGNE (ed.), Patrologiae … Series latina, Vol. 140, col. 951-976. Traduzione italiana, a cura di G. Motta, in: G. PICASSO - G. PIANA - G. MOTTA (ed.), A pane e acqua. Peccati e penitenza nel Medioevo, (= Collana di documenti, testi e saggi), Europìa, Novara 1986, pp. 55-172.

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penitenza e nel rimpiangere le colpe commesse. Ma, a motivo della loro debolezza, molti, per non dire tutti, trasgrediscono questa regola; bisogna dunque conoscere le tariffe penitenziali. Il principio generale, enunciato dai nostri santi Padri, consiste nel fissare la durata del digiuno secondo la gravità della colpa»25.

1.4 Gli interdetti penitenziali

Abbiamo ora visto che nei canoni 1-6 del penitenziale di Burchardo di Worms emerge un dato che è essenziale per l’argomento che stiamo trattando: la permanenza degli interdetti penitenziali anche dopo l’assoluzione, che sottolineano fortemente il carattere penale del regime penitenziale. Non si tratta di una costruzione personale di questo insigne canonista. Egli ha ricevuto dal passato questa prassi e si limita a gestirla correttamente. Ricordiamolo brevemente.

Durante il tempo della loro espiazione i peccatori sono legati al digiuno e all’elemosina: una vita di mortificazione retta da una rigida disciplina. Oltre alla funzione espiatoria del male commesso, queste pratiche hanno anche la funzione di formare a un miglior stile di vita. Sono molto sentite dai penitenti le varie privazioni alle quali si debbono sottomettere durante la penitenza: astensione dalla carne, digiuni, esclusione dalla vita sociale (cariche pubbliche o militari), dalla possibilità di intentare processi, esclusione dall’attività del commercio, obbligo della castità perfetta26. Il penitente, anche dopo l’assoluzione, non può accedere all’ordine ecclesiastico. Molti degli obblighi contratti dal peccatore con l’ingresso in penitenza restano anche dopo l’assoluzione. In altre parole, chi è divenuto penitente, resta penitente. Data la permanenza degli interdetti penitenziali anche dopo la riconciliazione, il penitente non ritorna a far parte dell’ordine dei fedeli: resta legato all’ordine dei penitenti di cui osserva ancora la disciplina, se pur mitigata. Oltre alla proibizione dell’accesso agli ordini ecclesiastici, gli interdetti maggiori sono costituiti dall’abito penitenziale, il digiuno, la castità e la preclusione alle cariche pubbliche. Non si può negare che lo stato penitenziale sia come una sorta di morte civile.

In conclusione, il penitente era stato assolto dai peccati e riammesso alla comunione, ma doveva continuare a espiare per tutta la vita.

2. Il rito della penitenza tariffata La ritualità della penitenza è stata studiata da Cyrille Vogel che, dopo averne trattato

sommariamente in varie occasioni, ha esposto la questione in modo organico nella Miscellanea in onore di A. Bugnini1.

Egli rileva che il primo elemento da sottolineare è la necessità di una confessione dettagliata affinché si possa stabilire quale penitenza deve essere eseguita, in base ai libri penitenziali; non bisogna dimenticare l’aspetto quantitativo delle penitenze, dato che la penitenza meritata per ogni peccato commesso viene moltiplicata per il numero delle volte e si somma con le penitenze meritate per le altre colpe. A volte, però, il cumulo delle penitenze rende impossibile la soddisfazione penitenziale e, pertanto, si pone la necessità di operare delle commutazioni. Un digiuno più severo, ma corto, può riscattare un digiuno lungo anni e anni, ma meno severo. Il fare celebrare una o più messe può riscattare vari tempi di digiuno: «Una messa riscatta 3 giorni di digiuno; 3 messe riscattano una settimana di digiuno; 12 messe riscattano un mese di digiuno e 12 volte 12 messe

25 Citato secondo C. VOGEL, Il peccatore e la penitenza …, p. 52. Vedi anche: G. PICASSO, Dolore dei peccati, espiazione e perdono in alcuni Libri penitenziali, «Annali di Scienze religiose» 3 (1998) 133-140.26 VOGEL C., Il peccatore e la penitenza nella chiesa antica, LDC, Torino Leumann, 1967, p. 36.1 C. VOGEL, «Les rituels de la pénitence tarifée», in: P. JOUNEL - R. KACZYNSKI - G. PASQUALETTI (ed.), Liturgia opera divina e umana. Studi sulla riforma liturgica offerti a S. E. Mons. Annibale Bugnini in occasione del suo 70 compleanno, (= Bibliotheca Ephemerides liturgicae. Subsidia, 26), CLV - Edizioni liturgiche, Roma 1982, pp. 419-427.

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riscattano un anno» 2. E ancora: «Per i malati che non possono digiunare, l’equivalente di un mese o di un anno di digiuno sarà il prezzo di uno schiavo, uomo o donna»3. Oppure: «Cento salmi recitati durante la notte, più 300 frustate, riscattano 3 giorni di digiuno) 4. L’esecuzione della penitenza è molto impegnativa e costituisce la sostanza stessa del procedimento penitenziale. I Libri penitenziali si preoccupano solo di questo e non danno molte indicazioni sulla celebrazione liturgica e sulle preghiere essenziali di questa liturgia.

A giudizio di Vogel si debbono distinguere due periodi. 1) Il penitente confessa i propri peccati e riceve la penitenza equivalente. Terminata l’espiazione, egli può considerarsi purificato dei suoi peccati senza che si debba presentare di nuovo al confessore. Il penitenziale Vallicellianum I (fine VIII, inizio IX sec.) nella istruzione iniziale dichiara: «Qui si ieiunaverit et compleverit quod illi commendatum est a sacerdote, purificabitur a peccatis» 5. Ci sono anche altri penitenziali che si rifanno al medesimo principio, per cui si può concludere che il ruolo del sacerdote consiste essenzialmente nell’imporre la penitenza. 2) Altri penitenziali, invece, suppongono che il penitente ritorni dal sacerdote alla fine della penitenza. E’ il caso, ad esempio, del penitenziale di Alitgario (inizio sec. IX): «In caso di necessità soltanto e in mancanza del sacerdote, il diacono riceva i penitenti (per indicare loro l’espiazione da compiere e ) per ammetterli alla santa comunione»6.

Le indicazioni rituali per questo tipo di penitenza si trovano sia nei libri liturgici sia nei libri penitenziali. L’epoca è la medesima per entrambi: la seconda metà dell’ottavo secolo. I libri liturgici che hanno un rito della penitenza sono due: il sacramentario Gelasianum vetus (Vat. Lat. Reginense 316), e il Pontificale romano germanico scritto a Magonza verso il 961; li esamineremo entrambi, poi passeremo ai libri penitenziali.

1) Il rito del sacramentario gelasiano7, presente alla fine del codice, non compare nella Capitulatio iniziale del manoscritto: ne segue che questo rito è stato aggiunto quando il sacramentario era già completo8. Possiamo, dunque, pensare che l’aggiunta sia avvenuta quando il manoscritto è stato ricopiato nel monastero di Chelles, verso il 750. Lo sviluppo rituale è il seguente:

Salmo 6 (Domine, ne in furore tuo arguas me…);Salmo 102, 1-5 (Benedic anima mea Dominum… renovabitur ut aquilae iuventus tua);Salmo 50 (Miserere mei Deus…).Preghiera: «Deum omnipotentem et misericordem qui non uult mortem peccatorum sed ut

conuerantur et uiuant, fratres karissimi, supplices deprecemur, ut conuerso ad uiam rectam famulo suo illo misericordiae suae ueniam propiciatus indulgeat; et si qua sunt culparum suarum omnium uulnera, quae post sacri lauacri unda contraxit, ita in hac publica confessione delicta sanentur, ut nulla in eum ultra cicatricum signa remaneant: per Dominum nostrum.»9.

2 Penitenziale di Teodoro (verso il 690-740) (Citato secondo C. VOGEL, Il peccatore e la penitenza …, p. 102).3 Penitenziale di Teodoro (verso il 690-740) (Citato secondo C. VOGEL, Il peccatore e la penitenza …, p. 101).4 Penitenziale di Beda (VIII secolo) (Citato secondo C. VOGEL, Il peccatore e la penitenza …, p. 103).5 Citato da C. VOGEL, «Les rituels de la pénitence tarifée» …, p. 420.6 Citato secondo C. VOGEL, Il peccatore e la penitenza …, p. 42.7 A. CHAVASSE (éd.), Textes liturgiques de l’Eglise de Rome. Le cycle liturgique romain annuel selon le sacramentaire du Vaticanus Reginensis 316, (= Sources liturgiques, 2), Cerf, Paris 1997, nn. 1701-1704.8 A. CHAVASSE, Le sacramentaire gélasien (Vaticanus Reginensis 316). Sacramentaire presbytéral en usage dans les titres romanis du VIIe siècle, (= Bibliothèque de théologie, 4. Histoire de la théologie, 1), Desclée et Cie, Tournai 1958, p. 145.9 L. C. MOHLBERG (ed.), Liber sacramentorum romanae aecclesiae ordinis anni circuli. (Cod. Vat. Reg. lat. 316 / Paris Bibl. Nat. 7193, 41 / 56), (= Rerum ecclesiasticarum documenta. Fontes, 4), Herder, Roma 1960, n. 1702. Questo testo proviene dal sacramentario di Bobbio (E. A. LOWE (ed.), The Bobbio Missal. A Gallican Mass-Book (Ms. Paris. Lat 13246), (= Henry Bradshaw Society, 58), Harrison and Sons, London 1920, n. 578).

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Preghiera: «Deus, iustorum gloria, misericordia peccatorum da huic famulo tuo illo plenam indulgenciae ueniam et paenitenciae loco exoratus indulge, ut qui praeterita peccata deplorat, futura mala non senciat neque iam ulterius lugenda committat. Demitte ei, Domine, omnia crimina et in semitas eum iusticiae placatus reinstaura, ut securus mereatur deinceps inter tuos bene meritis currere et ad pacis aeternae praemia peruenire: per Dominum nostrum Iesum Christum.»10.

Preghiera: «Domine Deus omnipotens sempiternae, qui peccatorum indulgenciam in confessione celeri posuisti, succurre lapsis, miserere confessis, ut quos delictorum catena constringit, miseracio tuae pietatis absoluat»11.

2) Il rito del Pontificale romano germanico12 ha una struttura praticamente identica a quella dei Libri poenitentiales:

Il confessore si prepara (in chiesa, o ovunque sia);Preghiera sul penitente;Interrogazione del penitente sul Simbolo, l’Oratio dominica, il perdono delle offese e la sua

situazione sociale;Salmo 102, 1-5 (Benedic anima mea Dominum… renovabitur ut aquilae iuventus tua);Salmo 50 (Miserere mei Deus…).Interrogazione dettagliata del penitente, in base a una lista di peccati contenuta nel pontificale;Imposizione della penitenza;Preghiere conclusive3) Sono 14 i Libri poenitentiales che riportano un Ordo per la penitenza13, la cui struttura può

avere delle variazioni. Ne citiamo uno solo, il rito penitenziale dell’Ordo Burchardi Wormatensis:Il confessore si prepara con la preghiera, in chiesa, nella cella o, ovunque sia, in cuor suo14;Interrogazione: a) sulla fede (simbolo); b) sul perdono delle offese; c) sulla condizione del

penitente se è pentito (qualora sia incestuoso),diversamente non potrà imporgli la penitenza;Esortazione al penitente sulla necessità di una confessione completa, senza vergogna;Interrogazione sui peccati e imposizione della penitenza;Ulteriore esortazione con indicazioni su alcuni atteggiamenti interiori, come l’orgoglio, l’ira

l’avarizia etc., che si curano con le virtù loro contrarie15;Il penitente si prostra e si proclama peccatore chiedendo intercessione per poter ottenere il

perdono divino16;Il sacerdote si inginocchia accanto al penitente e recita 5 salmi: 37; 102; 50; 53; 51.Le preghiere sono 5 e le prime 4 sono tratte dal penitenziale di Alitgario 17: la prima chiede che

«Dio si ricordi del suo servo che è stato purificato dai suoi peccati»; la seconda, chiede il perdono divino per il peccatore; la terza chiede il perdono e fa memoria del fatto che Dio ha posto «in una pronta confessione il perdono dei peccati»; la quarta chiede il perdono per il peccatore che ha confessato i peccati e accenna al fatto che questi sarà riammesso ai sacramenti; da ultimo c’è una

10 L. C. MOHLBERG (ed.), Liber sacramentorum romanae aecclesiae ordinis anni circuli…, n. 1703.11 L. C. MOHLBERG (ed.), Liber sacramentorum romanae aecclesiae ordinis anni circuli…, n. 1704. 12 C. VOGEL - R. ELZE (éd.), Le Pontifical romano-germanique du Xème siècle, Tome II, (= Studi e testi, 227), Bibliotheca apostolica vaticana, Città del Vaticano 1963, pp. 234-245.13 L’elenco è in C. VOGEL, «Les rituels de la pénitence tarifée» …, p. 424.14 Questa preghiera proviene dal Poenitentiale di Alitgario, tramite Reginone di Prum (Cf.: G. MOTTA, «Fonti del penitenziale di Burcardo», in: G. PICASSO - G. PIANA - G. MOTTA (ed.), A pane e acqua…, p. 173).15 Penitenziale di Burcardo, n. 7 (G. PICASSO - G. PIANA - G. MOTTA (ed.), A pane e acqua…, p. 106).16 Ibidem.17 Cf.: G. MOTTA, «Fonti del penitenziale di Burcardo», in: G. PICASSO - G. PIANA - G. MOTTA (ed.), A pane e acqua…, p. 174.

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preghiera conclusiva18, tratta da Reginone († 915), nella quale si chiede il perdono per i peccati presenti, passati e futuri. Ecco il testo di Reginone: «Deus omnipotens sit adiutor et protector tuus, et praestet indulgentiam de peccatis tuis praeteritis, praesentibus et futuris»19.

Nel rito della penitenza contenuto nel Penitenziale di Burcardo, è evidente che il peccatore non dovrà ritornare dal sacerdote, al termine della penitenza. Tuttavia, in base alla prima preghiera che ricorda che il penitente è stato purificato dalla penitenza 20, si può pensare che la posizione originaria di questa preghiera fosse dopo che il penitente aveva compiuto le opere imposte dal sacerdote, ossia quando fosse ritornato da lui al termine della penitenza. La quarta preghiera merita particolare attenzione perché fa veder che il penitente non viene purificato ora, durante il rito penitenziale, a causa della preghiera del sacerdote, ma dopo; quando il penitente avrà compiuto la penitenza, il Signore gli perdonerà ogni sua colpa. Ecco il testo della preghiera, che è diretta a Cristo: «Signore, supplico la maestà della tua clemenza e della tua bontà: libera nella tua giustizia il tuo servo (N.) che ti confessa i suoi peccati e i suoi delitti, e concedi a lui il perdono; sii benevolo verso le colpe del passato, tu che sulle spalle hai ricondotto all’ovile la pecorella smarrita, tu che ti sei commosso alle preghiere e alle suppliche del pubblicano, accogli benevolo, o Signore, le preghiere del tuo servo: che egli possa vivere sicuro del tuo perdono, e che il suo pianto e la sua supplica ottengano ben presto la tua clemenza, e riammesso ai sacramenti sia di nuovo partecipe della speranza eterna e della gloria celeste. Tu che vivi e regni…»21.

3. Il carattere giuridico della penitenza tariffata in epoca carolingia

Per poter applicare la penitenza, che il peccatore aveva meritato a causa dei suoi peccati, la chiesa deve poter conoscere in dettaglio ciò che il peccatore ha commesso; spesso, però, il peccatore non ha alcuna intenzione di esporsi al giudizio della chiesa oppure, talvolta, non ha alcuna intenzione di ravvedersi e vuole restare nel suo peccato. Di qui nasce la necessità portare il peccatore alla penitenza. In epoca carolingia Teodolfo, Giona d’Orléans, Incmaro di Reims stabilirono che sia i sacerdoti sia i fedeli avevano il dovere di denunciare al vescovo i peccati di cui fossero stati testimoni1. Per certi crimini i capitolari stabilirono il procedimento episcopale della inquisitio: il vescovo doveva cercare i delitti, dopo di che veniva istruito un vero e proprio processo2 che era, nello stesso tempo, un procedimento penitenziale. L’esecuzione delle opere penitenziali comportava l’allontanamento dall’eucaristia, ossia la scomunica, ma c’era anche un altro uso della scomunica, diverso da questo. Venivano colpiti dalla scomunica coloro che non volevano riconoscere il proprio peccato e non volevano sottostare al processo penitenziale; era il modo di esercitare su di loro una forte pressione sociale e religiosa che li costringesse a rinunciare alla resistenza e al rifiuto. Il timore del giudizio di Dio e delle pene eterne faceva il resto; era certo, infatti, che chi morisse in stato di scomunica sarebbe stato condannato all’inferno. La scomunica,

18 Ibidem.19 REGINONE DI PRUM, Libri duo de synodalibus causis et de ecclesiastica disciplina (J.-P. MIGNE (ed.), Patrologiae … Series latina, Vol. 132, col. 252).20 Ecco il testo: «O Dio, della cui bontà abbiamo bisogno, ricordati del tuo servo (N.) che è stato purificato dai peccati commessi dalla sua fragilità; concedi, te ne preghiamo, il perdono a chi confessa e risparmia chi ti supplica: dalla bontà sia salvato chi per le colpe sarebbe condannato. Te lo chiediamo per il nostro Signore Gesù Cristo…» (Penitenziale di Burcardo, n. 7, in: G. PICASSO - G. PIANA - G. MOTTA (ed.), A pane e acqua…, p. 107; il corsivo è mio).21 Penitenziale di Burcardo, n. 7 (G. PICASSO - G. PIANA - G. MOTTA (ed.), A pane e acqua…, p. 107).1 J. CHÉLINI, L’aube du Moyen Âge…, p. 381. 2 La descrizione è data da Reginone di Prum che, nel 906, scrive i Libri duo de synodalibus causis et de ecclesiastica disciplina, Libro II, in: J.-P. MIGNE (ed.), Patrologiae … Series latina, Vol. 132, col. 230-232.

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dunque, diventa un mezzo coercitivo per spingere a ravvedersi dal peccato. E’ una pena3 che ha valore sia spirituale, perché allontana dalla comunione eucaristica, sia sociale perché aliena il reo dal consorzio della vita civile. Inoltre, chi conserva rapporti con lo scomunicato è scomunicato a sua volta.

Il carattere giuridico della penitenza raggiunge il suo apice in epoca carolingia. Il caso di Ludovico il Pio ne è un chiaro esempio che merita di essere illustrato. Nel 833, resuscitando le norme della penitenza antica, si impose la penitenza a Ludovico il Pio nella basilica di san Medardo a Soissons, davanti a Lotario, i suoi Grandi e l’episcopato franco guidato da Ebbon, vescovo di Reims4. Il re depose pubblicamente le armi e rivestì l’abito da penitente che gli diedero i vescovi. Lo statuto tradizionale del penitente imponeva la castità perpetua e proibiva il ritorno alla militia, ossia il ritorno all’esercizio del potere e al portare le armi: in tal modo Ludovico il Pio era definitivamente allontanato dalle funzioni di governo e da sua moglie, l’imperatrice Giuditta, donna molto influente alla quale egli era molto legato.

Successivamente, le accuse che gli meritarono la penitenza si rivelarono frutto di macchinazioni politiche dei prelati del partito imperiale, come ammise pubblicamente Ebbon nella chiesa di santo Stefano di Metz. Non è mai esistita la riconciliazione del re nella basilica di Saint-Denis: Ludovico il Pio fu reintegrato nelle sue funzioni semplicemente perché la penitenza era stata illegale5. Il caso di Ludovico il Pio mostra bene quali sono le caratteristiche della penitenza antica. La natura giuridica, tanto del rito quanto delle opere penitenziali, assieme al carattere perpetuo di questi interdetti e al grande formalismo liturgico sono le qualità specifiche della penitenza canonica occidentale.

La funzione della scomunica che abbiamo ora descritto, è un fatto nuovo, senza riscontro nel passato, dato che nella penitenza antica la scomunica era l’interruzione della comunione del corpo di Cristo, inteso sia in rapporto alla liturgia eucaristica, sia in rapporto alla vita della chiesa: è la visione mistica (in senso patristico) della comunione e della scomunica. In epoca carolingia questa concezione è ormai perduta ed è stata sostituita dalla concezione giuridica. Di fronte a una scomunica si poteva interporre appello a una istanza superiore di giudizio per ottenerne l’annullamento. Nel 755 il concilio di Ver (sotto Pipino) stabilisce un iter di tre gradi di giudizio, dopo di che la sentenza di scomunica è esecutiva; qualora la scomunica non sortisca alcun effetto poiché il peccatore non si vuole ravvedere, il re pronuncia una sentenza di condanna all’esilio 6. Spesso la scomunica è un mezzo di autodifesa della chiesa contro chi non paga le decime, attenta alla vita dei membri del clero o si impossessa dei beni dei monasteri, dei vescovi, delle chiese, o non ne rispetta i diritti fiscali; questo spiega perché la scomunica fu uno strumento molto usato in epoca carolingia. In questo modo si comprende l’acuta osservazione di J. Chélini: «La scomunica non colpiva il delitto, in se stesso, ma il rifiuto di ricevere la penitenza ufficiale» 7. In tal modo la scomunica è divenuta uno strumento per isolare il peccatore dal contesto sociale e per indurlo alla penitenza. Non è detto che tutto questo comporti quella maturazione interiore che restituisce al credente la grazia battesimale, se non altro perché il processo penitenziale si basa sulla costrizione: «Primo carattere definitivo e permanente della penitenza ufficiale nel secolo carolingio, la coercizione. Apparsa nel VII secolo, questa caratteristica, che separa in modo assoluto questa penitenza ufficiale dalla penitenza antica, si generalizzerà in modo universale nella legislazione carolingia»8. Per dare un idea del carattere giuridico e coercitivo della penitenza, ricordiamo che nel

3 Reginone di Prum riporta ben cinque formule di scomunica, a seconda della gravità. La più grave è una vera e propria formula di maledizione: «Sint maledicti in civitate, maledicti in agro, maledictum horreum eorum et maledictae reliquiae illorum, maledictus fructus ventris illorum et fructus terrae illorum» (Libri duo de synodalibus causis et de ecclesiastica disciplina, Libro II, in: J.-P. MIGNE (ed.), Patrologiae … Series latina, Vol. 132, col. 362).4 J. CHÉLINI, L’aube du Moyen Âge…, p. 403ss.5 J. CHÉLINI, L’aube du Moyen Âge…, p. 408.6 Can. 9 (Monumenta Germaniae Historica, Capitularia, I, p. 35).7 J. CHÉLINI, L’aube du Moyen Âge…, p. 392.8 J. CHÉLINI, L’aube du Moyen Âge…, p. 402.

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sacramentario gelasiano l’ingresso in penitenza nella feria in capite quadragesimae, è un rito che comporta l’incarcerazione. La rubrica, infatti, stabilisce di imporre le ceneri sul capo del penitente e, subito dopo, aggiunge: «Inclaudis usque ad Caenam Domini»9. Non viene specificato dove il penitente debba essere rinchiuso10, ma la rubrica del giovedì santo si ricorda bene di questo fatto e recita: «Egrditur poenitens de loco ubi poenitentiam gessit»11.

9 A. CHAVASSE (éd.), Textes liturgiques de l’Eglise de Rome. Le cycle liturgique romain annuel selon le sacramentaire du Vaticanus Reginensis 316, (= Sources liturgiques, 2), Cerf, Paris 1997, p. 188, n. 83.10 Si può pensare a un monastero o ad altro luogo sicuro come la sacristia o le diaconia, o i catechumena (C. VOGEL, «Les rites de la pénitence publique aux Xe et XIe siècles», in: P. GALLAIS - Y.-J. RIOU (éd.), Mélanges offerts à René Crozet, à l’occasion de son soixante-dixième anniversaire, Tome I, Société d’études médiévales, Poitiers 1966, p. 142)11 A. CHAVASSE (éd.), Textes liturgiques de l’Eglise de Rome…, p. 188, n. 352.

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CAPO QUINTO

LA RICONCILIAZIONE DEI PENITENTI SECONDO IL SACRAMENTARIO GELASIANO ANTICO

Il sacramentario Gelasiano antico12 contiene la liturgia romana dei “tituli”13 che è la liturgia dei presbiteri14 mentre la liturgia stazionale è la liturgia papale. Possiamo dire che questa liturgia rappresenta l’uso della fine del quinto secolo. Nei tituli era il prete che, in determinate occasioni, celebrava il sacramento, mentre nelle altre chiese la penitenza era riservata al vescovo 15. Nel Gelasiano abbiamo il formulario dell’ingresso in penitenza che viene celebrato il mercoledì delle ceneri16, quando viene data ai penitenti la penitenza da fare e l’abito di cilicio da portare. In seguito abbiamo un formulario di conferimento del perdono al giovedì santo17; tra l’ammissione alla penitenza e il perdono trascorreva un periodo più o meno lungo che, col tempo e con la progressiva riduzione della penitenza a un fatto puramente rituale, si identifica con la quaresima.

Il Gelasiano conosce anche un altro Ordo che è stato aggiunto posteriormente e che riguarda la conclusione della penitenza18. Questo è il testo che riassume meglio gli elementi del rito della penitenza che vogliamo mettere in evidenza. Ecco come si svolge: il penitente liberato dal luogo ove era stato rinchiuso19, viene condotto in gremio ecclesiae; il diacono fa una perorazione20 nella quale illustra il cammino penitenziale del penitente, dicendo, tra l’altro, che le lacrime profuse dal penitente sono analoghe all’acqua battesimale e che, pertanto, hanno valore purificatorio, analogamente all’acqua battesimale. Seguono alcune preghiere con le quali si implora il perdono di Dio sul penitente21. Dopo di che inizia la liturgia eucaristica ossia la messa del giovedì santo mattina.

Giustamente questo Ordo è intitolato “Riconciliazione dei penitenti” dato che le preghiere di assoluzione hanno come tema principale la riammissione del penitente alla chiesa. Si supplica Dio di voler concedere, al peccatore pentito22, il perdono dei peccati e di voler restituire alla chiesa il penitente a causa della sua conversione, della preghiera della chiesa tutta, nonché del sacerdote. Non c’è una formula che dica che il penitente è accolto di nuovo nella chiesa; non ce n’è bisogno perché la cosa è evidente di per sé, dato che il penitente è condotto in chiesa e il sacerdote ha pregato su di lui. In queste preghiere si ricorda che il penitente è stato restituito purificato alla chiesa, la quale pertanto non è più priva di uno dei suoi membri23.

12 MOHLBERG L. C. (ED.), Liber sacramentorum romanae aecclesiae ordinis anni circuli. (Cod. Vat. Reg. lat. 316 / Paris Bibl. Nat. 7193, 41 / 56, (= Rerum ecclesiasticarum documenta - Fontes, 4), Herder, Roma 1960.13 Non dobbiamo pensare che la liturgia che veniva celebrata a Roma fosse la stessa in tutte le sedi. C’era una liturgia per i “tituli” (oggi si chiamerebbero parrocchie), e una per le “stationes”, ossia le celebrazioni del papa in un determinato luogo; inoltre c’era una certa differenza tra la liturgia intra muros, ossia all’interno delle mura aureliane, e la liturgia extra muros.14 CHAVASSE A., Le sacramentaire gélasien, (= Bibliothèque de théologie 4: Histoire de la théologie, 1), Paris, 1958.15 Ibidem, p. 141.16 MOHLBERG L. C. (ED.), Liber sacramentorum romanae aecclesiae ..., nn. 78-82.17 MOHLBERG L. C. (ED.), Liber sacramentorum romanae aecclesiae ..., nn. 349-351.18 MOHLBERG L. C. (ED.), Liber sacramentorum romanae aecclesiae ..., nn. 352-359.19 MOHLBERG L. C. (ED.), Liber sacramentorum romanae aecclesiae ..., n. 352.20 MOHLBERG L. C. (ED.), Liber sacramentorum romanae aecclesiae ..., nn. 353-354.21 MOHLBERG L. C. (ED.), Liber sacramentorum romanae aecclesiae ..., nn. 356-359.22 «Ut ecclesiae tuae sanctae, a cuius integritate diviarat peccando ... restituatur innoxius» (MOHLBERG L. C. (ED.), Liber sacramentorum romanae aecclesiae ..., n. 357).23 «Ne ecclesia tua aliqua corporis portione uastetur nec grex tuus detrimentum sustineat» (MOHLBERG L. C. (ED.), Liber sacramentorum romanae aecclesiae ..., n. 358).

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CAPO SESTO

LA CONFESSIONE

Per comprendere il regime della confessione citiamo solo due testi che hanno un notevole rilievo nello sviluppo di questa nuova tappa della penitenza. Il primo testo è una Lettera a una religiosa, attribuita ad Agostino ma che è di un anonimo del decimo o undicesimo secolo; già il titolo è significativo di per sé perché mostra qual è il problema che viene affrontato: De uera et falsa poenitentia.

Questa lettera ha contribuito notevolmente a formare la mentalità del sacramento della penitenza nel medioevo; basti pensare che questa lettera è entrata del Decretum Gratiani, nelle Sententiae di Pietro Lombardo e in Tommaso d’Aquino.

Ci sono di quelli che si pentono a causa dei castighi che al momento possono venire comminati o inferti; questa è una falsa penitenza; la penitenza falsa e inutile è quella che non procede dalla fede, dalla carità e dall’unità24. La penitenza vera è quella spontanea, quella che cerca Dio dolendosi di averlo perduto, ansiosa di raggiungere Dio senza il quale non c’è vita25.

La penitenza qui descritta è tesa alle motivazioni interiori del pentimento, quelle motivazioni che decidono il peccatore alla penitenza, e questa è la prima differenza rispetto alla penitenza antica e anche alla penitenza insulare. La seconda grande differenza sta nel mettere tutto l’accento sull’accusa dei peccati: la confessione. A causa della vergogna che il penitente prova nel confessare i peccati il rito dell’accusa prende il posto delle antiche espiazioni fatte di digiuni e di onerose privazioni. La vergogna è la vera penitenza che salva il peccatore, cosicché l’accusa, o confessione, diventa l’elemento principale di questo rito e il suo costitutivo formale, come ben si vede da questo testo: «Erubescentia enim ipsa partem habet remissionis: ex misericordia enim hoc praecepit Dominus, ut neminem poeniteret in occulto. In hoc enim quod per seipsum dicit sacerdoti, et erubescentiam vincit timore Dei offensi, fit venia criminis: fit enim per confessionem veniale, quod criminale erat in operatione. [...] Laborat enim mens patiendo erubescentiam. Et quoniam verecundia magna est poena, qui erubescit pro Christo fit dignus misericordia»26.

La confessione può essere fatta anche a un laico, in assenza del sacerdote, perché la confessione raggiunge ugualmente il suo effetto dato che la sua efficacia dipende, alla fin fine, dalla vergogna che si prova: «Tanta itaque vis confessionis est, ut si deest sacerdos, confiteatur proximo. Saepe enim contingit quod poenitens non potest verecundari coram sacerdote, quod desideranti nec tempus nec locus offert»27.

Un’altra opera ha grande peso in questa questione; si tratta del Verbum abbreviatum di Pietro il Cantore, tributario anch’esso del De uera et falsa poenitentia. Nella descrizione della confessione distingue tre tipi di confessione, la confessio cordis e la confessio oris e la confessio operis. la confessio cordis viene fatta a Dio, mentre la confessio oris viene fatta al sacerdote28. Il costitutivo è la confessio cordis, ma la confessio oris è ugualmente essenziale ed è stata introdotta nella chiesa per tre motivi: «ut superbo prius et cervicoso incutiatur, umilitas, et verecundia et erubescentia» 29. Il valore della confessio oris è molto grande e così conclude: «Ipsa oris confessio maxima est pars satisfactionis».

Da questo si capisce che la capacità espiatoria delle antiche opere penitenziali è ormai sostituita dalla confessione, a causa della vergogna che in essa si prova. Giustamente dunque questa

24 De uera et falsa poenitentia, cap. 9 (Patrologia latina, 40, col. 1121). 25 Ibidem. 26 De uera et falsa poenitentia, cap. 10 (Patrologia latina, 40, col. 1122).27 Ibidem. 28 Verbum abbreviatum, cap. 143 (Patrologia latina, 205, col. 342).29 Ibidem.

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tappa della confessione viene chiamata ‘Confessione’ e, se pure con le precisazioni dottrinali della scolastica e del concilio di Trento, resterà immutata fino al concilio Vaticano II. Il regime della confessione si sviluppa a partire dal dodicesimo secolo e avrà grande fortuna, una fortuna che gli viene decretata dal basso, ossia dai fedeli che lo frequentano, così come è stato per gli altri sistemi penitenziali, o forme storiche del rito della penitenza che abbiamo esaminato.

Questo tipo di penitenza è molto diversa da quella tariffata che l’ha preceduta. Mentre nella penitenza tariffata l’assoluzione può essere data solo dopo la soddisfazione delle pene imposte, che possono durare anche per anni, nella confessione l’assoluzione viene data subito dopo l’accusa. Nella penitenza tariffata la soddisfazione è molto onerosa e comporta reali privazioni, mentre nella confessione la soddisfazione è puramente simbolica. Nell’una l’accusa dei peccati, con tutti i dettagli, è necessaria per poter fare la somma di tutte le pene meritate secondo i penitenziali, mentre nell’altra la confessione in quanto tale appartiene all’area della soddisfazione. L’elemento principale della penitenza antica era la soddisfazione, mentre dal dodicesimo secolo l’elemento principale è la confessione, o accusa dei peccati, che svolge anche funzione espiatoria: la penitenza è sostituita dalla confessione.

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CAPO SETTIMO

LA FORMULA DI ASSOLUZIONE

1. Preghiere di intercessione per il penitente e nascita della formula assolutoria

Abbiamo visto che, nella storia della penitenza occidentale compare spesso, anche se non sempre, una liturgia con delle preghiere che chiedono a Dio misericordia per il penitente e il perdono dei suoi peccati. In ogni caso, anche al di fuori di questa liturgia, la chiesa prega sempre per coloro che hanno peccato. Nella liturgia penitenziale la preghiera è una supplica a Dio – solo Lui può rimettere i peccati (Mc 2, 7) – affinché accolga la supplica della chiesa e voglia perdonare le colpe del penitente. Per rafforzare la domanda, la preghiera viene ripetuta più volte, in forme diverse, anche se sono tutte dello stesso tenore. Progressivamente vengono inserite delle citazioni bibliche che rafforzino la supplica affinché Dio perdoni. Le più antiche sono citazioni che fanno appello alla misericordia di Dio descritta nelle Scritture come, ad esempio: «Forse che io ho piacere della morte del malvagio, dice il Signore Dio, o non piuttosto che desista dalla sua condotta e viva?» (Ez 18, 23). Oppure: «Davanti a lui rassicureremo il nostro cuore qualunque cosa esso ci rimproveri. Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa» (1Gv 3, 19-20). Successivamente vengono scelte quelle citazioni bibliche che descrivono il ‘potere’, se così si può dire, della chiesa sul peccato, come, ad esempio: «Ricevete lo Spirito Santo, a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi» (Gv 20, 22-23); oppure: «A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli» (Mt 16, 19).

Tuttavia queste non sono l’assoluzione nel senso odierno: sono ancora preghiere e suppliche affinché Dio perdoni il penitente. La preghiera è preghiera e non dobbiamo attribuirle altra portata che questa. Con queste preghiere il sacerdote ammette alla comunione eucaristica il penitente, ma non è detto che gli ‘conferisca’ il perdono dei peccati: questo è lasciato a Dio ed è per questo motivo che si prega.

2. La testimonianza di Raoul l’Ardente E’ conoscenza comune che la prima testimonianza della ‘formula di assoluzione’ (intesa in

senso proprio) si trovi in una omelia di Raoul l’Ardente († verso il 1195-1200): «Il cuore detesta le nostre colpe, la bocca le accusa, con i nostri atti le espiamo. … A chi confessarsi? La confessione delle colpe gravi va fatta al sacerdote, poiché lui solo ha il potere di legare e di sciogliere. … La confessione fatta ad altri non procura l’assoluzione dei peccati; noi siamo qui assolti mediante l’umiliazione di noi stessi e mediante le preghiere dei nostri fratelli. Ecco perché non si dice in questo caso: «Ego dimitto tibi peccata tua», ma solo «Misereatur tui Omnipotens Deus…» 1. Esiste, dunque, una formula di assoluzione che dice: «Ego dimitto tibi peccata tua».

3. La prima attestazione della formula di assoluzione A mio giudizio l’origine di questa formula deve essere più antica, almeno di un secolo, e va

collocata nel primo quarto del XI secolo, dato che in questa epoca è rimasta traccia di una polemica suscitata dalla sua introduzione. Adelmanno di Liegi, in una lettera scritta tra il 1036 e il 1052,

1 Omelia 64, In Litania maiori (J.-P. MIGNE (ed.), Patrologiae … Series latina, Vol. 155, col. 1900).

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censura la novità di questa formula dichiarandola aliena dalla tradizione: «Qua ergo temeritate sacerdotes noui testamenti lepram spiritalem mundare se profitentur. Quem umquam sanctorum inueniunt cuiquam peccatori dixisse: ego dimitto tibi peccata tua ac non potius communicatis ieiuniis et orationibus id eis quibus subuenire uolebant a Domino impetrasse 1. Quod legimus in aecclesiastica historia fecisse Iohannem apostolum pro iuuene illo quem a latrocinio reuocatum Christo iterum parturiebat. Sed et ipse Filius hominis habens potestatem in terra dimittendi peccata deuitata personae suae expressione non ait : remitto tibi omnia peccata tua sed quasi uerecunde : homo inquit dimittuntur tibi peccata tua»2.

Successivamente, alla fine del dodicesimo secolo, compare la formula di assoluzione che resterà fissa fino a oggi nella chiesa latina: «Ego te absolvo a peccatis tuis, in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti», che è ricalcata sulla formula battesimale «Ego te baptizo… etc.». La formula assolutoria è una formula giuridica che dichiara l’efficace applicazione del potere assolutorio del sacerdote sul penitente. Proprio per questo, la nostra formula non ha la struttura della preghiera che, necessariamente, deve essere rivolta a Dio.

Se l’essenza del sacramento della penitenza sta nella formula assolutoria, come dirà tutta la teologia scolastica e tridentina, ne segue che l’essenza del sacramento è posta non tanto nella preghiera, quanto nella sua struttura giuridica.

1 Si censura anche il fatto che la ‘liturgia’ penitenziale prevale sulla ‘disciplina’ penitenziale. Qui si imponevano digiuni e preghiere e l’aiuto che si voleva dare ai peccatori lo si chiedeva a Dio nella preghiera.2 ADELMANNUS LEODIENSIS, Epistula ad Hermannum Coloniensem (R. B. C. HUYGENS (ed.), Textes latins du XIe au XIIIe siècle, «Studi Medievali», 3a serie, 8 (1967) 490).

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CAPO OTTAVO

LA RICONCILIAZIONE DEI PENITENTI SECONDO IL PONTIFICALE DI GUILLAUME DURAND

1. La penitenza alla fine del XIII secolo Nel XIII secolo già esiste la penitenza privata, o confessione, e su di essa ci sono anche delle

ricche trattazioni pastorali, come si vede bene nel Aureum confessorium. Inoltre bisogna ricordare che in quest’epoca la confessione viene celebrata anche come rito devozionale 1. Dunque, dopo il De sacramentis di Pietro Comestor (scritto tra il 1165 e il 1170), ci sono tre tipi di penitenza: accanto alla Penitenza privata, o confessione, per i peccati nascosti, di competenza del semplice sacerdote, c’è la Penitenza pubblica per i peccati gravi (omicidio o altro peccato “enorme”)2 e, come terza possibilità, c’è la Penitenza solenne. Questo rito della solenne riconciliazione dei penitenti ha per oggetto peccati pubblici o di grande rilievo sociale, come, ad esempio, omicidio, sacrilegio, incesto, infanticidio e «ogni colpa grave e orribile ... che avesse portato turbamento nella città, nel villaggio»3. Questa penitenza viene data all’inizio di quaresima, in quel giorno che prende il nome dal rito in questione e che si chiama, già a quell’epoca, mercoledì delle ceneri4.

E’ in questo quadro che va collocata la rielaborazione del rito della penitenza canonica del Pontificale di Guillaume Durand; ma perché deve esistere una penitenza solenne, se è già in funzione la penitenza privata e la penitenza pubblica? La penitenza solenne ha una funzione eminentemente sociale, che si esprime bene nell’incarcerazione che dura per tutta la quaresima, dal mercoledì delle ceneri al giovedì santo.

2. Il personaggio Guillaume Durand (1230-1296) è giurista, uomo di governo, vescovo, compositore di trattati

giuridici, di libri liturgici e di commenti alla liturgia. Nel 1280 fu rector e capitaneus generalis del Patrimonio di San Pietro in Tuscia. Tra il 1283 e il 1286 fu governatore della Romagna e rettore di Urbino e della vicina Massa Trabaria. Nel 1295-1296 mentre governava la Romagna con il titolo di conte, fu anche rettore della Marca Anconetana con il titolo di marchese 1. Il governo della Romagna ebbe una prima fase dal 1281 al 1283 nella quale egli fu vicarius in spiritualibus per secondare, con dei processi e sentenze giudiziarie, le censure spirituali2. A questo titolo egli si è interessato a tutte le questioni della politica italiana dell’ultimo quarto del XIII secolo3. La mente giuridica di Guillaume Durand è valutabile dallo Speculum iudiciale, che è un caposaldo della letteratura

1 Ne abbiamo buone testimonianze nella vita di Luigi IX che teneva due confessori sempre a sua disposizione, e che si confessava con grande frequenza, talvolta anche due volte al giorno (cf.: LE GOFF J., Saint Louis et la pratique sacramentelle, «La Maison-Dieu» 197 (1994) 99-124); cf. anche: . LE GOFF J., San Luigi, Einaudi, Torino 1996, pp. 633-640.2 LONGÈRE J., «La Pénitence selon le “Repertorium”, les Instruction et Constitutions, et le pontifical de Guillaume Durand», in: GY P.-M. (ÉD.), Guillaume Durand ..., p. 119.3 Ibidem.4 La liturgia della penitenza solenne ha inizio il mercoledì delle ceneri; vengono benedetti e i cilici e le ceneri, che vengono imposti ai penitenti, assieme alle penitenze.1 VASINA A., «Guillaume Durand recteur de Romagne», in: GY P.-M. (ÉD.), Guillaume Durand évêque de Mende (v. 1230-1296). Canoniste, liturgiste et homme politique, Actes de la Table Ronde du C. N. R. S., Mende 24-27 mai 1990, Editions du Centre national de la recherche scientifique, Paris 1992, p. 34.2 Ibidem, p. 39.3 VERGER J., «Les juristes languedociens et l’Italie au XIIIe siècle», in: GY P.-M. (ÉD.), Guillaume Durand ..., p. 48.

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procedurale canonica del XIII secolo, redatto a partire dal 1271-1272. L’uomo medievale concepiva il diritto come qualcosa di universale, valido per tutti gli uomini, articolato direttamente sulla giustizia di Dio4. In tal modo si spiega che è in quanto canonista che Durand mostra tutta la sua competenza liturgica, sia nella composizione del Aureum confessorium et memoriale sacerdotum, sia del Rationale divinorum officiorum (1286), sia nella redazione del Pontificale (1293-1295).

3. Il Rito della penitenza solenne Dall’Ordo del sacramentario Gelasiano ha origine nel 950 a Magonza il Pontificale romano-

germanico1 che ha inserito nel Rito per la riconciliazione dei penitenti alcuni elementi di drammatizzazione, secondo il gusto della cultura dell’epoca. Da qui al Pontificale di Guillaume Durand, composto tra il 1293 e il 12952, il passo è breve. In questo Pontificale infatti si completa la trasformazione dell’antico rito della riconciliazione dei penitenti in un vera e propria messa in scena dotata di grande ‘spettacolarità’: la riconciliazione dei penitenti viene celebrata, ma vorrei dire rappresentata, con grande effetto drammatico che sicuramente coinvolge e affascina i presenti.

La riconciliazione si svolge il giovedì santo a mezzogiorno, dopo che i sacerdoti hanno ascoltato le confessioni per tutta la mattina e hanno discusso con il vescovo di riconciliare i penitenti, visto che la penitenza prescritta è stata eseguita. La liturgia si svolge in duomo; nella navata ci sono i fedeli, mentre il vescovo e il clero si trovano nel coro, davanti all’altare, e i penitenti si trovano davanti alla porta della chiesa, prostrati con in mano un cero spento; la porta è chiusa. Tutta la chiesa è convocata ed è presente a questo rito liturgico.

La riconciliazione dei penitenti deve avere un grande impatto sociale; siamo nel XIII secolo: se è presente la chiesa, con tutte le sue componenti, è presente tutta la società; anche i santi sono presenti, attraverso le Litanie dei santi che sono state cantate appena il vescovo e il clero sono entrati in chiesa. Quando le Litanie dei santi sono giunte all’invocazione dei patriarchi e dei profeti3, che sono coloro che nell’Antico Testamento hanno annunciato il bisogno della conversione, il vescovo, che rappresenta Cristo, invia due suddiaconi alla porta della chiesa, con due candele accese, ad annunciare ai penitenti che il Signore non vuole la morte del peccatore, ma piuttosto che si converta e viva (Ez 18, 3 ). Spente le candele, i due suddiaconi ritornano presso il vescovo. Quando le litanie invocano i martiri, il vescovo invia altri due suddiaconi che cantano ai penitenti l’invito evangelico: fate penitenza, si è avvicinato il regno dei cieli. Spente le candele, ritornano dal vescovo. Quando le litanie sono alla fine, ossia al momento dell’Agnus Dei, il vescovo invia alla porta della chiesa un diacono anziano con un grande cero per cantare l’antifona Alzate il vostro capo poiché si è avvicinata la vostra redenzione. Dal cero del diacono vengono accese le candele dei penitenti; non viene spento il cero del diacono e questi torna dal vescovo. Terminate le litanie, il vescovo si alza con tutto il clero e si reca in mezzo alla navata, rivolto verso la porta. La scena è molto solenne. Un arcidiacono si rivolge al vescovo con una perorazione, simile a quella del Gelasiano, con la quale presenta al vescovo i penitenti come degni di assoluzione e di accoglienza avendo ben compiuta la penitenza. Allora il vescovo si reca in fondo alla chiesa, in mezzo alla porta, e fa un’esortazione ai penitenti sulla misericordia divina e su come essi debbano vivere da quel momento in avanti. Il vescovo torna in chiesa; dopo tre antifone e due genuflessioni si canta il salmo Benedirò il Signore in ogni tempo, e in quel momento i penitenti entrano in chiesa, in lacrime, e corrono a buttarsi ai piedi del vescovo, ove stanno fino alla fine del salmo. Un arciprete si rivolge al vescovo pregandolo di reintegrare nella chiesa i penitenti, e il vescovo gli risponde chiedendo se sa che i penitenti ne siano degni; ricevuta una risposta affermativa, c’è l’intervento di

4 NÖRR K. W., «A propos du “Speculum iudiciale” de Guillaume Durand », in: GY P.-M. (ÉD.), Guillaume Durand ..., p. 64.1 VOGEL C. - ELZE R. (ÉD.), Le Pontifical romano-germanique du Xème siècle, (= Studi e testi, 226 - 227 - 269), Tomes I - II - III, Città del Vaticano 1963-1972.2 ANDRIEU M. (ÉD.), Le pontifical romain..., p. 10.3 ANDRIEU M. (ÉD.), Le pontifical romain..., III, 2, 11-44 (pp. 560-569).

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un diacono che fa alzare i penitenti. Il vescovo allora prende un penitente per mano, mentre gli altri si tengono per mano a loro volta, e li conduce alla sua sede, ossia al faldistorio, in mezzo alla navata. Dev’essere stato di sicuro effetto il vedere questa catena umana guidata dal vescovo su su per la navata. Dopo il canto di un’antifona tratta dal racconto evangelico del figlio prodigo, il vescovo pronuncia l’assoluzione dei peccati: «Dio onnipotente ed eterno vi assolva da ogni legame dei peccati, affinché abbiate la vita eterna e viviate. Per nostro Signore Gesù Cristo ecc. Amen»4.

All’assoluzione dei peccati segue una lunga preghiera, a mo’ di prefazio. In questa preghiera, commemorata l’assoluzione dei peccati e fatta la citazione di alcuni personaggi dell’Antico Testamento, il vescovo chiede a Dio che i penitenti siano reintegrati nella chiesa: «Tuae ecclesiae gremio redde». Lo scopo è duplice, che il demonio non abbia a prevalere su di loro e che i penitenti assolti possano partecipare all’eucaristia. Dopo che il vescovo, il clero e i fedeli sono rimasti prostrati per i canti e per varie preghiere, il vescovo si alza in piedi, asperge con acqua benedette i penitenti e li incensa. Data loro un’indulgenza qualora lo abbia ritenuto opportuno, alza le mani e tenendole stese sui penitenti li benedice con la lunga formula della benedizione pontificale.

I penitenti sono ormai assolti e completamente reintegrati nella chiesa.

4. Conclusione a) La cosa che colpisce maggiormente in questo rito, è l’importanza del canto che è la linea

guida di questa liturgia, dall’inizio alla fine1. Il canto principale è la litania dei santi all’interno della quale ci sono alcune azioni rituali, come abbiamo visto. In seguito c’è il canto di alcuni salmi, studiatamente collocato in precisi momenti per drammatizzare il passaggio da un'unità rituale all’altra. Il vescovo, e anche gli altri ministri, talvolta si esprimono cantando delle antifone che, più che antifone, sono dei veri e propri proclami ai penitenti di ciò che il rito offrirà loro.

Non possiamo trascurare il grande effetto pedagogico ed educativo che questa spettacolarità può raggiungere. Già a partire dall’alto medioevo la liturgia è particolarmente legata alla cultura dell’immagine, ma non si pensi che ciò sia dovuto solo a ragioni culturali; il fatto è che la liturgia è qualcosa di difficile da comprendere. Questa è la ragione fondamentale. La soluzione viene cercata nella cultura del momento che è una cultura che coltiva il gesto e la sua simbologia 2. Di conseguenza la liturgia viene, talvolta, affiancata dal dramma liturgico, mentre altre volte vira essa stessa verso il dramma liturgico, e recepisce al suo interno alcuni caratteri drammatici che hanno una presa immediata sui fedeli3. Dobbiamo sottolineare la novità di Guillaume Durand: la forte drammatizzazione che accentua la carica emotiva che il rito già possiede di suo, e che diventa uno strumento di comunicazione molto efficace, anche se estraneo all’area della sacramentalità.

b) La liturgia della penitenza solenne, in questo Pontificale, è stata pensata appositamente per una pastorale sulla società. Il vescovo è un uomo pubblico e il rito è un atto pubblico che ristabilisce un legame tra i penitenti e la società. La liturgia, dunque, in quanto atto pubblico e ufficiale, consacra l’ordine sociale. Per Guillaume Durand la pubblicità dell’atto è ciò che ne garantisce l’efficacia. Questa è la testimonianza del Pontificale di Durand. Nessun altro libro è in grado di dirci con altrettanta chiarezza come le idee religiose reggono tutto l’edificio della società medievale4.

4 ANDRIEU M. (ÉD.), Le pontifical romain..., III, 2, 30 (p. 564).1 Non sappiamo che tipo di musica fosse usata, ma sappiamo bene che già all’inizio del tredicesimo secolo la liturgia ha recepito l’uso della polifonia: c’è una schola che canta i testi mentre i presenti partecipano ascoltando.2 Cf. SCHMITT J.-C., Il gesto nel medioevo, (= Società e storia), Laterza, Bari 1990.3 La Riconciliazione dei penitenti del Pontificale di Guillaume Durand è stata celebrata come dramma liturgico nel convegno di Viterbo del 1976, cf.: NOCENT A., «L’expression dramatique dans la liturgie de la réconciliation», in: CENTRO DI STUDI SUL TEATRO MEDIOEVALE E RINASCIMENTALE (ED.), Dimensioni drammatiche della liturgia medioevale, (= Atti del 1° Convegno di studio. Viterbo, 31 maggio, 1-2 giugno 1976), Bulzoni editore, Roma 1977, pp. 139-148.

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c) Dobbiamo ora chiederci che cos’è la liturgia della riconciliazione solenne dei penitenti nel Pontificale di Guillaume Durand. Certamente non è solo assoluzione dei peccati: per questo sarebbe bastata la penitenza privata. E’ qualcosa di diverso, sia perché riguarda i peccati che hanno avuto un’incidenza sociale, sia perché c’è un controllo pubblico e ufficiale sul come è stata fatta la penitenza, sia perché i peccatori con questo rito vengono reintegrati nella chiesa e nella società, anche se non completamente. La penitenza solenne è sacramentale e pertanto non può essere celebrata dai sacerdoti ma solo dal vescovo, perché essa si fonda non sul potere di giurisdizione bensì di ordine che, come tale, non può essere delegato. Come altri canonisti del XII secolo, a differenza dei teologi, Guillaume Durand sembra considerare la forma solenne della penitenza come l’unica forma sacramentale5.

Concludendo possiamo rilevare che in questa liturgia l’assoluzione dei peccati è nettamente distinta dalla riconciliazione con la chiesa, e che l’assoluzione dei peccati prevale nettamente sull’aspetto ecclesiologico della penitenza. Inoltre dobbiamo ricordare che alla penitenza solenne è connesso un certo quid di infamante6, e quindi la reintegrazione nella chiesa non è mai una piena riabilitazione. Questo rito, in definitiva, è più legato alla comunicazione dei simboli della riconciliazione che alla efficace e reale reintegrazione del penitente nella chiesa.

5. Il Pontificale romano postridentino Il concilio di Trento ha dato un’interpretazione dottrinale del rito della penitenza che è in asse

con l’evoluzione che abbiamo descritto: l’assoluzione dei peccati prevale nettamente su ogni altro aspetto della penitenza. La dottrina tridentina sulla penitenza si riflette nel Rituale Romanum del 1614 che come sacramento dell’assoluzione dei peccati offre solo il rito della confessione. La conversione del cuore ormai appartiene al privato, come fatto religioso interiore; i pentiti vengono assolti dai loro peccati con la confessione auricolare, che è un rito silenzioso e riservato ove viene protetta anche l’identità del penitente che incontra il sacerdote da dietro una grata. La penitenza solenne del Pontificale di Guillaume Durand sopravvive nel Pontificale Romanum di Innocenzo VIII (1485), ripubblicato in varie edizioni a stampa dopo il concilio di Trento. Questo rito, per la teologia dell’epoca, è ritenuto privo di valore sacramentale. In pratica è solo la reliquia di un rito ormai desueto, che il Pontificale Romanum recepisce per fedeltà storica alle proprie fonti liturgiche, allo stesso modo di come recepisce, ad esempio, il rito per armare un cavaliere.

Effettivamente il rito della penitenza solenne contenuto nel Pontificale Romanum non è usato né per l’assoluzione dei penitenti né per l’assoluzione dalla scomunica. E’ un rito che ormai appartiene al ‘dramma liturgico’ e che, se proprio lo si volesse utilizzare, potrebbe servire solo come cerimonia sociale e politica.

Ormai, dopo la riforma tridentina, questo rito ha un’esistenza soltanto letteraria.

4 ANDRIEU M. (ÉD.), Le pontifical romain au moyen âge., (= Studi e testi, 88), Tome 3: Le Pontifical de Guillaume Durand, Bibliotheca apostolica vaticana, Città del Vaticano 1940, p. IX.5 LONGÈRE J., «La Pénitence selon le “Repertorium”, les Instruction et Constitutions, et le pontifical de Guillaume Durand», in: GY P.-M. (ÉD.), Guillaume Durand ..., p. 119.6 Quando Luigi IX si fa crociato e va a ricevere dal vescovo il bordone e l’abito di penitente, suscita un forte stupore nei contemporanei che, sapendolo uomo virtuoso e alieno da ogni peccato, non comprendono che bisogno egli abbia di intraprendere quel rito di pubblica penitenza che è il cammino della crociata.

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CAPO NONO

LA PENITENZA NELL’INSEGNAMENTO DI ALCUNI PADRI DELLA CHIESA ORIENTALE

Sappiamo veramente poco della prassi penitenziale della chiesa dei primi secoli. Inizialmente, tanto in Oriente quanto in Occidente, abbiamo la penitenza ecclesiastica con usanze molto simili tra loro. Questo vale anche per il terzo e quarto secolo, quando la chiesa assume una forma più istituzionale. In Oriente, soprattutto per la Siria e l’Egitto, si deve rilevare: a) il ruolo prevalente del vescovo; b) l’assenza di tassazione; c) la mancanza di un Ordine dei penitenti; d) il carattere pubblico della riammissione alla vita della comunità.

1. Premessa Gregorio il Taumaturgo, vescovo di Neocesarea (†270)1 è l’iniziatore di quel cammino che,

poi, darà origine alla penitenza canonica. Tuttavia, bisogna notare che, nell’evoluzione dei canoni penitenziali, c’è un progressivo addolcimento delle norme perché il principio della misericordia verso il peccatore e della terapia della malattia spirituale prevale su ogni altra considerazione. Questo si vede soprattutto quando il numero di coloro che commettono un determinato peccato è troppo grande; in questo caso c’è un addolcimento della disciplina penitenziale in merito2. Questo non è il principio del ‘lasciar correre’ ma dell’attenzione evangelica verso chi è più bisognoso di aiuto e che, come primo passo, va accettato. E’ in questa chiave che va capita la maggior misericordia mostrata da Basilio nelle lettere canoniche ad Anfilochio, vescovo di Iconio, rispetto ai precedenti canoni3. C’è anche una frase di Giovanni Crisostomo (345/354-407), con la quale egli si attirò notevoli critiche: «Anche se hai fatto penitenza mille volte, vieni» 4. A Crisostomo non interessa tanto la lunghezza dello spazio temporale, ma la correzione dell’animo 5. La misericordia contenuta nelle lettere canoniche di Basilio, sarà posta alla base di ogni successiva normativa penitenziale.

Le differenze nascono in Occidente, dal quarto secolo alla metà del quinto, quando la penitenza assume carattere sempre più giuridico, ma soprattutto dalla metà del quinto secolo alla fine del sesto, quando la penitenza si riduce sempre più ai suoi aspetti rituali 6. Fino al quarto secolo gli aspetti rituali non sono il costitutivo formale della penitenza occidentale come, invece, accadrà in epoche successive.

L. Ligier afferma che non è facile stabilire quando avvenne il passaggio, in Oriente, dalla penitenza ‘canonica’ a quella privata. Nel secolo dodicesimo, infatti, i grandi commentatori del

1 L’Epistola canonica di Gregorio di Neocesarea è edita in: J. B. PITRA, Iuris ecclesiastici Graecorum historia et monumenta, Tomo 1, Typis Collegii urbani, Romae 1864, pp. 562-566; il testo dell’Epistola è pubblicato anche nella Patrologia graeca, accompaganto dagli scholia di Zonaras e Balsamone (MIGNE J.-P. (ed.), Patrologiae cursus completus. Series graeca, Parisiis 1857-1866, Vol. 10, coll. 1019-1045).2 «De his praeter necessitatem praevaricati sunt aut praeter ablationem facultatum aut praeter periculum vel aliquid huiusmodi, quod factum est sub tirannide Licinii, placuit synodo, quamquam humanitate probentur indigni, tamen eis benevolentiam commodari» (Concilio di Nicea (325), can. 11).3 Come, ad esempio, i canoni del concilio di Ancira (314).4 SOCRATE, Storia ecclesiastica, 6, 21 (MIGNE J.-P. (ed.), Patrologiae … Series graeca, Vol. 67, col. 728).5 Omelia 14 (J.-P. MIGNE (ed.), Patrologiae … Series graeca, Vol. 61, col. 502). 6 M.-F. BERROUARD, La pénitence publique durant les six premiers siècles. Histoire et sociologie, «La Maison-Dieu», 118 (1974) 92-130.

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diritto orientale – Aristenos, Zonaras, Balsamone – commentano i canoni della penitenza pubblica (concilio di Ancira, Nicea, lettere canoniche di Basilio, etc.) come se fossero ancora in uso al loro tempo7. Egli dice che il passaggio, non ancora compiuto nel secolo sesto, forse iniziato nel settimo, sembra che vada collocato tra l’ottavo e il nono secolo8. E’ in questo periodo, infatti, che appaiono i primi libri penitenziali9. Bisogna però sottolineare che c’è diretta continuità tra la penitenza pubblica e la penitenza privata. Un elemento caratteristico della continuità è l’uso delle epitimie (pene, castighi), regolato dalla chiesa, che sono un compromesso tra quelle della penitenza pubblica e quelle dei monasteri; quanto alla durata, tendono ad essere in linea con il precedente regime penitenziale, mentre per il tipo di azioni da compiere, sono legate agli usi monastici 10. Dalla domanda di Atanasio Sinaita († 700) sul modo in cui un peccatore, che non sia monaco, possa ottenere il perdono delle colpe si può inferire che la penitenza privata mira a estendere ai laici i benefici della prassi monastica in materia11. Teodoro Studita (759-826) ha composto una serie di canoni sulla confessione e sulle corrispettive epitimie12, ma non ha trasmesso alcun rito. Dobbiamo quindi pensare che il rito non avesse ancora una struttura determinata e, ancor meno, fissata in modo giuridico.

2. Basilio Nell’anno 373 o 374 Anfilochio viene ordinato vescovo di Iconio. E’ un amico di Basilio e

questi lo tiene in grande considerazione. Anfilochio ha scritto a Basilio chiedendogli di illustrare la prassi penitenziale della chiesa e Basilio risponde con una serie di lettere, dette appunto canoniche, che riportano le penitenze per i vari tipi di peccati. Se questi elogia Anfilochio per il suo desiderio di conoscere gli usi penitenziali, significa che questi canoni, anche se tradizionali, non avevano avuto una grande diffusione e non erano molto noti. Questo ci fa pensare che l’applicazione della penitenza canonica non fosse così diffusa e che rappresentasse, tutto sommato, un’eccezione nella vita normale di queste chiese. Basilio non è il creatore di queste norme: è solo testimone di una prassi che è già nota da Gregorio il Taumaturgo e dal Concilio di Nicea; è probabile però che egli abbia interpretato questa prassi in senso più pastorale. Basilio, infatti, non si limita a riportare la norma della tradizione ma la illustra con un suo breve commento.

Per dare un’idea dello spirito e della logica della penitenza orientale, occorre citare qualche esempio tratto da alcuni di questi canoni. L’omicidio involontario è punito con una penitenza di undici anni1 e quello volontario con una pena di venti2. Nella lettera 188 si parla di chi ha contratto terze nozze: «Noi abbiamo preso l’abitudine di allontanare coloro che hanno contratto terze nozze per cinque anni, e questo non in obbedienza ai canoni, ma per accondiscendenza alla tradizione»3.

Ancora nella lettera 188 si esamina il caso di chi uccide il feto (can. 2). Dopo aver argomentato sull’equiparazione di questo delitto all’omicidio, si conclude che la penitenza sia di

7 L. LIGIER, Introduzione alla liturgia del sacramento della penitenza in Oriente, Roma (pro manuscripto) 1968, p. 60.8 Ibidem, p. 61.9 E. HERMANN, Il più antico Penitenziale greco, «Orientalia Christiana Periodica» 19 (1952) 71-127.10 Cf.: TEODORO STUDITA, Pene monastiche (J.-P. MIGNE (ed.), Patrologiae … Series graeca, Vol. 99, col. 1733-1736). 11 L. LIGIER, Dimension personnelle et dimension communautaire de la pénitence en Orient, «La Maison-Dieu» 90 (1967) 162s.12 Pene monastiche, in: J.-P. MIGNE (ed.), Patrologiae … Series graeca, Vol. 99, col. 1733-1758. 1 Lettera 188, can. 11 (Y. COURTONNE (éd.), Saint Basile. Lettres, Tome 2, (= Collection des Universités de France. Publiée sous le patronage de l'Association Guillaume Budé), Société d’édition “Les Belles Lettres”, Paris 1961, p. 130).2 Lettera 217, can. 56 (Y. COURTONNE (éd.), Saint Basile …, Tome 2, p. 210).3 Lettera 188, can. 4 (Y. COURTONNE (éd.), Saint Basile …, Tome 2, p. 125).

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dieci anni. Subito dopo, però, si aggiunge: «Non sul tempo, ma sull’intensità del pentimento si misura se un’anima è sanata»4. Nel can. 1, parlando del come vadano trattati gli Encratiti, Basilio conclude: «Se poi questa prassi fosse contraria al buon andamento generale, occorrerà nuovamente rifarsi alla consuetudine e seguire le disposizioni che ci hanno lasciato i Padri»5. Il caso più interessante sull’applicazione della tradizione dei Padri, anche di fronte alle difficoltà poste dalla norma, è il caso del diverso trattamento tra uomo e donna nel caso di adulterio: «La donna accoglierà il marito che ritorna dall’aver commesso fornicazione; il marito, invece, scaccerà dalla propria casa la donna che si è macchiata. La ragione di queste norme non è facile a spiegarsi, ma la consuetudine vuole così»6.

Come abbiamo visto nell’ultimo caso, la forza della norma non sta né nella sua logica intrena, né nel fatto che sia stata promulgata, bensì nella tradizione che la sorregge. La tradizione, poi, è sempre da valutare e va accolta con discernimento. Basilio non conosce la rigidità giuridica della norma; per lui l’applicazione della pena comporta sempre una grande saggezza pastorale.

E’ questa la grande differenza tra i canoni di Basilio e le norme canoniche che, negli stessi anni, vengono emanate in Occidente.

Dobbiamo sottolineare che il vescovo, per poter assegnare la penitenza, deve conoscere quale sia il peccato in questione. Lo può conoscere in vari modi, o perché si tratta di un fatto notorio, di cui tutti sono a conoscenza, oppure perché qualcuno gli ha comunicato il fatto, oppure perché il peccatore stesso si è recato dal vescovo e si è confidato con lui. Non è necessario che ci sia la confessione del peccatore. Tuttavia una delle modalità della penitenza comporta una confessione, come pubblica umiliazione e richiesta che gli altri fedeli preghino per il peccatore. E’ il caso di chi, ad esempio, ha commesso un omicidio volontario; nei vent’anni di penitenza, c’è il primo periodo di quattro anni in cui il penitente dovrà piangere, ritto fuori dalla porta della casa di preghiera, confessando il proprio peccato e chiedendo ai fedeli che entrano di pregare per lui 7. La confessione del peccato fa parte della penitenza ma, in ogni caso, non appartiene alla struttura essenziale del rito. E’ solo un elemento delle opere penitenziali.

3. A Costantinopoli durante gli episcopati di Nettario e di Giovanni Crisostomo

Socrate, nella sua Storia della chiesa, ricorda un episodio accaduto sotto Nettario vescovo di Costantinopoli (381-397)1. Una nobildonna si recò presso il presbitero addetto alla penitenza e gli confessò dettagliatamente tutti i suoi peccati. Tra le colpe accusate c’era anche una relazione illecita con un diacono. A causa di questo fatto, il diacono venne escluso dal ministero e ciò portò grande turbamento nella comunità. Il presbitero Eudaimone, originario di Alessandria, si presentò a Nettario per suggerirgli una soluzione che avrebbe potuto evitare il ripetersi di tali deprecabili incidenti per il futuro. Egli suggerì di sopprimere la funzione del presbitero “(incaricato) della penitenza”, permettendo «a ciascuno di partecipare ai santi misteri secondo il giudizio della propria coscienza»2. Effettivamente il patriarca Nettario ha soppresso la carica di penitenziere ufficiale e il suo successore, Giovanni Crisostomo (398-407), non l’ha ripristinata; in ogni caso, questi non affronta mai direttamente la questione della penitenza canonica, nelle sue omelie3. Da questo

4 Lettera 188, can. 2 (Y. COURTONNE (éd.), Saint Basile …, Tome 2, p. 124).5 Lettera 188, can. 1 (Y. COURTONNE (éd.), Saint Basile …, Tome 2, p. 123).6 Lettera 199, can. 21 (Y. COURTONNE (éd.), Saint Basile …, Tome 2, p. 158).7 Lettera 217, can. 56 (Y. COURTONNE (éd.), Saint Basile …, Tome 2, p. 210).1 Cf.: F. VAN DE PAVERD, Possibilità di autoriconciliazione. Testimonianze dell'Oriente cristiano, «Concilium», 23 (1987/2) 306-316.2 SOCRATE, Storia ecclesiastica, 5, 19 (J.-P. MIGNE (ed.), Patrologiae … Series graeca, Vol. 67, col. 617). 3 M. ARRANZ, «La liturgie de l’Euchologe slave du Sinaï», in: E. G. FARRUGIA - R. F. TAFT - G. K. PIOVESANA (ed.), Christianity among the Slavs. The Heritage of Saint Cyril and Methodius, Acts of the International Congress held on the Eleventh Centenary of the Death of St.

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episodio sembra che la confessione dettagliata delle colpe sia un’azione di devozione e che non sia parte costitutiva del rito. Per Crisostomo, un peccatore che partecipi alla liturgia della chiesa senza essere debitamente pentito, è in una situazione ancora più grave di un penitente che partecipa alla liturgia senza aver ancora terminato il periodo penitenziale4. Questo autore raccomanda spesso a tutti di confessare i propri peccati, ma non è necessario confessarli al ministro della penitenza; è sufficiente confessarli a Dio. Anzi, tra le varie incombenze del sacerdote, che Crisostomo elenca in numero di diciassette, non compare mai l’ascolto della confessione dei peccati. In questo quadro è perfettamente comprensibile l’episodio accaduto sotto Nettario, di cui Giovanni Crisostomo è successore diretto.

4. Teodoro di Mopsuestia Nella XVI Omelia catechetica di Teodoro di Mopsuestia, ci sono molti dati sulla penitenza. E’

un fatto ben conosciuto già da quando Mingana fece l’edizione di quelle omelie 1; successivamente, I. Oñatibía ha fatto uno studio sulla dottrina di Teodoro sulla penitenza ecclesiastica 2. Egli è testimone degli usi della sua epoca, e li espone all’interno della sua dottrina escatologica. Una dottrina che concepisce in modo molto particolare sia la redenzione che gli uomini conseguono in questa vita, sia i riti liturgici che donano i beni della salvezza. Tutto questo non è altro che partecipazione dei beni futuri che saranno acquisiti solo con la risurrezione dei morti. Il battesimo, ad esempio, è la nascita alla vita nuova ma è solo la prima nascita; la nascita vera e definitiva ci sarà solo con la risurrezione dai morti, ma perché questo avvenga, è necessario che la vita morale del cristiano abbia fatto crescere quei germi della risurrezione che il battesimo ha impiantato in ogni persona3. Il sacramento è paragonato al concepimento e la risurrezione alla nascita. Tuttavia, entrambi vengono chiamati ‘nascita’: la prima avviene con la liturgia battesimale, la seconda con la risurrezione dei morti, ossia nell’escatologia. In mezzo, tra le due, c’è la crescita, ossia la ‘formazione’ del prodotto del concepimento: senza questa maturazione non si possono avere i beni promessi ossia la redenzione. Nel pensiero di Teodoro il sacramento da solo non è mai sufficiente: bisogna che intervenga quell’impegno cristiano, che è proprio della vita vissuta.

Questo modo di impostare la questione lo troviamo anche nella concezione della penitenza. Anzi, in questo settore, le opere penitenziali sono l’elemento più importante dato che, in quest’epoca, l’istituto penitenziale non ha una ritualità molto sviluppata. In ogni caso, la redenzione perfetta si avrà solo con la risurrezione dai morti, quando l’uomo riceverà i doni escatologici dell’immortalità, impassibilità, incorruttibilità e immutabilità. Solo a questo punto egli sarà salvo dal peccato, perché ormai incapace di peccare.

Ciò che viene prima, nella vita terrena, è tipo, figura e immagine di questa realtà futura, sia ontologicamente sia come programma di vita: secondo il comando del Signore, il cristiano deve modellarsi «sulla vita immortale»4.

Methodius. Rome, October 8-10, 1985, under the direction of the Pontifical Oriental Institute, (= Orientalia christiana analecta, 231), Pontificio Istituto Orientale, Roma 1988, p. 51.4 Omelia 3, De Davide et Saule (J.-P. MIGNE (ed.), Patrologiae … Series graeca, Vol. 54, col. 695s). 1 A. MINGANA (ed.), Commentary of Theodore of Mopsuestia on the Lord's Prayer and on the Sacraments of Baptism and the Eucharist, (= Woodbroke Studies, 6), Cambridge 1933.2 I. OÑATIBÍA, «La doctrina de Teodoro de Mopsuestia sobre la penitencia eclesiastica», in: P. GRANFIELD - J. A. JUNGMANN (Hrsg.), Kyriakon. Festschrift Johannes Quasten, Vol. 1, Verlag Aschendorff, Münster Westf. 1970, pp. 427-440.3 E. MAZZA, «Liturgie, eschatologie et vie chrétienne dans les Catéchèses de Théodore de Mopsueste», in: A. M. TRIACCA - A. PISTOIA (ed.), Liturgie, éthique et peuple de Dieu, (= Conférences Saint Serge. XXXVIIe Semaine d’études liturgiques, Bibliotheca Ephemerides liturgicae. Subsidia, 59), Edizioni liturgiche CLV, Roma 1991, pp. 219-238. Si veda anche: I. OÑATIBÍA, La vida cristiana, tipo de las realidades celestes. Un concepto básico de la teología de Teodoro de Mopsuesta, «Scriptorium victoriense», 1 (1954) 100-133.

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Peccati irremissibili non ce ne sono per Teodoro, eccezion fatta per il peccato contro lo Spirito, che non è un genere di peccato, ma un atteggiamento interiore che consiste nel rigettare per sempre la legge di Dio. Teodoro parla spesso dei «peccati involontari»5 che non sono da equiparare ai peccati veniali delle odierne classificazioni.

La remissione delle colpe si ottiene anzitutto con la recitazione del Padre nostro, per porre rimedio ai danni che quotidianamente fanno in noi le passioni6. I pontefici hanno il compito di amministrare la penitenza7, nel senso che debbono dare le medicine necessarie perché il peccatore possa guarire dal peccato. In questa prospettiva, il pontefice è chiamato medico 8 ed è considerato come un ‘esperto’ che conosce i rimedi che Dio ha affidato alla sua chiesa e che egli deve usare secondo la disciplina e la prudenza ecclesiastica9. Teodoro, dunque, conosce le norme della chiesa sui vari peccati e conosce anche le doti di moderazione, longanimità, pazienza e capacità pastorale che il pontefice deve utilizzare nel correggere e reprimere10. La prima misura che si prende verso il peccatore è la scomunica. Il pontefice deve, soprattutto, essere capace di dare consolazione dopo che il peccatore ha accettato le decisioni della chiesa11.

Il peccatore deve riconoscersi tale e deve recarsi con fiducia dal pontefice e manifestare il proprio peccato12. Certamente questa è una confessione, ma non dobbiamo interpretarla come la confessione della prassi occidentale dato che, nella descrizione di Teodoro, il peccatore va a confidarsi dal ‘medico’ per ricevere una penitenza che lo guarisca. In questa ottica si comprende perché Teodoro insista tanto sulla conversione del cuore13; da qui nasce il giusto atteggiamento del penitente che accetterà la penitenza che il vescovo gli imporrà14.

Quando il peccatore ha terminato il tempo di penitenza assegnatogli e si è emendato dalle sue colpe15, il pontefice lo riammette alla vita della chiesa. Questo atto consiste nel togliere la scomunica in modo da poter accedere di nuovo all’eucaristia. E’ l’esecuzione della penitenza che provoca il perdono dei peccati: «(San Paolo) comandò che egli (ossia il peccatore) tornasse alla sicurezza16 che aveva precedentemente, dato che aveva ricevuto una ‘correzione’ e si era emendato, e per mezzo di una severa penitenza aveva ricevuto il perdono dei suoi peccati»17. E’ proprio la penitenza correttamente eseguita ciò che procura la remissione delle colpe: «Per mezzo di questa correzione ricevono il perdono delle loro colpe e si liberano della minaccia del castigo eterno per il mondo a venire»18. Il perdono delle colpe riporta il penitente alla grazia battesimale che aveva

4 Omelie catechetiche, 11, 14 (R. TONNEAU - R. DEVREESSE (éd.), Les homélies catéchétiques de Théodore de Mopsueste, (= Studi e testi, 145), Bibliotheca apostolica vaticana, Città del Vaticano 1949, p. 309).5 Omelie catechetiche, 11, 2 (R. TONNEAU - R. DEVREESSE (éd.), Les homélies catéchétiques..., p. 285); 11, 4 (Ed. cit., p. 291); 11, 15; (Ed. cit., p. 315); 11, 17 (Ed. cit., p. 319); 16, 34; (Ed. cit., p. 589); 16, 35; (Ed. cit., p. 591).6 Omelie catechetiche, 11, 12 (Ed. cit., pp. 305-307).7 Omelie catechetiche, 12, 11 (Ed. cit., p. 339).8 «Pose i pontefici come medici delle colpe, affinché per loro mezzo, ricevendo quaggiù la cura e il perdono dei peccati, noi siamo liberi dalla punizione futura» (Omelie catechetiche, 16, 44 (Ed. cit., p. 603). 9 Omelie catechetiche, 16, 39 (Ed. cit., p. 597).10 Omelie catechetiche, 16, 40 (Ed. cit., p. 599).11 Omelie catechetiche, 16, 41 (Ed. cit., p. 599).12 Omelie catechetiche, 16, 44 (Ed. cit., p. 603).13 Omelie catechetiche, 16, 44 (Ed. cit., p. 603); 16, 34 (Ed. cit., p. 589)14 Omelie catechetiche, 16, 42-44 (Ed. cit., pp. 599-603).15 Omelie catechetiche, 16, 44 (Ed. cit., p. 603).16 E’ quella parrhsi/a che gli permette di accostarsi di nuovo alla eucaristia (Omelie catechetiche, 16, 38, in: Ed. cit., p. 595).17 Omelie catechetiche, 16, 42 (Ed. cit., p. 601). 18 Omelie catechetiche, 16, 43 (Ed. cit., p. 603).

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precedentemente; il perdono è dono dello Spirito santo che «come il fuoco che distrugge le spine, coprirà sicuramente i nostri peccati»19.

Teodoro non ci dà alcuna informazione, come riconosce anche Ignatio Oñatibía, sugli aspetti rituali della penitenza: non c’è alcuna notizia su di un eventuale rito liturgico che dia l’assoluzione dei peccati; quindi l’atto della chiesa che riammette il penitente all’eucaristia, può essere fatto in qualsiasi modo; non è necessario che sia una formula di perdono dei peccati.

Abbiamo appena detto che in Teodoro non ci sono informazioni sull’aspetto rituale della penitenza. Questo è vero se intendiamo parlare di una eventuale liturgia della penitenza, ma non è più vero se parliamo della liturgia in genere, dato che Teodoro commenta ampiamente la comunione eucaristica come purificazione dell’uomo.

All’inizio delle omelie sul battesimo e sull’eucaristia, c’è un Rituale o Ordo che norma la liturgia di quelle chiese. Le omelie di Teodoro sono un commento alla liturgia di questo Rituale, tenendo conto delle aggiunte e degli sviluppi sopravvenuti nel tempo. Il Rituale descrive l’eucaristia della chiesa come tipo e partecipazione della liturgia celeste. Il ‘modello’ dell’eucaristia è la liturgia angelica descritta dal Sanctus. Per questo Rituale, il Sanctus è il culmine dell’anafora ossia della preghiera eucaristica. Quando Teodoro commenta il Rituale, cita ampiamente Is 6, 3ss., ossia la visione di Isaia che, rapito nei cieli, contempla il Signore al centro della liturgia angelica. Di fronte a tale visione, il profeta si sentì perduto, perché uomo dalle labbra impure. Allora uno dei Serafini volò verso di lui, tenendo con delle molle un carbone ardente che aveva preso dall’altare. Avvicinò il carbone ardente alle labbra di Isaia e lo purificò facendo scomparire la sua iniquità ed espiando il suo peccato.

Teodoro applica gli elementi di questa visione alla comunione eucaristica, cosicché il carbone ardente è il pane eucaristico e il Serafino è il pontefice. Il Serafino non può toccare con le mani nude il carbone ardente: per non restarne ustionato egli deve utilizzare delle molle. Il pontefice è nella stessa situazione, eppure egli tocca con le mani l’eucaristia; lo può fare perché egli ha ricevuto l’ordinazione a pontefice e questa gli permette, come le molle del Serafino, di prendere l’eucaristia e di porgerla al fedele. Dal contatto con l’eucaristia, il fedele viene purificato da ogni colpa e il suo peccato viene espiato20, fosse anche un grande delitto.

5. Conclusione Abbiamo dato qualche esempio di come venga intesa la penitenza in area orientale; si tratta

solo di sondaggi qua e là, non di una indagine completa, ma ciò è sufficiente per concordare con la seguente conclusione di Miguel Arranz: «Non sembra che sia esistita un’assoluzione rituale (né i Padri né i manuali apostolici ne fanno cenno), ma una volta compiuto sotto il controllo del clero (anche dei diaconi) il tempo stabilito dall’economo della penitenza (il vescovo), il penitente era riammesso alla comunione»1.

Inoltre dobbiamo tener presente il quadro generale della situazione, descritto dal compianto Georg Wagner, già arcivescovo ortodosso di Parigi. Egli ha formulato l’ipotesi che la penitenza canonica, alla fine del IV secolo, fosse in una situazione di crisi dovuta alle difficoltà di applicazione nelle grandi comunità urbane2.

19 Omelie catechetiche, 16, 37 (Ed. cit., p. 595). 20 Omelie catechetiche, 16, 36-37 (Ed., pp. 591-595). 1 M. ARRANZ, Penitenza bizantina, Ad usum privatum, Pont. Istituto Orientale, Roma 1999, p. 15.2 G. WAGNER, «Bußdiziplin in der Tradition des Ostens», in: A. M. TRIACCA - A. PISTOIA (éd.), Liturgie et rémission des péchés, (= Bibliotheca Ephemerides liturgicae. Subsidia, 3), Edizioni liturgiche, Roma 1975, pp. 251-264.

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CAPO DECIMO

LA LITURGIA PENITENZIALE DEGLI EUCOLOGI BIZANTINI SECONDO M. ARRANZ

Da circa trent’anni il gesuita Miguel Arranz studia sistematicamente gli eucologi bizantini, trascrivendo i testi, descrivendone i manoscritti e, per quanto possibile, la storia. Il lavoro non è ancora completo e, di conseguenza, non c’è ancora una sintesi chiara dei riti contenuti in questi libri liturgici. Nondimeno, si vede già qual è la linea tendenziale di sviluppo ed è possibile trarre qualche conclusione sulla liturgia della penitenza, se pure in abbozzo. Nei suoi articoli M. Arranz ha raccolto un grande numero di preghiere della liturgia della penitenza – praticamente tutto ciò che egli ha trovato nei manoscritti –, non tanto per il grande valore intrinseco di questi testi, quanto per mostrare il grado di libertà creativa che è esistito tra il padre spirituale e il penitente 3. Seguiremo l’itinerario delle ricerche di Arranz.

L’eucologio antico non conosceva alcuna acolouthia (ordo) per la penitenza, ma non dobbiamo stupircene dato che, nella vasta area degli usi penitenziali, ci sono altri casi in cui manca il rito. Mi riferisco alla riammissione degli eretici e dei rinnegati 4. Accanto a questi ci sono le pratiche della vita monastica che in vari momenti ricorre alla penitenza, sia al momento dell’ingresso nel monachesimo sia durante la giornata stessa. Inoltre non bisogna dimenticare che il vespro ha un carattere specificamente penitenziale5. Il carattere penitenziale è attestato anche per l’orthros nel monachesimo studita6 e per la compieta7.

1. L’Eucologio ‘antico’: i principali testimoni Intendiamo rifarci all’Eucologio ‘antico’ o ‘patriarcale’, così definito perché i suoi riti

supponevano la presenza del patriarca di Costantinopoli. I manoscritti vanno dal VIII al XIII secolo. Da questi, poi, sarebbero stati copiati degli eucologi ad uso di un presbitero, ma in questo caso mancano i riti patriarcali.

Appartengono al genere ‘patriarcale’ i seguenti eucologi manoscritti completi: cod. Barberini gr. 3361, del VIII secolo; eucologio di Porfirio Uspensky, cod. Leningrado gr. 2262, del X secolo; cod. Sevastianov gr. 474 (ora gr. 270)3, del X o XI secolo; cod. Sinaitico slavo 959, del XI secolo; eucologio di Strategios, cod. Coisilin gr. 2134, del 1027; eucologio di Bessarione, cod.

3 M. ARRANZ, Les prières pénitentilles de la tradition byzantine. Les sacrements de la restauration de l'ancien Euchologe Constantinopolitain (II-2; 2ème partie), «Orientalia christiana periodica», 57 (1991) 311.4 M. ARRANZ, «Evolution des rites d’incorporation et de réadmission dans l’église selon l’Euchologe byzantin», in: A. M. TRIACCA - A. PISTOIA (éd.), Gestes et paroles dans les diverses familles liturgiques, (= Bibliotheca Ephemerides liturgicae. Subsidia, 14), Centro liturgico vincenziano, Roma 1978, pp. 70-71.5 G. WINKLER, «L’aspect pénitentiel dans les Offices du soir en Orient et en Occident», in: A. M. TRIACCA - A. PISTOIA (éd.), Liturgie et rémission des péchés, (= Bibliotheca Ephemerides liturgicae. Subsidia, 3), Edizioni liturgiche, Roma 1975, pp. 273-293.6 Regola 22 (J.-P. MIGNE (ed.), Patrologiae … Series graeca, Vol. 99, col. 1711). Qui si dà spazio al colloquio del monaco con il padre spirituale; all’orthros, all’inizio del quarto inno, questi esce dal coro per sedersi e ascoltare il monaco. 7 Secondo L. Ligier la compieta bizantina fornisce il quadro dello sviluppo liturgico della penitenza di questa chiesa (L. LIGIER, Dimension personnelle et dimension communautaire de la pénitence en Orient, «La Maison-Dieu» 90 (1967) 164-167).1 Biblioteca Vaticana.2 Biblioteca pubblica statale di Leningrado.3 Biblioteca statale Lenin di Mosca.4 Bibliothèque nationale de Paris.

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Grottaferrata gr. G. b. 1, della fine del XI o del XII secolo; cod. Atene gr. 6625, che ha delle particolarità (assenza dell’ufficio asmatikos) che lo collocano dopo il 1204 (caduta di Costantinopoli), mentre altri riti (unzione imperiale) lo collocano prima del 1208, ma contiene anche dei riti (ufficio monastico) che hanno origine con la restaurazione dell’ufficiatura bizantina a Costantinopoli nel 12616.

Il codice ‘Bessarione’ è l’eucologio patriarcale ‘tipo’7. Non possiamo dire che questo libro liturgico sia stato adoperato dal patriarca in persona ma si può ritenere che sia stato copiato da un ‘vero’ eucologio patriarcale che a noi non è pervenuto. Qui si pone una questione capitale, ossia se sia mai esistito l’eucologio patriarcale in quanto tale. Arranz dice che tutto lascia pensare che non sia mai esistito un codice di tale fatta; invece sarebbero esistiti tanti libretti o meglio ‘rotoli’, o kontakia, di cui parla anche il codice di Strategios, per ogni ufficiatura che il patriarca celebrava. Dopo aver dato ampia documentazione in merito, Arranz prosegue dicendo che gli eucologi che sono in nostro possesso, sarebbero solo delle raccolte, più o meno private, ad uso dei chierici di secondo piano, che avevano bisogno di avere tutte le ufficiature a portata di mano. Questi eucologi, dunque, sarebbero una sorta di vade mecum8, anche se di altissimo livello. Ciascuno dei tre eucologi più significativi (Bessarione, Strategios, Atene gr. 662) ha raccolto nei suoi fogli tutto ciò che il suo proprietario, o lo scriba, ha voluto selezionare dai kontakia, e lo ha messo nell’ordine che riteneva migliore, lasciando da parte tutto ciò che non serviva al suo interesse9.

Dopo aver precisato la natura e il valore documentario degli eucologi in nostro possesso, passiamo alla loro testimonianza sulla penitenza.

2. La penitenza negli eucologi della Grande Chiesa Come ho già detto, l’antico eucologio costantinopolitano non aveva alcuna akolouthia o

ufficio della confessione1: non aveva che due sole preghiere propriamente penitenziali. Una per “coloro che sono in penitenza” (tw=n metanoou/ntwn), che iniziava con un’allusione al perdono accordato ai re Davide e Manasse2; un’altra per coloro che “si confessano” (tw=n e)xomologoume/nwn), fondata sul valore penitenziale delle lacrime di Pietro e della peccatrice3.

La prima appartiene al tipo K1, secondo la catalogazione di Arranz 4; queste preghiere appartengono a un’epoca in cui era ancora in vigore l’antica penitenza dei Padri5, ossia la cosiddetta penitenza pubblica. In questa preghiera6 si commemora il perdono dato ai re Davide e Manasse,

5 Biblioteca nazionale di Atene.6 M. ARRANZ, Les sacrements de l’ancien Euchologe constantinopolitaine. 1. Etude préliminaire des sources, «Orientalia christiana periodica» 48 (1982) 316.7 M. ARRANZ, Les sacrements de l’ancien Euchologe constantinopolitaine. 1. ... p. 314.8 M. ARRANZ, Les sacrements de l’ancien Euchologe constantinopolitaine. 1. ... p. 321 e 330. 9 M. ARRANZ, Les sacrements de l’ancien Euchologe constantinopolitaine. 1. ... p. 332.1 M. ARRANZ, Les prières pénitentilles de la tradition byzantine…, 57 (1991) 89. 2 Sembra che questa preghiera supponga che si sta iniziando un periodo di penitenza con la privazione della comunione.3 Questa preghiera precede o segue una confessione dopo la quale c’è un periodo di penitenza.4 M. ARRANZ, Les prières pénitentilles de la tradition byzantine…, 58 (1992) 78-82.5 M. ARRANZ, Les prières pénitentilles de la tradition byzantine…, 58 (1992) 79.6 Ecco il testo del VIII secolo, catalogato da Arranz come K1:1b: «Preghiera sui penitenti. O Dio nostro salvatore, che per Natan tuo profeta hai dato la remissione a Davide che si pentiva (metanoh/santi) delle sue colpe, e che hai accettato la preghiera di penitenza (e)pi\ metanoi/#) di Manasse: tu stesso accogli il tuo servo N., che si pente delle proprie colpe, secondo la tua abituale filantropia, ignorando le sue offese, tu infatti, o Signore, sei colui che ha ordinato di perdonare coloro che cadono nel peccato anche settanta volte sette, poiché la tua pietà è come la tua grandezza e tu sei il Dio di chi si pente pentendoti (tw=n

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mettendo in evidenza il valore della preghiera di chi si pente; qui si fa appello alla filantropia divina e alla frase evangelica sul perdono che va dato settanta volte sette. Tuttavia qui non c’è alcuna assoluzione, ma solo la richiesta di perdono per il penitente. Nell’attuale eucologio greco questa preghiera viene detta prima della confessione.

La seconda preghiera, di cui riportiamo l’unico testo costantinopolitano (sec. VIII)7, secondo la classificazione di Arranz, appartiene al tipo K2 ed è presente in quasi tutti i manoscritti. Questo tipo di preghiere, sono per chi confessa i propri peccati e serve a introdurre il penitente nel periodo di penitenza e di akoinonia. Propriamente parlando non sono preghiere di assoluzione, tuttavia, ad opera di queste preghiere, il penitente deve sentirsi perdonato da Dio fin dall’inizio della penitenza, anche se la strada per raggiungere la piena guarigione e la piena comunione è ancora lunga e impegnativa8. Secondo questa preghiera, il ruolo del ministro consiste nel chiedere che Dio accetti quell’atto di penitenza che è la confessione. L’anamnesi di questa preghiera commemora il valore penitenziale delle lacrime di Pietro e della peccatrice. Inoltre, dopo aver ricordato la giustificazione del pubblicano che aveva riconosciuto le proprie colpe, il testo chiede a Dio di voler accettare la confessione del peccatore. Quindi, si tratta di una preghiera per l’accettazione della confessione. In questa preghiera compare un elemento importante: le colpe vengono dette «volontarie o involontarie», con una espressione che appartiene alla confessione giudaica del Kippur e che viene recepita in modo più completo nelle preghiere K3 (secondo la classificazione di Arranz). Il verbo usato per chiedere il perdono dei peccati è sugxw/rhson, che sembra possedere il senso ‘forte’ di perdono totale e definitivo, ma è assente nei manoscritti più antichi che, al suo posto, hanno pa/£ride (parorw= = ignorare, non guardare)9. Non c’è alcuna rubrica che dica quando doveva essere detta questa preghiera; per il suo contenuto avrebbe potuto essere collocata sia prima sia dopo la confessione. Pur non trattandosi di una preghiera assolutoria, si chiede il perdono divino per il peccatore che viene introdotto in un lungo cammino di penitenza caratterizzato dalla akoinonia10.

Da questo testo, che chiede l’accettazione della confessione, si ricava che la confessione era ben praticata anche se gli eucologi non avevano un rito della penitenza; in altri termini, ne conoscevano l’uso che, però, non era ritualizzato.

Dobbiamo ricordare che non c’è il Rito della penitenza né nel codice Coisilin 213, del 1027, né in Atene 662, del XIII secolo. Questa testimonianza è particolarmente importante perché Coisilin pretende di essere un codice completo, e Atene rappresenta lo sforzo monastico di ripristinare la prassi della Grande Chiesa dopo la parentesi del regno latino di Costantinopoli. I monaci hanno introdotto degli adattamenti in questo eucologio, come l’adattamento monastico per le Lodi e i

metanoou/ntwn metanow=n) in tutte le nostre ingiustizie. Poiché tu sei il nostro Dio e a te conviene la gloria» (M. ARRANZ, Les prières pénitentilles de la tradition byzantine…, 57 (1991) 97-99).7 Ecco il testo (catalogato da Arranz come K2:1): «Preghiera su coloro che si confessano. Signore, Dio nostro, che a Pietro e all’adultera, a motivo delle loro lacrime, hai donato la remissione dei peccati, e hai giustificato il pubblicano che riconosceva le sue colpe, accetta anche la confessione di questo tuo servo N., e, poiché sei buono, perdona (sugxw/rhson ma la forma antica è pa/ride) ogni colpa (a)ma/rthma) volontaria o involontaria (e)kou/sion h)/ a)kou/sion) che egli avrà commesso con parola, o azione o pensiero; tu infatti sei il solo che ha il potere di rimettere i peccati. Poiché tu sei un Dio di pietà, di misericordia e di filantropia, e a te noi rendiamo gloria, al Padre, al Figlio, e allo Spirito santo, ora e sempre e nei secoli dei secoli» (M. ARRANZ, Les prières pénitentilles de la tradition byzantine…, 57 (1991) 98-101).8 M. ARRANZ, Les prières pénitentilles de la tradition byzantine…, 57 (1991) 134.9 M. ARRANZ, Les prières pénitentilles de la tradition byzantine…, 57 (1991) 100.10 M. ARRANZ, Les prières pénitentilles de la tradition byzantine…, 57 (1991) 135.

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Vespri11, ma non hanno fatto nulla per la confessione12. Questo fatto significa che negli usi penitenziali, le cose andavano bene così, ossia che bastavano le due preghiere suddette, che sono al di fuori di ogni contesto di celebrazione rituale e che non hanno le caratteristiche di una preghiera assolutoria13.

Da tutto questo possiamo ricavare che, per comprendere la prassi penitenziale bizantina, non è sufficiente rifarsi all’antico eucologio costantinopolitano; bisogna rifarsi anche ai testi successivi che hanno largamente sviluppato questa tradizione. Infatti, le due preghiere suddette sono testimoniate anche da tutti gli eucologi anteriori ai secoli XII-XIII di origine non costantinopolitana ma orientale14.

11 I monaci studiti si sono serviti con grande libertà dei testi dell’ufficio asmatikos di Santa Sofia all’interno del loro ufficio monastico di tipo palestinese (M. ARRANZ, Les prières pénitentilles de la tradition byzantine…, 58 (1992) 78).12 M. ARRANZ, Les formulaires de confession dans la tradition byzantine. Les sacrements de la restauration de l’ancien Euchologe Constantinopolitain, «Orientalia christiana periodica» 59 (1993) 385.13 M. ARRANZ, Les prières pénitentilles de la tradition byzantine…, 57 (1991) 90.14 Ibidem.

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CAPO UNDECIMO

LA PENITENZA DI TIPO MONASTICO

1. Il ‘Kanonarion’ La tradizione penitenziale monastica si è sviluppata attorno a figure carismatiche di monaci,

che non erano certo presbiteri, e che erano qualificati come padri spirituali. Il padre spirituale prendeva su di sé le colpe del penitente e lo guidava con il consiglio e con grandi opere penitenziali. Questo personaggio non si chiama confessore, ma dexo/menoj, a)¢nadexo/menoj, ¢a)n£a/doxoj, ossia colui che ‘riceve’ la confessione. Le penitenze sono molto ridotte rispetto ai canoni di Basilio, dato che la tradizione attribuisce al patriarca Giovanni il Digiunatore (VI secolo) una forte riduzione delle pene.

Il Kanonarion è un libro penitenziale che contiene sia le pene per i vari peccati, sia i consigli per il confessore, sia il rito della penitenza: dobbiamo notare che qui prevale l’aspetto carismatico e che gli aspetti rituali della penitenza sono molto ridotti 1. L’uso monastico della confessione è regolato dal Protokanonarion e dal Deuterokanonarion2. Il Protokanonarion è stato composto al più presto verso la fine dell’ottavo secolo e al più tardi verso la metà del decimo secolo dato che la versione georgiana è stata fatta da sant’Eutimio (1028) e dato che, alla fine del decimo secolo, il Kanonarion è già attribuito al patriarca Giovanni il Digiunatore, mentre l’attribuzione a Giovanni diacono e monaco deve essere considerata anteriore3. M. Arranz segue E. Herman e colloca il Protokanonarion nel IX e il Deuterokanonarion nel XII secolo4. Il titolo indica la paternità di queste due opere: Giovanni, monaco e diacono, discepolo di san Basilio, figlio dell’obbedienza. Altri codici attribuiscono questi penitenziali a Giovanni il Digiunatore, patriarca costantinopolitano nella seconda metà del VI secolo, ma entrambi i nomi non sono accettabili perché questi Kanonaria contengono elementi posteriori; è possibile che questa attribuzione abbia origine dal ruolo di questo patriarca nel diminuire le pene, tuttavia egli non ha lasciato nulla di scritto e dunque si può procedere solo per ipotesi5. Se teniamo conto dei Kanonaria, possiamo ritenere che la penitenza, fino al sec. XIII, fosse ancora quella dell’epoca patristica, retta dalle norme canoniche contenute nelle lettere di Basilio Magno ad Anfilochio. I peccati maggiori, elencati con precisione, vengono sanzionati da una pena più o meno pesante, ma sempre sottoposta al principio che la conversione di

1 M. ARRANZ, Les formulaires de confession …, 58 (1992) 427.2 Con questo termine Arranz designa il Kanonarion derivato, o i Kanonaria derivati, dal Protokanonarion (Cf. M. ARRANZ, I penitenziali bizantini. Il Protokanonarion o Kanonarion Primitivo di Giovanni Monaco e Diacono e Il Deuterokanonarion o ‘Secondo Kanonarion’ di Basilio Monaco, (= Kanonika, 3), Pontificio Istituto Orientale, Roma 1993), p. 132.3 E. HERMAN, Il più antico penitenziale greco, «Orientalia christiana periodica» 19 (1953) 80; 85.4 E’ possibile che il Deuterokanonarion sia opera di un monaco neostudita, dopo una «riforma neostudita che apparirebbe in Italia alla fine del sec. XI con la fondazione del Patirion di Rossano» (M. ARRANZ, I penitenziali bizantini…, p. 133).5 M. Arranz fornisce una interessante spiegazione dell’attribuzione dei Kanonaria al patriarca costantinopolitano Giovanni III il Digiunatore, che comincia a farsi strada già nel sec XI (ai tempi del georgiano Eutimio): «La riforma studita si era imposta a Bisanzio e tutta la vita ecclesiastica aveva subito il suo influsso. Ma forse la severa confessione monastica trovava difficoltà, proprio perché estranea alle tradizioni locali; invocare l’autorità dell’antico patriarca poteva renderla più accettabile. La trovata, se trovata è, è stata felice, e molti dei penitenziali derivati dei secoli successivi, di qualunque fattura e redazione, come gli stessi riti di confessione, anche i più disparati, saranno attribuiti al patriarca del sec. VI, che alla confessione di tipo monastico per i laici non ci avrebbe pensato mai» (M. ARRANZ, I penitenziali bizantini…, p. 21s.).

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un uomo non può essere misurata dagli anni di digiuno. Ricordiamo che per Basilio, la funzione della pena era essenzialmente medicinale e deve essere valutata in ordine al suo scopo, ossia la conversione del cuore. La persistenza di questo principio, così diverso dal contemporaneo uso occidentale della penitenza tariffata, regge tutto il sistema delle pene in Oriente.

In questa luce è interessante notare che il trattato sulla confessione di Teodoro Studita (759-826) è seguito da 27 canoni, che elencano i peccati, e da due serie di epitmie o penitenze (in numero di 165 e di 65)6; il trattato non fa riferimento ad alcun tipo di assoluzione. In questa logica si deve ritenere che la funzione dell’epitimia sia di rimettere il penitente in grado di partecipare alla comunione eucaristica. Arranz dice che la confessione monastica è molto semplice e non comporta preghiere di assoluzione. Prima c’è l’interrogazione del penitente e poi c’è l’indicazione della penitenza. Oltre all’akoinonia (scomunica) c’è un digiuno tre volte la settimana e alcune preghiere tre volte al giorno7. Nel tempo, però, è nata la struttura rituale della penitenza monastica, così come è attestata dal Protokanonarion.

2. Il rito del ‘Protokanonarion’ Questo rito monastico è molto semplice. Probabilmente il monaco che riceveva la confessione

non era sacerdote; si consideri, infatti, il caso dell’autore del Protokanonarion che parla della sua grande esperienza di confessore ma non è sacerdote, dato che si professa monaco e diacono 1. Il rito si svolge davanti all’altare ed ha come protagonisti il confessore e il penitente; non c’è la comunità. La liturgia è sobria: c’è un salmo prima della confessione2 e una preghiera dopo. In questa si prega Dio di voler perdonare il penitente. Ecco il testo del X secolo, appartenente al Protokanonarion, che Arranz cataloga come K4:2: «Dio che per noi si è fatto uomo portando i peccati di tutto il mondo, lui stesso per tutta la sua benigna bontà, accoglie, o fratello, tutte queste cose, quante adesso hai rivelato in sua presenza alla mia indegnità, perdonandoti tutto nel secolo presente e nel secolo futuro, colui che desidera e dispensa la salvezza di tutti. Benedetto JHWH (o( w(\n) nei secoli. Amen»3.

Dopo aver esaminato la struttura di questi riti, A. Raes conclude che, malgrado le differenze dei vari manoscritti, il rito monastico è sempre lo stesso e può essere descritto in base ai seguenti elementi costitutivi4: a) Dopo un invito a riconoscersi colpevole di tutti i peccati grandi e piccoli, c’è la recitazione del salmo 69, piuttosto corto; b) Trishagion, seguito da alcune metanie (prostrazioni); c) Confessione, sulla base di interrogazioni prefissate; d) Preghiera; e) Imposizione della penitenza 5. Inoltre ci sono altre caratteristiche: nel rito si sta seduti, durante la confessione e le ammonizioni del monaco; in altri momenti, come durante la preghiera, il penitente sta prostrato e in altri sta in piedi. C’è anche un rito molto importante: il monaco chiede al penitente di porre la mano sul suo collo. In tal modo il monaco prende su di sé i peccati del penitente6, proprio come se fosse – dico io – il

6 M. Arranz ritiene che si debba dubitare che questi canoni siano di Teodoro stesso (M. ARRANZ, Penitenza bizantina, Pro manuscripto, Edizioni Pontificio Istituto Orientale, Roma 1999, p. 2).7 M. ARRANZ, I penitenziali bizantini…, p. 18.1 M. ARRANZ, Les formulaires de confession …, 59 (1993) 64.2 La confessione poteva essere già stata fatta, precedentemente, anche fuori dalla chiesa, ed era ricevuta da un monaco.3 M. ARRANZ, Les prières pénitentilles de la tradition byzantine…, 58 (1992) 26 (Questa traduzione è improntata alla traduzione italiana di M. ARRANZ, Penitenza bizantina,… p. 99).4 A. RAES, «Les formulaires grecs du rite de la pénitence», in: Mélanges en l’honneur de Monseigneur Michel Andrieu, Publié avec le concours du Centre National de la Recherche Scientifique, (= Revue des Sciences religieuses, Volume hors série), Palais Universitaire, Strasbourg 1956, p. 369.5 A. RAES, «Les formulaires grecs du rite de la pénitence», … p. 371.6 «E allora (il confessore) rialza (il penitente) e l’abbraccia con affetto e lo esorta a stare di buon animo, e, se possibile, pone la sua (del penitente) mano sul suo (del confessore) collo,

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capro espiatorio della liturgia del Kippur. Questo gesto ha luogo subito dopo la preghiera K27 che ha una conclusione che, secondo Arranz, merita di essere sottolineata. Qui c’è un riferimento alla teologia del Nome divino pronunciato come garanzia di una sentenza favorevole al giudizio finale. Il tetragramma ebraico JHWH è tradotto dal greco o( w(\n, «come se si volesse evocare il valore assolutorio del Nome divino proclamato alla fine della liturgia giudaica del giorno del Kippur»8.

dicendo: “Da adesso, o fratello, tutte queste cose siano su di me”» (M. ARRANZ, Les formulaires de confession …, 59 (1993) 67).7 «Dio che per noi si è fatto uomo portando i peccati di tutto il mondo, lui stesso per tutta la sua benigna bontà, accoglie, o fratello, tutte queste cose, quante adesso hai rivelato in sua presenza alla mia indegnità, perdonandoti tutto nel secolo presente e nel secolo futuro, colui che desidera e dispensa la salvezza di tutti. Benedetto JHWH (o( w(\n) nei secoli. Amen». Questa preghiera era la sola formula che veniva recitata, dopo la confessione, nel primitivo Kanonarion monastico.8 M. ARRANZ, Les prières pénitentilles de la tradition byzantine…, 58 (1992) 24-25; cf. M. ARRANZ, «Une traduction du Tétragramme divin dans quelques textes liturgiques slaves», in: Homo imago et amicus Dei. Miscellanea in honorem Ioannis Golub, Roma 1991, pp. 497-504.

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CAPO DODICESIMO

I RITI PENITENZIALI NEGLI EUCOLOGI ITALO GRECI

1. Eucologi periferici I riti penitenziali, assenti negli eucologi della grande Chiesa, sono invece presenti negli

eucologi periferici, ossia negli eucologi italo greci. L’Italia meridionale è stata di liturgia bizantina dal VI al XI secolo e quindi i suoi codici sono a buon diritto espressione autentica di questa liturgia, non un ‘sottoprodotto’, ibrido, formatosi per gli influssi latini. Giustamente Arranz mette in guardia da questa interpretazione, sottolineando che anche dopo il XII secolo i rapporti con l’Oriente furono molto forti grazie al monachesimo studita, detto anche ‘basiliano’, e alla continua emigrazione di chierici e monaci orientali verso l’Occidente1. Già nel secolo X questi eucologi hanno un rito semplice per la confessione. L’eucologio del monastero di San Salvatore di Messina (1131) 2, dipendente dalla prassi studita di Costantinopoli, mostra già degli sviluppi nella linea di una catechesi penitenziale, ma sono sviluppi moderati3. E’ possibile che questa evoluzione sia dovuta alla comparsa e alla diffusione della confessione monastica; si noti che l’eucologio di Messina possiede sia un rito presbiterale sia un rito monastico.

Nella confessione presbiterale si tratta di un vero e proprio rito liturgico 4 composto da salmi e diverse preghiere; per alcune di queste ci sono formulari ad libitum, nel senso che si può scegliere all’interno di una rosa di testi.

2. Le preghiere principali Ci sono preghiere K1 e K2, che già conosciamo, alle quali si aggiungono preghiere di tipo

K31. Si tratta di preghiere deprecative che chiedono il perdono generale dei peccati e che vengono dette alla fine della penitenza, come riconoscimento che questa è terminata. E’ la cosiddetta ‘seconda assoluzione’. Vale la pena trascrivere il testo di una di queste preghiere K3, un testo molto popolare, non costantinopolitano, del X secolo:

«Signore Gesù Cristo, Figlio de Dio vivente, agnello e pastore, che porti (o( ai)/rwn) il peccato del mondo2, che ai due debitori hai condonato il loro debito, e che hai dato alla peccatrice la remissione dei peccati (a)/fesin tw=n a(¡martiw=n): tu stesso, o Sovrano, sciogli3, togli, perdona (a)/nej, a)/fej, sugxw/rhson) le trasgressioni, i peccati, gli sbagli, quelli volontari e

1 M. ARRANZ, Les formulaires de confession …, 58 (1992) 425.2 Cf. A. JACOB, Un euchologe du Saint-Sauveur “in lingua Phari” de Messine. Le Bodleianus Auct. E. 5. 13, «Bulletin de l’Institut Belge de Rome» 50 (1980) 283.3 M. ARRANZ, Les formulaires de confession …, 59 (1993) 385.4 M. ARRANZ, Les formulaires de confession …, 58 (1992) 427.1 «Altra preghiera per i penitenti (ei)j metanoou=ntaj). Sovrano, Signore onnipotente, Padre del nostro Signore Gesù Cristo, noi ti supplichiamo e invochiamo: abbi pietà di questi tuoi servi e accetta la loro penitenza (meta/noian), perdona (sugxw/rhson) loro ogni peccato volontario o involontario (a(ma/rthma e(kou/sio/n te kai\ a)kou/sion), proteggili dalla potenza del maligno, e dona loro di prosperare per il meglio. Per la grazia e le misericordie e la filantropia del tuo Figlio unico, con il quale tu sei benedetto con il tuo santissimo e buono e vivificante Spirito» (M. ARRANZ, Les prières pénitentilles de la tradition byzantine…, 57 (1991) 311).2 Gv, 1, 29.3 Uso il verbo ‘sciogliere’ nel senso di ‘allentare i vincoli’, non nel senso di ‘perdonare’, significato che appartiene solo all’ultimo di questi tre verbi.

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quelli involontari (ta\ e(kou/sia kai\ ta\ a)¢kou/sia), quelli commessi con consapevolezza e quelli senza consapevolezza (ei)/te e)n gnw/sei ei)/te e)n a)¢gnoi/#), per trasgressione e per disobbedienza da questi tuoi servi, e se, come uomini portatori di carne e abitanti in questo mondo, hanno deviato a causa del diavolo, e hanno trasgredito sia nella parola sia nell’azione, sia coscientemente sia inconsapevolmente (ei)/te e)n gnw/sei ei)/te e)n a)¢gnoi/#), sia che essi abbiano disprezzato la parola del sacerdote, sia che essi siano incorsi in una maledizione, sia che essi siano caduti sul loro anatema o giuramento, tu stesso che sei un Sovrano buono e filantropo, capace di dimenticare, nella tua grande misericordia, gradisci che questi siano liberati dalla (tua)4 parola (lo/gw luqh=nai) perdonandoli dal loro anatema e giuramento, secondo la tua grande e ineffabile pietà. Sì, Sovrano filantropo, Signore nostro Dio, ascoltami, io che supplico la tua bontà per questi tuoi servi, ed essendo pieno di misericordia, ignora (pa/£ride w(j polue/leoj) tutte le loro colpe (ptai/smata) liberandoli dal castigo eterno, perché tu, o Sovrano, hai detto: “Tutto ciò che legherete sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierete sulla terra sarà sciolto nei cieli”. Perché tu sei un Dio senza peccato e tu hai il potere di rimettere i peccati e a te è la gloria, con il tuo Padre imprincipiato, e il tuo tutto santo, buono e vivificante Spirito, ora e sempre nei secoli»5.

Nell’antico eucologio questa preghiera è assente, ma è presente nei manoscritti periferici; essa può assumere varie posizioni: può essere sia una preghiera prima della confessione, come negli eucologi a stampa, sia una preghiera dopo che è stata eseguita la penitenza, come ammissione alla comunione. Dire che queste preghiere hanno la funzione di riammettere alla comunione che, spesso, viene menzionata nel testo, non significa dire che si tratti di una assoluzione delle colpe: in Occidente, oggi, l’equivalenza esisterebbe, ma non nei riti dell’Oriente che stiamo esaminando, dato che qui la riammissione del peccatore alla comunione non si identifica con il conferimento del perdono di Dio ad opera del sacerdote. Questi invece di dare al peccatore il perdono delle colpe, supplica Dio che lo voglia perdonare. Tuttavia il primo dato non prescinde dal secondo; meglio sarebbe dire che i due dati si richiamano a vicenda, pur restando adeguatamente distinti.

Nel caso della preghiera K3:1, si tratta di un penitente che ha terminato il periodo di penitenza e desidera che se ne prenda atto per poter essere reintegrato nella comunione. Probabilmente non si tratta più dell’antica penitenza pubblica che, come tale, non aveva bisogno di alcun atto specifico per essere dichiarata conclusa6. Dato che la penitenza è privata e non c’è alcun controllo della comunità, ci vuole un nuovo incontro con il confessore, monaco o sacerdote, che verifichi se il penitente merita la comunione: infatti, le preghiere K3 sono soprattutto in vista dell’ammissione alla comunione; è per questo motivo che, se noi volessimo usare il linguaggio dell’assoluzione, potremmo parlare di ‘seconda assoluzione’. Infine, come ultimo rilievo, dobbiamo ricordare che c’è un secondo tipo di queste preghiere, che prescinde dalla esecuzione della penitenza. In tal caso la preghiera viene detta alla fine della confessione per riammettere il penitente alla comunione; se non c’è il periodo penitenziale vuol dire che si tratta di un peccatore che non ha commesso grandi colpe.

Il sistema della ‘seconda assoluzione’ è esplicitamente testimoniato dall’eucologio slavo del Sinai7. Alla fine della penitenza, il penitente ha bisogno di un’assoluzione dal legame contratto con la penitenza, per il tramite del sacerdote. Arranz riporta la preghiera di un codice del XV secolo: «Preghiera di assoluzione alla fine della penitenza (Eu)xh\ ei)j to\ lu=sai e)comologou/menon meta\ to\ plhrw=sai to\n xro/non e)pitimi/ou au)tou=)»8.

4 Ci sono manoscritti che aggiungono l’aggettivo ‘tua’ (cf.: M. ARRANZ, Les prières pénitentilles de la tradition byzantine…, 57 (1991) 107, nota 28).5 M. ARRANZ, Les prières pénitentilles de la tradition byzantine…, 57 (1991) 105-109.6 Forse è per questo che non ci sono preghiere di questa classe negli eucologi, mentre sono reperibili nei kanonaria (M. ARRANZ, Les prières pénitentilles de la tradition byzantine…, 58 (1992) 80).7 M. ARRANZ, Les prières pénitentilles de la tradition byzantine…, 57 (1991) 309.8 M. ARRANZ, Les prières pénitentilles de la tradition byzantine…, 57 (1991) 316; il testo della preghiera è a pag. 315.

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Questa preghiera non si trova negli antichi manoscritti greci e compare per la prima volta nell’Eucologio slavo del Sinai.

Passiamo a un esame più serrato di queste preghiere K3. Il settore più antico testimonia che esse erano collocate al termine del lungo periodo penitenziale. Spesso questi testi fanno ricorso alle frasi neotestamentarie sul cosiddetto ‘potere delle chiavi’ come Mt 16, 19 (Tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli) o Gv 20, 22-23 (Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi). I peccati sono spesso definiti per il binomio volontari e involontari, come nelle preghiere della classe K2. Ma c’è di più: c’è un testo che merita una trattazione a parte a causa della sua costante presenza nei vari manoscritti. E’ la preghiera Signore Gesù Cristo, figlio del Dio vivente, agnello e pastore..., che Arranz cataloga come K3:19 e che abbiamo riportato supra. La preghiera non è indirizzata al Padre, come potremmo aspettarci, bensì a Cristo agnello e pastore. Arranz ritiene che sia un testo molto antico dato che lo si trova nei rituali italici (X e XI secolo) sia dopo la confessione, sia prima; nell’eucologio di Goar10 questa preghiera è collocata prima della confessione, collocazione conservata negli odierni eucologi a stampa di Atene e di Roma11. Questa preghiera, la più diffusa della sua categoria, contiene per intero la formula di confessione ereditata dal Kippur: «Tu stesso, Sovrano, sciogli, togli, perdona le trasgressioni, i peccati, gli sbagli, quelli volontari e quelli involontari, quelli commessi con consapevolezza e quelli senza consapevolezza, per trasgressione e per disobbedienza da questi tuoi servi…»12. M. Arranz sottolinea che i primi due verbi (a)/nej, a)/fej) si trovano nella Tephillah, la preghiera delle Diciotto benedizioni che viene recitata ogni giorno. I tre verbi assieme (a)/nej, a)/fej, sugxw/rhson), invece, si trovano solo nella liturgia del giorno del Kippur, nella seconda parte della preghiera di confessione dei peccati o Viddui. La mentalità generale della preghiera che stiamo esaminando (Signore Gesù Cristo, figlio del Dio vivente, agnello e pastore...), assomiglia molto alla confessione giudaica Viddui a causa di questo desiderio di enumerare i vari generi di peccati: volontari – involontari, consapevolmente – inconsapevolmente13. Una traccia precisa della liturgia del Kiddush si trova anche in altri testi, catalogati da Arranz come k3, che parlano di “peccato volontario o involontario (a(ma/rthma e(kou/sio/n te kai\ a)kou/sion)”.

A giudizio di Miguel Arranz, il fatto che queste espressioni si trovino in rituali del X secolo, suggerisce una data di composizione molto alta, ma fuori Costantinopoli, probabilmente in territorio orientale14. Egli suggerisce un’origine alessandrina di ambiente monastico, come alcuni dei manoscritti in cui essa è presente15.

Da ultimo dobbiamo considerare l’esistenza dei formulari appartenenti alla classe K4, di cui abbiamo già visto, supra, un testo nella sua forma completa a proposito del Protokanonarion. I testi sono molto corti: «Che Dio ti perdoni (sugxwrh/s$) tutto ciò che davanti a Lui tu hai manifestato alla mia nullità»16. Questa preghiera non interferisce con le altre e viene detta quando il penitente enuncia i suoi peccati. In alcuni Rituali viene detta ad ogni peccato, mentre in altri solo alla fine di

9 M. ARRANZ, Les prières pénitentilles de la tradition byzantine…, 57 (1991) 102ss.10 J. GOAR, Euchologion sive Rituale Graecorum, Venetiis 1647; 2 ed. ex Typographia Bartholomaei Javarina, Venetiis 1730; ed. anastatica Akademische Druck- und Verlagsanstalt, Graz 1960, p. 536. 11 M. ARRANZ, Les prières pénitentilles de la tradition byzantine…, 57 (1991) 91.12 «Au)to/j, De/spota! a)/nej, a)/fej, sugxw/rhson ta\j ¢a)nomi/aj, ta\j ¡a(marti/aj, ta\ plhmmelh/mata, ta\ e(kou/sia kai\ ta\ a)¢kou/sia, ta\ e)n gnw/sei kai\ ta\ e)n a¢gnoi/#, kai\ ta\ e)n paraba/£sei, kai\ e)n parako$= geno/mena para\ tw=n dou/lwn sou tou/twn» (M. ARRANZ, Les prières pénitentilles de la tradition byzantine…, 57 (1991) 105). 13 M. ARRANZ, Les prières pénitentilles de la tradition byzantine…, 57 (1991) 106s.14 M. ARRANZ, Les prières pénitentilles de la tradition byzantine…, 57 (1991) 104, nota 1.15 Ibidem, p. 106.16 M. ARRANZ, Les prières pénitentilles de la tradition byzantine…, 58 (1992) 27-29.

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tutta l’enumerazione. Come ben si vede esiste una grande libertà nella redazione dei formulari per la penitenza. Le preghiere catalogate come K4, che per la maggioranza dei casi suppongono un monaco17, usano la forma verbale del congiuntivo aoristo sugxwrh/s$ ma si può trovare anche l’ottativo aoristo sugxwrh/sai. In alcuni casi, alla fine di queste preghiere, come dossologia, c’è una sorta di hatimah, ove, come abbiamo visto supra, il tetragramma JHWH è tradotto in greco con l’espressione “o( w(\n”. Abbiamo visto che Arranz trova che questo elemento sia evocativo della benedizione del Kippur, quando il Nome divino veniva posto sugli Israeliti, come garanzia del perdono dei peccati18.

3. Una formula giuridica di assoluzione? Lo sviluppo della penitenza bizantina non si ferma qui. Ci sono anche altre preghiere, che M.

Arranz cataloga con la sigla K5, che contengono l’intervento del ministro che dice in prima persona: “Io ti perdono” oppure “Io ti assolvo”. La maggior parte dei manoscritti che riportano queste formule sembrano provenire dall’Italia meridionale. Non si può sostenere che esse derivino dalla liturgia latina, tuttavia la vicinanza tra alcuni di questi testi e il formulario del Rituale romanum lascia aperta l’ipotesi di un influsso della liturgia romana sull’uso bizantino1. Nondimeno queste formule non possono essere definite semplicemente come formule giuridiche dato che sono sempre congiunte con formule di preghiera che supplicano Dio affinché conceda il perdono al penitente, e non godono di alcuna autonomia rispetto a queste.

4. L’odierno rito bizantino della penitenza Nello sviluppo del rito della penitenza, nei rituali a stampa, ha avuto un grande peso l’opera

del domenicano Jacques Goar che, nel XVII secolo, ha edito il suo eucologio 1. Egli intese reagire contro chi accusava i Greci di non avere il sacramento della penitenza 2; per darne la dimostrazione egli riporta, come in appendice3, un rito della penitenza che egli ha trovato in un «antiquissimo Euchologio Barberino»4. Si tratta del Barberini greco 306, un codice italo-greco molto tardo, del XVI secolo5, che Goar erroneamente ritenne molto più antico. Tuttavia Alphonse Raes attesta che si può risalire più indietro del XVI secolo, fino al XIII secolo, con il Sinaitico greco 9666, anch’esso dell’Italia meridionale7.

Si tratta di un rito misto, presbiterale e monastico. Il rito che riporta Goar non appartiene alla tradizione dell’eucologio patriarcale di Costantinopoli, ma a quella degli eucologi periferici, primo dei quali è l’eucologio slavo del Sinai. In questa tradizione troviamo l’importante preghiera penitenziale Signore Gesù Cristo, Figlio del Dio vivente, agnello e pastore…, che M. Arranz cataloga col la sigla K3:18. Si tratta di una preghiera che si trova in rituali italo-greci9; in certi testi è collocata dopo la confessione, per introdurre alla comunione, e in altri prima della confessione, in

17 Quindi una persona che non ha ricevuto l’ordinazione sacerdotale.18 M. ARRANZ, Les prières pénitentilles de la tradition byzantine…, 58 (1992) 25.1 M. ARRANZ, Les prières pénitentilles de la tradition byzantine…, 58 (1992) 64s.1 J. GOAR, Euchologion sive Rituale Graecorum, Venetiis 1647; 2 ed. ex Typographia Bartholomaei Javarina, Venetiis 1730; ed. anastatica Akademische Druck- und Verlagsanstalt, Graz 1960.2 J. GOAR, Euchologion…, p. 539.3 In Orationes super poenitentes. Notae (Ibidem).4 J. GOAR, Euchologion…, p. 541.5 La scrittura è verosimilmente quella di Gerorges Basilikos di Costantinopoli anche se una nota del card. Santoro lo attribuisce a suo figlio Tommaso (A. JACOB, Les euchologes du fonds Barberini grec de la Bibliothèque Vaticane, «Didaskalia» 4 (1974) 147).6 A. DMITRIEVSKIJ (ed.), Euchologia, Kiev 1901, p. 202 (citato da A. RAES, «Les formulaires grecs du rite de la pénitence», … p. 336).7 A. RAES, «Les formulaires grecs du rite de la pénitence», … p. 371.

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una posizione che viene conservata nell’eucologio di J. Goar. Questi vuole mostrare non solo che nella chiesa greca c’è la liturgia della penitenza, come nella chiesa romana ma anche che, in quella preghiera (K3:1), ci sono tutti gli elementi costitutivi di questo sacramento. Di fronte alla manifesta assenza della formula di assoluzione, egli cerca di trovare qualcosa di equivalente, là dove si manifesta l’intenzione di conferire l’assoluzione. Tutto questo egli lo trova nella preghiera Signore Gesù Cristo, Figlio del Dio vivente, agnello e pastore. Egli afferma che il sacerdote che dice «… sciogli, togli, perdona (a)/nej, a)/fej, sugxw/rhson)», sottintende «attraverso di me», ossia sottintende l’affermazione del ruolo del ministro nel sacramento; lo stesso discorso viene ripetuto, subito dopo, quando dice: «… gradisci che questi siano liberati dalla parola». Perché il sacerdote sottintende: «… dalla mia (del sacerdote) parola»10. Per Goar, dunque, i Graeci conoscono una formula di assoluzione di tipo deprecativo nella quale sono espressi anche il ruolo del ministro e la sua intenzione di assolvere. Goar ha ragione a sottolineare del ruolo del ministro, che è così importante secondo la teologia sacramentaria della sua epoca. Tuttavia, mi è difficile vedere descritto il ruolo sacramentale del ministro, in una frase che è ancora quella della liturgia giudaica: infatti, il testo di questa preghiera, in quanto tale, è solo una domanda di perdono e una confessione delle colpe, importate dalla liturgia giudaica del Kippur.

La struttura del rito di Goar è la seguente11:Preghiera Signore Gesù Cristo, Figlio del Dio vivente, agnello e pastore … (K3:1)12;Preghiera O Dio nostro salvatore … (K1:1a)13;Esortazione;Questionario;Esortazione;Preghiera Dio che ha perdonato … (K4:3)14;Preghiera Signore, Dio nostro … (K2:1)15.

Come si vede nello schema predisposto da M. Arranz16, il rito di Goar è stato recepito nello Eu)xolo/gion to/ me/ga, sia dall’edizione ortodossa di Zerbos ( 2 ed. a Venezia nel 1862 e poi ad Atene nel 1970), sia nell’edizione cattolica di Roma (1873), sia nell’edizione ortodossa di Papadopoulos, ad Atene nel 1927 (edizione critica). Possiamo, dunque, concludere che il rito penitenziale dell’odierno eucologio a stampa, ha la sua origine nella preoccupazione apologetica dell’eucologio del domenicano J. Goar.

8 Il testo è facilmente accessibile in M. ARRANZ, Les prières pénitentilles de la tradition byzantine…, 57 (1991) 105.9 M. ARRANZ, Les prières pénitentilles de la tradition byzantine…, 57 (1991) 91.10 J. GOAR, Euchologion…, p. 539.11 J. GOAR, Euchologion…, pp. 541-542 (Cf. : M. ARRANZ, Les formulaires de confession …, 59 (1993) 384).12 M. ARRANZ, Les prières pénitentilles de la tradition byzantine…, 57 (1991) 102.13 M. ARRANZ, Les prières pénitentilles de la tradition byzantine…, 57 (1991) 94.14 M. ARRANZ, Les prières pénitentilles de la tradition byzantine…, 58 (1992) 28.15 M. ARRANZ, Les prières pénitentilles de la tradition byzantine…, 57 (1991) 98.16 M. ARRANZ, Les formulaires de confession …, 59 (1993) 384.

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CAPO TREDICESIMO

CONCLUSIONI

1. Conclusione sulla penitenza orientale 1) Le grandi collezioni canoniche e liturgiche dell’antico oriente, come la Tradizione

apostolica, il Testamentum Domini, la Didascalia degli apostoli e le Costituzioni apostoliche, non contengono alcun rituale della penitenza. Si deve dire la stessa cosa della testimonianza dei grandi Padri che hanno trattato della penitenza, come Basilio, Gregorio di Nissa, Giovanni Crisostomo e Teodoro di Mopsuestia. E’ interessante notare che quest’ultimo conosce come rito penitenziale la comunione eucaristica sulla base dell’interpretazione tipologica di Is 6: come le labbra di Isaia furono purificate dal carbone ardente, così l’eucaristia purifica il fedele dai suoi peccati.

2) A giudicare dall’insieme dei riti contenuti nell’antico eucologio costantinopolitano, il sacramento della penitenza non sembra essere stato molto praticato, almeno nelle chiese che usano di tale libro liturgico, ossia delle chiese non monastiche. L’eucologio antico, infatti, non aveva l’acolouthia per la penitenza; solo due preghiere, mescolate ad altre a carattere penitenziale 1, sembrano assomigliare a ciò che oggi chiameremmo ‘sacramento della penitenza’.

3) Sappiamo che, a fianco delle preghiere degli eucologi sono esistite delle acolouthiai, contenute nei libri penitenziali2. Seguendo le osservazioni di A. Raes possiamo dire che questi riti caratterizzavano più i grandi momenti della vita, come la conversione per l’ingresso nel monachesimo, che la prassi quotidiana. La penitenza monastica, con il rituale studiato da Alfonse Raes, è anch’essa un fatto eccezionale3. Inoltre, con un rituale così complesso e impegnativo, ci si deve chiedere quante confessioni avrebbe potuto ricevere il monaco depositario di questo ministero carismatico.

4) L’esame della liturgia della penitenza in area bizantina ha fatto vedere che la ‘natura’ di questo sacramento non sta nei suoi elementi rituali.

5) Gli elementi rituali, con il passar del tempo, si arricchiscono sempre più, sia nell’ambito della gestualità sia nell’ambito dell’eucologia. Inoltre ci sono letture bibliche, c’è il Trishagion e ci sono litanie diaconali. Tutto questo non è statico, ma in costante movimento, come attestano i vari manoscritti.

6) Le preghiere, poi, sono estremamente mobili: possono occupare varie posizioni, sia prima sia dopo la confessione. Questo accade proprio nel caso della preghiera K3:1 Signore Gesù Cristo, figlio del Dio vivente, agnello e pastore...; in questo testo c’è sia il ricorso a Mt 16, 19 sia la formula di confessione del Kippur. In base all’esame delle varie preghiere del rito possiamo dire che nessuna di queste è l’elemento decisivo, ossia il costitutivo formale del sacramento della penitenza.

7) La questione è ben diversa se prendiamo l’insieme delle azioni del penitente. Allora vediamo che l’esecuzione delle opere di penitenza in un tempo determinato costituisce l’elemento decisivo della ‘natura’ di questa pratica. Dobbiamo aggiungere che questo dato è in perfetta continuità con l’insegnamento patristico che abbiamo sommariamente descritto.

In altri termini, nella penitenza, si bada più al fatto che al rito. Conta più l’essersi allontanati dal peccato, che aver partecipato a un rito con una preghiera rituale formulata in un determinato modo. Da ultimo va sottolineato il carattere medicinale delle opere penitenziali, quel carattere che troviamo così ben descritto in Basilio e che si è conservato lungo i secoli. Le opere penitenziali non

1 Queste preghiere sono attestate in J. GOAR, Euchologion …, p. 536-537.2 Su tutto questo, cf.: M. ARRANZ, «Evolution des rites d’incorporation et de réadmission …», p. 68.3 A. RAES, «Les formulaires grecs du rite de la pénitence», … p. 371.

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servono a espiare il peccato, ma a reintrodurre il peccatore nella vita cristiana con tutte le sue caratteristiche, la prima delle quali è la conversione del cuore.

Dopo gli studi di L. Ligier sul carattere medicinale della penitenza orientale 4, M. Arranz ha voluto accentuare ancor più questo carattere, parlando di “sacramenti terapeutici”. In Oriente il sacramento della penitenza avrebbe come scopo primario la terapia dello spirito: guarire le malattie dell’anima con determinate opere penitenziali e preghiere fatte sotto la guida di monaci esperti che, in tal modo, erano in grado di restituire il penitente alla genuina vita battesimale5.

Proprio per questi motivi la penitenza orientale, in tutte le sue forme, si presenta più come un fatto eccezionale piuttosto che una osservanza rituale che scandisce i ritmi della vita del fedele6.

2. Oriente e Occidente a confronto: valutazione critica Il confronto tra i riti penitenziali della liturgia orientale e quelli della liturgia occidentale, è

possibile solo se si rinuncia fin dall’inizio alla pretesa della completezza, ossia se si rinuncia alla pretesa di esaminare tutta l’area delle pratiche liturgiche e non liturgiche della disciplina penitenziale. In questa ricerca, ci siamo occupati solo della natura e dello scopo della penitenza, così come appare attraverso la prassi, ossia attraverso i riti della celebrazione liturgica e l’utilizzo che ne fanno i pastori. Nella seconda parte trattiamo della penitenza occidentale; tralasciamo le testimonianze patristiche sulla paenitentia antiqua, per entrare direttamente nel periodo della sua crisi che è ben attestata nella Gallia meridionale e in Spagna. Qui, nei secoli quinto e sesto, la penitenza canonica è ormai impraticabile. Il comportamento di Cesario di Arles sulla penitenza e il rito penitenziale della liturgia del venerdì santo, sono un interessante tentativo di soluzione che, però, non avrà seguito. Le idee e la prassi della penitenza che emergono in questa epoca sono molto simili alla concezione medicinale della penitenza in Oriente.

La disciplina della paenitentia antiqua è praticamente identica in Oriente e in Occidente. Dal quarto secolo, invece, cominciano ad esserci alcune differenze. In Oriente la penitenza canonica comincia ad addolcirsi e si fa strada una concezione più medicinale, per l’intervento di grandi personaggi come Basilio Magno e Giovanni Crisostomo. Nel periodo patristico, il costitutivo della penitenza è la conversione del cuore, ossia il cessare di peccare ritornando allo stato battesimale iniziale. Questo lungo e laborioso cammino si fa sotto la guida del vescovo che, con la scomunica, commina una serie di opere da compiere: digiuni, preghiere, prostrazioni etc. Le opere penitenziali non sono concepite come espiazione delle colpe, bensì come correzione pedagogica del comportamento e come inizio di una nuova vita, lontana dal peccato. In definitiva, la penitenza classica era destinata ai grandi peccatori e non al ‘buon cristiano’ che conduceva una vita grosso modo normale. Era un fatto eccezionale, non una pratica abituale. Il monachesimo fa sua questa concezione medicinale della penitenza e la sviluppa progressivamente. La situazione resta immutata fino all’ottavo, nono secolo, quando, sotto l’influsso del monachesimo, che diventa sempre più importante nella chiesa orientale, si fa strada la cosiddetta penitenza privata. In ogni caso, nel secolo

4 L. LIGIER, Le sacrement de la pénitence selon la tradition orientale, «Nouvelle revue théologique» 89 (1967) 940-967; IDEM, Esquisse d’une histoire du sacrement de la pénitence, «Nouvelle revue théologique» 80 (1958) 561-584; cf. anche : P.-M. GY, Histoire liturgique du sacrement de la Pénitence, «La Maison-Dieu» 56 (1958) 5-21.5 Per una breve rassegna sul valore medicinale della penitenza e sull’analogia del ‘medico’, cf.: D. REGIS, «The ‘Medicus’ and its Transformation from Its Patristic to Its Medieval and Tridentine Usages», in: N. MITCHELL - J. F. BALDOVIN (ed.), Rule of Prayer, Rule of Faith. Essays in Honor of Aidan Kavanagh, (= A Pueblo Book), The Liturgical Press, Collegeville (Minnesota) 1996, pp. 106-122.6 Oggi la situazione è molto deteriorata, secondo Paul Meyendorff, del St Wladimir’s orthodox Seminary, Crestwood, New York (USA). Pur essendoci delle diversità a seconda delle chiese e dei luoghi, si deve riconoscere che, in certe chiese, soprattutto di lingua greca e araba, la confessione è completamente scomparsa dall’uso parrocchiale: «Così la maggioranza dei fedeli non ha mai fatto l’esperienza di questo sacramento» (P. MEYENDORFF, La pénitence dans l’église orthodoxe, «La Maison-Dieu» 171 (1987) 45).

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dodicesimo i grandi commentatori del diritto orientale commentano i canoni della penitenza pubblica come se fossero in uso al loro tempo. Ciò mostra quanto fosse sentita la continuità della disciplina penitenziale. Il denominatore comune, attraverso le varie forme e i vari riti della penitenza orientale, è costituito dalla concezione terapeutica di questa istituzione, che prevale su ogni altra componente della disciplina penitenziale, anche sulla componente rituale e sulla componente canonica la quale, necessariamente, presenta anche dei caratteri giuridici. Il fatto che la dimensione terapeutica prevalga anche sul carattere rituale della penitenza, può spiegare la varietà delle scelte rituali della penitenza bizantina. Facciamo alcuni esempi: può spiegare perché ci sia una ‘prima assoluzione’ – se vogliamo usare la terminologia della ‘assoluzione’ – prima di compiere le opere penitenziali, e una cosiddetta ‘seconda assoluzione’, per riammettere alla comunione dopo che è stata compiuta la penitenza. Il carattere terapeutico può spiegare perché le preghiere che Arranz cataloga come K3 possano essere poste indifferentemente prima o dopo la confessione delle colpe. Può anche spiegare il fatto – così difficile a comprendersi, per un occidentale – che sia impossibile individuare una vera e propria ‘formula assolutoria’ nel senso occidentale del termine, ossia una formula che sia capace di determinare, con la sua presenza o assenza, la validità o l’invalidità del sacramento. Anche in Occidente la penitenza ha carattere terapeutico, ma questo carattere è uno tra i tanti, che non può essere visto come l’elemento fondamentale e decisivo, ad eccezione della liturgia visigotica, all’epoca di Cesario di Arles e di Isidoro di Siviglia. In conclusione, in Oriente l’insieme dello sviluppo dei dati – nelle varie epoche e nei vari rituali bizantini – trova la sua spiegazione unitaria nel carattere medicinale di questa liturgia. Anche in Oriente la penitenza ha avuto il suo momento di crisi, alla fine del quarto secolo, secondo la valutazione che ne ha fatto G. Wagner, ma il monachesimo ha saputo far fronte ai problemi appropriandosi di questo ministero e gestendolo in chiave medicinale.

In Occidente le cose si sono sviluppate in modo diverso. L’idea dell’unica penitenza, una sola volta in vita, comincia ad essere applicata come norma giuridica. Le opere penitenziali, imposte dal vescovo al penitente, diventano un’imposizione giuridica che dà origine agli interdetti penitenziali che durano per tutta la vita, ossia che persistono anche dopo che il penitente è stato riammesso alla comunione. Questo ha prodotto il fenomeno della non reiterabilità della penitenza. La crisi dei secoli quinto e sesto è dovuta a questi fattori, che hanno la loro origine nella maggior accentuazione del carattere giuridico rispetto al carattere medicinale. Il caso di Cesario di Arles esprime bene la crisi di questa epoca.

Il tentativo di questo grande vescovo di dare una svolta pastorale e medicinale alla gestione della disciplina penitenziale, fa vedere che i valori caratteristici della penitenza orientale sono presenti e sono sentiti anche in Occidente. Tuttavia questi valori sono inseriti in un quadro giuridico e liturgico che è vincolante e che è molto diverso da quello dell’Oriente. Cesario non ha mai inteso uscire dal quadro liturgico che gli offriva la liturgia visigotica del suo tempo: ha solo voluto che la disciplina penitenziale fosse veramente efficace, ossia che curasse l’anima dei peccatori e li portasse a conversione in modo che si allontanassero definitivamente dal peccato. In altri termini, egli si è preoccupato più del fatto, che del rito. La scelta di occuparsi del fatto non comporta necessariamente l’abbandono della liturgia, la quale ha delle risorse che sono comunque appropriate alla scelta in questione. Egli ha saputo vedere il rito del venerdì santo come il coronamento delle opere penitenziali compiute in quaresima. Nel caso della liturgia della parasceve della liturgia visigotica, il rito non si identifica con il ritualismo: è questa la grande lezione di Cesario e della liturgia visigotica, che va tenuta legata al commento di Isidoro di Siviglia sul valore della penitenza, ove, dopo aver detto che il battesimo non può essere reiterato, dice che le lacrime del penitente, davanti a Dio, stanno per l’acqua battesimale1. Si noti che il parallelismo è impostato tra l’acqua,

1 «Lacrimae enim paenitentium apud Deum pro baptismate reputantur. Vnde et quamlibet sint magna delicta, quamuis grauia, non est tamen in illis Dei misericordia disperanda. In actione autem paenitudinis, ut supra dictum est, non tam consideranda est mensura temporis quam doloris; cor enim contritum et humiliatum Deus non spernit» (De ecclesiasticis officiis, 2, 17, in: C. W. LAWSON (ed.), Isidorus Hispalensis. De ecclesiasticis officiis, (= Corpus christianorum. Series latina, 113), Brepols, Turnholti 1989, p. 80). Leggendo questo testo

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che è un elemento del rito battesimale, e le lacrime, che non appartengono alla liturgia della penitenza, bensì alle opere penitenziali. Effettivamente sono le opere penitenziali l’elemento determinante: nella penitenza il rito viene dopo, come conclusione di ciò che è stato fatto nella vita.

La prospettiva della penitenza visigotica va nella stessa direzione della prassi orientale che dà maggior valore alle opere penitenziali, come fatto medicinale, piuttosto che al rito che, in Oriente, è considerato come accompagnamento, sostegno e conclusione del ravvedimento del penitente.

Ma lo sviluppo successivo della liturgia occidentale non si è mosso nella linea di Cesario di Arles. A questa situazione sono succeduti i riti della penitenza tariffata che ha avuto il grande pregio di essere reiterabile, eliminando l’idea della perennità degli interdetti penitenziali. Tuttavia, proprio per la sua origine, questa forma di penitenza ha assunto un forte carattere giuridico che si è subito espresso nei libri penitenziali. La penitenza tariffata è in continuità con la penitenza canonica, ma aggiunge un elemento nuovo molto importante a proposito delle opere penitenziali: esse hanno valore oggettivo. Ossia debbono essere fatte perché hanno valore per se stesse, in quanto compiute, al punto che possono essere compiuta da altri, ossia da persone diverse dal penitente. All’inizio della pratica della penitenza ‘insulare’ sembra che non ci fosse un rito liturgico, ma solo l’esecuzione della pena prevista dai libri penitenziali. Successivamente, con l’acquisizione del rito liturgico come elemento costitutivo, il carattere giuridico dell’esecuzione della penitenza è stato applicato anche all’azione liturgica, dando luogo a un marcato formalismo rituale, che si manifesta soprattutto a partire dall’epoca carolingia.

Questi fattori, imputabili al carattere giuridico della penitenza tariffata, hanno ricevuto un grande ridimensionamento nel XII secolo con la nascita della confessione, tutta basata sull’accusa dei peccati, un elemento che prima era accessorio e funzionale all’imposizione della pena. Con questo rito si chiede il dolore dei peccati, che è nella linea di un vero ravvedimento interiore. Ci si interroga su che cosa sia la vera penitenza. La risposta è lapidaria: quella che proviene dall’amor di Dio e dal dolore dei peccati. Ormai le opere penitenziali passano in secondo piano e il carattere espiatorio viene attribuito alla laboriosità dell’accusa dei peccati davanti a un altro uomo. L’essenziale della penitenza è il rito liturgico, non più le opere penitenziali compiute nella vita. Il rito della penitenza è ormai il tutto della disciplina penitenziale, anche se, formalmente, si conserva l’uso di imporre una soddisfazione, in funzione espiatoria, che di solito consiste nella recitazione di alcune formule di preghiera. La ‘confessione’ è stata una grande acquisizione2, tuttavia il formalismo rituale è rimasto e così pure il carattere giuridico, fino a qualificare la penitenza come un actus iudicialis che è compiuto dal sacerdote tamquam a iudice3.

sembra di leggere uno dei canoni di Basilio ad Anfilochio e, comunque, il tema delle lacrime è uno sviluppo, molto più profondo, di quanto troviamo in Ambrogio.2 P.-M. GY, Douleur des péchés et pénitence dans la théologie du XIIème siècle, «Annali di Scienze religiose» 3 (1998) 125-132.3 Concilio di Trento, Sessione XIV.

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INDICE

1. Gesù è in mezzo all’assemblea.....................................................................................................42. Alcune caratteristiche della penitenza nelle Lettere di Paolo.......................................................5

2.1 La comunione con la chiesa.................................................................................................52.2 In Paolo la ‘penitenza’ non è da confondere con la ‘riconciliazione’..................................7

1. I primi elementi della penitenza in Occidente..............................................................................82. Il ruolo di Tertulliano...................................................................................................................93. La penitenza una volta in vita.....................................................................................................114. Gli elementi costitutivi del “regime penitenziale” e l’ordine dei penitenti................................11

4.1 Il regime penitenziale e i suoi elementi..............................................................................114.2 Aspetti giuridici del regime penitenziale............................................................................124.3 Alcuni esempi di penitenze................................................................................................13

1. La penitenza nel regno visigotico tra il quinto e il settimo secolo.............................................141.1 Premessa.............................................................................................................................141.2 La crisi della penitenza occidentale nel sesto secolo.........................................................14

2. Chi è Cesario di Arles (470-542)...............................................................................................152.1 La penitenza canonica descritta da Cesario di Arles..........................................................152.2 Norme penitenziali.............................................................................................................172.3 Cesario di fronte alla penitenza..........................................................................................172.4 Conclusione........................................................................................................................20

3. La penitenza del venerdì santo nella liturgia vetus-hispanica....................................................213.1.1 Tradizione B...............................................................................................................213.1.2 Tradizione A...............................................................................................................22

3.2 Il IV concilio di Toledo (a. 633).........................................................................................224. Valutazione della penitenza nella Spagna e nella Gallia meridionale del VI e VII secolo........231. Una nuova forma di penitenza....................................................................................................25

1.1 L’origine irlandese della penitenza tariffata.......................................................................261.2 Le differenti tassazioni dei peccati.....................................................................................271.3 Esempi di penitenze tratte dai penitenziali medievali........................................................281.4 Gli interdetti penitenziali....................................................................................................30

2. Il rito della penitenza tariffata....................................................................................................303. Il carattere giuridico della penitenza tariffata in epoca carolingia.............................................331. Preghiere di intercessione per il penitente e nascita della formula assolutoria..........................382. La testimonianza di Raoul l’Ardente..........................................................................................383. La prima attestazione della formula di assoluzione...................................................................381. La penitenza alla fine del XIII secolo........................................................................................402. Il personaggio.............................................................................................................................403. Il Rito della penitenza solenne...................................................................................................414. Conclusione................................................................................................................................425. Il Pontificale romano postridentino............................................................................................431. Premessa.....................................................................................................................................442. Basilio.........................................................................................................................................453. A Costantinopoli durante gli episcopati di Nettario e di Giovanni Crisostomo.........................464. Teodoro di Mopsuestia...............................................................................................................475. Conclusione................................................................................................................................491. L’Eucologio ‘antico’: i principali testimoni...............................................................................502. La penitenza negli eucologi della Grande Chiesa......................................................................51

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1. Il ‘Kanonarion’...........................................................................................................................542. Il rito del ‘Protokanonarion’.......................................................................................................551. Eucologi periferici......................................................................................................................572. Le preghiere principali...............................................................................................................573. Una formula giuridica di assoluzione?.......................................................................................604. L’odierno rito bizantino della penitenza....................................................................................601. Conclusione sulla penitenza orientale........................................................................................622. Oriente e Occidente a confronto: valutazione critica.................................................................63

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