IL PROBLEMA DELLA RAPPRESENTANZA3 INDICE PREMESSA p. 1 .I. STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA...
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PUBBLICAZIONI DELLA FACOLTÀ DI
GIURISPRUDENZA
DELL’UNIVERSITÀ DI PADOVA
CXLIV
MARCELLO MARIA FRACANZANI
IL PROBLEMA
DELLA
RAPPRESENTANZA NELLA DOTTRINA DELLO STATO
2
CEDAM
Dein Gesicht kommt mir bekannt
JUDITH HEFTI (7-8.VIII.1789-1989)
Gummy Bacoque
3
INDICE
PREMESSA
p. 1
.I. STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA
.I.1. Posizione del problema e questioni di metodo INDIVIDUAZIONE DEL PROBLEMA NELLE DIFFICOLTÀ DELLA DOTTRINA NEL COGLIERE LA
DEFINIZIONE DI RAPPRESENTANZA POLITICA – RICOGNIZIONE DELLO STATUS QUESTIONIS
ATTRAVERSO LA DISAMINA DEI CONTRIBUTI PIÙ E MENO RECENTI IN MATERIA: DISTINZIONE
TRA LA POSIZIONE CHE ASSEGNA LA PREMINENZA AL SISTEMA O AL MOMENTO ELETTORALE E
LA POSIZIONE CHE RICERCA UNA DEFINIZIONE DEL CONCETTO – POSIZIONE PROVVISORIA
DELL’ALTERNATIVA TRADIZIONALE TRA RESPONSABILITÀ / INDIPENDENZA DELL’ELETTO
VERSO GLI ELETTORI: INSUFFICIENZA – NECESSITÀ DI UNA RIFLESSIONE RADICALE: PROPOSIZIONE DEL PROCEDIMENTO CONOSCITIVO PER IDENTITÀ E DIFFERENZA, NON
CONTRADDIZIONE E TERZO ESCLUSO – CONTINUITÀ E DIFFERENZE CON LA DOMMATICA
TRADIZIONALE – CONCLUSIONE: INDIVIDUAZIONE DEL DIVIETO DI MANDATO IMPERATIVO
COME ELEMENTO RITENUTO CARATTERIZZANTE NELLE DIVERSE POSIZIONI DOTTRINALI E
CONSEGUENTE SUA CENTRALITÀ NELL’INDAGINE.
p. 5
.I.2. La struttura della rappresentanza: tentativo di enuclearne il concetto PREMESSA: QUATTRO ACCEZIONI LINGUISTICHE DEL TERMINE “RAPPRESENTANZA”: RIPRODURRE, SIMBOLEGGIARE, MANIFESTARE, SOSTITUIRE – CONFRONTO CON LA DOTTRINA
TEDESCA: VERTRETUNG E DARSTELLUNG – IL PROCEDIMENTO CONOSCITIVO PER ASTRAZIONE:
POSIZIONE DI LOCKE, BERKELEY, HUME E LEIBHOLZ SULL’IMPOSSIBILITÀ DI RICONOSCERE IL
CONCETTO SENZA FARE RIFERIMENTO ALL’ARCHETIPO – CRITICA E NEGAZIONE –
INTRODUZIONE DELLE CATEGORIE STATUNITENSI DI ACTING FOR E STANDING FOR -
DISTINZIONE PLATONICA TRA EIKÒN E FÀNTASMA: LA FEDELTÀ ALLA PROPRIA NATURA DI
IMMAGINE COME TRATTO INELUDIBILE DEL RAPPRESENTANTE – IL DUALISMO COME
CARATTERE ESSENZIALE DELLA RAPPRESENTANZA E SUA DIFFERENZA CON IL NUNCIUS –
INCOMPATIBILITÀ DELLA STRUTTURA DUALISTA DELLA RAPPRESENTANZA CON IL MONISMO
DELL’UNICITÀ QUALE STRUTTURA DELLA SOVRANITÀ, CARATTERE SPECIFICO DELLO STATO
MODERNO – CONCLUSIONE: NECESSITÀ DI VERIFICARE GLI ASSUNTI ENUCLEATI.
p. 31
.I.3. Le tèknai della rappresentanza
- .I.3.1. La teoria del mandato Introduzione delle categorie di “situazione”, come posizione del rappresentante verso i terzi,
e di “rapporto”, come relazione tra rappresentante e rappresentato – La capacità di manifestazione
della volontà giuridicamente rilevante come spettro della personalità: posizione e rinvio – Distinzione tra mandato e rappresentanza ai fini della ricerca – La responsabilità come misura e garanzia del
dualismo – Funzione di reductio ad unum del mandato: da due soggetti ad una volontà.
p. 61
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- .I.3.2. La teoria dell’interpretazione ESSENZIALE MONISMO STRUTTURALE DELLA TEORIA DELL’INTERPRETAZIONE - SUO
PRIVILEGIARE ESCLUSIVAMENTE IL MOMENTO DELLA SITUAZIONE RAPPRESENTATIVA
OBLIANDO IL RAPPORTO DEL RAPPRESENTANTE CON IL RAPPRESENTATO – SUA CONFORMITÀ
ALLA STRUTTURA DELLA SOVRANITÀ – CONSEGUENTE RIDUZIONE DELLA RAPPRESENTANZA
A CONSAPUTA FICTIO JURIS – TENTATIVO DI SUPERARE LA DICOTOMIA MANDATO / INDIPENDENZA CON LE CATEGORIA DI ACTING FOR E STANDING FOR: CRITICA E NEGAZIONE.
p. 71
- .I.3.3. Rappresentanza, conoscenza, decisione: le ragioni delle
difficoltà della rappresentanza Premessa: rapporto tra procedura di costituzione dell’assemblea e sue funzioni – Possibilità
di differenti concetti di rappresentanza in dipendenza dalle funzioni svolte come rapporto tra struttura
e funzione: critica e negazione – Necessità di individuare un concetto di rappresentanza non condizionato dallo scopo applicativo - Filosofia teoretica, pratica, poietica – Articolazioni classiche e
monolitismo moderno – Conclusione: rapporto tra essere e volontà.
p. 80
.II. DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
.II.1. Dal Contratto all’Enciclopedia
- .II.1.1. Collegio perfetto e delega Costruzione della non delegabilità delle funzioni politiche: limiti e critica – Necessaria
partecipazione all’assemblea per il riconoscimemto del deliberato (la legge) come volontà generale –
Impossibilità di formazione di volontà rilevanti in un momento precedente la discussione assembleare – Conseguente necessità di assemblea in forma totalitaria – Difficoltà di ottenerla in Stati di grandi
dimensioni od in società a capitale altamente frazionato – Stato federale e principio di sussidiarietà:
posizione del problema e rinvio.
p. 87
- .II.1.2. Delega e rappresentanza virtuale TEORIA DELL’INDIVIDUAZIONE DEI RAPPRESENTANTI IN DIPENDENZA DELLE LORO CAPACITÀ
TECNICO SCIENTIFICHE: CRITICA E RINVIO – TEORIA FISIOCRATICA DELLA DELEGA DEL
GOVERNO AI SOGGETTI CHE HANNO IL PROPRIO INTERESSE MAGGIORMENTE CONNESSO CON
LA PROSPERITÀ PUBBLICA: GRANDI PROPRIETARI – NECESSITÀ DI TEMPERARE TALE DELEGA
CON L’INCARICO ANCHE A SOGGETTI ILLUMINATI: FUNZIONARI PUBBLICI E STUDIOSI –
CRITICA E RINVIO – CONCLUSIONE: LA COSTRUZIONE DELLA RAPPRESENTANZA VIRTUALE E
LO SPEECH DI BURKE.
p. 107
.II.2. Mandato imperativo, mandato limitativo, mandato libero, nessun
mandato PREMESSA: NECESSITÀ DI RICOSTRUIRE L’INTRODUZIONE POSITIVA DEL DIVIETO DI MANDATO
IMPERATIVO – IL MANDATO IMPERATIVO NEI CAHIERS DE DOLEANCES – TEORIA DEL
MANDATO LIMITATIVO: DEFINIZIONE DI COLLEGIO ELETTORALE, DI DEPUTATO, DI MANDATO
– NULLITÀ DEI MANDATI IMPERATIVI NEI CONFRONTI DELL’ASSEMBLEA, LORO
OBBLIGATORIETÀ NEI CONFRONTI DEGLI ELETTORI - AMMISSIBILITÀ DEI MANDATI
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LIMITATIVI: CONSEGUENTE DEFINIZIONE DI LEGGE – PRIMA DISTINZIONE TRA MANDATI DI
DIRITTO PUBBLICO E MANDATI DI DIRITTO PRIVATO – PROPOSTA DI ANNULLAMENTO DEI
MANDATI IMPERATIVI: PREVALENZA DEL POTERE COSTITUENTE SUL POTERE COSTITUITO -
TEORIA DEL DIVIETO DI MANDATO IMPERATIVO: PREVALENZA DEL POTERE COSTITUITO SUL
POTERE COSTITUENTE – LA SFERA E LA LEGGE: DIMOSTRAZIONE DELLA FINZIONE DELLA
RAPPRESENTANZA DOPO L’INTRODUZIONE DEL DIVIETO DI MANDATO IMPERATIVO: REAZIONI
E CRITICHE – CONCLUSIONE: LA CONSACRAZIONE DEL DIRITTO POSITIVO.
p. 123
.II.3. Giuspubblicistica tedesca e Destra hegeliana
- .II.3.1. Die Epigonen PREMESSA: RIPROPOSIZIONE DI TEMI HEGELIANI ATTORNO AI FONDAMENTI DELLO STATO –
PRETESA IDENTITÀ DI VOLONTÀ FRA CITTADINO E STATO IN CAMPO PUBBLICO –
CONSEGUENTE REIEZIONE DEL CONTRATTUALISMO… - SEGUE: SOTTRAZIONE DELLA
FORMAZIONE DELLO STATO ALLA VOLONTÀ DEI SINGOLI E SUO FONDAMENTO SULLA
NECESSITÀ… - SEGUE: CONSEGUENTE DEFINIZIONE DI LEGGE COME CRISTALLIZZAZIONE DEL
VOLKSGEIST… – SEGUE: CONSEGUENTE DEFINIZIONE DI REGOLAMENTO E DI ATTO
AMMINISTRATIVO: LA FIGURA DELL’INTERESSE LEGITTIMO: RINVIO – L’EINZELNER WILLE
COME CONDIZIONE PER GARANTIRE L’EINHEIT DER RECHTSORDNUNG – STATO ETICO ED
ETICA DELLO STATO – IL RUOLO DELLA SOVRANITÀ – CONCLUSIONE: DAL
PROFESSORENRECHT AL VOLKSRECHT: IL RUOLO DELLA STORIA.
p. 161
- .II.3.2. Die Juristen PREMESSA: RECEZIONE DEI TEMI HEGELIANI E LORO COLLOCAZIONE A FONDAMENTO DEL
DIRITTO PUBBLICO DA PARTE DEI PRIMI STAATSLEHRER – PREMINENZA DEL DIRITTO PUBBLICO
SUL DIRITTO PRIVATO PER LO STUDIO DELL’ORDINAMENTO GIURIDICO – IMPORTAZIONE DEL
METODO DOGMATICO DAL DIRITTO PRIVATO AL DIRITTO PUBBLICO – NECESSARIA IDENTITÀ
DI VOLONTÀ IN CAMPO PUBBLICO TRA CITTADINO E STATO: COSTITUZIONE DI UN’UNICA
PARTE IN SENSO FORMALE E PROCESSUALE – RAPPRESENTATIVITÀ NECESSARIA DI OGNI
ORGANO DELLO STATO IN QUANTO TALE – LEGAMI ED ASSONANZE TRA LE POSIZIONI
TEMATIZZATE DA ERDMANN E LE COSTRUZIONI GIURIDICHE PROPOSTE DA GERBER –
CONCLUSIONE: CEDIMENTO DI GERBER NELL’AMMETTERE UN SINDACATO DIRETTO DEL
POPOLO SULL’OPERA DEGLI ORGANI DELLO STATO E CONSEGUENTE CONTRADDIZIONE CON
L’ASSUNTO INIZIALE DELLA PRETESA IDENTITÀ DI VOLONTÀ TRA CITTADINO E STATO.
p. 203
- .II.3.3. Volere è essere: Paul Laband PREMESSA: RADICI HEGELIANE NELL’OPERA DI LABAND - NEGAZIONE DEL CARATTERE
RAPPRESENTATIVO IN SENSO GIURIDICO DEL REICHSTAG – IRRILEVANZA DEL MOMENTO
ELETTORALE - RAPPRESENTANZA E DIVISIONE DEI POTERI – RAPPRESENTATIVITÀ DEL KAISER
– DEDUZIONE DELL’ESISTENZA DI UN SOGGETTO (IL POPOLO) DALLA SUA CAPACITÀ DI
ESTERNARE ATTI DI VOLONTÀ GIURIDICAMENTE RILEVANTI: LA VOLONTÀ COME SPETTRO
DELLA PERSONALITÀ – CONCLUSIONE: RETTIFICHE E MUTAMENTO DI PROSPETTIVA
NELL’ULTIMA PARTE DELL’OPERA DI LABAND. 231
p. 231
- .II.3.4. Essere è volere: Georg Jellinek
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PREMESSA: IL POPOLO COME ORGANO PRIMARIO DELLO STATO: CAPOVOLGIMENTO DELLA
COSTRUZIONE LABANDIANA ED IMPUTAZIONE DI ATTI DI VOLONTÀ GIURIDICAMENTE
RILEVANTI IN CAPO A SOGGETTI REALMENTE ESISTENTI… - SEGUE: CONSEGUENZE IN ORDINE
AL SYSTEM DER SUBJEKTIVEN ÖFFENTLICHEN RECHTE… - SEGUE: CONSEGUENZE NEL TEMA
SPECIFICO DELLA RAPPRESENTANZA – CONCLUSIONE: VERIFICA DEI PRESUPPOSTI HEGELIANI
NELLA COSTRUZIONE DI JELLINEK, LORO SUSSITENZA E CONSEGUENZE.
p. 242
- .II.3.5. Questioni di sovranità. Premessa: necessità di verificare l’entità dell’influsso delle posizioni tedesche nella
riflessione italiana – Il concetto di sovranità popolare come idoeno piano di riscontro di tale influsso e
come ipotesi per consentire la rappresentanza del popolo – Il problema della coesistenza di personalità
(e sovranità) dello Stato con la dichiarata sovranità popolare – Tesi del popolo come organo sovrano dello Stato… - Segue: come collettività autarchica di fronte allo Stato… - Segue: come titolare di una
parte della sovranità dello Stato… - Segue: come titolare esclusivo della sovranità esercitata in modo
diretto ed in modo indiretto tramite lo Stato… - Segue: identificazione del popolo con lo Stato comunità e sua contrapposizione allo Stato apparato – Rappresentanza del primo nel secondo –
Riconoscimento del principio di responsabilità come elemento essenziale per la rappresentanza: la
responsabilità dello Stato apparato nei confronti del popolo – Conclusioni: riconosciuta necessità di rivedere il concetto di sovranità - Posizione di Crisafulli, Crosa e Tosato.
p. 254
.III. SITUAZIONI GIURIDICHE SOGGETTIVE E
RAPPRESENTANZA
.III.1. Sulla applicazione della rappresentanza all’ambito pubblico Premessa: teoria della distinzione tra “rappresentanza giuridica” e “rappresentanza politica”:
- Elementi della prima: presenza di due soggetti determinati o determinabili; astratta
fungibilità del ruolo di rappresentante e rappresentato; pretesa necessità di spendita del nome del rappresentato; …e caratteristiche della seconda: pretesa indeterminabilità del
rappresentato; insuscettibilità del rappresentato di assumere il ruolo di rappresentante;
assenza della spendita del nome del rappresentato - Esame e critica: sull’indeterminabilità del rappresentato e sul concetto giuridico di “parte” – Il ruolo delle elezioni nella distinzione:
carattere fittizio della rappresentanza plasmata sul modello labandiano una volta rimossi i
presupposti (pseudohegeliani) di quell’Autore – Rapporti tra rappresentanza e potere politico e tra rappresentanza e diritto: critica e rinvio – Rapporti tra rappresentanza politica ed
interesse generale: ruolo del divieto di mandato imperativo e rinvio.
p. 271
.III.2. Diritto dell’eletto a rappresentare e diritto ad agire PREMESSA: TEORIA DEL “LIBERO MANDATO PARLAMENTARE” COME DIRITTO SOGGETTIVO
DELL’ELETTO: LIMITI E CRITICA – DISTINZIONE DEL DIRITTO DELL’ELETTO AD AGIRE DAL
DIRITTO A RAPPRESENTARE – CORRELATIVA POSIZIONE GIURIDICA SOGGETTIVA DEL DOVERE
DELL’ELETTO DI RAPPRESENTARE – RISCONTRO: IL PROBLEMA DELLE VARIANTI AL P.R.G. ED
INCOMPATIBILITÀ DEI CONSIGLIERI COMUNALI NEI RECENTI ORIENTAMENTI
GIURISPRUDENZIALI – SOLUZIONI PROSPETTATE DALLA PRATICA ED OSSERVAZIONI CRITICHE:
LA RICHIESTA PREVENTIVA DI NOMINA DEL COMMISSARIO AD ACTA - INAMMISSIBILITÀ DI UNA
VALUTAZIONE EX ANTE DA PARTE DELL’ORGANO SOSTITUENDO – SEGUE: LA
“PARCELLIZZAZIONE” DELLA VARIANTE - CONTRASTO CON LA NATURA GENERALE
DELL’ATTO PROGRAMMATORIO – SEGUE: LA DELIBERAZIONE IN SECONDA CONVOCAZIONE –
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L’ADOZIONE DELL’ATTO DA PARTE DI QUATTRO CONSIGLIERI – RAPPORTI CON LA NOMINA
DEL COMMISSARIO AD ACTA – SPUNTI RICOSTRUTTIVI – ESPERIBILITÀ DI AZIONI A TUTELA
DEL DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO - DIFFICOLTÀ
NELL’INDIVIDUAZIONE DELLE RELATIVE GARANZIE E RINVIO.
p. 287
.III.3. Diritto dell’elettore ad essere rappresentato Premessa: correlazione tra funzione rappresentativa ed esercizio del potere – Correlazione
(ulteriore) tra rappresentanza e sovranità - Distinzione tra rappresentanza popolare e
rappresentanza nazionale – Correlazione tra funzione rappresentativa e controllo sull’esercizio del potere - La minoranza come garanzia di rappresentanza: limiti e critica –
Rapporti tra rappresentanza, corporazione, sindacato di voto – Distinzione tra rappresentanza
e negotiorum gestio – Distinzione tra sovranità e potestà di imperio (Herrschaft) - Centralità dell’indagine suelle situazioni giuridiche soggettive di rappresentato e rappresentante:
concetti tradizionali e principi ricostruttivi – Possibilità di concepire la rappresentanza come
interesse legittimo: enucleazione della posizione dell’interesse legittimo in deduzione dei principi tematizzati dagli Epigonen – Possibilità di concepire la rappresentanza come diritto
soggettivo: concezione del diritto soggettivo come spazio di signoria della volontà del titolare
e correlativa definizione del dovere come luogo della soggezione: loro derivazione dalla struttura della sovranità – Possibilità di concepire la rappresentanza come facoltà: lo spazio
giuridicamente vuoto e le lacune dell’ordinamento – Incompatibilità della struttura monista
della sovranità con la struttura dualista della rappresentanza – Conseguente incompatibilità delle tradizionali definizioni delle situazioni giuridiche soggettive, mutuate sulla sovranità,
con l’esercizio della rappresentanza – Particolare rilevanza per la teoria dei diritti pubblici
soggettivi – Conclusione: principi ricostruttivi e proposte.
p. 321
1 CONCLUSIONE
p. 421
8
PREMESSA
Le difficoltà pratiche che emergono dall’esperienza giuridica sono
spesso indicative di sottostanti nodi teoretici non risolti, ai quali non può
far fronte il solo momento del diritto positivo se non preceduto da un atto
di fronesis.
Che la rappresentanza costituisca un problema per la dottrina dello
Stato moderno è osservazione talmente ripetuta da poter risultare scontata.
Meno frequente è imbattersi in chi, tra coloro che tentano di ovviare al
problema, per trovarvi la soluzione sia disposto ad indagarne le recondite
radici teoriche. Qui, senza la pretesa di fornire soluzioni definitive, si
cercherà di capire perché la rappresentanza costituisca un problema per lo
Stato moderno e per lo studio a guisa di dottrina che su di esso si è
edificato. L’ambito (e l’ambizione) è, pertanto, duplice: la rappresentanza
nella struttura dello Stato ed in quel particolare approccio epistemologico
che lo ha studiato a mo’ di teologia secolarizzata.
In questo senso, conviene esporre fin da subito, nei termini più
chiari, la tesi che si intende sostenere: in tema di rappresentanza politica la
struttura logica del concetto contrasta con la sua attuale regolamentazione
giuridica, cioè la rappresentanza è incompatibile con il divieto di mandato
imperativo; quest’ultimo istituto, per parte sua, risulta essere il prodotto di
dimenticati presupposti teorici scaturiti, per un verso, dalla Rivoluzione
francese e, per un altro, dalla giuspubblicistica tedesca sulle spalle della
Destra hegeliana; presupposti dai quali la riflessione odierna dimostra di
essersi affrancata, ripudiandoli, seppure con pervicacia ne mantiene
ancora in vita il prodotto giuridico, che risulta essere così d’inciampo in
quanto simulacro di una concezione dello Stato ormai (apparentemente)
superata. Non è un caso che, a partire dalla metà del Novecento, i più
attenti Staatslehrer, così come diversi esponenti della dottrina
pubblicistica italiana degli ultimi decenni, parlino del divieto di mandato
imperativo al modo di un’autentica finzione; finzione che, una volta
smascherata e svelata ai sudditi, perde anche la sua valenza operativa di
convincimento sui consociati, imponendo una riflessione più radicale, non
fosse altro che per por rimedio alla disaffezione nei confronti di ciò che
viene ormai visto come un vuoto simbolo.
Qual è la situazione giuridica soggettiva dei rappresentati? E quale
quella dei rappresentanti? Quali doveri ha l’eletto nei confronti dei propri
elettori, al di là del divieto di mandato imperativo? Lo scopo propostoci è
dunque quello di indagare la struttura logica, prima che giuridica, propria
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della rappresentanza e di confrontarla con la struttura dello Stato
moderno, per verificarne la compatibilità teorica e la possibilità di
concreto funzionamento. L’esame potrà essere utile anche al fine di
ripensare quegli istituti che, da due secoli più o meno tralatiziamente ed
acriticamente recepiti, tuttora presiedono alla partecipazione dei governati
nella direzione delle comunità politica, sia essa quella più ampia, sia essa
quella degli enti minori (territoriali e non), fino a quelle associazioni come
partiti e sindacati che, pur regolate dal diritto privato, esplicano un ruolo
incisivo nell’ambito pubblico, veicolando, in sostanza, la formazione della
legge come dei regolamenti. E si potrà valutare se ed in quale misura
questi istituti concorrano ad assicurare la politicità e la positività
dell’ordinamento giuridico intesi come il momento di individuazione del
bene comune e della predisposizione dei mezzi per il suo perseguimento.
Certi che ogni intervento del legislatore, come atto di volontà, è destinato
ad essere frustrato se non accompagnato da un momento di consapevole
riflessione critica; giacché la pretesa onnipotenza della legge rischia di
portare disordine o di rimanere lettera morta ove diriga il proprio volere al
di fuori e in contrasto con la “prudenza regia” raccomandata da Platone.
Con questi intendimenti la ricerca si snoderà su tre filoni.
In primo luogo –dopo aver censito gli strumenti logici di cui ci si
intende valere, il metodo, anzi, l’approccio conoscitivo che si vuole
adottare- si indagherà la struttura logica propria della rappresentanza, al di
là dell’ambito di applicazione tra pubblico e privato (nei limiti in cui
siffatta distinzione può essere utile e non foriera di equivoci). Poi, nella
Francia rivoluzionaria, si ricostruirà il dibattito teorico giuridico (primo ed
unico in tutte le assemblee costituenti ove poi è stato recepito l’istituto)
che ha portato all’introduzione del divieto di mandato imperativo,
consentendone l’esportazione incondizionata in pressoché tutti gli
ordinamenti. Si verificherà così la (in)compatibilità di questo istituto con
la rappresentanza, sia nel momento strutturale (essenzialmente dualista,
come si dirà), sia nel momento funzionale, ovvero nella partecipazione dei
rappresentati - governati alle decisioni fondamentali dell’ordinamento.
Infatti, crediamo di poter dimostrare che il pregiudizio monistico,
scaturito dalla Rivoluzione e consacrato nella carta francese del 1791,
contrasti con la rappresentanza non solo da un punto di vista logico -
strutturale, ma anche con lo stesso scopo operativo per il quale si ricorre a
questo paradigma giuridico, scopo che dovrebbe consistere nel propiziare
l’attività di governo, cioè l’orientare la comunità individuandone i fini
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nella tensione verso il bene comune, attività distinta dall’amministrazione,
cioè l’organizzazione dei mezzi per il perseguimento di quei fini.
Seguendo su questo filo l’eredità della Rivoluzione, l’indagine si
sposterà alle radici pseudo hegeliane della giuspubblicistica tedesca tra
Ottocento e Novecento, grazie all’elaborazione della quale, com’è noto, si
deve l’enucleazione dei principali concetti giuridici tuttora applicati dalla
dottrina dello Stato continentale, sui quali, però, gravano le spesso
dimenticate ipoteche logiche della loro origine; sicché il divieto di
mandato imperativo, nel ridurre il dualismo della rappresentanza alla sola
voce degli eletti, si dimostra ancora una volta funzionale ad una peculiare
dottrina dello Stato.
Infine, con il terzo momento, dalle osservazioni critiche si cercherà
di trarre degli spunti ricostruttivi, anche alla luce delle difficoltà rinvenute
nell’esperienza giuridica, condizione essenziale per svolgere un’indagine
circa la sussistenza o meno di una situazione giuridica soggettiva, non
vogliamo (ancora) dire un diritto, alla rappresentanza, nei poliedrici profili
del diritto a rappresentare ed a farsi rappresentare, che intrecciano il
momento attivo con il momento passivo. In questo senso dovranno essere
esaminate le figure dei diritti pubblici subiettivi e, più in generale, delle
situazioni giuridiche soggettive che legano cittadino e Stato.
Di più. Proprio un’indagine sulla struttura della rappresentanza si
offre come osservatorio privilegiato per rivedere le tradizionali figure
giuridiche soggettive di diritto e dovere, nella loro genesi e rimeditarle
alla luce delle impellenti necessità conseguenti alla crisi (se non al
ritenuto superamento) della sovranità, così come conosciuta nella
tradizionale definizione del superiorem non recognoscere. Anche per
essere muniti di un idoneo quanto opportuno bagaglio logico concettuale
con cui saggiare l’effettiva originalità di quel “nuovo” verso il quale
siamo, più o meno consapevolmente, traghettati.
STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA
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2 STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA
RAPPRESENTANZA
2.1 Posizione del problema e questioni di metodo
INDIVIDUAZIONE DEL PROBLEMA NELLE DIFFICOLTÀ DELLA DOTTRINA NEL COGLIERE LA
DEFINIZIONE DI RAPPRESENTANZA POLITICA – RICOGNIZIONE DELLO STATUS QUESTIONIS
ATTRAVERSO LA DISAMINA DEI CONTRIBUTI PIÙ E MENO RECENTI IN MATERIA: DISTINZIONE
TRA LA POSIZIONE CHE ASSEGNA LA PREMINENZA AL SISTEMA O AL MOMENTO ELETTORALE E
LA POSIZIONE CHE RICERCA UNA DEFINIZIONE DEL CONCETTO – POSIZIONE PROVVISORIA
DELL’ALTERNATIVA TRADIZIONALE TRA RESPONSABILITÀ / INDIPENDENZA DELL’ELETTO
VERSO GLI ELETTORI: INSUFFICIENZA – NECESSITÀ DI UNA RIFLESSIONE RADICALE: PROPOSIZIONE DEL PROCEDIMENTO CONOSCITIVO PER IDENTITÀ E DIFFERENZA, NON
CONTRADDIZIONE E TERZO ESCLUSO – CONTINUITÀ E DIFFERENZE CON LA DOMMATICA
TRADIZIONALE – CONCLUSIONE: INDIVIDUAZIONE DEL DIVIETO DI MANDATO IMPERATIVO
COME ELEMENTO RITENUTO CARATTERIZZANTE NELLE DIVERSE POSIZIONI DOTTRINALI E
CONSEGUENTE SUA CENTRALITÀ NELL’INDAGINE.
Proponendosi di rinnovare la "scienza politica", per avviare il
lettore alla comprensione di questo processo, Eric Voegelin sceglie
proprio di svolgere alcuni studi sulla rappresentanza.1
La centralità dell'istituto nella riflessione intorno al diritto e allo Stato
appare dall'importanza che vi hanno riconosciuto pressoché tutti i teorici
del diritto e dello Stato, seppure in misura diversa e, per certi versi, con
obbiettivi opposti. Da Marsilio da Padova, che ne tratta per la formazione
della legge, a Guglielmo d'Occam, con l'idea di riunire la Chiesa in uno
compendio rapraesentativo, a Cusano, che individuava l'autorità politica
dei cardinali nel principio elettivo, cioè nella rappresentanza di tutto il
popolo dei Christifideles o di una parte di esso, contrapponendo alla figura
del papa persona repræsentativa, la collectio repæsentativa del concilio,
individuando –forse per primo- la radice del problema che ci occupa nel
rapporto tra rappresentanti e rappresentati.2 Ed ancora dai monarcomachi,
3
1 Cfr. E. VOEGELIN, The New Sience Politic, Chicago, 1952, trad. it. La nuova
scienza politica, Torino, 1968, p. 80.
2 Non è un caso che proprio il teorizzatore della coincidantia oppositorum abbia
coniato la formula ossimorica repræsentatio identitatis, per acute osservazioni sulla quale
si rinvia a M. MERLO, Vinculum concordiae. Il problema della rappresentanza nel
pensiero di Nicolò Cusano, Milano, 1997, a cui si rinvia anche per una bibliografia
ragionata del e sull’autore.
3 Sulla rappresentanza nel passaggio dal medioevo alla modernità, per il particolare
ruolo che avrà nel seguito della trattazione, occorre segnalare fin da subito l'interessante
POSIZIONE DEL PROBLEMA E QUESTIONI DI METODO
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all'ultimo capitolo del secondo Tractatus di Spinoza.4 Per non parlare dei
più noti filosofi e giuristi, alle cui elaborazioni teoriche si devono gli
istituti recepiti nelle principali carte dell’occidente moderno.5
ricostruzione di O. von GIERKE, J. Althusius und die Entwicklung der naturrechtlichen
Staatstheorien, Breslau, 1880, trad. it. Torino, 1975, ma già anticipato in Das deutsche
Genossenschaftsrecht, Darmstad, 1868 (cfr. altresì, IDEM, Die Grundbegriffe des
Staatsrecht, Tübingen, 1915), dove viene ripresa la teoria federalistica e corporativa
propria dell'Althusius per riproporre, in anticipo su Santi Romano e Hauriou, la teoria
pluralista della società, costituita da corporazioni che si intrecciano e si raccordano, gli
Stände, Gemeinde, Genossenschaften. Teoria considerata da Voegelin (op. cit., p. 59)
viziata in radice per la concezione provvidenziale della Storia che sostiene tutta la
riflessione dell'autore, che come si dirà infra al § II.3.2, non ebbe molto seguito in
Germania, pur essendo l'unica a contrapporsi efficacemente a Gerber, a Laband e a
Jellinek. Essa, poi, troverà seguito paradossalmente in Inghilterra, dove Maitland
recependola, su di essa costruirà quella teoria della persona ficta, che, di origine
medioevale, aveva permesso la concezione dello Stato come ente scisso dalla persona del
detentore del potere (cfr. E. KANTOROWICZ, The King’s two bodies. A Study in Medioeval
Political Theology, Princeton, 1970, trad. it. Torino, 1989). Infatti, una volta appurato che
tra ceti e Stato non c'è alcuna differenza di struttura, appartenendo tutti alla categoria delle
personae fictae, la differenza è solo una questione di quantità. Per la verità, il traduttore
inglese si pone il problema teorico della natura della volontà delle corporazioni e della
personalità giuridica, affrontando il problema se questa persona ficta debba la sua
esistenza ad una mera concessione del sovrano o se il suo riconoscimento sia la semplice
presa d’atto di una volontà reale già esistente. In ogni caso l’alternativa esclude
l’originalità che tanto stava a cuore a Gierke.
4 B. SPINOZA, Tractatus theologico-politicus, nella traduzione italiana a cura di E.
Giancotti Boscherini e A Droetto, Torino, 1972.L’ultimo capitolo, il xx, com’è noto,
dimostra che in una libera repubblica sia lecito a ciascuno di pensare quello che vuole e di
dire quello che pensa. Tuttavia, la dimostrazione di questo assunto prende le mosse da un
richiamo testuale dell’Autore al precedente capitolo xvii, ove si esclude la necessità da
parte dei singoli di trasferire tutti i propri diritti nella suprema potestà, introducendo
l’istituto della rappresentanza; che assume così una duplice veste nel pensiero del filosofo -
lucidatore di lenti olandese: sia come istituto giuridico fondamentale per evitare
l’assolutismo (citando in esempio Mosé), sia come garanzia della libertà di pensiero e di
parola. Per luci ed ombre su questa “libertà soggettiva”, cfr. i contributi ormai classici di J.
DELEUZE, Spinoza et le problème de l’expression, Paris, 1968, nonché IDEM, Spinoza.
Filosofia pratica, (Paris, 1981) trad. it., Milano, 1991, p. 34 e ss.; altresì, si veda l’ancora
fondamentale studio di C. GALLICET CAVALLI, Spinoza lettore di Machiavelli, Milano,
1973, p. 171 e ss. Più recentemente, cfr. l’acuto saggio di R. BORDOLI, Baruch Spinoza:
etica e ontologia. Note sulle nozioni di sostanza, di essenza e di esistenza nell’Ethica,
Milano, 1996, specialmente p. 154 e ss, così come di particolare interesse si offre
l’originale interpretazione di A. RAVÀ, Il pensiero di Spinoza nel terzo centenario della
sua nascita. Relazione sul congresso filosofico tenutosi all’Aja dal 5 al 10 settembre 1932,
in “Rivista di Filosofia”, 1932, n. 4, p. 386 – 94; cfr. anche infra, nota 439.
STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA
13
La difficoltà nel coglierne il concetto, manifestatasi in costruzioni
di ogni specie, si deve forse a quello stretto legame che nella storia del
pensiero vede (ma svisandone il significato) la rappresentanza come
sostegno, strumento della sovranità.
Cerchiamo di chiarire l'assunto. Ripercorrendo le tappe del pensiero
giuridico si può tentare di ricostruire le definizioni di sovrano scoprendo
la caratteristica di rappresentante che le accompagna. Se si eccettuano
tradizioni orientali di teocrazia assoluta, nelle quali, peraltro, qualora il
monarca non sia direttamente dio, ne è qualificato suo rappresentante, si
riscontra quasi sempre riferita al sovrano una varia qualifica di
rappresentante dei suoi sudditi. Qualifica marginale nelle versioni più
assolutistiche, dove si tende a giustificare l'esercizio del potere con la
presunta rappresentanza dei governati. Qualifica essenziale, nelle non
meno assolutistiche dottrine democratico - assembleari, dove la
condizione di appartenenza all'assemblea, che veicola l'esercizio del
potere, deriva dalla qualifica di rappresentante. Ora, proprio le varie
esigenze a cui è stato piegato l'istituto ne hanno prodotto diverse versioni,
impedendo di mantenere una definizione unitaria. A riprova è appena il
caso di notare come il rappresentante di Hobbes non sia quello di
Rousseau, come il rappresentante degli Stati Generali non sia il membro
dell'Assemblea nazionale, come il Parlament di Jellinek non sia più
(almeno in apparenza) il Reichstag di Laband; ma più in generale, come il
rappresentante di diritto privato non sia più il rappresentante di diritto
pubblico.
La struttura rappresentativa, uguale a sé stessa dalla giurisprudenza
romana in avanti, viene attratta nell’ambito pubblico e stravolta per essere
adattata a puntello del sovrano, o per giustificare una peculiare dottrina
dello Stato. Non volendo o non potendo mutare la struttura assoluta,
5 È appena il caso di ricordare, oltre le costruzioni mutuate sul Leviathan di
Hobbes, rappresentante di tutto il popolo, il secondo Trattato sul governo di Locke; il
Patriarca di Filmer, padre e rappresentante necessario di tutti i sudditi; i Commentari di
Blakstone, al I, n 2; l’Esprit di Montesquieu; il capitolo XV del terzo libro del Contract di
Rousseau, lo Geslossene Handelstaat di Fichte, opere che daranno lo spunto per
l’elaborazione teorica di Erdmann, Gans, Gerber, Mohl, Laband, Mayer, Jellinek, Duguit,
Carré de Malberg, u.s.w.
Nel momento in cui questo lavoro veniva a compimento è apparso l’agile volume
di Bruno ACCARINO, Rappresentanza, Bologna, 1999, terzo della collana “Lessico della
politica” a cura di Carlo Galli, di cui non si è potuto tener conto se non marginalmente in
nota, ma al quale si rinvia per la sua compiuta ricostruzione dell’evoluzione delle idee di
rappresentanza nella storia delle dottrine politiche, che si spinge anche oltre l’elaborazione
di Weimar, per lanciare lo sguardo nel dibattito politologico contemporaneo.
POSIZIONE DEL PROBLEMA E QUESTIONI DI METODO
14
unica, del sovrano, gli si adatta quella binaria, dualistica della
rappresentanza, con tutte le difficoltà che ne conseguono.
Occorre allora, da un lato, tentare di individuare che cosa sia
rappresentanza, dall'altro confrontare quanto di rappresentanza vi sia nelle
prime costruzioni giuridiche a giustificazione del sovrano.
Per un altro verso tuttavia, occorre muovere l'indagine anche dalla
funzione che si vuole assegnare alla rappresentanza, agli scopi che si
vogliono ottenere con questo istituto: la struttura può essere adattata anche
per gli obbiettivi che con essa si intendono perseguire. In altri termini, pur
individuati una serie di elementi comuni, ricorrenti che concorrono a
costituire la rappresentanza, si otterranno varianti in relazione agli intenti
perseguiti da chi intende servirsi dell'istituto. Altro è chi rappresenta per
portare a conoscenza, altro chi rappresenta per agire o per governare, altra
è la rappresentanza del tutore. Si può allora convenire che il Kaiser
rappresenti tutto il popolo, purché ciò avvenga nella consapevolezza della
convenzionalità di questa definizione di rappresentanza, funzionale agli
scopi operativi a cui si mira. In questo senso tale sarà la definizione di
rappresentanza, quale necessaria alla costruzione del diritto e dello Stato
in cui rientra.
Accingendoci dunque all’indagine, risulta già da un pur sommario
esame dei contributi scientifici più recenti in tema di rappresentanza
"politica", che l'istituto appare centrale tanto nel diritto costituzionale,
quanto nella filosofia giuridica e politica, confermandone l'importanza per
la riflessione attorno al diritto e allo Stato. Tuttavia, la rinnovata
attenzione di cui gode e di cui è stato fatto oggetto non ha
immediatamente comportato un chiarimento nell’articolato dibattito
dottrinale.
Già le difficoltà per renderne una definizione, che sembrano
annidarsi nella specificazione aggettivale, dimostrano l'intreccio dei nodi
teoretici sottesi, laddove si fa per lo più un generico riferimento alla
rappresentanza nell'ambito del diritto pubblico o, comunque, a quella non
riducibile al solo diritto privato: esempio ne siano i partiti politici e i
sindacati che, seppur associazioni regolate dal codice civile, a questo non
si riferiscono per quanto riguarda la rappresentanza.6
6 Cfr. A. CORASANITI, La rappresentanza politica, in "Diritto e Società", 1992, pp.
569 e ss., specialmente p. 571; cfr. anche A.A. ROMANO, La Rappresentanza politica come
legittimazione politica, in "Arch. dir. cost.", 1991, p. 39.
Per la particolarità dell'esperienza italiana del Ventennio, tra organicismo e
corporativismo, cfr. L. PALADIN, Il problema della rappresentanza nello stato fascista, in
STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA
15
Pertanto, già considerando l'imprecisione apparentemente
fisiologica della definizione, non è qui possibile elencare esaustivamente
la corposa bibliografia sull'istituto. Dopo aver rinviato alle voci relative
delle enciclopedie specializzate, ci si limiterà piuttosto ad indicare i
contributi più recenti, soprattutto per far rilevare le diversità di approccio
e di metodo che ne sostengono le rispettive indagini, per quanto più
interessa al prosieguo della trattazione, se non altro con l’intento di fare il
punto sullo status questionis.
Alcuni autori possono essere raggruppati per il guardare soprattutto
al sistema elettorale, condizionando la delineazione del concetto di
rappresentanza al sistema di formazione dell'organo o, comunque,
riconoscendo al momento dell'elezione una posizione preminente, quando
non il fondamento, nella riflessione sull'istituto, seppure si insiste sulla
necessità di riportare l'attenzione su alcune caratteristiche ritenute
fondamentali della rappresentanza, quali la conoscibilità da parte del
rappresentante delle istanze dei rappresentati, nonché l'esigenza di
responsabilità del primo verso i secondi.7 Altri hanno messo bene in
"Studi in memoria di C. Esposito", Padova, 1972, p. 851 e ss., che riesamina la posizione
dei contributi dottrinali dell'epoca, proponendo quale chiave di lettura la distinzione tra
rappresentanza dello Stato e rappresentanza nello Stato, riabilitando particolarmente
l’opera di Carlo Esposito.
In Italia, riassume lo stato della questione, proponendo soluzioni quantomeno
innovative, il volume La rappresentanza politica, Bologna, 1985, con scritti di C. GALLI,
G. MIGLIO, P. SCHIERA ed altri; lo stesso Gianfranco Miglio, altrove, aveva sostenuto che
un mandato o è imperativo o non è: cfr. G. MIGLIO, Le trasformazioni del concetto di
rappresentanza, (1984) in IDEM, Le regolarità della politica, Milano, 1988, vol. II, p. 976.
A dimostrazione delle disparità di vedute in subjecta materia, sostiene che il divieto di
mandato imperativo svolga funzione di garanzia democratica all'interno dei partiti P.
RIDOLA, Divieto del mandato imperativo e pluralismo politico, in Scritti in onore di V.
Crisafulli, Padova, 1985, vol. II, pp. 688 e ss; in senso opposto, A. SPADARO, Riflessioni
sul mandato imperativo di partito, in "Studi parl e di pol. cost.", 1985, pp. 21 e ss. Ancora
sull'ambiguità della specificazione aggettivale del termine "rappresentanza politica", cfr.
M. COTTA, Parlamenti e rappresentanza, in P. PASQUINO (a cura di), Manuale di scienza
della politica, Bologna, 1986.
7 F. LANCHESTER, Sistema elettorale e strategie di riforma del sistema politico
italiano, in Quale riforma della rappresentanza politica?, Milano, 1985, p. 1 e ss. (atti del
seminario tenutosi a Roma, 17 gennanio 1985, a cura dello stesso e con contributi di D.
FISICHELLA, F. D'ONOFRIO, A. BARBERA, V. DI CIOLO, A. SENSINI, G. COTTURRI, R.
PAGANO, G. LONG, R. CARELLI, S. FORTUNA, P.A. CAPOTOSTI); IDEM Parlamento
europeo: il progetto di procedura elettorale uniforme in, "Quaderni costituzionali", 1986,
n. 1, p. 148 e ss; M. VOLPI, Le riforme elettorali in Francia. Una comparazione con il caso
italiano, Roma, 1987; R. RUFFILLI (a cura di), Materiali per la riforma elettorale, Bologna,
POSIZIONE DEL PROBLEMA E QUESTIONI DI METODO
16
evidenza le due anime dell’obbligatorietà del voto: da un lato il
mantenimento della libertà del singolo, dall’altro l’autogoverno del corpo
sociale che di tale libertà si alimenta.8 Alcuni individuano nel rafforzarsi
dei partiti un momento scardinante dei meccanismi rappresentativi
ereditati dalla Rivoluzione francese9. Altri ancora propongono una
costruzione della rappresentanza politica funzionale a quelle che vengono
individuate come le tre esigenze attuali dell’Italia: governabilità,
partecipazione, trasparenza.10
Infine, proprio nel momento del (parziale)
1987; G. PASQUINO (a cura di), La lenta marcia nelle istituzioni: i passi del P.C.I.,
Bologna, 1988; IDEM, Rappresentanza e democrazia, Bari - Roma, 1988.
8 G. CORDINI, Il voto obbligatorio, Roma, 1988. Sotto altro profilo, per il dovere di
recarsi alla urne, qualificato dalla dottrina costituzionalistica un dovere civico, e per il
significato della sanzione con la menzione sul certificato di buona condotta, cfr. infra al §
III.2 e III.3.
9 M. BARBERA, Rappresentanza ed istituti di democrazia diretta nell'eredità della
Rivoluzione francese, in "Politica del Diritto", 1989, p. 541 e ss. Per opposte
considerazioni su questo stesso punto, cfr. L. CEDRONI, Il problema della rappresentanza
politica in E. J. Sieyès (1789-1799), in C. Carini (a cura di), La rappresentanza tra due
rivoluzioni (1789 – 1848), Firenze, 1991, p. 25 – 38, nonché IDEM, Il lessico della
rappresentanza politica, Soveria Mannelli (CZ), 1996, specialmente p. 180, ove viene
rivalutata l’importanza per la tradizione giuridica continentale anche del legato ricevuto
dalla rivoluzione americana, che punta principalmente su di un sistema di checks and
balances, secondo un paradigma improntato più sull’equilibrio dei poteri che non sulla
separazione propria di Montesquieu.
10 F. TERESI, Le riforme istituzionali tra governabilità, partecipazione e
trasparenza, Torino, 1989; F. LANCHESTER (a cura di), Il voto degli italiani, Roma, 1988;
IDEM, Quaranta anni di legislazione elettorale in Italia: aspetti problematici, in "Nomos",
1989, n. 1. p. 1 ss. (estr.); IDEM, Rappresentanza, responsabilità e tecniche di espressione
del suffragio. Nuovi saggi sulle votazioni, Roma, 1990; E. DI NUOSCIO (a cura di), Oltre la
proporzionale: nuovi materiali per le riforme in Italia, Manduria, 1990; M.S. PIRETTI,
Giustizia dei numeri. Il proporzionalismo in Italia, Bologna, 1990; M. LUCIANI, Il
referendum impossibile, in "Quaderni costituzionali", 1991, n. 3, p. 509 ss.; IDEM, Il potere
di scelta degli elettori, in Le riforme di governo nei moderni ordinamenti policentrici,
Milano, 1991, pp. 186 e ss.; C. CHIMENTI, Considerazioni su alcune proposte di riforma
delle istituzioni, in "Nomos", 1991; E.M. GIULIANI, Sistemi elettorali e loro incidenze su
alcune realtà istituzionali, Poggibonsi, 1991; A. CERRI, Riflessioni giuridiche sul
cosiddetto paradosso delle maggioranze cicliche, in "Rivista trimestrale di diritto
pubblico", 1991, n. 1, p. 3; C. FUSARO, Principio maggioritario e forma di governo,
Milano, 1991; O. MASSARI, Democrazia dell'alternanza e riforma elettorale, in
"Democrazia e Diritto", 1991, n. 4, pp. 35 e ss; L. TENTONI, Gli strumenti per cambiare.
Viaggio nei sistemi elettorali, Roma, 1991; A. BARBERA, Una riforma per la Repubblica,
Roma, 1991; La riforma di governo nell'Italia odierna, (contributi di AMATO, BARBERA,
STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA
17
mutamento del sistema elettorale in Italia, su sei quesiti proposti da Livio
Paladin, sul tema “la forma di governo in transizione”, proprio con
particolare riguardo alle forme dei sistemi elettorali, di particolare rilievo
appare la risposta di Augusto Barbera che sulla scorta di analisi
comparatistiche, propone o l'indicazione formale del candidato-Premier o
addirittura, ma con la consapevolezza delle difficoltà sottese, il
superamento del bicameralismo paritario, conferendo il primato alla
Camera dei Deputati e trasformando il Senato in Camera delle Regioni,
riprendendo così orientamenti già noti, oltre alla previsione di un premio
di governo, da attribuirsi a seguito di ballottaggio. Dal canto suo Andrea
Manzella, rileva l'insufficienza del maggioritario a risolvere (non solo
quello della rappresentanza, ma anche) il problema della stabilità, mentre,
per altro verso, denuncia come la diversità di sistemi elettorali attualmente
operanti consenta di “rappresentare” contemporaneamente la medesima
realtà in modi diversi.11
Nella medesima prospettiva di prevalenza del momento elettorale
nella definizione di rappresentanza politica, si è orientata anche una
cospicua parte del dibattito nei paesi di tradizione tedesca,12
ove alcuni
BALBONI, CALANDRA, CHELI, ELIA, GRISOLIA, LANCHESTER, LONG, MANZELLA, ONIDA,
PALADIN, PEGORARO, TOSI) in "Quaderni costituzionali", 1991, pp. 7 e ss; A. MANZELLA,
Il Parlamento, Bologna, 1991 (I ed., 1971); S. GAMBINO (a cura di), Sistemi elettorali e
governo locale - Modelli europei a confronto, Roma, 1991; G. RICCAMBONI (a cura di),
Cittadini e rappresentanza in Europa, Milano, 1992; F. LANCHESTER, L'innovazione
istituzionale difficile: il dibattito sulla rappresentanza politica agli inizi della XI
legislatura, in "Rivista trimestrale di diritto pubblico", 1992, p. 911 ss. S.P. PANUNZIO,
Riforma delle istituzioni e partecipazione popolare, in "Quaderni costituzionali", 1992, pp.
551 e ss.; G. MOSCHELLA, Trasparenza e regolarità del procedimento elettorale, Roma,
1992; G. PASQUINO, Riformare la politica, Bari, 1992; G. SARTORI, Seconda repubblica?
Sì, ma bene, Milano, 1992; G. MIGLIO, Come cambiare. Le mie riforme, Milano, 1992; P.
COLOMBO, Governo e Costituzione, Milano, 1993; G. AMATO, Il dilemma del principio
maggioritario, in "Quaderni costituzionali", 1994, pp. 171 e ss.; nonché G.U. RESCIGNO,
Democrazia e principio maggioritario, nella stessa rivista, p. 187 e ss.
11 Gli interventi si possono leggere in "Quaderni Costituzionali", 1995, n. 2.
12 Oltre alla bibliografia internazionale ragionata dedicata alla Germania (1945-
1980) pubblicata da G. Mola in C. CARINI (a cura di), Dottrine ed istituzioni della
rappresentanza, Firenze, 1990, p. 317-372, si veda J. IENSEE e P. KIRCHHOF (a cura di),
Handbuch des Staatsrechts des Bundesrepublik Deutschland, Heidelberg, 1987, III vol.
(1988), specialmente p. 42 e 43; U. THAISEN e S. SCHÜTTEMEYER (a cura di), Bedarf das
Recht der parlamentarischen Untersuchungsausschüsse einer Reform?, Baden-Baden,
1988.
POSIZIONE DEL PROBLEMA E QUESTIONI DI METODO
18
mettono bene in evidenza le progressive complicazioni concettuali e
pratiche della rappresentanza in parallelo al moltiplicarsi delle forme di
elezione, ma anche all'estensione del suffragio;13
mentre altri studiosi
richiamano l'attenzione sul diverso sistema rappresentativo interno ai
partiti politici, nella prospettiva dell'unione europea, ritenendo che pur
avendo i partiti perso in buona parte la capacità di muovere le masse, il
vero nodo della rappresentanza si annidi nell’assunzione delle
responsabilità di partito, comunque “rappresentante” degli iscritti e, in
qualche modo, anche degli elettori.14
In questo senso, risultano di
particolare interesse i problemi di rappresentanza conseguenti al
mutamento di regime nei Paesi dell’Europa dell’Est, ove, ancora una
volta, il dibattito più che incentrarsi sulla struttura della rappresentanza,
ritiene di risolvere ogni problema nella forma di votazione,15
secondo un
orientamento che ha preso piede anche in Francia.16
13 C. WALTHER, Wahlkampfrecht, Baden-Baden, 1989; D. HARRIS SACKS, The
Paradox of Taxation: Fiscal Crises, Parliament and Liberty in England, 1450 – 1640, in
Ph. T. Hoffman & K Norberg (edited by), Fiscal Crises, Liberty and Representative
Government 1450 – 1789, Stanfort (USA), 1994. Ma su punto già si veda O BRUNNER,
Land und Herrschaft (1939), Darmstadt, 1973, trad. it. Terra e potere, Milano, 1983.
14 D.Th. TSATSOS, D. SCHEFOLD, H.P. SCHNEIDER (a cura di), Parteinrecht, in
europäischen Vergleich. Die Parteien in den demokratischen Ordnungen der Staaten der
Europäischen Gemeinschaft, Baden-Baden, 1990. In questo senso, più recentemente, cfr.:
R. Graf von WESTFALEN (a cura di), Parlamentslehre. Das Parlamentarische
Regierungssystem im technischen Zeitalter, München, 1993; propone un insolito quanto
proficuo angolo visuale, H. STEIGER, Entwicklung des Völkerrechts von 1815 bis 1945 im
Spiegel seiner Quellen, in "Der Staat", 1995, p. 130 e ss.
15 Per i problemi di rappresentanza conseguenti al mutamento di regime nei paesi
dell'est-Europa, privilegiano ancora una volta il momento elettorale: H. SLAPNICA, Die
Entwicklung der Wahlrechts in der Tschechoslowakei seit dem zweiten Weltkrieg, in "Ost
Europa Recht", 1990, p. 237 ss.; A. WEBER, Wahlsystem und freie Wahlen in Osteuropa, in
"Jahrbuch fuer Ostrecht", 1990, p. 331 e ss. In Italia si è occupato delle trasformazioni
politico-costituzionali di tali paesi S. BARTOLE, Riforme costituzionali nell'Europa centro-
orientale, Bologna, 1993.
16 Per la dottrina francese, oltre alla bibliografia internazionale ragionata dedicata
alla Francia (1945-1980) pubblicata da G. D’Agostino e G. De Simone in C. CARINI (a
cura di), La rappresentanza nelle istituzioni e nelle dottrine politiche, Firenze, 1986, p.
203-230, segnaliamo: J. CADART (a cura di), Les modes des scrutin des dix huit pays libres
de l'Europe occidental. Leur résultats et leur effets comparés. Elections nationales et
européennes, Paris, 1983; A. ROUX e P. TERNEYRE, Principio di eguaglianza e diritto di
voto, in "Politica del diritto", 1991, n. 3, p. 379 e ss.
STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA
19
Non mancano, tuttavia, ed è il secondo raggruppamento, i contributi
che propongono una riflessione diretta sul concetto di rappresentanza,
prescindendo dalla sua forma di realizzazione, riordinando la gerarchia
(logica) tra ente e sue modalità di attuazione, cioè tra rappresentanza e
sistema elettorale.17
E tra questi, primeggiano quegli studi che si occupano
17 E.W. BÖKENFÖRDE, Demokratische Willensbildung und Repräsentation, in J.
IENSEE e P. KIRCHHOF (a cura di), Handbuch, cit., II, vol. (1987), p. 39 e ss.; per le acute
osservazioni sul pensiero e l'opera di Schmitt, cfr. IDEM, Der Begriff der Politischen als
Schlüssel zum staatsrechtlichen Werk Carl Schmitts (1988) ora in IDEM, Recht, Staat,
Freiheit. Studien zur Rechtsphilosophie, Staatstheorie und Verfassungsgeschichte,
Frankfurt, 1991, p. 344 e ss. Recentemente, ricostruisce il panorama della riflessione
tedesca in tema di Vertretung des ganzen Volkes il corposo e densissimo saggio di K.A.
SCHACHTSCHNEIDER, Res publica res populi. Grundlegung einer Allgemeinen
Republiklehre. Ein Beitrag zur Freiheits-, Rechts-, und Staatslehre, Berlin, 1994, che, fra
l'altro, ricostruisce con chiarezza le posizioni di W. Mantl e R. Thoma e su cui infra;
nonché il saggio di K. WAECHTER, Studien zum Gedanken der Einheit des Staates. Über
die rechtsphilosophische Auflösung der Einheit des Subjektes, Berlin, 1994, che raccoglie
l'eredità del dibattito costituzionale tedesco attorno agli anni Venti di questo secolo. Il
problema della rappresentanza "necessaria" dei singoli nello Stato è riaffrontato con un
parallelo all'attualità in G. MARRAMAO, Dopo il Leviatano, Torino, 1995, su cui infra. In
Italia il problema della rappresentanza politica è stato oggetto di accurata ricerca e di
puntuali saggi ad opera di G. DUSO, di cui, oltre ai contributi indicati nel prosieguo,
conviene fin da subito segnalare: Logica ed aporie della rappresentanza tra Kant e Fichte,
in "Filosofia politica", 1987, p. 31 e ss.; IDEM, La rappresentanza: un problema di filosofia
politica, Milano, 1988, che muovendo dalla distinzione platonica tra eikón e phántasma,
studia il rapporto tra rappresentanza e potestà di imperio (Herrschaft), accentrando poi la
sua ricerca sul rapporto tra Schmitt, Leibholz e poi Voegelin, riconoscendo la centralità del
dibattito degli anni Venti in Germania; IDEM, La rappresentanza politica e la sua struttura
speculativa nel pensiero hegeliano, in "Quaderni Fiorentini", 1989, p. 43 e ss., su cui infra;
G. SORGI, Quale Hobbes? Dalla paura alla rappresentanza, Milano, 1989, pp. 188 e ss,
dove, coraggiosamente, si respinge la tesi della rappresentanza hobbesiana meramente
monista, riconoscendovi, invece, la compresenza di "situazione" e "rapporto", sul cui
significato, per quanto già implicitamente citato nel richiamo generale alle enciclopedie
specializzate, conviene rinviare ancora una volta a: D. NOCILLA e L. CIAURRO,
Rappresentanza politica, in "Enciclopedia del Diritto Giuffré", Milano, 1989, vol.
XXXVIII, pp. 543, nonché, in modo più esplicito, D. NOCILLA, Situazione rappresentativa
e rapporto nel diritto positivo e nelle prospettive di riforma della rappresentanza politica,
in "Arch. Giur.", 1990, pp. 87 e ss.; J.Ph. REID, The concept of representation in the age of
the American Revolution, Chicago and London, 1989, su cui infra; M.S. BARBERI,
Presenza e alterità. Tre figure della rappresentanza politica in Carl Schmitt, in "Il
Politico", 1989, p. 291 e ss. Per alcuni interessanti spunti storici, che riportano l'attenzione
su puntuali aspetti della rappresentanza, cfr. anche: C. CARINI (a cura di), La
rappresentanza nelle istituzioni e nelle dottrine politiche, Firenze, 1986; IDEM, (a cura di),
Dottrine e istituzioni della rappresentanza, Firenze, 1990; D. FISICHELLA, Crisi della
rappresentanza e nuova democrazia, in F. MERCADANTE (a cura di) Due convegni su
Giuseppe Capograssi. Roma - Sulmona 1986), Milano, 1990, pp. 449 e ss.; L. ELIA,
POSIZIONE DEL PROBLEMA E QUESTIONI DI METODO
20
del divieto di mandato imperativo, riconoscendo proprio in questo istituto
il nodo essenziale della rappresentanza. Ritenendo che il divieto del
mandato imperativo costituisca per il parlamentare un dovere ed un
diritto, in certi casi anche giurisdizionalmente azionabile e, muovendo
sempre dal disposto normativo, ricostruiscono attentamente il dibattito
sulla funzione ed il ruolo dell'istituto nell'esperienza tedesca ed italiana
della prima metà del secolo, con particolare attenzione ai corollari del
divieto di mandato imperativo quale, per esempio, il voto segreto.18
Più
radicalmente, si è anche richiamata l'attenzione sulla costruzione di
Althusius, che intende contrapporre alla struttura granitica dello Stato
moderno propria della prospettiva hobbesiana, la pluralità e l'articolazione
proposte dal filosofo di Emden accomunato in questo a Locke, Leibniz e
Montesquieu -la cui teoria della divisione dei poteri viene indicata quale
sintomo di una presupposta articolazione del concetto di Stato-
deducendo, per quanto a noi più interessa, l'affrancamento dell’Althusius
dalla categoria monista della sovranità, posizione che gli permetterebbe un
diverso approccio alla rappresentanza, muovendo dalle articolazioni
presenti nella società, secondo un metodo simile al sistema medioevale
degli Stände.19
Altri hanno collegato strettamente la rappresentanza alla
Mortati e le forme di governo, nonché P. RIDOLA, Democrazia e rappresentanza nel
pensiero di Costantino Mortati, entrambi in M. GALIZIA e P. GROSSI (a cura di), Il
pensiero giuridico di Costantino Mortati, Milano, 1990, rispettivamente pp. 245 e ss. e pp.
285 e ss. Particolarmente attento al dibattito tedesco, riconoscendone l'importanza per
l'indagine sull'istituto, P. PASQUINO, La rappresentanza politica. Progetto per una ricerca,
in "Quaderni piacentini", 1984, p. 68 e ss, che tuttavia muove dall'esperienza della
Rivoluzione francese ed in particolare di Sieyès: cfr. IDEM, Il concetto di rappresentanza e
i fondamenti del diritto pubblico della Rivoluzione: E.J. Sieyès, in F. FURET (a cura di),
L'eredità della Rivoluzione francese, Bari, 1989, pp. 297 e ss. Per le considerazioni critiche
su quest'ultimo scritto, cfr. M. BARBERIS, L'ombra dello Stato. Sieyès e le origini
rivoluzionarie dell'idea di nazione, in "Il Politico", 1991, p. 509 e ss., specialmente n. 14.
18 Così, N. ZANON, Il libero mandato parlamentare. Saggio critico sull'art. 67
della Costituzione, Milano, 1991, sul quale amplius infra § III.2. Ma sul dibattito tedesco
degli anni Venti del Novecento, cfr. l’ottima indagine di A. SCALONE, Rappresentanza
politica e rappresentanza degli interessi, Milano, 1996, sui cui infra.
19 Th. HÜGLIN, Sozietaler Föderalismus. Die politische Theorie des Johannes
Althusius, Berlin, 1991. Riporta l'attenzione sul significato e sul ruolo della rappresentanza
nella costruzione hobbesiana, L. JAUME, Hobbes et l'État représentatif moderne, Paris,
1986, ove, a pag. 185, nella distinzione tra rappresentante moderno "operante" e nuncius,
meramente "riflettente" della tradizione medioevale, sembra individuare il meccanismo di
uscita dal mitico stato di natura.
STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA
21
democrazia, pur riconoscendo che l'una non comporta o necessita
dell'altra,20
mentre da più parti si riconosce la necessità dell'effettiva
responsabilità dei governanti nei confronti dei governati, loro
“rappresentati”, fino a proporre di “integrare istituzionalmente anche i
comportamenti elettorali negativi”, cioè quelli che segnano “disaffezione
o rifiuto”.21
Ancora l'esigenza di responsabilità dei rappresentanti, quale
feed back, momento di ritorno, di controllo, di identificabilità coi
rappresentati, costituisce il nucleo essenziale di acuta riflessione nelle
correnti della dottrina italiana che più si è abbeverata all’esperienza anglo
americana.22
Tuttavia, nella ricerca attorno al concetto ed alla struttura della
rappresentanza occorre guardare anche a dei contributi meno recenti, oltre
a tutta la produzione di Carl Schmitt anteriore alla fine della guerra,23
che
affrontando, direttamente o indirettamente, il problema della
rappresentanza, è stata fatta oggetto di innumerevoli studi (su cui infra).
Interessa qui riportare l'attenzione in modo particolare sulla sua teoria del
partigiano,24
la cui importanza ci sembra essere proprio
20 D. ZOLO, Il principato democratico, Milano, 1992; L. RIZZI, Il problema della
legittimazione democratica in Kelsen e Rousseau, in "Il Politico", 1992, pp. 225 e ss. su
cui infra; F. MAZZANTI PEPE, Mably: per una democrazia a misura d'uomo, in "Materiali
per una storia della cultura giuridica", XXIII, 1993, n. 1.
21 E. BETTINELLI, Tre approcci al formalismo costituzionale. La via "prudente" del
metodo pedagogico-integrativo e la rivalutazione della rappresentanza politica, in
"Politica del Diritto", 1992, p. 213 e ss., specialmente p. 221 e 225. Riconosce che nei
meccanismi di garanzia del dissenso vada ricercata l'essenza della democrazia E. SCIACCA,
Interpretazione della democrazia, Milano, 1988.
22 G. SARTORI, Democrazia, cos'è, Milano, 1993, che peraltro riprende il suo
precedente fondamentale, Democrazia e definizioni, Bologna, 1957. In questo senso cfr.
anche P. RIDOLA, La rappresentanza parlamentare tra unità politica e pluralismo, in
"Diritto e Società", 1994, pp. 709 e ss.
23 Principalmente ricordiamo C. SCHMITT, Verfassungslehre, Berlin, 1928 (tr. it.
Milano, 1984); IDEM, Der Hüter der Verfassung, Berlin, 1931 (tr. it. Milano, 1981). Si
veda il recente contributo di C. GALLI, Genealogia della politica. Carl Schmitt e la crisi
del pensiero politico moderno, Bologna, 1997; nonché IDEM, Strategie della totalità. Stato
autoritario, Stato totale, totalitarismo nella Germania degli anni Trenta, in “Filosofia
politica”, XI, 1997, n. 1.
24 C. SCHMITT, Theorie des Partisanen: Zwischenbemerkung zum Begriff des
Politischen, (1963) III ed., Berlin, 1992 (tr. it. della I ed., Milano, 1981). Per questi aspetti,
cfr. le puntuali ed acute osservazioni di F. GENTILE, Intelligenza politica e ragion di stato,
POSIZIONE DEL PROBLEMA E QUESTIONI DI METODO
22
l'irrappresentabilità come categoria propria, necessaria conseguenza della
struttura "irriducibile" del partigiano, inteso come colui che, pur essendo
parte, si pone come il tutto e, di conseguenza, non può ammettere la
(reale) esistenza di un rappresentato da cui ripete la sua legittimazione, né
l’eventualità di farsi rappresentare da alcuno diverso da sé;
irrappresentabilità che manifesta tutta la sua rilevanza se, alla lettura del
contributo di Schmitt, si tiene presente lo studio di Cassirer sullo Stato,25
alla ricerca degli elementi costitutivi (ben inteso, logici, non meramente
positivi, e, quindi quasi “mitici”) della massima forma di organizzazione
sociale propria della modernità, inaugurando o, meglio, riprendendo un
filone che tenta di superare il momento di esegesi del dato normativo
costituzionale, magari corroborato con ricerche sulle origini storiche dei
disposti, per investigare le difficoltà concettuali che sottendono i
problematici Grundbegriffe su cui poggia, in fondo, la norma
fondamentale, nella versione positiva, o nella variante kelseniana di
presupposto logico.26
E non è un caso che tali ricerche giungano a fondersi
II ed., Milano 1984, p. 97. Per la concezione della rappresentanza in Carl Schmitt, cfr.
anche infra nel testo.
25 E. CASSIRER, Il mito dello Stato, trad. it. Milano, 1950, soprattutto pag. 409 e ss.
Su prospettiva analoga si muove J.L. TALMON, The origins of totalitarian democracy,
London, 1952 (tr. it. Bologna, 1967); per altro verso J.H. KAISER, La rappresentanza degli
interessi organizzati, (1956), trad. it., Milano, 1993.
26 Per una prospettiva che, superando le angustie del diritto statuale, riporta il
dibattito sul piano della migliore teoria generale, proprio nel momento in cui muoveva i
primi passi il progetto di unione europea, cfr. M. DUVERGER, Esquisse d'une théorie de la
Représentation politique, in L’évolution du Droit public. Etudes offertes à Achille Mestre,
Paris, 1956, pp. 212 e ss. Nella rinascita della filosofia pratica - su cui cfr. l'esaustivo
saggio di E. BERTI, Aristotele nel Novecento, Bari, 1992- la rappresentanza trova diretta
applicazione, anzi, rilevanza di archetipo in E. VOEGELIN, The New Science of Politics,
Chicaco, 1952 (tr. it. Torino, 1968) su cui infra; in prospettiva opposta, per le aporie del
principio "tutto il potere a nessuno", cfr. R.A. DAHL, Who governs? Democracy and Power
in an American City, New Heven & London, 1961; S. LANDSHUT, Der politische Begriff
der Repräsentation (1964) in H.H. RAUSCH (a cura di), Zur Theorie und Geschichte der
Repräsentation und Repräsentativverfassung, Darmstadt, 1968, p. 482 e ss.; G. LEIBHOLZ,
Das Wesen der Repräsentation und der Gestaltwandel der Demokratie in 20. Jahrhundert,
3° ed., Berlin, 1966 (ma la prima edizione, sotto titolo diverso è del 1929), trad. it. La
rappresentazione nella democrazia, Milano, 1989, in cui il ruolo della Sippe, presenta
curiose assonanze, seppure in prospettive totalmente diverse di ricerca, con la definizione
di gruppo quale in G. CAPOGRASSI, La nuova democrazia diretta, in Opere, Milano, 1959,
vol. I, pp. 469 e ss.
STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA
23
con studi squisitamente logici sulla rappresentanza come presenza
dell’assente,27
oppure con indagini più ampie che rivisitano il ruolo più
generale della politica, rinverdendo la tradizione degli studi di dottrina
dello Stato tra il XVIII e XIX secolo.28
Tentando di ricercare gli elementi ricorrenti negli studi sulla
rappresentanza, per altro verso, com'è noto, pur muovendo da molteplici
approcci e condotte con diversi metodi, le indagini sull'istituto sembrano
tuttavia incontrare una difficoltà comune nel rapporto tra rappresentati e
rappresentanti, che ci si prospetta come la reale difficoltà della
27 Per il simbolo come rappresentanza dell'assente, cfr. E. CASSIRER, Filosofia
delle forme simboliche, trad. it. Firenze, 1967; H.F. PITKIN, The Concept of
Representation, Berkeley, 1967; E. FRAENKEL, Die repräsentative und plebiszitäre
Komponente im modernen Verfassungsstaat, in H.H. RAUSCH (a cura di), Zur Theorie und
Geschichte der Repräsentation und Repräsentativverfassung, Darmstadt, 1968, p. 330 e
ss.; J. ROELS, Le concept de représentation politique au XVIII siècle, Louvain-Paris, 1969;
programmatico fin dal titolo nel ridimensionare il ruolo della rappresentanza, ricordando
che comunque non può essere la fonte di ogni potere statale, D. STERNBERGER, Nicht alle
Staatsgewalt geht vom Volke aus, Stuttgart, 1971; IDEM, Kritik der dogmatischen Theorie
der Repräsentation (1971) in Herrschaft und Vereinbarung, Frankfurt a. M., 1980, p. 175
e ss.; B. MONTANARI, La questione della rappresentanza politica in Hans Kelsen, in
"RIFD", 1972, p. 200;
28 Per un'indagine sul concetto di rappresentanza, muovendo da un'analisi del
significato del termine, dall'antichità, fino al secolo scorso, cfr. H. HOFMANN,
Repräsentation. Studien zur Wort und Begriffsgeschichte von der Antike bis ins 19.
Jahrhundert, Berlin, 1974; W. MANTEL, Repräsentation und Identität, Wien, 1975; H.
EULAU e P.D. KARPS, The Puzzle of Representation: specifying components of
responsiveness, in "Legislative Studies Quarterly", 1977, p. 233 e ss.; R. BENDIX, Kings or
People. Power and Mandate to Rule, Berkeley, 1978; V. HARTMANN, Repräsentation in
der politischen Theorie und Staatslehre in Deutschland, Berlin, 1979; per una prospettiva
più ampia, cfr. J. HABERMAS, Cultura e critica. Riflessioni sul concetto di partecipazione
politica ed altri saggi, Torino, 1980, parzialmente ripreso in IDEM, Morale Diritto Politica,
Torino, 1992, pp. 81 e ss. Per lo sviluppo della rappresentanza politica tra "spazio gotico"
e spazio illuministico cfr. P. VIOLANTE, Lo spazio della rappresentanza - Francia,
Palermo, 1981, su cui infra; N. BOBBIO, Democrazia, maggioranza e minoranze, Bologna,
1981; IDEM, Il futuro della democrazia, Torino, 1984; D. FISICHELLA, Il concetto di
rappresentanza, introduzione all'antologia dallo stesso curata La rappresentanza politica,
Milano, 1983, p. 3 e ss., ora in IDEM, La rappresentanza politica, Bari – Roma, 1996, su
cui infra § III.3; H. QUARITSCH, Staatsangehörigkeit und Wahlrecht, in "Die öffentliche
Verwaltung", 1983, p. 1 e ss.; R.A. RHINOW, Grundprobleme der schweizerischen
Demokratie, in "Zeitschrift für Sozialreform", 1984, p. 111 e ss. In senso più generale, ma
con chiarezza nelle distinzioni dai concetti affini e/o complementari, cfr. A. PODLECH,
voce Repräsentation, in Geschichtliche Grundbegriffe, Band 5., Stuttgart, 1985.
POSIZIONE DEL PROBLEMA E QUESTIONI DI METODO
24
rappresentanza.29
In termini più espliciti, riprendendo le fila delle varie
posizioni, la quaestio potrebbe riassumersi così: se ed in che misura i
29) Questa, invero, è la difficoltà che, ineludibile, si è sempre riproposta a partire
dall'intervento del vescovo Filippo Pot agli Stati Generali di Tour, nel 1484, e su cui hanno
dovuto misurarsi tutte le successive riflessioni. Tra le opere fondamentali meno recenti, sui
cui maggiore è fiorito il dibattito, ricordiamo: H. AHRENS, Juristische Enzyklopädie oder
organische Darstellung der Rechts und Staatswissenschaft auf Grundlage einer ethischen
Rechtsphilosophie, Wien, 1855; IDEM, Corso di diritto naturale o di filosofia del diritto,
trad. it. di A. Marghieri, 2 voll., Napoli, 1872; R. von MOHL, Staatsrecht, Völkerrecht und
Politik, 2 voll., Tübingen, 1860; P. DANDURAND, Le mandat impératif, Paris, 1896; H.
SIMONNET, Le gouvernement parlamentaire et l'Assemblée Constituante de 1789, Paris,
1899; C. KOCH, Les origines françaises de prohibition du mandat impératif, Nancy, 1905;
A. PRINS, De l’esprit du Gouvernement Démocratique, Paris, 1905; O. REINCKE, Die
Verfassung des Deutschen Reichs, Berlin, 1906; F. MÜLLER, Begriff und Rechte des
deutschen Bundesrates, Heidelberg, 1908 E. ZWEIG, Die Lehre vom Pouvoir Constituant.
Ein Beitrag zum Staatsrecht der französischen Revolution, Tübingen, 1909; A. VOEGELS,
Die staatsrechtliche Stellung der Bundesratsbevollmächtigten, Tübingen, 1909,
specialmente § 5, Stellung der Bundesratsbevollmächtigten den sonstigen Reichsorganen,
p. 30 e ss.; R. REDSLOB, Die Staatstheorien der französischen Nationalversammlung von
1789, Leipzig, 1913; O. von GIERKE, Die Grundbegriffe des Staatsrecht, Tübingen, 1915;
K. LOEWENSTEIN, Volk und Parlament. Nach der Staatstheorie der französischen
Nationalversammlung von 1789. Studien zur Dogmengeschichte der unmittelbaren
Volksgesetzgebung, München, 1922 (rist. 1964); O. HINTZE, Weltgeschichtliche
Bedingungen der Repräsentativverfassung, 1931, ora in Gesammelte Abhandlungen,
Göttingen, 1961; H.J. WOLFF, Die Repräsentation (1934) in H.H. RAUSCH (a cura di), Zur
Theorie und Geschichte der Repräsentation und Repräsentativverfassung, Darmstadt,
1968, p. 116 e ss.; F. PIERANDREI, I diritti subbiettivi pubblici nell'evoluzione della
dottrina germanica, Torino, 1940; W. SAUER, Juristische Methodenlehre, Stuttgart, 1940
(rist. 1970); H. JAEGER, Grundzüge des öffentlichen Rechts, Stuttgart, 1948; C.J.
FRIEDERICH, Constitutional government and democracy, Boston, 1950 (tr. it. Vicenza,
s.d.); E. THOMPSON, Popular sovereignty and the French Constituant Assembly 1789-
1791, Manchester, 1952; L. BERGSTRASSER, Die Entwicklung des Parlamentarismus in
Deutschland, Laupheim, 1954; M. DRAHT, Die Entwicklung der Volksrepräsentation
(1954), in H.H. RAUSCH (a cura di), Zur Theorie und Geschichte der Repräsentation und
Repräsentativverfassung, Darmstadt, 1968, p. 260 e ss.; P.G. GRASSO, Sui sistemi elettorali
a collegio uninominale con rappresentanza delle minoranze, in "Riv. trim. dir. pubb",
1955, p. 603 ss.; IDEM, Le norme sull'eleggibilità nel diritto pubblico italiano, in "Riv.
trim. dir. pubb.", 1957 p. 720 e ss., nonché p. 920 e ss.; J. DILLIER, Das Parlament als
Richter, Freiburg, 1958; E. FRAENKEL, Die repräsentative und plebiszitare Komponente in
demokratischen Verfassungsstaat, Tübingen, 1958; R. KOSELLECK, Kritik und Krisis,
Freiburg - München, 1959 (tr. it. Bologna, 1972); M.J. RUSSEL, Representative institutions
in Reinassance France (1421-1559), Madison, 1960; K. LOEWENSTEIN, Beitrage zur
Staatssoziologie, Tübingen, 1961; U. SCHNEUNER, Das repräsentative Prinzip in der
modernen Demokratie, in Festschriften für Hans Huber, Bern, 1961, p. 222 e ss; A.
MARONGIU, Il Parlamento in Italia nel Medioevo e nell'Età moderna, Milano, 1962; A.
PFITZER, Der Bundesrat, Bonn, 1963; E. FRAENKEL, Deutschland und westlichen
STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA
25
rappresentanti siano responsabili verso i rappresentati per il loro operato;
se ed in che misura gli eletti debbano ascoltare (e seguire) le istruzioni
degli elettori, cioè in che misura la volontà e/o gli interessi dei primi sia, o
debba essere, manifestata dai secondi. Donde si impone una preliminare
questione di metodo, in quanto si sono date e si possono offrire varie
risposte a tali domande in ragione della diversa funzione che si è inteso
volta per volta assegnare alla rappresentanza, concepita ora come
legittimazione del potere costituito o come metodo per la formazione della
volontà dello Stato,30
ora come forma di conoscenza delle istanze dei
Demokratien, Stuttgart, 1964; A. BHOM - F.A. von der HYDITE, Krise des
Parlamentarismus, in Beitrage zur Begegnung von Kirche und Welt, Gottenburg, 1964; W.
APPELT, Geschichte der Weimarer Verfassung, (1946) II ed. München und Berlin, 1964,
specialmente p. 176 e ss.; C.R. FRIED, Comparative political institutions, London, 1966;
Ch. MÜLLER, Das imperative und das freie Mandat, Leiden, 1966; E. SCHMITT,
Repräsentation und Revolution, München, 1968; K. von BEIME, Intereßengruppen in der
Demokratie, München, 1969; IDEM, Die parlamentarischen Regierungßystem in Europa,
München, 1970; H. MEYER, Wahlsystem und Verfassungsordnung. Bedeutung und
Grenzen Wahlsystem und Gestaltung nach der Grundgesetz, Frankfurt (a.M.), 1973; E.
SCHMITT, Rapresentatio in toto und rapresentatio singulariter, in Die Französischen
Revolution, Darmstadt, 1973; R. KOSELLECK, Preußen zwischen Reform und Revolution,
Stuttgart, 1975; J. ELLUL, Storia delle Istituzioni, tr.it. Milano, 1976; E. RUFFINI, Il
principio maggioritario, Milano, 1976; K. BOSL (a cura di), Die moderne
Parlamentarismus und seine Grundlagen in der ständischen Repräsentation, Berlin, 1977;
D. SUHR, Repräsentation in Staatslehre und Sozialpsychologie, in "Der Staat", 1981, p.
517 e ss; BRUNNER, CONZE, KOSELLECK (a cura di), Geschichtliche Grundbegriffe, Band 6,
Stuttgart, 1990; E.W. BÖCKENFÖRDE, Staat, Verfassung, Demokratie. Studien zur
Verfassungstheorie und zum Verfassungsrecht, Frankfurt, 1991; D. GRIMM, Die Zukunft
der Verfassung, Frankfurt, 1991.
30) Cfr. l'acuto saggio di L. RIZZI, Il problema della legittimazione democratica in
Kelsen e Rousseau, in "Il Politico", 1992, n. 2, pp. 225-258, specialmente, p. 226 ove, alla
ricerca di una continuità teoretica tra Rousseau e Kelsen, tra chi nega la rappresentanza e
chi la denuncia come finzione, si indagano i fondamenti della teoria kelseniana attorno alla
rappresentanza come procedura di formazione delle leggi, avendo condizionato la validità
dell'ordinamento ad un certo grado di indipendenza dalla volontà di coloro che vi sono
sottomessi (p. 231, ma vedi anche p. 250). Per l'applicazione delle teorie del pensatore
praghese ad un istituto di diritto costituzionale americano, cfr. le stringenti deduzioni di L.
GIANFORMAGGIO, Kelsen ed il presidenzialismo, in "Teoria Politica", 1995, n. 1, p. 45 e ss,
che muovendo dalla finzione della volontà popolare, revoca in dubbio la tralatizia
correlazione tra elezione diretta e rappresentatività della volontà popolare, implicitamente
confermando che il nodo teoretico della rappresentanza dipende solo in stretta misura dal
criterio elettorale.
POSIZIONE DEL PROBLEMA E QUESTIONI DI METODO
26
governati,31
ora come processo di formazione della volontà comune.32
Sicché, riformulando in altri termini i nodi che presenta la questione, lo
studio scientifico dell'istituto, intendendo con questo un'indagine
improntata sulla convenzionalità e operatività della riflessione, porta ad
assumere ipoteticamente, ad enucleare tante definizioni convenzionali di
rappresentanza, quanti sono i risultati operativi che si vogliono
raggiungere con tale istituto,33
piegandolo, di volta in volta, alle
31) Per la ricostruzione teorica in questo senso, cfr. A. BARBERA, Rappresentanza e
istituti di democrazia diretta nell'eredità della Rivoluzione francese, cit., nonché A.A.
ROMANO, La rappresentanza politica come legittimazione politica, cit., specialmente p. 86.
All’estero, cfr. H. HOFMANN, Repräsentation, Berlin, II ed., 1992, specialmente p. 391, che
individua in Hobbes (specificamente in De cive, cap. V, par. 9) il mutamento della
rappresentanza per conoscere in rappresentanza costitutiva dello Stato, cioè come
sussunzione delle volontà particolari nell’unica volontà del sovrano, secondo un passaggio
che la dottrina tedesca sottolinea con il mutamento del termine, da Vertretung, al
neologismo di matrice latina (medioevale) Repräsentation. In questo senso, cfr. IDEM, Der
spätmittelalterliche Rechtsbegriff der Repräsentation in Reich und Kirche, in “Der Staat”,
1988, p. 523 e ss.
32) Recentemente, cfr. A. CORASANITI, La rappresentanza politica, cit.,
specialmente p. 571, nonché le osservazioni di A. BARBERA, op. ult. cit., p. 544. Cfr. altresì
J. HECKER, Die Perteienstaatslehre von Gerhard Leibholz in der wissenschaftlichen
Diskussion, in "Der Staat", 1995, p. 287 e ss.; B. HALLER, Repräsentation. Ihr
Bedeutungswandel von der hierarchischen Gesellschaften zum demokratischen
Verfassungsstaat, Münster, 1987. Le linee fondamentali di questa posizione, pur nella
varietà che la caratterizza, producono una tensione tra chi ritiene sufficiente il mero
convincimento dei consociati di concorrere alla formazione di un comune volere cui
sottostare, e chi non ritiene sufficiente la fictio, pur riconoscendone l’indubitabile efficacia
operativa. In questo modo, però, si rischia di perdere di vista l’oggetto di indagine,
accecati come si è dall’obbiettivo perseguito. In altri termini, per questa via, la ricerca
della fondamentale struttura della rappresentanza passa in secondo piano, purché si giunga,
realmente o fittiziamente, alla formazione di una volontà comune rappresentativa, anche
mediante un meccanismo che più nulla ha di rappresentativo. Esempio di quest’ultima
posizione è dato dalla concezione professata da D. FISICHELLA, La rappresentanza politica,
Roma - Bari, 1996 (su cui amplius infra, § III.3) ove la rappresentanza altro non sarebbe
che l’arena di una competizione politica, un agone secondo regole prefissate, per la
conquista del potere, cioè per far valere la propria volontà come la volontà di tutti. Ma era
già stata denunciato l’effetto perverso di questa costruzione che impone (ai partiti, alle
correnti, ai sindacati) continue riaffermazioni della propria rappresentatività, misurando i
propri rapporti di forza con il frequente ricorso alle urne: cfr. L. ORNAGHI, V.E. PARISI, La
virtù dei migliori, Bologna, 1994, specialmente p. 108 e ss.
33) L'enucleazione delle categorie della convenzionalità ed operatività, quali
fondamenti epistemologici del procedimento conoscitivo scientifico, costituisce oggetto di
acuta analisi in F. GENTILE, Intelligenza politica e ragion di stato, II ed., Milano, 1984,
STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA
27
contingenti necessità pratiche o, forse meglio, poietiche,34
del momento.
In virtù della stessa impostazione epistemologica di questa peculiare
Methodenlehre, ne consegue che l'obiettivo non sarebbe tanto quello di
ricercare il tratto essenziale della rappresentanza -come di qualsiasi altro
istituto o, più in generale, di ogni concetto35
- enucleazione asseritamente
dichiarata per un verso opinabile e per un altro inutile, quanto piuttosto si
tratterebbe di ricostruire di volta in volta una diversa struttura dell'istituto,
secondo le funzioni che si intendono affidargli.36
Per cui altro sarebbe la
che, dopo aver dedotto da tali premesse le aporie dell'applicazione del metodo scientifico
allo studio del diritto e dello Stato, denunciandone l'insufficienza, ne mette in evidenza le
differenze che lo oppongono al procedimento anipotetico, fondato sulla problematicità
pura, secondo il metodo della dialettica classica cui si accompagna il principio di non
contraddizione e del terzo escluso.
34) Il riferimento è alla bipartizione aristotelica tra teoria e prassi, o alla
tripartizione conseguente alla distinzione tra prassi e poiesi (Et. Nic., II, 1, 1103 a b; II, 6,
1106 a; VII, 3, 1146 b - 1147 a), su cui cfr. infra. Ad ogni modo, qui interessa mettere in
evidenza la distinzione tra l'operatività e la pratica nell'accezione aristotelica del termine,
ripresa e posta a fondamento, per quanto riguarda la rappresentanza, che ne è addotta come
esempio, da E. VOEGELIN, La nuova scienza politica, cit., in un più ampio movimento di
rinascita della filosofia pratica, in reazione agli esiti totalitari della prima metà del nostro
secolo, su cui cfr. E. BERTI, Aristotele nel Novecento, Bari, 1992, specialmente p. 194 e ss.
Cfr. anche P.J. OPITZ, Politische Wissenschaft als Ordnungswissenschaft. Anmerkungen
zum Problem der Normativität im Werke Eric Voegelins, in "Der Staat", 1991, p. 349 e ss..
35) Che anzi, in questa prospettiva, non avrebbe alcuna dignità logica conoscitiva e,
o proprio perché, privo di rilevanza operativa, nella sua indeclinabilità ipotetica. Per la
distinzione tra concetto come sostanza, der Grund sotto le apparenze mutevoli, e concetto
come conoscenza dell'adoperabilità, cfr. le acute e dense riflessioni di M. GENTILE,
Trattato di Filosofia, Napoli, 1987, p. 25 e ss. Per quanto più rileva nel campo del diritto,
cfr. J. KLÜVER, Begriffsbildung in den Sozialwissenschaften und in der Rechtswissenschaft,
in G. JAHR e W. MAIHOFER (a cura di), Rechtstheorie. Beiträge zur Grundlagendiskussion,
Frankfurt (a. M.), 1971 (?), p. 369 e ss. A questo proposito, sulle recenti tendenze della più
accreditata dottrina americana, cfr. le osservazioni di M. PAWLIK, Ronald Dworkin und der
Rechtsbegriff, in "Rechtstheorie", 1992, p. 289 e ss.
36) Con Frosini, distinguo due accezioni del termine «struttura»: da un lato, intesa
in modo meccanico, si riferisce "ad una parte sia pure fondamentale, che può staccarsi
dalle altre, alle quali è collegata secondo le leggi fisiche, che governano il mondo della
materia inerte" e corrisponde al termine tedesco Struktur. In un secondo senso la struttura è
intesa "in modo organico, e significa l'unità profonda di una forma vivente: essa
rappresenta per così dire la forma interna di un organismo" ed è ritenuta corrispondere più
al termine tedesco Gestalt (cfr. V. FROSINI, Il concetto di struttura e la cultura giuridica
contemporanea, in "RIFD", 1959, n. 2 e 3, p. 167 e ss, distinzione ripresa in IDEM, La
struttura del diritto, Milano, (1962), II ed., 1968.
POSIZIONE DEL PROBLEMA E QUESTIONI DI METODO
28
rappresentanza per conoscere, altro la rappresentanza per deliberare, altro
ancora la rappresentanza per consigliare; varianti che a loro volta
troverebbero ulteriore moltiplicazione nelle diverse applicazioni, di volta
in volta, al Parlamento, ai consigli degli enti locali, ai partiti ed ai
sindacati.
A questo proposito, è emblematico come pure nel variare delle
posizioni (varietà scientificamente legittima), singolarmente un dato
appaia costante: l'assunto del divieto di mandato imperativo, spesso
acriticamente considerato il punto di cesura tra rappresentanza medioevale
e rappresentanza moderna, ossia il criterio qualificante la rappresentanza
c.d. "politica", intesa quasi estranea, se non antitetica, alla rappresentanza
giuridica, ove si fa per lo più riferimento alla rappresentanza di diritto
privato, figura dogmatica modellata sul mandato.37
A questo si aggiunga la considerazione per cui l'attuale tendenza dei
contributi scientifici dedicati al tema, mira paradossalmente a fondare la
legittimazione del potere sulla presunta rappresentanza e il consenso dei
governati, unita alla massima indipendenza dei governanti.38
Tutto ciò,
peraltro, sembra intrecciarsi con la fondamentale questione, indicata
all'inizio, del problematico rapporto tra rappresentati e rappresentanti,
In questo secondo senso al termine struttura è correlato il concetto di funzione che,
seppure non può plasmare su sé stessa la struttura, pena la convenzionalità di questa, su di
essa influisce, proprio in ragione dell'organicità che la caratterizza nel secondo senso
sopraindicato.
Sulla funzione del diritto, quale momento dell'indagine che completa la ricerca
della struttura, preservandola dalle critiche di mero dogmatismo, cfr. N. BOBBIO, Dalla
struttura alla funzione. Nuovi studi di teoria del diritto, Milano (1977), II ed., 1984.
37) Per la contrapposizione tra “rappresentanza giuridica” e “rappresentanza
politica” cfr. G. U. RESCIGNO, Alcune note sulla rappresentanza politica, in “Politica del
Diritto”, 1995, n. 4, p. 543 e ss., su cui amplius infra. In senso opposto, è nota
l'osservazione di N. BOBBIO, Il futuro della democrazia, Torino, 1984, p. 125, secondo cui
la democrazia tende a sussumere la struttura, il metodo e i contenuti del diritto privato, cui
non si sottrarrebbe nemmeno la rappresentanza politica.
38) Per la critica alla definizione e funzione della rappresentatività cfr. A.A.
ROMANO, La rappresentanza, cit., p. 43; nonché G. DUSO, La rappresentazione e l'arcano
dell'idea, in "Il Centauro", 1985, p. 15 e ss. Cfr. altresì H. HOFMANN, Geschicklichkeit und
Universalitätsanspruch des Rechtsstaats, in "Der Staat", 1995, p. 1 e ss. In altro senso, in
modo ancora più radicale, le recenti riforme elettorali, orientate verso il sistema
maggioritario sono state introdotte dichiaratamente proprio per garantire stabilità, seppure
a scapito della "somiglianza" con l'elettorato, criterio fondamentale del sistema
proporzionale.
STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA
29
sicché la direzione intrapresa, che sembrava quella di tendere alla
massima rappresentatività, alla massima somiglianza, ma non alla
rappresentanza (sintesi di situazione rappresentativa e rapporto tra
rappresentante e rappresentato),39
cercando cioè sistemi elettorali che
assicurassero quanto più è possibile la somiglianza tra organo
rappresentante e comunità rappresentata, tra eletto ed elettore, sembra ora
declinare tale obiettivo in favore della stabilità del politeuma. Ed è
emblematico che in entrambi i casi, il diverso -quando non l'opposto-
obiettivo operativo passi attraverso il divieto di mandato imperativo,
negando ogni rapporto tra governanti e governati, tra cui, in primis, la
responsabilità degli eletti verso gli elettori, tenendo fermo cioè quel limite
che è stato assunto come caratteristica precipua della rappresentanza c.d.
"politica". In altri termini, il divieto di mandato imperativo sembra
strumento obbligato per raggiungere i diversi obbiettivi operativi verso i
quali tende la speculazione scientifica più recente sulla rappresentanza
politica in particolare, ma anche nella filosofia politica più in generale,
guardando al divieto di mandato imperativo sia per la presunzione di
somiglianza con il corpo elettorale, seppur senza responsabilità verso
quest’ultimo, sia per la garanzia di stabilità dell’assemblea, che non può
(entro certi limiti) essere delegittimata dai “rappresentati”.
Proprio l'intrinseca aporeticità di una siffatta prospettiva impone
dunque una riflessione più radicale, vale a dire non meramente funzionale
all'obiettivo operativo perseguito con l'istituto nelle differenti costruzioni
sul diritto e sullo Stato, bensì anipotetica, radicalmente problematica, in
una parola, filosofica.40
In altri termini, per una riflessione attorno ai
fondamenti costitutivi del diritto e dello Stato che non voglia limitarsi al
piano del convenzionale e dell'operativo, per non incorrere nelle relative,
39) Per l'individuazione di “situazione” e “rapporto” come i due elementi costitutivi
della rappresentanza, nonché per i riferimenti dottrinali e bibliografici sull'argomento, si
veda il paragrafo successivo. Tuttavia, preme notare fin da subito che il binomio
“situazione” / “rapporto” non ha nulla a che vedere con la contrapposizione tra
rappresentanza / identità, secondo il modello proposto da Schmitt e ripreso poi da
Voegelin e Leibholz: cfr. infra alla nota 80.
40) Con le parole di M. GENTILE (Trattato di Filosofia, Napoli, 1987, p. 48 e 53):
"La problematicità è invece un atteggiamento teoretico, cioè appartiene al sapere in quanto
tale, e ne costituisce la stessa condizione; giacché il sapere sorge solo in quanto il
conoscere non risulti adeguato a se stesso e richieda il concetto o la dimostrazione", per cui
la filosofia "non può costituirsi se non come risposta ad una domanda, che ecceda ogni
confine particolare e si estenda ad ogni possibile aspetto di investigazione".
POSIZIONE DEL PROBLEMA E QUESTIONI DI METODO
30
già denunciate, aporie epistemiche,41
si impone la ricerca di un tratto
essenziale, secondo il procedimento di indagine per “diversità” e
“comunanza” propri della dialettica classica, alla luce dei principi di non
contraddizione e del terzo escluso.42
È interessante notare come la riproposizione di questi canoni del
procedimento conoscitivo, che, ricordiamolo, vantano origini nell’antica
Grecia, riprenda in pieno la tradizione della metodologia giuridica che a
sua volta, in stretto connubio con la filosofia, aveva proceduto, seppur con
alterne vicende, da Irnerio in avanti. Emblematico è il confronto delle
monografie in subjecta materia, soprattutto ad opera della dottrina
41) Cfr. supra, alla nota 33. Alle difficoltà epistemologiche sopra ricordate
nell’enucleazione dei profili essenziali dell’istituto, si debbono aggiungere anche i
problemi connessi al fondamento dello Stato che vengono condizionati dal variare della
concezione di rappresentanza che viene accolta.
42 Seppure rimanga affermata nel linguaggio corrente la dizione principio per
identità e differenza, la dottrina più attenta già da qualche decennio ha messo in luce come
questa dicitura risulti impropria. Infatti, il confronto dialettico non potrebbe darsi “per
identità”, poiché, in ossequio alla confutazione platonica del sofista attorno alla
quadripartizione dell’essere (uno - molti, quieto – in moto) due termini “identici” non
potrebbero sussistere, in quanto sarebbero la medesima cosa. Per questo l’indagine
dovrebbe avvenire solo per “comunanza e diversità”, cioè raggruppando e dividendo gli
oggetti da conoscere per ciò che gli accomuna e per ciò che li diversifica. In verità, a ben
vedere, la “comunanza” dei due oggetti a confronto può darsi solo tramite un
procedimento analitico che, sezionandoli, individui i profili “identici” tra i due termini che,
per questo aspetto, diventano “comuni”. Come possono dirsi “comuni” due oggetti di
indagine, se non legati da spetti che sono tra loro “identici”? La comunanza non può che
essere data dalla corrispondenza dell’oggetto con il suo archetipo. Ciò che rende due
termini “comuni” non può che essere l’identità, cioè l’esatta sovrapponibilità di uno o più
dei loro aspetti, che poi questi aspetti si presentino già distinti dal fatto di accedere a due
termini diversi, fa si che gli oggetti di indagine siano due e non uno. Altresì, il
procedimento della dialettica classica deve essere completato con il principio, anch’esso di
origine platonica, di non contraddizione e terzo escluso, ponendo la ricerca in termini di
alternativa dualista e identificando il termine di indagine in un dato tempo, giacché il fluire
del “divenire” consente a Socrate (per mantenere il noto esempio) di essere prima seduto e
poi in piedi, giacché solo nello stesso tempo egli non può essere in piedi e seduto. Così
come, l’alternativa tra identità e differenza può esplicare la sua efficacia euristica solo se
mantenuta nei termini dell’alternativa, giacché l’introduzione di un tertium genus sposta il
termine di indagine compromettendo il confronto. Per questo motivo, pur mantenendo la
consapevolezza della diversità che distingue “identità” da “comunanza” (e proprio a questa
condizione) non riteniamo di dover mutare la terminologia di quello che è orami
conosciuto come principio per identità e differenza, non contraddizione e terzo escluso.
STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA
31
germanica, che maggiormente si è occupata dell'argomento.43
Com'è noto,
proprio la ricerca di un preteso maggior rigore, ancora una volta sull'onda
della filosofia, ma questa volta rappresentata dal positivismo comtiano, ha
spinto, i giuristi in un primo tempo alla riduzione del principio di identità
e differenza (della dialettica platonica del Sofista) al dogmatismo, mentre,
in un secondo momento, ha comportato la progressiva esclusione di ogni
metafisica, giungendo ad affermare l'irrazionalità dei valori. Non è
peregrino sostenere allora che proprio la tensione a circoscrivere l'ambito
di ricerca ha finito per espungere dalla riflessione anche i presupposti di
cui i canoni sopramenzionati erano le conseguenze che, proprio in quanto
tali, una volta privi di giustificazione teoretica, seppur ancora
astrattamente funzionanti, non hanno saputo resistere alle critiche loro
mosse.44
Indicativo, per la funzione di guida che ha avuto nel pensiero
giuridico dell'Europa continentale, l'esempio tedesco, ove, com'è
parimenti noto, il progressivo affinamento delle téknai, dall'intuizione di
Savigny di ricostruire in System la ratio del diritto romano, alla
pandettistica, alla giurisprudenza dei concetti, degli interessi, dei valori,
43) Tra le molte, per il ruolo che hanno avuto ed ancora hanno nella storia del
pensiero, cfr. E.R. BIERLING, Zur Kritik der juristischen Grundbegriffe, Gotha, 1877;
IDEM, Juristische Prinzipienlehre, Freiburg und Leipzig, 1894; R. STINTZING, Geschichte
der Deutschen Rechtswissenschaft, München und Leipzig, 1880; E. LANDSBERG,
Geschichte der Deutschen Rechtswissenschaft, München und Leipzig, 1898; più
recentemente, cfr. W. SAUER, Juristische Methodenlehre. Zugleich eine Einleitung in die
Methodik der Geisteswissenschaften, Stuttgart, 1940; F. MÜLLER, Juristische Methodik,
Berlin, 1976; nonché il più diffuso K. LARENZ, Methodenlehre der Rechtswissenschaft, V
ed., Berlin, 1983, della cui I ed. (1960) esiste una traduzione italiana, non a caso, limitata
alla parte storica, Storia del metodo della scienza giuridica, Milano, 1966. In Francia, oltre
ai capitoli dedicati al metodo nelle opere di Gény, di Eisenmann, Batiffol e Villey cfr.
particolarmente, P. AMSELEK, Méthode phénoménologique et théorie du droit, Paris, 1964,
p. 24 e ss. Per un'esplicita professione di applicazione del metodo di identità e differenza e
del principio di non contraddizione e del terzo escluso, in un ampio capitolo introduttivo di
carattere metodologico, ad imitazione delle migliori monografie germaniche, cfr. la
rilevante opera di G. BRUNETTI, Il dogma della completezza dell'ordinamento giuridico,
Firenze, 1924, p. 27.
44 Cfr. W. SAUER, Juristische Methodenlehre, cit. p. 327 e ss., p. 441 e ss., nonché
560 e seg. La rilevanza (anche) giuridica del principio di non contraddizione, inteso come
condizione per il significato di ogni altro discorso, viene evidenziata da E. BERTI, Il
principio di non contraddizione come criterio supremo di significanza nella metafisica
aristotelica, memoria presentata dal socio Marino Gentile in “Rendiconti della Classe di
Scienze morali, storiche e filologiche” dell’Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti
(Venezia), serie VIII, vol. XXI, fasc. 7-12 – Luglio – Dicembre 1966.
POSIZIONE DEL PROBLEMA E QUESTIONI DI METODO
32
fino al neokantismo, trova in Kelsen il proprio compimento, ma anche la
propria negazione.45
Peraltro, nel recepimento di questa eredità, più o meno ancor oggi
scientemente spesa dai giuristi, la riproposizione degli strumenti
conoscitivi indicati nel testo può superare, a nostro avviso, le critiche di
cui sono stati fatti oggetto (si veda da ultimo il decostruzionismo di
Derrida), laddove, rimediando all'errore ottocentesco (ma si tratta di una
prospettiva che ha tempo, che non può essere ridotta adun solo momento
storico), anziché ridurre l'esperienza giuridica in canoni geometrici, si
tenga ben presente la globalità, la radicale problematicità della ricerca,
nella consapevolezza dell'insufficienza di una prospettiva puramente
scientifica nel senso indicato nel testo. In altri termini, secondo il metodo
proposto, le critiche di dogmatismo, da un lato, e di soggettivismo
metafisico, dall'altro, possono essere superate, ci pare, ove si consideri che
queste, così come formulate, non minano gli strumenti conoscitivi in
quanto tali, ma la prospettiva parziale, riduttiva, in cui sono stati costretti,
per cui la dialettica, il procedimento per identità e differenza, decade nel
dogmatismo, proprio laddove non si è problematizzato, si è voluto cioè
lasciare tra parentesi, una porzione dell'oggetto di indagine, ponendo
convenzionalmente un limite alla ricerca in modo, appunto, dogmatico nel
diritto e ideologico nella politica.
Sebbene l'adesione al metodo dogmatico sia ancor oggi professata,
spesso fraintendendone il reale significato,46
la consapevolezza critica
della necessità di una continua verifica estesa anche al principio proprio,
potrebbe preservare l'opera di riconoscimento degli istituti nell'esperienza
giuridica dal degenerare in classificazione dogmatica.47
45 Cfr. H. KELSEN - R. TREVES Formalismo giuridico e realtà sociale, a cura di
S.L. Paulson, Napoli, 1992, p. 33 e 39; nonché 55 e 59; Cfr. altresì F. MÜLLER, Juristische
Methodik, cit., p. 103; nonché infra, alla nota n. 319.
46 Cfr. R. MENEGHELLI, Al giurista che si professa dogmatico: una parola di
chiarimento, in “Diritto e Società”, 1992, p. 577 e ss.
47 Al proposito, cfr. M. GENTILE, Trattato di filosofia, Napoli, 1987, p. 49, 51, 205
e ss., nonché i saggi raccolti nel volume G. JAHR e W. MAIHOFER (a cura di),
Rechtstheorie. Beiträge zur Grundlagendiskussion, Frankfurt (a. M.), 1971 (?),
specialmente i contributi di D. BÖHLER, Rechtstheorie als kritische Reflexion, p. 62 e ss, ed
in modo particolare il capitolo 2, Rechtstheorie als Reflexion auf den
Wissenschaftscharakter der Rechtswissenschaft und Rechtssätze, p. 98 e ss.; E. ZACHER,
Zum Verhältnis von Rechtsphilosophie und Rechtstheorie, p. 224 e ss.; G. JAHR, Zum
Verhältnis von Rechtstheorie und Rechtsdogmatik, p. 303 e ss., che, ripercorrendo lo
STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA
33
Con queste premesse di metodo, lo spunto da cui prendere le mosse,
potrebbe essere proprio il carattere comune a tutte le riflessioni sull'istituto
fin qui richiamate, -il divieto di mandato imperativo, appunto- per
indagare se sia veramente questo il criterio che permette di distinguere la
rappresentanza del diritto privato dalla rappresentanza c.d. "politica",
giungendo alla conclusione che la specificazione aggettivale del
medesimo sostantivo nasconde due distinti concetti di rappresentanza,
deducendo quindi che dalla funzione dipende il concetto; o se, all'opposto,
non si possa riconoscere una medesima struttura sottostante, un solo
concetto di rappresentanza logicamente, se non temporalmente,
precedente la distinzione tra pubblico e privato, ammesso che tale
distinzione sia sempre proficua. Di conseguenza l'indagine sul divieto di
mandato imperativo, senza alcuna pretesa di trattazione esaustiva, peraltro
impossibile, su tale complesso istituto, cercherà, piuttosto, di rivisitarne le
radici nell'esperienza della Rivoluzione francese, da un lato, e della
Giuspubblicistica tedesca a cavallo tra XIX e XX secolo, dall'altro.48
Dottrina, quest'ultima, sulle cui spalle poggia la riflessione filosofica e
costituzionale dell'esperienza di Weimar, di Kelsen, di Schmitt, di
sviluppo del dibattito tedesco, fino ai primi anni Settanta, propone una chiarificazione
terminologica dei termini Rechtsdogmatik, Rechtsordnung, Rechtssatz,
Rechtssatzbehauptung, u.s.w, da leggersi tenendo presenti quelli che ci sembrano essere a
tutt'oggi i contributi italiani più profondi in subjecta materia: P. PIOVANI, Dommatica,
teoria generale e filosofia del diritto; nonché F. TESSITORE, Filosofia del diritto,
dogmatica e scienza romanistica, entrambi in "Atti del VI Congresso nazionale di filosofia
del diritto (Pisa, 30 maggio - 2 giugno 1963)", a cura di R. ORECCHIA, Milano, 1964.
All’opposto la critica alla Begriffenjurisprudenz giunge quando il tronco originario
si è avvizzito: viene perso di vista l’interesse che era stato il fattore stimolante la ricerca
fin dall’epoca romana: è per un interesse concreto che si superano, meglio, si adattano le
antiche formule. Per le radici e lo sviluppo della Methodenlehre, per il sorgere della
riflessione generale e sistematizzante dallo studio (non più solo) storico del diritto romano,
recentemente cfr. U. VINCENTI, Lezioni di metodologia della scienza giuridica, Padova,
1997, p. 65 e ss. Cfr. altresì le acute osservazioni metodologiche di F. CAVALLA, La verità
dimenticata, Padova, 1996.
48) Il riferimento d'obbligo è ovviamente a Laband e Jellinek, cui ci si limiterà nel
prosieguo, avvertendo come tradizionalmente (cfr. M. FIORAVANTI, Giuristi e costituzione
politica nell'Ottocento tedesco, Milano, 1979, p. 154) la giuspubblicistica nasca con
l'intervento nel dibattito di C.F. GERBER, Über öffentliche Rechte, Tübingen, 1852, su cui
infra, senza dimenticare il contributo di chi, provenendo (come del resto Gerber) da altre
discipline, si era occupato dei fondamenti del diritto e dello Stato. Per questi aspetti, cfr.
infra, § II.3.2. e § III.3.
POSIZIONE DEL PROBLEMA E QUESTIONI DI METODO
34
Voegelin, di Leibholz e che, per altro verso, come è noto e si dirà, tanto ha
influito sulla dottrina costituzionale italiana.
Interessa allora qui riprendere la ricerca sulle origini del divieto di
mandato imperativo sia per indagare i motivi della sua introduzione, sia
per vedere se tali ragioni possano ancora oggi giustificarlo, nel già
dichiarato e più ampio intento di esaminare se comunque tale istituto
possa essere assunto come il criterio discretivo tra rappresentanza di
diritto privato e rappresentanza di diritto pubblico, giustificandone la
distinzione.
Altresì, partendo dalla Francia rivoluzionaria e seguendo il
propagarsi dell’istituto nell’Europa continentale, debbono essere ricercate
le ragioni che hanno sostenuto l’irresponsabilità degli eletti nei confronti
degli elettori nella Germania dell’Ottocento, tessendo una robusta maglia
teoretica –a nostro parere- tra gli autori della Destra hegeliana ed i padri
del diritto pubblico tedesco. Ma l’indagine può essere interessante e forse
maggiormente proficua anche se condotta nella direzione diametralmente
opposta: oltre ad esaminare gli argomenti che portano alla giustificazione
del divieto di mandato imperativo, si deve guardare al ruolo, al contributo
del divieto di mandato imperativo nella realizzazione dello Stato etico e
nell’edificazione dell’Impero prussiano. In altri termini, il divieto di
mandato imperativo può essere visto sia come il risultato di una
riflessione consapevole attorno alla rappresentanza, sia –e forse più- come
utile tassello in un mosaico teso ad affermare la ragion di Stato del
sovrano, travolgendo in un colpo solo i delicati equilibri di filosofi e
giuristi, nel perseguimento della reductio ad unum, senza alcuna remora di
responsabilità nei confronti di sudditi (non più rappresentati) che vengono
addirittura definiti giuridicamente inesistenti.
È bene allora chiedersi quanto di questo prodotto sia stato distillato
senza alcun filtro dall’Assemblea costituente italiana, ricostruendone i
percorsi che hanno condotto alla compresenza nella Carta repubblicana di
due istituti antitetici -il dogma della sovranità popolare e il divieto del
mandato imperativo- con ciò riducendo il popolo alla sua
rappresentazione parlamentare.
Nella speranza di costituire un sostegno critico che sia
indispensabile elemento per la rivisitazione teoreticamente fondata delle
tecniche rappresentative.
STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA
35
Ma è giunto il momento di lasciare -per un poco- il dibattito
contemporaneo e, anche per capirlo meglio, fare un passo indietro
all'inizio del pensiero occidentale, per dotarci di quel bagaglio logico
concettuale, ma anche per riassumere quell’approccio schiettamente
problematico, da spendere nell’esame critico dell’istituto.
D’altro canto, non è un caso che lo stesso Voegelin, da cui abbiamo
preso le mosse, appartenga, con altri pensatori a lui contemporanei, ad una
scuola che è stata riconosciuta muoversi sotto l'insegna della rinascita
della filosofia pratica di matrice aristotelica.49
49 Cfr. E. BERTI, Aristotele nel Novecento, Bari, 1992, specialmente p. 195-6, che
annovera nella scuola anche Leo Strauss e Hannah Arendt, come poi Hans Georg
Gadamer, Joakim Ritter, Alasdair MacIntyre, Hans Jonas e, con tendenze kantiane, Martin
Riedel e Karl Heinz Ilting. Per il significato di “filosofia pratica” aristotelica recuperato da
Berti e per le nostre osservazioni in merito, cfr. infra alla nota n. 688. Un aspetto
particolare della filosofia pratica aristotelica costituisce la linea portante della speculazione
di Hannah Arendt, che fa del comunicare il fondamento di tutta la propria opera: il
giudicare nel conoscere ed il comunicare nel giudicare saranno le coordinate del suo agire
politicamente. Per questi aspetti, rinviamo T. SERRA, L’autonomia del politico, Teramo,
1984, fra i primi saggi italiani sull’argomento. Altresì, L. BOELLA, Hannah Arendt. Agire
politicamente, pensare politicamente, Milano, 1995, p. 136; nonché, L. BAZZICALUPO,
Hannah Arendt. La storia per la politica, Napoli, 1996, p. 254. L’osservazione risulta
interessante per il prosieguo della nostra ricerca, giacché riconoscendo nel comunicare
l’essenza dell’arte della pòlis (anzi la caratteristica stessa dell’uomo), fonda
necessariamente il diritto (anche) sull’alterità, profilo peculiare della struttura della
rappresentanza, come si dirà subito.
STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA
37
2.2 La struttura della rappresentanza: tentativo di enuclearne il
concetto
PREMESSA: QUATTRO ACCEZIONI LINGUISTICHE DEL TERMINE “RAPPRESENTANZA”:
RIPRODURRE, SIMBOLEGGIARE, MANIFESTARE, SOSTITUIRE – CONFRONTO CON LA DOTTINA
TEDESCA: VERTRETUNG E DARSTELLUNG – IL PROCEDIMENTO CONOSCITIVO PER ASTRAZIONE: POSIZIONE DI LOCKE, BERKELEY, HUME E LEIBHOLZ SULL’IMPOSSIBILITÀ DI RICONOSCERE IL
CONCETTO SENZA FARE RIFERIMENTO ALL’ARCHETIPO – CRITICA E NEGAZIONE –
INTRODUZIONE DELLE CATEGORIE STATUNITENSI DI ACTING FOR E STANDING FOR -
DISTINZIONE PLATONICA TRA EIKÒN E FÀNTASMA: LA FEDELTÀ ALLA PROPRIA NATURA DI
IMMAGINE COME TRATTO INELUDIBILE DEL RAPPRESENTANTE – IL DUALISMO COME
CARATTERE ESSENZIALE DELLA RAPPRESENTANZA E SUA DIFFERENZA CON IL NUNCIUS –
INCOMPATIBILITÀ DELLA STRUTTURA DUALISTA DELLA RAPPRESENTANZA CON IL MONISMO
DELL’UNICITÀ QUALE STRUTTURA DELLA SOVRANITÀ, CARATTERE SPECIFICO DELLO STATO
MODERNO – CONCLUSIONE: NECESSITÀ DI VERIFICARE GLI ASSUNTI ENUCLEATI.
Platone insegna che per enucleare un concetto non vale tanto
spogliare dell'accidentale l'essenziale, dell'accessorio il necessario, per
comprendere come veramente questo sia fatto o cosa veramente esso sia.
Occorre piuttosto cercare di cogliere ciò che vi è di costante nelle diverse
manifestazioni dell'oggetto di indagine, scoprendone il diverso e
riconoscendone il comune, procedendo così dialetticamente verso la
definizione di un concetto.50
Qui, ossequienti all'insegnamento dell'autore del Sofista,
cercheremo di individuare gli aspetti costanti che concorrono a formare il
concetto di rappresentanza per conoscere poi le particolarità che riveste
nell'ambito del diritto. Con questi propositi, la ricerca prende le mosse da
un'indagine semantica sul termine stesso, per delimitarne
convenientemente il campo d'applicazione.
L'analisi linguistica elaborata dalla dottrina assegna al termine
rappresentare il significato di rendere presente qualcosa di non presente,
per qualsiasi ragione, nel tempo e nel luogo: "qui ed ora". Su questa
funzione base si sono elaborate delle specificazioni per cui la dottrina
sembra ormai concorde51
nell'ammettere quattro distinte accezioni del
50 Sul concetto e sulla sua funzione, cfr. M. GENTILE, Trattato di Filosofia, Napoli,
1987, p. 25 e ss; specialmente p. 32 e ss.
51 Cfr D. NOCILLA e L. CIAURRO, voce Rappresentanza politica, nella
"Enciclopedia del Diritto Giuffré", Milano, 1987, vol. XXXVIII, nota 10. La voce ci
sembra debitrice dell’ampio e complesso studio di H. HOFMANN, Repräsentation. Studien
zur Wort- und Begriffsgeschichte von Antike bis ins 19. Jahrhundert, Berlin, 1974, di cui
segnalo una seconda edizione, ivi, 1990. Le tesi fondamentali saranno riprese e sviluppate
dall’Autore in contributi minori più recenti esaminati nel prosieguo, fra i quali vale la pena
TENTATIVO DI ENUCLEARNE IL CONCETTO
38
termine, cioè il riprodurre, il simboleggiare, il manifestare e il sostituire. Il
tratto comune ci è dato dalla circostanza che tutte sembrano muoversi
all’interno di un paradigma monista di presenza/assenza, ove cioè assume
rilevanza un solo soggetto, il rappresentante, che è il “presente”, ed in
questo si può riconoscere l’ipoteca della riflessione tedesca, in particolare
modo dell’esperienza di Weimar, di cui si dirà, che vede nella
rappresentanza una valenza costitutiva, cioè di portare ad esistenza ciò che
altrimenti nemmeno sarebbe.
1. Il riprodurre può, per un verso, avere il significato preciso di
raffigurare, cioè sottoporre alla vista aspetti della realtà sensibile con
figure o segni. È quello che la dottrina tedesca chiama Darstellung,
intendendo propriamente raffigurazione, nel senso di illustrazione,
rappresentazione, ma anche nel significato di esposizione, così come di
interpretazione, recita. Per un altro verso, il termine è usato nel senso più
generale che si è indicato all'inizio, cioè di rendere presente ciò che esiste
autonomamente, ma che in questo momento, nell'accezione puntuale del
tempo, non è, non esiste in questo luogo, puntuale nello spazio. L’aspetto
interessante è dato dalla circostanza che si tratta di un’operazione
strumentale, cioè di ricostruzione dell’assente che trova il suo fine
propriamente nell’immagine riprodotta, che viene così resa disponibile per
ulteriori operazioni o riflessioni. Questo profilo è corroborato dall’uso
chimico o meccanico del termine, con cui si traducono i sostantivi
preparazione, elaborazione. Il verbo relativo, darstellen, accentua
l’aspetto tecnico, potendo addirittura essere usato nel senso di produrre,
fabbricare, nello stesso modo in cui può voler dire descrivere, delineare,
abbozzare, ma anche, nella forma riflessiva, presentarsi, mostrarsi,
apparire.
2. Il simboleggiare, dal canto suo, consiste nel richiamare
convenzionalmente in forma sensibile un'idea o un concetto astratto o
comunque non suscettibile di manifestazione immediata. Esempio classico
è la colomba che rappresenta - simboleggia la pace e in questo senso si
poterebbe richiamare tutta l'iconografia a partire dall'antichità, ma altri
esempi si trovano nel campo scientifico: dalla x algebrica che rappresenta
un valore ignoto, al π, si può dire che il convenzionalismo scientifico
di menzionare subito H. HOFMANN, Bilder des Friedens oder die vergessene Gerechtigkeit.
Drei anschauliche Kapitel der Staatsphilosophie, München, 1997; IDEM, Repräsentation,
Berlin, II ed., 1992; IDEM, Geschicklichkeit und Universalitätsanspruch des Rechtsstaats,
in "Der Staat", 1995, p. 1 e ss.
STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA
39
moderno rappresenti in simboli il procedimento astraente della
conoscenza operativa.
Ad ogni modo il simboleggiato, per quanto astratto possa essere,
deve avere una sua autonomia quantomeno concettuale definita. Il
procedimento di astrazione cioè deve portare all'enucleazione di un quid
novi, di un concetto nuovo, rigorosamente delimitato. Questa accezione è
criticata da Leibholz,52
sostenendo che non è rappresentazione il frutto di
un procedimento astraente, di un elaborazione logico analitica di ciò che è
comune a più fenomeni, e perciò già c'è, non è nuovo, o meglio, distinto
da ciò che rappresenta. Su questo punto a Leibholz preme distinguersi da
Locke, così come ripreso da Berkeley.
Com’è noto, Leibholz fa riferimento a quel passo de An Essay
concerning the Human Understanding,53
dove Locke afferma "and ideas
are general when they are set up as the representatives of many particular
things". Appare chiaramente il riferimento al processo conoscitivo per
genere e specie e in questo senso va letto l'assunto lockiano, non come
descrizione del concetto di rappresentanza: non era certo questo l'intento,
che viene invece perseguito nei Two Treatises. Qui, il filosofo inglese
vuole solo indicare la continenza delle idee più particolari in idee più
generali. Altrettale è il senso del passo di Berkeley che Leibholz critica.
Anche in questo caso si fa riferimento alla circostanza che idee più
particolari siano ricomprese aliquo modo in idee universali.54
Ma allora –
ed introduciamo così la questione epistemologica di fondo in questa
indagine- in quale maniera possiamo pensare a una tal cosa come facente
52 Cfr. G. LEIBHOLZ, Das Wesen der Repräsentation und der Gestaltwandel der
Demokratie in 20. Jahrhundert, 3° ed., Berlin, 1966 (ma la prima edizione, sotto titolo
diverso è del 1929), trad. it. La rappresentazione nella democrazia, Milano, 1989, p. 70.
53 Cfr. J. LOCKE, An Essay concerning the Human Understanding, L. III, cap. II,
sez. II, nell’edizione classica delle Opera curata da Thomas Tegg (10 vol.), vol. II, London
1823, p. 162. Il riferimento dell’autore tedesco al pensatore inglese non può che veicolare
la sensazione di un fondamento essenziale della rappresentanza (anche) giuridica nella
struttura stessa della conoscenza, in un settore ove, quindi, il legislatore statale non ha
certo il potere di intervenire con pretesa costitutiva.
54 Cfr. G. BERKELEY, A Treatise concerning the Principles of Human Knowledge,
Dublin, 1710, Introduction, § 12, nell’edizione delle opere complete di A. A. Luce e Th. E.
Jessop, in 9 voll. Londra, 1948 – 57 ed in traduzione italiana a cura di A. Guzzo, Torino,
1946, di cui si veda la densa prefazione. Sul punto, cfr. altresì J. FOSTER – H. ROBINSON,
Essays on Berkeley, Oxford, 1988.
TENTATIVO DI ENUCLEARNE IL CONCETTO
40
parte di un genere, come possiamo aver realmente applicato ad essa un
qualche termine generale? Locke fa l’ipotesi che noi traiamo per
astrazione le qualità che sono comuni a tutte le arance e utilizziamo l’idea
astratta risultante come “rappresentativa” dell’arancia per riconoscere una
particolare arancia come tale. Berkeley respinge questa tesi, poiché a suo
modo di vedere arance differenti presentano qualità irriducibili: noi quindi
utilizziamo un’immagine particolare per “rappresentare” tutti i membri del
genere. Ma in ogni singola immagine sarà rappresentabile una schiera di
generi: arance, ma anche cose sferiche, cose arancioni e così via. Nel
dibattito intervenne Hume, sostenendo, in risposta a questa
argomentazione, che quando noi assegniamo qualcosa ad un genere per
una qualche sua somiglianza ad una qualche immagine tipo, abbiamo
nello stesso tempo una serie di altre immagini a nostra disposizione che
possiamo richiamare alla mente come guida per un nostro corretto
percorso di classificazione. In sostanza, Hume anticipa già nella prima
parte del Treatise of Human Nature temi che svilupperà successivamente
in maniera più organica nel corso della trattazione degli oggetti materiali e
delle persone, attraverso un generale rifiuto della legittimità dell’idea di
sostanza. Non essendovi alcuna impressione da cui essa possa essere
derivata, tutto ciò che noi percepiamo è costituito da raccolte di qualità
associate tra di loro in maniera persistente. Se si definisce sostanza ciò che
risulta capace di un’esistenza autonoma, allora impressioni e idee sono le
sole sostanze.55
Per quanto interessa il prosieguo della nostra indagine,
conviene rileggere il passo del Treatise che riguarda la critica a Berkeley.
Dice Hume: “è stata aperta una questione veramente essenziale circa le
idee astratte o generali, cioè se esse siano idee generali o particolari nella
mente che le concepisce. Un grande filosofo [il riferimento è a Berkeley]
55 “Tutte le percezioni della mente umana fanno capo a generi distinti, che io
chiamerò impressioni e idee. La differenza fra di esse consiste nel grado di forza con il
quale esse colpiscono la nostra mente e si creano la loro via nel nostro pensiero e nella
nostra coscienza. Possiamo chiamare quelle percezioni che entrano con più forza e
violenza impressioni; comprendo sotto questo nome tutte le nostre sensazioni, passioni ed
emozioni, appena loro fanno la loro prima comparsa nell’anima. Le idee sono invece per
me le pallide immagini di queste nel pensiero e nel ragionamento; tali sono, ad esempio,
tutte le percezioni suscitate dal presente discorso, fatta eccezioni solo per quelle che hanno
origine dalla vista e dal tatto, e fatta pure eccezione per il piacere o il dolore immediato
che esso può causare. Non credo che sarà necessario impiegare un gran numero di parole
per spiegare tale distinzione: ognuno percepirà da solo la differenza fra il sentire ed il
pensare.” Cfr. D. HUME, Treatise of Human Nature, nell’edizione ormai classica curata da
L. A. Selby – Bigge, Oxford, 1888, p. 1.
STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA
41
ha messo in discussione il luogo comune che vige su questo punto e ha
sostenuto che tutte le idee generali non sono altro che idee particolari
legate ad un certo termine, il quale dà loro un significato più ampio e fa si
che esse all’occasione ne richiamino altre individuali a loro simili. Dal
momento che io considero questa una delle più grandi e più preziose
scoperte compiute negli ultimi anni nella repubblica delle lettere, mi
proverò nel dare ad essa conferma attraverso alcune argomentazioni che,
spero, la metteranno al riparo da ogni dubbio e controversia”.56
E così
l’argomentazione muove dall’evidenza che nella formazione della
maggior parte delle nostre idee generali si faccia astrazione dai particolari
gradi di qualità e quantità, così come un oggetto non cessa di appartenere
ad una specie determinata a causa di una piccola alterazione nella sua
estensione, nella sua durata ed in altre sue proprietà. Ci si può quindi
rendere conto che qui sussiste un chiaro dilemma, risolutivo circa la
natura di quelle idee astratte che hanno tanto dato da speculare ai filosofi.
L’idea astratta di un uomo –sostiene Hume- rappresenta gli uomini di tutte
le taglie e qualità: ciò appare possibile o mediante la rappresentazione
simultanea di tutte le possibili taglie e qualità, oppure mediante una
rappresentazione che non riguardi proprio nessuna di esse in particolare.
Così, scartata la prima opzione, perché ritenuta assurda in quanto
presuppone una capacità infinita della mente umana, l’opinione
tradizionale si sarebbe attestata sulla convinzione per cui le nostre idee
generali non rappresentino alcun grado di quantità o qualità. Hume ritiene
erronea questa posizione e si propone di combatterla, affermando la
capacità potenzialmente infinita della mente di rappresentare ogni quantità
e qualità dell’idea, in questo riprendendo un tema galileiano, sulla
equiparazione, quanto meno intensive, dell’intelletto umano alla mente
dell’universale.57
56 Cfr. D. HUME, Treatise of Human Nature, cit. p. 17. È appena il caso di
sottolineare la vis polemica dello scettico scozzese contro il puritanesimo intellettuale dei
suoi contemporanei. Com’è noto, il luogo comune cui si fa riferimento Hume considera le
idee particolari come divisioni di idee generali, in un rapporto di gerarchia logica che ne
sostiene uno di gerarchia politica, tematizzato in forma emblematica da Robert Filmer, in
scoperta polemica con Locke.
57 Cfr. D. HUME, Treatise of Human Nature, cit. p. 18. In altro luogo, Hume
osserva che tutti gli oggetti della ragione umana o del suo ricercare possono certamente
essere divisi in due specie: relazioni di idee e dati di fatto. Quanto alle prime, vi rientrano
la geometria, l’algebra e l’aritmetica ed ogni altra affermazione che sia ritenuta certa per
intuizione o per dimostrazione. Che il quadrato costruito sull’ipotenusa sia pari alla somma
dei quadrati costituiti sui due cateti è una proposizione che esprime la relazione tra queste
TENTATIVO DI ENUCLEARNE IL CONCETTO
42
Tuttavia, la critica più radicale al procedimento per genere e specie,
proviene dal kantismo, ove si afferma che l’aggregazione dei termini in
comparazione presuppone già quel criterio di distinzione che si afferma
essere il prodotto della ricerca. In altri termini, per collocare gli oggetti
dell’indagine nelle diverse categorie nelle differenti caselle di un genere e
di una specie, il ricercatore dovrebbe già avere in mente, in via
necessariamente preventiva, dunque, un criterio discretivo che gli
consenta di sceverare operando quella classificazione di cui si è detto. In
questo senso si riconosce l’eredità prettamente kantiana delle categorie,
cioè di quella griglia a priori che costituisce il punto di forza ma anche il
limite della speculazione del Maestro di Königsberg, già denunciata dagli
allievi, giacché si sottrae alla problematicità del criticismo il punto di
partenza, cioè proprio il carattere a priori delle categorie. Singolare
destino, per chi voleva fondare un nuovo metodo speculativo libero da
incrostazioni metafisiche, quello di veder dichiarata forte l’assonanza tra
le categorie a priori e le idee platoniche. La stessa critica, infatti, potrebbe
essere mossa alla dialettica classica, affermando che anche in tale
prospettiva la distinzione dei termini oggetto di indagine può avvenire
solo tramite la rimembranza delle idee che ha il soggetto conoscente e che
figure, così come “tre volte cinque è la metà di trenta” sarebbe una proposizione che
esprime una relazione fra questi numeri. Si giunge ad operazioni di tal specie attraverso
mere operazioni del pensare, a prescindere da ciò che da qualunque parte esista
nell’universo. Anche se mai si manifestassero in natura un cerchio o un triangolo –sostiene
Hume- le verità di mostrate da Euclide manterrebbero in eterno la loro certezza ed
evidenza. Ed è facile qui cogliere una tentazione di cedimento alla fallacia naturalistica di
quello che passa per essere il filosofo scettico per eccellenza: la consapevolezza che la
geometria non è rappresentazione della natura, se non in termini ipotetici, troverà maggior
forza di emergere con l’introduzione dei sistemi non euclidei. Ancora, i dati di fatto, cioè
la seconda specie di oggetti della ragione umana, non sono verificabili nella stessa maniera
delle relazioni di idee, ed il nostro dimostrare la loro verità, per quanto grande essa possa
essere, risulterebbe di una natura diversa rispetto a quella precedente, giacché il contrario
di ogni dato di fatto sarebbe sempre possibile, dal momento che non può mai implicare
contraddizione, per il semplice fatto di esistere: esso viene concepito dalla mente con la
stessa facilità e distinzione che si avrebbero se esso fosse sempre conforme alla realtà. È
fin troppo noto l’aforisma per cui “Che il sole domani non sorgerà è una proposizione non
meno intelligibile e non più contraddittoria dell’affermazione che esso sorgerà”. Cfr. D.
HUME, Enquiries Concerning the Human Understanding and Concerning the Principles of
Morals sempre nell’edizione curata da L. A. Selby – Bigge, II ed. Oxford, 1902, p. 26.
L’esito di tale posizione conduce al falsificazionalismo, di stampo prettamente scientifico
empirista: ogni ripetizione positiva dell’esperimento che conferma la tesi non le dà
maggior forza, al contrario un solo esperimento negativo è sufficiente a negarle la validità
dell’assolutezza.
STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA
43
proietta sull’oggetto di indagine, classificando per genere e specie. In
questo modo, viene facile il parallelo tra le idee, bollate come metafisica,
fuori dalla verifica empirica, e le categorie kantiane, parimenti fuori
dall’esperienza sensibile e dalla verifica, programmaticamente assunte
come a priori. In questa prospettiva, anche in Platone, come in Kant (e,
per altro verso, secondo la tradizione empiristica inglese), il procedimento
conoscitivo avverrebbe grazie alla memoria di archetipi noti e quindi
sarebbe privo di capacita critica originaria, poiché alla fine della
classificazione avremmo in mano quello sapevamo già, proprio quel
concetto che ha costituito il metro con cui abbiamo potuto svolgere la
classificazione. Così come senza le categorie non ci si può orientare,
parimenti togliendo le idee non vi sarebbe più alcun riferimento con il
quale accorpare, dividere, cioè classificare gli oggetti del conoscere; di
più, la svolta idealistica sarebbe già in nuce nelle premesse platoniche,
dacché il riconoscimento delle cose starebbe tutto nella rimembranza del
soggetto conoscente; consentendo così il breve passo per il quale si
afferma che è il soggetto (con il suo pensiero) a dare esistenza alle cose.
Tuttavia, a ben vedere, per riconoscere il “diverso” ed il “comune” fra due
termini si possono enucleare gli elementi specifici di ciascuno senza fare
riferimento a categorie pregresse, vuoi dell’esperienza, vuoi reperite
aliunde.58
In altri termini, la forza euristica del procedimento che
riteniamo programmaticamente di adottare emerge dalla considerazione
che per esso non è necessario il confronto tra l’oggetto di indagine ed un
secondo termine di paragone, di difficile, problematica (ancorché spesso
non problematizzata) individuazione; al contrario, la comparazione
avviene tra i due (o più) termini di indagine, in confronto tra di loro, senza
la necessità di richiamare ciò che è fuori da quell’indagine nella sua
puntualità, sia idea metafisica, sia categoria a priori. E così, ancora, il
confronto può essere tra un oggetto fisico ed un termine astratto: ciò che
caratterizza l’indagine è proprio il confronto tra entrambi i termini; non si
tratta di un oggetto che dev’essere conosciuto mediante la
sovrapposizione di categorie prefissate, bensì di due oggetti, entrambi
sottoposti a conoscenza o a (ri)conoscimento, sicché anche il termine di
confronto (le categorie kantiane, per capirci) è soggetto a nuova
58 E con questa espressione ricomprendiamo ogni momento non riconducibile
all’esperienza intesa qui come luogo privilegiato degli orientamenti empiristi,
accomunando le speculazioni che vanno dall’adduzione di Peirce alle categorie subliminali
di Poincaré, alla ricerca della “qualità”.
TENTATIVO DI ENUCLEARNE IL CONCETTO
44
conoscenza ed a eventuale modificazione in ragione del confronto con un
altro oggetto. Operazione impossibile per un criticista, come per ogni
scienziato che intenda esplorare un oggetto fruendo del suo bagaglio di
categorie, in quanto tali date per non modificabili, almeno all’interno della
singola operazione conoscitiva, poiché questa è la funzione delle
categorie, quella cioè di fungere da piano di riscontro, da misura, da
immobile criterio di paragone.
Ma a questo punto, tuttavia, anche noi, con Spinoza, dobbiamo dire
“sed de his, satis”59
3. Ci avvicina al mondo del diritto la terza accezione del termine
rappresentare, il manifestare. Esso indica il far presente, qui ed ora,
qualcosa che già esisteva ed eventualmente è anche presente, ma che per
qualche ragione non è percepibile, non si può cogliere nella sua esistenza.
Vi è dunque un rappresentante che manifesta ai terzi il rappresentato, che
pur dotato di vita propria, o perlomeno di autonomia concettuale, non è
percepibile se non attraverso l'opera del rappresentante. Il rappresentante
non quindi un portare nuovamente a presenza, ma semplicemente il
portare ad evidenza ciò che non è percepibile al di fuori dell’opera del
rappresentante stesso. Se poi un tal rappresentante è l’unico che può “dare
presenza” a un tal rappresentato, è forte la tentazione di concepire il
rappresentato come creazione del rappresentante. Già si intuisce la svolta,
anzi, la caricatura idealistica di questa accezione, per cui il rappresentato
rischia di essere ridotto a manifestazione - creazione del rappresentante, a
fantasma di sé stesso; ma su questo, oltre.
4. L'ultima specificazione del termine rappresentare è il sostituire,
la Vertretung dei tedeschi. Rappresentare significa in questo contesto stare
al posto di qualcuno o agire al posto di qualcuno; ma non solo. Anche in
questo caso il rappresentare propizia una valenza euristica, basti pensare
all’opera fondamentale di Schopenhauer60
col ruolo fondamentale della
59 Così B. SPINOZA, Ethica, Pars IV, XXXVII, Scholium II, nell’edizione (che
reputo la migliore) curata da G. GENTILE, (Bari, 1915 e 1933), Firenze, 1963, p. 480.
60 Cfr. A. SCHOPENHAUER, Die Welt als Wille und Vorstellung, vol. II, cap.
XXXVIII (supplementi al Lib. III, sulla storia), III ed., 1859, nella traduzione italiana di P.
Savi – Lopez e G. De Lorenzo, Vol. II, Bari, 1930, p. 537 e ss. Sul punto rinvio al
ponderoso saggio di P. BELLINAZZI, Conoscenza, morale e diritto: il futuro della
metafisica in Leibniz, Kant e Schopenhauer, Pisa, 1990, p. 440 e ss. Cfr. altresì,
recentemente, C. TOMMASI, Riflessioni sul pensiero etico e politico di Arthur
Schopenhauer, in “Il Pensiero Politico”, 1996, I, p. 41 e ss.
STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA
45
rappresentazione come immagine della realtà per cogliere la vera essenza
del mondo: se è tramite l’immagine che si può conoscere l’essere, ben si
comprende quale delicata importanza rivesta l’immagine, via e strumento
della conoscenza.
Forte anche nella tradizione anglosassone, il termine è stato ripreso
e ridefinito in epoca recente da Hanna Pitkin,61
distinguendo le due ipotesi
di acting for e standing for, agire al posto di qualcuno e stare al posto di
qualcuno. Com’è intuitivo, in questo significato il termine ha trovato il
maggior favore nell'ambito giuridico anche di matrice continentale, pur se
identificare la rappresentanza con l'agire in favore di un altro soggetto può
essere riduttivo, importando limitazioni che lo stesso ambito giuridico
dimostra ormai di aver superato. Resta il fatto che al terzo e quarto
significato fanno riferimento le due teorie che a tutt'oggi si contendono il
campo della rappresentanza nel diritto. La circostanza trova forse ragione
nell’esigenza di dualismo, la necessaria reale esistenza di rappresentante e
rappresentato, come caratteristica della rappresentanza, che
nell’esperienza giuridica è sentita in modo particolare.
Quest’ultima osservazione ci aiuta ad introdurre il binomio
situazione – rapporto, quale caratteristica della rappresentanza, ovvero la
necessaria presenza di due soggetti, di due termini, come elementi
costitutivi della rappresentanza, dati dalla situazione di chi si propone
come rappresentante, e dal rapporto che lega quest’ultimo al
rappresentato, sottintendendo, dunque, nella varietà di ampiezza di
situazione e rapporto, la necessaria coesistenza dei due termini.62
L’analisi linguistica, già di per sé indicativa (coscientemente o
meno) di una realtà sottostante, è corroborata dalla speculazione teoretica
dei classici. L'archetipo del binomio situazione - rapporto si potrebbe
trovare in Platone, nella distinzione tra eikón e phántasma, introdotta al §
235 del Sofista, ove lo Straniero sembra mettere in guardia Teeteto
dall'arte mimetica, intesa come luogo di rifugio del sofista. Tuttavia –ed è
questa la differenza con il binomio precedente- alla lettera (d), per bocca
61Cfr. H. F. PITKIN, The Concept of Representation, Berkeley, 1967, su cui amplius
infra.
62 Cfr. D. NOCILLA, Situazione rappresentativa e rapporto nel diritto positivo e
nelle prospettive di riforma della rappresentanza politica, in "Arch. Giur.", 1990, pp. 87 e
ss., seppure è forte la tentazione di sciogliere il rapporto, cedendo alle tentazioni
lusinghiere esposte in E SIEYÈS, Dire de l’abbé Sieyès sur la question du veto royal, nella
seduta dell’Assemblea nazionale del 7 settembre 1789, su cui infra.
TENTATIVO DI ENUCLEARNE IL CONCETTO
46
del matematico eleate, Platone espone il suo pensiero in tema di
rappresentanza, proponendo una distinzione fondamentale: non bisogna
confondere rappresentazione ed apparenza. Infatti due sono le vie che si
possono percorrere nell'arte dell'imitazione, e che conducono a risultati
diversi: il primo è l'eikón, la buona immagine, l'immagine fedele alla sua
natura di immagine come altro dalla cosa che richiama alla mente. L'eikón
è una cosa, il suo modello un'altra: non può nascere confusione, non c'è
sofisma; anzi la rappresentazione proponendosi come immagine del
modello, ma contemporaneamente avvisando di non essere il modello,
denunziando in qualche modo la sua parzialità, si offre come valido ed
utile mezzo al processo conoscitivo, trovandovi dignità concettuale. Altro
è il phántasma, l'apparenza, l'immagine che tradisce la sua natura,
negando il rapporto con la cosa rappresentata, ponendosi come
autosufficiente, cioè non come semplice immagine di qualcos’altro, ma
come la cosa rappresentata, non come l’immagine, ma come l’ente in sé
stesso; ed in questo il phántasma si pone anche in concorrenza con la
realtà: dimenticando, anzi tradendo, la sua natura d’immagine e
pretendendo di essere la cosa che dovrebbe rappresentare, il phántasma
mira a sostituirsi alla cosa da cui ha preso la forma.63
Lungi dall'essere
63 Esempio ne sia l’Assemblea nazionale che pretende di essere la nazione,
l’immagine astratta del Popolo che pretende di essere il popolo. Per gli esempi giuridici
della struttura del phántasma, cfr. infra, § II.1.1. e II.2.
Su avvicina alla distinzione, pur non riconoscendone la radice platonica, anche
H.G. GADAMER, (Wahrheit und Methode, Tübingen, 1960, tr. it. Verità e metodo, a cura di
G. Vattimo, Milano, 1983, p. 191 e ss.), laddove propone la differenza tra l’immagine
originale (Urbild) e l’immagine come copia (Abbild), seppure non viene indicato il
movimento o la tensione che lega la prima alla seconda, sicché la costruzione dell‘Autore
tedesco sembra quasi collocata al di fuori del tempo. Ma è ben chiarisce il rapporto che
lega rappresentante e rappresentato, quando afferma che “l’importante, nel concetto
giuridico di rappresentanza è che la persona repraesentata è solo rappresentata e tuttavia il
rappresentante che ne tiene luogo ne dipende” (cfr. op. ult. cit., p. 179). Su questa
dipendenza, seppure implicitamente, l’Autore sembra fondare, a nostro avviso
correttamente, il principio di responsabilità che il rappresentante mantiene nei confronti
del rappresentato e che costituisce la vera essenza, come tale insopprimibile, della
rappresentanza. Non sembra invece cogliere la valenza della distinzione H. ARENDT, On
Revolution, New York, 1963, tr. it. Sulla rivoluzione, Milano, 1983, p. 145, quando
propone la differenza tra persona e hypokrites: se è vero che i fantàsmata di Platone sono
degli “ipocriti”, la teorica della filosofia pratica si limita a criticare l’etimologia della
maschera – strumento teatrale qui per sonat, distinguendo rappresentazione da realtà,
limitandosi però ad un discorso di somiglianza, guardando alla fedeltà come somiglianza,
non come dichiarazione di altro dalla realtà, cioè di immagine, rappresentante di
qualcos’altro.
STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA
47
utile al processo conoscitivo, l'apparenza confonde il ricercatore, poiché
non distinguendo tra cosa e sua rappresentazione ingenera un numero
incontrollato di realtà concorrenti o meglio, di apparenze senza realtà.
Occorre a questo punto mettere bene in evidenza ciò che da questa
distinzione ci sembra emergere come l'essenziale caratteristica della
rappresentanza, come criterio discretivo tra rappresentazione e apparenza.
Non tanto la maggiore o minore similitudine al modello distingue la prima
dalla seconda, quanto la fedeltà alla propria natura di immagine, il suo
manifestarsi dichiarandosi come altro dalla cosa che rappresenta, ma
legata funzionalmente a questa. In altre parole, un rappresentante, prima
di essere rappresentativo, cioè somigliante alla cosa che rappresenta,
specchio fedele dei rappresentati, deve mantenersi fedele alla sua natura di
immagine (che in fondo è la ragione per cui si ricorre alla sua opera), cioè
come altro dalla realtà che rappresenta, non deve porsi come
autosufficiente, come concorrente del rappresentato. In questo senso nel
testo si è usata l'espressione rappresentatività senza rappresentanza:
somiglianza senza rapporto, senza responsabilità; apparenza senza realtà.
Dalla coscienza del rappresentante di essere altro dal rappresentato,
dell'esistenza di un originale cui la copia, se buona immagine, deve
rinviare, ci sembra di poter dedurre che in tema di rappresentanza di
volontà, la volontà espressa dal rappresentante debba necessariamente
richiamare una volontà (o gli interessi, non vale qui distinguere) di cui (e
solo in forza di ciò) la rappresentazione è tale. In altri termini, se nella
rappresentanza relativa all'essere, cioè nel portare nuovamente a presenza
l'assente, perché si abbia eikón, per garantire cioè il dualismo della
rappresentanza, è sufficiente l'avvertenza che esiste un altro termine
(anche solo concettuale) rappresentato; al contrario, laddove il
rappresentante pone in essere atti di volontà giuridicamente rilevanti
(anche per il rappresentato), in questo caso, per mantenere il dualismo
della struttura rappresentativa, non è sufficiente il rinvio al rappresentato
nella sola sua essenza, ma il rinvio deve comprendere anche la volontà di
quest'ultimo: come vi deve essere un rappresentato cui il rappresentante fa
rinvio, allo stesso modo, crediamo, deve sussistere una volontà
rappresentata cui la volontà del rappresentante fa rinvio; ma tale rinvio, a
sua volta, non deve portare all'annichilimento del rappresentante
riducendolo a mero nuncius della volontà preconfezionata del
rappresentato. Nella rappresentanza di volontà, il phántasma è evitato e
l'eikón è raggiunto o, in altri termini, il dualismo della struttura
rappresentativa si realizza quando si può fare un confronto tra volontà del
TENTATIVO DI ENUCLEARNE IL CONCETTO
48
rappresentante e quella del rappresentato, cosicché la prima, pur non
essendo la mera copia della seconda (nuncius), non sia da questa avulsa o
contraria (phántasma): si impone allora, prepotente, il fondamento di un
principio di responsabilità del rappresentante verso il rappresentato per il
proprio operato. Tale necessità, ci sembra, non viene superata sostituendo,
secondo la dottrina americana,64
gli interessi del rappresentato alla sua
volontà, atteso che comunque la conoscenza di questi e la loro
corrispondenza con la volontà manifestata dal rappresentato deve avvenire
con un atto, un giudizio di quest'ultimo, non con l'interpretazione di
conformità datane dal rappresentante stesso. Né il phántasma può essere
scongiurato sostenendo65
che i rappresentanti debbano agire secondo gli
interessi dei rappresentati, posto che normalmente interessi e volontà
coincidono: da un lato si ripropone il problema di chi sia il migliore
interprete degli interessi del rappresentato, dall'altro emerge una
costruzione tutoria, del rappresentato necessario, di cui si prende cura il
rappresentante, e si avrà modo di vedere come la rappresentanza
necessaria proprio rappresentanza non sia.66
64 cfr. H.F. PITKIN, op. cit., nella trad. it. parziale apparsa in La rappresentanza
politica, a cura di D. Fisichella, cit., p. 195. Seppure la teoria della rappresentanza degli
interessi aveva già avuto altri sostenitori, tanto che si fatica ad attribuirne con certezza la
paternità, taluni arrivando anche a riconoscerla in capo ad Edmund Burke, nel suo famoso
discorso agli elettori di Bristol.
65 H.F. PITKIN, op. ult. cit. p. 206. Si tratta, invero di un tentativo sincretistico, teso
a trattare gli interessi al pari della volontà, ricercando l’elasticità di contenuto dei primi
con la rigorosa ed univoca riferibilità della seconda. In effetti, tutta la teoria in esame si
fonda sulla empirica (ma non scontata) coincidenza di volontà ed interessi. Sempre
empiricamente rileviamo come nei moderni sistemi politici lo stesso interesse possa essere
perseguito in più e diversi modi, sicché resta alla volontà determinarne la concreta scelta
della via da seguire. La teoria della studiosa americana dimostra la propria inutilità proprio
in quelle società “evolute” (come gli Stati Uniti degli anni Sessanta), ove il benessere
generalizzato costituisce appagamento degli interessi, sicché le scelte politiche sono
demandate ad atti di volontà, atti a scegliere tra i termini di un’alternativa, le cui due
soluzioni tutelano comunque gli interessi.
66 Infatti, la rappresentanza necessaria, come istituto di protezione, tende a fornire
di volontà capace di effetti giuridici colui che non è in toto o non è ancora in grado di
averne una di propria. Sulle spalle di Gans e di Jellinek si esamineranno i limiti di tale
costruzione a la sua non esportabilità nel campo del diritto costituzionale. In questa sede
preme mettere in evidenza come, ad onta di una capacità giuridica assicurata all’incapace,
difetti proprio la capacità di agire, con la conseguenza dell’annichilimento di ogni
incisività d’azione e la riduzione del proprio volere al quello del rappresentante.
Quand’anche permangano due soggetti distinti, dotati di propria capacità giuridica,
STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA
49
Due sono allora le arti dell'imitazione: l'arte dell'apparenza senza
realtà in cui l'immagine ponendosi come autosufficiente dimentica il
modello e il rappresentante rendendosi irresponsabile tradisce i
rappresentati. E l'arte della rappresentazione ove la buona immagine è
altro dal modello (financo non somigliante), ma si richiama a questo,
secondo una struttura che ha nella dualità il suo paradigma.
Gerhard Leibholz nella sua acuta analisi linguistica, ci ricorda come
il termine rappresentare “non sia di origine classica” (riservando
evidentemente la qualifica di “classico” alla sola grecità), e lo si incontri
per la prima volta in Cicerone e Cesare con determinati significati
specifici come: realizzare qualcosa "qui ed ora", garantire, fare in modo
che, utilizzare. "Anche in questo senso temporale figurato, il significato
originario della parola emerge nell'espressione: 'qui ed ora', che indica il
fatto che si realizza qualcosa che altrimenti non accadrebbe".67
E qui
riemerge ancora la dualità della struttura rappresentativa;68
del rendere
nuovamente presente qualcosa che è già esistente in maniera autonoma e
autosufficiente, ma che non lo è qui ed ora, se non per mezzo di un
rappresentante, a sua volta autenticamente esistente -a prescindere cioè dal
ruolo di rappresentante- ma a differenza del rappresentato, realmente
presente "qui ed ora". Né i due termini cioè, rappresentante e
rappresentato, né uno dei due, devono la loro esistenza alla funzione del
rappresentare, ma esistono a prescindere da questa.
Indubbiamente tale funzione può influire sulla natura dei soggetti,
ma non può esserne condizione di esistenza, senza negare se stessa.
l’assenza di volontà originaria dell’incapace produce l’appiattimento del rapporto tra
rappresentante e rappresentato sulla situazione del rappresentante, unico vero dominus. Per
tutt'altro tipo di considerazioni intorno alla coppia eikón-phántasma nei dialoghi platonici,
cfr. G. DUSO, La rappresentanza: un problema di filosofia politica, cit., pp. 38 e ss.
67 G. LEIBHOLZ, Das Wesen der Repräsentation und der Gestaltwandel der
Demokratie in 20. Jahrhundert, 3° ed., Berlin, 1966 (ma la prima edizione, sotto titolo
diverso è del 1929), trad. it. Milano, 1989, p. 85, nota 7. Il riferimento al “qui ed ora”
veicola l’esistenza del rappresentato come ente a sé stante, esistente pure in assenza del
rappresentante, esistente però in un altro luogo o, addirittura, in un altro tempo; ma
comunque esistente: tanto basta per riconoscere l’insopprimibilità del dualismo strutturale
proprio della rappresentanza.
68 Cfr. H. HÄTTICH, Demokratie als Herrschaftsordung, in H.H. RAUSCH (a cura
di), Zur Theorie und Geschichte der Repräsentation und Repräsentativverfassung,
Darmstadt, 1968, p. 498 ss.
TENTATIVO DI ENUCLEARNE IL CONCETTO
50
Leibholz individua nel § 311 della Filosofia del Diritto di Hegel,69
il
rappresentare come nuovamente 'portare a presenza', ove il Maestro di
Berlino prescrive che i rappresentanti siano consapevoli degli speciali
bisogni, ostacoli ed interessi particolari della Società civile,
partecipandovi essi stessi. Tuttavia, Leibholz non sembra prestare la
debita attenzione al ruolo che ha la deputazione della Società civile di cui
si tratta in quel paragrafo: poiché essa promana direttamente secondo la
natura della Società civile e dalle sue diverse corporazioni, secondo il noto
movimento dialettico della storia, Hegel può affermare che per il suo
compito non è necessaria elezione, che si traduce in qualcosa di superfluo
o in un vile gioco, precisando inoltre che se i deputati sono considerati
come rappresentanti ciò ha un significato “organicamente razionale”
purché si intenda che essi non sono rappresentanti dei singoli, cioè di una
moltitudine disorganizzata, ma sono rappresentanti di una delle cerchie
essenziali della società. In forza di questa deduzione viene criticata la
concezione della rappresentanza intesa come “l’uno al posto dell’altro” (lo
standing for, riesumato come novità da Hanna Pitkin centotrenta anni
dopo), poiché l’interesse è proprio ed attuale negli stessi rappresentanti e
questo sarebbe indice della scarsa considerazione nella quale (già allora)
era tenuto in considerazione il diritto di voto, provocando, con
l’astensione generalizzata, proprio quell’atomismo, quella prevalenza
dell’interesse particolare ed accidentale che con la rappresentanza doveva
essere superato. Ma in realtà, il paragrafo ove Hegel introduce la
rappresentanza non è propriamente il § 311, né Leibholz richiama il § 309
che riguarda il rapporto tra eletti ed elettori, sul quale avremo agio di
soffermarci in seguito, né, tantomeno, fa riferimento al § 302 che
introduce il problema della rappresentanza e che merita di essere
anticipato fin d’ora per gli sviluppi della nostra indagine. La
rappresentanza avviene per classi, intese –secondo la tradizione
medioevale- come organo di mediazione tra il detentore del potere ed il
popolo concepito come somma di singoli. L’aggregazione dei cittadini
nelle corporazioni avviene tramite il senso dello Stato e nel contempo
degli interessi particolari delle cerchie e dei singoli. Sicché le classi non
sono in antitesi con il governo, ma in delicato equilibrio tra il singolo e lo
Stato, alle cui funzioni, peraltro, concorre.
69 G. LEIBHOLZ, op.cit., p. 85, nota 8.
STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA
51
Questa costruzione, che peraltro non esaurisce il pensiero di Hegel
sulla rappresentanza,70
ben implica due soggetti, distinti ed esistenti, ciò
che si rappresenta e chi lo rappresenta; senza il primo il rappresentante
rappresenterebbe sé stesso, senza il secondo il rappresentato non sarebbe
tale. L'importanza che l'uno può avere in un determinato contesto non può
intaccare l'esistenza dell'altro e viceversa. In altre parole non bisogna per
esempio, che il rappresentato per esistere, debba farsi rappresentare. Solo
in questo senso si può concordare nel definire il rappresentare un portare a
presenza come portare nuovamente ad esistenza.
A questo proposito Glum71
indirizza a Schmitt una critica radicale
sulla natura della rappresentanza, intesa come portare a presenza l'assente,
concezione che Duso72
definisce "particolarmente aporetica". Per Glum
sarebbe contraddittorio affermare che ciò che si presuppone assente sia
nello stesso tempo reso presente; poiché se il rappresentato, grazie al
rappresentante è reso presente, non sarebbe più assente, ma
semplicemente presente. E conseguentemente, aggiungiamo noi, non
avrebbe più necessità di essere rappresentato. Tutto ciò, secondo noi,
muove dal non considerare quanto la tradizione giuridica, a far data
dall'insegnamento romano, ritiene per acquisito e che appare dalla stessa
analisi linguistico concettuale del termine rappresentare.
Occorre mettere bene in evidenza la distinzione tra nuncius e
rappresentante: mentre il primo è strumento per far giungere dichiarazioni
predeterminate da o a un soggetto; il secondo, per contro, gode di una
soggettività propria, talché il portare a presenza il rappresentato è dato
dalla combinazione di due soggetti: il rappresentato ed il rappresentante.
Ciò che viene reso presente con la rappresentanza, non è il rappresentato
nella sua identità, né potrebbe comunque esserlo, ma il rappresentato
attraverso l'opera del rappresentante. Glum muove da presupposti di unità
- identità anziché da una visione di dualità - rappresentanza. La differenza
risulterà chiara considerando che l'assemblea non è il popolo, il
70 La trattazione della concezione di Hegel attorno alla rappresentanza ed in
particolare l’esame del § 309 e seguenti delle Grundlinien dev’essere rinviata al § II.3.1,
ove sarà ripresa, peraltro limitatamente a quanto interessa per comprendere la riflessione
degli Epigonen, i suoi allievi che tanto hanno influito sulla giuspubblicistica tra XIX e XX
secolo.
71 Cfr. GLUM, Begriff und Wesen der Rapräsentation, in H.H. RAUSCH, op. ult. cit.
72 G. DUSO, La rappresentanza, un problema di filosofia politica, cit., p.28, n. 38.
TENTATIVO DI ENUCLEARNE IL CONCETTO
52
Parlamento non è la Nazione (e si esamineranno nei prossimi capitoli le
conseguenze perverse di siffatta identificazione), ma non per questo solo
si deve concludere che l'uno non rappresenti l'altro.
Due soggetti esistenti dunque, con la differenza che il rappresentato
non lo è nel luogo e nel tempo in cui lo rende il rappresentante. Per
Leibholz allora, il rappresentare non sarebbe altro che il superare i limiti
spazio - temporali73
del rappresentato grazie al rappresentante; non il
venire ad esistenza di una cosa che altrimenti non sarebbe se non grazie al
suo rappresentante. Tale ultima ipotesi infatti annichilirebbe il
rappresentato riducendolo, con Platone, al fantasma del rappresentante,
negando il dualismo, assolutizzando uno dei due termini. Tuttavia,
sembrerebbe che per Leibholz il ruolo del rappresentante sia solo quello di
manifestare il rappresentato, senza aggiungere nulla di suo. Il
rappresentante sarebbe si esistente, ma sarebbe solo un mezzo; si corre qui
il rischio opposto di assolutizzare il rappresentato, riducendo il
rappresentante a nuncius.74
"Attraverso la rappresentazione dunque,
qualcosa viene pensato come assente e allo stesso tempo presente. In
questo processo sta la dialettica specifica che è propria del concetto di
rappresentazione" conclude Leibholz.75
E avverte: “come il rappresentato,
secondo l'analisi linguistica, deve possedere un'esistenza autonoma, così
73 In questo senso sembra orientato anche Cassirer, che nello stesso periodo (1923),
scrive: "Solo in questa rappresentazione e mediante essa diventa possibile anche ciò che
noi chiamiamo l'esser dato e la presenza del contenuto. Tutto ciò risulta subito e
chiaramente se prendiamo in considerazione anche soltanto il caso più semplice di questa
«presenza»: la relazione temporale e il «presente» temporale. Nulla sembra essere più
sicuro del fatto che tutto ciò che è dato in maniera veramente immediata alla coscienza si
riferisce ad un singolo istante, o a un determinato «ora», ed è in esso racchiuso." E.
CASSIRER, Filosofia delle forme simboliche, vol I, trad. it., Firenze, 1961, p.37 ss. Sul
medesimo punto, cfr. G. GADAMER, Verità e Metodo, trad. it., Milano, 1983, p. 152.
74 Cfr. tuttavia G. LEIBHOLZ, op.cit., p. 95.
75 G. LEIBHOLZ, op.cit., p. 70. Qui non entriamo nel merito della distinzione di
Leibholz tra la rappresentazione come ruolo specializzato della rappresentanza, ci
accontentiamo di indagare la struttura della rappresentanza tout-court. Anche in Italia del
resto si è sostenuto, più di trent’anni or sono, da T. MARTINES (in AA.VV., La funzionalità
dei partiti nello stato democratico, Milano, 1967, p. 231) la distinzione tra rappresentanza
e rappresentazione, dove quest'ultima avrebbe la peculiarità della somiglianza tra
rappresentante e rappresentato che nella prima non troverebbe considerazione. D. NOCILLA
(op. cit. nota 19) avverte comunque che "si tratta di discussioni spesso sottili che a volte
lungi dal recare elementi di semplificazione, finiscono per ampliare i problemi".
STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA
53
anche il rappresentante deve potere, e volere, rendere presente l'entità da
rappresentare.”76
Avremo modo di tornare sull'inciso 'e volere'.
Da quanto detto non sembra compatibile la rappresentanza in
termini di identità. Mentre la prima ha struttura duale, la seconda è
costruita sull'unità. La conseguenza è che il rappresentato non diviene
nuovamente percepibile in modo oggettivo e concreto nel rappresentante.
Per riprendere degli esempi nel campo giuridico, il Parlamento non è la
Nazione, né il Sovrano è il Popolo; si potrà verificare se uno rappresenti
l'altro e a che condizioni, ma non c'è identità fra essi.
Avremo modo di tornare anche sulla struttura dell'identità fondata
sull'unità o meglio sull'unicità, come caratterisitica - esigenza dello Stato
moderno e sulle aporie che comporta in tema di rappresentanza. Qui
preme ora ricordare quanto Schmitt afferma sulla rappresentanza, cioè che
"non è né un fatto normativo, né un processo, né una procedura, ma
qualcosa di esistenziale. Rappresentare significa rendere visibile e
illustrare un essere invisibile per mezzo di un essere che è presente
pubblicamente. La dialettica del concetto consiste nel fatto che l'invisibile
è presupposto come assente ed è al tempo stesso reso presente".77
Tuttavia
76 G. LEIBHOLZ, op.cit., p. 70. Lo stesso autore parla di “duplicità” del concetto di
rappresentanza che tuttavia non ha molto a che vedere con quanto si manifesterà con il
dualismo insito nell’idea di rappresentanza. Per il pensatore tedesco, infatti, la duplicità è
data dalla realtà del rappresentato al di là ed al di fuori della rappresentanza, così come, per
il secondo profilo, si deve mantenere distinta la rappresentanza dall’identità e,
conseguentemente, dalle figure che sul paradigma dell’identità si fondano. A questo
proposito si può concordare almeno parzialmente coll’autore, nel senso di ritenere che
contrasta con la rappresentanza ogni figura mutuata sull’unicità, che sicuramente partecipa
dell’idea di identità; ma si è certi che l’affermazione possa essere ampliata fino a creare
un’antitesi identità / rappresentanza.
77 C. SCHMITT, Verfassungslehre, Leipzig, 1928, trad. it., Dottrina della
Costituzione, Milano, 1984, p. 277. Sul problema della rappresentanza nella Germania
degli anni Trenta, cfr. l’ottima indagine di A. SCALONE, Rappresentanza politica e
rappresentanza degli interessi, Milano, 1996. Con informata precisione l'Autore ci
guida alle radici delle difficoltà incontrate prima da Smend ed Heller, ma soprattutto
da Carl Schmitt, nel tentativo di descrivere, ormai più che di influire, sull'ormai
ineludibile riconoscimento di una reale distinzione tra rappresentanza politica e
rappresentanza degli interessi, prendendo con ciò atto dell'intervenuta rottura della
Einheit der Rechtsordnung, come hanno avuto modo di precisare recentemente, con
dovizia di particolari, due esponenti della più attenta dottrina tedesca, peraltro non
considerati da Scalone, G. MEUTER, Der Katechon. Zu Carl Schmitts
fundamentalischer Kritik der Zeit, Berlin, 1994, specialmente, p. 260 e 278; e K.
WACHTER, Studien zum Gedanken der Einheit des Staates. Über die
rechtsphilosophische Auflösung der Einheit des Subjektes, Berlin, 1994, che compara
TENTATIVO DI ENUCLEARNE IL CONCETTO
54
sistematicamente le costruzioni di Schmitt, Smend, ed Heller, seguendo il duplice
binario del progressivo articolarsi del monolitico Stato di concezione prussiana e del
parallelo consolidarsi dell'individuo nel campo pubblico (il cittadino), a dispetto della
tradizione germanica che ha sempre privilegiato il "gruppo", nella forma della Sippe e
degli Stände.
Infatti, i sempre più deboli richiami all’unità etica del popolo (p. 46)
allontanano questi Autori dal fondamento delle costruzioni degli Staatslehrer di soli
cinquant'anni prima, affrancandoli così, almeno in parte, dal debito hegeliano (ma più
propriamente -crediamo- della Destra hegeliana di Rosenkranz, Oppenheim, Rössler
e, soprattutto, Erdmann) che aveva caratterizzato le prime due generazioni di
giuspubblicisti tedeschi, da Gerber a Jellinek.
Secondo Scalone, insomma, da un lato vi sarebbe la presa d’atto dei pensatori
tedeschi degli anni Venti e Trenta che la società civile, nell’urgenza delle esigenze
economiche, preme con insistenza per concorrere all'indirizzo, se non ad assumere la
gestione, dell'interesse pubblico, fino ad allora -per definizione- stretto monopolio
dello Stato, vanificando così la tradizionale distinzione accademica tra Stato e società
(p. 47).
Per altro verso, e di conseguenza, si inserisce la figura del partito politico
(sulla cui importanza in quegli anni, ci sembra essenziale il rinvio alla recente
monografia di K. RUPPERT, Im Dienst am Staat von Weimar. Das Zentrum als
regierende Partei in der Weimarer Demokratie 1923 - 1930, Düsseldorf, 1992;
nonché al saggio di Ch. GUSY, Die Lehre von Parteienstaat in der Weimarer
Republik, in "Der Staat", 1993, p. 57 e ss.), vera e propria contradictio in terminis,
soprattutto per Schmitt, che Scalone in questo senso oppone ai c.d. pluralisti, come
Weber e Leibholz. Infatti, ove "politico" corrisponda a "pubblico" e cioè a "statale", il
partito altro non può essere che un gruppo esponenziale portatore di un interesse
particolare da far pesare nella determinazione della rotta del pubblico bene,
costringendo la dottrina a quell'inesausta rincorsa per comprenderlo in qualche modo
(p. 168) all'interno della forma necessariamente unitaria dello Stato moderno, che,
dalle considerazioni sociologiche di Max Weber (secondo il collegamento tra l'opera
di Schmitt e il pensiero di Max Weber, ripreso recentemente anche da G. EISERMANN,
Max Weber und Carl Schmitt, in "Der Staat", 1994, p. 76 e ss.), attraverso la
Repräsentation di Leibholz, porta al compromesso di Kirchheimer e di Kelsen e alla
dichiarata fictio della rappresentanza parlamentare, alle recenti elaborazioni di
Fraenkel e alla rappresentanza degli interessi organizzati di Kaiser, fino agli ultimi
contributi di Steinberg, che cerca di coniugare la tradizione tedesca con l'esperienza
americana, proponendo una correlazione paritetica tra Stato e partiti, ove
l'aggregazione e formazione di interessi dei secondi è di pari dignità e rilevanza
pubblicistica del primo, agevolandone il lavoro e rendendolo edotto sulle esigenze da
soddisfare (p. 181). Per i debiti di Savigny nei confronti del pensiero di Burke, cfr.
anche E. FRAENKEL, Der Doppelstaat, Frankfurt (a M.), 1974 (ma 1941), nella trad. it.
Torino, 1983, specialmente p. 159 e ss. Sul punto si venda anche M. WEBER,
Wirtschaft und Gesellschaft, Tübingen, 1922; G. SIMMEL, Über soziale
Differenzierung, Leipzig, 1890.
In altri termini, l'ineludibile presa d'atto dell'esistenza di un
Interessenrepräsentation, la differenza di volontà e di interessi nel campo pubblico tra
cittadino e Stato (ancora dichiarata da Jellinek con implicito riferimento al § 258 e
STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA
55
per Schmitt la rappresentanza ha rilevanza solo nel campo pubblico: gli
interessi privati possono essere delegati. "Nella rappresentanza invece, si
manifesta concretamente una più alta specie di essere. L'idea della
rappresentanza si basa sul fatto che un popolo che esista come unità
politica rispetto all'esistenza naturale di un qualsiasi gruppo di uomini che
vivano insieme, ha una specie di essere più alto e sviluppato, più intenso.
Se viene meno il senso di questa particolarità dell'esistenza politica e gli
uomini preferiscono altri modi del loro esistere, scompare anche la
260 della Rechtsphilosophie di Hegel, forse nell'interpretazione datane dagli allievi),
la dichiarata esistenza, in fondo, di esigenze pubbliche particolari (quando non
individuali), necessariamente diverse tra di loro e, magari, contrastanti con quelle
dello Stato, conduce i pensatori di Weimar, da un lato, a dichiarare spezzata la sfera di
Sieyès, senza però trarne tutte le conseguenze sul piano del diritto costituzionale
(p.203); dall'altro, a tentare di ricomprendere il partito nella Einheit der
Rechtsordnung.
L'Autore può così concludere chiedendosi se la rappresentanza degli interessi,
più che smascherare la pretesa unità dello Stato moderno, non ne sia invece che
l'epifenomeno. Le due cose non ci sembrano escludersi a vicenda, anche per chi abbia
assunto che nella nozione di Repräsentation -pur nel suo significato specifico, distinto
da Vertretung e Darstellung- "si compendia la struttura logica dell'intera forma-Stato
moderna, che trova la sua prima e più compiuta formulazione nel Leviathan di
Hobbes" (p. 22, in nota).
Preme invece notare come in questo saggio la rappresentanza (politica e degli
interessi) non sia esaminata per indagarne l'intima struttura dualista, contrastante con
la pretesa unicità propria dello Stato moderno, quanto piuttosto per metterne in rilievo
il ruolo di elemento scardinante la forma-Stato moderno: muovendo infatti
dall'equazione tra pubblicità e struttura rappresentativa, sostenendo cioè che non può
darsi Öffentlichkeit se non tramite rappresentanza, e ciò anche nelle forme di
democrazia identitaria, si deduce necessariamente che nel momento in cui i Verbände
divengono elementi del pubblico, o portatori di esigenze di cui si fa carico lo Stato,
accedono inevitabilmente alla Repräsentation, condividendone assenza di
legittimazione, infondatezza e fictio, in quanto "non esistono, o perlomeno, non sono
politicamente rilevanti, interessi naturali" (p.204), secondo quanto già percepito,
forse, tanto da Schmitt che da Leibholz, sul confronto delle cui posizioni, in un ottica
di Allgemeine Staatslehre, non si può che rinviare al ricchissimo K. A.
SCHACHTSCHNEIDER, Res publica res populi. Grundlegung einer Allgemeinen
Republiklehre. Ein Beitrag zur Freiheits-, Rechts-, und Staatslehre, Berlin, 1994,
specialmente 8. Teil: Die republikanische Vertretung des ganzen Volkes, ed in
particolare il 4. Kapitel: Repräsentation und Identität in den Lehren von Carl Schmitt
und Gerhard Leibholz, pp. 735 e ss.
Si verifichi, altresì, l’assonanza di queste posizioni con la costruzione di Erdmann
di quasi un secolo precedenti, su cui infra, § II.3.
TENTATIVO DI ENUCLEARNE IL CONCETTO
56
comprensione di un concetto come la rappresentanza.”78
Sembrerebbe che
l'impossibilità di concepire la rappresentanza nell'ambito del diritto
privato per Schmitt, sia dovuta non alla diversità della struttura che stiamo
enucleando, ma proprio per il diverso ambito di applicazione. Gli affari di
diritto privato in altre parole, concernono il singolo e non riguarderebbero
la sfera politica. E questo carattere distinguerebbe rappresentanza politica
da delega privata. In altre parole, e con un paradosso, nell'ambito pubblico
i cittadini possono entrare in relazione tra di loro e può darsi
rappresentanza. Nell'ambito privato non entrano in rapporto uti cives, ma
uti singuli e nemmeno la rappresentanza sarebbe concepibile bensì solo
una delega. Questo è uno dei passaggi meno felici del pensiero di Schmitt,
ove maggiormente si fanno sentire le esigenze sistematiche e
classificatorie della dogmatica giuridica della tradizione tedesca, che ha
troppo presto dimenticato come tutti i concetti del diritto pubblico siano
stati mutuati (sempre trasformandoli, spesso stravolgendoli) dal diritto
privato, secondo l’intento programmatico lucidamente espresso da Gerber,
nel 1852, come si dirà al § II.3.2. In realtà è contraddittorio sostenere che
la politica metta in relazione gli uomini, ma solo nell'ambito pubblico,
quasi che nel privato non si diano relazioni giuridiche complesse, frutto di
78 Ibidem. Per capire appieno questo passaggio del pensatore politico tedesco, a
nostro avviso, occorre tenere a mente quando da lui esposto nello stesso volume, più di
cento pagine prima (a pag. 114 dell’ottima traduzione italiana curata da Antonio
Caracciolo). Gli uomini che si aggregano, di cui abbiamo appena letto, sono gli stessi che
costituiscono la nazione, intesa allo stesso modo di (e con espliciti riferimenti a) Sieyès,
cioè, come vedremo infra al § II.2, cioè una nazione continuamente allo stato di natura,
non tanto nei rapporti internazionali, ché questo era uno dei casi dello stato di natura
indicati da Hobbes (elemento di prova della non convenzionalità dell’originario luogo
dell’unicità), quanto piuttosto al proprio interno, titolare di soli diritti, anzi pretese, e non
soggetta a nessun dovere: si tratta in sostanza della manifestazione del potere costituente,
di tutto ciò che può essere per il solo fatto di esserlo, secondo l’icastica formulazione di
Sieyès. Di più, la volontà non potrebbe essere del popolo per il semplice motivo che il
popolo non può avere una volontà, altrimenti si concreterebbe un mandato imperativo nei
confronti dell’assemblea (cfr. C. SCHMITT, Die Diktatur. Von den Anfängen des modernen
Souveranitätsgedankens bis zum proletarischen Klassenkampf, 1921, trad. it. La Dittatura.
Dalle origini dell’idea moderna di sovranità alla lotta di classe proletaria, Bari, 1975, p.
155. Per l’originalità dell’interpretazione di Sieyès resa da Schmitt, cfr. C. GALLI,
Genealogia della politica. Carl Schmitt e la crisi del pensiero politico moderno, Bologna,
1997, specialmente p. 582). È solo l’assemblea che “fa volere” il popolo; anzi, poiché il
popolo non corrisponde all’immagine che ne dà l’assemblea, lo si sostituirà con il Popolo,
secondo una produzione di “maiuscole” che avremo agio di esaminare più avanti.
STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA
57
esigenze politiche.79
La primogenitura storica del privato sul pubblico ne
sottende, in realtà, una di carattere logico. È il comunicare degli uomini,
lògon èkon, a permettere la nascita della politica, ed il diritto è lo
strumento di tale comunicazione. Essa si concreta tanto nel privato quanto
nel pubblico (quand’anche –come detto- la distinzione sia proficua e la si
voglia mantenere a fini sistematici) e ne è la ragione di esistenza. La
rappresentanza è pertanto concepibile, con identica struttura, nei due
ambiti tradizionali del diritto, a meno di ritenere, come sembra fare
Schmitt, che la categoria della relazionalità, cara a Simmel, sia solo nel
settore pubblico, ma già questo solo impone di affermare anche la
distinzione tra pubblico e privato è antecedente al diritto, alla giuridicità.
Ma un ulteriore passo adesso si impone per enucleare appieno la
struttura della rappresentanza ed il contributo ci viene ancora una volta da
Leibholz: "se la rappresentazione è da distinguere concettualmente
dall'identità, deve altresì venir differenziata anche dalle situazioni
oggettive della solidarietà, che sul pensiero dell'identità si fondano".80
Tuttavia la struttura dell'identità non dovrebbe essere ritenuta
79 In altro luogo Schmitt sembra cogliere l’intima struttura dualistica della
rappresentanza che andiamo scoprendo quando afferma che la rappresentanza è così
dominata dal pensiero dell’autorità personale che “tanto il rappresentante quanto il
rappresentato devono conservare una dignità personale”. A questa osservazione fa subito
eco la perentoria affermazione del carattere necessariamente “autorevole” che deve
dimostrare il rappresentante per qualificarsi tale. Proprio l’autorevolezza starebbe alla
radice della rappresentanza politica, distinguendola dalla “meschinità” della delega privata
dove si concreta un semplice “stare al posto di altri”. In questa prospettiva, però, il
dualismo è solo apparente, poiché l’affermata esistenza “personale” di rappresentante e
rappresentato viene assorbita nell’autorevolezza (o nell’autoritarismo) del
“rappresentante”. Infatti, se da un lato Schmitt insiste nella non riducibilità della
rappresentanza politica a mera Vertretung, dall’altro non fa nulla per mantenere la
protestata dignità personale del rappresentato, cui non spetta alcun sindacato sull’opera del
rappresentante, né è previsto alcun giudizio di responsabilità, che –come andiamo dicendo-
è la misura della dualità. Cfr. C. SCHMITT, Römisches Katholizismus und politische Form,
München, 1923, trad. it. Cattolicesimo romano e forma politica, Milano, 1986, p. 50. Sul
punto si veda anche C. GALLI, Genealogia della politica. Carl Schmitt e la crisi del
pensiero politico moderno, Bologna, 1997, specialmente p. 272 e ss.
80 G. LEIBHOLZ, Die Repräsentation, cit., p. 73. L’Autore riprende e fa propria la
contrapposizione rappresentanza - identità tematizzata da Schmitt. Sul punto si veda anche
la recensione di E. VOEGELIN, Die Verfassungslehre von Carl Schmitt. Versuch einer
konstruktiven Analyse ihrer staatstheoretischen Prinzipien, in «Zeitschrift für öffentliches
Recht», XI (1931), p. 89 e ss., nella traduzione italiana curata da G. Zanetti, in G. Duso (a
cura di) Filosofia politica e pratica del pensiero, Milano, 1988, p. 291 - 314
TENTATIVO DI ENUCLEARNE IL CONCETTO
58
incompatibile con una pluralità fisica di soggetti unitariamente intesi:
l'esempio proposto da Leibholz è l'unità della Sippe, nella responsabilità
per atti commessi da un suo componente verso un appartenente ad un altra
Sippe, ove il gruppo non è rappresentante del singolo, ma sarebbe in
rapporto di identità col singolo stesso, per quella forma di identità che
sarebbe la solidarietà. In questo modo si prospetta la possibilità che
l'unum Sippe possa essere rappresentato da un singolo, appiattendo le
diverse voci che compongono la Sippe. Leibholz si espone qui alla critica
kelseniana della rappresentanza come finzione.81
È difficile immaginare la
Sippe come qualcosa di distinto dai suoi componenti. In effetti la Sippe
può volere ed agire solo attraverso i suoi rappresentanti che la rendono
manifesta agli altri (compresi i suoi componenti), interpretandone i
bisogni e i desideri. È da notare come ogni procedimento di astrazione
esponga alla critica di finzione la rappresentazione del suo prodotto. Idee
di popolo unitariamente inteso, di nazione di corpo elettorale, non sono
ritenute rappresentabili perché effettivamente inesistenti, se non nella
rappresentazione, in completa balìa del loro "rappresentante", che tale non
sarebbe proprio per l'assenza del rappresentato. Si dovrebbe dire allora
che popolo, nazione, corpo elettorale, non esistono o non sono
rappresentabili? Crediamo di no. La difficoltà si annida nell'assegnare alla
rappresentanza funzioni diverse dal rappresentare, come il creare o
l'annichilire i soggetti. Perché la rappresentanza possa svolgere la sua
propria funzione occorre esercitarla con strumenti che siano suoi propri,
che non ne violentino cioè, la struttura dualistica. Ma che origine ha la
difficoltà di accettare il dualismo della rappresentanza?
Una prima risposta ci viene da Voegelin, seppure indirettamente.
Occorre dunque introdurre, per quel che interessa in questa sede, la
concezione della rappresentanza di questo autore. Richiamatosi alla
premesse metodologiche di Aristotele82
sullo scopo e sui limiti della
filosofia pratica e affidando al fluire della Storia l'insegnamento, ma non il
mero plagio, dei prodotti delle epoche trascorse, Voegelin individua
l'origine della rappresentanza nell'articolazione. Il diversificarsi della
società e l'emergere di differenti centri di interesse dal mare magnum
81 Cfr. H. KELSEN, Vom Wesen und Wort der Demokratie, Tübingen, 1929, trad. it.
La democrazia, V ed., Bologna, 1984, p. 69 - 70. Sul punto cfr. altresì IDEM, Der Staat als
Integration. Eine prinzipielle Auseinandersetzung, Wien, 1930.
82 Tuttavia sul punto cfr. E. BERTI, Aristotele nel Novecento, Bari, 1992, p. 186,
195-6.
STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA
59
medioevale, pronti ad agire nella Storia, portano alla necessità del
rappresentante. Così come a suo tempo il processo storico per cui si
giunge al limite estremo dell'articolazione, si era compiuto introducendo
la rappresentanza nell'antica Roma. "Per il momento basterà segnalare che
il passaggio in campo dialettico presuppone un'articolazione della società
giù giù fino all'individuo come un'unità rappresentabile. Questo
particolare tipo di articolazione non si realizza dovunque; di fatto, esso si
è realizzato solo nelle civiltà occidentali. Lungi dall'essere una
caratteristica della natura dell'uomo, la sua realizzazione è condizionata da
certe condizioni storiche che si sono verificate solo in Occidente. In
Oriente, dove queste condizioni storiche specifiche non si sono verificate
storicamente, questo tipo di articolazione non esiste e l'Oriente
rappresenta la parte più numerosa del genere umano."83
La rappresentanza
allora non sarebbe qualcosa di connaturale all'uomo, ma il frutto della
necessità di funzionamento, della convivenza in società. L'articolarsi di
questa porta alla diversità dei soggetti e dalla distinzione sorge impellente
la necessità di farsi rappresentare, che quindi si fonda proprio sulla
diversità come rottura dell'omogeneità originaria. In altre parole,
l'articolazione della società introduce quella diversità che permette la
distinzione dei singoli, prima indistintamente ricompresi nell'unità
dell'Essere al modo di Parmenide.
Il fatto che in Oriente tutto ciò storicamente non sia avvenuto,
sembra far concludere a Voegelin, contrariamente alla tradizione greca,
che il diritto e il vivere in società non siano propri dell'uomo; ma questo è
contro le intenzioni del filosofo austriaco. Tuttavia Voegelin distingue tra
rappresentanza esistenziale e rappresentanza 'elementare'. Quest'ultima
altro non è che il governo costituzionale di Hauriou,84
cioè la descrizione
della realtà data dalla veste giuridica. Il vero rappresentante sarebbe
quello in senso esistenziale, cioè colui che realizza nella Storia l'idée
directrice85
dell'istituzione di Hauriou. Secondo Voegelin un soggetto
esiste quando è capace di agire nella Storia e l'articolazione della società
altro non sarebbe che il frutto della spinta per determinate azioni: a quel
83 E. VOEGELIN La nuova scienza politica, trad. it. Torino, 1968, p. 98.
84 E. VOEGELIN La nuova scienza politica, trad. it. Torino, 1968, p. 106.
85 Ibidem. Una critica serrata alla definizione di rappresentanza proposta da
Voegelin è mossa da H. KELSEN, La democrazia cit., p. 123-143. La rappresentanza in
senso esistenziale sarebbe un concetto impreciso e politicamente ambiguo.
TENTATIVO DI ENUCLEARNE IL CONCETTO
60
punto occorre un rappresentante per ogni articolazione poiché l'unità è
spezzata. "E il monito implicito in tutto ciò può essere esplicitato così: se
un governo è rappresentativo soltanto in senso costituzionale, sarà
spazzato via, presto o tardi, da un capo rappresentativo in senso
esistenziale; e molto probabilmente il nuovo capo esistenziale non sarà
neppure rappresentativo in senso costituzionale".86
Tralasciamo per il
momento il ruolo del rappresentante come realizzatore di idee nella Storia.
Appare interessante la distinzione tra rappresentanza esistenziale,
esercizio del potere inarrestabile nella Storia, in cui vediamo tracce della
Herrschaft, tanto cara alla dottrina tedesca; e la veste giuridica,
rappresentanza elementare secondo Voegelin, che ricopre anche chi non è
più portatore dell'idée directrice. Essa indica una rotazione, necessaria, dei
rappresentanti, esprime la temporaneità della rappresentanza, salvo capire
chi veramente sia rappresentante - interprete dell'idée (lo deciderà il
Tribunale della Storia?). Ma da Voegelin emerge soprattutto che la natura
della rappresentanza è nella pluralità. La rottura dell'unità per le spinte
particolaristiche porta all'articolazione, ma, allo stesso tempo, l'esigenza di
ordine, necessario per la realizzazione delle idee direttrici che hanno rotto
l'unità, si risolve nella rappresentanza. Originata dalla pluralità, essa è
dunque chiamata a ricostruire l'ordine, la cui massima espressione è
quell'unità da cui si era partiti, ma che nella modernità è stata assunta in
un'accezione del tutto particolare.87
È stato messo bene in evidenza88
il carattere di unicità che sta alla
radice della concezione di Stato nel pensiero dei principali autori moderni.
Prendendo le mosse dalla sostituzione della volontà all'essere come
86 E. VOEGELIN La nuova scienza politica, trad. it. Torino, 1968, p. 107. Il concetto
viene esposto chiaramente a pag 137: "Al significato esistenziale della rappresentanza
bisogna aggiungere quello per cui la società è la rappresentante di una verità trascendente.
I due significati si riferiscono ad aspetti diversi di un solo problema, nella misura in cui: 1)
il rappresentante esistenziale di una società è il suo leader attivo nella rappresentanza della
verità; 2) un governo che si regge sul consenso dell'insieme dei cittadini presuppone
l'articolazione dei singoli cittadini fino al punto di poter partecipare attivamente alla
rappresentanza della verità mediante Peitho, la persuasione.”
87 Torna il binomio pluralità-rappresentanza / unità-identità, alla base anche della
costruzione di Leibholz e che Schmitt chiama "i due principi della forma politica". Cfr. C.
SCHMITT, Verfassungslehre, Berlin, 1928, p. 270.
88 Cfr. F. GENTILE, Intelligenza politica e Ragion di Stato, II ed., Milano, 1984,
specialmente p. 57 e ss; p. 97 e ss.
STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA
61
fondamento del diritto e dello Stato, sostituzione individuata chiaramente
e in forma esplicita già nell'opera di Marsilio da Padova, molto prima
dell'inizio convenzionale della modernità, si è enucleata la struttura
monista che sostiene lo Stato moderno. Con la sostituzione della volontà
all'essere quale fondamento del diritto infatti, uno Stato non è più tale "per
una sua qualità naturale", al modo della pòlis o come l'Impero rigenerato
dalla cristianità, rappresentato da Dante. Uno Stato è, perché frutto della
volontà del sovrano che lo unifica e lo organizza sotto la propria spada.
Nata come volontà parziale, partigiana, la volontà del sovrano che si è
progressivamente affermata, mantiene la struttura dell'unico anche quando
è divenuta Stato; né, considerate le premesse, potrebbe essere
diversamente. In questa prospettiva infatti, "pubblico" e "privato", sovrano
e singolo, in toto accomunati ciascuno dalla propria pretesa unicità, hanno
identità di struttura e in questo senso sono incapaci di instaurare fra di loro
alcun rapporto dialettico, alcuna comunicazione, essendo nel proprio
ambito ciascuno egualmente assoluto e sovrano, il solus ipse. Ogni atto di
volontà infatti, riconduce ad un solo soggetto, ad uno, ed uno solo, centro
di imputazione di interessi, anche nella pluralità delle persone fisiche che
lo compongono. Se alla radice della volontà sta dunque l'unità, e se la
volontà in quel singolo di dimensioni maggiori che è lo Stato assume il
nome di sovranità, alla radice dello Stato non può che rinvenirsi l'unicità,
cioè il non voler, il non poter riconoscere altro all'infuori di sé. Ben si
comprende allora la difficoltà di inquadrare il dualismo della
rappresentanza in una simile concezione di Stato. Di più, in tale
prospettiva lo stesso diritto, che sull'alterità, sul riconoscimento dell'altro
si fonda, viene ridotto a mera veste formale della forza. Nella regolazione
degli affari, dove non c'è comunicazione, subentra inevitabilmente
l'imposizione.89
Le conseguenze di siffatta costruzione "geometrica",
tutt'oggi seguita, per lo più acriticamente, sono già state messe ben in luce,
dimostrandone l'intrinseca aporeticità.90
Qui interessa richiamare
l'attenzione su quanto più direttamente rileva per il nostro argomento. Ora,
se la rappresentanza è chiamata a ricondurre ad ordine la pluralità che la
89 Per una serrata analisi delle costruzioni che pongono a proprio (spesso
inconsapevole) fondamento il presupposto dell’incomunicabilità e per i risvolti pratici che
ne scaturiscono, in limpido sviluppo delle intuizioni di Francesco Gentile, cfr. L.
FRANZESE, Il contratto oltre privato e pubblico, Padova, 1999, specialmente p. 86 e ss.
90 Cfr. F. GENTILE, Intelligenza politica e ragion di stato, II ed., Milano, 1984, p.
127 e ss; per la citazione di Marsilio, p. 101.
TENTATIVO DI ENUCLEARNE IL CONCETTO
62
origina, come sopra indicato, e se l'ordine nella modernità assume la veste
assoluta dell'unicità, ben si comprende la difficoltà della scelta del criterio
rappresentativo, cioè in fine del criterio ordinatore dello Stato. Se poi si
intende sviluppare la correlazione ordine come unicità, i veri criteri
rappresentativi sarebbero quelli che eliminano alternativamente o il
rappresentante o il rappresentato, dando rilievo o solo al primo o solo al
secondo: verso il primo si orienta esplicitamente e con la consueta
decisione Hobbes, verso la seconda ci conduce suadente Rousseau. Vero
criterio rappresentativo sarebbe allora quello che annulla la
rappresentanza come struttura dualistica: l'applicazione contraddice i
presupposti. Tuttavia anche ammettendo che l'ordine sia nell'unità (altro
dall’unicità) vi è la possibilità di fondarlo sulla rappresentanza,
dialetticamente, senza ignorare fittiziamente le diversità che hanno dato
origine alla pluralità, o "articolazione" voegeliniana, e che, poiché
esistenti, metterebbero subito in crisi l'unità artificialmente raggiunta.
Questo è il compito della rappresentanza. Il problema si presenta nel
momento della scelta di un criterio rappresentativo che salvaguardando la
pluralità giunga all'ordine, ad unità; è in sostanza quell'aspetto della
quadratura del cerchio politico, che già aveva affaticato Rousseau.
In sintesi, riteniamo che per avere rappresentanza occorrano due
soggetti: il rappresentante ed il rappresentato; la “situazione” che propone
un soggetto in rappresentanza di un altro impone un “rapporto” tra i due
che la giustifichi. In altri termini in tanto si è rappresentanti in quanto vi
sia qualcuno che si rappresenta ed al contempo in tanto si è rappresentati
in quanto ci sia qualcuno che rappresenti. L'assunto risulterà meno ovvio
ove si introduca una correlazione tradizionale nell'ambito giuridico, ma da
indagare nelle sue radici, per la quale in tanto un soggetto è, in quanto
emani atti di volontà giuridicamente rilevanti.91
Allora non è sufficiente
assumere che il monarca o il parlamento rappresenta il popolo, se questo è
incapace di atti di volontà giuridicamente rilevanti; come non è
91 La peculiare correlazione tra esistenza ed attitudine ad emanare atti di volontà
giuridicamente rilevanti, che sembra scardinare la tradizionale distinzione tra capacità
giuridica e capacità di agire, trova fondamento testuale in più lavori degli Staatslehrer,
ripreso forse dall’insegnamento degli Epigonen ed in particolare di Erdmann: cfr. infra §
II.3.3. e § II.3.4.
STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA
63
rappresentato chi mandi in assemblea al proprio posto un soggetto
incapace di formulare atti di volontà giuridicamente rilevanti.92
Una volta ammessi due soggetti realmente esistenti (e volenti),
occorre precisare il contenuto della rappresentanza, per cui ciò che è
concluso dal rappresentante, lo è per il rappresentato; in altri termini
occorre indagare il rapporto tra i due, costituito anche dalla responsabilità
per il proprio operato del secondo verso il primo. È quest'ultimo un
aspetto molto importante poiché è un indice sicuro dell'effettiva esistenza
del rappresentato: in tanto il rappresentato è, in quanto può realmente,
concretamente sindacare quanto il rappresentante ha fatto in suo nome o
per suo conto. Perché il rappresentato sia, non bisogna che la sua unica
voce sia quella del rappresentante o, secondo la tradizionale correlazione,
non bisogna che non possa avere manifestazioni di volontà oltre quelle del
suo rappresentante. Per converso il rappresentante si distinguerà dal
nuncius per l'autonoma esistenza (volontà) che riveste anche agendo in
nome e per conto, a favore, nell'interesse o secondo le volontà del
rappresentato.
Passando a guardare l’altra faccia della medaglia, cioè il
rappresentante, è opinione comune che per aversi un rappresentante
occorre qualcosa di più della semplice trasmissione di quanto previamente
confezionato dal rappresentato; su quanto di più sia necessario, è aperto
ampio ed approfondito dibattito, ma su un dato si è d’accordo: la
differenza è data dall'autonomia del rappresentante. Aspetto un po'
ambiguo per la verità, quest'ultimo, che ripropone la stessa questione in
termini nuovi: quand'è che il rappresentante ha autonomia; ma in più ne
prospetta una di nuova: quali limiti deve avere questa autonomia, per non
travalicare nell'assolutezza? Una risposta è già implicita: il limite
dell'esistenza del rappresentato. In altri termini, il rappresentato deve
92 Il problema della rappresentanza dell'incapace occuperà apposita trattazione. Qui
è appena il caso di notare i distinguo della dottrina civilistica più attenta che al proposito
parla di rappresentanza necessaria: tra i molti manuali e testi istituzionali si vedano F.
GALGANO, Diritto Privato, Padova, 1990; A. TRABUCCHI, Istituzioni di Diritto Civile,
Padova, 1993, F. GAZZONI, Manuale di diritto privato, Napoli, 1998. In tema di
rappresentanza restano di grande attualità per l'analisi approfondita, gli studi di S.
PUGLIATTI, Studi sulla rappresentanza, Milano, 1965; IDEM, Grammatica e diritto, Milano,
1978. Esaustivo sul punto F. MESSINEO, Manuale di diritto civile e commerciale, I vol., IX
ed., Milano, 1957, specialmente p. 540 e ss. Trovo la radice del parallelo tra la
rappresentanza necessaria dell’incapace e la rappresentanza politica nell’opera di Eduard
Gans, autore, com’è noto, di solida formazione romanistica, su cui infra § II.4.
TENTATIVO DI ENUCLEARNE IL CONCETTO
64
godere di esistenza autonoma a prescindere dall’opera di chi lo
rappresenta, sicché il diritto ad essere rappresentante trova il proprio
limite nel diritto dell’elettore ad essere rappresentato: il potere di azione
del rappresentante non deve portare all’annullamento del rappresentato, né
può consentirgli di recidere quel “legame” che lo ha costituito tale, cioè
rappresentante dell’assente.
Si sono già venuti così anticipando i concetti di “situazione e
rapporto” su cui ha lavorato la più recente dottrina tanto continentale,
quanto angloamericana,93
ricongiungendo nella ricerca comune due
esperienze costituzionali diversissime, non foss'altro storicamente.
Nella nostra indagine non si è guardato se non marginalmente
all'esperienza inglese e americana. Questo limite ha due ragioni: da un lato
l'impossibilità di riportare in maniera esaustiva il dibattito costituzionale
anglosassone circa l'istituto e di ricercarne le radici filosofiche; dall'altro
l'assoluta diversità di prospettive e di ruoli della rappresentanza nella
riflessione insulare e d'oltreoceano, che di per sé merita una ricerca
specifica. Basti pensare all'accostamento del divieto di mandato
imperativo, frutto consacrato costituzionalmente dalla Rivoluzione
francese, e la rappresentanza virtuale del Discorso agli elettori di Bristol
di Burke. Entrambi gli istituti, formulati a distanza di soli quindici anni,
mirano al medesimo scopo: la rappresentanza nazionale e non del singolo
collegio o dei singoli elettori; ma diverse sono le radici da cui muovono e
le conclusioni cui pervengono, sebbene entrambi, si vedrà, abbiano la
medesima struttura: quella monista.
"Nel Novecento ci sono due teorie che si contrappongono e che
riflettono le contraddizioni attraverso le quali si era formato lo Stato
moderno: quella giuridica, monista, che tutto incardina nello Stato e nella
93 Il riferimento d'obbligo è al saggio di H. F. PITKIN, The Concept of
Representation, Berkeley, 1967; pietra angolare anche della più recente dottrina
americana: cfr. J. Ph. REID, The concept of representation in the age of the American
Revolution, Chicago & London, 1989. Tuttavia di molto precedente è il breve ma denso
saggio di A. AQUARONE, Due Costituenti settecentesche, Pisa, 1959: una comparazione tra
le due esperienze costituzionali svolta attraverso i nodi problematici che si presentarono
alle rispettive assemblee costituenti, quella di Filadelfia e quella di Parigi. Come si desume
anche dal titolo, sullo sfondo dei lavori di questi due organi stanno da un lato il
colonialismo britannico, dall'altro l'Ancien Règime e tutto ciò si riflette in problemi di
metodologia giuridica: le categorie del Common Law e l'illuminismo enciclopedico filtrato
dall'irrazionalità del droit commun coutumier.
STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA
65
sua volontà sovrana, e quella politologica, pluralistica, che privilegia i
gruppi e le società in cui essi si muovono".94
Così Matteucci riassume e sintetizza le posizioni nel dibattito della
dottrina circa la struttura dello Stato, individuando come caratteristica
della prima corrente di pensiero una concezione dello Stato come
portatore dell'universalità, dell'eticità, per certi versi, cui si contrappone la
seconda, che vede nella società il luogo della diversità e della libertà.
Teoria organica da un lato e teoria istituzionalistica dall'altro, per usare
riferimenti più specifici.
Una soluzione tra queste due posizioni è "problema teoreticamente
non solubile", conclude Matteucci, perché proprio questo secolo ha
confuso le classiche distinzioni che avevano guidato i costituzionalisti -
filosofi francesi del XVI secolo.
Precisiamo che non in questo senso si parlerà qui di monismo e
pluralismo, anzi. L'indagine si manterrà in quell'ambito che Matteucci
risolve come "monismo giuridico", per scoprire come quell'unità granitica,
proprio giuridicamente tale non sia.
Chiariamo l'assunto: vi è opinione concorde, e l'autorità di
Matteucci la rafforza, nell'individuare la caratteristica della riflessione
moderna attorno al diritto e allo Stato nella categoria dell'unità, se non
dell'unicità: si è già detto come questo sia il luogo della sovranità. Al
contempo però ove si riesca a dimostrare che la struttura della
rappresentanza è giuridicamente dualista, cioè dove si riconosca che in
tanto si può parlare giuridicamente di rappresentanza in quanto si dia
rilevanza a due soggetti, pur restando del medesimo ambito statale e
giuridico, si è già oltre il monismo. In altre parole non occorrerà mutare
criterio, passare dal "giuridico" al "politologico" (con i termini di
Matteucci) per giustificare la società civile, la diversità, il luogo della
libertà.
Com'è noto, proprio la limitazione al solo primo ambito aveva
portato la Begriffenjurisprudenz a quelle difficoltà in cui ha trovato le
critiche più radicali, lasciando per converso, alle riflessioni più diverse
quello che veramente era il suo fondamento.95
94 N. MATTEUCCI, Lo Stato moderno, Bologna, 1993, p. 52, poi ripreso in IDEM, Lo
Stato moderno. Lessico e percorsi, Bologna, 1997.
95 Non si vuol con questo rovesciare l'analisi di Matteucci, anzi. La struttura dello
Stato moderno è stata costruita sulla categoria dell'unità dall'indagine dei primi teorici
rinascimentali, pur con mutate giustificazioni, fino alla giuspubblicistica tedesca di questo
secolo e ancora in quella dottrina che a questa, più o meno consapevolmente si rifà. Ad
TENTATIVO DI ENUCLEARNE IL CONCETTO
66
Con queste premesse si possono rivisitare le forme, le tecniche con
le quali la rappresentanza è stata tradotta nell’esperienza giuridica, per
vedere se ed in quale misura le modalità di attuazione incidano sulla
struttura concettuale testé enucleata.
essa si è contrapposta la speculazione sulla struttura della società e della convivenza in
generale, che si vorrà far assurgere alla dignità di scienza con il positivismo francese di
Comte. Ambito della società e sfera del diritto seguono quella diversità di strade che
ricorda Matteucci. La semplificazione sta forse nel ridurre il giuridico allo statuale, ma allo
Stato inteso come unicità. Ogni istituto giuridico viene allora piegato sulla forma della
categoria fondamentale di quest'ultimo, con le forzature di cui la distinzione tra
rappresentanza di diritto privato e rappresentanza c.d. politica non è che un esempio: in
fondo la seconda altro non è che la prima ridotta nelle maglie della sovranità. Quest'ultima,
a sua volta, non è da confondersi con la potestà di imperio che caratterizza lo Stato: la
necessità di ordinare, di farsi obbedire nell'interesse della collettività e ben diversa dalla
caratteristica di non riconoscere altri sopra se stessi, nemmeno la collettività, potendo così
agire a piacimento, senza limite alcuno.
STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA
67
2.3 Le tèknai della rappresentanza
2.3.1 La teoria del mandato
INTRODUZIONE DELLE CATEGORIE DI “SITUAZIONE”, COME POSIZIONE DEL RAPPRESENTANTE
VERSO I TERZI, E DI “RAPPORTO”, COME RELAZIONE TRA RAPPRESENTANTE E RAPPRESENTATO
– LA CAPACITÀ DI MANIFESTAZIONE DELLA VOLONTÀ GIURIDICAMENTE RILEVANTE COME
SPETTRO DELLA PERSONALITÀ: POSIZIONE E RINVIO – DISTINZIONE TRA MANDATO E
RAPPRESENTANZA AI FINI DELLA RICERCA – LA RESPONSABILITÀ COME MISURA E GARANZIA
DEL DUALISMO – FUNZIONE DI REDUCTIO AD UNUM DEL MANDATO: DA DUE SOGGETTI AD UNA
VOLONTÀ.
Da quanto sopra, si è potuto dedurre che l'analisi etimologico -
concettuale della rappresentanza, in tutti campi e in tutte le accezioni usate
e comparativamente tra questi, fa emergere un nocciolo duro che ben può
considerarsi la struttura fondamentale della rappresentanza: la dualità. Si
hanno sempre e comunque due soggetti, due cose, due concetti. Uno
appare, si manifesta, agisce, sta al posto dell'altro che (potremmo quasi
dire) per sua natura, risulta meno immediatamente percepibile; tuttavia
entrambi devono realmente esserci, esistere in maniera autonoma e
autosufficiente, non incrinata dal rapporto che li lega. In altre parole la
rappresentanza può instaurarsi solo tra due soggetti già esistenti ed
individuabili, non può essere condizione di esistenza di uno di questi o di
entrambi. Anche per questa ragione, alla già esaminata dicotomia assenza
/ presenza, elaborata dalla dottrina tedesca tra le due guerre, si preferisce
la distinzione eikòn / phántasma, sia perché l’assente deve comunque
esistere, al di fuori dell’opera del rappresentato, sia perché la
rappresentanza è comunque “qualcosa di più” del semplice “stare al posto
di un altro”.96
Per converso, proprio questi due soggetti, rappresentante e
rappresentato, sono condizione di esistenza della rappresentanza, talché vi
sarà vera e autentica rappresentanza solo se instaurata fra due soggetti
autonomi. E si vedrà in fine perché si è scelto di usare proprio questo
aggettivo.97
96 Così apre il proprio volume Bruno ACCARINO, Rappresentanza, Bologna, 1999,
p. 7.
97 Con Francesco Gentile, per autonomia intendiamo l'attitudine a darsi delle
regole e rispettarle, in questo senso contrapposta all'eteronomia, assoluta sregolatezza,
propria dello stato di natura, quale convenzionalmente presupposto, seppur spesso motivo
di fallacia scientista, dalla dottrina giuridica politica moderna. Per regolarità, con lo stesso
Autore intendiamo l'attitudine al rispetto delle regole fissate, consci che in qualsiasi attività
LE TÈKNAI DELLA RAPPRESENTANZA: IL MANDATO
68
Le costruzioni teoriche che definiscono il rappresentato come
manifestazione del rappresentante, inteso cioè come colui che porta ad
esistenza qualcosa che altrimenti non ci sarebbe, invertono il rapporto
causa - effetto. Sono i soggetti che costituiscono la rappresentanza, non
viceversa. Non si vuole qui dire che il rappresentato debba all'esterno
avere la forza del rappresentante; i limiti che gli impongono o lo
consigliano di farsi rappresentare qui non interessano, ma vogliamo
sostenere che il rapporto che lega il rappresentante e il rappresentato non
deve essere tale da incrinare l'autonoma esistenza di uno dei due o di
entrambi. Diversamente il rappresentante rappresenterebbe se stesso ed il
rappresentato non sarebbe rappresentato da nessuno. In entrambi i casi
non vi sarebbe rappresentanza. Per l'aspetto teorico giuridico che qui
interessa limiteremo la nostra analisi alla teoria del mandato e alla più
recente costruzione dell'interpretazione, che ha assunto vieppiù
importanza nell'ambito costituzionale.
Nell'ambito giuridico in generale, il soggetto viene tradizionalmente
ritenuto operante con atti di volontà,98
attraverso una determinata forma,
cui l'ordinamento riconosce un effetto giuridico. Si è già potuto mettere in
evidenza come per ogni atto di volontà corrisponda un effetto giuridico e
come ogni atto di volontà faccia capo ad un centro di imputazione di
interessi.99
È una manifestazione dell'esigenza di ordine propria di una
intersoggettiva - che necessiti cioè dell'alterità, del riconoscimento dell'altro - l'essenziale
non risiede nella regola quale essa comunque sia, ma nella consapevolezza che il gioco, il
rapporto economico, in fondo il vivere civile, stia nella capacità di autoregolamentazione,
nel saper riconoscere e rispettare la regola posta, a prescindere dalla cogenza esterna, dalla
forza che ne possa garantire comunque l'effettività. Per la precisa definizione di questi due
termini -regolarità ed autonomia- cfr. F. GENTILE, Intelligenza politica e ragion di stato, II
ed., Milano, 1984, specialmente p. 35 e ss.
98 Una formulazione esplicita in questo senso è in Th. HOBBES, Elementa
Philosophica de Cive, cap. V; par. VI, nell’edizione di Amsterdam, 1696, p. 79. Si veda
altresì J. E. ERDMANN, Philosophische Vorlesungen über den Staat, Halle, 1851,
soprattutto l’inizio della quinta lezione, su cui amplius infra, II.3.1. Più di recente, a questa
prospettiva si è rifatto un filone della pandettistica e della dogmatica tedesca, nella
polemica con i sostenitori della tutela dell’affidamento, che ha trovato precaria
composizione solo negli ultimi tempi. Smaschera l’ipoteca concettuale di questa
equiparazione posta a fondamento dello Stato moderno, proponendo il recupero di
categorie classiche quali percorsi alla vita politica M. AYUSO TORRES, ¿Después del
Leviathan? Sobre el estado y su signo, Madrid, 1996.
99 Si è consapevoli che ad un atto di volontà possano fare riscontro più effetti, ma
qui si fa riferimento all'effetto fisiologico che ha spinto il soggetto a volere per
STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA
69
certa concezione dello Stato moderno e l'unità è la forma più ordinata
possibile. Tuttavia la tendenza all'unità contrasta con la struttura dualistica
propria della rappresentanza.
Della conciliazione di tali opposte esigenze si incaricano
principalmente due teorie, che nelle numerose varianti, conservano
identità di principio: una contrapposta all'altra, dualistica nella struttura la
prima, monista la seconda.
La prima teoria, detta del mandato, prevede la presenza di due
soggetti distinti: il mandante e il mandatario. In questo ben sembra
adattarsi alla struttura dualistica della rappresentanza, ove il mandante
riveste il ruolo di rappresentato e il mandatario il ruolo di rappresentante.
Anche per il mandato, come per la rappresentanza, appare
essenziale individuare i due termini e mantenerli distinti nei lori ruoli, non
riducendo il primo al secondo, non subordinando l'esistenza dell'uno
all'attività dell'altro, pure se nell'autonoma esistenza uno debba
funzionalmente piegarsi ai desideri dell'altro. Mandante e mandatario sono
concepiti come due soggetti realmente esistenti ed operanti. Il primo è
colui che incarica il secondo per il compimento di uno o più atti giuridici,
i cui effetti ricadranno in capo al mandante stesso.100
Il secondo riceve le
conseguirlo; altrettanto dicasi per più soggetti riuniti in un unico centro di imputazione di
interessi, è il concetto di parte; sulla distinzione tra volontarietà dell'atto e degli effetti, cfr.
E. ZITELMANN, Irrtum und Rechtgeschäft, Leipzig, 1879, cui sembra ispirarsi V.
PIETROBON, L'errore nella teoria del negozio giuridico, Padova, 1963. Per un altro verso
occorre tener distinta la rappresentanza dalla procura, questa è solo la manifestazione
esteriore della qualità di rappresentante; dà la misura del potere del rappresentante. Come
chiariamo nel testo, l'esistenza della rappresentanza si desume dall'ampiezza dei rapporti
tra rappresentante e rappresentato. Per una distinzione concettuale di rappresentante,
portavoce, mandatario, cfr. F. SANTORO PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile,
Napoli, 1962, p. 264 e ss; nonché G. SARTORI, Democrazia e definizioni, Bologna, 1979, p.
354, più recentemente gli stessi temi vengono riproposti in G. SARTORI, Democrazia, cos'è,
Milano, 1993.
100 La compiuta ricostruzione civilistica dell’istituto esula dai nostri compiti; si
faranno pertanto quei richiami necessari per il prosieguo della trattazione, con particolare
riguardo a quegli aspetti che sono stati ritenuti “esportabili” nell’ambito pubblico. In
ordine all’esempio riportato nel testo, secondo il diritto civile, com’è noto, la ricaduta degli
effetti sarà diretta od indiretta a seconda che il mandato sia con o senza rappresentanza.
Nel secondo caso, tuttavia, sorge il dovere di trasferire le situazioni giuridiche soggettive
maturate dal mandatario in nome proprio ma nell’interesse del mandante, ai sensi dell’art.
1706 c.c. Poco limpide, a nostro giudizio, e, comunque, non del tutto sovrapponibili alla
tradizione continentale appaiono le categorie, proposte da H. F. Pitkin, di Acting for e
Standing for: cfr. H. F. PITKIN, The Concept of Representation, Berkeley, 1967, sui cui
infra.
LE TÈKNAI DELLA RAPPRESENTANZA: IL MANDATO
70
indicazioni del mandante e si incarica di portarle a compimento. Si è
discusso a lungo, e a tutt'oggi la questione è aperta, se il mandante detti
delle volontà in capo al mandatario o se gli fornisca semplici istruzioni e,
in tal caso, fino a che punto vincolanti. Parallelamente il problema si pone
dal lato del mandatario: l'alternativa che sembra aprirglisi è tra l'agire
secondo la volontà del mandante, ma contro i suoi interessi o, al contrario,
secondo quelli che il mandatario reputa gli interessi del mandante, ma
contro le sue precise volontà. Non risolve il problema sostenere che
normalmente la volontà di un soggetto concorda con i suoi interessi e che
se non c'è coincidenza ci deve essere una “buona ragione”.101
Non lo
101 Cfr. nota 65 e infra nel testo. In verità l’equivoco si annida nella pretesa
corrispondenza tra interessi e volontà. Dando per scontata e lasciando quindi da parte
l’osservazione sociologica per la quale gli stimoli esterni del benessere producono pulsioni
che inducono i soggetti ad agire contro il loro stesso interesse, due sono gli aspetti giuridici
che dimostrano l’inapplicabilità di questa teoria: l’assenza di un rimedio alla
manifestazione di volontà affetta da una falsa rappresentazione della realtà ed l’assenza del
sindacato di un terzo che giudichi della conformità tra volontà ed interessi. Quanto al
primo punto, nelle procedure elettorali e nella rappresentanza politica in generale, a
differenza che nella disciplina del negozio, non è dato rilievo alla falsa rappresentazione
della realtà, sicché non è dato un criterio per confrontare la corrispondenza della volontà
politica di un soggetto con i suoi interessi: si tratta di valutazioni ampiamente discrezionali
che non possono essere sindacate con un piano di riscontro oggettivo. E
quest’osservazione ci porta al secondo punto: chi deve giudicare della conformità della
volontà del soggetto ai suoi interessi? Non il soggetto stesso, poiché in questo caso
ricadremmo nel “dogma della volontà” già individuato nel punto precedente; non un terzo,
poiché costui si porrebbe in posizione di tutore del soggetto, disponendo delle sue azioni in
base a quello che ritiene il di lui interesse; non il “rappresentante” come sembra voler
suggerire la studiosa americana: in questa prospettiva, infatti, sarebbe lo stesso eletto a
rendere “un’interpretazione autentica” degli interessi del soggetto e cadremmo nella
situazione opposta a quella del dogma della volontà, creando una sorta di dogma
dell’interesse, accordando rilevanza solo a quello che l’eletto ritiene interesse del proprio
elettore. Qui sotto v’è tutta la problematica del “politico di professione”, già studiato dalla
scienza politica; ma v’è anche un aspetto ben più insidioso, cioè l’eventualità che,
detenendone l’interesse, di cui è il solo interprete autorizzato, sia l’eletto ad instillare
nell’elettore cosa deve volere. Pratica, questa, tematizzata esplicitamente da Sieyès (cfr. §
II.2) e ripresa anche da parte della dottrina italiana più recente (cfr. § III.1), che propone
un’inversione logica per la quale è il “rappresentante” che dice al “rappresentato” quello
che deve volere, assicurando, per l’Abate, il prevalere del costituito sul costituente, e per le
costruzioni di questi tempi la (invero simile) legittimazione dell’assemblea, qualunque essa
sia. In entrambi i casi, anzi in tutte tre le ipotesi formulate sopra, viene negato il dualismo
della rappresentanza, facendo riferimento ad un solo centro di imputazione, ora l’eletto,
ora l’elettore, ora il terzo che si pone nelle vesti del tutore.
STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA
71
risolve per tre ordini di motivi: il primo è che tale “buona ragione” indica
che non si sta procedendo secondo un principio. Il secondo si ricollega al
primo nel senso che la mancata coincidenza tra volontà e interesse
potrebbe essere per una "buona ragione" che non è percepibile dal
mandatario, cui sembra spettare la scelta dell'alternativa. Infine, la
presunzione di una buona ragione da parte del mandatario sarà sufficiente
per disattendere le precise istruzioni del mandante, ove non si provvedesse
ad individuare un criterio oggettivo per sapere quando un “buona ragione”
sia sufficientemente tale da consentire di distaccarsi dalle istruzioni
ricevute. Le difficoltà giurisprudenziali emerse anche nell’ambito del
diritto privato indicano l’ambiguità di fondo che regge la costruzione
destinata ad aggravarsi nella poliedricità di interessi che si intersecano in
campo pubblico.102
Tutto ciò ci indica che gli interessi attribuiti al
102 Ne sono testimonianza le ambiguità in cui è costretta a muoversi la
giurisprudenza civile, spinta in acque insidiose dalla necessità di contemperare gli interessi
di mandante e mandatario. A titolo di mero esempio si consideri che in tema di esecuzione
del mandato, quando il mandatario si discosti dalle specifiche e rigide istruzioni ricevute è
superflua la verifica della conformità dell'atto allo scopo e agli interessi del mandante,
attesane la contrarietà all'espressa volontà di questi. In tale ipotesi quando la difformità
riguardi una clausola del contratto concluso dal mandatario con rappresentanza, alla quale,
secondo l'incensurabile apprezzamento del giudice di merito, debba riconoscersi carattere
essenziale, l'inefficacia nei confronti del mandante non è limitata alla sola clausola
difforme ma riguarda il contratto nella sua globalità. Così la Suprema Corte di Cassazione
civile sez. II, 18 marzo 1997, n. 2387, che si può leggere in “Giust. civ. Mass”. 1997, 413,
nonché in “Contratti” (I) 1997, 559, con nota di ZAPPATA. Altra Sezione del Supremo
Collegio ha statuito che il mandatario deve curare diligentemente l'interesse del mandante.
Il sopravvenire di circostanze nuove e idonee a riflettersi sull'interesse dedotto in contratto
impone per prima cosa al mandatario di comunicare dette circostanze al mandante.
Qualora la tempestiva comunicazione non sia possibile, sorge per il mandatario l'obbligo di
discostarsi dalle istruzioni ricevute nel caso in cui la verifica della loro congruità alle
nuove emergenze approdi ad una valutazione negativa. L'attenersi ancora a quelle
istruzioni, lungi dal configurare un corretto adempimento degli obblighi contrattuali,
costituisce per il mandatario una violazione del dovere di diligenza. Peraltro, l’obbligo del
mandatario di discostarsi dalle istruzioni ricevute, nella situazione prevista dall'art. 1711,
comma 2, c.c., non sorge nel caso in cui l'impossibilita di comunicare tempestivamente con
il mandante o comunque di provocare un eventuale mutamento delle istruzioni ad opera
del mandante medesimo sia imputabile ad un colposo comportamento di quest'ultimo,
contrario ai doveri di cooperazione cui egli è tenuto. Cfr. Cassazione civile sez. I, 11
dicembre 1995, n. 12647, in “Giur. it.” 1997, I, 1, 518, con nota di AVERSANO, ed altresì,
in “Foro it.” 1996, I, 544, “Giust. civ”. 1996, I, 1703, “Contratti” (I) 1996, 248, con
illuminante nota di CALISSE, in “Riv. dir. comm.” 1996, II, 177, in “Danno e resp.” 1996,
183, con nota di BRECCIA. Inoltre, la medesima Sezione, pochi mesi prima, aveva precisato
che il negozio stipulato dal mandatario eccedente i limiti del mandato non è annullabile,
ma unicamente inefficace nei confronti del mandante, come resta confermato dal rilievo
LE TÈKNAI DELLA RAPPRESENTANZA: IL MANDATO
72
che esso è suscettibile di ratifica (art. 1711 c.c.). Ne consegue che, in mancanza di ratifica,
il negozio compiuto dal mandatario eccedente dai poteri ricevuti dal mandante non è né
nullo né annullabile, ma solo inopinabile nei confronti del mandante ed i suoi effetti si
producono nel patrimonio del mandatario, che li assume a suo carico ed ha l'obbligo di
tenere indenne il mandante da qualsiasi pregiudizio che possa derivare per il suo
patrimonio dalla stipulazione e dalla esecuzione di quel negozio. Cfr. Cassazione civile
sez. I, 10 marzo 1995, n. 2802, in “Giust. civ. Mass.” 1995, 574. Ancora la Seconda
Sezione della Suprema Corte, ha ritenuto che, con riferimento ad un contratto di mandato,
in esecuzione del quale sia stata stipulata una vendita di terreni con costituzione di servitù
di passaggio, a carico della proprietà del mandante venditore, e a favore dei terreni
compravenduti, si sottrae al sindacato di legittimità la sentenza di merito che interpretando
il contratto nel rispetto dei criteri di ermeneutica contrattuale e con motivazione immune
da vizi, abbia escluso, attraverso l'esame sia delle espressioni usate, sia della reale portata
complessiva delle clausole usate e delle circostanze di fatto in cui si inseriva il
regolamento di interessi perseguito dal mandante, la configurabilità di un mandato rigido e
specifico, ravvisando, per contro, nell'incarico conferito, un contenuto di ampiezza tale da
ricomprendere l'assunzione dell'obbligo di costruire la strada, come opera indefettibilmente
inerente alla utilità economica dei terreni venduti, in quanto diretta a rendere possibile
l'utilizzazione della servitù di passaggio e indispensabile alla conclusione dello stesso
contratto di vendita, ed abbia escluso, in pari tempo, un abuso nel potere di rappresentanza,
attraverso la verifica della conformità dell'atto allo scopo perseguito dal mandante,
ravvisato nella conclusione dell'affare, in funzione del quale l'impegnare la venditrice alla
realizzazione della strada appariva assolutamente opportuno. Così Cassazione civile sez.
II, 28 settembre 1994, n. 7891, in “Giust. civ. Mass.” 1994, 1160 (s.m.).
Della questione si è interessata ex professo anche la giurisprudenza di merito,
affermando che la banca incaricata risponde dei danni subiti dal mandante per l'esecuzione
di un ordine di acquisto di un rilevante quantitativo di valuta estera (nel caso di specie,
dollari statunitensi) ad un tasso di cambio eccezionalmente e palesemente abnorme
allorché non abbia comunicato al mandante, pur avendone avuto la possibilità, siffatte
circostanze sopravvenute di tale gravità da poter determinare la revoca o la modificazione
del mandato, e non abbia esercitato - in base ai doveri di diligenza e buona fede sottesi alla
disposizione di cui all'art. 1711 comma 2 c.c. - il potere - dovere di discostarsi dalle
istruzioni ricevute fino ad astenersi dall'esecuzione dell'incarico stesso. Così il Tribunale
Roma, 29 aprile 1992, che si può leggere in “Foro pad.” 1992, I, 424, con illuminante nota
di COACCIOLI, PERLETTI.
Da segnalarsi, infine, l’interessante ipotesi in cui il proprietario di un autoveicolo
abbia conferito ad un soggetto il mandato con rappresentanza ad alienare tale bene e gli
abbia trasferito la detenzione di esso, ove il mandatario è stato tenuto a rimborsare, a titolo
di risarcimento, al mandante le somme anticipate da quest'ultimo come sanzioni per le
infrazioni amministrative commesse dal terzo futuro acquirente alla guida del veicolo,
prima della vendita, sia che tali infrazioni sono state consumate durante la circolazione
dell'automezzo non finalizzata alla prova del buon funzionamento dello stesso, perché, in
tal caso, il mandante, consentendo tale circolazione è incorso in un eccesso dei poteri
rappresentativi ex art. 1711 c.c. sia che la circolazione sia stata invece finalizzata a tale
prova. In quest'ultimo caso, invero, il mandatario era tenuto a vigilare che il veicolo
circolasse nel rispetto delle norme di legge e, quindi, ove non provi di non aver potuto
impedire l'inosservanza di dette norme, ne risponde a titolo di abuso di rappresentanza.
STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA
73
mandante dalla sensibilità del mandatario, possono non corrispondere a
quelli veramente sentiti dal primo. In altre parole, non esisterebbe
l'interesse in sé del mandante, ma solo la rappresentazione che di questo
ne dà il mandatario. La disciplina della negotiorum gestio ne è esplicita
conferma.103
La maggior parte della dottrina per non cedere dunque al
soggettivismo del rappresentante circa l'interpretazione degli interessi, ha
preferito dare rilievo solo alla volontà esplicita del rappresentato. Se
Nella diversa ipotesi in cui le infrazioni siano state commesse dall'acquirente dopo la
vendita ma prima della trascrizione del trasferimento della proprietà dei veicolo, il
mandante il quale abbia pagato le somme richiestegli a titolo di sanzione amministrativa,
senza fare opposizione nelle sedi competenti, deducendo che il veicolo non gli
apparteneva, non ha diritto ad essere risarcito dal mandante, poiché non ha fatto quanto gli
competeva per evitare il danno. Così il Pretore di Forlì 26 novembre 1990, in “Riv. giur.
circol. trasp.” 1991, 71.
103 Un elemento caratterizzante questo istituto è la necessità dello utiliter coeptum.
Per non incorrere in responsabilità per danni, ma anzi per godere del rimborso spese,
occorre che il gestor abbia agito secondo quello che al momento dell'azione gli appariva
essere l'interesse del dominus. Tale esigenza è già indicata nelle fonti romane, si confronti,
per esempio, D. 3, 5, 5, 5 (3); nonché D. 3, 5, 9 (10), 1; entrambi tratti da ULPIANUS X ad
edictum. In questo senso si è sviluppata la disciplina dell'istituto nelle moderne
codificazioni. Il Codice Civile Italiano vigente all'articolo 2031 parla testualmente di
gestione utilmente iniziata. La dottrina dal canto suo, in pieno ossequio alla tradizione, ha
messo chiaramente in evidenza che per operarsi l'effettiva imputazione al dominus degli
effetti dell'attività gestoria, è sufficiente che essa sia utilmente iniziata, mentre è irrilevante
il risultato finale (così ARU, in Commentario Scialoja e Branca, cfr. anche C.M. BIANCA, Il
contratto, Milano, 1984, p. 151). A sua volta, la giurisprudenza ha precisato che quando la
gestio sia articolata in più atti, è sufficiente che solo l'atto o gli atti iniziali abbiano il
requisito dell'utilità (così p. es Cass. 56/3336). Si è comunque precisato che non è
necessario che il risultato utile sia attuale, essendo sufficiente che esso appaia predisposto
e conseguibile con la diligenza del buon padre di famiglia, anche se poi, di fatto, non verrà
ad essere (così G. DE SEMO, voce Gestione d'affari, in “Novissimo Digesto”, vol. VII,
Torino, 1961, p. 812 e s). Per quanto riguarda la valutazione dell'effettiva ricorrenza
dell'utilità, la dottrina oscilla tra la tesi soggettiva, cioè del riferimento all'interesse
individuale del dominus, e quella oggettiva, che fa riferimento all'affare che il dominus
avrebbe intrapreso secondo l'astratta valutazione del buon padre di famiglia. Tra i
sostenitori della tesi obbiettiva si distingue se il riferimento vada fatto agli atti che il
dominus, secondo il citato criterio, avrebbe potuto intraprendere, ovvero a quelli che
avrebbe dovuto porre in essere (in quest'ultimo senso cfr; ARU, op. cit.). Per un criterio
oggettivo, tenuto però conto delle specifiche attività patrimoniali del dominus, cfr. S.
FERRARI, voce Gestione d'affari, in "Enciclopedia del Diritto Giuffré”, Milano, vol. XVIII
(1969) p. 645. Da questa panoramica ben si evince la difficoltà di una delimitazione
univoca dell'interesse del rappresentato, difficoltà che, come ricordato nel testo, ha indotto
la dottrina a propendere, in tema di mandato, per il riferimento alla volontà del mandante.
LE TÈKNAI DELLA RAPPRESENTANZA: IL MANDATO
74
infatti gli interessi del mandante fossero solo quelli che il mandatario gli
attribuisce, qualsiasi cosa questi facesse in nome del primo, se chiamato a
risponderne, potrebbe comunque asserire di aver agito nell'interesse del
mandante. A questo punto il rappresentato - mandante cesserebbe di avere
vita propria, ma sarebbe fantasma del rappresentante - mandatario; uno
dei due termini del mandato cesserebbe di esistere, proprio come abbiamo
visto accadere per la rappresentanza. La difficoltà sta nel fatto che la
teoria del mandato, tanto nel pubblico quanto nel privato, viene intesa
come un tentativo di ridurre ad unità la struttura dualistica della
rappresentanza, cercando di ricondurre la volontà degli effetti
essenzialmente ad uno dei due termini: nel mandato con procura si finge
che la volontà degli effetti sia del solo rappresentato, nel mandato senza,
si finge che sia solo del rappresentante. Tutto ciò perché si ritiene che solo
uno debba aver veramente voluto e questi solo sarà il destinatario degli
effetti dell'atto. Ma la finzione appare manifesta solo che si consideri la
cosa da un altro punto di vista. Poniamo la distinzione tra il mandante che
propone uno spettro più o meno ampio di soluzioni al mandatario e quello
che ne impone una sola, specifica e puntuale. Nel primo caso la soluzione
effettivamente adottata sarà frutto della volontà combinata, in diverse
proporzioni di mandante e mandatario, a nulla rilevando che la soluzione
in concreto adottata da quest'ultimo era già voluta dal primo, poiché lo era
in astratto, data come possibile, per la scelta concreta essendo
determinante anche la volontà del rappresentante, unita in varia misura, al
giudizio di quest'ultimo. Nel secondo caso non vi è rappresentanza, ma
semplicemente l'opera di un nuncius: uno dei due termini si elide. Infatti
la commissione di una volontà specifica e puntuale riduce il soggetto
destinatario a strumento di trasmissione di tale puntuale volere, non lo
costituisce (rappresentante) mandatario del soggetto che ha commesso tale
volontà. Tra queste due posizioni tertium non datur, poiché mentre il
minimo di discrezionalità concessa al rappresentante implicherà
l'intervento della sua volontà, d'altro canto la massima libertà di manovra
non può prescindere dal conferimento dell'incarico con un atto di volontà
del rappresentato. In entrambi i casi prospettati si prescinde dalla procura,
che in sostanza si riduce alla conoscenza da parte dei terzi del
conferimento del mandato per tutelare il loro affidamento individuando il
singolo, l'unico con cui si tratta (cioè rappresentante senza e rappresentato
con), visto che gli effetti cadono in via immediata o mediata in capo al
STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA
75
rappresentato.104
Tale inconveniente è dovuto alla pretesa unicità,
all'impossibilità, secondo una certa concezione del diritto e dello Stato, di
ammettere l'alterità e quindi la pluralità e con essa a riconoscere la
diversità; all'incapacità in sostanza di instaurare un rapporto dialettico tra
due soggetti per individuare cosa hanno di diverso e cosa di comune e alla
luce di ciò, il suum cuique tribuere. La categoria della singolarità, dunque,
sostiene l’imputazione degli effetti e, paradossalmente, il mandato –che è
duale nella struttura- sembra chiamato a preservarla o a tale categoria
dovrebbe ricondurre, tutte le volte in cui palesemente vi è la concorrenza
di due soggetti ben distinti. Altrettanto artificiale sarebbe applicare il
concetto, unificatore, di parte in senso giuridico, presupponendo che
agendo il mandatario nell'interesse del mandante, agisca anche nel proprio
e costituire così con lui un solo centro di imputazione di interessi. Questa
costruzione potrebbe aver pregio solo quando il fine da perseguire fosse
comune o superiore a mandante e mandatario, rientrando nella categoria
del mandatum mea et tua gratia già individuato dalla giurisprudenza
classica romana;105
ma su questa ipotesi, cioè sull’unità di parte
104 Come si è detto, in tal maniera si giustifica l'unità rispetto ai terzi, ma la
distinzione tra mandante e mandatario è tale che tradizionalmente un'azione è data per
regolare i loro rapporti ed è in questo luogo che prende corpo l'esigenza di responsabilità.
Actio mandati directa ed actio mandati contraria presiedono al dualismo proprio
dell’istituto e ci consentono di intuire fin d’ora il fascio di obbligazioni che lega
reciprocamente il mandante col mandatario e, sotto analoghi profili, il rappresentante con
il rappresentato, in una complessità di situazioni giuridiche soggettive il cui esame
dev’essere rinviato all’ultimo paragrafo di questo lavoro.
105 “Mandatum contrahitur quinque modis, sive sua tantum gratia aliquis tibi
mandet, sive sua et tua, sive aliena tantum, sive sua et aliena, sive tua et aliena. At si tua
tantum gratia tibi mandatum sit, supervacuum est mandatum et ob id nulla ex eo obligatio
nec mandati inter vos actio nascitur. 1. Mandantis tantum gratia intervenit mandatum,
veluti si quis tibi mandet, ut negotia eius gereres, vel ut fundum ei emeres, vel ut pro eo
sponderes. 2. Tua et mandantis, veluti si mandet tibi, ut pecuniam sub usuris crederes ei,
qui in rem ipsius mutuaretur, aut si volente te agere cum eo ex fideiussoria causa mandet
tibi, ut cum reo agas pariculo mandantis, vel ut ipsius periculo stipuleris ab eo, quem tibi
deleget in id quod tibi debuerat. 3. Aliena tantum causa intervenit mandatum, veluti si tibi
mandet, ut Titii negotia gereres, vel ut Titio fundum emeres, vel ut pro Titio sponderes. 4.
Sua et aliena, veluti si de communibus suis et Titii negotiis gerendis tibi mandet, vel ut sibi
et Titio fundum emeres, vel ut pro eo et Titio sponderes. 5. Tua et aliena, veluti si tibi
mandet, ut Titio sub usuris crederes. Quod si ut sine usuris crederes, aliena tantum gratia
intercedit mandatum. 6. Tua tantum gratia intervenit mandatum, veluti si tibi mandet, ut
pecunias tua potius in emptiones praediorum colloces quam feneres, vel ex diverso ut
feneres potius quam in emptiones praediorum colloces. Cuius generis mandatum magis
consilium est quam mandatum et ob id non est obligatorium, quia nemo ex consilio
LE TÈKNAI DELLA RAPPRESENTANZA: IL MANDATO
76
sostanziale e processuale di rappresentante e rappresentato si deve rinviare
oltre, al § III.3. Ora, il mandante quanto può riconoscere la sua volontà
nell'opera del mandatario? E in campo pubblico, quanto può l'elettore
riconoscere la propria volontà nell'operato dell'eletto e quanto, in
definitiva, nella legge? E qui riemerge l'esigenza di responsabilità.
Bisogna guardare l'operato del deputato o alla legge per vedere se
l'elettore vi è rappresentato? La preoccupazione per gli svantaggi del
primo punto di vista e le difficoltà del secondo sono alla base della
costruzione di Talleyrand la cui originalità è stata travolta dagli
avvenimenti. Ma è la base anche delle principali teorie della
rappresentanza da mandato.106
[mandati] obligatur, etiamsi non expediat ei cui dabitur, cum liberum cuique sit apud se
explorare, an expediat consilium”. Cfr. Iustiniani Institutiones, 3; 26, pr.- 6.
106 Come viene e detto nel testo, una riflessione a parte meriterebbe l’esperienza
inglese, nella secolare tradizione parlamentare, alla quale, peraltro, non si potranno che
fare dei riferimenti per incidens, ed in primis alla rappresentanza dello Speech di Burke,
già definita virtuale, prima dell’invenzione dell’informatica, tradizionalmente considerata
come esempio di struttura dualistica, nel senso specificato nel testo, e recentemente
revocata in dubbio proprio nel suo intimo costrutto: cfr. J.Ph. REID, The concept of
representation in the age of the American Revolution, Chicago and London, 1989, su cui
infra.
STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA
77
2.3.2 La teoria dell’interpretazione
ESSENZIALE MONISMO STRUTTURALE DELLA TEORIA DELL’INTERPRETAZIONE - SUO
PRIVILEGIARE ESCLUSIVAMENTE IL MOMENTO DELLA SITUAZIONE RAPPRESENTATIVA
OBLIANDO IL RAPPORTO DEL RAPPRESENTANTE CON IL RAPPRESENTATO – SUA CONFORMITÀ
ALLA STRUTTURA DELLA SOVRANITÀ – CONSEGUENTE RIDUZIONE DELLA RAPPRESENTANZA
A CONSAPUTA FICTIO JURIS – TENTATIVO DI SUPERARE LA DICOTOMIA MANDATO /
INDIPENDENZA CON LE CATEGORIA DI ACTING FOR E STANDING FOR: CRITICA E NEGAZIONE.
Alla teoria del mandato, che conserva una derivazione privatistica,
si contrappone quella che possiamo definire teoria dell'interpretazione. La
contrapposizione è totale e si deve riconoscere nella differenza di
struttura. Se infatti la teoria del mandato ammette ab initio due soggetti,
rappresentante e rappresentato, adeguandosi in questo al dualismo proprio
della rappresentanza, la teoria dell'interpretazione, al contrario, ne
ammette solo uno: il rappresentante, che sarebbe tale perché appunto
interprete della volontà o degli interessi, a seconda della formulazione, dei
rappresentati. Tale costruzione ha origini più remote di quanto
tradizionalmente non appaia. Se ne può individuare l'inizio compiuto
durante la Rivoluzione francese nel polemico rifiuto da parte di Sieyès,
delle istruzioni ai membri degli Stati Generali con il metodo tradizionale
dei cahiers de dolèances, concretizzanti un sistema di mandato
imperativo. Ma posizioni prodromiche si rinvengono in tutti quegli autori,
dal medioevo in poi, che pur definendo il monarca rappresentante del
popolo in virtù di una qualche sorta di mandato, lo dichiarano poi solo ed
unico interprete della volontà popolare, insindacabilmente. Siamo al
nocciolo della teoria dell'interpretazione. Il rappresentante è tale perché
interpreta i bisogni e gli interessi di chi rappresenta. Questi non gli
commettono alcun volere o alcuna istruzione, né comunque potrebbero
farlo. È il rappresentante ad individuare i bisogni dei rappresentati, al
modo del tutore che opera nell'interesse dell'incapace, senza che
quest'ultimo, ovviamente, proprio in quanto tale, possa sindacarlo; e
proprio in questi termini la costruzione venne stigmatizzata da Eduard
Gans, come si avrà modo di vedere in seguito. Nel campo pubblico, a
prescindere se elettivo o no, il rappresentante interpreta con leggi i bisogni
del popolo e della nazione, a seconda dei casi, egli individua e ricerca
qualcosa che già c'era, ma che il rappresentato non poteva o non sapeva
indicare e vedere. In questo senso ben si comprende la frase di Sieyès per
cui "l'unica voce della nazione è quella dell'Assemblea nazionale." Il
rappresentato viene annullato e ben si confà al rappresentante, ormai non
LE TÈKNAI DELLA RAPPRESENTANZA: L’INTERPRETAZIONE
78
più tale, il nome di sovrano.107
È appena il caso di notare la tendenza
unificatrice e astraente propria della modernità, che raccoglie le mille voci
del popolo o nazione, in un senso ben diverso da quello medioevale, e che
poi riduce al sovrano.108
Infatti non si può negare che tutto è nel sovrano e
107 Conviene già anticipare qui il concetto di Herrschaft, tradotto dalla dottrina
italiana con il termine potestà di imperio. La distinzione con il concetto di sovranità non
sempre è agevole, ma quello che qui più interessa è la necessità sentita di distinguere i due
termini emersa colla giuspubblicistica tedesca della metà del secolo scorso, ma già latente
fin dall'enucleazione della Corona come centro di imputazione di potere staccato,
concettualmente indipendente dal monarca. Non è peregrino sostenere che proprio
l'enucleazione del concetto di sovranità sia avvenuta per garantire una veste formale, una
cornice di legittimità all'uso della forza. Tutto ciò spiegherebbe la sua natura
essenzialmente monista, propria del comando. Tale processo astraente sembra subire
un'inversione laddove si cerchi un fondamento diverso della sovranità dall'effettivo centro
di esercizio. Non è un caso che dai riconoscimenti della sovranità in capo alla nazione o al
popolo o a quant'altro si è avuto, si proceda ad individuare i centri dotati di potestà di
imperio in determinati organi od uffici statali. Un procedimento simile a quello riassunto
nel famoso aforisma (di cui non sono riuscito ad individuare una paternità anteriore a
quella del barone di Luynes) per cui il re regna, ma non governa.
Crediamo di poter distinguere la sovranità dalla potestà di imperio ove la prima
consiste, secondo la formulazione sintetica e felice di Bodin, nel superiorem non
recognoscere, mentre la seconda è la soggezione dei cittadini al potere dello Stato, in
attuazione della legge. Si potrebbe dire che la potestà di imperio si manifesta
nell’autorietarietà degli atti del potere esecutivo e della pubblica amministrazione in
generale, nella soggezione del singolo ai disposti (ancorché illegittimi) dei provvedimenti
pubblici, tuttavia non “sovrani” – ecco la differenza – ma in dichiarata attuazione della
legge. In questo senso, la potestà di imperio potrebbe sussistere anche in un ottica non
“geometrica”, essendo funzionale all’attività di amministrazione, dialetticamente legata
all’attività di governo, ove quest’ultima indirizza la comunità verso il bene comune,
riconoscendo (più che ponendo) la legge, mentre la prima, organizza uomini e cose per il
perseguimento dei fini determinati dal governo e distillati nella legge. Sotto questo profilo,
com’è noto, la dottrina amministrativa più attenta mantiene fermo il principio ormai
consolidato che ogni atto o provvedimento trova nella legge la ragione della sua esistenza,
essendo da questa che deriva il potere – dovere (nei limiti della discrezionalità concessa,
ma ancora una volta dalla legge) della P.A. all’adozione del provvedimento. Per questi
aspetti, recentemente cfr. F. VOLPE, Le espropriazioni amministrative senza potere,
Padova, 1996, specialmente p. 105 e ss. Più in generale per la necessità di mantenere
distinti i due momenti del “governo” e della “amministrazione”, cfr. F. GENTILE,
Intelligenza politica e ragion di stato, II ed., Milano, 1984, p. 121.
108 Va tenuta distinta, ci pare, l'ordinatio ad unum del pensiero medioevale (non
riducibile al tomismo), con la traduzione nella “filosofia pratica” di tale principio, fino ad
allora solo teoretico, individuabile con alcuni dei primi trattatisti politici tra fine Duecento
e primi del Trecento. Sarà facile riconoscere le differenze in questo senso tra due "amici"
quali Occam e Marsilio per i quali cfr. F. BOTTIN, La scienza degli Occamisti, Rimini,
STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA
79
che egli è tutto perché per definizione la sua volontà è quella di tutti e
poiché nel mondo del diritto è ancora forte la tradizione per cui la volontà
è essere, il sovrano è tutti, ma a patto che nessun rappresentato possa
ergersi a chiedere il resoconto dell'operato al sovrano - rappresentante. Il
particolarismo non può essere ammesso perché incrinerebbe l'unità
raggiunta, smascherandone la finzione. Se il mandato tenta di unificare
due soggetti diversi, la teoria dell'interpretazione presuppone
l'assorbimento del rappresentato nel rappresentante. Sostanzialmente dopo
aver riunito tutte le voci in un'unità fittizia, dopo aver cioè sostituito al
popolo medioevale, il Terzo Stato-Nazione, attraverso un procedimento
che merita approfondita analisi, lo si rende incapace di volere e gli si
affida come tutore un'assemblea per curarne gli interessi che la stessa
Nazione, peraltro potere costituente, fonte di ogni sovranità e
insuscettibile di forma positiva, è incapace di riconoscere. Tutto ciò
richiama alla mente il contratto a favore di terzo del sovrano hobbesiano
nella nota interpretazione di Bobbio: il rappresentante - interprete non è
legato da niente ai suoi elettori: essi stipulano in suo favor un contratto a
favore di terzo. In realtà la teoria dell'interpretazione, almeno nella sua
formulazione più rigorosa,109
in cui in qualche modo si è coscienti
dell'annichilimento dei rappresentati, afferma che i più illuminati devono
essere tutori della nazione. Resta il problema di come si debba definire
l'attitudine al governo e come si possa stabilire chi è il più adatto. Il
problema, si sa, è tra i fondamentali della materia. Nella migliore delle
ipotesi i tutori della nazione sono investiti dal popolo e ben si può dire
allora, con Rousseau, che ogni nazione ha il governo che si merita.
Tuttavia l'oggetto dell'interpretazione resta il punto più ambiguo di tale
costruzione, momento su cui i suoi sostenitori sono costretti a
diversificarsi, se non a prendere le distanze l'uno dall'altro. Presupposto
della teoria è che ci sia qualcosa di reale, ma non palese, che è compito
del rappresentante individuare per poterlo indicare alla collettività. La
sensazione è che tutte le indagini mirate a definire, se non a trovare,
l'oggetto dell'interpretazione, tralascino di misurarsi sul suo carattere di
presupposto della teoria medesima oppure di dato reale percepibile 1982, specialmente p. 87. Altresì, cfr. P. VIGNAUX, La filosofia del medioevo (1987), trad.
it. Bari, 1990, specialmente, p. 61 e ss., 105 e ss., nonché infra nel testo.
109 Sul punto cfr. già A. PRINS, De l'esprit du Gouvernement Démocratique,
Bruxelles, 1905, p. 97, che non sembra essersi affrancato dalle critiche che Gans, quasi un
secolo prima di lui, aveva enunciato.
LE TÈKNAI DELLA RAPPRESENTANZA: L’INTERPRETAZIONE
80
nell'esperienza, anche se non da tutti. Nelle varie enunciazioni lo si è
ritrovato ora nel voeu national, ora nella vox populi, nel Volksgeist, nel
fato o nelle esigenze del mercato o dell'economia. Le particolarità delle
posizioni saranno messe in evidenza trattando dei singoli autori che le
hanno individuate. Un tratto comune merita tuttavia di essere richiamato
fin d'ora. Tutte le posizioni concordano che non è ammissibile alcuna
interpretazione dell'oggetto al di fuori di quella degli organi
istituzionalmente incaricati o comunque del potere costituito,
"rappresentativi" proprio perché a ciò deputati. Ogni interferenza
extraistituzionale deve essere bloccata per non compromettere il
meccanismo. Sembra di essere di fronte al noumeno kantiano che può
essere visto solo attraverso le categorie di un interprete autorizzato.
Senz’altro, possono qui riprendersi tutte le critiche mosse al noumeno
dagli stessi allievi di Kant. Ma la critica più radicale mossa a questa teoria
proviene proprio da un neokantiano di Marburgo, che bolla l’istituto come
un'autentica finzione.110
Scivolando cioè verso l'idealismo del
rappresentante, il noumeno scompare e la volontà dell'interprete diviene la
volontà nazionale. Su questo ramo, che potremo definire classico della
teoria dell'interpretazione, si innesta, rinvigorendolo di nuova linfa, il
pensiero della destra hegeliana. Muovendo dai §§ 257/8 e 260/1 della
Filosofia del Diritto di Hegel, soprattutto Rosenkranz, ma anche
Oppenheim, Erdmann e, a suo modo Rössler, concludono che il singolo,
in quanto cittadino, non può nel campo pubblico, avere un interesse
diverso da quello dello Stato.111
A questa scuola si formarono i nomi più
importanti della giuspubblicistica tedesca a cavallo del secolo, e la teoria
degli organi altro non è, secondo noi, che l'esposizione in termini giuridici
di questo insegnamento. Espressa per la prima volta da Gierke,112
è
110 Cfr. H. KELSEN, Vom Wesen und Wort der Demokratie, Tübingen, 1929, trad. it.
La democrazia, V ed., Bologna, 1984, p. 69 - 70; per una tendenza al ritorno al mandato
imperativo come rimedio all'imprecisione della rappresentanza politica, vedi specialmente
pag. 155 e ss. Cfr. anche B. MONTANARI, La questione della rappresentanza politica in
Hans Kelsen, in "RIFD", 1972, II, 200.
111 Per questi autori cfr. H. LÜBBE (a cura di), Die hegelsche Rechte, Stuttgart -
Bad Cannstatt, 1962, nonché amplius infra § II.3.1.
112 Cfr. O. von GIERKE, J. Althusius und die Entwicklung der naturrechtlichen
Staatstheorien, Breslau, 1880, trad. it. Torino, 1975, ma già anticipato in Das deutsche
Genossenschaftsrecht, Darmstad, 1868.
STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA
81
sviluppata da Laband,113
che negando sostanzialmente ogni legame tra
eletto ed elettore e constatato che "in senso giuridico i membri del
parlamento non rappresentano nessuno",114
ritiene che il Parlamento sia
rappresentativo in quanto organo dello Stato, a nulla rilevando il processo
elettivo di formazione. E poiché emanazione dello Stato, tutti gli organi
statali sarebbero perciò rappresentativi. È interessante notare come in
questa formulazione sembri scomparso ogni oggetto nascosto da
interpretare, essendo l'unità raggiunta tramite un processo di
identificazione in materia di interesse pubblico, tra volontà dei cittadini e
volontà dello Stato. Ma si badi bene che tale identità è data come
impossibilità per il cittadino di avere interessi diversi da quelli dello Stato.
Non occorre nemmeno un’opera di interpretazione per manifestare ciò che
c'è, ma non appare, come nella versione di Sieyès; gli interessi dei
cittadini sono quelli dello Stato. È sufficiente guidarlo. Chi governa deve
fare il bene dello Stato e nessun cittadino, in materia di interesse pubblico,
potrà rimproverargli di aver agito contro il proprio bene. Su questa base
sembra fondarsi quello che a tutt'oggi appare come un dogma della
rappresentanza politica: l'irresponsabilità dei deputati verso i cittadini per
il loro operato. Anzi tale caratteristica è stata assunta come criterio di
distinzione della rappresentanza politica da quella di diritto privato e per
negare il carattere giuridico della prima.115
Nel tentativo di superare la contrapposizione
mandato/interpretazione (cioè legame/indipendenza nei confronti degli
elettori), dev’essere verificata la soluzione risultante dal paradigma
rappresentativo proposto dalla dottrina d’oltreoceano. Come già
anticipato, infatti, nella riflessione sulla rappresentanza politica
continuano a trovare fortuna presso gli studiosi le categorie e gli strumenti
proposti da Hanna Pitkin in un saggio ormai famoso e che si è già avuto
113 P. LABAND, Il diritto pubblico nell'Impero germanico, trad. it., Torino, 1914.
Cfr., altresì, amplius infra, cap. II.3.3.
114 Op. ult. cit., p. 400.Per gli ultimi due autori citati, oltre agli scritti di Maurizio
Fioravanti, già indicati, cfr. P. SCHIERA, Il laboratorio borghese. Scienza e politica nella
Germania dell’Ottocento, Bologna, 1987; ampie informazioni bibliografiche su Gierke
nell’interessante saggio di S. MEZZADRA, Il corpo dello Stato. Aspetti giuspubblicistici
della Genossenschaftlehre di Otto von Gierke, in “Filosofia politica”, 1993, 3, p. 445 e ss.
115 Vedi per tutti: G. BALLADORE PALLIERI, Diritto costituzionale, Milano, 1976,
102-104; ma vedi contra già S. ROMANO, Principi di diritto costituzionale, Milano, 1942,
p. 166.
LE TÈKNAI DELLA RAPPRESENTANZA: L’INTERPRETAZIONE
82
modo di anticipare, in parte, nei paragrafi che precedono.116
L'autrice
prende le mosse riconoscendo il dualismo insito nel concetto di
rappresentanza, le due anime che la sostengono: la situazione, cioè la
sostituzione del rappresentante al rappresentato, il suo stare, manifestarsi,
agire al posto di questi; e il rapporto che lega il sostituto al sostituito, il
rappresentante al rappresentato. Ponendo l'accento esclusivamente sul
primo fattore i rappresentati perderanno di importanza fino eventualmente
a scomparire, mentre i rappresentanti acquisteranno in indipendenza. Per
converso, privilegiando il secondo i rappresentanti saranno vieppiù
vincolati ai loro sostituiti fino a perdere di significato. Ora i rappresentanti
della nazione, i deputati, i portatori della volontà popolare, devono godere
di piena indipendenza fino ad essere irresponsabili verso i propri elettori
oppure debbono essere fedeli latori quasi nuncii delle volontà dei loro
committenti? Sostenuta anche dai risultati di una indagine per campione
sui cittadini medi americani, l’autrice conclude che in termini di
alternativa la domanda è mal posta. Prese ciascuna nella propria radicalità
entrambe le tesi possono apparire corrette. "Non si tratta di vera e propria
rappresentanza - diranno i teorici del mandato - se il rappresentante non fa
ciò che vogliono i suoi elettori. Non si tratta di vera e propria
rappresentanza - ribattono i teorici dell'indipendenza - se il rappresentante
non è libero di decidere sulla base del proprio giudizio autonomo".117
In
questo modo - continua la studiosa americana - finché la controversia fra
mandato ed indipendenza contiene siffatta disputa concettuale del
significato di rappresentanza, entrambe le tesi hanno ragione. Tutto ciò si
traduce in una difficoltà a cogliere l'attività del rappresentare. "Il
rappresentante deve agire realmente, essere indipendente; tuttavia il
rappresentato deve in un certo senso agire attraverso di lui. Quindi non ci
deve essere tra di loro alcun conflitto serio e persistente".118
Prendendo le mosse da un'analisi linguistica del termine interesse,
argomentando che l'interesse dell'elettore ed il suo bene normalmente
coincidono, Pitkin conclude che non vi sarà conflitto quando l'eletto
opererà nell'interesse dell'elettore, poiché sta operando per il suo bene. "Il
metro col quale egli sarà giudicato come rappresentante è se ha favorito
116 Cfr. H. F. PITKIN, The Concept of Representation, Berkeley, 1967.
117 Il corsivo si trova nel testo; citiamo dalla traduzione italiana parziale apparsa
nel volume a cura di D. FISICHELLA La rappresentanza politica, Milano, 1983, p.187.
118 Op cit., p.192.
STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA
83
gli interessi oggettivi di coloro che rappresenta. Entro la cornice del suo
dovere fondamentale vi è posto per una vasta gamma di alternative".119
In questo modo l'eletto non sarebbe tenuto a rispondere sempre del
suo operato, ma dovrebbe essere pronto a farlo se richiesto. "Non c'è
bisogno che vi sia una costante attività di rispondenza, ma vi deve essere
una costante condizione di responsività, di prontezza potenziale a
rispondere".120
Questa la definizione di responsività. Un atteggiamento di
disponibilità ad illustrare il proprio operato giustificato da quella sorta di
presunzione di conformità tra attività dell'eletto, interesse e bene
dell'elettore ricordata poco sopra. Si è già detto il termine: presunzione,
ovvero fictio, ovvero effetto giuridico in conseguenza di una realtà che di
fatto non c’è, ma che è data come esistente; a questo punto si tratta solo di
stabilire se si tratta di fictio juris et de jure, ovvero di fictio juris tantum.
"Non è necessario che egli agisca effettivamente e letteralmente in
risposta ai desideri del mandante, ma tali desideri devono essere
potenzialmente presenti e rilevanti. La responsività sembra comportare
una specie di criterio negativo: il conflitto deve essere possibile e ciò non
di meno non deve verificarsi”.121
“Non è necessario che egli li assecondi
sempre [id est i desideri degli elettori], tuttavia deve considerarli,
119 Ivi, p. 211.
120 Ivi, p. 247. Come si vede, il dibattito ritorna alle posizioni della teoria del
mandato esaminata al paragrafo precedente, giacché il problema ci riconduce al momento
della discrezionalità.
121 Ivi, p. 195. Il conflitto riprende la tensione della società per ceti e
rappresentanza moderna, che è conflitto attorno alla sovranità, come si è già detto. Le
antiche articolazioni cetuali presupponevano l’esistenza del signore feudale sulla forza
della propria autorità, ovvero la mancanza di diritti politici della massa, se non attraverso
la mediazione del signore, che interpreta il suo ruolo di difensore dei singoli e di
“rappresentante”, quasi nel senso di avvocato. Questa condizione corrispondeva alla
concezione del diritto di quella che Hegel chiamerà la società civile, ove non si distingue
ancora statuale e sociale. Solo in questa mescolanza le “libertà e giustizie” cetuali, in
rigorosa pluralità, potevano prosperare. E Ch.H. McILWAIN, Constitutionalism: Ancient
and Modern, Itacha - New York, 1940, trad. it. Costituzionalismo antico e moderno, a cura
di N. Matteucci, Bologna, 1990, p. 45, ci informa che in un documento del 1627 si legge:
“franchigia è una parola francese e in latino essa suona libertas”. Interessa a questo punto
notare come l’autrice sia vittima di quei “singolari collettivi” ricostruiti dal già citato R.
KOSELLECK, Vergangene Zukunft. Zur Semantik geschichtlicher Zeiten, Frankfurt (a. M.),
1979, di cui si segnala la traduzione italiana Futuro passato. Per una semantica dei tempi
storici, Genova, 1986.
LE TÈKNAI DELLA RAPPRESENTANZA: L’INTERPRETAZIONE
84
soprattutto quando sono in contrasto con quello che egli vede come gli
interessi dell'elettore, perché occorre trovare la ragione di tale
disaccordo".122
Conseguentemente in caso di contrasto deve esserci una
"buona ragione". "Non possiamo proprio credere che ci potrebbero essere
buone ragioni per raggiungere conclusioni abitualmente opposte a quelle
degli elettori. Anzi, la parola 'abitualmente' suggerisce con forza che il
rappresentante non sta agendo sulla base di ragioni”.123
E in effetti è vero, ma reciprocamente, come si è detto, il fatto che
"abitualmente" vi sia accordo, anche questo indica la mancanza di un
principio. "Il fatto ingannevole, a questo punto, è che l'unica garanzia
sicura di non essere in conflitto con i desideri di qualcuno è di agire dietro
suoi ordini espliciti. Ma il punto è che nella rappresentanza non è richiesta
alcuna garanzia."124
Dunque la responsabilità politica che sembrava essersi trasformata
in responsività, si rivela inesistente, anzi addirittura ingannevole. Il
superamento della logica dualistica non sembra essere avvenuto. Ci
troviamo tuttora nella prospettiva di situazione e rapporto con un
particolare accento verso la prima.
Ciò che preme mettere in luce è come l'agire nell'interesse
"oggettivo" dell'elettore, così come interpretato dall'eletto, senza alcuna
garanzia in caso di conflitto, posto che "abitualmente" questo non si
verifica, tutto ciò non possa essere considerato superamento della logica
dualistica nel concetto tradizionale di rappresentanza. Mentre, sotto altro
profilo, può essere foriero di equivoci l’assunto che la rappresentanza non
chieda alcuna garanzia, sicché potrebbe rafforzarsi l’idea di
un’indicazione sommaria di interessi da parte degli elettori, cui
corrisponde un certo onere di prestarvi considerazione da parte dell’eletto,
senza comunque alcuna possibilità di verifica o di potere incisivo. La
122 Ivi, p. 206. A questo punto si potrebbe appuntare all’autrice la critica che il
giovane Marx muoveva ad Hegel, ove riconosceva che la garanzia della mediazione
rappresentativa era affidata a troppi elementi meta giuridici (rectius meta positivi) da
risultare evanescente. “Prima era la fiducia, garanzia dei mandanti, ad essere la garanzia
dei deputati. Ora questa fiducia abbisogna anch’essa della garanzia della sua validità” Così
K. MARX, Kritik des Hegelschen Staatsrechts, nella traduzione italiana in Opere filosofiche
giovanili, a cura di G. della Volpe, Roma, 1963, p. 138.
123 Ivi, p. 207.
124 Ibidem.
STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA
85
pericolosità di questa posizione emerge chiaramente considerando che,
vista la tutela accordata, le situazioni giuridiche soggettive degli elettori
possono, tutt'al più, essere qualificate come degli interessi diffusi. Ben
poca cosa di fronte alla perentoria affermazione che la sovranità
appartiene al popolo, che rende ancor più stridente il contrasto tra titolarità
formale e titolarità effettiva, smascherando la qualità mimetica del potere
nella prospettiva dell’unicità propria di una particolare concezione del
diritto e dello Stato.
La costruzione della dottrina americana vede chiaramente il
dualismo insito nella struttura della rappresentanza, parlando di
“situazione” e “rapporto”; non di meno, la combinazione dei due termini
che ne viene operata ci offre una soluzione che non sembra distaccarsi
dalla contrapposizione mandato / indipendenza, riproducendone tutte le
già denunciate aporie.
La soluzione, allora, deve essere ricercata altrove.
LE TÈKNAI DELLA RAPPRESENTANZA: LE DIFFICOLTÀ
86
2.3.3 Rappresentanza, conoscenza, decisione: le ragioni delle
difficoltà della rappresentanza
PREMESSA: RAPPORTO TRA PROCEDURA DI COSTITUZIONE DELL’ASSEMBLEA E SUE FUNZIONI
– POSSIBILITÀ DI DIFFERENTI CONCETTI DI RAPPRESENTANZA IN DIPENDENZA DALLE
FUNZIONI SVOLTE COME RAPPORTO TRA STRUTTURA E FUNZIONE: CRITICA E NEGAZIONE –
NECESSITÀ DI INDIVIDUARE UN CONCETTO DI RAPPRESENTANZA NON CONDIZIONATO DALLO
SCOPO APPLICATIVO - FILOSOFIA TEORETICA, PRATICA, POIETICA – ARTICOLAZIONI
CLASSICHE E MONOLITISMO MODERNO – CONCLUSIONE: RAPPORTO TRA ESSERE E VOLONTÀ.
Per chiarire convenientemente il concetto di rappresentanza
un'ultima distinzione ci sembra essenziale. Di fronte ad un'istituzione o ad
un organo ritenuto rappresentativo occorre chiedersi per quale scopo è
stato creato. Occorre quindi distinguere la rappresentanza a seconda degli
scopi per i quali vi si ricorre, seppure –lo si è già detto- non riteniamo di
dover piegare la definizione di rappresentanza –derivata dalla sua
struttura- in conseguenza dei risultati operativi che si vogliono conseguire
con essa. Dalle origini storiche delle assemblee si evince che la
convocazione avveniva per consigliare il sovrano e di aiutarlo nel
governo: insomma per dare al sovrano quel largo consenso che gli è
necessario ogni qual volta deve portare a compimento un grande progetto.
Consigliare e governare erano dunque le funzioni principali.125
Unificate nell'antichità e nell'alto medioevo cominciano a scindersi nelle
diete della rinascita culturale attorno all'anno mille. Si comincia a
distinguere tra assemblee che rappresentano nel senso di manifestare le
necessità e i desideri del popolo al sovrano, per renderlo edotto, e quelle
che rappresentano la volontà del popolo, inteso come l'insieme degli
uomini liberi (o baronaggio), per tradurla in legge. Si dividono insomma
le assemblee che consigliano da quelle che decidono. Su questa
distinzione forse non ci si è soffermati a sufficienza. Ne indoviniamo
l'esigenza quando si riconosce che il capo rappresentativo di una società
articolata non può rappresentarla nel suo complesso se non ha un certo
rapporto con gli altri membri della società stessa.126
Questa esigenza
sottende la convocazione dei primi consilia principeschi. La stessa Magna
Charta indica il parlamento come "commune consilium regni nostri", cioè
125 M. DUVERGER, Le costituzioni della Francia, trad. it. Napoli, 1984, p. 17 ss; 25
ss; 28 ss.
126 Cfr. E. VOEGELIN, op. cit., p. 95.
STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA
87
del monarca. Esso rappresenta le articolazioni del regno per consigliare il
principe, non rappresenta i baroni nella determinazione delle scelte.
Diversamente l'Assise di Clarendon, nel 1166 era stata convocata
per stabilire il riordino ed il funzionamento dell'amministrazione della
giustizia in Inghilterra; non per consigliare, ma per decidere. Ora la
convocazione di un'assemblea per essere informati, richiede un certo
sistema di scrutinio per rappresentare le esigenze degli angoli più remoti
del regno. Altro ne chiede un'assemblea convocata per decidere in nome
dei rappresentati. In questo caso infatti si impone un diverso sistema,
conformemente ad una diversa funzione: non devono essere portati a
conoscenza le diverse voci dei rappresentati, ma si deve giungere ad una
volontà, in cui tutti possano ritrovare il bene comune. Se l'assemblea
conoscitiva per sua funzione ha natura pluralistica, l'assemblea
deliberativa, per sua funzione, deve tendere e produrre l'unità. Sui
problemi e sulle vie per raggiungere l'unità, si è già detto. Qui ora, preme
mettere in evidenza come un tipo di assemblea non possa svolgere le
funzioni dell'altra senza inconvenienti. La diversità di fini sottende una
difformità di struttura che non può essere ignorata nel momento dei
risultati.
Infatti per rappresentare, nel senso di manifestare, le esigenze degli
elettori ai fini conoscitivi, il sistema più fedele è il conferimento di un
mandato imperativo. Dovendo rappresentare, nel senso di riprodurre, la
voce della nazione in un unico luogo, il solo modo possibile, in assenza
dei moderni mezzi di comunicazione, era riunire in assemblea gli inviati
dei diversi angoli del regno, per sentire da loro la voce dei governati.
Con questo sistema funzionavano le assemblee più o meno
periodiche, nei principali Stati fino alla Rivoluzione francese. Ben si
comprende allora come la preoccupazione principale fosse la totale
corrispondenza tra quanto conferito dai mandanti e quanto detto in
assemblea: in altre parole si richiedeva al rappresentante di essere
immagine quanto più fedele possibile alla realtà del proprio collegio.
Tutto ciò era relativamente semplificato dalla natura stessa delle
assemblee, dal fatto cioè che non a queste spettava decidere, ma al re. Non
era compito dei deputati interpretare le esigenze della nazione in
prospettiva futura, in merito ad una decisione da prendere. In altre parole
non si poneva la questione che assilla i teorici contemporanei e che
abbiamo esaminato sopra, riassunta nella distinzione tra volontà o
interessi degli elettori come criterio guida del deputato. Il sistema di
elezione ne è un aspetto significativo: non si dava la fiducia ad una
LE TÈKNAI DELLA RAPPRESENTANZA: LE DIFFICOLTÀ
88
persona sulla base del programma presentato e sulla promessa di portarlo
a compimento, piuttosto si raccoglievano tutte le necessità, doglianze e
desideri di una certa porzione di territorio e, tradotti in un documento, li si
affidava ad una persona di fiducia scelta, "eletta" per rappresentare, nel
senso di manifestare, i bisogni di quella parte di regno, motivo che aveva
mosso il sovrano a indire la convocazione.
Il problema sorge invero quando l'assemblea decapitata (nel senso
fisico del termine) del sovrano deve provvedere alle decisioni. Non basta
più raccontare quanto i committenti hanno indicato: occorre agire al posto
di questi, divenuti improvvisamente sovrani. Avremo modo di illustrare le
difficoltà sorte nell'Assemblea nazionale francese, che convocata come
organo consultivo, come Stati Generali, si trasforma in organo
deliberativo, addirittura costituente, l'Assemblea nazionale appunto. Qui
preme sottolineare ancora come la diversità di funzioni, conoscitive o
deliberative, sembri sottendere diversità di natura. Con Schmitt si
sosterrebbe che solo le seconde rendono le assemblee veramente
rappresentative, poiché solo in queste si manifesterebbe quella coscienza
superiore che rende un popolo tale. Tuttavia alla luce di quanto esposto
nei capitoli precedenti, si propone un'altra distinzione. Un'assemblea
conoscitiva, pur se specchio fedele della nazione, può non essere
“rappresentativa”: mirata infatti a riprodurre in scala ridotta, la realtà,
tanto sarà immagine fedele quanto più i suoi componenti sapranno ripetere
compiutamente le istruzioni ricevute. In questa prospettiva la tecnica
migliore è il mandato imperativo o addirittura l'utilizzo di nuncii, i
commissari cui fa riferimento Rousseau, semplici latori di dichiarazioni
altrui: la riproduzione sarà perfetta, ma il rappresentante non è più: la
rappresentanza cessa in quello stesso momento. Altrettanto può succedere
in un’assemblea deliberativa in cui i rappresentanti dimentichino i
rappresentati o dove questi ultimi riducano a portavoce i primi. Da quanto
detto allora, il criterio per attribuire carattere rappresentativo o meno ad
un consesso di deputati non è tanto vedere se può assumere decisioni o no,
quanto vedere se ha la struttura dualistica della rappresentanza,
comprendendo cioè un rappresentante ed un rappresentato. In altri termini,
l'oggetto dell'attività non determina il carattere rappresentativo o meno
dell'assemblea. Il criterio discretivo va ricercato a monte, nella presenza
degli elementi necessari alla struttura rappresentativa: in questo modo si
può superare la distinzione iniziale tra assemblee conoscitive e assemblee
deliberative nonché l'equazione che chiama rappresentative le seconde,
ma non le prime.
STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA
89
Un tanto ci consente di osservare come la funzione, consultiva,
conoscitiva o deliberativa, possa influire sul criterio elettorale da seguire,
facendo propendere la scelta più per il proporzionale, piuttosto che per il
maggioritario, o viceversa, ma non incide sulla rappresentanza in quanto
tale, ovvero nella sua intima struttura concettuale, essenzialmente
dualistica, ad onta di quanti, si è visto all’inizio (e sono i più), guardano al
sistema di scrutinio per ricercare la vera natura della rappresentanza. Il
vizio, ci si permetta di essere ripetitivi, al limite dell’insistenza, consiste
nel piegare la struttura alla funzione, ovvero di forgiare l’istituto (ma
anche il concetto) alle proprie esigenze operative e contingenti. Non si
nega la legittimità del fine, poiché in fondo ogni istituto giuridico è
funzionale ad uno scopo. Si stigmatizza, invece, il procedimento logico,
che, pur nella (legittima) ricerca del perseguimento del proprio fine, deve
muovere l’indagine dal riconoscimento di ciò che è, dall’indeclinabile;
onde non scoprire poi l’inattitudine dello strumento proprio per quello
scopo in funzione del quale era stato artificiosamente creato.
E forse questa è una delle difficoltà della rappresentanza.
Prima di procedere nella nostra indagine alle radici della
rappresentanza nella dottrina dello Stato, è opportuno tentare di ricavare
dai contributi e dalle posizioni esaminate sopra, quali possano essere i
motivi per i quali la rappresentanza costituisce un problema
nell’esperienza giuridica della modernità. Le difficoltà della
rappresentanza sono forse dovute alla differenza, anzi all'opposizione
della sua struttura con una concezione dello Stato e del diritto qual è
venuto a svilupparsi negli ultimi cinque secoli. Possiamo riassumere
quanto detto nei seguenti termini. Da Platone127
si evince la distinzione tra
la cosa e la sua rappresentazione, dando dignità di esistenza alla cosa e
alla sua rappresentazione, al rappresentante e al rappresentato, mettendo
in guardia dall'assolutizzare la rappresentazione perché perderebbe la sua
natura di immagine. Conseguenza è il dualismo che emerge
preponderantemente nella struttura della rappresentanza e di cui il
principio di responsabilità costituisce il corollario più importante.
Applicata nell'ambito della politica e del diritto nella tradizione
aristotelica questa concezione della rappresentanza ben si confà alla
pluralità propria della filosofia pratica, nel cui ambito si colloca la
127 PLATONE, Sophista, 235 d), in Tutte le opere, a cura di G. Reale, Milano, 1991,
p. 281-2.
LE TÈKNAI DELLA RAPPRESENTANZA: LE DIFFICOLTÀ
90
politica: non il luogo del vero e del falso, ma il luogo dell'opportuno e del
conveniente, nella pluralità degli éndoxa.
Tale tradizione dura per tutto il medioevo seppure in modo nascosto
e in latente conflitto con la teoria incipiente della sovranità nazionale.
Ma se già Marsilio sostituisce all'essere, come fondamento dello
Stato, la volontà del singolo, è Bacone che asserisce "la varietà è la
caratteristica dell'errore e l'unità è il carattere della verità".128
L'equivoco si ingenera dall'applicare alla politica il procedimento
della filosofia teoretica: sorge dall'aver confuso ciò che Aristotele aveva
tenuto distinto, dall'aver identificato l'ambito del diritto con l'ambito
dell'operare, la filosofia pratica con la poietica, e nell'avervi imposto il
procedimento della filosofia teoretica, distruggendo quella varietà degli
éndoxa che Aristotele indica come elemento qualificante della politica, in
questo rifacendosi alla tradizione platonica, ove la politica è il luogo
dell'opportuno, del conveniente. Non è un caso che il richiamo alla
tradizione aristotelica si sia avuto da quegli autori di questo secolo che più
anno sofferto degli esiti totalitari della concezione del diritto e dello Stato
costruita sull'unicità.
Tuttavia ancora fino a tutto il '700, più o meno manifestamente, si
riconosce la struttura dualistica della rappresentanza, pur cercando di
ricondurla ad unità con "tecniche giuridiche". È lo sforzo, ci pare, di
Rousseau e dei monarcomachi: la ricerca di una via per attribuire ad uno
ed un solo soggetto la manifestazione di volontà che deve diventare legge.
E la difficoltà è proprio nel muovere la riflessione in termini di volontà
che, come si è detto è la categoria dell'unità.
Il processo viene portato a compimento da Sieyès che non si limita
ad operare sulle tecniche della rappresentanza, ma ne intacca l'intima
struttura: non si ammette più dualismo, fin dall'origine esiste uno ed un
solo soggetto: il "rappresentante"; non esiste, non può esistere volontà
all'infuori della sua. Allora veramente quella che abbiamo chiamato teoria
dell'interpretazione129
non è una semplice tecnica della rappresentanza, ma
una nuova struttura di questa o meglio, se si vuole, il suo stravolgimento.
Al dualismo di rappresentante e rappresentato si oppone l'esistenza del
128 F. BACON, Il parto maschio del tempo, cap. II, in Scritti filosofici, a cura di P.
ROSSI, Torino 1975, p. 116. Se non consapevole nell’opera del Verulamio, l’equivoco si
ingenera sicuramente nei suoi discepoli, in primis nell’allievo geometrico Thomas Hobbes.
Cfr. U. PAGALLO, Homo homini deus, Padova, 1995, p. 53 e ss.
129 Cfr. supra § I.3.2., ove si fa riferimento alla sola rilevanza (nel volere come
nell’agire) del “rappresentante” o, meglio, dell’eletto.
STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA
91
solo "rappresentante"; all'eikòn si sostituisce il fàntasma. Da questo
momento non è più una questione di tecniche, di conficcare il dualismo di
struttura nel monismo della tecnica, ma l'opposizione avviene su un piano
sostanziale. Con Sieyès la rappresentanza è una costruzione monista,
omologa ed utile strumento della sovranità, con cui divide l’identità di
struttura nella pretesa unicità. Gli interpreti di Hegel si incaricheranno di
portare a conseguenza le premesse dell'Abate. Sciogliendo l'ambiguità del
Maestro di Berlino si sosterrà che in campo pubblico il cittadino non può
avere interessi diversi da quelli dello Stato e che ogni organo è
rappresentativo in quanto espressione dello Stato. E questa è la riprova
che dalla concezione della rappresentanza, dal rapporto tra governanti e
governati, dipende la concezione dello Stato.
Ma da Platone e dalla natura della buona immagine, dell'eikòn,
emerge anche l'esigenza di responsabilità del rappresentante verso il
rappresentato, come garanzia, non sopraffazione dell'uno sull'altro, come
barriera alla degenerazione in fàntasma. Sieyès ha solo fantàsmata
irresponsabili: con essi è aperta la via all'assolutismo assembleare e alla
dittatura fondata sulla conclamata rappresentanza delle masse.
Ma seguiamo partitamente le tappe di questo percorso attraverso il
pensiero dei singoli autori. Cominciando dai semi sparsi da quel viandante
solitario durante le sue meditazioni, dai quali sarebbe germogliata robusta
ed avviluppante la pianta della sovranità popolare.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
93
3 DUALISMO E MONISMO NELLA
RAPPRESENTANZA
3.1 Dal Contratto all’Enciclopedia
3.1.1 Collegio perfetto e delega
COSTRUZIONE DELLA NON DELEGABILITÀ DELLE FUNZIONI POLITICHE: LIMITI E CRITICA –
NECESSARIA PARTECIPAZIONE ALL’ASSEMBLEA PER IL RICONOSCIMEMTO DEL DELIBERATO
(LA LEGGE) COME VOLONTÀ GENERALE – IMPOSSIBILITÀ DI FORMAZIONE DI VOLONTÀ
RILEVANTI IN UN MOMENTO PRECEDENTE LA DISCUSSIONE ASSEMBLEARE – CONSEGUENTE
NECESSITÀ DI ASSEMBLEA IN FORMA TOTALITARIA – DIFFICOLTÀ DI OTTENERLA IN STATI DI
GRANDI DIMENSIONI OD IN SOCIETÀ A CAPITALE ALTAMENTE FRAZIONATO – STATO
FEDERALE E PRINCIPIO DI SUSSIDIARIETÀ: POSIZIONE DEL PROBLEMA E RINVIO.
“Nessuna fraternità fra noi ed il Terzo. Non tolleriamo che figli di
calzolai e ciabattini ci chiamino fratelli, né che la differenza fra noi ed il
Terzo sia diversa da quella che divide signori e servi”.130
Questa la
risposta della Nobiltà all’appello del Terzo stato alla fraternità, già durante
gli Stati generali di Francia del 1614, intesa quale elemento costitutivo del
popolo e condizione della sua rappresentabilità, secondo uno schema che
vedremo giungere a maturazione con Sieyès, 175 anni dopo. E la
spiegazione di questo atteggiamento è illustrata al giovane Luigi XIII da
un rappresentante del Secondo ordine: “Arrossisco al solo pronunciare i
termini da cui siamo stati di nuovo offesi. Osano rassomigliare il vostro
Stato ad una famiglia, composta da tre fratelli; e dicono che l’ordine
ecclesiastico sarebbe il primogenito, secondogenito il nostro, ed essi, il
popolo, sarebbero i cadetti. In quale bassezza siamo caduti! […] I tanti
segnalati servizi, resi da tempo immemorabile, i tanti onori e le tante
dignità, che formano il patrimonio ereditario della nobiltà, meritato dai
suoi sacrifici e dalla sua fedeltà, invece di innalzarla, l’avrebbero talmente
degradata, da unirla al volgo con la più stretta delle società e delle
parentele tra gli uomini, qual è appunto la fraternità.”131
I germi
130 La citazione di LAMENNAIS, De l’esclavage moderne, Paris, 1839, apre
programmaticamente la voce Popolo di F. MERCADANTE in “Enciclopedia del Diritto
Giuffré”, vol. XXXIV, Milano, 1985, p. 267.
131 F. MERCADANTE, op. cit., p. 268.
COLLEGIO PERFETTO E DELEGA
94
dell’egualitarismo rousseauiano e del concetto di rappresentanza politica
consacrata nell’Assemblea nazionale sono già tutti presenti fin dal 1614.
Prima tuttavia di affrontare nel merito la visione specifica del
Ginevrino è opportuno soffermarsi su due aspetti di apprezzabile
importanza grazie ai quali sarà possibile inquadrare più limpidamente il
problema.
Il primo attiene alla dinamica della diffusione di un metodo di
formazione del consenso o, come meglio si vedrà, di sua finzione, il quale
-già presente in epoca antecedente al 1789- delinea una chiave di lettura
del fenomeno rappresentativo scaturito dalla Rivoluzione.
Il secondo, strettamente vincolato al primo, si riferisce alla
dimensione culturale dell’élite divenuta protagonista nel corso della
Rivoluzione.
Le due questioni rivelano un certo interesse, ancorché appaiano
avulse, a prima vista, da uno studio giusfilosofico intorno al diritto di
rappresentanza, proprio perché illustrando la meccanica del progressivo e
inesorabile ridursi nelle mani di pochissimi soggetti posti al vertice della
struttura politica del totale controllo sull’attività pubblica, appaiono
necessariamente propedeutiche all’analisi di qualsivoglia istituto giuridico
che sia stato investito dalla spinta innovatrice rivoluzionaria.
Invero si fa strada in seno ai lavori dell’Assemblea nazionale prima
e della Convenzione poi (e non più solo nei testi filosofici) l’idea che la
volontà popolare possa essere interpretata entro schemi ideologici e
astratti e in ultima considerazione, propri della sola cerchia dominante.132
La definizione giuridica di tutti gli elementi che attengono alla
soggettività della persona e al rapporto tra sfera pubblica e privata
discendono quindi necessariamente da tale impostazione.
In campo storiografico133
è con voce unanime riconosciuto che la
convocazione degli Stati Generali del 1789 fu dettata da motivazioni
132 È innegabile che la pressione della massa cittadina sulle assemblee fosse in
grado di condizionarle; anzi, per dirla con Aquarone, durante i lavori della Costituente
avrebbe costantemente inibito “una maggioranza che si sarebbe espressa con molta
maggior sincerità e chiarezza se non fosse stata consigliata a una costante prudenza dalla
presenza del pubblico, non di rado assai turbolento, nelle tribune” (A. AQUARONE, Due
costituenti settecentesche, Pisa 1959, p. 24). Ma ciò conferma proprio lo stravolgimento
dei rapporti tra le forze politiche rappresentate in favore di nuclei sempre più contenuti; sul
punto si ritornerà più diffusamente nei paragrafi successivi.
133 Il riferimento principale resta all’insuperata opera di J. ELLUL, Storia delle
istituzioni; l’età moderna e contemporanea, trad. it. Milano, 1976.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
95
squisitamente finanziarie; del resto l’istituto, pur non sconosciuto
all’ordinamento francese, era da lungo tempo rimasto inutilizzato.134
L’evento venne tuttavia percepito dall’imponente massa elettorale135
in
fibrillazione come un’occasione formidabile di rinnovamento (non tanto
in chiave anti monarchica quanto anti nobiliare e con il miraggio di un
miglioramento economico) al di là delle stesse intenzioni di Re Luigi e del
primo ministro.
Proprio nei mesi che precedettero la storica assemblea di Versailles
si osserva un imponente movimento organizzativo in apparenza acefalo in
grado di pilotare in modo capillare e formalmente legittimo sia i candidati
da eleggere sia la redazione, nelle loro linee fondamentali, dei cahiers des
doleances136
. La tesi è sostenuta da Cochin137
e per quanto non sia priva di
134 Come si è detto l’ultima convocazione risaliva al 1614. Ed è singolare il nesso
tra la convocazione degli Stati generali con i momenti di maggior difficoltà per la storia
della Francia. Dalla prima convocazione, nel 1302, occasionata dalla tensione tra Filippo
IV “il bello” e Bonifacio VIII, alla Guerra dei cent’anni, con Carlo VII, fino alla
convocazione del 1484 a Tour, che vede il mutare della prassi dell’invio di procuratori in
rappresentanza di delegati eletti, con l’intervento di Filippo Pot, di cui si è già fatto cenno
(cfr. n. 29 e 235). Segue un lungo silenzio. Dopo quella data Carlo VIII non convocò più
gli Stati generali, così come Luigi XII, Francesco I ed Enrico II. A seguito delle tensioni
prodotto della protestantesimo, unitamente alla crisi della dinastia, si hanno le riunioni del
1560 e del 1561, poi del 1577, del 1588, con le evoluzioni del primo re Borbone, ed infine
del 1614, per volontà della reggente Maria de Medici, per affrontare le tensioni interne cui
saprà porre fine il genio politico di Richelieu. Dal 1614 al 1789 un sonno letargico
interrotto solo da due appuntamenti, poi mancati: nel 1652, per volontà della reggente
Anna d’Austria e nel 1715, per la scomparsa del Re Sole. Per un’attenta ricostruzione del
ruolo degli Stai generali nei diversi momenti storici, cfr. C. SOULE, Les Etats Généraux de
France. Etudes présentées à la Commission Internationale pou l’Histoire des Assemblée
d’Etats, Heule, 1968. Per una puntuale analisi del sistema di mandato in quelle assemblee,
cfr. O. ULPH, The Mandate System and Representation to the Estates general under the
Old Regime, in “The Journal of Modern History”, n. 3, September 1951, p. 225-231.
135 Il suffragio è quasi universale poiché anche per il Terzo stato possono votare
tutti i maschi che abbiano compiuto 25 anni e paghino un’imposta sia pur minima. Si vota
a due gradi, prima nelle assemblee di parrocchia e poi, per gli eletti, in quelle di
bagliaggio. Gli eletti erano previsti nell’incredibile numero, per allora, di mille.
136 “La ricca messe di cahiers (...) pur riferendosi sempre a situazioni particolari e
concreti di questa o quella comunità (...) aveva tuttavia chiaramente mostrato come quella
preparazione dottrinale avesse saputo diffondersi anche nei più remoti angoli della
provincia francese, contribuendo validamente a dare nerbo e organicità alle pur così
eterogenee rivendicazioni ...”. Cfr. A AQUARONE, Due costituenti settecentesche cit., p. 98.
COLLEGIO PERFETTO E DELEGA
96
spunti di notevole originalità (e di frizzante vis polemica) non si pone in
contrasto con l’interpretazione storica tradizionale ed appare utile per la
prospettiva da cui muove, e per le osservazioni che si faranno in seguito,
oltre che per la ricca e rigorosa documentazione presente.
Possiamo ridurre la linea argomentativa di Cochin a due principali
percorsi: l’uno, che si incentra sul merito del fenomeno e sulle sue ragioni
profonde, l’altro che ne studia la struttura dinamica. Sotto il primo aspetto
la critica è radicale: a ridurre in frantumi il sistema sociale così come era
organizzato nel XVIII secolo sarebbe stato, letale negli effetti pur se
innocuo a prima vista, l’adagiarsi ad una dimensione salottiera del
pensare, ad una parolaia “repubblica delle lettere” sganciata dalla realtà.
“A che serve l’acquisizione delle esperienze in un mondo simile?
Sono cose che si esprimono a fatica e non hanno nulla a che fare con una
discussione di principio. Necessari per giudicare rettamente e giustamente
questi consiglieri sono un inciampo per opinare con chiarezza”138
; il
ritorno sul punto è costante, come anche il sarcasmo che lo sostiene.
Sarebbe però un errore vedere in queste pagine solo una filippica contro
un certo razionalismo astratto; Cochin solleva lo sguardo e va più a fondo.
La “repubblica delle lettere” possiede sue proprie leggi, che non hanno
bisogno di farsi conoscere per essere obbedite, ma sono la necessaria e
geometrica conseguenza della stessa ragion d’essere della società di
pensiero dove il più leggero (o vacuo) vola in alto isolando via via gli
elementi legati a valori come fede, tradizione o semplicemente esperienza
del mondo reale.
Ora, non è impossibile intravedere in questo panorama una sorta di
deformazione del concetto di soggettività; si ritrova infatti come
geneticamente vincolato a questa prospettiva la riduzione progressiva di
ciò che forma la dimensione personale e irripetibile di ciascun singolo ad
una formula astratta e convenzionale.
Tuttavia, molto spesso, è proprio la stessa convenzionalità ad essere
dimenticata da coloro che, negando l’assunto di partenza del loro
procedere, sogliono poi dedurre dai risultati delle loro analisi verità
indiscutibili. “È esatto, alla lettera, che la ragione basta a ognuno, giacché
137 Cfr. A. COCHIN, Lo spirito del giacobinismo, (raccolta di saggi scritti tra il 1903
ed il 1915, Parigi, 1979 su di un’edizione Plon del 1921) trad. it. Milano 1981, p. 43.
138 Cfr. A. COCHIN, Lo spirito cit., p.46. L’autore situa cronologicamente il
prodursi di queste prime società attorno alla metà del secolo: “Non parlo dei primi, dei
gaudenti del 1730, parlo degli enciclopedisti dell’epoca successiva”, ibidem p. 45.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
97
il fine è spostato: quello che conta ormai è l’idea distinta, quella che si
autogiustifica verbalmente, non l’idea feconda che si verifica”.139
L’ulteriore conseguenza non fatica a palesarsi: l’elemento che discrimina
il più forte è ora la purezza, il distacco dagli organi reali di appartenenza
sociale; non più la sperimentazione dell’uomo come esso è, ma il progetto
dell’uomo come entità astratta all’interno di un meccanismo perfetto e
sincronizzato.
Come era strutturata la società francese all’avvento di questa nuovo
fenomeno? Il dato che emerge è la presenza di numerosi livelli associativi;
definibili come corpi intermedi di appartenenza del singolo, nel loro
insieme edificavano un sistema organico e fortemente gerarchizzato quale
riferimento delle relazioni intersoggettive. Tra di essi maggiore oggetto di
analisi storica sono stati gli ordini.140
Si soffermi ora l’attenzione sul primo di essi per importanza, vale a
dire la nobiltà, la cui analisi offre lo spunto per un’osservazione.
L’acquisizione originaria del titolo poteva avvenire in tre modi:
conferimento dell’ordine della cavalleria (Santo Spirito o San Luigi, in
genere per meriti acquisiti in campo militare), conferimento mediante
lettere patenti accordate dal sovrano141
ovvero automaticamente
rivestendo gli uffici militari e quelli civili più elevati. Fuori di questi casi
la regola è la trasmissione ereditaria per antico beneficio feudale; è quindi
un ordine solo relativamente chiuso ma geloso delle proprie prerogative. Il
fatto tuttavia che a determinate condizioni vi si possa accedere consente di
considerare l’ordine più ambito non tanto come una casta, ma piuttosto
alla stregua di uno strumento per l’ascesa ad un’identità sociale
maggiormente prestigiosa. Si è di fronte ad un’espansione della
dimensione soggettiva che si realizza tramite la proiezione sulle gerarchie
della collettività ma, ed è questo il punto qualificante, non mediante un
istituto di diritto privato, bensì –si badi bene- ormai di diritto pubblico.
139 A. COCHIN, op. cit., p. 47.
140 Ma la strutturazione in senso gerarchico si riscontra a tutti i livelli compreso il
mondo operaio: differenze si hanno tra compagnons, entrati nel sistema corporativo, e
artigiani proletari , tra maestri e non, etc.
141 L’acquisizione era in tal caso onerosa dal momento che, per compensare la
perdita di un contribuente (i nobili erano esenti dalla taglia), il re richiedeva una certa
somma oltre alla costituzione di una rendita. Cfr. J. ELLUL, op. cit., p. 127.
COLLEGIO PERFETTO E DELEGA
98
Il fenomeno poteva però essere consentito solo all’interno di una
struttura sostanzialmente feudale, come in effetti fu quella francese ancora
per buona parte del XVIII secolo, fondata su di una distinzione, percepita
anche in senso morale, che assumeva valore formale con la ratifica del Re
e in cui l’arricchimento del soggetto era un dato, semmai, meramente
strumentale.142
Si vuole affermare che le prospettive di realizzazione del
singolo, in quanto partecipe della comunità, erano affidate in ultimo esito
alla ricerca di affermazione in una struttura gerarchica parzialmente aperta
secondo un sistema la cui riconoscibilità comune era garantita da una
tradizione plurisecolare.143
La stessa formula in francese arcaico, a
sostegno della monarchia, “car li Rois n’a point de souverain es choses
temporiex, ne il ne tient de ne lui, que de Dieu et de soi”144
voleva
costituire un limite all’ingerenza sul monarca del potere dell’Imperatore e
della Chiesa, da un lato, e del feudalesimo, dall’altro. Almeno fino a
quando il principio di un potere illimitato viene geometricamente
disegnato da Bodin e Loyseau, riferendolo allo Stato, fino a fare dello
Stato e del sovrano termini destinati a rimanere sinonimi.145
Seppure già il
3 marzo 1766, il pronipote del Re Sole era costretto a protestare il proprio
ruolo, “flagellando” il Parlamento di Parigi che aveva osato distinguere la
nazione dalla monarchia, ricordando che “è nella mia sola persona che
risiede il potere sovrano (…) l’ordine pubblico proviene tutto solo da me e
142 È pur vero che un’ingente quantità di capitali è in mano alla nobiltà ma quella
provinciale, che vive sulle proprie terre, e che è poi la più numerosa, si trova in condizioni
spesso di povertà, lavora con l’aiuto di pochi domestici e gode di non molti privilegi; del
resto la possibilità di arricchirsi tramite attività manifatturiere o commerciali è stata ad essa
a lungo preclusa: solo l’industria vetraria o metallurgica (salvo deroghe regie con valore
temporaneo) non fa perdere la nobiltà a colui che la pratica mentre la preclusione al
commercio marittimo cade nel 1629 e quella relativa al commercio all’ingrosso nel 1701.
Cfr. J. ELLUL, op. cit., pp. 127-128.
143 Per questi aspetti, pur nel differente quadro storico, si confronti il saggio di R.
SABBADINI, L’acquisto della tradizione. Tradizione aristocratica e nuova nobiltà a
Venezia, Udine, 1995, che ricostruisce il tentativo mimetico delle famiglie aggregate al
patriziato in occasione della guerra di Candia.
144 A. VIOLLET (a cura di), Les Etablissements de Saint Louis, 4 voll., Paris, 1881-
86, vol. II, p. 370.
145 Per le difficoltà ingenerate da siffatto stretto legame, e per l’ipoteca concettuale
dalla quale il dibattito costituzionale si è da poco affrancato, cfr. infra, § III.4.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
99
i diritti e gli interessi della nazione, di cui si osa fare un corpo distinto dal
sovrano, sono necessariamente uniti ai miei e stanno solo in mano mia.”146
In questo contesto si può comprendere come il ripensamento
dell’individualità in termini di astrattezza e secondo un procedimento di
tipo ipotetico-deduttivo abbiano avuto, nei quattro decenni precedenti
l’epifania rivoluzionaria, un ruolo non trascurabile nella progressivo
indebolimento del sistema “organico”. Nei fatti il passaggio non è potuto
essere indolore ma si è realizzato attraverso un violento percorso di rottura
politica e istituzionale, come effetto di due diversi punti prospettici
incomunicabili e quindi destinati a confrontarsi in modo conflittuale una
volta raggiunto il livello critico.
La dinamica che connota l’espansione e l’affermazione di un
ambiguo partito senza capi né programma, ma cementato da
un’inconsapevole omogeneità d’azione costituisce l’altro aspetto
dell’indagine giuridico - elettorale che ora è necessario riprendere.
Oggetto di studio sono lo svolgimento dei preparativi e delle
elezioni dei deputati agli Stati Generali svoltesi a Digione e nella
Borgogna verso la fine del 1788. Il meccanismo si esprime dapprima
nell’approvazione delle suppliche da inviare al sovrano a nome del Terzo
stato e della città e presenta ovunque un’identica caratteristica, vale a dire
il raduno per fasi successive e concentriche di adesione di sempre più
vasti raggruppamenti attorno ad un documento già confezionato
dall’inizio ad opera di pochi nomi e rimasto pressoché inalterato fino alla
redazione finale; del resto identiche modalità vengono seguite per le liste
di candidati da eleggere. Un corpo elettorale pur molto ampio si ritrova
lungo un percorso obbligato, ma è privo della possibilità di prenderne
coscienza: “Avvenne allora un fatto inaudito: delle elezioni senza
professione di fede, senza quel conflitto pubblico degli uomini e delle idee
che permette all’opinione delle nostre democrazie di formarsi. Nessuno si
presenta, nessuno sottomette all’esame del pubblico, come farebbe un
146 Questo ed altri passi della celebre “flagellazione” di Luigi XV al Parlamento di
Parigi, che costituisce un trattato dell’assolutismo regio, si trovano in J.J. CHEVALLIER,
Storia del pensiero politico. Il declino dello stato nazionale monarchico, trad. it. Bologna,
1981, p. 318. Per le prospettive dell’identificazione sovrano – nazione, cfr. M. COSSUTTA,
Stato e nazione. Un’interpretazione giuridico – politica, Milano, 1999, p. 96 e ss.
COLLEGIO PERFETTO E DELEGA
100
venditore con la sua merce per consentire che venga valutata, il proprio
carattere e i propri principi”.147
Si coglie ora, per la prima volta nella storia francese, l’apparizione
di un modo d’intendere l’identità collettiva in senso artificiale e teorica;
un’identità collettiva che non ha bisogno di luoghi e mezzi precostituiti
per esprimere volontà e interessi, anzi deve aborrirli poiché atti a favorire
l’infiltrazione di elementi estranei ed impuri nel progetto ideale.
Viene tuttavia ad adombrarsi la prima contraddizione del
sillogismo. Da un lato è pressante la convinzione di agire, parlare,
legiferare in nome del popolo e per esso, dall’altro si palesa la necessità di
impedire la effettiva e reale formazione del suo volere. La via d’uscita non
può che essere una: se un popolo così come è immaginato non esiste e non
agisce secondo prefissati schemi di comportamento bisognerà formarlo o,
il che è lo stesso, educarlo conservandogli però formalmente, e
apparentemente, la capacità di autodeterminazione: “non vi è soggezione
tanto perfetta quanto quella che conserva l’apparenza della libertà; si
accattiva in tal modo la volontà stessa”.148
Nell’Emilio rousseauiano
ritroviamo questa forma mentis che, pur trasferendo sul piano
dell’educazione del fanciullo il principio della persuasione nascosta,
tradisce una percezione del rapporto tra alterità ed estrinsecazione
autonoma delle facoltà del soggetto che forma il sostrato anche degli
scritti politici.
Confortata da recenti studi appare credibile l’osservazione secondo
la quale ben maggiore diffusione ebbero altre fatiche di Rousseau che non
il Contratto sociale. “Senza essere ignorata l’opera aveva avuto molto
meno successo dell’Emilio e della Nuova Eloisa (...). Il Contratto sociale
era stato pubblicato 13 volte separatamente, prima del 1789, l’Emilio 22
volte e la Nuova Eloisa 50. Per di più le riedizioni di queste due opere
furono regolari. Le edizioni del Contratto sono state, al contrario,
concentrate attorno alla prima pubblicazione, il che suggerisce un
successo di lancio seguito ad una relativa indifferenza.”149
È certo sempre
147 Cfr. A. COCHIN, op. cit., p. 90. Sul punto si veda anche É LOUSSE,
Parlementarisme ou Corporatisme? Les Origines des Assemblées d’états, in «Revue
Historique de Droit Français et Etranger», XIV, (1935), p. 683 e ss.
148 J.J. ROUSSEAU, Emilio, II.
149 Così B. MANIN, voce Rousseau in F. FURET – M. OZOUF (a cura di), Dizionario
della Rivoluzione Francese, trad. it. Milano, 1988.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
101
difficile definire, nella concatenazione degli eventi storici, il preciso
legame tra causa ed effetto ed anzi più spesso inutile. Più fruttuoso è
coglierne le relazioni biunivoche e reciprocamente interdipendenti al fine
di meglio comprendere la portata di un’evoluzione globale. Nel nostro
caso riconoscere molto maggior impatto, nella bibliografia rousseauiana,
proprio all’Emilio e alla Nuova Eloisa significa non solo conferire un
sostegno alla tesi di coloro che relegano l’eredità di Rousseau nell’ambito
quasi esclusivamente di un’influenza di principio e di un idem sentire
morale, svalutando, forse, l’incidenza della sua analisi politica; ma
significa soprattutto ammettere che la sintonia con la classe colta del
secondo Settecento francese si sviluppasse sul terreno dei presupposti
logici comuni a tutta la produzione rousseauiana, senza limitazioni al
Contratto sociale.
Si potrà, entrando nel vivo della questione verificare puntualmente
quale fu, nella mente del filosofo svizzero, la collocazione, la ragione e la
giustificazione nella società dell’istituto della rappresentanza politica; è
però fin d’ora opportuno rintracciare, in un’opera, l’Emilio, che non volle
essere un trattato economico né politico né tantomeno un’apologia della
rivoluzione, quello stesso procedere argomentativo e quella disposizione
psicologica di cui, come evidenziato precedentemente, era iniettata la
società pensante e che valsero la risentita ironia di Cochin. Il principio che
vi ritroviamo è il medesimo: viene assunto per valido il procedimento
ipotetico: “Ho preso quindi la decisione di crearmi un allievo
immaginario, di supporne l’età, la salute, le cognizioni ed il talento
convenienti per accudire alla sua educazione e condurla dal momento
della sua nascita a quello in cui, divenuto uomo fatto, non avrà più
bisogno di altra guida che di se stesso”.150
Il fanciullo è “creato” e “create”
sono le sue condizioni; è un modello operativo, non dissimile dal metodo
adottato nella scienza moderna. L’ipotesi, formulata in via preliminare,
viene sperimentata e verificata; dopodiché essa può venire accettata come
valida, non nella sua possibilità di cogliere la realtà, che rimane preclusa,
bensì nella sua utilità strumentale ed, appunto, operativa. Già si è fatto
cenno al pericolo insito in questo itinerario: la dimenticanza, in esito, della
condizione iniziale, costituita dalla rinuncia implicita a comprendere, per
questa via, l’essenza del reale.
Al di là del suddetto limite, spesso trascurato anche dagli stessi
operatori in campo scientifico, se ne impone un altro: l’applicabilità del
150 Cfr. J.J. ROUSSEAU, Emilio, I.
COLLEGIO PERFETTO E DELEGA
102
procedimento rimane obbligatoriamente vincolata alla misurabilità
dell’evento considerato, posto che l’assenza della possibilità di
comparazione su schemi geometrico-matematici ne annulla una qualsiasi
utilità operativa.
L’appunto è particolarmente importante soprattutto quando si
vogliano valutare le diverse letture che di Rousseau si sono date.
Se, per un verso, non manca la consapevolezza di condurre un
esperimento senza riscontro effettivamente misurabile151
a causa della
natura dell’oggetto d’analisi, cioè lo sviluppo del comportamento umano
nel corso della crescita, dall’altro nonostante l’astrattezza e la
convenzionalità dell’assunto di base, pure è presente la tentazione al
ritaglio di dati in qualche modo assoluti ed estensibili. Un momento di
ambiguità ravvisabile nel pensiero dell’autore, dovuta forse ad un genetico
conflitto tra le genuine intuizioni di cui fu portatore in campo pedagogico
ed il percorso utilizzato per dimostrarne la fondatezza, si esprime, da
ultimo, nella sentita esigenza di fondare l’impianto della sua tesi su basi
non convenzionali quanto problematicamente miranti all’essenza: “mi
sono contentato di enunciare i principi di cui tutti dovrebbero sentire la
verità.”152
Un’omogenea formazione psicologica e culturale deve quindi aver
contribuito a rendere ampi strati della società francese compatti, nella
sempre più difficile tolleranza di gioghi e privilegi di cui non era più
avvertita né la necessità né la radice storica, nel senso di un atteggiamento
rabbiosamente demolitorio nei confronti di determinati istituti della
Francia monarchica; atteggiamento che peraltro si trasfuse quasi
osmoticamente nella classe contadina.
Non fu, infatti, una crisi economica popolare a determinare una
rapida precipitazione degli eventi nel 1789 anzi, relativamente ai
contadini, “si acuisce una intolleranza verso questi diritti (signorili) forse
per il fatto stesso che la loro condizione, a partire dal 1750, è molto
migliorata”.153
Vero è invece che la carica anti nobiliare è congenita alla
151 Certamente Rousseau si rende conto della questione quando afferma: “prima
d’osservare bisogna costruirsi delle regole per l’osservazione: bisogna costruirsi una scala
per rapportarvi le misure che si prendono” (Emilio, V); ma il problema della misurabilità è
difficilmente aggirabile, se è vero che l’animo ed il comportamento non si possono
soppesare.
152 Cfr. J. J. ROUSSEAU, Emilio, I.
153 Cfr. J. ELLUL, Storia delle istituzioni cit., p. 162.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
103
diffusione delle idee egualitarie, per loro natura incompatibili con
l’affermazione di qualsiasi privilegio ereditario (anche se, come si è visto,
per la nobiltà non si trattava di un ordine chiuso in assoluto).
È lecito ricercare quale visione di uguaglianza (tradizionalmente
uno dei tre pilastri dell’iconografia rivoluzionaria ed il cui valore
evocativo non venne rinnegato nemmeno in età napoleonica, che aveva
raccolto tutta l’eredità della Rivoluzione) può essere maturata nel contesto
culturale che si è descritto.
Per ottenere una risposta è già indizio come, fin dal suo primo
manifestarsi nella storia, si sia sentita l’esigenza di discriminare
l’eguaglianza formale da quella di fatto.
Se i due termini paiono parzialmente assimilabili essi occultano in
verità un insanabile contrasto: “è sul terreno dell’uguaglianza dei diritti
(...) che fiorisce l’infinita differenziazione degli individui, poiché essa
apre una prodigiosa carriera alla concorrenza dei talenti, una società
sempre più omogenea fa nascere un’umanità sempre più eterogenea”.154
La differenza pare nutrire le sue radici nella ineliminabile condizione di
relatività che si accompagna al concetto di identificazione tra diversi. Non
è logicamente ammesso definire l’uguaglianza in assoluto bensì nei
confronti di un altro termine valido come punto di riferimento:155
se
invece si rimane all’interno di un modello numerico-matematico ecco che
allora la idea di parità assoluta ed irrelata trova la sua dimensione
congeniale. Precisamente la frazione matematica è l’elemento logico che
solo può portare l’immagine di una perfetta sovrapponibilità
(equipollenza, si direbbe in geometria) degli elementi.
Nella categoria matematica, però, l’idea è bastante a sé stessa, non è
impulso in un procedimento dinamico, né può costituzionalmente esserlo
poiché, in tal caso, perderebbe la sua stessa ragion d’essere di modello
astratto.
Una volta che si sia raggiunto l’accordo sul punto, però, tertium non
datur: o si rinuncia a trasferire nella dimensione reale come fonte
154 Cfr. M. OZOUF, voce Egalité, in F. FURET – M. OZOUF (a cura di), Dizionario
della rivoluzione francese cit. Il passo commenta la posizione espressa da CONDORCET in
un Esprit de la révolution, edito solo nel 1815.
155 “L’uguaglianza in un’accezione quantitativistica e fenomenica è contraddittoria
perché è un concetto che importa sempre la relazione.” Così osserva F. ZANUSO, Conflitto
e controllo sociale nel pensiero politico-giuridico moderno, Padova 1993, p.18, in nota.
COLLEGIO PERFETTO E DELEGA
104
d’impulso la dimostrazione logico-geometrica, rispetto alla quale essa è
indifferente proprio a causa della postulata convenzionalità, o si è costretti
a rifarsi, per sostenere le proprie conclusioni, al patrimonio di capacità
intuitive dell’individuo, senza poter utilizzare la via di una rassicurante
dimostrabilità.
La falsa prospettiva che ha invece formato il terreno su cui è
cresciuta la Rivoluzione, riferita da Cochin alle società di pensiero e ad un
fantomatico “partito senza nome”, ma che si è notato tratto rinvenibile
anche tra le pieghe del procedere argomentativo di Rousseau, come
nell’esempio dell’Emilio, consiste proprio in una posizione ambigua, in
una sintesi impropria: figlia di uno schematismo astratto, essa aspira
tuttavia ad essere imparentata con un’esigenza collettiva concreta ed
ineliminabile.
L’esito, con il problema così impostato, non può che avere come
risultato un’alternativa: o la professione di un’eguaglianza reale,
comportante la non considerazione (o soppressione) dell’elemento della
diversità, od un’eguaglianza formale venata di ipocrisia e comunque
aberrata rispetto alle intenzioni. “Questa rivoluzione malata di
uguaglianza non partorisce affatto una società senza distinzioni. Al
contrario, l’esistenza di una norma identica acuisce il gusto delle
distinzioni, le fa nascere da dislivelli minimi e simbolici, le rende ad un
tempo intollerabili e continuamente sgorganti”.156
È lecito pervenire alla considerazione di una rivoluzione giacobina
come diretta discendenza di un nuovo modo di intendere i limiti della
soggettività, tratteggiata nei termini di frazione matematica, ed al trionfo
di una nebulosa égalité, nel senso di un’identica soggezione ad un moi
commun fonte e garanzia del legame sociale.
In questo senso, più che una stretta eredità di Rousseau nei
confronti dei giacobini, è opportuno piuttosto pensare ad una pari
derivazione da un ceppo comune, da un medesimo ambiente che ha
trovato nel Ginevrino una delle più compiute realizzazioni letterarie e
filosofico-politiche, e nell’interpretazione degli uomini d’azione del
terrore un’applicazione concreta sulle istituzioni pubbliche; applicazione
che, come si vedrà, non si poteva dire affatto portatrice di un’intima
coerenza quanto alle idee professate, ma piuttosto riscopriva un filo
156 M. OZOUF, voce Égalité, in F. FURET- M. OZOUF (a cura di), Dizionario della
rivoluzione francese, cit.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
105
conduttore nella progressiva e continua eliminazione purificatrice degli
oppositori politici, simbolo di una diversità da negare.
In effetti, restringendo lo studio al merito delle idee, e fondando
solo su questo piano la presunta astrattezza della Rivoluzione, si espone il
fianco a tutta una serie di critiche;157
ma, come si è cercato di evidenziare,
l’attenzione è piuttosto da incentrare su di un metodo di conquista e di
esercizio del potere, poggiante su di un’astratta e distorta percezione
dell’alterità e della soggettività, Relativamente a ciò, è ora matura la
possibilità di spostare l’indagine su di un istituto giuridico, questa volta di
originaria matrice privatistica, il diritto di rappresentanza, cui
generalmente è riconnessa una funzione di espansione e di affermazione
individuale in seno al corpo collettivo, al fine di sondare se anch’essa, ed
eventualmente in che misura, abbia modificato i suoi termini alla luce dei
nuovi strumenti ideologici.
“Appena il servizio pubblico cessa di essere la principale
occupazione dei cittadini, ed essi preferiscono servire con la propria borsa
piuttosto che di persona, lo Stato è già prossimo alla rovina.” Così si apre
il capitolo XV del libro terzo del Contrat social, intitolato “Deputati o
Rappresentanti”.158
Quando si parla di rappresentanza e di Rousseau si pensa a due
termini inconciliabili, a due entità reciprocamente escludentisi.
Sovvengono le non a caso più famose e lapidarie affermazioni del
Ginevrino, quasi sentenze inappellabili sull'istituto. "La volontà generale
non si rappresenta: o è essa stessa, o è un'altra; non c'è via di mezzo. I
deputati del popolo non sono dunque né possono essere i suoi
rappresentanti; ma solo i suoi commissari; non possono concludere niente
in modo definitivo. Ogni legge che non sia ratificata dal popolo in persona
è nulla; non è una legge." In una formidabile sequenza di periodi brevi e
157 Per tutte quella di Aquarone: “Tutto il mito della cosiddetta astrattezza della
rivoluzione francese (...) non regge da tempo alla critica anche se, sia pure indirettamente,
esso continua ad esercitare la sua presa su molte interpretazioni (...). Alla creazione ed alla
vitalità di questo mito hanno contribuito, come è noto, prima Burke e poi Taine, seguiti più
o meno da tutta la storiografia di tendenza moderata e conservatrice cui non è sembrato
vero di poter liquidare tutta la rivoluzione sotto l’accusa di non essere stata altro che il
tentativo, necessariamente votato al fallimento, di trasferire sul piano della realtà le
inattuabili elucubrazioni di teorici non privi, forse, di buone intenzioni ma incapaci di
comprendere la natura umana” A. AQUARONE, Due costituenti settecentesche cit., p. 109.
158 Cfr. J.J. ROUSSEAU, Il Contratto Sociale, in Scritti Politici, a cura di P. Alatri,
1970, p. 800
COLLEGIO PERFETTO E DELEGA
106
concisi, con un'incalzante progressione di affermazioni perentorie, la
rappresentanza viene indicata come la causa della rovina dei popoli e
degli Stati. Poi, dopo aver attaccato il sistema costituzionale inglese,
Rousseau individua la radice della mala pianta rappresentativa
nell'esecrabile feudalità, indicando invece come retto esempio di governo
il sistema dell'antichità classica. Bisogna veramente dedurne che la
rappresentanza è assolutamente respinta da questo pensatore, come appare
prima facie? Crediamo di no.
In primo luogo lo stesso Rousseau, poche righe dopo, sembra
ammettere la possibilità, addirittura la necessità, della rappresentanza nel
potere esecutivo: se una legge è tale solo se approvata direttamente dal
popolo, la sua applicazione può essere delegata all'organo governativo, al
modo dei littori romani. Si tratta di un pensiero derivato dal Montesquieu:
la sfiducia del barone nel popolo è pressoché totale, tanto da negargli
l'esercizio della maggior parte dei diritti, cosa di cui sarebbe
completamente incapace. Rousseau nutre invece la più completa fiducia
nella volontà generale, sempre retta, ma concorda con l'affermazione del
Secondat: l'esecuzione delle leggi deve essere affidata a persone capaci,
più portate di altre negli affari di Stato. Se la formazione della volontà
generale deve essere il frutto del riconoscimento del bene, la sua
attuazione ben può essere affidata a pochi. Non sembra farsi problema di
capacità. In realtà appare manifesto che questa "rappresentanza"
dell'esecutivo non costituisce un'eccezione al pensiero generale negativo
del Ginevrino sull'istituto. A ben guardare infatti, non di rappresentanza si
tratta, ma di una delega, di una commissione ad eseguire.
Possiamo ricostruire il ragionamento in questo modo: la sovranità è
del popolo, che la manifesta nella volontà generale, all'attuazione della
quale sono incaricati i membri dell'esecutivo, che organizzeranno cose e
persone per la sua attuazione.159
Una volta descritto il processo di
formazione della volontà generale e accertato che questo sia avvenuto
correttamente, non vi sono pericoli per la sopravvivenza dello Stato
nell'incaricare dell'amministrazione una parte sola dei cittadini. Le
preoccupazioni e le cautele che assistono la formazione della volontà
generale, non sussistono quando si tratta di metterla in pratica. Una
eventuale difformità tra quanto disposto dalla legge e quanto attuato dal
159 Sulla distinzione tra governo e amministrazione, cfr. F. GENTILE, Intelligenza
politica e Ragion di Stato, II ed., Milano, 1984, p. 121 ss., nonché ai riferimenti supra alle
note 97 e 107.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
107
governo, sarà sotto gli occhi di tutti ed un eventuale processo di
responsabilità nei confronti degli amministratori non darà comunque
problemi di sorta.
Adesso preme vedere se anche nel potere legislativo, il popolo
possa essere rappresentato nella costruzione del Ginevrino. Occorre allora
vedere cosa sia per Rousseau la rappresentanza. Dal testo appaiono due
idee, ma non sempre distinte, anzi a volte sovrapposte o intercambiate.
La prima è assimilabile al nuncius: un sistema di commissari,
vincolati strettamente alle istruzioni ricevute, dei portavoce del popolo,
niente più che strumenti di trasmissione: per nuncium, quasi per litteras.
Per evitare che compromettano la volontà popolare, interpretandola, sono
ulteriormente limitati dalla non definitività delle loro dichiarazioni e dalla
necessità di ratifica. Si tratta dello specifico status del diplomatico Ancien
Régime, così come disegnato ancora dal Richelieu e che qui viene ripreso
in pieno. La seconda accezione raccoglie in sé tutta la negatività
dell'istituto. Rappresentante è qui sinonimo di mercenario, di mercante
degli interessi pubblici per la propria convenienza, di irresponsabile
traditore della volontà popolare. Da tutto ciò possiamo derivare due
elementi che ci saranno utili nel prosieguo del nostro cammino di ricerca.
Primo: le due idee di rappresentanza di Rousseau corrispondono l'una a
quello che tradizionalmente è chiamato assoluto rapporto, l'altra
all'assoluta situazione. Infatti a ben guardare il rappresentante-mercenario
non ha alcun rapporto di responsabilità con i suoi elettori, è pura
situazione; parimenti il commissario non ha dignità di esistenza propria,
vincolato com'è a chi lo ha incaricato, è puro rapporto. Secondo e
conseguente: il Ginevrino non riconosceva nella rappresentanza alcuna
struttura dualica.
A questo punto, per comprendere appieno la costruzione in esame,
conviene richiamare il procedimento di formazione della volontà generale
che, com’è noto, costituisce la chiave di volta di tutto il sistema del
Nostro. I cittadini riuniti in assemblea, ponendo avanti al proprio
l'interesse generale, riconoscono il bene comune, la volontà generale, che
preesiste alla votazione assembleare, ma che si manifesta
inequivocabilmente nella volontà della maggioranza. Si è fatto
giustamente notare come in tal modo Rousseau, all'opposto di Aristotele,
subordini l'esistenza della comunità al regime, riconoscendola solo nella
democrazia diretta.160
160 Anche per la distinzione tra comunità e regime, cfr. F. GENTILE, Intelligenza
politica e Ragion di Stato, II ed., Milano, 1984, p. 137 ss.
COLLEGIO PERFETTO E DELEGA
108
In tale costruzione non vi è, non vi può essere spazio per la
rappresentanza come la conosceva Rousseau, per come era praticata ai
suoi tempi. Non può trovare spazio il rappresentante-mercenario, perché
l'irresponsabilità nei confronti degli elettori che lo caratterizza
inquinerebbe irrimediabilmente la comunità, impedendo il riconoscimento
del bene comune. Parimenti non può trovare spazio il commissario, privo
di identità propria, che al massimo può applicare quanto già deciso,
tradendo così la formazione della volontà generale, anteponendo il
particolare al generale.
Essendo infatti il portatore di volontà non espresse in assemblea,
ma precedenti a questa, la sua dichiarazione di voto, pur se fedele alle
istruzioni ricevute, non può essere riconoscimento di bene comune in
assemblea. Perché lo fosse, occorrerebbe che il rappresentante non fosse
vincolato da istruzioni, ma, dopo la discussione assembleare, riconoscesse
il bene comune, secondo la propria coscienza. Non potrà seguire le
istruzioni degli elettori, perché questi non avendo partecipato alla
discussione non sarebbero in grado di operare convenientemente. In altri
termini, il commissario si troverebbe in questa infelice situazione: se
segue le istruzioni ricevute, porta in assemblea delle volontà precostituite,
che non sono il frutto della discussione assembleare, preesistendo a
questa, anzi limitandola e condizionandola, fino ad impedire il
riconoscimento del bene comune, ma consentendo al massimo una somma
algebrica di volontà singole; al contrario se partecipa alla discussione e
procede al riconoscimento del bene comune, potrebbe tradire le consegne
dei mandanti, comunque espropriandoli del loro diritto al concorso nella
formazione della volontà generale, il cui prodotto non riconosceranno più
come proprio, sottraendosi “legittimamente” all’obbedienza verso le leggi.
Inoltre in questa seconda ipotesi, il commissario scivolerebbe verso
una pericolosa confluenza con la figura del rappresentante mercenario,
condividendone le tentazioni egoistiche che derivano dall'indipendenza.
Di fronte a siffatta eventualità, la dottrina americana, pressoché
compatta da un secolo, indicherebbe al deputato di votare, dopo la
discussione, secondo quelli che in coscienza ritenga essere gli interessi dei
propri elettori, poiché questa, secondo tale corrente di pensiero, che trova
radici nel celebre discorso di Burke, sarebbe la vera natura non della
rappresentanza tout-court, ma della rappresentanza c.d. "politica". Già
abbiamo messo in evidenza come fondare, anzi giustificare, su diverse
strutture la rappresentanza di diritto privato e quella così detta politica, sia
indice della difficoltà di comprendere l'istituto, di cogliere il concetto di
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
109
rappresentanza in sé stesso: "entia non sunt moltiplicanda", ammoniva già
Farinaccio.
Alla proposta "americana", dunque, Rousseau si opporrebbe
fermamente per due ragioni: una pratica e una di principio che la sottende.
La prima, immediata, è che in questo modo si degenererebbe dalla figura
del commissario a quella del rappresentante-mercenario. È indubitabile,
per Rousseau, che il rappresentante al momento della votazione,
contrabbanderebbe per interessi degli elettori il proprio tornaconto. Questa
opinione è una costante che derivata, come già detto, da Montesquieu,
attraverso il Ginevrino, ritroveremo nel pensiero degli enciclopedisti.
La seconda ragione è di principio: se i mandanti o in questo caso gli
elettori, non hanno partecipato alla discussione, non possono procedere al
riconoscimento della volontà generale. Anche qualora l'eletto al momento
della votazione si rappresentasse gli interessi degli elettori e dovesse
votare di conseguenza senza anteporre il proprio al loro interesse, si
ricadrebbe nel soggettivismo di un'interpretazione personale, particolare,
partigiana e settaria. Il prodotto dell'assemblea non sarebbe più allora la
volontà generale, ma la somma algebrica di volontà singolari: il
meccanismo del contratto sociale a questo punto si inceppa. Se infatti il
cittadino riconosce nella legge la propria volontà e vi si sottomette
liberamente, ciò avviene solo se ha direttamente partecipato, se è
personalmente intervenuto nel momento formativo della legge stessa, che,
si badi bene, non è una volontà, ma il riconoscimento di una volontà
comune. Con questo infatti, il Ginevrino non esce dell'ottica volontaristica
della legge, dalla prospettiva costrittiva, eteronoma, del diritto. Il fascino
della costruzione sta tutto nell'identificazione della propria volontà con
quella generale, anche se questa poi si riduce a quella della maggioranza.
L'inammissibilità della rappresentanza come conosciuta da
Rousseau è allora conseguenza logica indefettibile e vale qui la pena di
anticipare fin d'ora come tale conseguenza non sia tratta da Sieyès, che
pure, si vuole161
prendere le mosse da posizioni simili. Non partecipando
all'assemblea, il cittadino si sentirà defraudato, estraneo alla volontà della
legge e conseguentemente legittimato a disobbedirvi.
Come si vede, nemmeno un giudizio di responsabilità dell'eletto
verso gli elettori, nemmeno la prova per "prognosi postuma", che proprio
161 L'affinità concettuale tra Rousseau e Sieyès è sostenuta anche da Carré de
Malberg, cfr. infra nel testo. Certo, l’assonanza è corale nella disinvolta equiparazione di
volontà generale con la volontà della maggioranza.
COLLEGIO PERFETTO E DELEGA
110
in quel modo i mandanti avrebbero votato se fossero stati presenti,
potrebbe giustificare l'ingresso dell'istituto nella costruzione del
Ginevrino. Infatti, qui non è in gioco la fedeltà dei mandatari, ma la
suggestione dei cittadini nel riconoscere nella legge la propria volontà ed
assoggettarvisi. La riprova è che anche i commissari, fedeli latori della
volontà delegata "non possono concludere niente in maniera definitiva",
ma il loro operato deve essere ratificato dal popolo in persona e,
aggiungiamo noi, naturalmente in assemblea. Solo la partecipazione
diretta e personale infatti, mantiene in vita la comunità, solo la democrazia
diretta garantisce la cosa pubblica. È l'ulteriore conferma che in Rousseau
il regime aggrega la comunità. Più che di "monismo" così come definito
nel primo capitolo, a proposito di Rousseau si potrebbe parlare di
"personalismo". Ciò che gli impedisce l'ammissione della rappresentanza
non è tanto la stringente necessità di ricondurre ad unità il sistema del
diritto, facendo capo ad uno ed un solo centro di imputazione degli
interessi, quanto piuttosto il carattere a funzionamento necessariamente
personale della sua concezione di comunità/regime.162
Si tratta del
carattere necessariamente unitario, singolare, che deriva dalla cogente
partecipazione personale alla vita pubblica, necessario corollario
dell’unicità dell’uomo, tematizzata in partenza. A questo punto chiedersi
se Rousseau riconosca o meno il carattere dualistico della rappresentanza
diventa superfluo.
Lo scopo del contratto sociale è di costringere gli uomini ad essere
liberi, permettendo, (ed imponendo) a tutti di concorrere alla formazione
di quella volontà cui dovranno poi ubbidire per garantire la convivenza.
L'identificazione della propria volontà con la legge assicura la miglior
garanzia del rispetto della legge stessa. Ed è per questo che essa deve
essere fatta da tutti ed insieme. Laddove i rappresentati riconoscessero in
quella dei rappresentanti la propria volontà così come la riconoscono nella
legge, alla cui formazione hanno direttamente concorso, Rousseau forse
162 Sarà appena il caso di ricordare che la “comunità” di Rousseau è comunque
fondata sulla forza eteronoma della legge: il sovrano c’è anche se impersonale, quale
prodotto di una volontà assembleare cui hanno partecipato tutti i portatori della propria
individuale sovranità, per quell’equazione algebrica, secondo la quale ciascuno riceve per
contropartita dagli altri quanto ha rinunciato a loro favore. Sul punto specifico rinviamo a
F. GENTILE, Intelligenza politica e ragion di stato, II ed. Milano, 1984, p. 161 e ss.; per i
presupposti ipotetici di questa costruzione, si veda altresì IDEM, Le jeu politique du
promeneur solitaire (relazione al congresso “Jean Jaques Rousseau et la crise
contemporaine de la conscience”, tenutosi a Chantilly nel settembre 1978, in occasione del
bicentenario della morte del filosofo), in “RIFD”, 1978, p. 861.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
111
non avrebbe dubbi ad ammettere una volontà comune rappresentativa. Ma
quest'ulteriore tentativo di quadratura del cerchio non è nella sua opera.
Paradossalmente, respingendo le mistificanti finzioni della
rappresentanza così come allora intesa, è proprio Rousseau a richiamare
l'attenzione sui problemi connessi all'istituto. Dopo di lui infatti nessuno
potrà più parlare di rappresentanza o proporre l'inserimento di tale istituto
in una costituzione senza tentare di ridefinirlo, di perfezionarlo, senza
confrontarsi in sostanza, con le critiche rousseauiane.
È questo il ruolo di Rousseau nello studio della rappresentanza, il
ruolo di pars destruens: l'aver smascherato gli abusi compiuti dietro il
nome di rappresentante.
Ma un'ulteriore annotazione merita di essere fatta. È interessante
infatti il riferimento all'ultimo passo del capitolo citato, ove si riconosce la
funzionalità della democrazia diretta solo nei piccoli Stati, ma è ben
presente altresì la necessità di costituire Stati sufficientemente estesi da
potersi difendere. Rousseau si richiama alla confederazione, che pure non
arriva a trattare. Doveva forse essere il luogo in cui proporre una forma
retta di rappresentanza, per coniugare le volontà confederate alla volontà
confederale.
È quanto sembra affermare in uno spunto che si trova nelle
considerazioni sul governo della Polonia, dove si propone la democrazia
diretta per le piccole diete, in sostanza per il governo locale, e un sistema
di mandati vincolati, di commissari, per la dieta generale. Tuttavia il
primo consiglio ai governanti polacchi è di ridurre i propri confini. Qui, a
nostro avviso, il Ginevrino si rappresenta chiaramente le difficoltà di
attuazione pratica della democrazia diretta. Rousseau ne è consapevole
quando paradossalmente consiglia una riduzione territoriale per garantire
un buon governo e la crescita della comunità. I polacchi, come ogni
popolo, saranno felici solo se potranno dotarsi di una democrazia diretta,
regime aggregante la comunità, ma per avere una democrazia diretta
funzionante occorre avere un territorio piccolo. Quando, come detto, i
piccoli Stati devono confederarsi per raggiungere la sicurezza tra i vicini,
allora si ripropone la necessità della rappresentanza che, non senza
imbarazzo, viene risolta con il mandato imperativo, con l'uso di
commissari nelle assemblee di secondo grado. Non senza imbarazzo,
abbiamo detto, perché si ripresenta il problema chiave del Contratto
Sociale, il fondamento dell'obbedienza alle leggi: il cittadino che non ha
votato la legge, non la riconoscerà come la sua volontà. "Ogni legge che
COLLEGIO PERFETTO E DELEGA
112
non sia ratificata dal popolo in persona è nulla; non è una legge." Così
come Napoleone, anche Rousseau si impantana nel fango polacco.163
Ma un ultima considerazione del Ginevrino deve essere qui
ricordata: occorre costringere i rappresentanti a fare "un rigoroso
rendiconto della propria condotta alla dieta".164
È l'esigenza di
responsabilità che emerge, ma che non viene presentata come carattere
essenziale della rappresentanza. Per il momento occupa il posto di un
correttivo alla corruttibilità dei deputati, affiancata in questo dal rinnovo
frequente delle camere. Tuttavia si differenzia da quest'ultimo per l'intimo
carattere strutturale che riveste: altro è un deputato che sta in carica per
poco tempo, altro è un deputato che deve rispondere di ciò che ha fatto nel
breve o lungo periodo di mandato. La responsabilità implica il
riconoscimento di un soggetto distinto dal rappresentante: il rappresentato.
È un passo verso il dualismo ed è una garanzia del suo mantenimento.
163 L’aneddoto è tratto da una lettera di Napoleone a Talleyrand durante la
campagna di Russia: "Dio ha creato per la Polonia un quinto elemento: il fango!" citata da
D. CASTELOT, La diplomazia del cinismo, trad. it. Milano, 1982, p. 180.
164 J. J. ROUSSEAU, Considerazioni sul Governo della Polonia, in op. cit. p. 1151.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
113
3.1.2 Delega e rappresentanza virtuale
TEORIA DELL’INDIVIDUAZIONE DEI RAPPRESENTANTI IN DIPENDENZA DELLE LORO CAPACITÀ
TECNICO SCIENTIFICHE: CRITICA E RINVIO – TEORIA FISIOCRATICA DELLA DELEGA DEL
GOVERNO AI SOGGETTI CHE HANNO IL PROPRIO INTERESSE MAGGIORMENTE CONNESSO CON
LA PROSPERITÀ PUBBLICA: GRANDI PROPRIETARI – NECESSITÀ DI TEMPERARE TALE DELEGA
CON L’INCARICO ANCHE A SOGGETTI ILLUMINATI: FUNZIONARI PUBBLICI E STUDIOSI –
CRITICA E RINVIO – CONCLUSIONE: LA COSTRUZIONE DELLA RAPPRESENTANZA VIRTUALE E
LO SPEECH DI BURKE.
Sul tronco del pensiero illuminista, comune alla riflessione
rousseauiana, si innestano le posizioni degli enciclopedisti, sviluppi a
volte originali, a volte sincretistici delle idee più varie, comunque
rielaborati per lo scopo finale della Enciclopedia: dare il carattere di
esaustività e completezza per ogni voce trattata in un tutto organico e
coerente nell'insieme. E ciò tanto per la parte prima, relativa alla scienza
della natura, quanto per la parte seconda relativa alla società e al diritto. È
appena il caso di sottolineare la simmetria formale che ne sottende una di
metodo: la purezza illuministico-scientifica della trattazione, al di là ed al
disopra di ogni mistificante metafisica.
È interessante notare fin d'ora come buona parte della voce
Représentants della Encyclopédie di Diderot e D’Alembert sia dedicata ad
una ricostruzione storica di carattere economico politico, della
distribuzione del potere tramite la rappresentanza, con un sottile accenno
critico ed un'attenzione al modello francese dei tre stati, esteso però a
carattere generale. Si fa riferimento ai barbari che smembrarono l'impero
romano, ai guerrieri che si impossessarono delle terre e con questo titolo,
per lungo tempo pretesero di parlare in nome delle nazioni. Questi feroci e
grezzi nobili conquistatori furono poi costretti a riconoscere chi era più
colto e ragionevole di loro, cioè il Clero. Lo stesso sovrano ne favorisce
l'ingresso nel potere, per controbilanciare la Nobiltà e in ossequio ai
rilevanti possedimenti che nelle sue mani si erano concentrati.
Sembrerebbe contestarsi la pretesa dei primi due ordini di parlare e di
"rappresentare" solo in virtù dei propri beni, richiamando, con l'autorità di
Edoardo I, la necessità che le cose comuni siano decise in comune.165
Ma
andiamo con ordine.
165 Sintesi di un aforisma riportato da William Petty in The Ancient Rights of
Commons of England Asserted, cit. in DIDEROT & D'ALAMBERT Enciclopedia, trad. it. Bari
1968 p. 837: "Sicut lex justissima provida circumspectione sacrorum principium stabilita
Hortatur et statuit ut quod omnes tangit ab omnibus aprobetur, sic et nimis evidenter ut
communibus periculis per remedia provisa communiter obvietur.
DELEGA E RAPPRESENTANZA VIRTUALE
114
Al contrario di Rousseau, il modello degli Enciclopedisti non
andrebbe ricercato né nella democrazia greca, né nella repubblica romana,
quanto piuttosto nel libero ordinamento degli antichi Germani e nella
monarchia dei Franchi.166
Naturalmente non si tratta di un semplice
ritorno al passato, quanto di un connubio tra l'originaria libertà nazionale
con i progressi e le conquiste della nuova era: la moderna economia e
cultura che segna l'avvento della borghesia. Infatti tutti questi pensatori
sono intimamente "borghesi" nel loro modo di pensare pieno di
un'incontenibile voglia di creare. Tuttavia, a questo proposito, ogni
generalizzazione può risultare fuorviante. Ad onta infatti del metodo
omogeneo, "scientifico", "illuminato", che programmaticamente, abbiamo
visto, doveva sostenere la formazione dell'Enciclopedia, costituendone
uno degli elementi di maggior pregio, chi cercasse una posizione chiara,
univoca, per tutta l'opera, resterebbe sicuramente deluso. La diversità nelle
posizioni di Boucher d'Argis autore della voce Etats et Parlements da un
lato, e quelle di Jaucurt (Monarchie élective e Monarchie limitée) e
Diderot (Représentants) dall'altro, indica chiaramente come sia
impossibile ridurre ad unitarietà il pensiero degli Enciclopedisti intorno
allo Stato. Tutto ciò è dovuto sia all'elevato numero dei collaboratori, sia
ai diversi tempi di elaborazione, ma soprattutto ad una diversità tra
posizioni teoriche e pratiche politiche; per questo senza minimizzare la
funzione aggregante ed unificatrice che esercitò Diderot. Occorre
analizzare la sua voce Représentans per avere un'idea della situazione di
pensiero alla vigilia degli Stati generali. L'analisi potrebbe cominciare
proprio muovendo dal dibattito sulla paternità di questo testo: dapprima
ascritto a Diderot, ora sembra sicuramente da attribuirsi al barone
d'Holbach. Comunque nella voce figura ampio materiale tratto dalla
fittissima corrispondenza tra i due soprattutto in relazione al viaggio in
Inghilterra di d'Holbach e su cui avremo agio di tornare.
Così esordisce il barone: "I rappresentanti di una nazione sono
cittadini scelti che in un governo temperato sono incaricati dalla società di
parlare a suo nome, trattare i suoi interessi, impedire che la si opprima,
contribuire all'amministrazione".167
Il primo requisito dei rappresentanti
166 Cfr. E. WEISS, Geschichtsschreibung und Staatsaufassung in der Französischen
Enzyklopädie, Wiesbaden, 1956, p. 47, nonché J. LOUGH, The Encyclopédie, London, 1971
e J ROELS, La notion de représentation chez Roederer, Heule, 1968, 54 e ss.
167 Citiamo dall'edizione italiana curata da P. CASINI, Bari, 1968, p. 829 ss. Per altri
interessanti osservazioni sul punto si rinvia ai saggi raccolti nel volume curato da H.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
115
quindi è una certa qualità personale ancora non ben definita, comunque
chiaramente il quivis de populo non può essere rappresentante. Questi
uomini virtuosi parlano a nome della società, manifestandone i bisogni e
curandone gli interessi. In terzo luogo sono argine al potere del sovrano,
impedendo che opprima la nazione, per questo partecipano
all'amministrazione. Tutto ciò però può avvenire solo nelle monarchie
temperate. Infatti: "nelle monarchie temperate, il sovrano è depositario
soltanto del potere esecutivo; rappresenta la nazione soltanto per questo
aspetto, ed essa sceglie altri rappresentanti per le altre branche
dell'amministrazione." È il caso di sottolineare una distinzione che
ritroviamo espressa chiaramente per la prima volta, pur se le suggestioni
risalgono, evidentemente, allo scritto di pochi anni precedente, di un altro
barone, quello di Montesquieu.
Holbach ritiene superficialmente pacifica e naturale la negazione
del presupposto contrattualistico hobbesiano: l'ammissibilità della
rappresentanza parziale. La cosa stupisce se si pensa che condizione
essenziale nella maggior parte delle dottrine contrattualistiche dello Stato
moderno è la totale delega, anzi la completa rinuncia di ogni potere in
capo al sovrano, sia esso un singolo o una assemblea. Ne consegue, come
abbiamo visto, l'annichilimento del singolo nel sovrano, se non nei diritti
fondamentali (irrinunciabili secondo Locke), almeno per quanto riguarda
l'ammissibilità della rappresentanza. Da qui le difficoltà che incontra
l'istituto in esame nel pensiero di alcuni autori moderni.
L’inammissibilità della rappresentanza deriva dall'aver ridotto tutto
l'ambito del diritto nello Stato e dall'aver poi costruito quest'ultimo ad
immagine e somiglianza dello stato di natura, dell'unico, di colui che non
ha rapporti che con se stesso, la negazione della giuridicità. Tuttavia non
sarà difficile al lettore attento individuare un'astuzia negli scritti degli
autori più raffinati. In forme più o meno esplicite si è parlato del sovrano
come rappresentante del popolo, quasi a giustificarne da un lato la
posizione di preminenza e dall'altro l'ubbidienza ai comandi. In questo
senso è appena il caso di ricordare che, nella formulazione più rigorosa, il
RAGOTZKY e H. WENZEL, Höfische Repräsentation. Das Zeremoniell und die Zeichen,
Tübingen, 1990; H. HOFMANN, Bilder des Friedens oder die vergessene Gerechtigkeit.
Drei anschauliche Kapitel der Staatsphilosophie, München, 1997. Il riferimento al
governo temperato non deve lasciar pensare ad una democrazia, quanto piuttosto alla
divisione dei poteri tematizzata dal Barone di Montesquieu nel 1748 e di larghissima
diffusione tra gli “illuminati” della generazione immediatamente successiva, ai quali si
iscriveva l’autore in esame.
DELEGA E RAPPRESENTANZA VIRTUALE
116
singolo debba "rappresentarsi" la condanna capitale come un suicidio.
Tutto ciò, lo si è già intuito, non è rappresentanza, piuttosto si può definire
immedesimazione. Proprio il frontespizio dell'edizione originale del
Leviathan è illuminante a proposito. Si vede infatti un re con tutti gli
attributi della sovranità che domina sul mondo, ma a ben guardare il suo
corpo, simile ad una maglia di ferro delle corazze medioevali, è composta
da tanti piccoli uomini, i sudditi per l'appunto, che quindi, anche
visivamente, lo costituiscono.
Hobbes non può permettere che i sudditi, i contraenti, rinuncino
solo ad una parte delle proprie pretese in favore del sovrano, poiché
sarebbe ammettere che i sudditi hanno diritti all'infuori di quanto ottriato
dal sovrano e comunque da questo revocabile in ogni momento.
In altre parole, il presupposto comune alle più rigorose teorie
contrattualistiche è la totale delega, l'annullamento assoluto del suddito
nelle mani del sovrano. In questo modo il "rappresentante", il sovrano, è
pura situazione e non ha alcun rapporto con il "rappresentato", il suddito.
Anzi, nelle costruzioni più radicali, il sovrano è il solo che permane allo
stato di natura, nella totale incapacità di riconoscere gli altri.168
Ammettere
168 Cfr. F. GENTILE, Intelligenza politica e Ragion di Stato, II ed., Milano, 1984,
p.97 e ss. Invero, la difficoltà è percepita dalle varianti soft della geometria legale –si pensi
a Cusano e poi a Locke- che lasciano i diritti fondamentali stretti tra le mani dei consociati,
sicché un “eccesso di potere” da parte del “rappresentante” produce la condizione per
esercitare il diritto di resistenza e, al limite, lo scioglimento del Commonwealth. In questo
modo, però, l’autorità del sovrano è minata in radice, costituendo una capitis deminutio
che era già risultata inaccettabile per Hobbes e che, pur nella diversità di prospettive, sarà
respinta anche da Hegel. Più in particolare il teorico britannico dell’assolutismo aveva
esplicitamente escluso ogni possibilità di rappresentanza complessiva dei corpi intermedi,
demandandone l’opportuna delimitazione al potere supremo: se ogni corporazione si
potesse dotare di un “rappresentante” in toto nel senso vagheggiato da Hobbes, non si
avrebbe più un popolo ma una massa di individui, dacché il popolo è tale solo in quanto
“rappresentato” dal sovrano. Infatti, la personalità e la stessa soggettività giuridica del
popolo si riassumono nell’assoluta ed irrevocabile delega a volere in propria vece conferita
in capo a colui le cui “mani non legate” gli consentono di farsi maglio valere o
assolutamente valere. Questo profilo “assorbente” della rappresentanza (che ne costituisce
–è inutile ripeterlo- anche la negazione) non era sfuggito all’attento esame del sostenitore
del corporativismo tedesco, cfr. O. von GIERKE, J. Althusius und die Entwicklung der
naturrechtlichen Staatstheorien, Breslau, 1880, p. 252, trad. it. parziale Torino, (1943)
1975, p. 191; ma già anticipato in Das deutsche Genossenschaftsrecht, Darmstad, 1868. Su
queste osservazioni svolge la sua critica al Leviathan anche N. BOBBIO, Hobbes e le
società parziali, in IDEM, Thomas Hobbes, Torino, 1989, p. 175 e ss. A noi pare che la
correlazione tra “rappresentanza” nel senso espresso da Hobbes, personalità giuridica e
sovranità sia pervenuta fino al dibattito costituente italiano sulla sovranità popolare,
ipotecandone inconsapevolmente la riflessione; ne sono prova le difficoltà nelle quali si
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
117
allora che il sovrano "rappresenti" o meglio, sia delegatario per una parte
del suddito, che comunque vi sia un “altro” cui rendere conto, vuol dire
imporre al Re l'inquietante presenza di altro da sé, di qualcuno per di più,
da cui deriva il proprio potere: vuol dire togliere il sovrano dallo stato di
natura. Nemmeno i Monarcomachi erano arrivati a tanto.169
L'introduzione della rappresentanza parziale comporta l'esistenza di
due soggetti, il governante ed il governato, impedendo che il primo
fagociti il secondo: in questo senso si parla di monarchia limitata. Sebbene
tra il Leviathan e la Encyclopédie vi sia di mezzo il De l’esprit des lois e
la divisione dei poteri, lo stesso Hobbes aveva conosciuto e sperimentato
di prima persona la realtà di diversi centri di potere all'interno dello Stato.
Si può dire che molto prima di Montesquieu l'Inghilterra conoscesse un
parlamento diviso in due camere, un esecutivo ed un'amministrazione
della giustizia tutt'altro che sottomessa; e i riferimenti del Secondat verso
il sistema costituzionale della vicina isola sono numerosi e precisi.
Ora il carattere interessante in Holbach è proprio questa naturale
ammissione di una "rappresentanza" parziale. In questo modo l'equivoco e
le aporie dei moderni sembrano superate: per la possibilità che l'uomo sia
trovano immersi gli autori che si interrogano sulla portata dell’articolo primo della vigente
carta fondamentale: cfr. infra, § II.3.5.
169 Il fondamento popolare dell'autorità sovrana nel pensiero dei monarcomachi
non ne intacca il carattere di tutore unico dei governati. Il punto di partenza, la sovranità
popolare che viene delegata in capo al monarca perché assicuri il bene della comunità, può
far pensare all'esistenza di due soggetti, il popolo rappresentato e il sovrano rappresentante
che al primo deve rendere conto, eventualmente con la vita, veicolando così il dualismo
della rappresentanza. La questione, molto profonda, non può essere qui risolta, ma vale la
pena di indagare se si tratti di rappresentanza o di contrapposizione di poteri
autofondantisi: quello del tiranno e la sovranità del popolo. Tra le possibili varianti può
darsi la versione di Locke nel patto, storicamente verificatosi ed anzi rinnovantesi nel
tempo, tra monarca e popolo, oppure nel rapporto organico derivante dalla
“consanguineità” tra regnante e sudditi nella costruzione del Patriarca di Filmer.
Sull'argomento può essere interessante confrontare i contributi italiani antecedenti al
mutamento istituzionale di metà Novecento con gli studi più vicini a noi: cfr. A. RAVÀ, I
Monarcomachi, Padova, 1933; E. CROSA, La sovranità popolare dal medioevo alla
Rivoluzione francese, Torino, 1915; F. ERCOLE, Da Bartolo all'Althusio, Firenze, 1932; C.
GIACON, La Seconda Scolastica, Milano, 1950; nonché, più recentemente il corposo e
denso saggio di B. NICOLLIER, Hubert Languet: un réseau politique international de
Melanchthon à Guillaume d’Orange, Genève, 1995. Per la critica di Locke a Filmer, che la
primogenitura politica di Adamo su tutto il popolo avrebbe ipotecato il carattere volontario
della rappresentanza nel monarca, cfr. I. HARRIS, The Mind of John Locke, Cambridge,
1994, p. 235.
DELEGA E RAPPRESENTANZA VIRTUALE
118
allo stesso momento anche cittadino, cioè ad un tempo portatore di diritti
e delegante dei poteri dello Stato.
Ma occorre fare attenzione e raffrontare ancora una volta la
struttura della rappresentanza con quanto proposto da Holbach. In effetti
sembrerebbe che la delega parziale salvi l'esistenza del delegante che
mantenendo ancora in capo proprio quanto non ha trasferito al delegatario,
non è assorbito da quest'ultimo. Tuttavia la sola delega non è
rappresentanza, difettando il ruolo del rappresentante eikòn come lo si è
definito supra. Non bisogna cioè essere tratti in inganno confondendo il
dualismo insito nella monarchia limitata, con quello proprio della
rappresentanza. Se cioè la delega parziale impone di riconoscere il
delegante per quella parte di sé stesso che non è affidata al sovrano, non
garantisce il riconoscimento del rappresentato per quella parte in cui è
sottoposto al sovrano. In altri termini, per quanto è delegatario, il re, anche
nella monarchia limitata, potrà essere sola situazione, negando ogni
rapporto col rappresentato che cessa di essere tale in quello stesso
momento. All'interno della porzione delegata al sovrano occorrerà allora
vedere se quest'ultimo sia veramente eikòn, immagine fedele alla propria
natura di immagine, conscia di essere altro dalla realtà che rappresenta, a
prescindere dalla sua maggiore o minore fedeltà al modello. Solo in
questo caso dalla delega si passerà alla rappresentanza. All'opposto dove il
monarca limitato assuma i caratteri del fàntasma, dell'immagine che si
pone come autosufficiente, come alternativa, concorrente alla realtà
rappresentata, non sarà la parzialità della delega a salvare il dualismo
rappresentativo. Tuttavia, anche ammettendo che non di delega si tratti,
ma di autentica rappresentanza, la sua natura non dipende dal fatto che si
sia rappresentanti generali o solo per affari particolari. Non bisogna essere
tratti in inganno fondando la rappresentanza su criteri quantitativi anziché
qualitativi. In altri termini la rappresentanza non dipende dall'ampiezza
delle materie rappresentate: un rappresentate è tale o no a prescindere se
rappresenti in tutto o solo per determinate questioni il proprio
rappresentato.
Ad ogni modo l'ammissibilità di una rappresentanza parziale ha una
sua funzione specifica: è già una spia, un indice del rispetto della dualità,
se cioè ciò che viene rappresentato non copre la totalità del rappresentato,
è quantomeno un segno che la soggettività del rappresentato sussiste ed è
mantenuta, il primo indizio per una verifica. Questo è il pregio del
pensiero di Holbach, che pur non chiarendo, nemmeno interrogandosi
sulla natura della rappresentanza, teorizza la possibilità di scegliere diversi
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
119
"rappresentanti" per le distinte branche del potere in ossequio alla teoria
della divisione dei poteri di Montesquieu.
Tutto ciò non può avvenire nello Stato assoluto, dove il sovrano è
l'unico interprete dei cittadini, o per loro consenso o per arbitrio, come in
Turchia; in ogni caso il sovrano è tutto e la nazione è nulla. Lo stesso
ragionamento vale per le democrazie dirette, dove il popolo agisce
direttamente, senza l'opera di intermediari.
Ma ecco finalmente enunciate le qualità che rendono un uomo
rappresentante. "Nessun uomo per quanto illuminato, è capace di
governare un'intera nazione senza consigli ed aiuto; nessuna classe nello
Stato può avere la capacità o la volontà di conoscere i bisogni delle altre:
così un sovrano imparziale deve ascoltare la voce di tutti i suoi sudditi; è
ugualmente interessato ad ascoltarli e a por rimedio ai loro mali; ma
perché i sudditi si esprimano senza tumulto conviene che abbiano propri
rappresentanti, cioè dei cittadini più illuminati degli altri, più interessati
alla cosa pubblica, legati dai loro possedimenti alla patria, che per la loro
posizione siano in grado di rendersi conto dei bisogni dello Stato, degli
abusi che vi si introducono, dei rimedi occorrenti".
La rappresentanza proposta dal barone è quella indicata supra come
rappresentanza per conoscere: poiché il Re non può sapere tutto ciò che
avviene nei suoi stati occorre costituire rappresentanti atti a consigliarlo, a
"rappresentargli" le esigenze dei suoi popoli.170
Conseguentemente la
natura della rappresentanza si sposta sulle qualità del rappresentante: tanto
migliore sarà la rappresentanza quanto più illuminato sarà il
rappresentante. A questo punto si possono aprire le posizioni
ideologiche171
più disparate su chi sia "naturalmente" predisposto per
170 Secondo la formula arcaica, ripresa anche dal Luigi XVIII. L’aspetto linguistico
andrebbe sviluppato anche per l’idioma inglese, ove la medesima radice latina di popolus
si riscontra in people che, guarda caso, assieme a Parlament e Society esaurisce le ipotesi
di pluralia tantum di quella lingua.
171 Sulla struttura dell'ideologia, cfr. F. GENTILE, Intelligenza politica e Ragion di
Stato, II ed., Milano, 1984, p.187, ove ne viene stigmatizzata la caratteristica di “filosofia
simulata” che critica e giudica la realtà dal proprio punto di partenza acriticamente
(ideologicamente) assunto. Sotto altro profilo, pur sottolineando che si tratta di una
prospettiva senza tempo, che taglio cioè trasversalmente la storia del pensiero, l’Autore
non manca di informarci che il neologismo è opera di Destutt de Tracy in un’allocuzione
tenuta in pieno periodo rivoluzionario, nel programmatico intendo di sostituire la filosofia
con una “scienza” delle idee, con i caratteri propri ipotetico deduttivi.
DELEGA E RAPPRESENTANZA VIRTUALE
120
consigliare il sovrano e quindi necessariamente portato ad essere un buon
rappresentante.
Al tema della imperfezione del monarca, caro a d'Holbach, si
accosta la qualità dei rappresentanti i cui attributi sono la proprietà e la
distinzione intellettuale conseguente, sembrerebbe alla proprietà. “È
quindi nell'interesse del sovrano che la sua nazione sia rappresentata; ne
dipende la sicurezza personale... Una nazione privata del diritto di farsi
rappresentare è in balia degli impudenti che l'opprimono; si dissocia dai
suoi padroni... un popolo che soffre si affeziona per istinto a chiunque
abbia il coraggio di parlare a suo favore; si sceglie tacitamente protettori e
rappresentanti.”
Ed ecco finalmente chiarito cosa rende un uomo cittadino, è un
tema tipicamente fisiocratico: "... La proprietà fa il cittadino; tutti i
possidenti dello Stato sono interessati al bene dello Stato, e qualunque sia
la posizione assegnata loro da particolari convenzioni, è sempre come
proprietari, è in ragione dei loro possedimenti che devono parlare o
acquistano il diritto di farsi rappresentare." Il modello di rappresentanza
che emerge ha una funzione di limite nei confronti del sovrano, è difesa
degli interessi della proprietà, soprattutto di quella terriera, ha una
fisionomia censuaria (i chiamati sono i notabili), come è stato messo in
evidenza.172
Holbach approfondirà questo accento sulla proprietà ne La politique
naturelle (1773) dove si legge: "Ma che cos'è che lega il cittadino alla sua
patria? Sono i possedimenti dai quali dipende il proprio benessere; è la
terra che egli possiede che gli rende cara questa patria; è questo possesso
che lo identifica con il paese". Tuttavia, l'accento sulla proprietà terriera
non esclude altri tipi di proprietà che pertanto permettono ai titolari di
essere rappresentanti. Vediamo chi è degno di essere rappresentante.
Primo è il Clero, che le donazioni dei sovrani e la confiance del
popolo hanno reso proprietario di grandi beni, cioè un corpo di cittadini
172 Cfr. P. VIOLANTE, Lo spazio della rappresentanza, Palermo, 1981, p. 62, pur
sorvolando tale paradigma non è facilmente estensibile al magistrato, che non può essere
identificato con il carattere censuario della classificazione: il magistrato interviene come
“esperto” non come proprietario di terreni. Potrebbe essere colto un tema diffuso, ripreso
poi anche da Hegel e, naturalmente, rielaborato con sviluppi originali dai suoi allievi,
come si avrà modo di dire infra al § II.3.1. Non si dimentichi infatti che la camera alta,
nella costruzione fornita dal Maestro di Belino, doveva essere formata dai latifondisti,
proprio per lo stretto legame tra interesse privato e bene pubblico che –è il caso di usare il
temine- si sintetizza in loro.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
121
ricchi e potenti, ascoltati dal Re e dal popolo. Seconda è la Nobiltà, per i
possedimenti che legano la sua sorte a quella della patria; se avesse solo
titoli, goderebbe di una distinzione fondata su una convenzione; se fosse
solo guerriera, la sua ambizione sarebbe dannosa alla nazione: avendo
tutto da guadagnare e nulla da perdere il suo egoismo sarebbe foriero di
disastri. Terzo è il magistrato, "cittadino in virtù dei suoi possedimenti",
ma cittadino più illuminato per la posizione che occupa, poiché conosce
vantaggi e svantaggi della legislazione, usi e abusi della giurisprudenza e
il modo di rimediarvi. Quarto è il commerciante che "si arricchisce
contemporaneamente allo Stato che favorisce i suoi affari; ne condivide
continuamente la prosperità e i rovesci di fortuna". Non si può dunque
ridurlo al silenzio, anche perché il suo consiglio è utile nell'assise della
nazione. Quinto è il coltivatore, "vale a dire ogni cittadino proprietario di
terre" (!); su di lui cade direttamente o indirettamente ogni male o bene
della nazione, la terra è la base fisica e politica di uno Stato.
Alla fine dell'elenco il barone sintetizza così il suo pensiero: "La
voce del cittadino deve aver peso nelle assemblee nazionali
proporzionalmente ai suoi possessi".
La società si articola in queste cinque figure che infatti allargano la
tipologia dell'Ancien Régime. Il sovrano ha il compito di mantenere fra di
esse l'equilibrio: "impedirà che nessun ordine sia oppresso dall'altro; il che
succederebbe immancabilmente se un unico ordine avesse il diritto di
decidere per tutti". Fin qui si riconosce la tematica di Montesquieu
combinata con le teorie dei fisiocrati.
All'interno di questo progetto va letta la parte, dal punto di vista
teorico, più interessante della voce, in ordine ai rapporti rappresentanti -
rappresentati. Vi si afferma che si è rappresentanti solo in quanto eletti. Si
sono dati significati diversi.
Una prima dottrina nota come in questa voce, per la prima volta, sia
posta la questione del pouvoir constiuant citando la conclusione: "Nessun
ordine di cittadini deve godere per sempre del diritto di rappresentare la
nazione; bisogna che nuove elezioni ricordino ai rappresentanti che
devono ad essa il loro potere.” 173
Secondo tale linea di lettura
173 E. SCHMITT, Französische Revolution, Darmstadt, 1973, p. 125. È pur vero che
la figura del potere costituente non evoca nel pensiero di d’Holbach i caratteri che saranno
esplicitati solo con l’opera di Sieyès, ritrovandosi piuttosto elementi cari ad Hobbes. Cfr.
H. SCHRAMM, Karneval des Denkens. Theatralität im Spiegel philosophischer Texte des
16. und 17. Jahrhunderts, Berlin, 1996.
DELEGA E RAPPRESENTANZA VIRTUALE
122
l'individuazione della nazione come fonte di potere dei rappresentanti fa
acquistare una valenza più moderna alla definizione del rapporto
rappresentati - rappresentanti, dato poco prima in termini di
subordinazione: "i rappresentanti presuppongono degli elettori dai quali
deriva il loro potere, ai quali sono di conseguenza subordinati, e di cui non
sono altro che i portavoce. Qualunque uso e abuso il tempo abbia potuto
introdurre nei governi liberi e temperati, un rappresentante non può
arrogarsi il diritto di far parlare ai suoi elettori un linguaggio opposto ai
loro interessi; i diritti degli elettori sono i diritti della nazione, sono
imprescrittibili ed inalienabili, basta consultare appena la ragione, ed essa
dimostrerà che gli elettori possono in ogni momento smentire, sconfessare
e revocare i rappresentanti che li tradiscono, che abusano dei loro pieni
poteri contro di loro, o che rinunciano a loro nome a diritti inerenti alla
loro condizione fondamentale; in una parola i rappresentanti di un popolo
libero non possono imporgli un giogo che ne distruggerebbe la felicità;
nessun uomo acquista il diritto di rappresentarne un altro contro la sua
volontà." Per questa prima corrente ci troveremmo dinanzi alla
definizione di un mandato senza limiti (si dice "pieni poteri") che l'eletto
riceve dagli elettori non in quanto membri di classi, ma perché membri
della nazione. In questo si dice che è d'Holbach, l'Encyclopédie a
teorizzare un mandato libero, anticipando lo Speech di Burke di nove
anni.
Tale lettura è stata criticata perché taglierebbe di netto dinanzi a
talune ambiguità della formulazione di d'Holbach: come ad esempio il
diritto di popular recall che "in ogni momento" possono esercitare gli
elettori.174
Queste ambiguità infatti consentono letture diametralmente
opposte. Citando lo stesso passo ad esempio, altra dottrina è invece
dell'opinione che d'Holbach, anche se non fa mai esplicito riferimento al
mandato imperativo, affermi il principio secondo cui "la funzione dei
deputati è quella di esprimere i punti di vista dei mandanti e non di
174 P. VIOLANTE, op.cit., p. 64. In verità queste tensioni non appaiono ben
approfondite nel pensiero del barone d’Holbach, quanto piuttosto un retaggio delle
esperienze delle colonie americane, ben ricostruite già da Mill, che si chiedeva fino a quale
punto le forme di governo fossero una questione di scelta. Sul punto cfr. J.S. MILL,
Representative Government, (1861) Chicago, 1952, trad. it. Considerazioni sul governo
rappresentativo, a cura di M. Prospero, Roma, 1997, p. 5-6; altresì, Ch.H. McILWAIN,
Constitutionalism: Ancient and Modern, Itacha - New York, 1940, trad. it.
Costituzionalismo antico e moderno, a cura di N. Matteucci, Bologna, 1990.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
123
arrogarsi il diritto di decidere da soli ciò che sia meglio per essi".175
Ci
troveremmo così dinanzi ad un vincolo strettissimo che permetterebbe agli
elettori di controllare e richiamare gli eletti qualora agiscano contro il loro
interesse. L'allentamento di questo vincolo produrrebbe uno stato di
schiavitù: un pericolo già in atto presso quei governi temperati esistenti e
cioè l'Inghilterra.
"L'esperienza dimostra -continua il barone- che nei paesi che si
illudono di godere della massima libertà, quanti sono incaricati di
rappresentare i popoli ne tradiscono anche troppo spesso gli interessi e
abbandonano i loro elettori all'avidità di quanti vogliono derubarli. Una
nazione fa bene a diffidare di simili rappresentanti e a limitarne i poteri;
un ambizioso, un uomo avido di ricchezze, un prodigo, un dissoluto, non
sono atti a rappresentare i propri cittadini; li venderanno per titoli, onori,
cariche e denaro; e si crederanno interessati ai loro mali. Che avverrà se
questo infame commercio sembra autorizzato dalla condotta degli elettori,
anch'essi venali? Che avverrà se questi elettori si scelgono i rappresentanti
nei disordini e nell'ebrezza, o se, trascurando la virtù, i lumi, i talenti,
daranno al maggior offerente il diritto di definire i loro interessi? Simili
elettori invitano a tradirli; perdono il diritto di lamentarsene, e i loro
rappresentanti chiuderanno loro la bocca dicendo 'vi ho comprati a caro
prezzo, e vi venderò al prezzo più caro possibile.” Evidente l'eco delle
impressioni riportate da Holbach stesso nel suo viaggio in Inghilterra
nell'agosto-settembre 1765, così come le parole tratte da un aneddoto
riportato da Holbach e raccontato da Diderot a Sophie Volland, nella
lettera del 12 novembre 1765: "Une de ces représentants, après avoir fait
attendre deux heures dans son salon les députés de sa province, les fit
introduire dans son appartement. «Eh bien, messieurs, leur dit-il en les
recevant, qu'est-ce qu'il y a?» Les députés s'expliquent. Le représentant les
écoute. Puis voici la réponse avec laquelle il les renvoie: «Non pas,
pardine, messieurs! Il n'en sera pas ainsi. Je vous ai achetés bien cher, et
mon dessein est de vous vendre le plus chèrement que je pourrait!»".176
175 R. FRALIN, Rousseau and Representation, New York, 1978, p. 23. Come si è
avuto modo di vedere nel § che precede, il Ginevrino ammetteva dei deputati solo quali
nuncii per la trasmissione di volontà altrui preconfezionate. Seppure in questo modo viene
ipotecata proprio la decantazione assembleare della volontà generale (rectius della
maggioranza), inceppando il meccanismo dell’autosuggestione rousseauiana.
176 D. DIDEROT, Ouvres complétes, nell’ottima edizione critica presentata a cura di
J. Lough e J. Proust, Paris, 1970, Tomo VI (1976), p. 354. Superfluo rimandare agli scritti
DELEGA E RAPPRESENTANZA VIRTUALE
124
In questo medesimo passo dunque, seguendo la seconda corrente,
d'Holbach definirebbe un sistema a mandato vincolato esprimendo una
forte critica dell'esperienza inglese. Questa lettura serve alla seconda
corrente di pensiero di cui si è fatto riferimento sopra, per mostrare
l'assonanza della tematica rousseauiana con quella della Encyclopédie. È
sicuramente Rousseau a teorizzare coerentemente il vincolo di mandato
motivandolo con la sfiducia nei confronti delle assemblee e a penalizzare
l'esperienza inglese, mentre d'Holbach -per la seconda corrente- accettò
senza riserve il principio della rappresentanza e vide la restaurazione degli
Stati Generali, da tempo defunti, come la chiave per ristabilire un sano
corpo politico in Francia. Ma quale rappresentanza? Quella libera di cui
parla la prima corrente? Quella vincolata delineata dalla seconda? O più
semplicemente quella ampia raccomandata da sempre dai re? Anche
nell'interpretazione di questa voce è dunque presente il dualismo dell'idea
di rappresentanza. Ci si sarà già accorti che la prima corrente tende ad
interpretare la voce in modo da ridurre la rappresentanza a mera
situazione (di potere) dei rappresentanti; la seconda per converso ammette
solo il rapporto. C'è, tuttavia, una terza posizione che cerca di conciliare a
suo modo le opinioni discordanti.
Secondo quest’ultima prospettiva, la lettura della voce sembrerebbe
far decidere per l’accettazione di un mandato "ampio" piuttosto che
libero.177
Che questo mandato ampio possa collegarsi ad una
rappresentanza nazionale è quanto, già tanto tempo prima, aveva
sostenuto il vescovo Filippo a Tours quando, durante gli Stati generali del
1484, propugnava la rappresentanza nazionale di ogni singolo deputato,
di Burke ed alla prassi imperante nelle aule di Westminster, ove era costituito anche un
apposito ufficio per la compravendita dei voti.
177 P. VIOLANTE, op.cit., p. 64. La proposizione sembrerebbe scardinare
l’alternativa tra mandato in toto e mandato singulariter, su cui supra alla nota 29,
magistralmente espresso da Jouvenel, ove afferma che “Des deux représentations de
l’intérêt national admises par l’ancienne constitution, la représentation in toto et la
représentation singulariter, l’une portée à l’exigence, l’autre au refus, l’une a disparu. Et
ce n’est pas celle qu’on pense. Ce n’est pas le Roi qui a disparu: le Pouvoir législateur
représentant de l’intérêt national est son successeur; mais ce qui a disparu c’est la
représentation des intérêts qui son dans la nation”. Così B. de JOUVENEL, Du Pouvoir,
(1945) Paris, 1972, p. 296. Peraltro, la proposta di un mandato “ampio” si pone in
contrasto con quelle teorie per le quali il mandato o è imperativo o non è: così G. MIGLIO,
Le trasformazioni del concetto di rappresentanza, (1984) in IDEM, Le regolarità della
politica, Milano, 1988, vol. II, p. 976.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
125
argomentando dall’identico dovere che vincola ciascun deputato a
deliberare per il bene della Francia: l’identità di scopo produce così
identità di struttura. Ma il problema diventa più complesso se si ammette,
come talvolta sembra farsi, un'analogia tra la rappresentanza nazionale
cosi come definita da d'Holbach e poi da Burke, con quella teorizzata da
Sieyès, per fissare cosi uno dei tanti solchi continui che attraversano il
campo della storia. Violante sostiene che d'Holbach accettando le
aspirazioni della borghesia progressista si ponga a metà strada tra
Rousseau e Sieyès, poiché l'omogeneità sociale dalla quale scaturisce il
vincolo rousseauiano è l'opposto dell'omogeneità dello spazio corporativo
dal quale il mandato di Holbach non sembrerebbe decollare. Ma in questo
dimentica che "i diritti degli elettori sono i diritti della nazione, sono
imprescrittibili e inalienabili; basta consultare appena la ragione...". Allo
stesso tempo, continua, la nozione di rappresentanza nazionale e la teorica
dell'abolizione del vincolo di mandato ad essa connessa, che si svilupperà
nei dibattiti dell'Assemblea nazionale sulla base della dichiarazione del 17
giugno 1789, nella stanza della Pallacorda, sarebbe invece oggettivamente
diversa. E lo sarebbe nella misura in cui quella dichiarazione segnerebbe
la scomparse della rappresentanza singulariter, poiché da quel momento
in poi il mandato ampio diverrebbe realmente libero. Nel senso che la
libertà del mandato sarebbe legata strutturalmente all'assunzione da parte
dell'Assemblée nationale della rappresentanza in toto conseguente
all'identificazione della borghesia con la nazione e al suo essere cioè
pouvoir constituant.
In realtà il fatto che un medesimo autore nello stesso testo si presti
ad interpretazioni opposte, induce a pensare che vi sia un equivoco di
fondo.
Può e deve essere esaminata in questa sede una quarta eventualità.
Oltre alle differenze messe in evidenza dalle posizioni riportate sopra, vi è
un elemento comune, quasi un filo conduttore, che indica la vera
preoccupazione del barone. La cosa veramente essenziale è che i
rappresentanti siano i più adatti al governo, gli aristocratici nel senso
etimologico del termine. L'attenzione allora si sposta sulla ricerca della
definizione di un concetto di migliore, o di un criterio sufficientemente
condivisibile per riconoscere chi è più degno di essere rappresentante o,
meglio, chi più è adatto a gestire gli affari comuni, ad individuare e
perseguire il bene pubblico. A questo punto ogni indagine su monismo o
dualismo della struttura rappresentativa diventa totalmente superfluo per
d'Holbach. Concependo la rappresentanza come informazione nel modo
DELEGA E RAPPRESENTANZA VIRTUALE
126
indicato supra, consegue, come già detto, che i "migliori" siano
rappresentanti e governanti, non vi sono problemi di abusi o tradimenti
quando costoro saranno al potere: che poi per d'Holbach gli aristocratici
siano concretamente i nobili latifondisti è un'altra questione, il limite della
sua veduta. Quello che qui preme mettere in evidenza è la totale diversità
di prospettiva, di ottica, di approccio al problema, per cui, forse, è vano
cercare di imbrigliare il pensiero del barone, in maglie, in categorie che gli
erano estranee.
In altri termini, occorre tenere ben presenti quali erano le esigenze
del nostro autore e la costruzione generale dello Stato, per comprendere il
ruolo e la struttura della rappresentanza che vi trova luogo. Da quanto
detto sopra appare chiaro che il rappresentante non è portatore delle
volontà dei popolani che lo hanno eletto o che comunque "rappresenta".
Fedele in questo a Montesquieu e al suo lignaggio, d’Holbach ritiene il
popolo completamente incapace di esprimere volontà e quand'anche lo
facesse, non sarebbe opportuno che il re le seguisse. Vero scopo della
rappresentanza è portare a conoscenza i problemi delle categorie
fondamentali che costituiscono lo nazione178
e ai rappresentanti è richiesta
l'intelligenza di individuarli, interpretarli e proporre le soluzioni: in altre
parole, di consigliare il sovrano ove i suoi occhi non possono arrivare. In
questo senso il gabinetto dei ministri, il consiglio privato del re è
"rappresentativo". Ne consegue però l'irrilevanza della responsabilità
verso i mandatari. Questi ultimi, non avendo commesso delle volontà,
cosa di cui sono completamente incapables, non possono sindacare
l'operato dei rappresentanti, nemmeno per quanto attiene agli interessi
generali del regno, che restano loro incomprensibili. La condizione di
minorità in cui si trovano li assimila all'interdetto, che non può certo
178 È appena il caso di ricordare come anche Sieyès nel suo pamphlet più famoso,
stilando un’ulteriore lista di categorie fondamentali per la nazione, tragga conclusioni per
certi versi analoghe. La differenza sostanziale risiede nella circostanza che il barone
ammette un sovrano cui rappresentare le esigenze della nazione, per il tramite degli
“illuminati” rappresentati: vi è dunque un rappresentato, la nazione –seppure in stato di
minorità, che non le consente di esprimere delle vere e proprie volontà- dei rappresentanti,
che individuano ratione officii il bene della nazione, ed un terzo –il monarca- cui tali
interessi vengono rappresentati, nel senso di fatti conoscere. Il modello dell’Abate, come si
vedrà, prevede un rappresentante che “è” la nazione ed il monarca: rappresentante,
rappresentato e terzo si fondono in un unico corpo, senza possibilità di alterità. Cfr. infra
nel testo.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
127
sindacare l'operato del tutore.179
In quest'ottica deve essere letta allora
anche la temporaneità della carica, prevista non tanto a favore dei
mandatari, quanto per prevenire tentazioni egoistiche, che la permanenza
negli uffici pubblici può comportare; che il consigliere cioè veda il
proprio bene anziché quello dello Stato. Ma in questo d'Holbach non fa
che riprendere la tradizione della Roma repubblicana, per cui le
magistrature erano elettive gratuite e temporanee. È da notare come gli
ultimi due requisiti rimasero caratteri indiscutibili fino all'avvento nelle
camere basse dei primi deputati delle classi e partiti politici popolari, che
essendo privi di rendite ulteriori al loro lavoro, non avrebbero potuto
partecipare all'attività parlamentare; ma tutto questo avviene circa un
secolo dopo gli scritti di d’Holbach.
179 Come si è ricordato, la stessa scienza privatistica più attenta opera dei distinguo
quando perviene ad illustrare l'assunto tradizionale secondo cui il tutore "rappresenta"
l'interdetto o il minore, specificando che si tratta di rappresentanza necessaria. Cfr. A.
TRABUCCHI, Istituzioni di diritto civile, Padova, 1993; F. GALGANO, Diritto privato,
Padova, 1990, nonché i contributi citati supra alla nota 92.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
129
3.2 Mandato imperativo, mandato limitativo, mandato libero,
nessun mandato
PREMESSA: NECESSITÀ DI RICOSTRUIRE L’INTRODUZIONE POSITIVA DEL DIVIETO DI MANDATO
IMPERATIVO – IL MANDATO IMPERATIVO NEI CAHIERS DE DOLEANCES – TEORIA DEL
MANDATO LIMITATIVO: DEFINIZIONE DI COLLEGIO ELETTORALE, DI DEPUTATO, DI MANDATO
– NULLITÀ DEI MANDATI IMPERATIVI NEI CONFRONTI DELL’ASSEMBLEA, LORO
OBBLIGATORIETÀ NEI CONFRONTI DEGLI ELETTORI - AMMISSIBILITÀ DEI MANDATI
LIMITATIVI: CONSEGUENTE DEFINIZIONE DI LEGGE – PRIMA DISTINZIONE TRA MANDATI DI
DIRITTO PUBBLICO E MANDATI DI DIRITTO PRIVATO – PROPOSTA DI ANNULLAMENTO DEI
MANDATI IMPERATIVI: PREVALENZA DEL POTERE COSTITUENTE SUL POTERE COSTITUITO -
TEORIA DEL DIVIETO DI MANDATO IMPERATIVO: PREVALENZA DEL POTERE COSTITUITO SUL
POTERE COSTITUENTE – LA SFERA E LA LEGGE: DIMOSTRAZIONE DELLA FINZIONE DELLA
RAPPRESENTANZA DOPO L’INTRODUZIONE DEL DIVIETO DI MANDATO IMPERATIVO: REAZIONI
E CRITICHE – CONCLUSIONE: LA CONSACRAZIONE DEL DIRITTO POSITIVO.
L’indagine fin qui condotta ha consentito di individuare la radice
del problema della rappresentanza, nel rapporto tra eletto ed elettori e
l’istituto del divieto di mandato imperativo è risultato centrale nella nostra
riflessione. Per enuclearne i problemi e rileggere le diverse posizioni
dottrinali che da due secoli si hanno su questo istituto, ci siamo riproposti
l’intenzione di riportare l'attenzione sul dibattito che ne ha comportato
l'introduzione nella prima carta francese del 1791.180
È un dibattito affascinante ove le diverse proposte attorno questo
istituto indicano disparità di vedute sulla concezione della norma e
dell’ordinamento dei rispettivi sostenitori, a riprova dell'importanza del
concetto di rappresentanza nella dottrina generale dello Stato. Ma il
dibattito deve forse la sua limpidezza e fecondità alla Rivoluzione; i
membri dell'Assemblea nazionale non erano legati da alcun limite di sorta,
salvo quello della raison, non vincolati dall'ossequio alle costruzioni
teoriche precedenti erano consapevoli della libertà di proporre ed attuare
quello che fino ad allora non si era nemmeno osato pensare. Si vuole
mettere cioè in evidenza il grande divario tra le costruzioni anteriori
tendenti alla descrizione di quanto già c'era, della rappresentanza come
poteva essere concepita nell'ordine dell'Ancien Régime, e la freschezza del
dibattito costituente ove le idee sgorgano da fonte nuova, non già
180 La non copiosa letteratura sull'argomento denota l'attenzione limitata che è stata
riservata all'istituto soprattutto nel periodo non immediatamente recente. Verosimilmente
ciò si deve all'opinione diffusa che il problema del mandato imperativo fosse ormai risolto,
coniugandosi felicemente con quella descrizione della rappresentanza c.d. "politica", che
ne giustificava la necessità.
MANDATO IMPERATIVO, LIMITATIVO, LIBERO, NESSUN MANDATO
130
avvizzite da una vena esausta. Seppure una seria ipoteca è posta dalla
furia iconoclasta, con cui una buona parte dei deputati guarda all’ordine
passato (anzi, alle idee stesse di ordine e di passato) ed a tutto ciò che da
esso può essere ereditato.
Già all'indomani del giuramento della Pallacorda, dopo essersi
proclamati rappresentanti della nazione, i membri dell'Assemblea
nazionale stentano a comprendere il loro status. La questione del mandato
non poteva che presentarsi fin dal momento della verifica dei poteri. Le
prime difficoltà sorgono il giorno 26 giugno: si consideri la sequenza
stringente delle date. Il conte Lally-Tollendal, deputato di Parigi, presenta
assieme alle proprie credenziali una bozza di discorso, non si sa se
casualmente o no. In tale scritto il deputato sembra accettare il mutamento
costituzionale che ha trasformato gli Stati Generali in Assemblea
nazionale, ma solleva delle perplessità circa la propria posizione: i suoi
elettori lo avevano incaricato di votare par ordre, mentre dal 17 giugno
nella stanza della Pallacorda si è giurato di votare par tête. Per il deputato
parigino la conseguenza da trarre è una sola: occorre interpellare
nuovamente gli elettori per ottenere un nuovo mandato, più conforme alla
mutata situazione e ai convincimenti suoi propri. In caso contrario egli
stesso avrebbe rinunciato all'incarico.
Nella seduta del 26 giugno, dunque, Bouchette, membro della
commissione per la verifica dei poteri, legge quella che, ricordiamolo, era
solo una bozza di discorso. Lally-Tollendal non si oppone perché proprio
in quel momento, ancora una volta casualmente o no, non era in aula. In
questo modo, senza esporsi di persona, manifesta chiaramente il suo
pensiero: il giuramento della Pallacorda, sebbene salutare per la nazione,
deve essere ratificato esplicitamente dagli elettori. La prima reazione è di
Freteau, che appena finita la lettura interviene rivendicando la competenza
dell'Assemblea e non dei singoli deputati sulla questione: nessuno potrà
ritirarsi se prima non si sarà deciso.
Target propone un ordine del giorno per risolvere il nodo dei
mandati imperativi, ma si preferisce piuttosto "legittimare" l'Assemblea
completando la verifica dei poteri. Adesione alla proposta di Lally-
Tollendal esprime invece Stanislas de Clermont-Tonnere, anche lui
deputato nobile. Questi chiede di restare in assemblea, ma senza votare
finché non avrà consultato i propri elettori.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
131
Il Journal di Duquesnoy181
in data 3 luglio ci informa di una
"Motion sur les mandats impératifs", presentata dal vescovo d'Autun,
subito appoggiata da Target. La questione viene più ampiamente discussa
nelle sedute del 7 e 8 luglio durante un dibattito già indicato come centrale
per la formazione della teoria della rappresentanza nazionale.182
Nella seduta del 7 luglio Charles-Maurice de Talleyrand-Perygord,
vescovo d'Autun, illustra la sua mozione-definizione sui mandati
imperativi. È la prima esposizione sistematica che si ha su questo
argomento.
La relazione di Charles-Maurice, dunque, prende le mosse da tre
interrogativi: 1) che cos'è un bagliaggio? 2) che cos'è un deputato? 3) che
cos'è un mandato? Il vescovo risponde nell'ordine affermando che il
bagliaggio non è un “État particulier”, uno Stato legato ad altri Stati come
in una confederazione, è invece una parte di un tutto, “une portion d'un
seul État”, e come parte sottoposto alla volontà generale, sia che vi
partecipi, sia che se ne astenga, ma “ayant essentiellement le droit de
concourir à la volonté générale”.183
Il deputato è, continua Charles-Maurice seguendo il suo ordine,
l'uomo che il bagliaggio incarica di volere in sua vece, ma di volere come
esso vorrebbe se potesse partecipare all'incontro generale, cioè dopo aver
ponderatamente confrontato tra sé le ragioni dei diversi bagliaggi. “Qu'est-
ce que le député d'un bailliage? C'est l'homme que le bailliage charge de
vouloir en son nom, mais de vouloir comme il voudrait lui-même s'il
pouvait se transporter au rendez-vous général, c'est-à-dire après avoir
mûrement délibéré et comparé entre eux tous les motifs des différents
bailliages. Qu'est-ce que le mandat d'un député? C'est l'acte qui lui
transmet les pouvoirs du bailliage, qui le constitue représentant de son
bailliage et par là représentant de toute la nation. (...) Le député aura tous
les pouvoirs qu'aurait le bailliage lui-même, sans quoi il ne serait plus son
représentant.”
181 Journal d'Adrien Duquesnoy, deputé du Tiers-Etat de Bar-le-Duc sur
l'Assemblée Constituant,3 mai 1789 3 avril 1790 a cura di R. De Crevcoeur, 2 voll., Paris,
1894.
182 Cfr. K. LOEWENSTEIN, Volk und Parlament, München,1922 p. 180 e ss.
183 Qui, come in seguito, per la mozione di Talleyrand, facciamo riferimento al
volume curato da F. FURET e R. HALEVI, Orateurs de la Révolution française, Paris,
Gallimard, 1989, pp.1037-1044.
MANDATO IMPERATIVO, LIMITATIVO, LIBERO, NESSUN MANDATO
132
Il mandato è dunque l'atto con il quale il bagliaggio, trasmettendo al
deputato i suoi poteri, lo costituisce suo rappresentante e di conseguenza
rappresentante di tutta la nazione. Tutto il ragionamento è strutturalmente
consequenziale alla definizione del bagliaggio come parte di un tutto.184
Fissate le premesse, d'Autun si chiede se secondo quanto esposto i
mandati debbano essere liberi. Per rispondere il relatore introduce la
distinzione tra mandati limitativi e mandati imperativi propriamente detti:
“Ces deux mots semblent se rapprocher beaucoup, mais les exemples vont
les séparer”. Sarebbero limitativi e legittimi quei mandati che fissano dei
limiti in ordine alla durata, all'oggetto e al tempo di attuazione. Secondo
Talleyrand il mandato sarebbe legittimo se pone un limite di durata fissato
dal bagliaggio, se è limitato ad un certo oggetto di discussione, se contiene
una limitazione che consente di agire soltanto dopo che si sia realizzata
una certa condizione. Circa il limite d'oggetto si ricorda che esso non può,
per le premesse poste, impedire all'Assemblea di decidere su oggetti non
contemplati dal singolo mandato e che la maggioranza può agire senza
tenerne conto, anche se gli effetti cadranno sui committenti di un mandato
così limitato: “les députés feront sans lui, et cependant feront pour lui.”
Secondo d'Autun, come è unicamente chiamato durante gli Stati generali,
sono pochi, nell'Assemblea nazionale alla quale parla, i mandati limitativi
in ordine all'oggetto, mentre sono la maggioranza i mandati con ampi
poteri dal momento che i cahiers hanno demandato ai rappresentanti di
régler la costituzione, la legislazione, l'imposta eccetera. Una volta però
che la costituzione sarà definita, prevede il vescovo, i mandati limitativi
cresceranno, conviene quindi regolare una volta per tutte l'ambigua
questione. Se questi sono i limiti legittimi, oltre i mandati limitativi
esistono limiti illegittimi? Dei mandati imperativi? Talleyrand ne
individua tre che si concretano nei seguenti comandi: 1) vi ordino di
esprimere tale opinione di dire si o no su tale questione; 2) vi proibisco di
decidere su tal'altra questione; 3) vi ordino di ritirarvi se sarà adottata tale
decisione. Talleyrand deduce da quanto esposto che questi tre comandi
non possono essere legittimamente posti dal bagliaggio. Il primo
renderebbe l'Assemblea “parfaitement inutile”, imponendo delle decisioni
prima ancora della discussione. Infatti “Le bailliage ne peut savoir avec
certitude lui-même quelle serait son opinion, après que la question aurait
184 Sul pensiero di Talleyrand restano ancora fondamentali i testi di F. BLEI,
Talleyrand homme d'État, a nostra disposizione nella traduzione francese dell’originale
tedesco, Paris, 1935 e L. MADELIN, Talleyrand, Paris, 1941.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
133
été librement discutée par tous les autres bailliages: il ne peut donc
l’arrêter d'avance”.
In questo primo caso Talleyrand ritiene che una certa inquietudine
vada scusata, anche perché trattasi di mandati per gli Stati Generali, che
non si riunivano da molto tempo. Non così per gli altri casi prospettati:
non voler partecipare alla deliberazione significherebbe infatti ostacolare
apertamente la volontà generale e disconoscerne l'autorità; ma ancor più
grave è il terzo caso perché configurerebbe una scissione o più
precisamente, imporrebbe di subordinare la volontà generale alla volontà
di qualche bagliaggio o di qualche provincia. Ne consegue che tali
clausole imperative sono nulle, ma, si badi bene, solo rispetto
all'assemblea che le riterrà inesistenti, presumendo liberi i voti espressi e
assenti i deputati non votanti. L'assenza di fatto non può intaccare la forza
delle deliberazioni prese. Gli avvenimenti dell'ultimo mese lo dimostrano,
ma questa è una nostra aggiunta, infatti Talleyrand, al contrario di Sieyès,
in tutta la sua relazione non adduce mai gli avvenimenti a prova di ciò che
afferma.
Se le clausole imperative sono dunque nulle per l'Assemblea, lo
sono anche per i deputati nei confronti degli elettori? No, senza dubbio,
risponde Talleyrand. Se sono state imposte istruzioni illegittime, debbono
essere annullate dai mandanti. Il relatore insiste sulla non rilevanza della
revoca per l'Assemblea e la rilevanza invece per i mandanti e ciò per due
ordini di motivi. Il primo perché i mandanti non avevano il diritto di
imporre tali mandati ai propri mandatari. Il secondo perché è un vantaggio
per loro concorrere alla formazione della volontà generale alla quale,
“dans toute hypothèse”, si troveranno soggetti. Ed è su questo punto che il
vescovo conclude la sua relazione. “Io credo dunque fermamente che i
deputati sono legati ai loro committenti dalle clausole di tali mandati. È
una questione di principio dalla quale non deflettere. Né mi ferma il
ragionamento secondo cui una clausola che non si ha il diritto di apporre,
non è una clausola obbligatoria: perché se penso che i committenti non
avevano il diritto di inserire quella clausola, credo ugualmente che il
deputato aveva il diritto di assoggettarvisi; e questo assoggettamento
volontario che ha espresso ricevendo il mandato, è il vero titolo del suo
impegno.”185
A questo punto, Charles-Maurice minimizza il numero e la
185 “Je crois donc fermement que les députés sont liés envers leurs commettants par
les clauses de tels mandats. C’est un principe de rigueur, il ne doit pas fléchir ici. Je ne suis
pas même arrêté par le raisonnement que l’on fait, en disant qu’une clause qu’on n’a pas
eu le droit d’apposer n’est pas obligatoire; car si je pense que les commettants n’ont pas eu
MANDATO IMPERATIVO, LIMITATIVO, LIBERO, NESSUN MANDATO
134
portata dei mandati imperativi, insistendo che spesso si sono confusi gli
articoli dei cahier con le clausole del mandato e propone la sua mozione:
“L'Assemblée nationale, considérant qu'un bailliage ou une partie d'un
bailliage n'a que le droit de former la volonté générale, et non de s'y
soustraire, et ne peut suspendre par des mandats impératifs, qui ne
contiennent que sa volonté particulière, l'activité des Etats Généraux,
déclare que tous les mandats impératifs sont radicalement nuls; que
l'espèce d'engagement qui en résulterait doit être promptement levée par
les bailliages, une telle clause n'ayant pu être imposée, et toutes
protestations contraires étant inadmissibles, et que, par une suite
nécessaire, tout décret de l'Assemblée sera rendu obligatoire envers tous
les bailliages, quand il aura été rendu par tous sans exception.”
La costruzione di Talleyrand è sostenuta da un ragionamento,
patrimonio ereditario degli Stati Generali che deve essere attentamente
ricostruito nei suoi passaggi logici. Per secoli i concetti di legge e di
sovranità sono stati considerati complementari tra di loro, talché la forma
stessa della sovranità era considerata la legge. La manifestazione del
potere dello Stato avviene attraverso i suoi ordini.
Qui occorre una chiarificazione terminologica. Indubbiamente per il
pescatore di Brest è manifestazione dello Stato qualsiasi ordine del
Governatore del porto a prescindere se in attuazione di una legge, di un
arrêt, di un decreto o magari per capriccio del governatore stesso. Ma per
gli eruditi di Francia, numero cospicuo in proporzione agli altri paesi fin
dal Rinascimento, la loi, in senso tecnico, è la prima vera manifestazione
della sovranità, del potere dello Stato, sia al suo interno (e in questo
le droit d’insérer cette clause, je crois en même temps que le député a eu le droit de s’y
soumettre; et cette soumission volontaire qu’il a exprimée, en recevant les pouvoirs, est le
titre véritable de son engagement.” Il passo, secondo una simmetria che l’autore eredita
dalla sua formazione ecclesiastica, dopo gli argomenti di conformità giuridica continua
respingendo l’accusa di immoralità di siffatta proposta, aspetto che però è illuminante
dell’argomentazione politica del tempo, fondata su di una sorta di “doppia conforme” data
dal nesso diritto-morale: “Il n’est pas question ici d’une action immorale qu’on n’a pas le
droit d’exiger, ni de promettre, ni de faire quand on l’a promise. Un député a pu promettre
qu’il ne délibérait pas dans tel cas, qu’il se retirait dans tel autre; qu’il dirait oui ou non sur
telle question, puisque c’est le vœu de ceux qu’il allait représenter. Tout le tort est dans
ceux qui ont voulu être ainsi représentés; il n’y a aucune immoralité à promettre cela; il
n’y a aucune loi qui le défende; il peut donc l’exécuter; s’il le peut, il le doit; car il l’a
promis en acceptant le mandat; et il est inutile de dire combien cette obligation se fortifie
lorsqu’à la religion de la promesse se joint la religion du serment.” Cfr. TALLEYRAND, op.
cit., p. 1042.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
135
seguita dalla sentenza che già Hobbes chiamava la legge del caso
particolare), ma anche all'esterno, come delimitazione della sfera di
applicabilità, del proprio territorio, come ius excludendi omnes alios. Non
a caso dei tre elementi costitutivi dello Stato, individuati dalla dottrina
francese del Cinquecento nella sua giustificazione di autonomia
dall'Impero, tutt'oggi tradizionalmente accettati, cioè popolo, territorio e
sovranità, i primi due altro non sono che l'ambito di applicazione di
quest'ultimo.
Già durante gli Stati Generali di Tours del 1484, con l'intervento del
vescovo Filippo Pot, si intravide un collegamento logico tra legge e
volontà generale. In sostanza il quesito impellente era questo. Se la
sovranità si manifesta con la legge, di chi è volontà la legge? Per Marsilio
e Bodin indubbiamente è del sovrano.186
Ma non per il vescovo Filippo:
appare la concezione medioevale della rappresentanza, lo Stato è tutto il
popolo riunito in uno compendio rapraesentativo secondo le parole del
Cusano, conseguentemente la legge è volontà di tutti. I successivi Stati
Generali, di convocazione in convocazione si incaricheranno di farlo
presente al Re. Veniamo al 1789, all'apertura degli Stati Generali. È ormai
opinione comune ad un influente gruppo di intellettuali di varia estrazione
186 Tuttavia MARSILIO DA PADOVA, cfr. Defensor pacis, Primo Discorso, XII e XIII,
ove, analizzando la causa efficiente della legge umana, in rapporto con la legge divina, si
fonda l’autorità degli eletti direttamente sull’elezione, escludendo la conferma di
qualsivoglia ulteriore autorità. Per il padovano, il riconoscimento del giusto e del
“civilmente vantaggioso” non è ancora legge, poiché la causa efficiente della legge è il
popolo, la universitas civium, nell’atto di volontà che esso compie nel porre come legge il
prodotto dell’atto di riconoscimento di ciò che è giusto. Tuttavia, al momento quantitativo
dell’universitas, nell’atto di volontà, si affianca l’aspetto qualitativo del riconoscimento,
che spetta alla pars valentior figura che ha dato plurimi problemi interpretativi, per i quali
rinviamo a V. OMAGGIO, Marsilio da Padova. Diritto e politica nel “Defensor pacis”,
Napoli, 1995, specialmente p 59 e ss. A noi pare che la pars valentior, più che costituire un
riferimento alla figura del filosofo re di Platone, anticipi con precisione letterale l’idea di
maggioranza nel ruolo che acquista all’interno del meccanismo di Rousseau, scolpita nella
lapidaria affermazione “la volontà della maggioranza è sempre retta”, giungendo
addirittura fino al meccanismo di autosuggestione del Ginevrino, che smaschera la vera
portata della democrazia, paludamento per imporre una volontà particolare come la
volontà di tutti. Infatti, afferma chiaramente Marsilio, alla fine del paragrafo 6 del capitolo
XII, indipendentemente dal suo contenuto, una certa legge sarà sopportata di malavoglia
dalla maggioranza del popolo che non vi ha concorso alla formazione. Al contrario, la
legge fatta “con l’ascolto di tutta la moltitudine, anche se meno utile, sarebbe osservata e
sostenuta da ogni cittadino” e avrebbe maggior probabilità di successo. Si potrebbe
chiosare, tessendo un ulteriore filo con l’autore del Contract Social, che ogni popolo ha il
governo che si merita.
MANDATO IMPERATIVO, LIMITATIVO, LIBERO, NESSUN MANDATO
136
che la legge debba essere il prodotto della volontà generale, anche se di
questo termine si danno diverse interpretazioni (per Sieyès ad esempio è
la volontà dell'assemblea, vedi infra nel testo). Ed ecco l'ultimo passaggio
logico su cui si regge Talleyrand: se la volontà generale così come
rappresentata, diventa legge, la sovranità dipende dalla rappresentanza. A
questo proposito Leibholz manifesta delle perplessità. “Non si deve
comunque stabilire una connessione necessaria tra sovranità popolare e
sistema rappresentativo. Tuttavia questo accade, tale errore risale -almeno
per quanto riguarda l'Europa continentale- al legame, storicamente
casuale, tra la sovranità popolare ed il sistema rappresentativo, stabilito
nella costituzione francese del 1791. (...) In realtà il sistema
rappresentativo può accostarsi senza difficoltà sia ad una democrazia che
proclama il principio della sovranità popolare sia, viceversa, ad una
costituzione che rifiuta questo dogma, come ad esempio la monarchia
costituzionale limitata.”187
In realtà i protagonisti del dibattito che stiamo
esaminando si trovavano in un regime ben più stretto della monarchia
costituzionale limitata: Luigi XVI era pur sempre monarca assoluto. Ciò
non impediva di considerare sovrano chi produce le leggi e per la maggior
parte della Assemblea nazionale questo è il popolo rappresentato. Tutto
ciò appare chiaro dai cahiers; esempio ne è quello della Nobiltà di
Ponthieu: “La nation représentée par ses députés propose les lois”;188
quello di Presles en Brie: “Que le pouvoir législatif appartient à la nation,
pour être exercé avec le concours de l'autorité royale. Qu'aucune loi ne
puisse, en conséquence, être promulguée qu'après avoir être consentie par
la nation représentée par les états généraux.”189
Il cahier di Meudan: “La
loi n'étant que l'expression de la volonté générale, la puissance législative
réside pleinement, entièrement et uniquement dans la nation.”190
Meno
incisivo perché più pratico, ma non meno chiaro, risulta il primo cahier di
Pontin: “Que la volonté générale d'un nation formant et pouvant seule
former la loi, le pouvoir législatif en entier, soit en matière d’emprunté,
187 Cfr. G. LEIBHOLZ, Das Wesen der Repräsentation und der Gestaltwandel der
Demokratie in 20. Jahrhundert, 3° ed., Berlin, 1966 (ma la prima edizione, sotto titolo
diverso è del 1929), trad. it. Milano, 1989, p.133.
188 Archives parlamentaires (in seguito: A.P.), vol. V, p.431.
189 Cfr. A.P. vol V, p.43.
190 Cfr. A.P. vol IV, p.705.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
137
soit en matière d'impôts, soit en toute autre matière, appartenant, par
conséquent, à la nation seule, à l'avenir aucune acte public ne pourra et ne
sera réputé loi, ni en acquérir le caractère s'il n'est émané de la volonté des
Etats Généraux ou consentis par eux, avant que d'être revêtu du sceau et
de l'autorité royale.”191
A questo punto occorre richiamare l’attenzione perché, come
vedremo, anche Sieyès sembrerà basarsi sull'assunto che sostiene
Talleyrand, tuttavia con una variante fondamentale: se la volontà generale
così come rappresentata diventa legge, la sovranità dipende (non più dalla
rappresentanza, ma) dal rappresentante.
Possiamo tentare di riassumere la posizione di Talleyrand. Se la
legge è la voce della volontà generale e poiché questa per necessità
pratiche deve essere rappresentata, occorre che il sistema rappresentativo
la renda quanto più fedelmente possibile. Questa è anche la premessa di
Rousseau. Ma a differenza del Ginevrino, Talleyrand si accorge che trarne
la conseguenza della necessità del mandato imperativo implica la paralisi
dell'assemblea in balia di veti spaventosi che impediscono la stessa
discussione poiché si consacrerebbe implicitamente la divisione in tanti
Stati quanti sono i collegi elettorali: se infatti questi potessero inviare dei
messi con delle consegne non negoziabili, sarebbero degli Stati sovrani,
secondo l'idea di legge che abbiamo visto supra. Ugualmente, con Sieyès,
se non potessero indicare i loro intendimenti ai propri rappresentanti
questi agirebbero di propria iniziativa e poiché manca il termine di
paragone della volontà dei rappresentati, gli eletti comunque sarebbero
irresponsabili del proprio operato. Occorre dunque che la nazione faccia
conoscere tramite i suoi rappresentanti le proprie esigenze, ma che queste
non impediscano la discussione e la formazione della volontà generale.
Tutto ciò sostiene la distinzione tra mandato imperativo e limitativo. Se il
primo non è ammissibile, il secondo è necessario per ridurre la
discrezionalità del deputato e per sindacarne l'operato. Ma come si misura
la responsabilità dei rappresentanti? Ancora una volta ci soccorre la
correlazione sovranità192
- legge - volontà generale. Se con il mandato
imperativo si chiedeva al mandatario di difendere strenuamente le
191 cfr. A.P. vol IV, p.784.
192 Il rapporto -se rapporto può darsi- tra sovranità e rappresentanza sarà esaminato
dopo, così come la distinzione tra sovranità e Herrschaft, già per altro anticipata alla nota
107.
MANDATO IMPERATIVO, LIMITATIVO, LIBERO, NESSUN MANDATO
138
posizioni particolari, con quello limitativo si chiede al rappresentante di
far concorrere le necessità dei mandanti alla formazione della volontà
generale. Se nel primo caso il mandatario era responsabile
dell'imposizione del particolare, talché non gli venivano nemmeno
rimborsate le spese se non aveva adempiuto correttamente al suo incarico,
col secondo il rappresentante è responsabile di non aver fatto concorrere
le esigenze di una parte della Francia alla formazione della volontà
generale. La distinzione tra mandato limitativo e mandato imperativo non
è quindi meramente formale ed irrilevante come è stato autorevolmente
sostenuto da Loewenstein.193
Basti pensare che solo nel secondo caso la
volontà comune, oltre che rappresentata, sarà anche veramente
rappresentativa. Il mandato imperativo svolge una funzione di
manifestazione di volontà finalizzata all'imposizione, quello limitativo, al
contrario, è una funzione di conoscenza per deliberare, a sua volta
differente dalla funzione di conoscenza mera, propria degli Stati Generali
prima del giuramento della Pallacorda. Talleyrand non nasconde le
difficoltà del giudizio di responsabilità da mandato limitativo, ma non lo
ritiene impossibile.
Analogo aspetto a questo collegato è la nullità del mandato nei
confronti dell'Assemblea, ma valido nei confronti dei deputati. Tale
questione esula dall'economia di questo lavoro. Qui vale solo la pena di
precisare che contrariamente a quanto può sembrare, Talleyrand non
intende annullare i mandati imperativi in Assemblea nazionale, bensì
renderli inefficaci di fronte all'Assemblea nazionale stessa, che li
considererà semplici istruzioni, ma ciò nondimeno i rappresentanti ne
saranno legati verso i loro committenti: “È una questione di principio
dalla quale non deflettere”. Se una considerazione si può fare a questo
proposito non è tanto che Talleyrand si muove ancora in un'ottica
civilistica194
o di "acting for" secondo le categorie esaminate sopra, dovute
all’elaborazione di Hanna Pitkin,195
-ammesso che la tradizionale
contrapposizione tra mandato di diritto privato e pubblico sia proficua-,
quanto che la responsabilità dei rappresentanti verso i rappresentati
193 Cfr. K. LOEWENSTEIN, Volk und Parlament cit., p. 193 sgg.
194 Cfr. P. VIOLANTE, Lo spazio della rappresentanza, Palermo, 1981, p. 148.
195 Cfr. H. F. PITKIN, The Concept of Representation cit., p. 38 e sgg; 112 e sgg.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
139
sopravanza (a dispetto di Sieyès) il mutamento costituzionale del 17
giugno. Anzi è l'unico modo di giustificarlo.
Alla luce del ragionamento di Talleyrand, l'interpretazione dell'art.7
sez. III tit. III, della Costituzione del 3 settembre 1791 deve essere
combinato con quello dell'art. 6 della dichiarazione dei diritti dell'uomo e
del cittadino del 26 agosto 1789, successivamente parte integrante della
Costituzione del 1791. Entrambi sono opera di Talleyrand e vi si
riconosce il suo pensiero esposto in premessa e conseguenza. La prima
parte dell'art. 6 recita: “La loi est l'expression de la volonté générale. Tous
les citoyens ont droit de concourir personnellement, ou par leurs
représentants, à sa formation.” Si tratta della manifestazione in nuce di
quella correlazione legge - volontà generale - rappresentanza che sopra
abbiamo visto risultare da numerosi cahiers ed essere propria
dell'Assemblea nazionale. L'articolo 7 della Costituzione ne è attuazione
pratica: “Les représentants nommés dans les départements, ne seront pas
représentants d'un département particulier, mais de la Nation entière, et il
ne pourra leur être donné aucun mandat”. Si noti come i rappresentanti, e
non i deputati, siano nominati dans les départements, non par. Potremmo
allora esplicitare il testo così: “Les représentants nommés par la Nation,
dans les départements, ne seront pas représentants d'un département
particulier, mais de la Nation entière, et il ne pourra leur être donné aucun
mandat impératif.” Nella lettura del testo occorre tener presente il
significato di représentants e di mandat quali risultano dal dibattito.
Le ostilità della Nobiltà a questa mozione che consacra
definitivamente la fine di un sistema plurisecolare, è manifestata dal
cardinale de La Rochefoucauld. Ma a dispetto delle sue proteste Gualtier
de Biauzat è ancora più radicale di Talleyrand. Argomentando dal
giuramento che i deputati dovevano pronunciare all'atto di consegna dei
cahiers, “io prometto e giuro davanti a Dio, sui santi Evangeli, di dire
tutto ciò che penserò in coscienza essere l'onore di Dio, il bene della
Chiesa, il servizio del re e il riposo dello Stato”,196
egli ritiene superfluo
ricorrere ai mandanti e propone il seguente emendamento: “Senza che vi
sia bisogno che i deputati ricorrano ai loro committenti, l'Assemblea
nazionale autorizza tutti i suoi membri ed ingiunge loro di opinare nella
loro anima e coscienza, salvo a conformarsi nei casi particolari che
196 Citato in A. SAITTA, Costituenti e Costituzioni nella Francia rivoluzionaria e
liberale, Milano, Giuffrè, 1975, p.23.
MANDATO IMPERATIVO, LIMITATIVO, LIBERO, NESSUN MANDATO
140
interessano la loro provincia”.197
La mozione trova favorevole anche
Lally-Tollendal, il quale però propone che venga concesso ai deputati un
breve intervallo per dare il tempo “di avere nuovi poteri a coloro che sono
portatori di mandati imperativi”. Ma questa “condiscendenza volontaria e
patriottica” non può influire sull'interessante concetto di sovranità che lo
stesso Lally-Tollendal ha premesso al suo emendamento: “La
souveraineté ne réside que dans le tout réuni; je dis le tout parce que le
droit législatif n'appartient pas à la partie du tout; je dis réuni, parce que la
nation ne peut exercer le pouvoir législatif lorsqu'elle est divisée et elle ne
peut alors délibérer en commun.”198
L'Assemblea sembra d'accordo; nel verbale a questo punto si legge:
“parecchi membri dei tre ordini appoggiano la mozione del sig. vescovo
d'Autun, o l'emendamento del sig. Lally-Tollendal.”.199
Di altro tenore il successivo intervento di Barrère de Vieuzac.
Questi, forzando la posizione di Charles-Maurice, introduce la pericolosa
distinzione tra rappresentanza di diritto privato e rappresentanza di diritto
pubblico, ponendo il caso in cui dei privati diano mandato ad altri privati
su materia di loro stretto interesse; e il caso in cui assemblee parziali
diano ai deputati poteri che vanno esercitati in un assemblea generale.
Mentre nel primo caso i committenti possono a buon diritto essere ritenuti
legislatori del mandato che pongono, nel secondo caso ciò non può essere,
poiché, l'Assemblea è chiamata ad occuparsi non soltanto di interessi
particolari, ma di un interesse generale, che è comunque da ritenersi
superiore, anche se non si dice da chi derivi, aprendo così la strada
all'autocrazia. Continua Barrère “ora nessun committente può essere
legislatore in materia di interesse pubblico. Il potere legislativo origina nel
momento in cui l'Assemblea generale è costituita. (...) Se si fosse
ammesso il sistema dei mandati imperativi e limitativi, si sarebbero
impedite le risoluzioni dell'Assemblea riconoscendo un veto spaventoso a
ciascuno dei 177 bagliaggi del regno...”.200
Per queste ragioni Barrère
197 Ivi p.24
198 A.P., serie I, vol.VIII p.204. Sull'esprit che deve sempre trasparire nella
conversazione del XVIII secolo cfr. B.GROETHUYSEN, Philosophie de la Révolution
française, Paris, Gallimard, 1956, p.96
199 Ivi.
200 Ivi.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
141
appoggia la mozione del vescovo d'Autun, ma respinge la dichiarazione
che prevede l'annullamento di detti mandati da parte dei committenti. Per
Barrère gli elettori non esprimono volontà; tocca semmai al potere
costituito, divenuto legislatore, rimediare agli "abusi" del pouvoir
constituant.
L'intervento è stato messo in evidenza per la sottolineatura della
preminenza del potere costituito su quello costituente che serve a bloccare
ogni interferenza extraistituzionale, una volta che il sistema
rappresentativo si è consolidato.201
Chi appare molto soddisfatto del livello della discussione è
Duquesnoy che però nel suo Journal lamenta come il dibattito non abbia
centrato quello che a suo avviso è il solo punto importante. Tutto ciò è già
stato superato, grazie a Sieyès, colla Dichiarazione del 17 giugno laddove
si afferma che il 96% della nazione non può rimanere inattivo per
l'assenza dei deputati di qualche bagliaggio o di qualche classe di cittadini,
dal momento che “les absents que ont été appelles né peuvent point
empêcher les présents d'exercer la plénitude de leurs droits, qui est un
devoir impérieux et pressant”.202
Se l'Assemblea, pur senza la
partecipazione di parte della Nobiltà e del Clero, non ha esitato a
proclamare Nazione il Terzo stato, perché si dovrebbero attendere i
rappresentanti di questi ordini ormai "extranazionali"? In base a questa
argomentazione il giovane deputato non accetta l'argomentazione di
Talleyrand che, a suo dire, “fa ciò che noi non abbiamo il diritto di fare,
che ci impegna in una questione infinitamente delicata e pericolosa e che,
qualunque ne sia il risultato, non potrà mai aumentare i poteri di cui siamo
investiti”.203
A questo punto la maggior parte dei deputati è confusa ed incerta
circa il proprio ruolo e la propria veste, ma è in serata che i membri della
"maggioranza della Nobiltà", cioè quelli non ancora confluiti in
Assemblea, dichiarano come massime inviolabili della costituzione del
201 L'osservazione è di P. VIOLANTE, Lo spazio, cit., p. 150; ma vedi già al
proposito: R. de la GRASSERIE, Les principes sociologiques du droit public, Paris, 1911, p.
50 ss.
202 R. DE CRÈVECOEUR (a cura di), Journal d’Adrien Duquesnoy député du Tiers
Etat de Bar-le-Duc sul l’Assemblée Constituante, 3 Mai 1789 – 3 Avril 1790, 2 voll., Paris,
1894, vol 1, p. 169.
203 R. DE CRÈVECOEUR (a cura di), Journal cit, p. 171.
MANDATO IMPERATIVO, LIMITATIVO, LIBERO, NESSUN MANDATO
142
regno la distinzione degli ordini, l'indipendenza degli stessi, il voto par
ordre e la necessità della sanzione reale sulle leggi.
Il giorno successivo, 8 luglio 1789, si riapre la discussione su una
mozione presentata dal presidente dell'Assemblea, l'arcivescovo di
Vienne. Il verbale di questa seduta è assai confuso: si accavallano mozioni
diverse, l'ultima delle quali è quella di Champion de Cicé, arcivescovo di
Bordeaux: “l'Assemblea nazionale dichiara che nessun mandato
imperativo può in alcun caso, fermare e sospendere l'attività
dell'Assemblea, ancor meno assicurare la volontà di qualche bagliaggio
contro la maggioranza degli altri bagliaggi; salvo il diritto per i latori di
questi diritti di prendere le misure che giudicheranno convenienti per far
riformare tali mandati e che essi non saranno ammessi in Assemblea, a
meno che essi non si sottomettano in anticipo alla maggioranza dei
suffragi”.204
Allora, si legge nel verbale, “s'innalza un rumore generale
nell'Assemblea. Un deputato nobile chiede la parola. Egli osserva che
ammettendo la mozione di Monsigneur l'évêque d'Autun si annulla per
sempre la distinzione tra gli ordini. Si diffonde poi sui diritti, sull'utilità,
sul vantaggio di questa divisione. M. de Clermont-Tonnere risponde che
questa mozione non costituisce alcun attentato alla divisione
costituzionale degli ordini”.205
Sieyès interviene per ripetere che non si
deve votare; altri insistono per la votazione. Mirabeau aiuta ancora una
volta Sieyès, proponendo che prima si decida se votare o no.
Con questo escamotage l'Abate rinforza i risultati conseguiti il 17
giugno nel giuramento della Pallacorda: per il giuramento prestato in
quell'occasione, viene a cadere ogni fondamento della questione: è
importante che nemmeno si voti, perché è un implicito riconoscimento del
mutamento costituzionale intervenuto.206
Come si è visto, Duquesnoy fa
propria questa posizione.
L'Abate usa qui gli stessi numeri che hanno portato all'Assemblea
nazionale, gli stessi argomenti che aveva pubblicato il 17 gennaio del
1789 nel famoso pamphlet "Qu'est-ce que le Tiers-Etat?" Per appurare che
cosa sia e che ruolo abbia il Terzo stato, occorre individuare gli elementi
che rendono tale una nazione. La provocazione è nella prima pagina: “Che
204 A. SAITTA, Costituenti, cit., p.24
205 Ivi.
206 A.P. s.I, vol VIII, p.207.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
143
cosa occorre perché una nazione viva e prosperi? Lavori privati e
pubbliche funzioni”.207
Quanto ai primi, sono completamente sostenuti dal
Terzo stato. Le seconde lo sono per i diciannove ventesimi: “Chi dunque
oserebbe dire che il Terzo stato non ha in sé tutto ciò che occorre per
formare una nazione completa?”
Ma non basta, il Terzo stato è anche la maggioranza numerica:
“Cosa sono duecentomila privilegiati rispetto a venticinque o ventisei
milioni di persone?” Tuttavia proprio per mascherare gli argomenti
statistici che, si vedrà, sono gli unici ad interessargli, Sieyès colloca le
nozioni di Egalité e di Nation come chiavi ermeneutiche del suo
discorso208
“Che cos'è una nazione? Un corpo di associati che vive sotto una
legge comune ed è rappresentato da uno stato legislativo. Poiché ha
privilegi, dispense, persino diritti separati dai diritti del corpo generale dei
cittadini, l'ordine nobiliare esce dall'ordine e dalle leggi comuni. I suoi
diritti ne fanno già un popolo separato nella grande nazione. È un vero
Imperium in Imperio. Esso esercita a parte anche i propri diritti politici ed
ha propri rappresentanti che non ricevono nessuna procura dal popolo. Il
corpo dei suoi deputati siede a parte; e quand'anche si riunisse in una
stessa aula con i deputati dei semplici cittadini, non è men vero che la sua
rappresentanza rimarrebbe essenzialmente distinta e a sé stante: è estranea
alla nazione sia per il suo fondamento, in quanto il suo mandato non viene
dal popolo, sia per il suo oggetto che consiste nel difendere non l'interesse
generale, ma l'interesse particolare. Il Terzo dunque comprende tutto ciò
che appartiene alla nazione; e tutto ciò che non è il Terzo non può essere
207 Cfr. E.J. SIEYÈS, Qu'est-ce que le Tiers-état?, Paris, janvier 1789. Edizione
critica a cura di Zapperi, Genève, 1970, p. 121, da cui citiamo anche in seguito. Da
segnalarsi anche l'edizione curata da E. SCHMITT e R. REICHARDT, E.J. SIEYÈS, Politische
Schriften 1788-1790, Darmstadt, 1975, con un utile glossario e bibliografia critica
sull'Autore. Sul pensiero generale di Sieyès resta fondamentale P. BASTID, Sieyès et sà
pensée, Paris, 1939. Più recentemente, oltre ai contributi citati in prosieguo, e pluribus, cfr.
M. BARBERIS, L'ombra dello Stato. Sieyès e le origini rivoluzionarie dell'idea di nazione,
in "Il Politico", 1991, p. 509 e ss.; L. CEDRONI, Il problema della rappresentanza politica
in E. J. Sieyès (1789-1799), in C. Carini (a cura di), La rappresentanza tra due rivoluzioni
(1789 – 1848), Firenze, 1991, p. 25 – 38, nonché IDEM, Il lessico della rappresentanza
politica, Soveria Mannelli (CZ), 1996.
208 Per la distinzione interessante tra assemblea rappresentativa e assemblea
deliberativa, cfr: C.J. FRIEDERICH, Governo costituzionale e democrazia, Boston, 1950,
trad. it. di Mario Grego, s.n.t. (ma Vicenza), specialmente p. 426 sgg. e 465 sgg.
MANDATO IMPERATIVO, LIMITATIVO, LIBERO, NESSUN MANDATO
144
considerato parte della nazione. Che cos'è il Terzo stato? Tutto.” Ma
anche “è preesistente a tutto, è l'origine di tutto.” La struttura della
nazione è nell'unità della molteplicità. Infatti nella formazione delle
società politiche, secondo Sieyès, il principio è dato dal jeu delle volontà
individuali che si uniscono, poiché “il potere appartiene alla comunità e
risiede soltanto nell'insieme.” Ma in tanto le volontà particolari potranno
riunirsi, divenire nazione, avere il potere, in quanto siano eguali, al modo
originario dello “stato di natura”. Il particolarismo impedisce il processo
ed è per questo che i “duecentomila privilegiati” devono essere cancellati.
Ciò che non è eguale non è originario, è falso, non è numerabile, quindi
deve essere respinto. Tutto ciò, ovviamente, muovendo dal mito
dell'uguaglianza unitaria originale.
“Ma saltiamo le fasi intermedie - continua Sieyès - e veniamo al
punto. Gli associati sono troppo numerosi e sparsi su un territorio troppo
esteso per poter esprimere essi stessi la propria volontà comune. Essi
allora determinano quanto è necessario per vegliare e provvedere alle
pubbliche cure, affidano l'esercizio di questa parte della volontà nazionale,
e quindi del potere, ad alcuni di loro. È questa l'origine di un governo
esercitato per procura (...). La terza epoca è distinguibile dalla seconda in
quanto non agisce più la reale volontà comune, ma una volontà comune
rappresentativa”. O pretesa tale. Il suo prodotto è la legge cui è riservata
un'immagine giustamente famosa: “La legge è paragonabile al centro di
una sfera immensa, sulla cui superficie tutti i cittadini, senza alcuna
eccezione, occupano delle posizioni eguali, equidistanti dal centro; tutti
dipendono in modo eguale dalla legge, tutti le affidano da proteggere la
loro libertà e la loro proprietà”. Eguaglianza ed equidistanza dunque. Non
è difficile sentire tra le righe “questa voce celeste che detta a ciascun
cittadino il precetti della ragione pubblica, e gli insegna ad agire secondo
le massime del suo giudizio, e a non essere in contraddizione con se
stesso”, secondo la laudatio che ne aveva fatto Rousseau nel Discours sur
l’économie politique del 1775. Non è errato, forse, vedere qui l’inizio
della dimensione sacrale della legge, strumento di eguaglianza, dal quale
ci si aspettano i miracoli che non si chiedono al cielo, con una fiducia
intatta non ostanti i risultati spesso deludenti dell’intervento normativo.
Intanto il problema dice Sieyès, resta “sapere che cosa va inteso per
costituzione politica di una società e di delineare i suoi giusti rapporti con
la nazione (...) Non si può creare un corpo per un certo scopo senza
organizzarlo, senza dargli delle forme e delle leggi idonee a fargli
svolgere le funzioni a cui lo si è voluto destinare; ciò viene definito come
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
145
la costituzione di questo corpo”. La costituzione che nasce in questa
seconda fase riguarda soltanto il governo. “Sarebbe ridicolo supporre la
nazione vincolata anch'essa dalle modalità e dalla Costituzione cui ha
assoggettato i propri mandatari. Se per divenire nazione le fosse stata
necessaria una forma positiva essa non sarebbe mai divenuta tale. Il
governo invece può appartenere soltanto al diritto positivo. La nazione è
tutto ciò che è in grado di essere per il solo fatto di esistere”. Poco prima
si legge “In ogni sua parte la Costituzione non è opera del potere costituito
ma di quello costituente”. Si vede che per Sieyès questa nuova figura, il
pouvoir constituant, è l'immagine secolarizzata della nazione. Grazie ad
essa il meccanismo dell'Abate prende vita: “A chi dunque spetta decidere?
Alla nazione, indipendentemente, come sempre da ogni forma positiva.
Quand'anche la nazione avesse regolari Stati Generali non spetterebbe a
questo corpo costituito pronunciarsi su un contrasto che concerne la
propria costituzione. Eventuali rappresentanti straordinari avranno un
potere nuovo e diverso nella misura in cui la nazione lo vorrà. Poiché una
grande nazione non può realmente riunirsi ogni volta che delle circostanze
straordinarie lo richiedessero, essa deve affidare a dei rappresentanti
straordinari i poteri necessari in tali occasioni. Se essa potesse unirsi
davanti a voi ed esprimere la sua volontà, osereste contestarla perché la
esercita in una forma piuttosto che in un'altra? Qui la realtà è tutto e la
formula è nulla. Un corpo di rappresentanti nazionali supplisce
l'assemblea di questa nazione. Senza dubbio esso non ha bisogno di essere
investito dell'intera volontà nazionale; gli occorre solo un potere speciale,
e in rari casi, ma esso rimpiazza la nazione nella sua indipendenza da ogni
forma costituzionale”.209
Sembrerebbe un colpo di Stato. Ma dov'è la
209 Cfr. E.J. SIEYÈS, Qu'est-ce que le Tiers-état?, Paris, janvier 1789. Edizione
critica a cura di Zapperi, Genève, 1970, p. 185, con corsivi nel testo. In questo punto la
struttura rappresentativa non è stata ancora minata. La rappresentanza nazionale non è di
per sé stessa in antitesi con la struttura dualistica della rappresentanza, lo diviene
solamente nella parte in cui la nazione non ha altra rilevanza diversa da quella del proprio
rappresentante. In questo momento l’Abate afferma ancora che la nazione stia nelle
quarantamila parrocchie del regno, ma non tarderà a muovere dalle difficoltà di riunire la
nazione per dichiarare che la nazione non può avere altra voce che quella dell’Assemblea
nazionale. Il sofisma si annida, dunque, ancora una volta nella distinzione tra nazione e
Nazione, secondo quel gioco della fabbrica di maiuscole già denunciato da Cochin, come
si è visto al § che precede. Pur facendovi leva e dovendovi in gran parte la propria fortuna,
Sieyès tenta di imbavagliare l’opinione pubblica, dopo averla sobillata, non avendone
compreso l’intima portata distruttiva. Sul punto cfr. J. HABERMAS, Strukturwandel der
MANDATO IMPERATIVO, LIMITATIVO, LIBERO, NESSUN MANDATO
146
nazione? Sta nelle quarantamila parrocchie che abbracciano il territorio
nazionale, tutta la popolazione e tutti i contribuenti della cosa pubblica; è
da questo punto che il processo si svela: “Una società politica non può
essere formata che dall'insieme degli associati. Una nazione non può
decidere che essa non sarà una nazione, né che lo sarà in un determinato
modo: ciò equivarrebbe a dire che in altre forme essa non lo potrebbe
essere (...). Una nazione non ha mai potuto statuire che i diritti inerenti
alla volontà comune, cioè della maggioranza, passassero alla minoranza”.
Cerchiamo di riassumerei passaggi logici dissimulati tra le piroette
disinvolte dell’inebriante Abate. La volontà generale che era stata tradotta
in volontà comune adesso si svela come volontà della maggioranza. La
maggioranza è il Terzo stato, la sua volontà è la nazione, è il pouvoir
constituant: “I veri depositari della volontà nazionale sono i rappresentanti
del Terzo. Essi possono a giusto titolo parlare a nome dell'intera nazione”.
Questo perché gli associati sono troppo numerosi e sparsi su un territorio
troppo esteso per poter esprimere agevolmente essi stessi la loro volontà
comune. Nella decisione dell'Assemblea dunque, si mostra la volontà
nazionale, che è la volontà della maggioranza, che è la volontà dei
rappresentanti del Terzo. Abbiamo già anticipato l'ultima astrazione di
questo progetto di generalizzazione: il centro della sfera. La legge è il
prodotto della volontà generale, che è la volontà della maggioranza, cioè
dei rappresentanti della nazione, che, come si è detto, è l'aggregazione dei
singoli uguali, c'est à dire il Terzo stato. Quindi l'Assemblea rappresenta
la nazione, perciò i suoi membri non possono essere legati (e quindi
responsabili) alle istruzioni dei singoli.
L'unità della costruzione si manifesta anche nell'attività
assembleare. “È impossibile pensare ad un'assemblea legittima che non
abbia per oggetto la sicurezza comune, la libertà comune ed infine la cosa
pubblica. Naturalmente, ogni privato cittadino si propone, oltre a questi,
propri fini particolari. Egli si dice: nell'ambito della sicurezza comune io
potrò dedicarmi ai miei progetti personali e perseguire la mia felicità
secondo la mia volontà, sicuro di avere come unici limiti legali quelli che
la società mi prescriverà in nome di quell'interesse comune, al quale il mio
interesse particolare è così utilmente unito... Ecco dunque qual è l'oggetto
dell'assemblea: gli affari comuni.” In base a questi princìpi l'Abate
presenta la sua mozione: “Juge digne de sa sollicitude générale d'intenter
Öffentlichkeit, Neuwied, 1962, con tr. it. Storia e critica dell’opinione pubblica, Bari,
1971.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
147
les bailliages à rendre à leur députés la liberté nécessaire à de vrais
représentants de la nation. Au surplus, l'Assemblée déclare que la nation
française étant toujours tout entière légitiment représentée par la pluralité
de ses députés, ni les mandats impératifs, ni l'absence volontaire de
quelques membres, ni des protestations de la minorité ne peuvent jamais
ni arrêter son activité, ni altérer la liberté, ni atténuer la force de ses status,
ni enfin restreindre les limites des lieux soumis à sa puissance législative,
laquelle s'étend essentiellement sur toutes les parties de la nation et des
possessions françaises.”210
Alla fine della giornata, con settecento voti contro ventotto, passa il
seguente testo: “L'Assemblea nazionale, considerando i suoi principi
come fissati a questo riguardo, e considerando che la sua attività non può
essere sospesa o la forza dei suoi decreti indebolita dalle proteste o
dall'assenza di alcuni rappresentanti, dichiara che non vi è luogo a
deliberare”.211
Anche se respinta, tuttavia la sola presentazione della sua
210 A.P. s.I vol. VIII, p.207. Si noti ancora la correlazione tra puissance législative
e souveraineté. Sul problema di sovranità e forme d'État nella giuspubblicistica francese a
cavallo del secolo, cfr: P. ESMEIN, Élements de droit constitutionnel française et comparé,
V° ed., Paris, 1909, p. 243 ss. Giustamente osserva J. ROELS, Le concept de représentation
politique au XVIII siècle, Louvain-Paris, 1969, p. 94 (ripreso anche da Violante, Lo Spazio
cit. p. 72): “L'Assemblea ha nella Nazione il ruolo di un corpo unificante, creatore di
volontà. È essa che capta, per tradurla in decisione, una Volontà nazionale, la cui sede non
è da nessuna parte”.
Più di recentemente così sintetizza la posizione di Sieyès Hans Otto FREITAG
(Praktische philosophie, Staatslehre, Staatsrecht und die Theorie des
Gesellschaftsvertages beim Abbé de Sieyès, in "Rechtstheorie", XXIII, 1992, p. 78):
“Privilegien und sonstige Sonderrechte sind mit seiner Vorstellung des
Souveränitätsgedankens unvereinbar. Man kann wohl sagen, daß der unmittelbar
praktische Bezug der Lehren des Sieyès für die französische Revolution einen
Bedeutungsvollen neuen Ansatz geliefert hat, der der Theorie des Gesellschaftsvertrages
über die Trennung des pouvoir constituant und des pouvoir constitué hinaus
verfassungsrechtlich fortdauernde Bedeutung gegeben und das Souveränitätsprinzip,
gedacht ebenfalls als Ausfluß des Gesellschaftsvertrages, in die Rechtswirklichkeit
umgesetzt hat. Sieyès erreicht überdies eine Synthese des Prinzips der Volkssouveränität
mit dem Grundsatz der Gewaltenteilung, auch wenn er den Gedanken der Gewaltenteilung
bei der Behandlung des Gesellschaftsvertrages vordringlich nicht verfolgt”. Sul punto
specifico cfr. E. ZWEIG, Die Lehre vom Pouvir Constituant. Ein Beitrag zum Staatsrecht
der französischen Revolution, Tübingen, 1909, p. 117.
211 Ivi. Sul punto cfr. anche C. LARRÈRE, Le gouvernement représentatif dans la
pensée de Sieyès, in C. CARINI, (a cura di), Dottrine e istituzioni della rappresentanza,
Firenze, 1990, p. 37, nonché C. CARINI (a cura di), La rappresentanza nelle istituzioni e
nelle dottrine politiche, Firenze, 1986.
MANDATO IMPERATIVO, LIMITATIVO, LIBERO, NESSUN MANDATO
148
mozione assicura a Talleyrand l'elezione a primo degli otto membri del
comitato per la costituzione.
Non ci si pronuncia dunque formalmente come Talleyrand chiedeva
ammonendo che i mandati limitativi sarebbero cresciuti una volta stabilita
la Costituzione. Così la questione del mandato imperativo si ripresenterà
nel dibattito sulla sanzione reale alle leggi tra la fine di agosto e i primi di
settembre del 1789. Infatti, discutendosi sul fondamento della sanzione
reale, il deputato della borghesia di Nancy-Salle deduce da Rousseau la
necessità del mandato imperativo, se non altro limitatamente agli articoli
costituzionali, contro l'opposta opinione di Mounier: “Il signor Mounier
non vuole che la nazione abbia una volontà; io non so in che il signor
Mounier faccia consistere la sovranità nazionale”.212
Al momento della formazione della Costituzione ci si chiede quale
deve essere la natura dei legami tra collegi elettorali e loro eletti. E più
precisamente quanto gli elettori possano influire sulle volontà che saranno
espresse in seno all'Assemblea dai loro eletti. Infatti dall’ampiezza del
mandato varia l'idea di rappresentanza e la natura stessa del governo
rappresentativo. Il primo a prendere la parola è Pétion de Villeneuve nella
seduta del 5 settembre 1789: “Les membres du Corps législatif sont des
mandataires; les citoyens qui les ont choisis, sont des commettants; donc,
ces représentants sont assujettis à la volonté de ceux de qui ils tiennent
leur mission et leurs pouvoirs. Nous ne voyons aucune différence entre
ces mandataires et les mandataires ordinaires: les uns et les autres agissent
au même titre, ils ont les mêmes obligations et les mêmes devoirs. Tous
les individus qui composent l'association, ont le droit inaliénable de
concourir à la formation de la loi; et si chacun pouvait faire entendre sa
volonté particulière, la réunion de toutes ces volontés formerait
véritablement la volonté générale: ce serait le dernier degré de perfection
politique. Nul ne peut être privé de ce droit, sous aucun prétexte.
Pourquoi les peuples se choisissent-ils des représentants? C'est que la
difficulté d'agir par eux-mêmes est presque toujours insurmontable. Car, si
ces grands corps pouvaient être constitués de manière à se mouvoir
facilement, des délégués seraient inutiles; je dis plus, ils seraient
dangereux”.213
L'intervento di Pétion è sostenuto dall'idea che la sovranità
212 Cfr. A. SAITTA, Costituenti e costituzioni, cit, p. 25.
213 A.P. s.I vol.VIII p.581 e ss. nostro il grassetto. Palese l’assonanza con
l’argomentazione di Burke nel noto Speech agli elettori di Bristol, che dipingeva il
Parlamento di Westminster non come un congresso di ambasciatori, una riunione di
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
149
appartenga a ciascuno dei cittadini. È una premessa rousseauiana214
e tale
risulta sostanzialmente la conclusione: una forma di governo popolare
tramite mandato imperativo, il miglior surrogato all'ottima democrazia
diretta, di impossibile attuazione pratica. Qui val solo la pena di notare la
differenza dell'intervento di Pétion in difesa del mandato imperativo, da
quelli di due mesi prima. La prospettiva è completamente mutata. A luglio
la Nobiltà e l'alto Clero sostengono il vincolo di mandato per difendere la
divisione degli ordini e il frazionamento del Terzo, in sostanza i privilegi
della tradizione. A settembre invece si anticipano già chiaramente
posizioni radicali proprie della Convenzione. In mezzo naviga Sieyès.
Proprio lui si incarica di confutare la tesi di Pétion richiamando
l'Assemblea a quanto già deciso: “Je sais qu'à force de distinctions et de
confusion, on est parvenu à considérer le vœu national comme s'il pouvait
être autre chose que le vœu des représentants de la nation, comme si la
nation pouvait parler autrement que par ses représentants. Ici, les faux
principes deviennent extrêmement dangereux. Ils ne vont à rien moins
qu'à morceler, qu'à déchirer la France en une infinité de petites
démocraties, qui ne s'uniraient ensuite que par les liens d'une
confédération générale ... La France n'est point une collection d’Etats; elle
est un tout unique, composé de parties intégrantes; ces parties ne doivent
point avoir séparément une existence complète, parce qu'elles ne sont
point des tout simplement unis, mais des parties ne formant qu'un seul
tout”.215
La sovranità è nell'unità; i rappresentanti sono della nazione, non
mandatari l’uno contrapposto all’altro, quanto piuttosto come un corpo deliberativo di
un’unica Nazione, guidato dal bene e dalle ragioni dell’intero. Sui debiti teorici di Burke
nei confronti di Robert Walpole, il citato saggio di B. ACCARINO, Rappresentanza,
Bologna, 1999, p. 82, nota 34, ci rinvia al contributo di I. KRAMNICK, An Augustan
Debate: Notes on the History of Representation, in J.R. PENNOCK – J.W. CHAPMANN (a
cura di), Representation, New York, 1968, p. 83-91, che richiama anche come fonte
possibile del pensiero di Burke il saggio di D. HUME, On the First Principles of
Government, nella trad. it. Saggi e trattati morali letterari politici e economici, a cura di
M. Dal Prà e E. Ronchetti, Torino, 1974, p. 207-213.
214 Recentemente cfr. F. MAZZANTI PEPE, Mably: per una democrazia a misura
d'uomo, in "Materiali per una storia della cultura giuridica", a. XXIII, 1993, n. 1, che con
un'attenta analisi sul pensiero dell'abate Mably circa la democrazia, chiarisce lo spazio in
cui si muovono questi oratori sulla cui formazione cfr: D. MORNET, Les origines
intellectuelles de la Révolution française, VI ed., Paris, Collin, 1967; B. GROETHUYSEN,
Philosophie, cit.; F. DIAZ, Filosofia politica nel settecento francese, Torino, Einaudi, 1962;
P. GOUBERT, L'ancien régime, 2 voll., Paris, 1973 (tr. it. 1976).
215 A.P. s.I vol.VIII p.583 e ss.
MANDATO IMPERATIVO, LIMITATIVO, LIBERO, NESSUN MANDATO
150
vi può essere volontà nazionale al di fuori di quella dei rappresentanti:
asserire il contrario non solo è falso ma è pericoloso. Poi, l'Abate sembra
avvicinarsi alle posizioni di Talleyrand: “Un député l'est de la nation
entière: tous les citoyens sont ses commettants. Or, puisque, dans une
assemblée bailliagére, vous ne voudriez pas que celui qui vient d'être élu,
se chargeât du vœu du petit nombre contre le vœu de la majorité, à plus
forte raison vous ne devez pas vouloir qu'un député de tous les citoyens du
royaume écoute le vœu des seuls habitants d'un bailliage ou d'une
municipalité contre la volonté de la nation entière. Ainsi, il n'y a, il ne
peut y avoir, pour un député, de mandat impératif, ou même de vœu
positif, que le vœu national”.216
Tutt'a un tratto sembra che i deputati debbano sentire la voce dei
cittadini di tutto il reame. Poi sembra che l'unico vœu sia quello nazionale.
Ma dove lo si rinviene? Proseguiamo. Sieyès esprime un'altra versione
della sua concezione rappresentativa e comincia distinguendo due forme
di governo, che con il tradizionale linguaggio, già di Montesquieu e di
Rousseau, chiama "democrazia" e "governo rappresentativo". “Les
citoyens peuvent donner leur confiance à quelques-uns d'entre eux. C'est
pour l'utilité commune qu'ils se nomment des représentants bien plus
capables qu'eux-mêmes de connaître l'intérêt général et d'interpréter, à cet
égard, leur propre volonté. L'autre manière d'exercer son droit à la
formation de la loi est de concourir soi-même immédiatement à la faire.
Ce concours immédiat est ce qui caractérise la véritable démocratie. Le
concours médiat désigne le gouvernement représentatif. La différence
entre ces deux systèmes politiques est énorme”.217
La Francia non può che
avere il secondo ed il motivo è quello che aveva già indicato
Montesquieu.218
Sieyès lo riprende: “Le choix entre ces deux méthodes de
216 Ivi. A questo proposito L. DUGUIT (Traité de droit constitutionnel, Paris, 1911,
vol. I, p.339) fa notare: “«Mais celui-ci (id est Sieyès) se garde bien de dire qu’il n’y a pas
de mandat; au contraire, il y a un mandat; mais ce mandat, "c’est le vœu national"; si le
député ne peut pas recevoir un mandat de la circonscription qui le nomme, c’est qu’il est le
député de la nation tout entière, et qu'une circonscription qui lui donnerait un mandat
spécial usurperait les droits de la nation seule souveraine de qui seule peut émaner le
mandat”.
217 Ivi.
218 Circa l'influsso di Montesquieu su Sieyès e suoi contemporanei, cfr: L.
ALTHUSSER, Montesquieu, la politique et l'histoire, Paris, 1946, (tr. it. Roma 1969); E.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
151
faire la loi n'est pas douteux parmi nous. La très grande pluralité de nos
concitoyens n'a, ni assez d'instruction, ni assez de loisirs, pour vouloir
s'occuper directement des lois qui doivent gouverner la France; leur avis
est donc de se nommer des représentants. Et puisque c'est l'avis du plus
grand nombre, les hommes éclairés doivent s'y soumettre comme les
autres”.219
Di conseguenza l'unica soluzione rimane il regime
rappresentativo che Sieyès ci presenta con sfumature ancora diverse: “Le
peuple ou la nation ne peut avoir qu'une voix, celle de la Législature
nationale. Les commettants ne peuvent se faire entendre que par les
députés nationaux... Le peuple, je le répète, dans un pays qui n'est pas une
démocratie (et la France ne saurait l'être), le peuple ne peut parler, ne peut
agir, que par ses représentants”.220
Ma Sieyès dice di più. I cittadini
rimettono ai deputati la loro fiducia, non delle istruzioni: “Donc, les
citoyens qui se nomment des représentants, renoncent et doivent renoncer
à faire eux-mêmes immédiatement la loi: donc, ils n'ont pas de volonté
particulière à imposer. Toute influence, tout pouvoir, leur appartient sur la
personne de leurs mandataires, mais c'est tout. S'ils dictaient des volontés,
ce ne serait plus cet état représentatif, ce serait un état démocratique”.221
Il
risultato del dibattito, sostanzialmente favorevole ancora una volta a
Sieyès, si traduce nell'Instruction de l'Assemblée nationale du 8 janvier
1790 sur la formation des assemblées représentatives. Vi si legge: “Les
mandats impératifs étant contraires à la nature du Corps Législatif, qui est
essentiellement délibérant, à la liberté des suffrages dont chacun de ses
membres, qui ne sont point les représentants du département qui les a
envoyés, mais les représentants de la nation, enfin à la nécessité de la
subordination au corps de la nation entière, aucune assemblée d’électeurs
ne pourra, ni insérer dans le procès-verbal de l'élection, ni rédiger
CARCASSONNE, Montesquieu et le problème de la constitution française su XVIII éme
siècle, Paris, 1927.
219 A.P., loc. ult. cit. Sull'obbligo per gli "uomini illustri" di sottomettersi, cfr. H.
G. KOENIGSBERGER, Estates and Revolutions, Ithaca, 1971; R. KOSELLECK, Kritik und
Krisis, Freiburg - München, 1959.
220 Ivi. Questa opinione data per scontata sarà rovesciata dalla Convenzione;
incisivo e radicale cfr. L. de SAINT-JUST, Frammenti delle istituzioni repubblicane, a cura
di A. Sobul, Torino, Einaudi, 1952; cfr. anche A. PRINS, De l'Esprit du gpvernement
democratique, Bruxelles Leipzig, Thron, 1906.
221 Ivi.
MANDATO IMPERATIVO, LIMITATIVO, LIBERO, NESSUN MANDATO
152
séparément, aucuns mandats impératifs. Elle ne pourra pas même changer
les représentants qu'elle aura nommés, d'aucuns cahiers ou mandats
particuliers”.222
La questione dei mandati imperativi doveva tuttavia sollevarsi, una
volta ancora, nel mese di aprile 1790. In quel momento spiravano i poteri
di un certo numero di deputati, che erano stati nominati dai loro elettori
solo per un anno. L'opposizione realista viene allora a sostenere che
l'Assemblea non poteva continuare a sedere, ma che occorreva far
eleggere altri deputati dal popolo e cedere loro il posto: lo scopo di tale
proposta era di provocare l'interruzione del lavoro di confezione della
Costituzione, che non era ancora discussa per metà. Per assicurare la
perfezione della Carta, il comitato della Costituzione propose un decreto
che annullasse l'effetto dei cahiers per quanto concerneva la limitazione
della durata dei poteri. Questo progetto di decreto fu combattuto dall'abate
Maury, che per i bisogni della causa invoca la sovranità nazionale,
dichiarando che l'Assemblea avrebbe usurpato i diritti del popolo se
avesse prolungato al di là del suo mandato i poteri che aveva ricevuto da
lui. Tuttavia Mirabeau replicò che dopo il giuramento della Pallacorda,
l'Assemblea aveva modificato la natura dei suoi poteri e si era trasformata
in Assemblea nazionale, e ciò per effetto dello stesso giuramento che
avevano prestato i suoi membri di non dividersi prima di aver donato una
costituzione alla Francia: “Provoquée par l'invincible tocsin de la
nécessité, notre Convention nationale est supérieure à toute limitation
comme à toute autorité, elle ne doit compte qu'à elle-même et ne peut être
jugée que par la postérité”.223
Anche la costruzione di Sieyès sembra sostenuta dalla correlazione
volontà generale - legge - sovranità - rappresentanza che regge l'intervento
di Talleyrand (vedi supra). Ma a ben guardare non si tratta di una formula
del tipo: "se la volontà generale così come rappresentata diventa legge, la
sovranità dipende dalla rappresentanza", bensì qualcosa del tipo: "se la
volontà generale così come rappresentata diventa legge, la sovranità
dipende dal rappresentante". La differenza è capitale. Nella prima
222 Ivi. Sul divieto di mandato imperativo nell'art. 67 della Costituzione vigente,
come diritto e dovere del deputato, cfr. N. ZANON, Il libero mandato parlamentare,
Milano, Giuffrè, 1991, p. 288 e ss. su cui cfr. infra, § III.1.
223 Cfr. R. CARRÉ de MALBERG, Contribution à la théorie générale de l'État, Paris,
1920-22, vol. II, p. 259.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
153
versione la sovranità, o meglio la sua manifestazione, cioè la legge, risale
alla volontà generale mediante il meccanismo della rappresentanza, di
qualunque ampiezza essa sia.224
Nella seconda formulazione essa risale ai
rappresentanti. Ciò che si vuole mettere in evidenza è che –pure restando
in un’ottica volontaristica- poiché la volontà generale per trasformarsi in
legge ha bisogno di passare per il vaglio della rappresentanza, l'ampiezza
di quest'ultima, la sua corretta determinazione concettuale, lo stabilire
cosa i rappresentanti possano o non possano fare, indica la fedeltà della
legge alla volontà generale stessa. L'impossibilità, già denunciata da
Rousseau, di riunire l'intera nazione va superata con il minimo
inconveniente possibile.
Tentiamo di riassumere e sintetizzare la posizione di Sieyès. Non è
facile sia perché viene articolandosi in un lasso di tempo di quasi due
anni, sia perché egli stesso nei suoi interventi mette in luce ora questo, ora
quell'aspetto della sua teoria a seconda degli obbiettivi e della piega che
intende imporre al dibattito.225
Dai diversi interventi dell'Abate possiamo
224 Si è già detto dell'assunto di Leibholz sulla correlazione, se non altro di fatto,
rappresentanza - sovranità popolare. Per questi profili del pensiero di Leibholz e per le
conseguenze del suo pensiero nell’esperienza di Weimar, cfr. A. SCALONE,
Rappresentanza politica e rappresentanza degli interessi, Milano, 1996, p. 87-90.
225 Secondo D. ZOLO, Il Principato democratico, Milano, 1992, pp 101-9, si può
chiamare "Teoria dell'adattamento", quella teoria della rappresentanza politica in quanto
«concepita e giustificata come un adeguamento o un aggiornamento del modello ateniese,
ovvero come una sua combinazione con elementi della tradizione repubblicana classica da
Roma alle società-stato italiane del rinascimento». La si può riconoscere nel pensiero di
vari pensatori in un certo lasso di tempo, seppure con sfumature diverse: da Montesquieu
agli Stuart Mill, a Bentham, a Destutt de Tracy, fino a Kelsen e Dahl. Per Zolo vi
sarebbero tre ordini di argomenti che denuncerebbero tale teoria "irrealista ed elementare".
Primo è un argomento di carattere storico: la rappresentanza non ha alcun rapporto
con le istituzioni politiche della classicità. L'istituto rappresentativo infatti, lo dice già
Rousseau, era sconosciuto alla polis greca come a Roma, si afferma nel basso medioevo,
particolarmente in Inghilterra e in Svezia, con spiccate caratteristiche di carattere
corporativo ed organico. In secondo luogo vi sarebbe una diversità di struttura: la
rappresentanza politica non avrebbe infatti che un pallido ricordo dell'istituto classico della
rappresentanza negoziale elaborato dalla giurisprudenza romanistica (su cui anche H.
KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, trad. it., Milano, Giuffrè, 1954, pp. 294-
7), in particolare mancherebbe la responsabilità. In terzo luogo vi è un argomento di
carattere sociologico, il meccanismo elettorale non farebbe altro che applicare al sistema
politico il criterio generale della divisione del lavoro, demandando ad un corpo di
specialisti, i politici di professione, una funzione che richiede elevate competenze
professionali e che opera secondo la logica specifica della dialettica parlamentare. Per
questa ragione, conclude Zolo, Schumpeter arriverà a sostenere che ogni tentativo di
MANDATO IMPERATIVO, LIMITATIVO, LIBERO, NESSUN MANDATO
154
ricostruire il suo pensiero come segue. Il popolo o la nazione non possono
avere che una voce, quella della legislatura nazionale, gli elettori non
possono farsi ascoltare che tramite i loro deputati nazionali; il popolo non
può parlare né agire che tramite i suoi rappresentanti. Poiché i deputati
appartengono alla nazione intera, debbono ascoltare la voce di tutti i
cittadini del reame, tuttavia questi ultimi non possono affidare loro alcuna
istruzione, anzi nessuna indicazione: essi possono dare solo la loro
fiducia. Ciò che con termini moderni chiameremo una compiuta frattura
tra paese reale e paese legale trova la sua giustificazione in una
considerazione di fondo. La maggior parte dei cittadini non ha sufficiente
istruzione e capacità per occuparsi direttamente delle leggi e degli affari
della Francia. Conviene che scelga delle persone che siano più capaci di
intendere le bisogna nazionali. Quest'idea era già in Montesquieu: “Il y
avait un grand vice dans la plupart des anciennes république; c'est que le
peuple avait le droit d'y prendre des résolutions actives et qui demandent
quelque exécution, chose dont il est entièrement incapable. Il ne doit
entrer dans le gouvernement que pour choisir ses représentants. Ce qui est
très à sa portée. Car s'il y a peu de gens qui connaissent le degré précis de
la capacité des hommes, chacun est pourtant capable de savoir en général
si celui qu'il choisit est plus éclairé que la plupart des autres... Le grand
avantage des représentants est qu'ils sont capables de discuter les affaires.
Le peuple n'y est point du tout propre. Ce qui forme un des grands
inconvénients de la démocratie”.226
Ma Sieyès trae due conseguenze che
stravolgono la portata della premessa. I cittadini che nominano dei
rappresentanti, rinunziano e devono rinunziare a fare essi stessi la legge.
Ogni potere del popolo cessa con l'elezione dei deputati. Ma ai deputati il
popolo non può indicare la sua volontà, poiché, come aveva detto Barrère,
al momento dell'elezione il potere legislativo non è ancora costituito, esso
esiste nell'Assemblea una volta riunita, gli elettori non possono dare
istruzioni sull'attività legislativa ai loro rappresentanti al momento
dell'elezione. D’altronde la nazione ha una sola voce, lo si è già detto,
quella della legislatura nazionale. Sovviene l'ironica critica di Rousseau al
sistema rappresentativo inglese: “Il popolo inglese crede di essere libero, influenzare i membri del parlamento e di condizionarne la libertà di azione mediante
pressioni dal basso (magari tramite lettere od altro) deve essere rigorosamente bandito
come attentato alla razionalità della divisione del lavoro entro la sfera politica.
226 Cfr. CH. L. DE SECONDAT Seigneur de La Brède et Baron de MONTESQUIEU,
Esprit des lois, Ginevra, 1748, XI, 6.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
155
ma si sbaglia di grosso; lo è soltanto durante l'elezione dei membri del
Parlamento; appena questi sono eletti, esso torna schiavo, non è più
niente. Nei brevi momenti della sua libertà l'uso che ne fa, merita di
fargliela perdere”.227
Lo stesso concetto esprimeva Lenin un secolo e
mezzo dopo svelando che il popolo è libero solo nel momento
dell'elezione, per scegliere chi dovrà imporgli le catene. Ma vi è una
seconda conseguenza. Se è vero che la maggioranza dei cittadini è
ignorante, occorre che si nominino dei rappresentanti; e poiché questo è
l'avviso della maggioranza, le poche persone illuminate dovranno
sottomettersi. Ancora una volta ciò che appariva la volontà nazionale,
risulta la volontà della maggioranza, così come interpretata
dall'Assemblea, senza alcun possibile dissenso. È un altro aspetto di
omogeneità sociale che Sieyès pone all'inizio del libello "Cosa è il Terzo
stato?": “Ainsi, il n'y a, il ne peut y avoir, pour un député, de mandat
impératif, ou même de vœu positif, que le vœu national”.228
Secondo
Carré de Malberg “On retrouve dans ces derniers mots l'idée que
Rousseau avait si fortement exprimée: "Quand on propose une loi dans
l'Assemblée du peuple, ce qu'on demande (aux membres de l'assemblée),
n'est pas précisément s'ils approuvent la proposition ou s'ils la rejettent,
mais si elle est conforme ou non à la volonté générale."”229
Non ci sembra
questa l'interpretazione da dare. Per il Ginevrino l'assemblea è il popolo,
eventualmente presente tramite nuncii, cioè rappresentanti - mandatari
incaricati di recare solamente la volontà dei mandanti, poiché “ogni legge
che non sia stata ratificata dal popolo in persona è nulla; non è una
legge”.230
L'unico regime è la democrazia diretta, tanto da assurgere da
forma di governo quasi a principio aggregante la comunità.231
In essa la
voce della nazione è la legge. Anche per Sieyès i deputati devono tradurre
in legge la volontà nazionale, ma la sola volontà nazionale è quella
227 J. J. ROUSSEAU, Il Contratto sociale, in Scritti Politici, a cura di Paolo Alatri,
Torino, UTET, 1970, p. 800 e sgg.
228 R. CARREÉ de MALBERG, Contribution, cit., vol. II, pag. 255.
229 Ivi.
230 J.J. ROUSSEAU, Il Contratto, cit.
231 Per la distinzione tra comunità e regime, con particolare riguardo al ruolo di
aggregatore della prima svolto dal secondo nella costruzione di Rousseau, cfr. F. GENTILE,
Intelligenza politica e ragion di stato, II ed. Milano, 1984, p. 137 e specialmente p. 145.
MANDATO IMPERATIVO, LIMITATIVO, LIBERO, NESSUN MANDATO
156
dell'Assemblea. Anche per Sieyès la legge è la voce della Nazione, ma la
nazione è l'Assemblea. Appare così manifestamente l'antiteticità delle due
posizioni, la democrazia diretta di Rousseau e il governo rappresentativo
di Sieyès. Ma si tratta di un governo veramente rappresentativo? Si è già
messo in evidenza come due siano gli elementi costitutivi della
rappresentanza: la situazione del rappresentante (buona e fedele)
immagine del rappresentato, che agisce in nome e per conto, secondo la
volontà e nell’interesse (non vale qui distinguere) di quest’ultimo; il
secondo elemento è dato dal rapporto tra il rappresentato ed il
rappresentante, tra l'assente e il presente. Occorre un legame tra le due
parti per cui si possa dire che il secondo sta al posto del primo. Questi
elementi, situazione e rapporto, sono essenziali: possono essere compressi
e ridotti, ma nessuno dei due può cedere completamente all'altro. Le
combinazioni dei due fattori costitutivi sono infinite e storicamente se ne
sono avute diverse gradazioni. Si può accentuare la situazione favorendo
l'autonomia e la discrezionalità del rappresentante. Per contro si può
legare quest'ultimo con le istruzioni precise fino a farlo portatore della
volontà del rappresentato. L'assoluta situazione comporta una completa
sostituzione del rappresentante al rappresentato, piena discrezionalità del
primo, assoluta irresponsabilità verso il secondo: non vi sono più due
persone, ma solo un centro di interesse, non vi è più rappresentanza.
All'opposto assolutizzando il rapporto, il mandatario viene ridotto a mero
nuncius, latore della volontà del mandante, senza alcuna autonomia, senza
apparire come persona distinta. Anche qui non vi sono più due persone,
ma una sola volontà; nemmeno qui vi è rappresentanza. Appare chiaro
come la costruzione di Sieyès si collochi in quella categoria che abbiamo
enucleato nel capitolo precedente, come pura “situazione”, mentre quella
rousseauiana sia puro “rapporto”. Nessuna delle due è rappresentanza.
Tuttavia mentre il Ginevrino adotta la sua per conseguenza logica del
rifiuto di ogni rappresentanza, della inammissibilità stessa dell'istituto nel
potere legislativo, talché è una forma di democrazia diretta attuata tramite
commissari per l'impossibilità di riunire il popolo, comunque un'extrema
ratio cui ricorrere, Sieyès sostiene la sua cercando di contrabbandarla per
gouvernement representatif. L'Abate sa quanto è difficile ottenere
l'unanimità e per questo teme la democrazia. Meglio quindi istituire
un'assemblea sovrana, formata da deputati completamente svincolati dai
propri elettori, assolutamente irresponsabili verso chiunque, un’assemblea
per definizione assunta come unica interprete dei voleri e dei bisogni della
Nazione. Ciò vale a bloccare qualsiasi interferenza extraistituzionale una
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
157
volta che il potere si è costituito. L'omogeneità tanto agognata qui si
realizza. Poiché gli elettori danno al deputato solo la loro fiducia, qualsiasi
cosa faccia il deputato in Assemblea, farà la volontà dei suoi elettori.
Poiché non vi è altra volontà nazionale che quella espressa
dall'Assemblea, ogni cittadino dovrà riconoscere che quella è la sua
propria volontà. Le differenze non esistono perché sono state tolte per
definizione. Né alla fine del mandato gli elettori potranno sindacare
l'operato dei deputati, perché comunque questi hanno attuato la volontà e
l'interesse dei primi. I veri sovrani sono allora i "rappresentanti", poiché
essi sono la Nazione. La formula imporrebbe di riferire loro oltre che
l'esercizio anche la titolarità formale della sovranità.232
Ma non era lo stesso Sieyès che poco sopra abbiamo sentito dire
“Se essa (la nazione) potesse riunirsi davanti a voi ed esprimere la sua
volontà, osereste contestarla poiché la esercita in una forma anziché in un
altra? Qui la realtà è tutto e la formula è nulla!”?233
Gli argomenti usati per
affondare gli Stati Generali, potrebbero ora essergli rivolti contro.
L'artificio sarà infatti smascherato da Robespierre nella seduta del 10
agosto 1791: “Il est impossible de prétendre que la nation soit obligée de
déléguer toutes les autorités, toutes les fonctions publiques, qu'elle n'ait
aucune manière d'en retenir aucune partie... On ne peut pas dire que la
nation ne peut exercer ses pouvoirs que par délégation; on ne peut point
dire qu'il y eût un droit que la nation n'ait pas; on ne peut bien régler
qu'elle n'en usera point, mais on ne peut pas dire qu'il existe un droit dont
la nation ne peut pas user si elle veut.”234
L'irresponsabilità dei rappresentanti porta con sé l'assenza dei
rappresentati. Uno dei due termini della rappresentanza viene vanificato:
la rappresentanza cessa in quello stesso momento.
232 Cfr. H. KELSEN, La Democrazia, Bologna, V ed., 1984, p. 131 ss.; R. DAHL, La
democrazia e i suoi critici, trad. it. Roma, 1989. Contro le finzioni che mirano ad
assicurare il mantenimento del potere e la stabilità governativa, mediante “democrazia
aritmetica ed assembleare”, si confrontino le pungenti critiche di M. BERTOLISSI, “Rivolta
fiscale”, federalismo, riforme istituzionali. Promemoria per un’Italia che cambia, Padova,
1997, specialmente p. 58 e ss, che con la consueta vis stigmatizza il mito nella panacea
dell’ingegneria costituzionale.
233 Cfr. E.J. SIEYÈS, Qu'est-ce que le Tiers-état?, Paris, janvier 1789. Edizione
critica a cura di Zapperi, Genève, 1970, p. 185.
234 A.P., ser. I, vol. XXIX, p. 326-7; cfr. anche R. CARRÉ' de MALBERG,
Contribution cit., vol. II, p. 261.
MANDATO IMPERATIVO, LIMITATIVO, LIBERO, NESSUN MANDATO
158
L'esigenza di responsabilità era presente o meglio, latente nella
Assemblea nazionale, ma le proposte rimanevano a livello di correttivi. Si
prenda ad esempio questo passo di Rambaud de St. Etienne: “Ces deux
mots, 'représentant' et 'continuel' ne vont pas ensemble. Tout représentant
est révocable, et, s'il n'est pas révocable, il n'est pas représentant”.
Chiariamo subito che non si intende qui niente di simile al moderno diritto
di recall o Aberuffungsrecht, durante l'Assemblea nazionale non si giunse
ad una cosa simile. L'intento chiaro comunque è di impedire una tirannide
assembleare, il legittimarsi di un organo autoritario peggiore del Re, non
fosse altro perché più numeroso. Si costituirebbe in sostanza quello che
Leibholz, mutuando il termine da Heller, chiama "rappresentanza
magistratica" le cui origini vengono fatte risalire all'epoca romana.
Nell'ambito della magistratura romana e proprio sul terreno della sovranità
popolare avrebbe preso origine il principato, in cui l'imperatore all'interno
dei suoi limiti costituzionali, era rappresentante di tutto il popolo.235
235 Per la fonte di Leibholz, cfr. H. HELLER, Die Krise der Staatslehre (1926) in
Gesammelte Schriften, Tübingen, 1971, tr. it. La sovranità ed altri scritti sulla dottrina del
diritto e dello Stato, a cura di P. Pasquino, Milano, 1987. A questo proposito, sulla
rappresentanza magistratica, si confronti l'opera di Th. MOMMSEN, Romisches Staatsrecht,
Leipzig, 1875, vol. II p.710 ss.; F. DE MARTINO, Storia della costituzione romana, Napoli,
1951, poi in 5 voll. ivi, 1972-75, specialmente voll. 4.2 e 5 (1975); V. ARANGIO-RUIZ, Il
mandato in diritto romano, 1949, rist. 1965. Tale sistema di rappresentanza "per
sostituzione" ha caratterizzato fondamentalmente tutto il Medioevo, ma con importanti
sviluppi concettuali che hanno permesso gli interventi di Filippo a Tours, le teorie dei
Monarcomachi, influendo anche sul giusnaturalismo moderno.
Per questi aspetti cfr. il già citato lavoro di O. von GIERKE, J. Althusius und die
Entwicklung der naturrechtlichen Staatstheorien, Breslau, 1880, trad. it. Torino, 1975, ma
già anticipato in Das deutsche Genossenschaftsrecht, Darmstad, 1868. Il principio della
rappresentanza magistratica sostiene la cosiddetta "teoria degli organi" (su cui infra).
Proposta per la prima volta proprio da Gierke nel 1868, è sviluppata da P. LABAND, vi
hanno aderito in Francia M. HAURIOU, (Etudes constituionnelles. La Souverainenté
nationale, Paris - Toulouse, 1912) e R. CARRÉ de MALBERG (Contribution à la théorie
générale de l'État, Paris, 1920).
Sul carattere "fittizio" del Parlamento, cfr. H. KELSEN, Vom Wesen und Wort der
Demokratie, Tübingen, 1929, trad. it. La democrazia, V ed., Bologna, 1984, p. 69 - 70; per
una tendenza al ritorno del mandato imperativo, vedi specialmente pag.155 e ss. Ma oltre
alla giustificazione romanistico - medioevale per cui lo stato rappresenta tutti gli individui
che gli sono aggregati, la teoria organica ne vanta una seconda ben più incisiva. Citiamo da
G. LEIBHOLZ (La rappresentazione nella democrazia cit., p. 144) la considerazione di
Rotteck per cui gli elettori “«come tali non hanno più nelle materie sociali vere e proprie,
nessuna volontà privata, e nessun interesse proprio da far valere, che stia in
contrapposizione col fine sociale.” Ci sovviene la definizione e il ruolo dell'interesse del
rappresentato nella costruzione da Pitkin. Cfr. H. F. PITKIN, The Concept of
Representation, Berkeley, 1967.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
159
Un dato appare acquisito dal dibattito, anche se implicitamente,
perché dovuto in parte alla necessità: la prevalenza del costituito sul
costituente. Più che il ragionamento, artefice ne è la paura, il grande
motore delle rivoluzioni, secondo la definizione di Ferrero.236
Abbandonare l'Assemblea per tornare dai propri committenti
significherebbe arrendersi alle baionette del Re, rinunciare alle conquiste
ottenute dal 17 giugno in poi, negare il carattere rappresentativo, anzi il
ruolo di unico rappresentante all'Assemblea nazionale, riconoscendo il
vecchio sistema degli Stati Generali, dare in sostanza partita vinta a quella
parte della Nobiltà che non era ancora confluita in Assemblea.
Barrère è deciso: spetta al potere costituito rimediare agli errori del
potere costituente. Sostenendo che il potere legislativo esiste solo nel
potere costituito, nega che la nazione abbia una volontà finché non ha una
voce. Ma la posizione più paradossale è quella di Sieyès. Proprio lui nel
gennaio di quell'anno aveva scritto: “A chi dunque spetta decidere? Alla
nazione, indipendentemente, come sempre, da ogni forma positiva.
Quand'anche la nazione avesse regolari Stati Generali non spetterebbe a
questo corpo costituito pronunciarsi su un contrasto che concerne la
propria costituzione.(...) Se essa (la nazione) potesse riunirsi davanti a voi
ed esprimere la sua volontà, osereste contestarla perché la esercita in una
forma piuttosto che in un'altra? Qui la realtà e tutto e la formula è nulla”.
Alcuni mesi dopo la sfiducia di Sieyès nelle capacità di autogovernarsi del
popolo (derivata da Montesquieu), sconsiglia di ricorrere agli elettori,
anche perché secondo l'Abate la nazione ha una sola voce: quella
dell'Assemblea nazionale, immagine stessa del potere costituito.
L'esigenza di unità ed omogeneità impone a Sieyès la finzione di
un'assemblea irresponsabile assunta come sola conoscitrice ed interprete
dei bisogni nazionali. In quest'ottica ogni rapporto con gli elettori, ogni
forma di mandato, ogni voce extra assembleare, dimostra l'esistenza di un
"paese reale", smascherando la falsità della costruzione dell'Abate.
Conseguentemente non vi è spazio per qualsiasi forma di rappresentanza:
tutto si riduce a "situazione".
In fondo, la parabola che abbiamo ripercorso in questo capitolo,
dalle radici illuministiche alla consacrazione di un principio giuridico con
il massimo crisma dell’ordinamento positivo, quale può essere
l’inserzione nella carta costituzionale, è rappresentativa della produzione
236 Cfr. G. FERRERO, Le due rivoluzioni francesi, Ginevra, 1936 e Milano, 1986.
MANDATO IMPERATIVO, LIMITATIVO, LIBERO, NESSUN MANDATO
160
dell’Homo ideologicus, con cui abbiamo aperto le nostre osservazioni
francesi. Homo ideologicus237
non è il risultato né di una mutazione
casuale, né di un incrocio accidentale, né di una manipolazione genetica:
esso è il prodotto normale, automatico, non voluto di una forma specifica
di associazione che il già citato Cochin chiama la società di pensiero. Qui
sta l’intuizione centrale di Cochin. L’ideologo non è mosso dalle passioni,
né spinto dagli interessi, i suoi atti ed i suoi modi di essere non sono il
risultato di alcuna deliberazione coscientemente voluta. È ciò che è e fa
ciò che fa perché è passato attraverso un’impastatrice del tutto particolare,
sebbene perfettamente indolore e perfino innocente. Che cosa sono,
infatti, queste società di pensiero al momento della loro prima comparsa,
intorno al 1750? Sono piccoli gruppi disseminati per tutta la Francia, in
cui si conversa e ci si riunisce solo per conversare. Conversare di tutto: di
scienza, di agricoltura, di economia e di politica, di letteratura e di tutto
ciò che è chiamato filosofia e lumi. Ed il conversare in questa prospettiva
acquista senso proprio in ragione di ciò che esclude, cioè l’azione.
Conversare per il gusto di simulare, senza la preoccupazione del fare.
Nessuna di queste sette promuove complotti, semplicemente ogni
settimana, ci informa Cochin, per qualche ora, avvocati, medici,
ecclesiastici, letterati in genere, dismettono gli abiti usuali delle proprie
attività e conversano, giocando al cittadino ed al filosofo, per provare
l’ebbrezza di rifondare il mondo senza la fatica di farlo davvero, visto che
ci si limita a conversarne. Tuttavia, questo modo di procedere alla lunga
produce almeno tre conseguenze pericolose, anche se all’inizio
impercettibili. In primo luogo la realtà non è mai presa in considerazione,
proprio perché non deve esserlo, aprendo le porte alla virtualità
dell’ordinamento giuridico. Molto prima dell’era cibernetica le società di
letteratura dell’illuminismo francese avevano introdotto la “realtà
virtuale”.238
Ma ciò non autorizza a dire qualsiasi cosa, visto che gli
237 Per la struttura dell’ideologia, come filosofia simulata, che critica ogni visione,
senza verificare il proprio punto di partenza, ipoteticamente, prima, e dogmaticamente,
poi, assunto quale giusta misura, secondo un obbiettivo di mantenimento del potere,
nonché per il concetto dell’utopia, sostenuta dalla medesima struttura, ma con l’obbiettivo
di pervenire alla conquista del potere -cui effettivamente mira l’homo ideologicus di
Cochin- cfr. F. GENTILE, Intelligenza politica e ragion di stato, II ed., Milano, 1984,
rispettivamente p. 187 e 107.
238 Per l’ossimoro cibernetico “realtà virtuale”, cfr. L STRATE, R. JACOBSON, S. B.
GIBSON, Communication and cyberspace: social interaction in an electronic environment,
Hampton, 1996, p. 375; M. BENEDICKT (a cura di), Cyberspace: primi passi nella realtà
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
161
interlocutori sono troppo colti per sentirsi raccontare sciocchezze
smaccatamente grossolane e troppo evidenti, sicché gli argomenti devono
essere nuovi e legati da una concatenazione logica, tanto più ammirata
quanto più ardita, tanto più ricercata se pericolosa, seppure solo
virtualmente, almeno finché le affinità elettive non si trasformano in
relazioni pericolose, che escono dal gioco per colpire i giocatori, come ci
ha insegnato Delacloix. L’aspetto interessante consiste nella circostanza
che le idee diventano pure ed astratte. Non ci si preoccupa più, per
esempio, della libertà dei francesi, nella sua storia secolare fatta di
soprusi, di aneliti, di autonomie, di privilegi, ma comunque intrisa nel
sangue della vita, che trascina con sé, oltre all’ossigeno, anche le impurità
dell’esperienza. Si conversa della Libertà con la L maiuscola, una pura
astrazione con la quale si può entrare in contatto attraverso le parole, ma
che è vano cercare nella realtà. Allo stesso modo ci si disinteressa degli
uomini per appassionarsi all’Uomo, si disprezza il popolo per esaltare il
Popolo. La caricatura non sarebbe troppo calcata se si dicesse che la
società di pensiero è una macchina per produrre maiuscole.239
Anzi, gli
stessi giocatori sarebbero verosimilmente rimasti inorriditi se avessero
potuto prevedere gli esiti nefasti del loro gioco perverso, così come il
visconte di Valmont, ucciso da una lettera che si è trasformata in lama. Ed
è il lato patetico della questione il considerare come le conseguenze
sanguinarie che non tarderanno a rovesciarsi sugli eredi dei giocatori siano
il frutto di una cosa così innocente come la conversazione da salotto. Ma
se nel salotto si deve e ci si deve divertire, nella società di conversazione
si anela alla verità, che per definizione è una. E come la ragione è una e la
medesima che lega tutti gli uomini “correttamente ragionanti”, secondo un
solco che da Grozio porta a Kant, così la verità è una ed attende solo di
essere scoperta, univocamente, al modo scientifico delle scienze esatte
virtuale, trad. it. Padova, 1993, nonché PL. CAPPUCCI, Realtà del virtuale: rappresentazioni
tecnologiche, comunicazione, arte. Per i profili giuridico-politici dell’espressione e per la
valenza operativa sottesa ad un siffatto approccio empistemico dell’esperienza giuridica,
cfr. F. GENTILE, Ordinamento giuridico. Controllo o/e comunicazione? Tra virtualità e
realtà, in appendice a U. PAGALLO, Testi e contesti dell’ordinamento giuridico, II ed.
Padova, 1999, ora in edizione autonoma Ordinamento giuridico. Tra virtualità e realtà,
Padova, 2000, cui si aggiungono in appendice le sapide note d’appunti di U. PAGALLO,
Teoria e prassi alla radice della filosofia del diritto in Francesco Gentile.
239 Così, testualmente, la stimolante prefazione di Jean Baecheler a A. COCHIN, Lo
spirito del giacobinismo, cit., p. 22.
MANDATO IMPERATIVO, LIMITATIVO, LIBERO, NESSUN MANDATO
162
perché astratte. Una società di pensiero tende all’unanimità, considerando
crimine la dissidenza e persino il dissenso, così come una società di
matematici tratterebbe da pazzo o da provocatore chi sostenesse che due
più due da cinque. Si dimentica il carattere pratico delle discipline di cui si
parla e vi si sovrappone il metodo teoretico, perché più simmetricamente
rassicurante, nelle sue linee razionali.240
Provocatorio, Cochin nel
concludere che la verità e questione di opinione non di esperienza,
afferma che “ogni pensiero, ogni sforzo intellettuale qui esistono soltanto
se oggetto di consenso. È l’opinione che costituisce l’essere. È reale ciò
che gli altri vedono, vero ciò che dicono, bene ciò che approvano. Così
l’ordine naturale è rovesciato, l’opinione qui è causa e non, come nella
vita reale, effetto. L’apparire sostituisce l’essere, il dire, il fare”.241
A chi volesse eccepire che si tratta di osservazioni tutt’al più
storiche, ma, in ogni caso, irrilevanti in un’indagine giuridica, basti
ricordare come tutt’oggi alcuni sostengano che il rappresentante è tale
perché creduto tale.242
Con l’ulteriore conseguenza che queste società portano ad un
selezione dei propri componenti, promuovendo coloro che sono più
staccati dalla realtà: “qui non c’è bisogno di un padrone che designi o di
un dogma che escluda. Basta la forza delle cose, i più leggeri saliranno per
conto loro in alto, i più pesanti e i più carichi di realtà cadranno a terra. È
questione di procedimento, non di scelta.”243
È un circolo vizioso che si
240 Cfr. supra, § I.1., specialmente alle note n. 34 e 35.
241 Cfr. A. COCHIN, Lo spirito del giacobinismo, cit., p. 46. “Il fine è spostato:
quello che conta ormai è l’idea distinta, quella che si autogiustifica verbalmente, non l’idea
feconda che si verifica. O piuttosto è solo la discussione, l’opinione verbale , e non più la
prova, quella che verifica e giudica” Ibidem, p. 47.
242 Cfr. infra, § III.1, ove si esaminerà la costruzione di Ugo Rescigno che arriva a
concludere proprio nel senso indicato dal testo, mutuando l’immagine del re nudo della
nota fiaba, che si crede ammantato da un vestito bellissimo, confortato dai complimenti dei
cortigiani e del popolo che giungono a convincersi di non riuscire a vedere il prezioso
vestito che in realtà deve esserci; fino al momento in cui il bambino proclama ad alta voce
la nudità sovrana.
243 Cfr. A. COCHIN, Lo spirito del giacobinismo, cit., p. 48. “Nulla illustra meglio
questo fenomeno curioso quanto quella concezione del selvaggio o dell’ingenuo che ha un
rilievo così grande nella letteratura del Settecento. Non c’è autore che non vi presenti il
suo selvaggio, dai più allegri ai più seri. Montesquieu ha cominciato con il principe
persiano, Voltaire immortala il personaggio con Candide; Buffon ne fa l’analisi nel
risveglio di Adamo; Condillac ne costruisce la psicologia col mito della statua; Rousseau
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
163
autoalimenta con l’inesperienza, il senso di potenza e la vanità dei propri
componenti. Si tratta di quegli “Entusiasti”, contro i quali aveva
sacrificato la propria fragile salute Anthony Ashley Cooper di
Shaftesbury. L’ideologia è per propria natura universale e gli ideologi
sono in contatto diretto con l’universo che essi stessi hanno creato. Ma
una volta giunti al potere, il meccanismo dimostra tutta la sua pericolosità,
poiché il tentativo di spiegare il reale secondo il proprio paradigma
virtuale rende presenti quelle difficoltà che erano state messe
prudenzialmente tra parentesi. Una volta che ci si è convinti di
rappresentare adeguatamente il Popolo e di difendere i suoi interessi
superiori, il risultato è che ogni provvedimento che vada nel senso degli
interessi del Popolo interpretati dai suoi rappresentanti è automaticamente
giustificato, mentre –per converso- ogni provvedimento divergente è
deplorevole. Dal momento che il Popolo è il sovrano assoluto, Dio
incarnato –l’immagine non è troppo forte- la sua volontà è il criterio
supremo del Bene e del Male. Ma il popolo è muto, non parla se non per
bocca dei suoi rappresentati autodesignati, come abbiamo esplicitamente
sentito dire da Sieyès, per il quale la Nazione ha una sola voce, quella
dell’Assemblea nazionale. Sicché, appena giunti al potere i
“rappresentanti del Popolo” hanno un brusco risveglio: il popolo non è il
Popolo, ché anzi gli accade sovente di pensare ed agire in modo
sinceramente diverso da come dovrebbe fare il Popolo. Tra i due bisogna
scegliere; e l’ideologo non ha dubbi, visto che tutto il processo, che
costituisce la sua genesi, l’ha staccato dal popolo per portarlo al Popolo.
Si decreterà che il popolo è corrotto e che bisogna costringerlo alla virtù
con ogni mezzo.244
A questo punto la virtualità245
ha avuto il sopravvento
sulla realtà ed è aperta la strada al Terrore assembleare.
ha creato il ruolo e ha passato la sua vecchiaia a giocare al selvaggio nei parchi dei castelli.
Non c’è apprendista filosofo, intorno al 1770, che non cominci la revisione delle leggi e
delle usanze del suo paese in compagnia del suo cinese o del suo irochese di fiducia, come
un figlio di famiglia viaggia con il proprio abate”. Ibidem, p. 50.
244 Cfr. A. COCHIN, Lo spirito del giacobinismo, cit., p. 32. Fortissima l’assonanza
con l’imperativo rousseauiano che, per dar vita al meccanismo dell’autosuggestione
legislativa, impone la partecipazione assembleare di ciascuno, anche del qualunquista o del
disinteressato, sentenziando che lo si costringerà ad essere libero.
245 Per la virtualità come paradigma giuridico, cfr. F. GENTILE, Ordinamento
giuridico. Controllo o/e comunicazione? Tra virtualità e realtà, in appendice a U.
PAGALLO, Testi e contesti dell’ordinamento giuridico, Padova, II ed., 1999, p. 209 e ss, ora
in edizione autonoma Ordinamento giuridico. Tra virtualità e realtà, Padova, 2000.
MANDATO IMPERATIVO, LIMITATIVO, LIBERO, NESSUN MANDATO
164
Paradossalmente, nelle soluzioni, Sieyès anticipa i sostenitori della
teoria degli organi: l'Assemblea è rappresentativa non perché effettiva
portavoce della nazione, ma per definizione. Tuttavia diversi sono i
presupposti teorici.246
La giuspubblicistica tedesca a cavallo del secolo,
influenzata dall'idea di eticità, nell'interpretazione degli epigoni della
destra hegeliana del passo § 260 e § 261 della Filosofia del Diritto,
afferma che, nel campo pubblicistico in quanto cittadini, i governati non
possano avere interessi diversi da quelli dello stato e quindi tale Volksgeist
viene rettamente interpretato da un qualsiasi organo statale, sia esso
un'assemblea o magari un singolo. Ecco che il divieto di mandato
imperativo, se non rettamente interpretato, diviene strumento di
assolutismo. Ma come si è visto anche Sieyès nega capacità di volere e
giudicare al popolo. E con tali premesse è stato interpretato l'istituto in
esame dalla giuspubblicistica tedesca fino ai giorni nostri, talora ponendo
l'accento sull'incapacità del singolo, tal'altra sulla inammissibilità di
particolarismi. In questo modo si è creata una conflittualità tra mandato di
diritto civile e rappresentanza politica (negandone perfino la giuridicità),
cui non è estranea la pretesa unicità di pubblico e privato quale deriva da
una parte del pensiero politico moderno.247
Tuttavia poiché nella maggior parte delle costituzioni
contemporanee, tra cui la nostra, si sono ereditati entrambi gli articoli
proposti da Talleyrand, occorre almeno procedere ad un'interpretazione
combinata dei due articoli –la legge come espressione di un comune
sentire ed il divieto di vincolo imperativo sull’eletto- per non incorrere in
contraddizioni logiche, pur senza sollevare la questione del primato del
costituito sul costituente, la pretesa primogenitura dell’Assemblea
nazionale sulla Nazione.248
246 Per la critica di Hegel al contrattualismo, che pure, latente, è alla base della
costruzione di Sieyès, cfr. N. BOBBIO, Studi hegeliani, Torino, 1981, p. 94 e sgg.; G.
MARINI, Struttura e significati della società civile hegeliana, in Il pensiero politico di
Hegel, a cura di C. CESA, Bari, 1979, p. 59 e sgg. Per la filosofia pratica della destra
hegeliana, cfr. il § successivo.
247 Cfr. F. GENTILE, Intelligenza politica e ragion di stato, II ed. Milano, 1984, p. 7
248 Cfr. P. G. GRASSO, voce: Potere costituente, in "Enciclopedia del Diritto
Giuffré", Milano, 1985, vol. XXXIV, p. 642 sgg. Sarebbe interessante una ricostruzione
del potere costituito come rappresentante del potere costituente, al di là dei virtuosismi di
Sieyès, che fa appello a quest’ultimo ogni qual volta deve giustificare l’arbitrio del primo.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
165
Ma forse, per giungere anche più vicini a noi, e per comprendere
appieno lo status in cui ci troviamo, conviene inerpicarci su quel nuovo
ramo dell’idealismo tedesco che si innesta nel tronco del dibattito
rivoluzionario francese, oppure –se si preferisce- sulle spalle dei giganti,
in ossequio al detto di Bertrando di Chartres, così da seguire la traduzione
in rigorosi termini giuridici di quelle istanze che a Parigi non avevano
ancora superato lo stato magmatico delle rivendicazioni.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
167
3.3 Giuspubblicistica tedesca e Destra hegeliana
3.3.1 Die Epigonen
PREMESSA: RIPROPOSIZIONE DI TEMI HEGELIANI ATTORNO AI FONDAMENTI DELLO STATO –
PRETESA IDENTITÀ DI VOLONTÀ FRA CITTADINO E STATO IN CAMPO PUBBLICO –
CONSEGUENTE REIEZIONE DEL CONTRATTUALISMO… - SEGUE: SOTTRAZIONE DELLA
FORMAZIONE DELLO STATO ALLA VOLONTÀ DEI SINGOLI E SUO FONDAMENTO SULLA
NECESSITÀ… - SEGUE: CONSEGUENTE DEFINIZIONE DI LEGGE COME CRISTALLIZZAZIONE DEL
VOLKSGEIST… – SEGUE: CONSEGUENTE DEFINIZIONE DI REGOLAMENTO E DI ATTO
AMMINISTRATIVO: LA FIGURA DELL’INTERESSE LEGITTIMO: RINVIO – L’EINZELNER WILLE
COME CONDIZIONE PER GARANTIRE L’EINHEIT DER RECHTSORDNUNG – STATO ETICO ED
ETICA DELLO STATO – IL RUOLO DELLA SOVRANITÀ – CONCLUSIONE: DAL
PROFESSORENRECHT AL VOLKSRECHT: IL RUOLO DELLA STORIA.
"Die Epigonen" si intitolava una rivista che per alcuni anni raccolse
un gruppo di pensatori allievi di Hegel. Sulla loro consapevolezza di
essere "epigoni" del Maestro ha già insistito Löwith,249
ripreso in questo
da Cesa.250
Non interessa qui riaprire la questione, tra l'altro mai chiusa, se
questi autori meritino o meno la classificazione di "Destra hegeliana", a
prescindere dal significato negativo di tale aggettivo nella coscienza
attuale,251
né tantomeno insistere sulla bontà della bipartizione tra "destra"
e "sinistra", o di una tripartizione tra hegeliani "di destra", "di centro" e
"di sinistra".252
Paradossalmente non interessa nemmeno la fedeltà di
questi autori agli insegnamenti del Maestro, separando quanto appreso alla
scuola di Berlino, da quanto elaborato in proprio. Come già denunciato
infatti, la pressoché totale assenza di studi su questi autori, darebbe già di
per sé materia per un'indagine vastissima.253
Qui esamineremo invece il
249 Cfr. K. LÖWITH, Da Hegel a Nietzsche, Torino, 1949, p. 91 e sgg.
250 Cfr. C. CESA (a cura di), Gli hegeliani liberali, Bari, 1974, p. viii.
251 Così almeno per C. CESA, in op. ult. cit., p. ix.
252 La tripartizione è di D.F. Strauss, mutuandola da una precedente di K.
Rosenkranz, che aveva parlato di filosofia panteista, teista e speculativa.
253 Ancora CESA, op. ult. cit. p. v. Sul Pensiero degli Epigonen, oltre al singolare
saggio di K. LARENZ, Hegelianismus und preußische Staatsidee. Die Staatsphilosophie
J.E. Erdmanns und das Hegelbild des 19. Jahrhunderts, Hamburg, 1940, rimane ancora
significativo H. LÜBBE, Politische Philosophie in Deutschland, Stuttgart, 1963, che,
tuttavia, alla Destra hegeliana dedica solo le pp. 27-84. Lo stesso ha poi curato
un'antologia di scritti dal titolo Die Hegelsche Rechte, Stuttgart-Bad Cannstatt, 1962, la cui
DIE EPIGONEN
168
pensiero attorno al diritto e, specificamente attorno allo Stato, di alcuni
autori che tradizionalmente, a torto o a ragione, sono accomunati sotto
l'etichetta di "Destra hegeliana", ritenendo di trovarvi la radice filosofica
o, se si preferisce, la giustificazione teoretica, delle costruzioni sullo Stato
proprie della giuspubblicistica tedesca dalla seconda metà dell'Ottocento
agli inizi del nostro secolo. L'indagine si prospetta interessante perché
mira ad individuare il punto di appoggio delle dottrine che hanno
predominato nel diritto costituzionale continentale fino ai nostri giorni e
che, più specificamente sono state ereditate ed introdotte, spesso
acriticamente, anche nella nostra Carta costituzionale. In particolar modo
interessa individuare quale sia la concezione di rappresentanza, la
traduzione parziale di G. Oldrini, costituisce il già citato volume a cura di C. CESA, Gli
hegeliani liberali, Bari, 1974. Per la difficoltà di una classificazione tra "Destra" e
"Sinistra" hegeliana, cfr. recentemente, E. MATASSI, Eredità hegeliane, Napoli, 1991,
specialmente, per il profilo di Gans, p. 235 e ss., nonché D. LOSURDO, Hegel e la libertà
dei moderni, Roma, 1992, p. 412, n. 78, e, da ultimo, M. H. HOFFEIMER, Eduard Gans and
the Hegelian Philosophy of Law, Dordrecht, Boston, London, 1995, p. 113, n. 75.
L'abisso che separa la costruzione di Hegel in tema di volontà-necessità di
cittadino e Stato in campo pubblico dalla "rappresentazione" che ne danno i suoi diretti
allievi (seppur mossi dai migliori intenti apologetici, come nel caso di Ronsenkranz) e che
mi sembra recepita dai giuspubblicisti, emerge prepotente dal saggio sul pensiero del
Maestro di Berlino di G. DUSO, La rappresentanza politica e la sua struttura speculativa
nel pensiero hegeliano, in "Quaderni Fiorentini", 1989, p. 43 e ss. Su questo specifico
punto, cfr. anche le osservazioni e i richiami di D. Losurdo (a cura di) G.W.F. HEGEL, Le
filosofie del diritto, Napoli, 1989, pp. 453 e ss; nonché P. BECCHI, Il tutto e le parti,
Napoli, 1994, pp. 184 e ss. Per la nota polemica sulle reali intenzioni del Maestro di
Berlino nella Rechtsphilosophie, si rinvia a K.H. ILTING, Rechtsphilosophie als
Phänomenologie des Bewußtsein der Freiheit, in D. HENRICH e R.P. HORSTMANN (a cura
di), Hegels Philosophie des Rechts, Stuttgart, 1982, pp. 225 e ss.; L. SIEP,
Intersubjektivität, Recht, und Staat in Hegels Grundlinien der Philosophie des Rechts, in
op. ult. cit., p. 255 e ss.; nonché P. BECCHI, Contributi ad uno studio della filosofia del
diritto in Hegel, Genova, 1984. Per la figura del monarca come rappresentante di tutto il
popolo, cfr. C. MENGHI, Società o Stato. Critica delle "lezioni" hegeliane di filosofia del
diritto (1817-18), Torino, 1994, p. 142 e ss. Sul potere principesco e sul suo ruolo nel
pensiero hegeliano, tra i molti contributi, segnaliamo C. CESA, Entscheidung und
Schicksal: Die fürstliche Gewalt, in D. HENRICH e R.P. HORSTMANN (a cura di), Hegels
Philosophie des Rechts. Die Theorie der Rechtsformen und ihre Logik, Stuttgart, 1982, pp.
185 e ss. Per il giudizio di Hegel sulla Rivoluzione francese, tanto esecrata dagli Epigonen,
recentemente cfr. J. D'HONDT, Le parcurs hégélien de la Révolution française, in La
philosophie et la Révolution française, Paris, 1993.
La difficoltà di reperire le opere di questi autori giustificherà le lunghe citazioni a
sostegno dei nostri assunti, necessarie anche per dimostrare la corrispondenza quasi
letterale tra gli scritti dei Philosophen e quelli degli Juristen di sui si parla nel testo.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
169
giustificazione del divieto di mandato imperativo, la sua consequenzialità
alla dottrina generale dello Stato e quale la concezione filosofica che la
sottende. La ricerca muove da una semplice considerazione di fatto: negli
stessi anni e, spesso, nelle stesse università in cui Stein, Mohl, Bluntschli,
Gerber, Gierke, Laband e Jellinek elaboravano le loro teorie, operavano
gli esponenti della "Destra hegeliana", pubblicando le loro opere,
rintuzzando le critiche avversarie, in un periodo di fecondità per gli studi
filosofici e giuridici non secondo, in questo, all'epoca della Rivoluzione
francese. Già mentre il Maestro era ancora in vita e immediatamente dopo
la sua morte, Gans,254
Rosenkranz,255
Hinrinchs,256
Michelet,257
Oppenheim,258
Rössler,259
e, più tardi, Fischer,260
riespongono la dottrina
254 E. GANS, Das Erbrecht in weltgeschichtlicher Entwiklung. Eine Abandlung der
Universalrechtsgeschichte, 1-2 voll., Berlin, 1824-1825, 3-4 voll., Stuttgart und Tübingen,
1829-1835; IDEM. Vermischte Schriften, juristischen, historischen,
staatswißenschaftlichen, und ästhetischen Inhalts, Berlin, 1834; IDEM, Rückblicke auf
Personen und Zustände, Berlin, 1836.
255 K. ROSENKRANZ, Hegel. Sendscreiben an C.F. Bachmann, Königsberg, 1834;
IDEM, G.W.F. Hegel's Leben, beschrieben durch Karl Rosenkranz. Supplement zu Hegel's
Werken, Berlin, 1844; IDEM, Meine Reform der Hegel'schen Philosophie. Sendschreiben
an J.U. Wirt, Königsberg, 1853; IDEM, Hegel als deutscher Nationalphilosoph, Leipzig,
1870; IDEM, Hegel. ora in Neue Studien, 3° vol., Leipzig, 1877.
256 H.F.W. HINRINCHS, Grundlinien der Philosophie, Halle, 1826; IDEM, Politische
Vorlesungen, 2 voll., Halle, 1843.
257 C.L. MICHELET, System der philosophischen Moral, mit Rücksicht auf die
juridische Imputation, die Geschichte der Moral und das christliche Moralprinzip, Berlin,
1828; IDEM, Geschichte der letzten Systeme der Philosophie in Deutschland von Kant bis
Hegel, 2 voll., Berlin, 1837-1838; IDEM, Zur Verfaßungsfrage. Den Mitgliedern der beiden
Verfaßungsgründenden Versammlungen gewidmet, Frankfurt am Oder und Berlin, 1848.
258 H.B. OPPENHEIM, Geschichte und staatsrechtliche Entwicklung der
Gesetzgebung des Rheins, Stuttgart und Tübingen, 1842; IDEM, Studien der inneren
Politik, Leipzig, 1842; IDEM, System des Völksrechts, Frankfurt am Mein, 1845; IDEM,
Kaltblütige Gloßen zu der Verfassung - Urkunde vom 5. Dezember [scritto il 6.12.1848!]
Berlin, 1848; IDEM, Philosophie des Recht und der Gesellschaft, Stuttgart, 1850; IDEM,
Über politische und staatsbürgerliche Pflichterfüllung [1864] in Vermischte Schriften aus
bewegter Zeit, Stuttgart und Leipzig, 1866.
259 C. RÖSSLER, System der Staatslehre. Allgemeine Staatslehre, Leipzig, 1857;
IDEM, Der Grundsatz der Nationalität und das preußischen Staatensystem, Berlin, 1860;
IDEM, Preußen nach dem Landtage von 1862, Berlin, 1862; IDEM, Die liberalen Parteien
angesichts der Zukunft Preußens, Berlin, 1862; IDEM, Studien zur Vorbildung der
DIE EPIGONEN
170
idealistica con tutti quegli accenti enfatici, quegli sviluppi di aspetti
particolari e, in sostanza, con tutte quelle semplificazioni e adattamenti
che un dibattito polemico impone.
Occorre allora fare riferimento al pensiero degli Epigonen, alla loro
interpretazione dell'opera di Hegel, perché questo, e solo questo, poteva
essere conosciuto dagli Juristen, non certo la complessità del pensiero di
Hegel, nelle sue varie versioni, che era proprio la causa della divisione in
diverse scuole. Ecco perché si guarderà solo all'opera degli allievi, senza
tener conto, se non in limine, della fedeltà all'insegnamento del Maestro.
Tuttavia la figura del Filosofo berlinese è talmente grande che non
possiamo permetterci di sorvolare completamente sulla sua opera,
dovendo aver riguardo, almeno marginalmente, ad alcuni aspetti della sua
concezione di rappresentanza, non foss’altro che per meglio coglierne le
differenze con gli allievi.
L’introduzione della rappresentanza può rinvenirsi nel § 302 delle
Grundlinien der Philosophie des Recht, ove viene assegnata ai ceti
(Stände) la funzione di mediazione tra il governo, da un lato, e il popolo,
dall’altro, inteso come insieme di singoli, aggregati proprio nei ceti o
corporazioni. I ceti partecipano quindi del senso dello Stato e del governo
quanto degli interessi particolari dei gruppi o dei singoli e, proprio questa
loro caratteristica, li rende elemento essenziale del cammino verso lo
Stato organico, come trait d’union affinché il governo non sia isolato e,
quindi, soggetto di mero potere arbitrario, né l’atomismo (con un termine
caro alla letteratura polemista dell’epoca nei confronti degli eventi
francesi) possa avere il sopravvento sul popolo, disperdendolo in mille
rivoli individuali.261
A questo paragrafo, il più giovane collega giurista e
storico del diritto Eduard Gans annota che la posizione del governo nei
confronti delle classi non deve essere ostile, come spesso accade, poiché
preußischen Verfassung, 2 voll., Berlin, 1863-1864; IDEM, Die deutsche Reich und die
kirchliche Frage, Leipzig, 1876.
260 K. FISCHER, Geschichte der neueren Philosophie, 6 voll., Mannheim-Stuttgart-
Heidelberg, 1852-1877; IDEM, Die Apologie meiner Lehre nebst Replik auf die
"Abfertigung" des Herrn Schenkel, Mannheim, 1854.
261 Cfr. G. W .F. HEGEL, Lineamenti di Filosofia del Diritto, citiamo dalla
traduzione italiana ormai classica di F. Messineo, Bari, 1913, nella edizione del 1974, p.
300. Si è tenuta presente anche l'edizione curata da Domenico Losurdo, Napoli, 1989,
nonché la polemica Becchi – Marini, su cui infra.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
171
non si tratta di una dialettica dualistica di mera contrapposizione, come se
ci fosse la necessità di sopraffazione del governo sulle classi o di queste
su quello, giacché entrambi sono funzionali all’edificazione dello Stato
organico ed etico. La costituzione è, insomma, essenzialmente un sistema
di mediazione, poiché negli stati dispotici, ove operano solo il sovrano ed
il popolo, il primo esercita un potere dispotico ed il secondo tenta di far
valere le proprie istanze in modo dannoso per l’organismo statale, mentre,
ove si presenta in modo organizzato riesce a far valere i propri interessi in
veste giuridica ed in modo ordinato. E con felice formula precisa
l’insegnamento del più anziano collega nell’Università di Berlino e suo
Maestro in filosofia, affermando “ciò che costituisce il significato
caratteristico delle classi è che lo Stato entra, per tal modo, nella coscienza
soggettiva del popolo, e che esso comincia a prendere parte al
medesimo”.262
In altri termini, solo grazie alla mediazione delle classi il
singolo partecipa del senso dello Stato comprendendo l’utilità del proprio
bene particolare con quello comune, cioè la presa di coscienza del proprio
compimento all’interno dello Stato. La forza della classe è proprio quella
di essere già ben presente nella realtà, insopprimibile tensione
all’organizzazione. Tutto ciò fornisce il destro ad Hegel, nell’aggiunta al §
303 per una critica alle concezioni importate dalla Francia rivoluzionaria,
cioè all’idea che la classe privata, elevata al potere legislativo debba
manifestarsi in quella sede come somma di individui, che si scelgono
rappresentanti per esercitarvi ciascuno il proprio ruolo particolare. Con il
consueto sarcasmo il Filosofo idealista sottolinea come tale atomismo
astratto scompaia già nella Famiglia e nella Società civile. Si vede qui un
esempio di quella sfiducia, ereditata forse da Montesquieu (la cui
posizione ben chiara si è vista al paragrafo precedente), sull’incapacità del
popolo, inteso come moltitudine inorganica, di governarsi.263
E proprio
262 Cfr. G. W .F. HEGEL, Lineamenti di Filosofia del Diritto, cit., p. 451.
263 La polemica percorre tutta l’aggiunta al § 301, ove si prende in esame la tesi per
la quale i deputati del popolo o addirittura il popolo debba intendere nel modo migliore
qual è il suo meglio e che la sua volontà sia orientata a questo. Si obbietta subito che per
popolo, visto come una parte speciale dei componenti di uno Stato, si intende la parte che
non sa quel che vuole, giacché “sapere che cosa si vuole è, ancor di più, [sapere] che cosa
vuole la volontà che è in sé e per sé, la ragione è il frutto di una conoscenza e di una
penetrazione più profonda che, appunto, non è affare del popolo”. E preme sottolineare un
aspetto che sarà ripreso e forzato dagli allievi. Infatti, il passo continua affermando che la
garanzia per il cogliere cosa vuole la ragione in sé non si trova nell’intelligenza particolare
della classi, “perché i più alti impiegati dello Stato hanno necessariamente una
penetrazione più profonda e comprensiva della natura delle istituzioni e dei bisogni dello
DIE EPIGONEN
172
questa presa di posizione serve per capire i §§ 308 e 309. Dopo aver
affermato la necessaria presenza della nobiltà, come elemento di
continuità, assicurato dalla nascita, senza l’accidentalità di una scelta,
Hegel riconosce nelle classi l’elemento instabile della società civile, che
può intervenire solo per mezzo di deputati, ma –si badi bene- non tanto
per l’impossibilità materiale di partecipare direttamente, atteso il numero
elevato dei suoi componenti, quanto per la “natura della sua destinazione
ed occupazione”. Sicché i deputati della Società civile, in quanto suoi
membri, conoscono le sue esigenze. Si tratta, forse di quella
rappresentazione dell’unità che Leibholz rinviene nella tradizione
germanica di quel unum che è la Sippe.264
Ecco in qual senso deve essere
inteso il divieto di mandato imperativo che si incontra al § 309. Poiché la
deputazione avviene per la discussione e per la decisione sugli affari
generali, essa ha il significato che vi sono destinati dalla fiducia dei
soggetti che si intendano degli affari di cui si tratta, facendo valere non
l’interesse del gruppo di cui sono esponenti in contrasto con l’interesse
generale, ma, anzi, promuovendo proprio quest’ultimo. Hegel ne deduce
che tal fatta di deputati non possano essere mandatari o comunque
portatori di istruzioni vincolanti, che possano condizionare l’assemblea e
l’importanza della discussione in comune.265
L’ultima considerazione
potrebbe far pensare ad un’assonanza con i risultati dell’Assemblea
nazionale francese. Ma l’impressione svanisce considerando i momenti
antecedenti della trattazione. La deputazione non è nazionale, ma
corporativa; con l’elezione la corporazione non assegna delle volontà da
sostenere, ma individua nel suo seno i membri più versati ad indicare le
esigenze della corporazione nella discussione generale; i deputati non
sono mandatari, poiché essi stanno in rapporto organico con la
corporazione che solo in questo senso “rappresentano”. Il momento
Stato, come la più grande attitudine e consuetudine per siffatti affari, e possono fare il bene
senza classi”, seppure si avvisa subito che la garanzia di cogliere il volere della ragione in
sé si trova in parte in un contributo d’intelligenza dei deputati, in parte nell’incitamento ai
funzionari che nei posti più alti si trovano meno a contatto con l’esperienza, in parte nella
“censura pubblica”, cioè nel esaminare in precedenza i progetti e di disporli soltanto per i
motivi più puri, attesa, dice Hegel, la propensione della plebe a diffidare del governo. Cfr.
G. W .F. HEGEL, Lineamenti di Filosofia del Diritto, cit. p. 298-99.
264 Cfr. supra, § I.2.
265 Cfr. G. W .F. HEGEL, Lineamenti di Filosofia del Diritto, cit. p. 306.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
173
aggregante la singola corporazione, la misura della singola associazione o
classe concorre nel movimento dialettico, assieme al governo,
all’edificazione dello Stato organico od etico: parlare di rappresentanza in
questo senso è come confondere la corporazione con il collegio elettorale
e la conseguente assenza di mandato non è frutto di una presa di posizione
in ordine alla rappresentanza, quanto la conseguenza della sostituzione
della rappresentanza con il rapporto organico.266
Fin da questa sommaria indagine intorno al pensiero del Maestro di
Berlino preme mettere in evidenza il sottile equilibrio tra rappresentanza
cetuale, come aggregazione dei singoli in forma organica; la deputazione,
come rappresentanza della Società civile nello Stato; l’organicismo di
quest’ultimo che tutto sintetizza in sé, come supremo momento dello
Spirito oggettivo, preludio allo Spirito assoluto. Elaborazione
razionalistica, se si vuole, ma, a ben vedere, descrizione (più che
innovazione) del contemporaneo meccanismo delle diete, corporazioni,
gilde e classi sedimentatesi in quel complesso che era l’Impero
germanico, assicurando una sorta di partecipazione alla vita politica che i
piccoli principati, a differenza delle grandi monarchie nazionali, non
erano riusciti a spezzare. Ed ancora una volta Gans, che avendo ben
266 Di diverso tenore l’aggiunta di Gans, che al § 309 dedicato ai deputati e suoi
elettori, che non sembra saper usciere dal dibattito rivoluzionario, né attingere alla storia
delle istituzioni giuridiche tedesche, campo nel quale il giovane collega di Hegel era a
proprio agio. La rappresentazione hegeliana che ci viene offerta sembra essere ancora ad
una volontà di tutti intesa in modo individualistico (atomistico), non priva di
contraddizioni tra individuale e generale, leggendo che “quando si introduce la
rappresentanza, essa consiste in ciò: che il consenso deve avvenire non immediatamente da
parte di tutti, ma da parte dei deputati; poiché il singolo non concorre più come persona
infinita. La rappresentanza si fonda sulla fiducia; ma la fiducia è qualcosa di diverso dal
fatto che io, come tale, do il mio voto. Del pari la maggioranza dei voti è contraria al
principio che, in quel che mi deve obbligare, debbo intervenire io, come tale. Si ha fiducia
in un uomo, poiché si ritiene suo intendimento di trattare la mia cosa come sua, secondo la
sua migliore conoscenza e coscienza. Quindi il principio della singola volontà soggettiva è
abolito; poiché la fiducia si dirige ad una cosa, ai princìpi di un uomo, della sua condotta,
del suo agire, al suo senno concreto in genere. Quindi, importa che colui, il quale si
presenta nell’elemento di classe, abbia un carattere, un intendimento ed una volontà, che
corrispondano al suo còmpito di essere consultato per gli affari generali. Cioè, non importa
che l’individuo venga a parlare come singolo astratto, ma che i suoi interessi si facciano
valere in un’assemblea, dove si tratta di ciò che è generale. Che il deputato compia e
promuova questo: di ciò si ha bisogno, a garanzia di coloro che eleggono” Così in G. W. F.
HEGEL, Lineamenti di Filosofia del Diritto, cit. p. 452-3. Il punto interessante appare il
principio di responsabilità che risulta comunque evidente alla fine del passaggio come
chiave di volta di ogni rappresentanza, intesa quale trasmissione di volontà o di interessi.
DIE EPIGONEN
174
presente la costruzione del Maestro nell'articolato rapporto che lega il
cittadino, attraverso la Famiglia e la Società civile, allo Stato, poteva
tradurre in termini giuridici il pensiero che aveva fatto proprio e
sarcasticamente coniare per lo Stato prussiano anteriore al 1848 la nuova
categoria concettuale dello Stato tutore, affermando che "Uno Stato tutore,
come la tutela in sé, è tale per un periodo limitato. L'emancipazione [del
minore] verso uno status più alto e più libero è inerente nella sua natura; si
può negare o posporre l'emancipazione per un lasso di tempo, ma non si
può impedirne l'inevitabile risultato."267
Tuttavia, per capire le radici della scienza giuridica tedesca attorno
allo Stato, crediamo che si debba fare riferimento ad un altro passo della
Filosofia del Diritto, perché è proprio dalla sua interpretazione che
discende, secondo noi, die ganze Geschichte.
Il paragrafo in questione è il § 260. "Lo Stato è la realtà della libertà
concreta; ma la libertà concreta consiste nel fatto che l'individualità
personale, e gli interessi particolari di essa, hanno tanto il loro pieno
sviluppo e il riconoscimento del loro diritto per sé (nel sistema della
famiglia e della società civile) quanto, in parte, si mutano, da sé stessi,
nell'interesse della generalità, e in parte, con sapere e volontà, riconoscono
il medesimo, cioè in quanto loro particolare spirito sostanziale, e sono atti
al medesimo, in quanto loro scopo finale; così che né l'universale ha
valore ed è compiuto senza l'interesse, il sapere e il volere particolare, ne
gli individui vivono come persone private semplicemente per
quest'ultimo, e, senza che vogliano, in pari tempo, nel e per l'universale, e
abbiano un'attività cosciente di questo fine. Il principio degli Stati
moderni ha quest'immensa forza e profondità: lasciare che il principio
della soggettività si porti a compimento in estremo autonomo della
particolarità personale, e, insieme, riportarlo all'unità sostanziale, e, così,
mantenere questa in esso medesimo".268
L'opera continua, come è noto, distinguendo la partecipazione del
singolo nella Famiglia e nella Società civile, dalla sua necessaria
integrazione nello Stato, intesa come dovere etico, come realizzazione di
sé, sviluppando la premessa del § 258: "il dovere supremo (dei singoli) è
267 Cfr. M. H. HOFFEIMER, Eduard Gans and the Hegelian Philosophy of Law, cit.,
p. 8.
268 Cfr. G. W .F. HEGEL, Lineamenti di Filosofia del Diritto, cit. p. 246.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
175
di essere componenti dello Stato".269
Ed è proprio su questo passo che
Hegel spiega la sua posizione in antitesi con il contrattualismo di
Rousseau: non le volontà particolari creano lo Stato formando un
contratto, ma lo Stato preesiste logicamente ai singoli ed è tale proprio
perché non è la somma delle singole volontà.270
Ma sulla polemica contro
Rousseau e il contrattualismo torneremo in seguito. Qui preme mettere in
evidenza le conseguenze giuridiche e politiche che si potevano trarre, e si
sono tratte, dalla lettura di questi passi.
Ancora una volta conviene iniziare dalle aggiunte, ricavate dalle
lezioni del Maestro, compilate da Eduard Gans, che, se non si possono
definire elaborazioni originali dell'allievo, non sono nemmeno opera della
mano di Hegel.
Al già ricordato § 258, Gans aggiunge: "(...) Nella libertà non deve
procedersi dall'individualità, dall'autocoscienza singola, ma soltanto
dall'essenza dell'autocoscienza; poiché, ne possa essere consapevole o
meno l'uomo, quest'essenza si realizza come potere autonomo, nei quali i
singoli individui sono soltanto momenti".271
Che cos'è allora l'essenza
dell'autocoscienza, il punto di partenza? Viene detto poco sopra: è lo
Stato, che è tale solo in quanto esistente nella coscienza, in quanto
consapevole di sé stesso, come oggetto che esiste.
Che il periodare di Hegel fosse oscuro era già noto ai suoi
contemporanei; senza arrivare all'eccesso di Schopenhauer, definendolo
un uomo che parla un linguaggio oscuro perché non ha niente da dire,272
è
bene vedere subito come interpretava il pensiero del maestro in subjecta
materia il suo agiografo-apologeta, Karl Rosenkranz.
Se Gans era anche giurista, aveva infatti studiato a Berlino,
Gottinga e Heidelberg giurisprudenza, storia e filosofia, Rosenkranz273
era
269 Ibidem, p. 239.
270 Ibidem, p. 240/1.
271 Ibidem, p. 430.
272 Non è estranea a questa velenosa boutade l’esperienza concorsuale che vide
Schopenhauer bocciato da Hegel nella selezione per un posto di professore universitario.
Ci piace pensare che la risposta di Hegel sia in quella massima che E. MATASSI, Eredità
hegeliane, Napoli, 1991, pone ad incipit della sua prefazione: “un grande uomo condanna
gli altri a spiegarlo”.
273 Johann Karl Friedrich Rosenkranz (Magdeburg 23.4.1805 - Königsberg
14.6.1876), dopo la laurea, dal 1826 al 1833 fu ad Halle, prima di raggiungere Königsberg,
DIE EPIGONEN
176
un filosofo con un ampia predisposizione ai problemi dello Stato, coronata
da una breve ma intensa esperienza politica. Addottoratosi infatti in
teologia e filosofia, professore nel 1831, dal 1833 a Königsberg, durante
la rivoluzione del 1848/9 era Vortragender Rat a Berlino. Di questo
periodo sono le Politische Briefe und Aufsätze 1848-1856, culminanti con
l'allora più famosa Apologie Hegels gegen Dr. R. Haym, pubblicata a
Berlino nel 1858, in cui l'allievo riespone la dottrina giuridico politica del
maestro, difendendolo dalle accuse di bonapartismo, autoritarismo,
dispregio della religione, che gli erano state mosse. Tuttavia è negli Neuen
Studien, terzo volume, di vent'anni più tardi, che Rosenkranz presenta in
poche pagine in forma piana e sintetica l'insegnamento di Hegel sui
fondamenti dello Stato. A questa conviene fare riferimento, sia perché è la
stesura definitiva e pacata, sia perché riprende posizioni venute
preponderantemente alla ribalta nella accesa polemica e che per questo
godevano di una grande diffusione nel momento di affermazione
dell’Impero tedesco.
"Den Naturstand faßte er (id est Hegel) als einen Zustand der
Willkür und Gewaltthätigkeit auf, aus welchem der Staat befreie, so daß,
den Staat hervorzubringen, keine Aufopferung der persönlichen Freiheit
stattfindet, sondern vielmehr die Freiheit erst mit dem Staat ihre
Wirklichkeit gewinnt".274
Sembrerebbe una premessa rousseauiana, ove
grazie alla quadratura del circolo, ciascuno è libero quanto prima, con in
più la sicurezza fornita dall'ordinamento che lo preserva dalla violenza e
dove operò fino alla morte, esclusa la parentesi rivoluzionaria. Oltre alle opere citate nel
testo, dalla sua vastissima produzione indirizzata specialmente sulla letteratura e l'estetica,
ai nostri fini ricordiamo: De Spinozae philosophia, Halle und Leipzig, 1828; Der Zweifel
am Glauben. Kritik der Schriften de Tribus Impostoribus, Halle 1830; Hegel.
Sendschreiben an C. Fr. Bachmann, Königsberg, 1834; G.W.F. Hegel's Leben,
beschrieben durch K. Rosenkranz. Supplement zu Hegel's Werken, Breslau, 1844; Meine
Reform der Hegel'schen Philosophien. Sendschreiben an J.U. Wirth, Königsberg, 1852;
Diderots Leben und Werk, Leipzig, 1866; Hegel als deutscher Nationalphilosoph, Leipzig,
1870. Per la bibliografia completa rimandiamo a H. LÜBBE (a cura di), Die hegelsche
Rechte, Stuttgart, 1962, pp. 328-9.
274 K. ROSENKRANZ, Neue Studien. 3. Band: Studien zur Literatur und
Culturgeschichte, Leipzig, 1877, p. 239-264, citato da H. LÜBBE, op.cit., p. 35. Teniamo
sotto mano qui, come in seguito, la traduzione italiana di Guido Oldrini nel volume curato
da C. CESA, Gli hegeliani, cit., p. 30, facendo delle annotazioni quando ne rinverremo la
necessità. "Egli intese la sfera della natura come una situazione d'arbitrio e di violenza, da
cui lo Stato si libera, così che nella formazione dello Stato non ha luogo alcun sacrificio
della libertà personale, ma piuttosto soltanto nello Stato ottiene la sua realtà".
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
177
dall'arbitrio propri dello Stato di Natura. Tuttavia ogni dubbio viene
fugato subito dopo, con una precisazione destinata a formare un Leitmotiv
che ritroveremo, in forma più o meno espressa, in tutti gli autori seguenti:
"Daß der Staat durch einen Vertrag entstehe, leugnete er, weil diese
Entstehung der Willkür des Menschen entnommen sei, da er ihn
hervorbringen müsse und über ihn, ob er ihn wolle oder nicht, keineswegs
beschließen könne. Die Verfassung eines Staates entstehe dadurch, daß
der Geist eines Volkes die Allgemeinheit und Nothwendigkeit seiner
Freiheit als Gesetz erfasse, welches in der Sitte als der Inhalt derselben
lebendige Realität habe. Die Verfassung werde daher von allen im Volke
unbewußt und bewußt hervorgebracht. Durch das äußere Staatsrecht,
dessen Traktate zwar ewig gehalten werden sollen, jedoch stets gebrochen
werden, weil die Staaten sich nicht in der Lage von Privatpersonen
befinden, macht Hegel den Übergang in die Weltgeschichte als in das
Gericht, in welches der Weltgeist die einzelnen Völker führe".275
Si
intuisce come questo passaggio non potesse che apparire molto suggestivo
agli occhi del giurista, che verosimilmente era più propenso a ricordare
qualcosa che potesse risultargli congeniale perché in linea con i propri
paradigmi dell’allora dominante dogmatica giuridica, magari sorvolando
sugli astrusi periodi hegeliani. E in effetti gli assunti appena citati possono
giustificare molte conseguenze nel campo del diritto costituzionale. Da un
lato la considerazione che lo Stato non derivi dalla volontà dei singoli, al
cui arbitrio debba necessariamente essere superiore, ottenendo in questo
modo la sua oggettività; dall'altro, l'ammissione che nei rapporti tra
singoli Stati, questi si comportino come privati, ma come privati non
sottoposti a regole, è materia sufficiente per dedurre l'unitarietà
dell'ordinamento e giustificarne la sovranità tanto nei confronti dei sudditi,
quanto rispetto agli altri Stati. Ma non basta, perché di seguito Rosenkranz
275 Ibidem, p. 35.
"Negò che lo Stato tragga origine da un contratto, essendo desunta questa origine
dall'arbitrio dell'uomo, che invece deve necessariamente produrlo e non può affatto
decidere di esso, se volerlo o no. La costituzione di uno Stato si origina per lui in questo
modo, che lo spirito di un popolo afferra l'universalità e la necessità della sua libertà come
legge avente viva realtà nel costume quale suo stesso contenuto; sicché la costituzione
viene prodotta consciamente ed inconsciamente da tutto il popolo. Attraverso il diritto
esterno dello Stato, i cui trattati vanno certo sempre rispettati, ma tuttavia, non trovandosi
gli Stati nella posizione di privati, sono sempre infranti, Hegel elabora il passaggio alla
storia del mondo come al tribunale davanti a cui lo spirito del mondo convoca i singoli
popoli". CESA, op.cit., p. 31.
DIE EPIGONEN
178
attribuisce specificamente ad Hegel l'assunto che la volontà dello Stato
debba essere essenzialmente singola, anzi, unica, "einzelner Wille",
proprio al modo della volontà dell'individuo: "als ein Individuum
existieren". L'affermazione non potrebbe essere più chiara. "Im
Staatsrecht unterschied Hegel das innere und äußere und im innern 1) die
fürstliche Gewalt, 2) die Regierungsgewalt, 3) die gesetzgebende Gewalt.
Die Souveränität des Staates muß, wie wir gesehen haben, auch als ein
wirklicher, also einzelner Wille, als ein Individuum existieren. Eine
Mehrheit solcher Subjekte kann nur durch die Majorität der Abstimmung
zur Entschiedenheit gelangen, die daher immer gefährdet und dem Zufall
preisgegeben ist. Zwei solcher Subjekte geraten leicht in Gegensatz und
Paralysieren einander, falls nicht das eine das andere tatsächlich sich
unterwirft und ihm nur eine Scheinmacht übrig läßt. Solche Formen der
Souveränität machen die Bestimmung einzelner Subjekte zur Vertretung
des souveränen Willens selbst wieder davon abhängig, daß die Subjekte
gewählt werden müssen. Die Wahl kann sich auf ein Subjekt beschränken,
so bleibt die Abhängigkeit desselben, selbst wenn der Wahlfürst auf
Lebenszeit gewählt wird. In allen diesen Fällen ist die Majestät des
souveränen Staatswillens keine wirkliche".276
Se dunque la formazione popolare dell'organo sovrano attraverso
l’elezione non garantisce una reale volontà dello Stato, perché in balia
degli elettori, anche se il sovrano sia un principe eletto a vita, occorre
allora teorizzare uno svincolamento, presupporre un'indipendenza,
un'irresponsabilità del sovrano stesso verso i governati. In altri termini, il
fondamento dello Stato non può riposare nemmeno concettualmente su di
un supposto atto di volontà dei sudditi, dovendo trovare radice nella
necessità. Con un rovesciamento del contrattualismo, cui ancora aderiva
276 Ibidem, p. 38.
"Nel diritto pubblico Hegel distinse l'interno e l'esterno, e nell'interno: 1) il potere
principesco, 2) il potere del governo, 3) il potere legislativo. La sovranità dello Stato,
abbiamo visto, deve esistere anche come una volontà reale, quindi singola, come un
individuo. Una pluralità di siffatti soggetti solo in grazia della maggioranza nella votazione
possono venire ad una decisione, che resta perciò sempre in forse, e in balia
dell'accidentalità. Due di siffatti soggetti vengono facilmente a contrasto e si paralizzano
l'un l'altro, salvo che l'uno non sottometta realmente a sé l'altro e non gli lasci che un
potere illusorio. Tali forme della sovranità fanno dipendere di nuovo la determinazione dei
singoli soggetti in rappresentanza della volontà sovrana stessa dalla necessità che i soggetti
vengano eletti. L'elezione può limitarsi a un soggetto; ma rimane così la sua dipendenza,
quand'anche il principe elettivo sia eletto a vita. In tutti questi casi la maestà della volontà
sovrana dello Stato non è reale". Ibidem p. 35 e 36.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
179
Kant, la soggezione alla legge non deriva dal riconoscervi la propria
volontà, al modo vagheggiato da Rousseau, quanto dal riconoscere lo
Stato come qualcosa di superiore, quasi di sacro secolarizzato. È da questo
momento che, riprendendo spunti suggeriti da Hobbes, la scienza
giuridica eleva lo studio dello Stato a dottrina. Di conseguenza bisogna
riconoscere allo Stato un volere precedente e superiore al volere del
singolo, ma anche superiore all'unanimità dei consociati o dei sudditi.
Infatti se lo Stato non può essere sottoposto a singole volontà, non potrà
esserlo neanche se si tratta del volere di tutti i cittadini: neppure Rousseau
era mai arrivato a tanto. La categoria dello Stato è veramente la categoria
del sovrano della migliore tradizione hobbesiana: ein Individuum. Ma
un'ulteriore osservazione si impone: lo Stato precede e supera il sovrano,
non si identifica con esso, ma il secondo è solo un mezzo per mantenere il
primo: il Re ha dunque due corpi.277
Che tutto ciò sia una palese forzatura e semplificazione
dell'ingresso di Dio nel mondo, appare talmente evidente da risultare
banale. Tuttavia, se si considera la già ricordata difficoltà del periodare
hegeliano, nonché l'autorevolezza del suo interprete, si deve riconoscere
che questa divulgazione del Maestro berlinese è stata più vasta di quanto
non si sia pensato. Tutto ciò poi, forniva un comodo modo per aggirare le
critiche di Marx e della sinistra, non congeniali ai giuristi e che avrebbero
comunque smascherato le loro costruzioni attorno allo Stato, anzi lo Stato
stesso come concetto.
Inoltre l'astrazione concettuale di uno Stato svincolato e
autosufficiente non poteva che risultare gradita ai costituzionalisti che,
ricordiamolo, derivavano la loro formazione dalla scuola della
pandettistica, e quindi debitori, sostenitori del suo massimo prodotto: la
dogmatica. Si intende allora come un simile presupposto teorico
permettesse la più reine delle costruzioni, la più dogmaticamente pura e
logicamente consequenziale delle teorie. Ma Rosenkranz non si ferma qui
e, con un successo da lui stesso insperato per la sua Apologie, fornisce
ulteriore sostegno ai giuristi, ricordando lo scopo di Hegel: "Seine
Meinung war jedoch unstreitig, in dem Fürsten die Totalität und
subjective Einheit der souveränen Gewalt zu setzen, welche die höchst
entscheidende und beschließende Macht ist, weil sie sowohl die Gesetze,
277 cfr. E. KANTOROWICZ, The King’s two bodies. A Study in Medieval Political
Theology, Princeton, 1970, trad. it. Torino, 1989.
DIE EPIGONEN
180
damit sie Geltung haben sollen, sanktioniert, als den Beamten der
Regierung befiehlt und das Recht zu Krieg und Frieden hat".278
Quest’attaccamento alla monarchia degli Hohenzollern è professato
anche da un altro allievo, Carl Ludwig Michelet279
all’indomani del marzo
1848; ma anche in questo caso vi sono sottese ragioni teoriche non
indifferenti. Scrive al Costituente prussiano il curatore della rivista “Der
Gedanke”, il giorno 10 maggio 1848: "An diese halten wir uns also, um
im Strudel nicht unterzugehen. Mit dem Königthum und durch dasselbe
wollen wir die Errungenschaften, welche uns geworden sind, befestigen,
damit aus der Gleichheit der bürgerlichen Rechte die Versöhnung aller
Stände hervorgehe, damit daraus erblühe die Sicherheit und Ordnung des
Staats. Dieses schöne Ziel winkt uns aber nurerst aus weiter Ferne. Wir
haben es noch nicht erreicht. Die Freiheit ist ein Baum, dessen Wurzeln
bitter, dessen Früchte aber süß sind; noch nagen wie an seinen bittern
Wurzeln. In der ersten Aufwallung des Freiheitsgefühls ist dieser
ungewohnte Besitz etwas selbstsüchtig verstanden worden. Zwischen
Arbeitgebern und Arbeitern entspann sich ein harter Kampf. Gewerbe und
Wissenschaft, Bürgerschaft und Literaten traten sich feindlich
gegenüber."280
La libertà, frutto desueto, inebriando il popolo, ha travolto
278 K. ROSENKRANZ, op. cit. p. 39. "Suo intento, tuttavia, fu senza dubbio di porre
nel principe la totalità e l'unità soggettiva del potere sovrano, che è la forza in sommo
grado decisiva e risolutiva, sia perché sancisce il vigore delle leggi, sia perché sovrintende
ai funzionari del governo e ha il diritto di guerra e di pace". C. CESA, op. cit. p. 36.
279 Vissuto sempre a Berlino, sua città natale, tra il 4.12.1801 ed il 10.12.1893,
ottenuta l’abilitazione nel 1826, fu professore di filosofia alla Friedrich Wilhelms
Universität. Nel 1843, assieme ad un altro allievo di Hegel, il conte Cieszkowsky fondo la
società filosofica, dirigendo per 24 anni il suo organo ufficiale “Der Gedanke”. Per le sue
opere cfr. le note n. 257 e 287.
280 Cfr. C. L. MICHELET, Zur Verfassungsfrage. Der Mitgliedern der beiden
Verfassungsgründenden Versammlungen gewidmet, Frankfurt a. O. und Berlin, 1848, in H.
LÜBBE, op. cit., p. 181.
“A questa ci teniamo, dunque, per non scomparire nel gorgo. Col regime
monarchico, e per mezzo di esso, intendiamo consolidare i risultati ottenuti, affinché dalla
patria dei diritti civili derivi la conciliazione di tutte la classi [concordo qui con la
traduzione di Oldrini che rende in questo caso con “classi” il termine Stände], fiorisca da
essa la sicurezza e l’ordine dello Stato, Questa bella meta ci sorride però solo da lontano.
Non l’abbiamo ancora raggiunta. La libertà è un albero le cui radici sono amare, ma i frutti
dolci; noi stiamo ancora rosicchiandone le amare radici. Nel primo slancio del sentimento
di libertà, questo desueto possesso è stato concepito in modo alquanto egoistico. Tra datori
di lavoro e lavoratori è insorta una dura lotta. Attività economica e scienza, borghesia e
letterati si sono trattati reciprocamente da nemici” C. CESA, op. cit., p. 274.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
181
l’antica struttura cetuale, facendo riemergere gli egoismi particolari, con
quelle lacerazioni sociali che gli allievi più radicali di Hegel avevano
propiziato, in ossequio al motto per cui non è più il caso di descrivere il
mondo, ma si tratta di cambiarlo. Pur muovendosi cautamente tra
tradizionalisti e democratici, nel tentativo di sfuggire ad etichettature
politiche, comunque limitanti, il polemista berlinese individua solo nella
monarchia il criterio unificante e, quindi, realmente rappresentativo. La
forma di Stato diventa quindi elemento aggregante la comunità, forzando,
ancora una volta, il pensiero del Maestro di Berlino. Infatti, se pure si è
sostenuto che in Hegel è lo Stato che fa la nazione,281
non bisogna
dimenticare che lo Stato a sua volta è sintesi di Famiglia (comunanza di
principi morali) e Società civile (comunanza di consuetudini) cioè humus
ove si forma quel Volksgeist con un cui un popolo prende coscienza della
sua missione nel mondo ed assurge a Stato, come avremo modo di
sperimentare subito.
Non può, quindi, che essere vista con sospetto la discussione della
costituzione disordinatamente da parte di tutto il popolo. "Während die
Verfassung nämlich theoretisch durch das Volk, Teils in den Clubs, theils
in den Wahlversammlungen, theils endlich in der National-Repräsentation
debattiert wird, übt das Volk sich praktisch in der Selbstregierung, indem
alle Klassen der Arbeiter, das heißt, das ganze Volk, aber nicht mehr als
Ganzes, sondern in seine Glieder zerlegt, die künftige Organisation seiner
Verhältnisse aus sich selbst durch Verbesserungsvorschläge zu gestalten
sucht, die aus dem Schoße der Associationen der verschiedenen Arbeiter
zum Theil schon hervorgegangen sind, zum Theil noch hervorgehen
müssen."282
Ecco dov’è il vizio di fondo: nella discussione della
costituzione da parte del popolo, ma del popolo inteso come l’atomistico
insieme di individui, operazione, come si è visto, dalla quale non può
nascere nulla di buono; dacché la somma degli interessi particolari,
281 Così C. CESA, op. cit., p. xxiii.
282 H. LÜBBE, op. cit., p. 181. “Mentre infatti la costituzione è discussa dal popolo
teoricamente, parte nei club, parte nei comizi elettorali, parte infine in sede di
rappresentanza nazionale, il popolo si esercita praticamente all’autogoverno, in quanto
tutte le classi [questa volta è Michelet ad usare il termine marxiano Klassen] di lavoratori,
cioè il popolo intero, ma non più come l’intero, bensì scomposto nei suoi membri, cerca di
foggiare da sé stesso la futura organizzazione dei suoi rapporti mediante proposte di
riforma, le quali sono già in parte scaturite” C. CESA, op. cit., p. 274-5.
DIE EPIGONEN
182
quand’anche si indirizzassero unanimemente in una sola direzione, ancora
non darebbe corpo al Volksgeist. Come si può porre rimedio al disordine
disgregante? Con un singolare operazione di livellamento degno di un
giacobino (a riprova delle differenze di orientamento politico dei pensatori
raccolti sotto il termine di Destra hegeliana), Michelet propone di
ritrovare il minimo comune denominatore nel lavoro, che –pare- diventa
così anche condizione di appartenenza al corpo elettorale. "Was ist nun
hier die Aufgabe? In den Wahlversammlungen ist jeder vom Bedienten
bis zum wirklichen Geheimen Rath nichts Anderes, als ein preußischer,
ein Deutscher Wähler, ein Staatsbürger, und alle sind einander gleich,
während draußen die Arbeit und der Stand verschieden sind. Es kommt
aber darauf an, die Gleichheit auch in dieser Ungleichheit
wiederherzustellen. Die erste Gleichheit aber, die wir entdecken, ist die,
daßwir wir Alle Arbeiter sind unter den Flügeln der Freiheit; und es ist
ungehörig, von einem Arbeiterstande zu sprechen."283
Non sfugge
l‘imbarazzata rincorsa del pensiero marxiano (proprio in quell’anno uscirà
Il Capitale), o, più in generale, della Sinistra hegeliana, che aveva ormai
strappato prepotentemente il testimone del primato filosofico dalle mani
dell’idealismo storico. Interessante che sia il lavoro a rendere uguali, sotto
le ali della libertà. L’uguaglianza non è per natura, al modo del
giusnaturalismo moderno e, come abbiamo visto, nelle suggestioni
illuministe ancora di Sieyès, al contrario è il lavoro che rende uguali. Ma
occorre prestare attenzione, poiché l’uguaglianza formale si articola in
misura delle diverse professioni. Senza con questo ripetere l’ironica
battuta di Orwell, per cui alcuni sono più uguali degli altri, la diversità di
ruoli ricostituisce quegli Stände che sembravano essere stati spazzati via
dalle Klassen: l’intero testo è un sottile gioco letterario (forse
inconsapevole) fra “ceti” e “classi”. Ma, a parte gli espedienti stilistici, è
la preoccupazione di tessere nuovamente l’ormai smagliato rapporto tra
cittadino e Stato che domina l’argomentazione dell’allievo berlinese. E la
ricetta può riuscire paradossale. Dobbiamo lavorare tutti, sia per i bisogni
spirituali che per quelli materiali del prossimo, nel campo della scienza,
come nel campo di grano, poiché anche nel campo delle lettere ci sono i
283 Qual è dunque qui il compito? Nelle adunanze elettorali ciascuno dal servitore
sino al consigliere intimo in servizio, non è altro che un elettore prussiano, (un elettore)
tedesco, un cittadino dello Stato, e tutti sono eguali fra loro, mentre fuori di lì il lavoro ed
il ceto [Stand] sono diversi. Ma è importante stabilire l’eguaglianza anche in questa
diseguaglianza. La prima eguaglianza che notiamo, però, è che noi tutti siamo lavoratori
sotto le ali della libertà; ed è improprio parlare di un ceto di lavoratori.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
183
proletari.284
Occorre allora farsi eguali in questo, nell’aspirare al bene
comune di tutti, che è l’intento di ogni lavoro, affinché ciascuno prenda
parte all’utile comune, in proporzione del suo capitale e della sua capacità
di lavoro. Il mezzo per raggiungere questa situazione viene individuato
nella libera associazione (freie Association), che diriga la concorrenza
senza sopprimerla. Ma quello che nemmeno il principio associativo riesce
a promuovere nelle corporazioni e leghe comunali è riservato, non più si
badi bene, alla Società civile, ma allo Stato. In questo modo la lotta tra
datori e lavoratori verrà a cessare.285
Preme notare fin da subito il
progressivo edulcoramento della Società civile, che vedremo eclissarsi
vieppiù per lasciar spazio allo Stato, dando maggior rigore ed unità alla
costruzione degli Juristen, ma –nel contempo- recidendo le radici da cui
era cresciuta. Lo Stato perde il ruolo di sostanza e di fine in sé, l’ideale
greco della πόλις cui aveva attinto il pensiero di Hegel, e sfuma l’idea di
poter plasmare un’accolta di popoli mediante l’ethos dello Stato. Si è così
osservato che dal punto di vista positivo gli hegeliani di destra, più o
meno progressisti che fossero, non hanno portato alcun contributo
originale, spianando la strada al liberalismo col rinunciare subito al
modello hegeliano di Stato.286
In realtà, come si avrà modo di vedere, se
284 “Auch unter den Literaten giebt es Proletarier.” Cfr. H. LÜBBE, op. cit., p. 183.
285 Non si tratta dunque di corporativismo, al modo di Battaglia, Panunzio e Ugo
Spirito, (su quest’ultimo cfr. L. PUNZO, La soluzione corporativa, Napoli, 1984), ma di
sintesi, anzi, annullamento nello Stato. Il mezzo è l’educazione comune a tutti i ceti, che
dovrebbe avvicinarle e stringerle l’un l’altra. Si affaccia un tema che incontreremo più
avanti, cioè la visione dello Stato come educatore, su suggestioni Aristotele ove sosteneva
la possibilità di affrancamento dalla schiavitù, per mezzo dell’educazione. Com’è noto, per
la soluzione di questo problema Aristotele si affida alla paideia unico rimedio, e nemmeno
sicuro, alla mancanza di eughèneia. Hegel individua il rimedio nell’Aufhebung del
movimento dialettico dello Spirito oggettivo. Per questi aspetti, fra i tanti studi, mi limito a
segnalare il breve ma denso contributo di L. BAGOLINI, La schiavitù in Aristotele, “RIFD”,
1993, pp.33-42.
286 Così C. CESA, op. cit., p. xlv. Riprendendo una vivace polemica contro il
governo prussiano che non si era dato conto del voto negativo della camera sul bilancio
militare, l’autore nota come il primo a tessere un nesso tra Hegel e Otto von Bismarck sia
stato proprio Michelet, ricordando l’ironia di Hegel contro l’altisonante parola
approvazione del bilancio “… den hochklingenden Namen der Bewillugung des Budgets”.
Il passo si trova in C.L. MICHELET, Naturrecht oder Rechtsphilosophie als die praktische
Philosophie, vol. II, Berlin, 1866, p. 177. Cesa ci ricorda che l’originale hegeliano si trova
al § 544 della terza edizione dell’Enciclopedia.
DIE EPIGONEN
184
non può essere considerato contributo originale la sola semplificazione del
delicato meccanismo del Maestro, non di meno proprio la soppressione
dei sottili distinguo che sostengono le Grundlinien ha fornito la base
concettuale che ha consentito le operazioni dei colleghi giuristi. Ed in
questo senso è un prodotto che –se pure non dimostra lo stesso spessore
teoretico- ha provocato effetti giuridici almeno quanto l’elaborazione della
Sinistra hegeliana.
L’illustrazione più compiuta del pensiero di Michelet riprende un
tema comune ad Erdmann, ma recepito incondizionatamente dal Gerber e,
soprattutto, da Laband, ricevendo tutta la forza propulsiva impressa alle
opere di questo autore da una schiera compatta di allievi e dal sostegno
dei governi. Lo si può trovare più che nella storia della filosofia del 1837,
nel manuale di filosofia del diritto del 1866.287
Quest’opera, si è osservato,
nello schema riprende l’impianto hegeliano, pur non risparmiando una
continua polemica nei confronti del Maestro. Fin dalla prefazione la nota
equiparazione, con variazioni sul tema, tra reale e razionale, viene
esplicitata nel senso che ogni diritto reale è anche razionale, per
capovolgerla, in ossequio al detto latino crescit occulto velut arbor ævo,
propugnando la formula per la quale ogni diritto razionale finirà per
realizzarsi: Alles vernüftige Recht wird wirklich. Il punto che ci interessa,
però, riguarda il ruolo dei funzionari. Se Erdmann, come si vedrà, si limita
ad auspicare che deputati e funzionari abbiano una buona preparazione
giuridica, Michelet, vuole che essi siano essenzialmente rappresentanti
delle sfere della Società civile.288
L’arte del governo, si traduce a tecnica,
la politica diviene competenza burocratica; e non poteva esser
diversamente in una prospettiva che vede nell’onnicomprensività della
287 C.L. MICHELET, Geschichte der letsen Systeme der Philosophie in Deutschland
von Kant bis Hegel, 2 Voll., Berlin, 1837-38; IDEM, Naturrecht oder Rechtsphilosophie als
die praktische Philosophie, 2 voll., Berlin, 1866, riediti uniti, come ottavo volume delle
Gesammelte Werke, Berlin, 1884, con la fortuna di avere a nostra disposizione le copie
possedute da Adolfo Ravà, di cui recano l’autografo, la data ed il luogo, quand’Egli era
ancora professore a Camerino. Cfr. si vis, il nostro Adolfo Ravà. Fra tecnica del diritto ed
etica dello Stato, Napoli, 1998, p. 275.
288 A tale proposito, C. CESA (op. cit., p. xliv) afferma la derivazione dell’assunto
dal principio dell’autogoverno professato da Michelet. A noi pare, invece, che non
debbano essere sottovalutate le esigenze razionalistiche e sistematizzanti di ordinamento
del Volksgeist affidate alla burocrazia regia, concretando così anche fisicamente
quell’unità di volontà tra cittadino e Stato, tematizzata da Hegel, che ha consentito lo
svilupparsi della teoria organica dello Stato.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
185
legge la volontà dello Stato. Così il cerchio si chiude: fa la legge chi
meglio conosce la legge, e chi meglio conosce la legge raggiunge un posto
nell’amministrazione dello Stato. Ma stiamo anticipando.
Dopo le premesse sullo Stato in generale, occorre vedere quale
strumento giuridico l’Hegel-Rosenkranz fornisca ai giuristi per la
realizzazione dello Stato etico. L'esposizione comincia con una
considerazione: nel formulare le sue proposte Hegel pensava
all'esperienza inglese, infatti "In der Verfassung selbst behielt Hegel die
englische Constitution vor Augen. Er forderte Öffentlichkeit des Rechts,
Preßfreiheit, Volksvertretung; die letztere soll nach ihm das
Zweikammersystem befolgen. Das Oberhaus soll aus den großen
Grundbesitzern bestehen, die als Majoratserben unmittelbar das Recht
politischer Standschaft überkommen, hierin dem Erbfürsten analog. Der
große Grundbesitzer ist, wie Hegel meint, von den Versuchungen des
Gewerbetreibenden, von einer beschränkten und beschränkenden
Verwickelung in die Endlichkeit und Verworrenheit augenblicklicher
Umstände frei. Die Continuität des geschichtlichen Process hat an ihm
ihren Träger, und der Zwang des Majorats schützt seinen Besitz gegen
seine eigne Willkür. Das Unterhaus soll aus den Abgeordneten der
Gemeinden, Corporationen und Genossenschaften bestehen; sie sollen
vom Vertrauen ihrer Mitbürger gewählt werden und aus der Kenntniß und
dem Gefühl ihrer Besonderheit sich auf den Zusammenhang derselben mit
dem Allgemeinen hinrichten, eine Ausgleichung aller Verhältnisse, eine
Auflösung aller Widersprüche hervorbringen".289
Le camere, specchio
289 H. LÜBBE, op. cit., p39. "Nella stessa forma di governo Hegel tenne davanti agli
occhi la costituzione inglese. Avanzò l'esigenza di pubblicità del diritto, di libertà di
stampa, di rappresentanza popolare; quest'ultima, secondo lui, deve attenersi al sistema
bicamerale. La Camera alta deve essere composta dai grandi proprietari fondiari, i quali,
come eredi dei maggioraschi, subentrano immediatamente nel diritto del loro stato politico,
analogamente in ciò al principe ereditario. Il grande proprietario fondiario, come ritiene
Hegel, è libero dalle tentazioni dell'esercizio di un mestiere, da un limitato e limitante
inviluppo nella finitezza e confusione di circostanze contingenti. La continuità del
processo storico ha in lui il suo esponente [ci si discosta qui dalla traduzione di Oldrini,
preferendo, in uno studio sulla rappresentanza, tradurre il termine Träger più letteralmente
con "sostenitore" o "esponente", anziché con "rappresentante"], e il vincolo del
maggiorasco difende il suo possesso dal suo proprio arbitrio. La Camera bassa deve essere
composta dai deputati dei comuni, delle corporazioni e delle associazioni; essi devono
essere eletti dalla fiducia dei loro concittadini e, in base alla consapevolezza e al
sentimento della loro particolarità, devono mirare alla connessione di essa con l'universale,
produrre un appianamento di tutti i rapporti, uno scioglimento di tutte le contraddizioni".
C. CESA, op. cit., p. 36 e 37.
DIE EPIGONEN
186
della nazione, o meglio del popolo che prende coscienza di sé ed assurge a
Stato, sono il luogo deputato alla mediazione dialettica. Tuttavia perché
possa compiersi l'Aufhebung, occorre una particolare predisposizione del
deputato a vedere le cose dello Stato: questa attitudine si concreta in un
particolare rapporto con gli elettori che è quanto a noi precipuamente
interessa. "Weil erst die Debatte alle Seiten einer Sache in's Licht stellt, so
muß das Urtheil des Abgeordneten frei sein; er darf nicht durch ein
Mandat auf eine im voraus festgesetzte Abstimmung verpflichtet werden,
in welchem Fall er nicht als eine selbstständige Intelligenz, nur als eine
Votirungsmaschine wirken würde. Einer Vertretung nur nach der
Kopfzahl oder nach einem Census trat Hegel auch hier entgegen, weil sie
auf einer todten, von allem Vernunftinhalt entblößten Atomistik beruhe
und die einzelne Person nicht als eine mit dem Staatsganzen durch eine
concrete Mitte organisch zusammengewachsene setze.290
Le assonanze rousseauiane sono palesi, e se non si fosse già detto
della polemica anticontrattualistica, si potrebbe credere che qui Hegel,
sempre nella versione di Rosenkranz, aderisca alle tesi del Ginevrino,
oltre che per la centralità dell'assemblea e della discussione, anche per
quanto riguarda la formazione della volontà generale. È interessante allora
confrontare questo punto con il resto dell'esposizione del pensiero
hegeliano. L'individualità trova il proprio superamento nello Stato, che
proprio perché superamento non può essere somma di volontà singole,
particolari. La voce dello Stato non può essere allora voce particolare, né
la sua volontà può essere di parte. Si deduce che le decisioni debbano
essere prese nell'assemblea, ove i deputati hanno mandato libero.
Nell'assemblea, perché ogni questione comune deve essere discussa in
comune, ritenendo classicamente che solo la discussione può mettere in
evidenza tutti gli aspetti del problema. Con mandato libero, perché ogni
confronto sarebbe vanificato, ogni tensione al bene pubblico sarebbe
compromessa, se la discussione fosse vincolata da istruzioni partigiane.
Dovendo tendere al bene dello Stato infatti, gli eletti non possono essere
290 Ibidem. "Poiché soltanto la discussione mette in luce tutti i lati di una questione,
il giudizio di un deputato deve essere libero; egli non può venir vincolato da un mandato
ad una votazione anticipatamente predisposta, nel qual caso egli non agirebbe da
intelligenza indipendente, ma soltanto da macchina per votare. A una rappresentanza
soltanto secondo il numero, o secondo un censo, Hegel anche qui si oppone, poiché essa
poggia su un morto atomismo, sprovvisto di ogni contenuto razionale, e non pone la
persona singola come organicamente concresciuta, attraverso un medio concreto, con
l'intero statuale". Ibidem.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
187
portatori di volontà parziali: ogni vincolo di mandato imporrebbe delle
volontà estranee all'assemblea, negandola nella sua più intima struttura.
Ne vien fatto discendere, come per logico corollario, che i deputati sono
inviati non con istruzioni, ma sulla fiducia nelle loro capacità di cogliere il
bene pubblico: se non lo perseguono, se non lo individuano, non saranno
rieletti.
Si possono svolgere due osservazioni. L'esigenza di responsabilità è
un forte indice di dualismo: se si deve rispondere, vuol dire che c'è
qualcuno a cui rispondere, oltre al rappresentante c'è il rappresentato. Si
badi bene, il principio di responsabilità è solo una traccia, ma è una spia
molto indicativa: non è la prova del dualismo della struttura che si sta
esaminando, ma è quasi una presunzione che si è di fronte all'esistenza di
due soggetti, rappresentante e rappresentato, legati tra di loro da un
rapporto, appunto quello rappresentativo, di cui un carattere è appunto la
responsabilità del primo verso il secondo, il redde rationem.
La seconda osservazione rileva un'aporia. Con il sistema appena
delineato sono chiamati a giudicare la tensione dei deputati verso il bene
dello Stato, a giudicarne l'operato, a sindacare la legge, cioè la volontà
dello Stato, proprio quei singoli, gli elettori, tra l'altro presi
individualmente, neanche in assemblea, alla cui funzione si era appena
riconosciuta tanta importanza. Dovrebbe risultare allora che la volontà
dello Stato è controllata e dipende dal singolo. Tale soluzione, nella
prospettiva che stiamo analizzando, è aberrante e pericolosa. L'Hegel di
Rosenkranz se n'era accorto: si è visto infatti poco sopra come l'elettività
non si convenga nemmeno ad un sovrano assoluto a vita, poiché la
"maestà della volontà sovrana dello Stato in questo senso non è reale",
dipendendo almeno logicamente da coloro che lo hanno eletto, che lo
hanno cioè creato sovrano. Il sospetto verso l'elezione è dovuto forse alla
forma di contratto sociale che si intravede in essa. In effetti l'elezione non
è altro che l'attribuzione del potere di volere (e comandare) in nome di chi
ha eletto, e tale ipoteca resta anche se una volta eletto il sovrano è
assoluto, cioè non responsabile nei confronti dei singoli elettori, non loro
rappresentante. Non è difficile allora un paragone con le forme
hobbesiane di assicurazione contro la paura, che producono il Leviatano.
Ancora una volta si pone un problema, poiché se è vero che Hegel
riprende un pensiero di Rousseau (ma della classicità) indicando nella
libera discussione la corretta tensione al bene della comunità, l'Aufhebung
dell'individualità, non si possono negare le difficoltà di individuare il
processo tecnico per il superamento della individualità nell'assoluto, del
DIE EPIGONEN
188
singolo nello Stato, difficoltà che influiscono anche sul piano teorico,
procurando incertezze ed ambiguità. Si intravede insomma lo sforzo per la
ricerca nella costruzione hegeliana di un attento equilibrio tra cittadino e
Stato. Della messa in pratica delle teorie si incaricheranno i giuristi, cui
poco importa se la realizzazione concreta incrini i sottili 'distinguo' teorici.
In altri termini se ancora in Hegel si può riconoscere il dualismo
necessario alla struttura rappresentativa, la riconosciuta esistenza di
rappresentante e rappresentato, cittadino e Stato, pur nella consapevolezza
che l'uno è nell'altro, con il necessario superamento del particolare
nell'assoluto, non così per i giuristi che, allo stesso modo di Sieyès un
secolo prima, riconosceranno solo lo Stato, il rappresentante, assumendo
che contiene in sé il rappresentato.
Da questo punto di vista, quando Laband afferma che il Reichstag
non rappresenta giuridicamente nessuno, dice una cosa incontestabile già
per la scienza giuridica del tempo, poiché de jure, mancano i due soggetti
propri della rappresentanza quale la poteva intendere un giurista tedesco
(normalmente buon romanista) dell'epoca. Non si deve dimenticare infatti,
come la formazione nelle università tedesche avvenisse secondo
l'insegnamento della pandettistica e della dogmatica. La struttura
rappresentativa, così come elaborata dai pandettisti, non corrispondeva
alla situazione del Reichstag, quale lo osservava Laband, e in questo egli è
logicamente consequenziale con la definizione accademica dell'istituto. Il
salto logico avviene dove si afferma che ogni organo dello Stato è, in
quanto statuale, rappresentativo, che di per sé sarebbe affermazione
innocua, se non si premettesse che il singolo cittadino, proprio in quanto
tale, non è capace di volontà diversa da quella dello Stato. Più che una
rappresentanza questa è una tutela. Individuo e Stato sono organicamente
compenetrati.
Organo e organismo sono termini ricorrenti nell'opera di questi
autori. I giuspubblicisti poi, a loro volta, costruiscono una teoria detta
"degli organi" o "organica". Occorre dunque ricercare quale sia il
significato di tali termini che sembrano essere l'anello di congiunzione tra
Philosophen e Juristen.
A questo proposito ci soccorre l'insegnamento di Johann Eduard
Erdmann,291
che nel 1851 tenne ad Halle un corso di "Lezioni filosofiche
291 Johann Eduard Erdmann, vissuto tra il 1805 e il 1892, completò gli studi di
Teologia a Berlino dove ascoltò Hegel. Abilitato in Filosofia nel 1834, dal 1836 alla morte
insegno ad Halle. Tra gli scritti politici che più interessano il nostro argomento ricordiamo:
Die Zusammensetzung der ersten Kammer nach §38 des Verfassungsgesetzes, Halle, 1848;
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
189
sullo Stato", muovendo e sviluppando tutto il ciclo dall'asserto "Lo Stato
come supremo organismo etico". Sullo sfondo, già lo si intravede, si
staglia lo Stato hegeliano come Aufhebung di Famiglia e Società civile,
che abbiamo incontrato al §260 della "Filosofia del Diritto", e che come il
filo d'Arianna, guida la nostra indagine. Tuttavia, prima di immergerci nel
pensiero del filosofo anseatico e per comprenderlo appieno, conviene qui
sottolineare la data: il 1851. Gli echi del '48 non si erano ancora spenti
(Erdmann ne fa oggetto di tutta la quarta e di parte della quinta lezione),
ed i "tecnici del diritto", in particolare i “neonati” costituzionalisti, erano
alla ricerca di una solida base su cui fondare i propri edifici, base che non
poteva più essere quella offerta dalla scuola romanistica di Savigny,
travolta dalla tempesta rivoluzionaria e ormai irrimediabilmente bollata
come una anticaglia del Vörmarz. È qui appena il caso di notare come le
opere di Gerber, Über öffentliche Rechte da un lato, e di Bluntschli,
Allgemaines Staatsrecht geschichtlich begründet dall'altro, siano entrambe
del 1852, mentre l'intervento di Laband nel dibattito, è del 1871. Ma di
questo parleremo in seguito, è giunto infatti il momento di cedere la
parola a Erdmann.
Asserire che lo Stato è il supremo organismo etico impone subito
una spiegazione del termine organismo ed una giustificazione del suo uso
al posto del termine comunità. "Es bezeichnen aber die Worte
Organismus, organisch, ein logisches (d. h. ein allgemeines Vernunft-)
Verhältnis",292
che non è un termine proprio solo delle scienze fisiche e
chimiche, ma che trova cittadinanza a pieno diritto anche "nella sfera che
Wie die Binnen einmal eine Republik machten. Eine Geschichte für Jedermann, erzählt
von einem alten Binenfreunde. Kostet nur einen Sechster, apparso anonimo ad Halle nel
1848; Das Mißtrauensvotum der zweiten Kammer. Von einem Namenlosen, pure
(evidentemente) anonimo, Halle, 1848; Philosophische Vorlesungen über den Staat, Halle,
1851 qui esaminate; In Frankreich ist/ist nicht Rechts geschehen. Screiben an den
Redakteur der Kreuzzeitung. Von einem Namenlosen, anch’esso anonimo, Berlino, 1857.
Sull'influsso di Erdmann nel diritto costituzionale, cfr. il singolare scritto di K.
Larenz, Hegelianismus und preußische Staatsidee. Die Staatsphilosophie Joh. Ed.
Erdmanns und das Hegelbild 19. Jahrhunderts, Hamburg, 1940, da cui citeremo anche in
seguito.
292 J. E. ERDMANN, Philosophische Vorlesungen über den Staat, Halle, 1851, p. 16-
76 e 188-192, citate in H. LÜBBE, op.cit., p. 222.
"I termini organismo, organico, designano però un rapporto logico (cioè un
rapporto universale di ragione)". Cfr. C. CESA, op.cit., p. 342.
DIE EPIGONEN
190
oltrepassa la natura".293
Se organismo è un rapporto logico e reale proprio
in quanto logico, l'indagine si sposta sulla natura di tale rapporto, ed ecco
la definizione di Erdmann: "Was dann weiter eigentliche Natur und
Bedeutung dieses Verhältnisses oder dieser Kategorie betrifft, so
bezeichnet das Wort Organismus eine Vereinigung, welche nicht eine
bloße Summe oder Zusammensetzung ist, in welcher die Theile gesondert,
viele, bleiben, sondern eine solche, in welcher durch ein wircklisches
Eins-verden an die Stelle der Theile Glieder treten, d. h. solche, welche
nur im Ganzen sind, nur am ihm eine Realität haben. (Eine Hand vom
Leibe getrennt ist keine Hand, sondern ein Stumpf). Also durch
Aufhebung der Vielheit erst kommt ein Organismus zu Stande.
Aufhebung aber ist nicht Abwesenheit. Wo alle Vielheit mangelt, giebt es
eben so keinen Organismus, sondern nur gleichartige Masse, und seit
Aristoteles haben alle tiefer blickenden Philosophen dies mit Recht
anerkannt, daß das Organische nicht ein Atom, auch nicht ein homogenes
(homöomerisches) sey, sondern ein solches, das eine Mannigfaltigkeit
darbietet. Diese beiden Bestimmungen der Vielheit und Einheit, die
zugleich Nicht-Vielheit und Nicht-Einheit ist, vereinigen sich darin, dass
die Realität des Organismus in dem steten Ein-setzen des Mannigfaltigen,
dem steten Differenziren des Homogonen besteht".294
293 Cfr. C. CESA, op.cit., p. 342.
294 Cfr. H. LÜBBE, op.cit, p. 222.
"Per quanto poi concerne la vera e propria natura e il significato di questo rapporto
o di questa categoria, il termine organismo designa un'unione, che non è una mera somma
o composizione dove le parti restino separate, molteplici, ma tale per cui, mediante un
reale farsi-uno, entrano in essa, invece che parti, membri, cioè elementi tali che esistono
solo nel tutto, che solo in esso hanno una realtà. (Una mano separata dal corpo non è una
mano, ma un troncone). Sicché solo con il superamento della molteplicità viene ad essere
un organismo [pur riportando il termine Aufhebung tra parentesi quadre nel testo, Oldrini
lo traduce con 'soppressione'. Trattandosi del pensiero di un hegeliano riteniamo più
confacente tradurre 'superamento', poiché tale è semmai il terzo momento della dialettica
hegeliana, non 'soppressione' di tesi e antitesi. Famiglia e Società civile trovano la loro
sintesi, l'Aufhebung appunto, nello Stato, non il loro annullamento. Tutto ciò viene chiarito
nel seguito]. Superamento non è però assenza. Dove manca ogni molteplicità, non si dà
nessun organismo affatto, bensì solo massa indifferenziata, e a partire da Aristotele, tutti i
filosofi più profondi hanno riconosciuto a ragione che l'organico non è un atomo, e
neppure un che di omogeneo (omeomerico), bensì tale da presentare una varietà. Queste
due determinazioni della molteplicità e dell'unità, che sono insieme non -molteplicità e
non-unità, si congiungono in ciò, che la realtà dell'organismo consiste nello stabile
unificarsi della varietà, nello stabile differenziarsi dell'omogeneo". C. CESA, op.cit. p. 342.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
191
L'unità del sistema, l'elemento aggregante lo Stato è dato da un
idem sentire et velle, che permette l'Aufhebung, il superamento, della
molteplicità nell'unità, nella totalità dell'organismo. Questo sentimento
tuttavia, non deve essere egoistico, non è un sentimento di convenienza
particolare. Ogni particolarismo infatti incrinerebbe la sfera, ucciderebbe
l'organismo. Ne consegue, che nel luogo dell'eticità ogni volontà difforme
dagli interessi dello Stato deve essere bandita. Con questo assunto si apre
la strada a pericolose conseguenze. Infatti il termine usato, egoismo, come
assolutezza dell'io, individualità esasperata, unicità, ha sicuramente una
valenza negativa, talché di primo acchito si plaude alla sua espunzione per
la costruzione di una forma di convivenza più solida, fondata sulla
solidarietà come antitesi dell'egoismo. Ad un più attento esame però, il
significato del termine emerge dal contesto come sinonimo di individuo,
anzi, di singolo, persona, tutto ciò che non è Stato, tutto ciò che è 'altro'
dallo Stato. Da qui la conseguenza che non l'egoismo come soddisfazione
della propria individualità a scapito degli altri, ma tutta quella parte della
persona che non è Stato, ne costituisce un potenziale pericolo,
contrapponendovisi. Le deduzioni ideologiche che si sono tratte in tema di
proprietà privata, forma di egoismo, luogo di estrinsecazione della
persona e altro ancora, qui non interessano. Preme invece fin da subito
mettere in evidenza la necessità propria, vedremo, degli Juristen, che qui
affonda le proprie radici: l'Einheit dell'ordinamento. Torna tradotto in altri
termini, quanto si era visto già con Hegel - Rosenkranz: "als ein
Individuum existiren; einzelner Wille"295
"Eben so ist nun auch der Staat ein Organismus nur dadurch, dass
ein Geist in ihm waltet, der sich in dem Einzelnen als das den Egoismus
Überwindende zeigt, obgleich er sich in dem Einen mehr als bewusstlose
nur gefühlte Pietät, in dem Anderen als bewusster intelligenter
Patriotismus zeigen wird. Während eine Bande nur durch den Egoismus
der Einzelnen zusammengehalten wird, und daher das, fast immer
berechtigte, Misstrauen nur eine mechanische durch Furcht erhaltene
Einheit erlaubt, während dessen ist es im Staate der Glaube, das
Vertrauen, die Liebe, welche die Bürger verknüpft; dagegen ja mehr der
Egoismus des Einzelnen hervortritt, um so mehr erscheint der Staat als
krank".296
L’assonanza di questa proposizione del pensatore anseatico con
295 Cfr. Supra, nota n. 276.
296 H. LÜBBE, op.cit., p. 223.
DIE EPIGONEN
192
il noto passo del vescovo di Ippona svela la distinzione tra Società civile e
Stato, conseguenza della distinzione tra il contemperamento degli interessi
o delle utilità particolari, che sostengono la prima, e il bene pubblico che
anima il secondo. Ma quand’è che le regole della Società civile diventano
norme dello Stato? Quando cioè una regola che assicura la coesistenza
degli arbitri assurge a norma per il perseguimento del bene pubblico? La
risposta dev’essere cercata nel Volksgeist, frutto della presa di
consapevolezza di un popolo, mercé quell’operazione compiutamente
tematizzata dal Maestro, come si è visto, in virtù della quale il singolo “si
muta da sé” vincendo il proprio egoismo, riconoscendo il proprio bene
intimamente legato a quello della comunità etica. Lo Stato diviene
organismo per l’accordo del singolo con i suoi interessi, che sono comuni
a tutti, pur non essendo particolari di alcuno: è quindi una questione di
sentimento.
Proprio questo passaggio, questo mutamento di prospettiva che
ciascuno fa prendendo (o perdendo) consapevolezza di sé, ci riporta ad un
tema tipicamente giusnaturalistico: la contrapposizione tra stato civile,
artificiale e il mitico "stato di natura". Negare il primo significa ritornare
al secondo; quindi l'individualità che nega il primo è causa della bestialità
che caratterizza il secondo. Ogni forma di individualità, ogni pretesa di
interesse personale, costituisce un passo verso il ritorno allo "stato di
natura", che in quanto ritorno è ancor peggiore.
"Darum ist der Staat ein übernatürlicher, d. h. ein künstlicher oder
Culturzustand, umgekehrt aber das Geltendwerden des Egoismus
untergräbt nicht nur der Staat, sondern ist als Zurückfallen zum
Natürlichen, Rückfall zur Uncultur oder Rohheit, die als Rückfall
schlimmer ist als die erste Rohheit, daher ohne Ausnahme Anarchie die
Bestialität hervorruft. Der Staat ist Organismus heißt also: seine Glieder
sind durch einen Geist durchdrungen und der eine Geist zeigt sich in einer
Mannigfaltigkeit von Gliedern.297
Anche qui si incontra la distinzione tra
"Ora anche lo Stato è altrettanto un organismo, solo perché regna in esso uno
spirito, che si mostra nel singolo come capace di vincere l'egoismo, sebbene nell'uno si
mostri più come pietas inconsapevole, solo istintiva, nell'altro come patriottismo
consapevolmente ragionato. Mentre una banda è tenuta insieme solo dall'egoismo dei
singoli, e perciò la quasi sempre giustificata sfiducia permette solo un'unità meccanica
sorretta dalla paura, invece nello Stato sono la fede, la fiducia, l'amore che legano i
cittadini; per contro, quanto più emerge l'egoismo del singolo, tanto più lo Stato ne
risente". Cfr. C. Cesa, op.cit., p. 344.
297 H. LÜBBE, op.cit., 223-224.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
193
stato di natura e Società civile, seppure, per le premesse
anticontrattualisiche che abbiamo già incontrato, il passaggio dal primo
alla seconda non può essere dato da un contratto, ma da un atto di presa di
coscienza, dalla maggiore o minore consapevolezza del proprio legame
con la comunità di appartenenza. Ne consegue che, come vi sono diverse
sensibilità, così vi sono cittadini più o meno legati allo Stato: l’assunto
dimostrerà subito la sua importanza, dacché a questi è riservato un ruolo
specifico nella formazione della legge, nonché un posto insigne
nell’amministrazione dello Stato. Da questo, alla figura del condottiero,
interprete del Volksgeist, il passo è breve.298
Inoltre, a differenza del
giusnaturalismo moderno, il passaggio da stato di natura a società civile
non è univoco, ma a doppio senso, giacché dall’uno si può progredire
all’altro come dal secondo si può regredire al primo, in virtù di quel
processo “personale” di presa di coscienza che accorda più o meno la
volontà del singolo con quella dello Stato. Ci si potrebbe chiedere allora,
atteso che lo stato di natura e il contratto299
che ne veicola l’uscita sono
costruzioni ipotetiche, come debba essere considerato il sentimento che
consente il superamento dello stato di natura nella visione di Erdmann. La
"Perciò lo Stato è una condizione super-naturale, cioè artificiale o civile, ma
inversamente il prevalere dell'egoismo non solo mina lo Stato, bensì è come un ritorno al
naturale, una ricaduta nell'inciviltà e nella rozzezza che, come ricaduta, è peggiore della
rozzezza primitiva; onde l'anarchia ingenera senza eccezione la bestialità. Lo Stato è
organismo significa dunque: i suoi membri sono pervasi da un unico spirito, e un unico
spirito si mostra in una varietà di membri". Cfr. C. CESA, op. cit., p. 344.
298 La puntuale ripresa delle tesi di Erdmann a sostegno della costruzione
nazionalsocialista è programmaticamente operata da uno dei più insigni giuristi operanti
negli anni Trenta in Germania. Cfr. il singolare e raro K. LARENZ, Hegelianismus und
preußische Staatsidee. Die Staatsphilosophie Joh. Ed. Erdmanns und das Hegelbild 19.
Jahrhunderts, Hamburg, 1940. Tuttavia, per una prospettiva completamente diversa (a
riprova della non omogeneità del pensiero tedesco in tema di rappresentanza) nello stesso
anno, cfr. A. GEHLEN, Der Mensch. Seine Natur und seine Stellung in der Welt (1940),
Wiesbaden, 1986.
299 Non si possono appiattire le posizioni di quegli autori che vengono ricondotti
sotto la definizione di giusnaturalisti moderni, nello schema ipotetico stato di natura –
ipotetico contratto – società civile. Com’è noto, per Locke i contratti sono più d’uno,
storicamente avvenuti e destinati a ripetersi nella storia, quasi a rinnovazione delle
obbligazioni contratte, ogni qual volta il vincolo sociale dimostri di allentarsi. Così come
per Hobbes il contratto, pur essendo uno, si sarebbe storicamente verificato, al pari dello
stato di natura, del quale fornisce i noti tre esempi, dati dalla guerra civile, dal rapporto tra
Stati (“diritto” internazionale) e per gli indiani d’America.
DIE EPIGONEN
194
domanda non è oziosa, giacché se stato di natura e sentimento che ne
consente il superamento sono ipotetici, lo Stato che su tale sentimento si
poggia, lungi dal derivare la propria esistenza dalla necessità, la deve
semplicemente ad un’ipotesi. Donde una seconda domanda potrebbe
essere rivolta al nostro autore: è veramente possibile per il singolo
ritornare allo stato di natura? Dall’esposizione che precede si deve tenere
conto che il “passaggio” dall’uno all’altro non involve la pluralità di
individui, come avviene per il contratto, ma avviene mediante un
momento di autocoscienza che si avvera in maniera indipendente dagli
altri. Si potrebbe pensare che l’emergere “dell’egoismo del singolo” possa
intaccare lo Stato, ma non mai revocarlo, quasi per mutuo dissenso. Qui
giocano un ruolo fondamentale il movimento della Storia e l’idea di
eticità.
La risposta dev’essere ricercata, dunque, nella definizione di eticità,
come sintesi di morale e diritto, vera radice dello Stato, chiave di volta del
sistema, quadratura del cerchio politico: "Wir sprechen also von
Sittlichkeit nur dort, wo wir es mit einer ethischen Gestalt zu thun aben, in
welcher Moralisches und Rechtlisches sich nicht nur durch Addition,
sondern durch Multiplication, nicht nur mechanisch, sonder chemisch
verbunden haben. Die legale Gesinnung, die gesinnungsvolle Legalität,
kurz was wir Treue, Pietät nennen, das macht das Band einer sittlichen
Gemeinschaft und in ihr besteht die Sittlichkeit. Unser Satz nennt den
Staat einen sittlichen Organismus und setzt ihn deshalb ausserhalb der
bloss rechtlichen und der nur moralischen Verbindungen. Der Staat ist
kein blosses Rechtsinstitut, und die Theorie des Rechtsstaats hat an mir
keinen Anhänger, weil der Rechtsstaats nur ein aus einem Vertrage
hervorgehender seyn könnte, und weil in einem solchen es sich nur um
Rechtsobjecte d. h. um erzwingbare Leistungen handeln, die Gesinnung
aber ganz gleichgültig bleiben würde. So aber kommt es zu keinem Staat,
höchstens zu einer Solidarität egoistischer Interessen. Zu einem Staat
gehört mehr. Wie Einer noch kein guter Ehemann ist, weil er sein Weib
weder bestiehlt noch sich Injurien gegen sie erlaubt, sondern dazu gehört
dass er sein Weib liebe, so ist es um ein guter Bürger zu seyn nicht
hinreichend, dass man die Abgaben regelmässig leistet, sondern man muss
ein Herz haben für sein Volk, Liebe und Pietät, welche hier Patriotismus
heisst, macht den Bürger".300
Ciò che trasforma un'associazione di
300 H. LÜBBE, op.cit., p. 227.
"Parliamo quindi di eticità solo dove abbiamo a che fare con una figura etica, in
cui l'elemento morale e quello etico si combinano non solo per addizione, ma per
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
195
mercanti, di interessi egoistici, in uno Stato è l'eticità, cui sinonimi, per
Erdmann, sembrano essere attaccamento alla patria, patriottismo, amore
per le leggi. Una formula riduttiva se si pensa al ruolo che trova nella
costruzione di Hegel, ma anche per gli scopi dello stesso Erdmann. È stato
notato che il “civettare”301
di Erdmann con la terminologia di Hegel,
proprio in queste lezioni dedicate al commento della proposizione “lo
Stato come supremo organismo etico”, non deve trarre in inganno sulle
differenze di sostanza fra i due. Se alcuni argomenti -come la
qualificazione del suffragio o la tenuta onnipotenza del parlamento- sono
comuni, in quel tempo, a tutti coloro che guardavano con sospetto al vento
che ancora spirava dalla Francia, così da non poter essere indice di
“figliolanza spirituale”, al contrario, proprio i temi di fondo dimostrano le
differenze teoretiche più insidiose. Infatti, se Erdmann riprende
l’argomentazione hegeliana della dialettica dello Spirito oggettivo, le
integrazioni con rimandi all’organismo naturale o all’addizione chimica
moltiplicazione, non solo meccanicamente, ma chimicamente. Il sentimento del diritto, la
legalità ricca di sentimento, in breve ciò che chiamiamo lealtà, pietas [concordiamo con
Oldrini che rifiutando la traduzione letterale di Pietät, usa il termine latino nella ricchezza
di significati dipinta da Virgilio], questo forma il vincolo di una comunione etica e in esso
consiste l'eticità. La nostra proposizione definisce lo Stato un organismo etico e lo colloca
perciò al di fuori delle relazioni semplicemente giuridiche e di quelle solo morali. Lo Stato
non è un semplice istituto giuridico, e la teoria dello Stato di diritto non trova in me un
sostenitore, perché lo Stato di diritto potrebbe derivare da un contratto e perché in un tale
Stato si tratterebbe solo di oggetti giuridici, cioè di prestazioni coatte, ma il sentimento
resterebbe del tutto indifferente. Così, però, non si perviene a Stato alcuno, ma al massimo
a una solidarietà di interessi egoistici. Per uno Stato ci vuole di più. Come non si è ancora
un buon marito se non si deruba la propria moglie, e non ci si permette di ingiuriarla, così
per essere un buon cittadino non è sufficiente pagare regolarmente le tasse, ma bisogna
avere attaccamento per il proprio popolo, amore e pietas, che qui significa patriottismo,
fanno il cittadino". Cfr. C. CESA, op.cit., p. 350.
301 Così, C. CESA, op. cit., p. XLII, che ricorda come molti dei discepoli avessero
notato nell’ultimo Hegel una tendenza conservatrice delle istituzioni frutto della
Restaurazione, ben a scapito del dinamismo della storia, il vero “motore” dialettico della
sua intera costruzione. In Erdmann, forse anche perché scrive nel travagliato periodo del
Nächmarz, la tendenza conservatrice è più forte, attribuendo una funzione conservatrice a
quei corpi, organismi giuridici, cui assegnava la libertà dei singoli e la conservazione dei
caratteri permanenti dei popoli. Osservatore attento degli uomini e degli avvenimenti, le
sue osservazioni sono ritenute fondate, seppure questo suo empirismo di fondo ha impedito
ai suoi temi di assurgere ad un corpo di dottrine politiche coerente, stretto com’era tra
idealismo ed naturalismo di matrice romantica, unito alla simpatia per le scienze
empiriche, preludio al positivismo di Comte.
DIE EPIGONEN
196
finiscono per ridurre proprio il momento etico, che nelle intenzioni di
Hegel doveva spiritualizzare e, quindi, giustificare, l’elemento naturale,
mentre in Erdmann è quello a dover essere giustificato da quello. Ad ogni
modo interessa sottolineare il richiamo alla dottrina del Maestro (per
quanto stravolta) nell’affermare l’eticità come una categoria della
relazionalità diversa dalla morale e dal diritto, cioè, com’è noto, sintesi di
quelli che costituiscono il momento soggettivo della Famiglia ed
oggettivo della Società Civile, nell’Aufhebung di assoluto dello Stato.
Infatti da qui si spiega la reiezione del contrattualismo presente anche in
Rosenkranz, come si è visto, ma anche la critica all’idea dello Stato di
diritto: vista la sfiducia nelle obbligazioni giuridiche (proprie anche di una
società di ladri, secondo l’osservazione di Agostino), ne discende
l’opposizione allo Stato di diritto, cioè a quella forma di ordinamento che
affida le sue garanzie ad un sistema di pesi e contrappesi
costituzionalmente stabiliti, in forma scritta o consuetudinaria, ma, in ogni
caso, mediante norme. Questa dottrina, allora, si fonda su norme frutto di
atti di volontà e quindi affetti dall’instabilità connessa alla minaccia del
contrarius actus che le può vanificare in qualsiasi momento. Le norme
costitutive dello Stato etico debbono fondarsi invece sulla necessità che
deriva dalla sintesi della cogenza giuridica con l’imperatività della morale.
E non è un caso che la forma costituzionale del Reich fosse lo Stato di
polizia.
Solo il sentire la patria come propria, lo Stato come un bene,
consente ai molti di divenire storicamente un popolo, che occupando un
dato territorio, può assurgere a Stato. Tanto vago risulta, in questa
versione, il contenuto dell'eticità, quanto convinta ne appare la sua
ineluttabilità. Vengono allora riproposti i tre tradizionali elementi
costitutivi dello Stato, già enucleati dalla dottrina francese del Seicento,
popolo territorio, sovranità. Ed è alla definizione di quest'ultima, come era
prevedibile, che si agganciano i "colleghi giuspubblicisti". Merita quindi
di analizzare attentamente il nodo tra teoresi e pratica (o poietica?).
“Souverainetät ist im Sittlichen, was Absolutheit im Allgemeinen
ist, so dass dem Staate Souverainetät zuschreiben nur heißt, ihn für die
absolute sittliche Gemeinschaft erklären, über der es keine gibt, die eben
darum völlig autonom ist. Wo darum ein Volk die Autonomie,
Souverainetät, verliert, da hörst es auf Staat zu seyn, und umgekehrt, wo
eine Provinz zum Staat wird, geschieht dies dadurch, dass sie aufhört
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
197
abhängig zu seyn, dass sie Autonomie, Souverainetät, erhält".302
In questa
prospettiva la sovranità, prima che un concetto giuridico, si svela anche
come un concetto etico, indicando la pienezza dell’eticità. Il superiorem
non recognoscens di Bodin, che si riferiva alla spada del sovrano, si
coniuga con l’eticità.303
Lo Stato è sovrano (e, quindi, Stato) quando
riunisce in sé l’assolutezza del potere e dell’eticità, divenendo così la
comunità assoluta, ove tutto trova compimento, anche l’aspetto del foro
interno. Tutto ciò giustifica anche giuridicamente gli interventi attivi dello
Stato, a differenza del contrattualismo dello Stato liberale, che deve
limitare al limite la propria intromissione nel privato. Anzi, non c’è
nessuna funzione che sia estranea allo Stato, così come non c’è aspetto del
privato che da esso non debba essere regolato. Tra i compiti di benessere,
sorge allora la sanità, la sicurezza, ma primo fra tutti si pone l’educazione.
Lo Stato etico è prima di tutto educatore,304
portatore di un modello di
vita. Non solo. Se l’eticità comprende morale e diritto, lo Stato è chiesa
302 H. LÜBBE, op.cit., p. 234. "La sovranità è nel campo etico ciò che l'assolutezza è
in generale, sicché ascrivere la sovranità allo Stato significa soltanto dichiararlo la
comunità etica assoluta, sopra di cui non ce n'è altra, e che proprio per questo e
completamente autonoma. Laddove quindi un popolo perda l'autonomia, la sovranità, ecco
che cessa di essere uno Stato, e viceversa, laddove una provincia diventi Stato, ciò accade
perché essa cessa di dipendere, che ottiene autonomia, sovranità". C. CESA, op.cit., p. 360.
303 Diversa, com’è noto, la visione di Hegel, ove l’eticità si pone come sintesi di
morale e diritto. Anzi, la filosofia del diritto di Hegel è tutta una serrata critica alla
trascendenza diffusa nelle costruzioni attorno al diritto naturale che si sono succedute da
Grozio e Pufendorf fino a Thomasius e Wolff, secondo una formula di dottrina
secolarizzata che piega il divino secondo le convenienze dell’umano in ossequio alla
logica protestante. Se non si può riscontrare una polemica aperta con quella che sarà
chiamata (impropriamente) la Scuola del diritto naturale, non di meno ogni aspetto del
diritto è trattato per riunire reale e razionale, in rigoroso confronto con i presupposti ideali
“che non si realizzano mai”. Il riconoscimento, tuttavia, delle “regole” prestatali consente
ad Hegel di recuperare il diritto naturale, che inteso come il momento formale, il momento
esterno –se si vuole- in questo senso non molto dissimile dall’imperativo tecnico di Kant.
È solo la mediazione dialettica con la morale che trasforma le regole degli scambi di una
società di mercanti nell’eticità che cementa lo Stato e che pervade la legge. L’unificazione
di questi due momenti (morale e diritto) in una sintesi concreta da dunque luogo all’eticità
che si realizza mediante la famiglia e la società civile per inverarsi nello Stato. Non si può
dunque negare realtà alle regole prestatali, né, in quanto esistenti, una loro intrinseca
razionalità, la quale, tuttavia, nulla ha a che spartire con la tensione verso l’ideale
tematizzata dal kantismo su suggestioni, invero, di due secoli precedenti.
304 Per tutt’altra prospettiva delle funzioni statali in materia di educazione, cfr. D.
CASTELLANO, La razionalità della politica, Napoli, 1993, p. 57 e ss.
DIE EPIGONEN
198
secolarizzata e fonte del diritto privato che diviene un settore della
dottrina (o scienza) della Stato (come allora veniva chiamata), cioè quella
parte del diritto pubblico che ha per scopo la regolamentazione del diritto
tra privati.305
L’ulteriore conseguenza è la primogenitura dello studio del
diritto pubblico sul diritto privato che fino ad allora aveva costituito l’asse
portante dello studio giuridico. Le conseguenze dovranno farsi attendere,
ma già mentre Erdmann tiene le sue lezioni, Gerber medita di uscire dallo
studio del diritto privato per dedicarsi a fondare la disciplina del diritto
pubblico, vera dottrina che comprende in sé e spiega non le singole
norme, ma l’ordinamento giuridico, fondato sul concetto di Stato e di
legge. Ma che cos’è la legge?
Ecco la soluzione che si deduce per individuare la volontà pubblica,
vera chiave di volta del sistema: "Da der Staat nur ein Organismus war,
indem ein Geist alle Glieder durchdrang; das Durchdrungenseyn aber
durch diesen Geist, mag es nun mehr unbewusst, mag es mit klarer
Einsicht verbunden seyn, Patriotismus war, so besteht der Staat eigentlich
nur durch ihn. Nicht nur die Mauern, sagt schon Heraklit, machen die
Stadt, sondern die Liebe der Bürger zum Gesetz. Dieser Satz, welcher,
wenn man anstatt Patriotismus politisches Leben sagt, sogar zu einer
Tautologie wird, sichert Jedem nach dem Masse seines Patriotismus
Einfluss auf das Staatsleben. In wem wahrer Gemeingeist lebt, d. h. wer
was Vernünftige in national- historischer Weise zu verwirklichen trachtet,
der füllt einen wesentlichen Platz im Staate aus, und da leider ein hoher
Grad von Patriotismus zu den Seltenheiten gehört, wird ihm der
ausgezeichnete Platz nicht fehlen".306
Si ricorderà l’assonanza con
305 Contrariamente a quanto sostenuto da P. GROSSI (Epicedio per l’assolutismo
giuridico, in “Quaderni Fiorentini”, 17, Milano, 1988) non crediamo che l’espropriazione
del diritto privato nei confronti dei privati, nel cui patrimonio era rimasto per secoli, sia
intervenuta con il Codice Napoleone. E ben vero che la statualità, l’esaustività e la non
eterointegrabilità del diritto vengono proclamate con la sua introduzione nel 1804. Ma si
trattava di un atto di forza, che riposava sul potere di un uomo. Passato il vincitore di Jena,
la Germania si è regolata con il Corpus ancora per quasi un secolo. Qui la cosa è più
insidiosa, poiché non si tratta delle fortune di un avventuriero, si tratta di mutare la
concezione di Stato, radicandola nella necessità del movimento dialettico hegeliano.
306 H. LÜBBE, op.cit., p. 254. "Essendoci risultato che lo Stato è un organismo solo
in quanto un solo spirito ne pervade tutti i membri; ma che l'esser pervaso da questo
spirito, avvenga poi inconsapevolmente o in connessione ad un chiaro giudizio, è il
patriottismo, lo Stato sussiste propriamente solo per mezzo di quest'ultimo. Non le mura
soltanto, dice già Eraclito, fanno la città, bensì l'amore dei cittadini per la legge. Questa
proposizione che, se si pone vita politica in luogo di patriottismo, diventa persino una
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
199
l’aggiunta al § 301 dei Lineamenti del Maestro, dove si riconosceva (ma
solo in parte) alla capacità degli impiegati dello Stato di cogliere quello
che la ragione in sé stessa vuole.307
Qui, con ampia concessione di fiducia
alla burocrazia statale che aveva già esasperato i patrioti del ’48, l’allievo,
forzando l’assunto, introduce quel tema della attitudine dei funzionari
dello Stato, in quanto uomini dotati di maggior pietas, a percepire meglio
degli altri il Volksgeist da cristallizzare in legge. La suggestione sarà
ripresa dai colleghi giuspubblicisti, come vedremo, sostenendo per questa
via che ogni organo dello Stato, in quanto tale, è rappresentativo. È degno
di nota la variazione su di un tema che in Hegel affida al senso del dovere
dei funzionari statali il compito di perseguire il bene comune, con
Erdmann assicura un posto statale a chi ha il senso del dovere, fino a
Laband ove il funzionario è rappresentativo delle istanze popolari e
depositario delle esigenze della ragione.
L’organicità dello Stato, la sua stessa esistenza come organismo
etico, è data proprio dalla comunanza di spirito che deve pervadere ogni
cittadino, cioè dalla capacità del singolo di riconoscere il bene comune
(gemein). Il passo appare in diretta esplicazione con il pensiero del
Maestro di Berlino ove, come si è detto, il singolo si realizza in quanto
mutandosi da sé riesce a cogliere l’utilità pubblica. Si potrebbe rilevare
che si tratta di un mero processo psicologico, completamente astratto (o
virtuale, come si usa dire), sicché ciascun singolo, d’un tratto, senza
confrontarsi con alcuno, dovrebbe scoprire in sé il bene comune verso cui
dirigersi. In verità, la “maturazione”, per così dire, dei cittadini è data
dalla dialettica della Storia nel passaggio dalle prime aggregazioni
semplici, prime fra tutte la famiglia, alle aggregazioni più complesse,
come la Società civile, dove si forma quella comunanza di stirpi,
tradizioni e vedute che costituisce il sostrato del Volksgeist. Lungi
dall’essere un processo idealista nel senso deteriore dato al termine dai
critici del pensiero che vi è sotteso, si tratta allora della presa di coscienza
tautologia, assicura a ciascuno un influsso sulla vita statale secondo la misura del suo
patriottismo. Colui nel quale vive un vero spirito comune [preferisco la traduzione letterale
che rende Gemeingeist con spirito comune o di comunità, piuttosto che con spirito
pubblico], cioè chi si sforza di realizzare il razionale in modo storico - nazionale, questi
occupa un posto essenziale nello Stato, e siccome purtroppo un elevato grado di
patriottismo rientra tra le rarità, non mancherà per lui il posto insigne". Cfr. C. CESA,
op.cit., p. 391.
307 Cfr. supra nota n. 263.
DIE EPIGONEN
200
del singolo, del suo riconoscimento –se si vuole- di ciò che emerge come
il bene proprio della comunità, facendola assurgere a Stato.308
Ecco allora
che chi più è pervaso dall'eticità, più è in grado di ben servire lo Stato, in
quanto più è amalgamato "chimicamente" in esso. Ma anche è più indicato
per applicare la legge, anzi ad individuarla. La legge è ancora il prodotto
della volontà generale, ma la si rinviene con un procedimento del tutto
particolare. Non a caso viene proposta come sinonimo di "spirito di
comunità". Infatti "Der Gemeingeist oder der allgemeine Wille ist das
Lebensprincip des Staats. Wie sich nun das Lebensprincip des einzelnen
Menschen in einzelnen Lebensäusserungen zeigt, aus welchen habituelle
Lebenszustände werden, so zeigt sich hinsichtlich des Staates ganz
Analoges. Je meher Alle durch den einen Geist ihres Volkes sich leiten
lassen, um so mehr tritt eine Gemeinschaftlichkeit des Wollens hervor, die
habituell wird und die, unbewusst sich ausbildende, Sitte gibt. Wo dieses
solche Herrschaft gewonnen hat, dass die klarer Blickenden sich derselben
bewusst werden, wird sie als allgemeingültige Norm ausgesprochen, ein
Act, der die grösste Analogie hat mit dem Bilden unserer Grundsätze,
welche auch nur von unserer Handlungsweise abstrahierte Erfahrungen
sind. Wir nenne die zu Satzungen gewordene Sitte eines Volkes (Staates)
seine Einrichtungen oder Institutionen. Es liegt in der Natur der Sache,
dass hier Fehlgriffe möglich sind. Theils kann Unsittliches Gewohnheit
geworden seyn, was nicht zur Norm gemacht werden darf, theils kann der
Gesetzgeber sich übereilen und als Maxime aussprechen, was ganz gegen
die Sitte ist. Darum in jedem Momente das Bedürfniss an dem
Eingerichteten, den Institutionen, zu ändern, ganz wie auch dem gesunden
Organismus von Zeit zu Zeit Etwas abgewöhnt oder auch an ihm Etwas
curirt werden muss. Wie aber bei dem Einzel-Organismus in allen
wechseln den Zuständen, ja bei todesgefährlichen Krankheiten, nicht nur
die wesentlichen physiologischen Functionen bleiben, sondern auch jenes
bestimmte Verhältniss derselben, welches wir seine Constitution nennen,
so wird treffend mit demselben Worte der Complex der Grund-
Institutionen bezeichnet, welcher den Grund bildet, auf welchem die
übrigen Institutionen ruhen, den unveränderlichen Stock, an dem sie
308 Caso mai, più fondata può essere la critica per cui in tal modo si accetta come
necessaria ogni manifestazione della storia, ogni aggregazione storicamente affermatasi in
quanto tale.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
201
wechseln".309
Il movimento dialettico della Storia procede a sedimentare
le fattispecie ricorrenti trasformandole in consuetudini, fino a che la
riflessione su di esse da parte “dei più attenti” le riconosce conformi alla
natura ed alle esigenze della comunità e, pertanto, vengono poste come
norme fondamentali dell’ordinamento e dello Stato (che, in tale
prospettiva coincidono). Si tratta di quei fondamenti chiamati principi
politici dagli studiosi di diritto costituzionale, che dovendo ripetere da sé
stessi la propria vigenza si pongono necessariamente in linea con la
“natura” (o pretesa tale) della comunità che li riconosce come propri.
Ogni attività legislativa allora è rinvenimento della volontà generale
o spirito pubblico, come qualcosa che già c'è e che aspetta solo di essere
trovato. Lo spirito pubblico si manifesta nei costumi, sedimentandosi nella
tradizione, finché i più consapevoli avvenendosene, non la trasformano in
legge. Ma chi sono i più consapevoli che debbono ricercare la legge?
Senza dubbio chi è veramente pieno di eticità; lo stesso per il cui
attaccamento alla patria non potrà mancare un posto ben in vista, in
sostanza il funzionario statale, cioè lo Stato. Tutto ciò procede dall'assunto
iniziale per cui il singolo, non può avere, in campo pubblico, interessi
309 H. LÜBBE, op.cit., p. 255. "Lo spirito di comunità o la volontà generale è il
principio vitale dello Stato. Ora, come il principio vitale dell'uomo singolo appare in
singole manifestazioni vitali, che divengono abituali condizioni di vita, del tutto
analogamente avviene con lo Stato. Quanto più tutti si fanno guidare dallo spirito unitario
del loro popolo, tanto più emerge una comunanza del volere che diventa abituale e che,
formandosi inconsapevolmente, dà luogo al costume. Quando questo processo ha ottenuto
tale predominio che i più accorti se ne rendono consapevoli, esso viene dichiarato norma
universalmente valida, un atto che ha la più grande analogia col formarsi dei nostri principi
fondamentali, i quali pure sono soltanto esperienze astratte dal nostro modo di agire.
Chiamiamo ordinamenti o istituzioni di un popolo (Stato) il suo costume trasformatosi in
precetti. Sta nella natura della cosa che si possa qui incorrere in errori. In parte può essere
entrato nell'usanza ciò che non appartiene al costume, ciò che non può trasformarsi in
norma, in parte può aver troppa fretta il legislatore e dichiarare massima ciò che è
interamente contro il costume. Donde il bisogno di introdurre ad ogni istante modifiche
negli ordinamenti, nelle istituzioni, proprio come anche allo organismo malato occorre di
tanto in tanto togliere qualche vizio o anche apprestare qualche cura. Ma come presso il
singolo organismo, in tutto l'avvicendarsi delle sue condizioni, e perfino in caso di malattie
pericolose, permangono non solo le funzioni fisiologiche essenziali, ma anche quel
determinato rapporto tra esse che chiamiamo la sua costituzione, così vien designato
esattamente col medesimo termine il complesso delle istituzioni fondamentali che forma la
base su cui poggiano le altre istituzioni, il tronco immutabile su cui esse si avvicendano".
C. CESA, op.cit., p. 392.
DIE EPIGONEN
202
diversi da quelli dello Stato. E non potrebbe essere diversamente, giacché
lo Stato è il supremo organismo etico.
Dopo la rappresentanza come forma di conoscenza di Luigi XVI
con gli Stati generali, individuiamo qui una rappresentanza come forma di
manifestazione, come si è detto al primo capitolo, di ciò che già c'è, ma
non è visibile ai più. In questo senso, e solo in questo, possiamo dire che
l'organo statale rappresenta il volere del popolo. Tuttavia, il solo fatto che
non vi possa essere alcuna forma di volontà rappresentata al di fuori di
quanto interpretato dallo Stato, ci fa concludere per un monismo
strutturale compiutamente stabilito. Tutto ciò risolve forse il problema del
rinvenimento del costume e della positivizzazione della legge, ma non il
processo di formazione, di sedimentazione del costume, del Volksgeist. In
questo gioca un ruolo fondamentale la Storia. Ogni costume, ogni
tradizione, quindi ogni legge è tale solo in quanto storicamente sentita dal
popolo. Da ciò deriva un corollario molto importante: l'autorità della legge
non è tanto nella forza che la sottende, ma nell'attaccamento del cittadino,
che la sente come propria, in quanto storicamente rispondente alle proprie
esigenze. Ma quale Storia, Quella di Savigny e della sua scuola, o
piuttosto quella di Hegel che a Savigny si era fermamente opposto? È già
stato messo in evidenza310
come dopo il 1848 la distinzione sulla Storia
dei filosofi e quella dei giuristi perda di carattere, fino a sfumare quasi del
tutto. Tant'è che né gli allievi del Filosofo berlinese, né i discepoli del
Giurista berlinese, torneranno su questo argomento. Tutto ciò, secondo
noi, è indicativo per due ordini di ragioni. Da un lato mostra come il ruolo
della Storia, centrale in Hegel, venga ereditato più dalla Sinistra
hegeliana, che non dagli autori qui esaminati. Dall'altro, per la
consapevolezza, conscia o meno, di questi filosofi e giuristi, che la Storia
ha ben poca rilevanza in concreto. Se logicamente infatti si ammette che
legge è solo quanto sentito tale dallo spirito pubblico, quanto storicamente
sedimentatosi come costume di un popolo, per un altro verso si è visto
come solo un interprete autorizzato, solo chi abbia ottenuto dallo Stato la
310 Il dissenso di Hegel per la Scuola storica è esplicito nelle Grundlinien der
Philosophie des Recht, ora in Vorlesungen über Rechtsphilosophie, nell'edizione curata da
K H. ILTING, Stuttgart, 1974, voll. II p. 60. Sulla scia del Maestro si mosse anche E. GANS,
Das Erbrecht in weltgeschichtlicher Entiwicklung, Berlin und Stuttgart, 1824-35, su cui
infra.
Sulla questione cfr. altresì G MARINI, La polemica con la scuola storica nella
Filosofia del diritto hegeliana, in "Rivista di Filosofia", 1977, n 7, 8, 9; nonché IDEM, F.C.
von Savigny e il metodo della scienza storica, Milano, 1966.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
203
patente di giurista, è in grado di individuare la storicità di un costume per
trasformarlo in legge. In altre parole, ancora una volta muovendo
dall'assunto che nel campo pubblico il cittadino non può avere una volontà
diversa da quella dello Stato, si comprende come la Storia non rilevi
veramente nella determinazione della legge più di quanto non la
riconosca, magari accidentalmente, l'apparato. Si deve dedurre allora, che
la legge non è tale perché storicamente sentita dal Volk, ma perché voluta
dallo Stato, che per definizione vuole ciò che i cittadini vogliono. Quanto
statuito dallo Stato sarebbe allora il costume sedimentato. Il che di per sé
non sarebbe eccessivo, se non fosse collegato all'ulteriore corollario del
principio primo: se il cittadino non può avere in campo pubblico un
interesse diverso da quello dello Stato, ogni organo dello Stato è, in
quanto tale, rappresentativo. Ben si può dire allora che lo Stato fa la
Storia. Ad esiti analoghi perverrà, per altro verso anche la Scuola storica
del diritto. Lo stesso Savigny nel Beruf, poneva le basi per lo sviluppo del
Professorenrecht, carattere proprio dell'Ottocento tedesco, in
contrapposizione ai giudici dell'esperienza inglese e al legislatore
francese. La vera legge e la stessa certezza del diritto, riposano "in einer
organisch fortschreitenden Rechtswissenschaft".311
Veri interpreti del
Volksgeist, possono essere solo i cultori di una scienza giuridica,
sistematizzando ed unificando i disordini della prassi giudiziaria. Il pregio
della loro interpretazione è proprio quello di essere "sempre identica,
identica in quanto scientifica".312
Qui è il giurista, o meglio, lo scienziato
del diritto, l'unico autorizzato ad interpretare ciò che storicamente è
proprio della comunità, è il Volksrecht. In questo caso non in forza della
presunta rappresentanza di tutto il popolo, ma grazie al rigore scientifico
del loro approccio all'esperienza, che per buona parte dell'Ottocento
significava verità indiscutibile. Anche qui, ci pare, il processo di
sedimentazione non rileva, la Storia è fatta dai Professoren, ma con una
differenza. Se questi ultimi rinvengono il diritto sulla scorta di strumenti
scientifici, che proprio in quanto tali sono ritenuti oggettivi, al contrario lo
Stato sente il costume del popolo in quanto ne è piena immedesimazione,
ne è il massimo prodotto etico. Proponiamo due osservazioni delle molte
311 F. C. von SAVIGNY, Von Beruf unserer Zeit für Gesetzgebung und
Rechtswissenschaft, Heidelberg, 1814, 3° ed. 1840, p. 161.
312 Cfr. G. TARELLO, Orientamenti analitico-linguistici e teoria dell'interpretazione
giuridica, in "Rivista trimestrale di diritto e procedura civile", 1971, p. 1-18.
DIE EPIGONEN
204
che si potrebbero dedurre. Il diritto rinvenuto dalla Scuola storica, in
quanto prodotto di un certo metodo scientifico, con una continuità
omogenea ed ininterrotta dal Methodenlehre del 1802, al System del
1840,313
derivava la sua autorità di legge dalla asserita non contraddizione,
dall'intrinseca logicità, dall'assolutezza dei suoi risultati. Quando nel 1841
Lorenz von Stein, recensendo il primo volume del System savigniano,314
critica tale metodo dall'interno, riesce dove Gans non era arrivato. In altri
termini, una volta dimostrato che il metodo della Scuola storica non è
altro che uno dei possibili e che può essere sostituito da un altro, si pone la
scure alle radici dell'autorità di legge di ogni suo prodotto scientifico,
relativizzandolo. Von Stein dimostra cioè la convenzionalità del metodo
savigniano, ma non si ferma qui. Ne contesta infatti anche l'operatività,
denunciandone i limiti intrinseci, l'inidoneità di ricercare nel diritto
romano soluzioni a problemi del momento attuale, come per esempio la
disciplina delle ipoteche. Ma il colpo di grazia di ogni metodo è la
proposizione in suo luogo di un altro maggiormente operativo. E questo
giunge laddove von Stein indica la possibilità di sistematizzare tutto il
diritto muovendo la costruzione dal diritto pubblico, cioè dall’autorità
dello Stato. Qui possiamo dire trova la sua giustificazione e la sua nascita
la Giuspubblicistica tedesca. Proporre di muovere l'indagine attorno al
diritto prendendo le mosse dallo Stato non vuol dire negare la storicità del
diritto, anzi, è riconoscere che proprio nello Stato si manifesta la più alta
forma di convivenza, che è insomma il luogo dell'eticità.
Questo ci porta alla seconda considerazione che più interessa ai
nostri fini. Se il diritto è storia di un popolo e la sua massima espressione
è lo Stato, quale sintesi di morale e diritto, in campo pubblico non vi è
differenza tra individuo e Stato. Le leggi dello Stato sono il
riconoscimento del diritto di un popolo, del costume di un popolo
storicamente affermatosi come tradizione prima e diritto poi. Ogni forma
di rappresentanza tra popolo e Stato circa il diritto non solo è inutile, ma è
anche inconcepibile, perché per questo aspetto Stato e popolo vogliono –e
313 F.C. von SAVIGNY, Juristische Methodenlehre, ed; postuma, a cura di G.
Wesenberg, Stuttgart, 1951. IDEN, System des heutigen römisches Rechts, 8 voll. Berlino,
1840-49.
314 L. von STEIN, Zur Charakteristik der heutigen Rechtswissenschaft, in
"Deutscher Jahrbücher für Wissenschaft und Kunst" n. 92-100, 1841.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
205
quindi sono- la stessa cosa.315
Non vi è dualità di soggetti, sarebbe come
rappresentare se stessi.
L'aproblematicità o, se si preferisce, il carattere ideologico di questa
costruzione, emerge dall'impossibilità di una verifica se quanto dichiarato
legge dallo Stato sia veramente diritto del popolo. In altre parole non vi
sono strumenti per giudicare o verificare se lo Stato ha ben riconosciuto i
costumi e scelto tra quelli che hanno sufficiente tradizione per divenire
diritto. Manca insomma la "prova del nove" per verificare che
l'operazione dell'organo statale nel porre la legge, sia corretta. Ben diverso
sarebbe l'approccio ammettendo la rappresentanza.
In questo caso infatti in ogni momento verrebbe messo in
discussione il punto di partenza della costruzione, quello che abbiamo
chiamato il principio primo: nel campo pubblico il cittadino non può avere
un interesse diverso da quello dello Stato. Per il principio di responsabilità
che, si è visto, contraddistingue la rappresentanza, ogni disposto
governativo, ogni atto del rappresentante è soggetto al rendiconto del
rappresentato, al modo che quand'anche oggetto del mandato fosse quello
di "riconoscere il costume del popolo", l'effettiva corrispondenza tra
quanto deciso e quanto è,316
risulta oggetto di controllo. Che questo poi sia
315 Come si vedrà meglio infra § III.3, per quella particolare correlazione tra essere
e volere di cui si è già fatto cenno, il singolo e lo Stato sono la stessa cosa, costituendo
un’unità in senso processuale e sostanziale. Peraltro, questa tendenza alla Einheit di cui si
è detto più volte nel testo, nella sua multiformità di manifestazioni vanta origini lontane,
affondando le radici nel basso medioevo, come ha ben dimostrato il conciso ma acuto
saggio di E. ANCONA, Reductio ad unum. Il modello gerarchico di ordinamento e le sue
rappresentazioni medievali, Padova, 1999, ove viene tematizzata la distinzione tra il
paradigma della ordinatio ad unum, nell’attribuzione del proprio posto ad ogni cosa
all’interno di un ordine generale, e la reductio ad unum, che mira invece ad appiattire le
diversità per ottenere l’omogeneità geometrica.
316 In questa prospettiva, dunque, il popolo esce dalla situazione di minorità nella
quale lo avevano confinato gli emuli di Hegel, secondo una concezione che abbiamo visto
essere criticata già da Gans che più di altri era vicino al Maestro. Non si nega la
tendenziale corrispondenza tra volontà degli eletti ed elettori; solamente non la si dà per
scontata, consentendo al rappresentato di sindacare l’operato del suo rappresentante. Ed è
proprio per questo, come si è visto, che Hegel intendeva mantenere una camera elettiva,
accanto ad una camera di alta formata per cooptazione o per diritto ereditario, in modo da
avere regolari elezioni, assicurando però il temperamento ad eventuali derive populistiche.
In questo modo il meccanismo di Hegel prende vita, mantenendo un ruolo attivo al
rappresentato ed al rappresentante, in un movimento dialettico che, se trova la sua
necessità nella Storia, ha la sua aspirazione nella libertà del singolo all’interno di un
ordine. Per questi ultimi aspetti, in lettura sinottica con il contributo citato alla nota
DIE EPIGONEN
206
in concreto effettivo o meno è problema spinoso, ma che riguarda i modi
di attuazione pratica della rappresentanza; qui si sta ancora distinguendo
tra sua ammissione o no. Potremmo allora dedurre che intrinsecamente la
rappresentanza ha una valenza filosofica o, meglio, è strumento che
permette una continua verifica, carattere essenziale per ogni ricerca, ma
anche principio, forse, di ogni convivenza.
Tanto Hegel quanto Erdmann si pongono il problema della verifica
della coincidenza tra legge e diritto. Tuttavia il secondo non lo risolve.
Come si è visto nell'ultimo passo citato, Erdmann si dilunga a descrivere il
passaggio da costume a legge, ma quando si tratta di individuare le
discrepanze tra i primi e le seconde, si limita a dire che in questo campo è
nella natura delle cose incorrere in errori. Tutto ciò che è stato dichiarato
norma e non lo doveva essere, per troppa fretta del legislatore o per una
sua svista, sarà opportunamente rimosso, così come per l'organismo
umano qualche cura o qualche operazione è necessaria, senza per questo
far venire meno lo stesso organismo. Si vede come alla prospettazione del
problema, Erdmann non faccia seguire alcuna soluzione effettiva,
confidando che come il legislatore saprà individuare il diritto tra i costumi
del popolo, così anche saprà individuare i propri errori e autocorreggersi.
Ben altro spessore emerge dal progetto costituzionale di Hegel. La
previsione di due camere con distinta formazione, pur con le particolarità
e i distinguo di cui si è detto sopra, indica la necessità che il legislatore
possa sussumere il diritto dalla società, pur avendo l'attenzione rivolta
verso il bene pubblico cui sono legati i fini particolari. Tutto ciò
testimonia il tentativo di ricomprendere il particolare nell'universale, non
di cancellare il primo nel secondo.
Seppur la costruzione non sembra reggere alla critica di
irresponsabilità dei deputati elettivi che possono sempre asserire, senza
tema di smentita, di aver seguito l'interesse pubblico, comunque,
basandosi il mandato su di un rapporto fiduciario, laddove la rielezione
non avvenisse, si dovrebbe concludere che effettivamente, anche con le
migliori intenzioni, il bene pubblico da essi individuato, non
corrispondeva effettivamente con quanto sentito dal popolo. Alla critica
che in questo modo lo Stato sarebbe in balia di volontà singole,
mascherando l'elezione un contratto sociale da poter sciogliere in ogni
momento, privando così lo Stato della sua maestà, anzi, negandone la
precedente, si veda il saggio di J. KIM, Der Begriff der Freiheit bei Hegel, Frankfurt (a
M.), 1996.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
207
stessa natura etica, Hegel risponde mantenendo una camera alta non
elettiva, formata da i maggiorenti terrieri del regno, sulla considerazione,
che non dipendendo il loro voto dagli elettori, possano tener di mira
l'interesse dello Stato, tanto utilmente legato al loro, per usare
un'espressione di d'Holbach. Una soluzione fisiocratica si dirà, certo, ma
qui non interessa sindacare la bontà del meccanismo proposto, sulle cui
difficoltà, lo si è già detto e visto, le migliori teorie si sono arenate. Qui
interessava solo evidenziare la differenza tra la posizione di Erdmann, che
elude ogni necessità di soluzione, e l'Hegel di Rosenkranz, che tale
necessità sente pressante.
Un altro aspetto preme mettere in evidenza e si trova all'inizio
dell'ultima lezione del corso di Erdmann.
Ecco la conclusione del corso: "Genau genommen ist in dem bisher
Gesagten unsere Aufgabe, den Staat zu betrachten, gelöst. Es ist aber kein
Zufall gewesen, dass wir zuletzt zu dem Verhältniss zwischen den Staaten
übergegangen sind. Wir haben nämlich erkannt, dass der Staat ein
persönliches Wollen, ein wollendes Ich ist, als solches bethätigt er sich
nun, indem er ad extra thätig ist oder handelt (Handeln ist: den Willen
äußern)".317
Tutto il corso si riassume nella definizione di Stato come volere,
come un io volente. Appare la struttura dell'individuo aborrita dalla
costruzione hegeliana, tradotta nello Stato: un singolo di dimensioni
maggiori, non il superamento del particolare nell'assoluto. Ciò è
l'antecedente logico di quanto abbiamo visto in tema di rappresentanza,
l'identificazione di rappresentante e rappresentato. Se, infatti, l’uomo, in
quanto cittadino, trova la sua necessaria realizzazione nello Stato, nel
campo pubblico la volontà del cittadino e quella dello Stato sono
necessariamente la stessa cosa; sicché non si pone problema di
rappresentare la volontà dei sudditi agli organi dello Stato, poiché tanto i
primi quanto i secondi sono retti dallo stesso Geist, così che non possono
darsi tra di loro disparità di vedute e di volere; ancora, ogni distinzione tra
317 H. LÜBBE, op. cit., p. 266. "Abbiamo infatti riconosciuto che lo Stato è un
volere personale, un io volente, che si attua come tale in quanto è attivo ad extra, o agisce.
(Agire è: esternare la volontà.)". C. CESA, op.cit., 409. Per i profili di secolarizzazione
connessi alla equiparazione essere – volere, cfr. lo studio di F. BORKENAU, Der Übergang
vom feudalen zum bürgerlichen Weltbild, Paris, 1934, tr. it. a cura di G. Marramao, La
transizione dall’immagine feudale all’immagine borghese del mondo, Bologna, 1984,
nonché R. BRAUN, Deus Christianorum. Recherches sur le vocabulaire doctrinal de
Tertullien, Paris, II ed., 1977.
DIE EPIGONEN
208
volontà ed interessi risulta superata, nella presupposta coincidenza
dell’una con gli altri. Ma una seconda relazione appare ancora più
interessante: il soggetto è in quanto agisce e l'agire è manifestare la
volontà. Si è introdotta così l'equazione essere è volere, sulla quale
occorre adesso cedere la parola agli Juristen.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
209
3.3.2 Die Juristen
PREMESSA: RECEZIONE DEI TEMI HEGELIANI E LORO COLLOCAZIONE A FONDAMENTO DEL
DIRITTO PUBBLICO DA PARTE DEI PRIMI STAATSLEHRER – PREMINENZA DEL DIRITTO PUBBLICO
SUL DIRITTO PRIVATO PER LO STUDIO DELL’ORDINAMENTO GIURIDICO – IMPORTAZIONE DEL
METODO DOGMATICO DAL DIRITTO PRIVATO AL DIRITTO PUBBLICO – NECESSARIA IDENTITÀ
DI VOLONTÀ IN CAMPO PUBBLICO TRA CITTADINO E STATO: COSTITUZIONE DI UN’UNICA
PARTE IN SENSO FORMALE E PROCESSUALE – RAPPRESENTATIVITÀ NECESSARIA DI OGNI
ORGANO DELLO STATO IN QUANTO TALE – LEGAMI ED ASSONANZE TRA LE POSIZIONI
TEMATIZZATE DA ERDMANN E LE COSTRUZIONI GIURIDICHE PROPOSTE DA GERBER –
CONCLUSIONE: CEDIMENTO DI GERBER NELL’AMMETTERE UN SINDACATO DIRETTO DEL
POPOLO SULL’OPERA DEGLI ORGANI DELLO STATO E CONSEGUENTE CONTRADDIZIONE CON
L’ASSUNTO INIZIALE DELLA PRETESA IDENTITÀ DI VOLONTÀ TRA CITTADINO E STATO.
Occorre verificare quanto delle soluzioni offerte dai filosofi sia
stato effettivamente accolto in campo giuridico, ma soprattutto, quali
trasformazioni abbia subito il prodotto dei primi nella trasmigrazione
verso il secondo. I due aspetti sono essenziali alla medesima domanda: si
possono muovere fruttuosamente ai giuristi le critiche che sono state
rilevate e quelle che ancora potrebbero esserlo, ai Philosophen? In altri
termini, occorre verificare attentamente quanto le teorie dei filosofi
appena esaminati sostengano le costruzioni dei giuristi, degli esponenti
della giuspubblicistica tedesca dalla seconda metà dell'Ottocento, fino ai
primi del secolo ventesimo. In secondo luogo, una volta riconosciuto il
frutto teoretico degli Epigonen, come seme da cui cresce la robusta radice
del pensiero dei principali costituzionalisti tedeschi, occorrerà esaminare
quali adattamenti, mutamenti o varianti abbiano subito dette tesi nell'opera
dei giuristi. Una volta stabilita una relazione e delimitatone
convenientemente l’ambito, si potranno muovere ai costituzionalisti le
stesse critiche rilevate o rilevabili nei confronti dei filosofi. L’operazione
può essere fruttuosa per due ragioni. La riflessione sulla rappresentanza è
stata condotta, per lo più, all’interno del diritto costituzionale, senza
indagarne i presupposti teorici (spesso inconsaputi) che la sostenevano.
Parimenti, le critiche all’impostazione metodologica di fondo si sono
generalmente ridotte a bollare come ideologia questa o quella teoria,
spesso muovendo da prospettive parimenti dogmatiche ed ideologiche. Da
un lato, quindi, la critica è rimasta all’interno della tecnica giuridica,
potremmo dire, dell’ingegneria costituzionale, dall’altro, si è prodotto un
duello, rectius una schermaglia tra ideologie. Si cercherà allora di
verificare allora di verificare le origini, la tenuta e le eredità del pensiero
dei principali tra questi autori, attorno alla rappresentanza, con particolare
riguardo alla pretesa necessità di distinguere tra rappresentanza nel diritto
DIE JURISTEN
210
privato e rappresentanza nel diritto pubblico, o rappresentanza politica,
nei limiti in cui questa distinzione –come già detto- sia proficua.
All’indomani del 1848, nelle università tedesche, il problema dello
Stato era trattato non nelle facoltà di giurisprudenza, ma in quelle di
filosofia, e la dialettica hegeliana, ripetuta dagli allievi con accenni
sempre diversi, avvinceva tanto i più entusiasti del pangermanesimo
nazionalista, che vi riconoscevano la libertà portata dal vento francese,
mitigato da genuini sentimenti tedeschi, quanto dai più conservatori più
accaniti, che vi leggevano la garanzia e la legittimazione dell’ordine: una
prova di quest’ambivalenza è data dalla difficoltà di classificazione
politica degli autori esaminati sopra, collocati indifferentemente tra gli
hegeliani di destra o di sinistra, come Michelet. Nel momento in cui i
giuristi guardano allo Stato trovano fondata (e congeniale) l’idea che esso
si fondi su di una necessità storica, sottratto quindi alla volontà delle parti
che non costituiscono alcun contratto. Anzi, lo Stato è mezzo e fine ultimo
per la realizzazione dei cittadini, sottolineandone l’identità di volontà che
li rende un’unica parte sostanziale e processuale, ed addirittura un unico
soggetto, per la correlazione forzata in forza della quale se due soggetti
vogliono la stessa cosa costituiscono un unico centro di imputazione di
volontà ed interessi, costituiscono un’unica parte, quindi se hanno identica
volontà, sono la stessa cosa. Fatta propria la dottrina dei colleghi filosofi, i
giuristi si pongono ora il problema del metodo per affrontare lo studio
dello Stato; metodo che non può certo essere quello dei filosofi, per non
condividerne le osservazioni non scientifiche, ma che deve avere tutta la
dignità propria della tecnica giuridica, seppure l’attenzione per la storia è
un tratto comune non solo tra giuristi e filosofi per buona parte del XIX
secolo, pervadendo pressoché tutto il mondo delle lettere. E proprio dalla
storia giunge il paradigma con cui declinare in termini giuridici le
osservazioni del colleghi filosofi.
Il mutamento fondamentale nel metodo giuridico, per l'aspetto che
ci riguarda, avviene nel 1841, con la già ricordata recensione di Lorenz
von Stein al primo volume del System des heutigen römisches Rechts di
Savigny. Come si è detto il carattere dirompente di questa critica,
paradossalmente, è storico: ritenere che ogni aspetto del diritto sia
rinvenibile nelle fonti giustinianee è astorico e antistorico. Astorico,
perché presuppone che nessun mutamento sia avvenuto nei tredici secoli
trascorsi dalla compilazione, negando le nuove esigenze della mutata
società, come in tema di garanzie reali, o per gli aspetti di diritto
commerciale. Antistorico, perché lo stesso approccio alle fonti non
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
211
avviene tramite lo studio di un testo dato, da ricostruire e scoprire in tutti i
suoi aspetti, ma con una continua violenza del dato testuale per farvi
ricomprendere aspetti, istituti, problemi, sconosciuti ai compilatori. Al
modo dei glossatori, il tentativo di dedurre ogni istituto dal Corpus Juris,
aveva lo scopo di accreditarne l'autorità, di pari passo con il potere del
giurista.318
La smascherata relatività della riflessione della Scuola storica
attorno al diritto, ne fa venire meno ogni autorità. Occorre dunque far
riferimento ad un altro polo, e questo non può essere che lo Stato.
L'autorità che sostiene le sue statuizioni è molto più oggettiva e
sicuramente più efficace di quella dei Professoren per due ordini di
motivi. Da un lato lo Stato, come suprema entità etica, rinviene
infallibilmente, o meglio, insindacabilmente, ciò che corrisponde alle
necessità della nazione. Dall'altro, l'uniformità dei precetti statali consente
di superare le mutevoli opinioni dei dottori della legge. Da tutto ciò
derivano due osservazioni. In questa prospettiva lo studio del diritto
pubblico supera logicamente il diritto privato: ogni nuova riflessione del
diritto deve muovere dallo studio della struttura dello Stato - Legislatore,
poiché solo dallo studio preciso dei suoi meccanismi, si può comprendere
il processo di rinvenimento delle norme, di cui la società è insieme fonte e
destinataria. La considerazione invece che l'autorità delle norme derivi
dalla forza nel senso di coazione fisica dello Stato, è ancora del tutto
secondaria. Lo Stato può e deve porre il diritto, poiché storicamente
portatore dei fini del popolo, là dove il momento costrittivo non è ancora
riconosciuto come preponderante caratteristica del diritto statuale.
Se dunque il Volk è creatore e portatore dei costumi e delle
tradizioni, se lo Stato è l'unico soggetto capace di interpretare il diritto,
rinvenendolo nella tradizione, il diritto privato deriva dal diritto pubblico.
318 La considerazione dei Glossatori derivava dall'autorità del “grande libro caduto
dal cielo”, di cui custodi, quasi sacerdoti, avevano il monopolio. La forza delle soluzioni
proposte risiedeva nella possibilità di dedurle dal testo romano. Stabilita dalla Storia
l'autorità del testo infatti, ogni operazione logica che permettesse di ricondurre il caso al
dato testuale godeva di un'autorità derivata inconfutabile. Grosso merito dei Glossatori, tra
gli altri, è allora l'enucleazione di un metodo, di un sistema, per procedere alla sussunzione
di diverse fattispecie concrete in una sola astratta. Si tratta, in fondo, della nascita del
procedimento analogico. Ma è anche il modo di applicare dettami di cinque secoli prima
alla mutata società, operazione che sistema ed ordina la società stessa.
La Scuola storica, svolge e sviluppa le stesse premesse, fondando la propria
autorità oltre che sulla tradizione del diritto romano, sulla ratio scripta che è il Corpus, ma
ancor più efficacemente sulla sistematizzazione scientifica e, in quanto tale, oggettiva,
della propria elaborazione.
DIE JURISTEN
212
Sono qui superate le diatribe circa la codificazione, i dibattiti attorno alla
certezza, alla statualità, alla non etero- integrabilità che avevano animato
il dibattito circa la codificazione agli inizi del secolo. È appena il caso di
ricordare la polemica tra lo stesso Savigny e Thibaut, con gli strascichi
che ha avuto ad opera dei vari allievi. La prova della mutata prospettiva
d'indagine sta nel fatto che il codice giungerà in Germania quando la
giuspubblicistica aveva già iniziato la sua parabola discendente. Tutto ciò
indica, secondo noi, non che la preminenza del diritto pubblico sul privato
fosse funzionalizzata ad una giustificazione di potere o ad una ricerca di
sostegno nello Stato, ma al contrario, come proprio il mutamento di
indagine attorno al diritto derivi dalla riconosciuta funzione dello Stato,
non di titolare dell'uso legittimo della forza, quanto di fedele interprete
delle esigenze della nazione, secondo un percorso che troverà in Hegel il
suo principio. Che da questo secondo carattere si passerà al primo, è cosa
talmente nota da poter risultare banale. Qui interessa mettere invece in
evidenza come il passaggio dalla preminenza del diritto privato allo studio
del diritto pubblico avvenga essenzialmente per esigenze logiche
dogmatiche. In altri termini era nelle stesse premesse di Savigny che si
dovesse giungere alla primogenitura del diritto pubblico, per cui, in realtà,
von Stein non fa che svolgerle secondo quanto lo stesso metodo di
Savigny imponeva, cioè secondo i canoni della dogmatica. L'indagine
attorno alla struttura dello Stato non poteva che avvenire, come di fatto è
avvenuta, secondo il metodo proprio della scienza giuridica: la dogmatica
appunto.
Tuttavia tale metodo, come è noto319
nasce dal diritto privato e vi
deve la struttura, improntata all'unità. Non è un caso che molte opere della
319 La dogmatica, com'è noto, è quello strumento conoscitivo per cui si procede
alla formazione di una griglia di definizioni, base nella quale sussumere l'oggetto di
indagine tramite il procedimento di genere e specie. Gli Stessi concetti primari sono
definiti tramite un processo di identità e differenza. Procedimento già noto alla
giurisprudenza romana classica, appare fondamento anche della compilazione giustinianea,
ma è nell'Ottocento tedesco, con la Scuola Storica, che riceve nuovo impulso e rigore
scientifico (per quanto un tale approccio sia legittimo nei confronti del diritto). Tale
pretesa porterà a quel formalismo eccessivo, cui la Scuola del diritto libero non è che la più
radicale delle reazioni. Sul punto specifico cfr. E.R. BIERLING, Zur Kritik der juristischen
Grundbegriffe, Gotha, 1877; IDEM, Juristische Prinzipienlehre, Freiburg und Leipzig,
1894; R. STINTZING, Geschichte der Deutschen Rechtswissenschaft, München und Leipzig,
1880; E. LANDSBERG, Geschichte der Deutschen Rechtswissenschaft, München und
Leipzig, 1898; più recentemente, cfr. W. SAUER, Juristische Methodenlehre. Zugleich eine
Einleitung in die Methodik der Geisteswissenschaften, Stuttgart, 1940; F. MÜLLER,
Juristische Methodik, Berlin, 1976; nonché il più diffuso K. LARENZ, Methodenlehre der
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
213
giuspubblicistica tedesca abbiano per titolo Die Einheit der
Rechtsordnung, e che comunque tale argomento sia uno degli oggetti
principali di ricerca. Occorre qui richiamare la conclusione del corso di
Erdmann, che abbiamo ricordato sopra, lo Stato come un Io volente, per
congiungerlo al sistema dogmatico. La simbiosi tra einzelner Wille degli
Epigonen e procedimento dogmatico degli Juristen produce l’edificazione
di quel granitico edificio statale, di cui il monolitismo labandiano non è
che l’ultima logica conseguenza, nel soffocamento delle articolazioni
tradizionali della società che pur nell’assenza di sistematicità ne
garantivano però anche la vitalità. In altri termini l'analisi attorno allo
Stato della prima giuspubblicistica tedesca muove da questo presupposto e
con questo metodo: occorrerà attendere la teoria istituzionalistica perché
si incrini il mito della Einheit. La struttura logica assegnata allo Stato,
secondo anche la dottrina degli Epigonen, unita al metodo di indagine, già
ci illumina circa il ruolo della rappresentanza in questa costruzione. I
problemi sorgono infatti nel costringere il dualismo di questa nell'unità
dell'ordinamento, conciliare due soggetti parimenti esistenti e volenti, con
l'Io volente di Erdmann. Si badi bene che non si tratta più, come fino al
tempo di Sieyès, di ridurre il consaputo dualismo di teoria in tecniche
moniste, ma è la stessa struttura della costruzione teorica che non può
tollerare logicamente dualismi: si sono sottolineate al paragrafo
precedente le difficoltà di Hegel-Rosenkranz su questo punto; preme ora
mettere in evidenza le soluzioni di chi più si riteneva versato in tecniche
costituzionali.
Prima ancora dei mutamenti del 1848, Robert von Mohl320
aveva
sollevato in un lavoro comparativo321
la difficoltà di assegnare al sovrano
Rechtswissenschaft, V ed., Berlin, 1983, della cui I ed. (1960) esiste una traduzione
italiana, non a caso, limitata alla parte storica, Storia del metodo della scienza giuridica,
Milano, 1966. Recentemente, oltre a R. MENEGHELLI, Al giurista che si professa
dogmatico: una parola di chiarimento, in “Diritto e Società”, 1992, p. 577 e ss.; si vedano
anche gli illuminanti i saggi raccolti in P. DE FRANCISCI, E. BETTI, Questioni di metodo:
diritto romano e dogmatica odierna, Como, 1996, con contributi di Giorgio Luraschi,
Giuliano Crifo e Gabrio Lombardi; nonché A. FALZEA, Dogmatica giuridica, Milano,
1997.
320 Robert von Mohl (Stuttgart 1799 — Berlino 1875), appartenente alla piccola
nobiltà rurale, studia a Tübingen ed a Heidelberg, dove si laurea nel 1822. Dal 1826 alla
morte insegna Scienza dello Stato all'Università di Tübingen.
321 Über die verschiedene Auffassung des repräsentativen Systems in England,
Frankreich, und Deutschland, apparso nel 1846. Nel 1852, all'indomani della costituzione,
DIE JURISTEN
214
la completa rappresentanza dei governati. La riflessione muoveva dalla
scelta dei ministri per la formazione del gabinetto di governo. Mohl
sosteneva la necessità che il sovrano scegliesse tra esponenti del partito di
maggioranza e rilevava un elemento destabilizzante nel dualismo tra
Monarca e rappresentanza popolare.322
Il termine dualismo qui usato
potrebbe trarre in inganno. Non si tratta della consapevolezza dualistica
della struttura rappresentativa, ma della percezione di due centri di potere
nel medesimo Stato, fonte di confusione, destabilizzazione e disordine in
quanto negazione della Einheit. Mohl non indaga se i rappresentanti siano
veramente tali, né se il monarca sia, a sua volta, rappresentante, ma
sostenuto da una robusta indagine storica sui precedenti francesi e,
soprattutto, inglesi, vede comunque il pericolo di un conflitto tra monarca
e parlamento. La sua proposta di Volksvertretung consiste
nell’accomunare i rappresentati per interessi materiali, artistici spirituali e
territoriali, quasi al modo delle corporazioni, ma non vengono invece
analizzati i rapporti tra eletti ed elettori, tra rappresentati e rappresentanti.
Mohl contestava la capacità del sovrano di comprendere ed
interpretare il Volksgeist nella sua totalità, là dove il suo scopo era quello
di garantire una camera formata sulla base dei differenti interessi, proprio
per "rappresentare" nel senso appunto di far conoscere, le esigenze della
nazione al sovrano. Di qui che l'autore non muova alcuna critica allo Stato
come interprete esclusivo dei costumi popolari quando pone le leggi, ma
realizza che ciò non può essere fatto da un uomo solo. Sostanzialmente la
struttura non viene mutata, si individua un organo, che meglio di un altro
possa procedere all'interpretazione - legislazione: il problema di stabilire
chi possa verificarne la bontà dell'operato, la corrispondenza tra posto ed
interpretato non c'è, ancora. Lo stesso Mohl successivamente,323
denunzierà l'insufficienza dell'analisi attorno al diritto mossa
esclusivamente dal punto di vista dello Stato. L'importanza dell'intervento
emerge dalla necessità di individuare un terzo polo tra individuo e Stato.
Mohl tornò ad occuparsi di rappresentanza con Das repräsentative System, seine Mängel
und die Heilsmittel. Entrambi i lavori sono raccolti in Staatsrecht, Völksrecht und Politik,
2 voll., Tübingen, 1860, da cui citiamo.
322 Mutuiamo il termine da M. FIORAVANTI, Giuristi e Costituzione politica
nell'Ottocento tedesco, Milano, 1979, p. 96.
323 Cfr. R. VON MOHL, Geschichte und Literatur der Staatswissenschaften, 3 voll.,
Erlangen, 1855 — 1858.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
215
Si avverte, in altre parole, la difficoltà del superamento del singolo nello
Stato: la struttura unitaria, anzi unica, dell’individuo non trova la sua
Aufhebung nella ormai altrettanto unitaria, singolare, in sostanza nella
Einheit der Rechtsordnung, che non è più equilibrata sintesi di singolo e
società civile, così come disegnata da Hegel. Tra individuo e Stato, Mohl
inventa, anzi recupera, un terzo stadio, autonomo dagli altri due, non
comprensibile in termini di volontà individuale, cioè non riducibile al
diritto privato, ma al contempo, parimenti estraneo alla volontà suprema,
alle categorie del diritto pubblico. Sembra già trattarsi della Società civile
hegeliana, ma se ne è sicuri quando Mohl la definisce come entità
indipendente dal concorso delle singole volontà, non il frutto di un
accordo, ma necessità della convivenza, naturale, dotata quindi di un
carattere oggettivo. È avvertito qui il nodo della legge statuita e non
"riconosciuta", della discrepanza tra costume e diritto, la necessità della
dualità. La società civile è vista allora come luogo di sedimentazione ed
humus per il Volksgeist, fungendo da ponte tra cittadino e Stato. Tuttavia,
pur sentendo la differenza tra società civile e Stato, al momento
dell'attuazione, Mohl sostiene che tra i due termini deve esserci pieno
accordo, rinunciando così a costruire lo Stato più sulla forma della società
civile, che sull'individuo ed appiattendo così quelle esigenze che pure
aveva colto. Ancora una volta, come per la rappresentanza nazionale, pur
rilevando la piega individualistico - unitaria presa dalla riflessione attorno
alla Stato dalla nascente dottrina giuridica pubblicista, e contrapponendovi
efficacemente la realtà della Società civile, non si deduce o non si propone
una costruzione dello Stato differente. Si dovrà attendere la teoria
dell'Istituzione e della Fondazione, per spezzare l'Einheit e procedere alla
costruzione di una dottrina dello Stato più vicina al concetto di Società
civile.
È interessante notare come con la rottura dell'equilibrio hegeliano
tra individuo e Stato, già presente negli allievi del Maestro berlinese,
imponga una rincorsa al recupero della Società civile, che si era ritenuto
di poter liquidare sulla scorta dell'identità tra singolo in quanto cittadino e
Stato, secondo quell'interpretazione del § 258 della Filosofia del Diritto,
ormai più volte citato.
Sull'altro versante invece, la traduzione giuridica dello Stato come
organo giunge nei primi anni Cinquanta del secolo XIX, con l'opera di
Heinrich Ahrens. Le date sono indicative: Die Philosophie des Rechts und
des Staates in due volumi, il primo con il titolo Die Rechtsphlosophie
oder Naturrecht auf philosophisch - antropologischer Grundlage, esce a
DIE JURISTEN
216
Vienna nel 1850, il secondo, nella stessa città, due anni più tardi, con il
titolo programmatico Die organische Staatslehre auf philosophisch -
antropologischer Grundlage.324
Tutto il pensiero di questo autore è il
tentativo di conciliare il diritto naturale con l'organicismo dello Stato,
sottraendolo al monopolio del contrattualismo e della sovranità popolare.
Anzi, il non dissimulato intento è quello di dimostrare come lo Stato
organico sia per diritto naturale, cioè secondo natura, la sola forma di
Stato.
"Lo Stato essendo un organismo vivente, esiste e si sviluppa
mediante una unità di principio che l'anima fin dall'origine e che forma la
regola e lo scopo costante della sua attività. Se non vi fosse un'unità
fondamentale del principio e dello scopo, il dualismo o anche una più
grande varietà di tendenze costituirebbe un vizio generale che getterebbe
necessariamente lo Stato in una indecisione perpetua e non permetterebbe
niun'azione ben coordinata, niun ordine in un piano adottato o nel
complesso della sua attività. Epperò tutti gli Stati si sono sempre posti,
come scopo predominante, di mantenere l'ordine e la società".325
Questo il § 107 del secondo volume del Corso di diritto Naturale,
intitolato Dello scopo dello Stato sotto l'aspetto ideale. Vi si riconosce
l'insegnamento degli Epigonen o, comunque, un'identità di posizioni, nel
tentativo di costruire l'Einheit dell'ordinamento sul carattere organico
dello Stato, organismo vivente, parafrasando Erdmann.
Merita attenzione la trasformazione dello Stato monolitico,
patrimonio privato del sovrano o comunque ambito di dominio assoluto,
secondo la concezione che ancora era prevalente dopo la Rivoluzione
francese, e la struttura organica, sembrerebbe quasi pluralistica, dello
Stato disegnato dagli Epigonen: sintesi di Famiglia e di Società civile
324 Alle opere citate nel testo deve aggiungersi Juristische Enziklopädie oder
organische Darstellung der Rechts und Staatswissenschaft auf Grundlage einer ethischen
Rechtsphilosophie, Wien, 1855.
Nel seguito faremo riferimento alle seguenti opere a nostra disposizione: Dottrina
generale dello Stato, trad. it. di P. del Giudice, Napoli, 1866; Naturrecht oder Philosophie
des Rechts und des Staates, 2 voll., Wien, 1870; Corso di diritto naturale o di filosofia del
diritto, trad. it. di A. Marghieri, 2 voll., Napoli, 1872; Cours de Droit Naturel ou de
Philosophie du Droit, VIII ed., Leipzig, 1892.
325 Cfr. H. AHRENS, Corso di filosofia naturale o di filosofia del diritto, cit., II vol.,
p. 323. Richiamare le coeve lezioni di Erdmann appare superfluo. Sovviene invece
l’assonanza con la distinzione di N. MATTEUCCI, Lo Stato moderno, Bologna, 1993, p. 52,
citata supra al § I.1.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
217
nella versione del Maestro; identità col popolo o, meglio, unica
manifestazione del popolo, nelle posizioni degli allievi. Tuttavia non è
possibile ridurre cosi semplicemente il pensiero di Ahrens. Infatti poco
prima, al § 105, intitolato Dell'origine dello Stato e della sua ragione di
esistenza, si legge che lo sviluppo organico degli Stati può compiersi in
due forme giuridiche: sia mediante costumi o consuetudini, sia mediante i
contratti. Questa seconda forma è più frequente in ambiti più vasti, "ma
non serve allora che ad imprimere, in una forma dichiarativa, il soggetto
giuridico a tutti i rapporti che si sono già dapprima stabiliti. Un simile
contratto politico, conseguenza di uno sviluppo anteriore, deve essere ben
distinto dal contratto sociale immaginato dalle scuole, che muove dalla
finzione di uno stato di natura, affine di ricostruire a nuovo tutto l'ordine
sociale".326
Dei due modi appena enunciati, la consuetudine come
consolidamento dei costumi, secondo l'insegnamento idealista, e il
contratto sociale –pur nella versione così rinnovata– sembra allora che
comunque la costituzione dello Stato possa avvenire solo tramite la prima
via e che il contratto non sia che una mera dichiarazione di quanto de
facto già accaduto, il cui solo valore è quello di descrivere la realtà, ma
rimane un atto senza pregio, flatus vocis, quando questa aderenza si
esaurisce, quando il contratto è superato dagli eventi, dalla Storia. Infatti
"la teoria del contratto politico comprende sì la verità essenziale, cioè che
ogni ordine sociale deve riposare sulla libera cooperazione dei suoi
membri; ma ha torto di elevare la volontà a principio di diritto, di
sostituire ad una idea divina un idolo umano. Gli uomini e i popoli
infrangono facilmente gl'idoli che essi stessi hanno elevati; epperò l'ordine
sociale, per essere rispettato e riformato in continuità organica, dev'essere
compreso nel suo fondamento divino e nei suoi rapporti organici con le
condizioni dello sviluppo umano. Al di sopra del potere della loro volontà,
gli uomini e i popoli son tenuti a riconoscere il dovere che debbono
compiere nell'ordine politico per tutti gli scopi di coltura".327
Merita particolare attenzione, per il ruolo che sarà chiamata a
svolgere, il riferimento alla volontà. Si è visto come l'Hegel degli
Epigonen, muova la critica al contrattualismo proprio sulla scorta della
326 Cfr. H. AHRENS, Corso di filosofia naturale o di filosofia del diritto, cit., II vol.,
p. 312.
327 Cfr. H. AHRENS, Corso di filosofia naturale o di filosofia del diritto, cit., II vol.,
p.313-314.
DIE JURISTEN
218
volontà individuale, ritenuta insufficiente per sostenere lo Stato e porlo a
quel livello per cui possa essere riconosciuto come proprio dal gesamte
Volk. Correttamente allora si era espunta la categoria della volontà come
base dello Stato, sostituendola con la necessità della Storia, rompendo con
la tradizione. Tuttavia se tale sostituzione avviene per l'aspetto che
riguarda il popolo e lo Stato, la volontà permane la categoria della
sovranità nella fase discendente del rapporto che riguarda lo Stato e il
popolo: la volontà è e resta infatti alla base della Herrschaft, o potestà di
imperio, nella traduzione della dottrina italiana, colla distinzione che se
n'è operata dalla sovranità.328
Il momento volontaristico dell'ordine
statuale permane allora in latu actionis, ma non più nella formazione dello
Stato: il popolo non emana giuridicamente alcuna volontà e, per quella
peculiare correlazione tra volontà ed essere cui si è già fatto cenno, si
potrà dedurre che il popolo non esiste giuridicamente. Così facendo però,
si reintroduce la volontà come categoria fondante lo Stato anche in quel
lato da dove la si era appena espunta, e cioè il rapporto crescente che dal
singolo porta allo Stato.
In altri termini si è potuto sganciare la formazione dello Stato dalle
volontà singole proprio sfruttando l'insegnamento hegeliano che a queste
ultime sostituisce la necessità della Storia. Tuttavia, osservato che la
volontà era ancora alla base delle manifestazioni dello Stato verso i
governati, solo attraverso queste esistente ed operante, si è dedotto che il
popolo non manifestando delle volontà, giuridicamente non fosse. Infatti, i
giuristi operano un indebito mutamento di paradigma: accolgono la
fondazione dello Stato non sulla volontà dei sudditi (teoria
contrattualista), tuttavia recuperano il momento volitivo quale radice delle
norme, nel momento discendente (dallo Stato verso i sudditi) e viene
surrettiziamente reintrodotto l’equiparazione volontà/essere, per cui il
popolo che non è in grado di emanare alcun atto di volontà giuridicamente
rilevante, viene considerato inesistente; dimenticando che invece la
volontà del popolo è la volontà dello Stato per la forzatura dell’assunto
hegeliano oramai citato a sazietà. Tutto ciò è funzionale, ancora una volta,
alla sovranità dello Stato. Così come i delegati agli Stati generali di
328 Cfr. nota n. 107. La distinzione viene appiattita, fino ad usare i termini come
sinonimi, ancora nel dibattito attuale: cfr. E. CHELI, Cultura delle istituzioni, politica e
innovazione costituzionale in Italia, in ASSOCIAZIONE ITALIANA DEI COSTITUZIONALISTI (a
cura della), La riforma costituzionale, Atti del convegno (Roma, 6 – 7 novembre 1998),
Padova, 1999, p. 3; S. P. PANUNZIO, Le forme ed i procedimenti per l’innovazione, ivi, p.
15.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
219
Francia gettano al vento le proprie istruzioni, negando la derivazione del
proprio potere dagli elettori e ponendosi come potere costituente, allo
stesso modo, ma con portata più radicale, il concetto di Stato sorto dal
connubio tra Epigonen e Juristen spiega la propria azione dalla volontà
dei singoli, ricavandola dalla necessità della storia. Tuttavia, la
manifestazione dell’essere dello Stato, anzi la sua stessa unicità-sovranità
si mostra con atti di volontà diretti verso la moltitudine dei sudditi cioè di
quel popolo la cui volontà –prima ritenuta identica a quella pubblica- è
stata assorbita dallo Stato. Lo Stato è in quanto vuole, poiché emana atti di
volontà giuridicamente rilevanti; il popolo, a seguito del processo
“chimico” di compenetrazione, non può più fare altrettanto, e ne viene
inferita la sua non-esistenza o, comunque, l’irrilevanza in termini
giuridici, sicché il popolo giuridicamente è solo in quanto organizzato nel
parlamento: con Sieyès, la Nazione è l’Assemblea. Viene così assorbito
l’ultimo distinguo di Hegel, ovvero l’identità di volontà tra cittadino e
Stato in campo pubblico, passando dall’identità di volontà all’identità di
essenza, riducendo due soggetti che vogliono la stessa cosa ad un solo
soggetto giuridicamente rilevante: se il cittadino non può che avere la
stessa volontà dello Stato, è solo quest’ultimo che veramente conta.329
La
contraddittorietà della deduzione prima dal presupposto della necessità, e
poi con i criteri della volontà non tarderà ad esplodere. Lo stesso Gans
aveva denunciato la finzione di un popolo posto sotto tutela al pari di un
incapace. Per il momento è solo il caso di notare come lo svincolamento
dello Stato dalla volontà dei singoli comportasse il superamento della
struttura volontaristica anche per la rilevanza dei singoli stessi all’interno
dello Stato. All’opposto, per Hegel l'intento di fondare la forma massima
di convivenza sulla necessità della Storia non comportava certo
l'annichilimento della società civile, sul presupposto che giuridicamente
non fosse in grado di volere, proprio perché tale volontà non era più
ritenuta fondante lo Stato. Al contrario, il secondo momento dello spirito
oggettivo, è quello della volontà dei singoli, degli scambi, potremmo dire
329 Indubbiamente in questo processo di astrazione gioca un ruolo essenziale il
principio unificante del concetto giuridico di “parte” in senso sostanziale, intesa come
centro di imputazione di volontà e di interessi, ancorché formata da più soggetti, tutti
dotati di autonoma capacità giuridica. A questo aspetto però si unisce la caratteristica
assorbente propria della sovranità che, come luogo della volontà, tende ad equiparare
volontà ed essere. Si avrà modo di vedere nel prosieguo le ulteriori conseguenze di questa
prospettiva in campo processuale, segnatamente nel momento di individuare lo jus actionis
del singolo nei confronti dello Stato. Cfr. infra § III.3.
DIE JURISTEN
220
dell’autonomia negoziale; dacché, se per singoli plurimi atti di volontà i
soggetti intessono relazioni che costituiscono la società civile, la
coscienza storica li porta verso lo Stato.
In verità, scopo di Ahrens era ancora quello di dare dignità di
"conforme Natura" allo Stato organico, o "organato", secondo la
traduzione di Marghieri; di dimostrarne cioè l'ineluttabilità storica, in
antitesi alla contingenza del "contratto sociale". In questo tragitto le tappe
intermedie restano in ombra, abbagliate dal traguardo finale, fino a
perdere rilevanza autonoma. Infatti, al successivo § 108, trattando Dello
Stato e della Società umana nella loro distinzione e nei loro rapporti,
concedendo ad Hegel di essersi avvicinato alla costruzione da lui
sviluppata, Ahrens afferma che "la giusta teorica, fondata sul principio
dell'organamento sociale, si reassume nei punti seguenti. La società e lo
Stato non sono due ordini opposti e separati. La società è l'ordine sociale
completo, comprendendo tanti ordini sociali quanti vi hanno scopi
principali particolari, ai quali si tende in questi ordini differenti. La società
è un insieme di scopi organati; per ciascuno scopo principale v'ha un
ordine, un organismo particolare. Lo Stato è l'ordine organato per lo scopo
del diritto, così come la Chiesa lo è per lo scopo della religione, come
l'ordine economico lo è per lo scopo del lavoro agricolo, industriale e
commerciale, ecc.".330
Su questa identità tra società civile e Stato o,
meglio, sulla sola manifestazione della società civile che è lo Stato, si
comprende il ruolo ed il significato della sovranità. Questa ha infatti avuto
la stessa sorte toccata al potere pubblico in generale, cioè di essere
confusa con l'onnipotenza, col dispotismo, in altre parole di essere
"accentrata, in vece di essere concepita organicamente e ripartita tra le
diverse sfere dell'ordine sociale".
“La sovranità della nazione si deve in primo luogo distinguere dalla
sovranità del popolo. In fondo la differenza non è che storica a cagione del
modo differente come sono state giudicate queste due nozioni. Per
nazione s'intende il popolo nella sua unità e nel suo organamento intero,
mentre che si comprende generalmente per popolo, la nazione nella massa
degli individui; l'una è un concetto organico, l'altra un concetto atomistico
del medesimo soggetto. La sovranità della nazione esprime la grande
verità che la nazione nell'organismo e nell'azione regolare dei suoi poteri
costituiti decide in ultima istanza di affari concernenti l'intera nazione,
330 Cfr. H. AHRENS, Corso di filosofia naturale o di filosofia del diritto, cit., II vol.,
p. 346.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
221
mentre che la sovranità del popolo, situata nella massa, nel numero, agisce
non mediante gli organi costituiti; ma mediante una specie di forza fisica,
e fa valere una volontà, che, invece di sottomettersi ai principi obbiettivi
della verità e della giustizia, si considera la sorgente di tutto ciò che è
giusto".331
È superfluo il richiamo alle posizioni del primo Sieyès, di
quello cioè del Qu'est-ce-que le Tiers Etat?, dell'ambivalenza di popolo e
Nazione, indistintamente ora come potere costituito, ora come potere
costituente. Il dogma della sovranità popolare, di Marsilio ed ancora di
Cusano, alla radice anche delle teorie medioevali del monarca assoluto, è
ben lungi dall'essere messo in discussione: gli eventi del '48 sono ancora
troppo vicini. Esso viene tuttavia incanalato nel concetto meno
individualistico e più "organico" di Nazione; un procedimento astrattivo,
di spersonalizzazione che era già convenuto a Sieyès, si è visto, per
l'irresponsabilità dell’uso del potere che comporta.
Con queste premesse possiamo leggere il capitolo dedicato alla
Pubblica Rappresentanza.
"Lo Stato, per essere un vero organismo etico del diritto, deve
presentare un intimo rapporto di azione reciproca tra l'organo centrale ed
il complesso delle diverse sfere della vita nazionale. Questo rapporto si
organa mediante la cooperazione di quelle diverse sfere all'esercizio di
tutti i poteri".332
Dopo aver ricostruito la formazione storica dell'istituto, si
individua che "lo scopo della rappresentanza consiste in costituire lo Stato
realmente ciò che è in idea, un affare di tutti, un ritemprare senza posa i
poteri alle sorgenti prime della vita nazionale, in istabilire un legame
politico insieme e morale tra gli individui e l'ordine generale, (...) ed in
rianimare il sentimento di solidarietà mediante la parte che prende onde
recare in atto l'idea del diritto e l'ordine dello Stato; spetta anche alla
rappresentanza di sviluppare l'intelligenza politica e di diventare un
potente mezzo di educazione popolare".333
Ecco una nuova funzione della
rappresentanza, che non si era esaminata nella prima parte di questo
lavoro, la funzione educatrice (il corsivo è nel testo). Muovendo dal
331 Cfr. H. AHRENS, Corso di filosofia naturale o di filosofia del diritto, cit., II vol.,
p. 356.
332 Cfr. H. AHRENS, Corso di filosofia naturale o di filosofia del diritto, cit., II vol.,
p. 395.
333 Cfr. H. AHRENS, Corso di filosofia naturale o di filosofia del diritto, cit., II vol.,
p. 397.
DIE JURISTEN
222
presupposto di sintonia, quando non identità, tra governanti e governati,
funzione dei rappresentanti è quella di far comprendere quest'utile unità di
intenti per il benessere della comunità e per la convivenza, di ricordare
come l'interesse del cittadino sia tanto felicemente congiunto con quello
dello Stato. Se l’assonanza stilistica può far propendere per una
similitudine con la radice fisiocratica che si è vista in d’Holbach, al
contrario dissimula un contenuto teso a che i “rappresentanti” instillino
nei “rappresentati” il senso dello Stato, quasi plasmandoli su se stessi;
concretando così un’inversione logica, per la quale è l’immagine che
modifica a proprio uso la realtà. E si vedrà che questa posizione, qui
scopertamente paradossale, non è abbandonata, ché, anzi, qualche autore
tutt’oggi la fa apertamente propria (cfr. infra, § III.2 e 3).
Sullo stesso fronte si impegna Bluntschli,334
che nega dignità
concettuale alla società civile e alla volontà singola e più in generale ad
ogni volontà in quanto non manifestantesi nello Stato. Il popolo è un
essenza organica. In un saggio sulla concezione dello Stato, il nostro
individua il passaggio tra medioevo e modernità nella concezione unitaria
del Volk, nel superamento della caratteristica cetuale che,
frammentandolo, contraddistingueva il popolo nel sistema medioevale. Da
tutto ciò deduce l'importanza della rappresentanza popolare per
caratterizzare lo Stato moderno. Tuttavia l'aspetto interessante, il
contributo originale più rilevante ai nostri fini, è la conseguenza che
l'autore deduce: la rappresentanza è un istituto centrale del diritto
pubblico. Per la prima volta la rappresentanza viene riconosciuta
importante, elemento centrale nella struttura dello Stato, tanto da dover
essere ricompresa nell'ambito del diritto pubblico e da questo regolata, ma
conseguentemente costretta nelle maglie di questo per essere a lui
adattata, come in un letto di Procuste.
Già abbiamo quanto ci serve per comprendere il ruolo e la struttura
della rappresentanza nella costruzione di Bluntschli, e con lui in buona
334 Bluntschli nasce a Zurigo nel 1808, lascia la Svizzera nel 1848 per ricoprire la
cattedra di diritto pubblico dell'Università di Monaco. Dal 1861 succede a Mohl
nell'Università di Heidelberg fino alla morte, che lo coglie nel 1881.
A nostra disposizione sono: Deutsches Privatrecht, 2 voll., München, 1853 — 54,
rist. Frankfurt, 1983; Geschichte der neueren Staatswissenschaft. Allgemeines Staatsrecht
und Politik seit 16. Jahrundert bis zur Gegenwart, München, 1881, rist. Aalen, 1965;
Lehere von modern Staat, 3 voll., Stuttgert, 1876, rist. Aalen, 1965; nonché il rarissimo
Über den Uterschied der mittelalterlichen und der modernen Staatsidee, München, 1855:
trattasi del testo di una conferenza tenuta da Bluntschli a Monaco il 5 febbraio 1855.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
223
parte dei giuspubblicisti seguenti: la fortuna di Bluntschli infatti derivò
anche dalla sua abile retorica. Da un lato lo Svizzero mutua dalla Scuola
storica la concezione unitaria del Volk, quale abbiamo visto sopra, unita
però alla struttura organica propria della Destra hegeliana, dall'altro
proprio da quest'ultima deriva la concezione di Stato organo, espungendo
ogni volontà che non sia statale e in particolare la società civile, che
ancora Mohl cercava di recuperare. La rappresentanza popolare allora, da
un lato non può essere volontà esterna allo Stato, poiché non se ne dà
alcuna, dall'altro non può essere frammentata, poiché il popolo è un'unità
organica, al modo dello Stato. D'altro canto lo stesso popolo trova forma
sensibile solo nello Stato. Se all’osservazione che Stato e popolo sono la
stessa cosa Bluntschli, o un suo allievo, potrebbe opporsi, non così se si
dicesse che Stato e popolo vogliono le stesse cose, che hanno un unica
volontà. Per le premesse poste infatti l'uno si realizza nell'altro. Vale
appena il caso di notare qui la relazione essere è volere, che abbiamo visto
alla fine del paragrafo precedente e che emerge, quale dato acquisito dalle
posizioni dei diversi autori. La rappresentanza popolare moderna allora è
rappresentanza dello Stato, non è rappresentanza dei singoli che
compongono il popolo, perché questa era la visione medioevale, ma è
rappresentanza dell'unità organica del popolo nella nuova versione della
consaputa unità tedesca. Ne deriva che i deputati non possono essere
vincolati alle istruzioni particolari dei loro elettori, né rispondere a questi
del loro operato, visto che non i singoli rappresentano, ma il popolo nella
sua unità. Questa conseguenza dall'unità popolare, o come allora si diceva,
dall'indivisibilità della Nazione,335
l'abbiamo già trovata in Sieyès. Qui
preme mettere in evidenza l'ulteriore conseguenza che per la prima volta
ne trae proprio Bluntschli: la rappresentanza popolare diviene un istituto
fondamentale del diritto pubblico. Il che non sarebbe paradossale se non si
trattasse del diritto pubblico dello Stato organico, quale si è appena
tratteggiato. In questo modo, anche la rappresentanza viene espropriata al
popolo e ricondotta all’interno del diritto pubblico. In questo modo non vi
335 Non crediamo errato rinvenire in questa convinzione l’origine della
correlazione tra sovranità popolare ed indivisibilità della Nazione, precipitata anche
nell’art. 5 della vigente Costituzione italiana, secondo la formulazione rousseauiana
espressa nel 1789 da Lally-Tollendal: “La souveraineté ne réside que dans le tout réuni; je
dis le tout parce que le droit législatif n'appartient pas à la partie du tout; je dis réuni, parce
que la nation ne peut exercer le pouvoir législatif lorsqu'elle est divisée et elle ne peut alors
délibérer en commun.”. Cfr. Archives parlamentaires, Serie I, vol. VIII, p.204, nonché, per
il profilo giuridico italiano tra sovranità popolare e sovranità nazionale, infra, § II.3.5.
DIE JURISTEN
224
è più un inadempimento del dovere di rappresentare, eccezionalmente
giustificato par l'invincible tocsin de la nécessité di Mirabeau;336
al
contrario, qui non c’è più alcun diritto ad essere rappresentato: non si
tratta di infrangere un diritto che c’è, ma di negare l’esistenza dello stesso
diritto. Ecco perché la struttura della rappresentanza viene assorbita ed
adattata alle esigenze che abbiamo visto: divieto di mandato imperativo ed
irresponsabilità dei rappresentanti, sono corollari necessari alla Einheit di
Stato e popolo di cui abbiamo appena detto. Inizia in questo modo la
distinzione tra rappresentanza di diritto privato e rappresentanza di diritto
pubblico, o politica, che il 7 luglio 1789, Barrère de Vieuzac aveva
profetato. Ma si badi bene che tale distinzione è del tutto funzionale alla
teoria organica: corollario di questa, ne è il valido sostegno.
Non sfugge, pur nell'identità dei risultati, ossia il divieto di mandato
imperativo e l'irresponsabilità del deputato, la diversa prospettiva
dell'asserto nell'ottica rivoluzionaria e nei teorici postquarantotteschi.
Anche Bluntschli, come del resto la maggior parte dei teorici dello Stato
tedesco, muove da una decisa opposizione nei confronti della teoria
contrattualistica e della sovranità popolare, che saldamente è alla base dei
costituenti francesi di sessant'anni prima.
Hegel-Rosenkranz ci ha già avvertiti come muovendo da una
prospettiva contrattualistica, si potrebbe dedurre che lo Stato derivi da
volontà singole e ne sia subordinato; in stretta conseguenza allora anche
gli organi dello Stato sarebbero subordinati a volontà singole, o alla
somma di volontà singole che allo Stato hanno dato vita. Lo stesso
sovrano anche se eletto a vita, non potrebbe essere tanto indipendente da
garantire l'esistenza dello Stato, poiché, se non altro logicamente,
subordinato a chi lo ha eletto. Il timore di questi autori è la possibilità di
dedurre che, essendo lo Stato per contratto dei singoli che gli preesistono
e la sovranità appartenendo al popolo, i deputati debbano rispondere a
questo, vanificando la loro costruzione che si basa sul presupposto
dell'identità tra Stato e popolo, o meglio, dell'impossibilità per il cittadino
di aver interessi in campo pubblico diversi da quelli dello Stato. È solo
con un escamotage, abbiamo visto, che Sieyès pone la sovranità tutta
intera nella Nazione e che questa non è rappresentabile fuori
dall'assemblea. In questo modo l'abate riesce a giustificare il divieto di
mandato imperativo, ma in base alle premesse, non dovrebbe ammetterlo.
Più radicale Rousseau che conseguente alle premesse contrattualistiche,
336 Cfr. supra, § II.2
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
225
non concepisce rappresentanza, ma solo l'opera di commissari con
mandato assolutamente imperativo.
Nella prospettiva del Nachmärz, l'elezione non è espressione di
alcuna volontà da parte degli elettori circa l'indirizzo della politica
generale, né tantomeno un influsso particolare, di matrice individualistica,
sull'attività o sui compiti dello Stato. Bluntschli espressamente ritiene che
con le elezioni si scelgano, sulla fiducia, determinate persone per la
formazione di un organo dello Stato, ma niente altro, ed è in questo punto
che crediamo di trovare la compiuta espunzione del ruolo delle elezioni
che sarà una costante nel pensiero degli autori che seguiranno. L'elezione
viene ad essere niente più che un modo come un altro per la formazione di
un organo dello Stato, non dissimile dalla nomina di un organo da parte di
un altro organo dello Stato, parimenti rappresentativo proprio perché
organo dello Stato. Occorre notare che se con l'elezione il corpo elettorale
non manifesta volontà, secondo la correlazione che in tanto
giuridicamente si è in quanto si pongono in essere atti di volontà, lo stesso
corpo elettorale giuridicamente non è, non ha rilevanza per l'ordinamento,
se non come momento di formazione del Parlamento. Solo in quel preciso
momento il popolo vuole e giuridicamente è. Occorrerà attendere ancora
qualche decennio prima che Jellinek definisca il popolo organo primario
dello Stato, ma di questo parleremo dopo.
Nello stesso 1852, e cioè un anno dopo le lezioni di Erdmann in cui
Bluntschli pubblica il suo Allgemeines Staatsrecht geschichtlich
begründet, colui che sarà chiamato il padre del diritto pubblico tedesco,
Carl Friederich Gerber esce dallo studio del diritto privato con il volume
Über öffentliche Rechte.337
Da questo alla prima edizione della sua opera
sistematica, i Grundzüge des Deutschen Staatsrechts,338
passano tredici
anni, densissimi, quasi quanto i quindici che la dividono dalla terza e
definitiva edizione, non foss'altro per l'ingresso nel dibattito di Paul
Laband. Per seguire lo sviluppo del pensiero di Gerber occorre tener ben
presente queste tre date: 1852, 1865, 1880, e mantenere sullo sfondo gli
avvenimenti storici della Germania, dalla prima costituzione, alla
fondazione del Reich, all'uscita di scena di Otto von Bismark.
337 C. F. GERBER (il titolo nobiliare giungerà in seguito alla sua opera di ministro),
Über öffentliche Rechte, Tübingen, 1852, trad. it. parziale a cura di P. L. Lucchini, Diritto
pubblico, Milano, 1971.
338 C. F. GERBER, Grundzüge des deutschen Staatsrechts, III ed., Dresden, 1880,
trad. it. parziale a cura di P. L. Lucchini, Diritto pubblico, Milano, 1971.
DIE JURISTEN
226
La forte predisposizione dogmatica di Gerber era riconosciuta e
lodata da Jhering,339
per la chiarezza e la concisione della trattazione del
diritto privato. Gerber era dunque un privatista con una forte capacità
sistematizzante, dovuta alla confidenza con il metodo dogmatico, con il
procedimento, cioè, di enucleazione di concetti generali per progressiva
astrazione da fattispecie particolari. In eredità dalla Scuola storica allora
Gerber portava la forza dell'ordine, la logica del meccanismo.
“Innanzitutto si pone innegabilmente l'esigenza di una definizione
più rigorosa dei concetti dogmatici fondamentali. (…) Di poi però, mi
sembra, - ed è una cosa legata intimamente al primo punto — che sia una
necessità impellente costruire un sistema scientifico nel quale le singole
figure appaiano come lo svolgimento di un'idea unitaria fondamentale".340
Così la prefazione alla prima edizione dei Grundzüge, del 1865; ma la
necessità metodologica di mutuare le categorie privatistiche nel diritto
pubblico è già chiaramente espressa fin dal '52, e fu il motivo del maggior
successo di Gerber. “Ogni qual volta si cerchi di determinare con più
esattezza principi di diritto pubblico, si deve partire dal punto di vista del
diritto privato.”341
Ciò perché solo nel campo del diritto privato la
dogmatica era riuscita fino ad allora ad approdare ad un sistema compiuto,
in sé unitario, continua il Nostro, e poco oltre spiega: “Tuttavia quella
somma di concetti giuridici formali che nel diritto privato vengono
analizzati nella loro semplicità e purezza elementare, occorrono anche al
diritto pubblico ed esattamente nella stessa maniera".342
Tuttavia, quella
che potrebbe sembrare solo una proposta di metodo, rivela anche un
carattere prettamente di validità, quando non di efficacia. Infatti, anche se
i concetti di diritto pubblico si diversificano da quelli di privato per una
maggiore complessità che deriva dalla loro stessa natura, la commistione
di principi che è l'attuale diritto pubblico, “acquista validità se di seguano
gli stessi principi fondamentali d'interpretazione esatta e conseguente che
339 L'elogio di Jhering a Gerber per la sua attitudine alla dogmatica, nonché il
tentativo di dissuaderlo dal coltivare lo studio del diritto pubblico, sono contenuti in una
lettera del 6 aprile 1851, citata in M. FIORAVANTI, Giuristi e Costituzione politica
nell'Ottocento tedesco, cit., p. 194.
340 C. F. GERBER, Grundzüge des deutschen Staatsrechts, cit., p. 91.
341 C. F. GERBER, Über öffentliche Rechte, cit., p. 29.
342 C. F. GERBER, Über öffentliche Rechte, cit., p. 34.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
227
sono stati elaborati per il diritto privato".343
Non è azzardato rinvenire qui
il tema tanto caro a Savigny, che derivava la validità delle norme in
misura proporzionale alla scientificità dell'elaborazione che le aveva
prodotte; vedremo in seguito che Gerber riconoscerà dignità di diritto solo
a ciò che è durevole. Emerge però un carattere nuovo in questa versione:
l’autorità -intesa come cogenza, uso legittimo della forza- dello Stato
passa ormai in secondo piano, giacché non solo la scientificità
dell'elaborazione consente un'autorità che è validità sul piano normativo,
ma la vera validità deriva dalla sistematicità dell'elaborazione, per cui solo
un tal livello di elaborazione consente quella co-attività delle norme che
garantisce validità all'intero ordinamento. Non è errato, crediamo,
rinvenire qui la radice del sistema di coazione delle norme proprio del
realismo scandinavo prima, e del formalismo kelseniano, poi.344
La correlazione tra sistematicità di elaborazione scientifica e
capacità di farsi obbedire è esplicita nell'introduzione della terza edizione
dei Grundzüge, ma siamo già nel 1880: “Tal scienza, per la sua maggior
parte dei casi, non può, è vero, nelle sue formulazioni, porsi il fine di
giungere a proposizioni imperative, immediatamente vincolanti; può però
porre in risalto il contenuto etico — storico dei singoli istituti e dei
principi giuridici che ricorrono in ogni diritto pubblico particolare”.345
Ritorna qui un altro aspetto già incontrato: la derivazione delle norme dal
costume popolare interpretato dal legislatore, in altri termini l'eticità del
343 C. F. GERBER, Über öffentliche Rechte, cit., p. 34.
344 Cfr. In realtà, come si avrà modo di dire, il sistema di co-attività della norme
risulta tematizzato già da August Thon, quando concepisce il diritto quale complesso di
imperativi, in cui la violazione dell’uno produce la condizione per l’applicazione dell’altro.
La posizione appare diffusa in Germania ancora al principio del Novecento, tanto che il
Giovane Adolfo Ravà se ne imbeve, trasponendola nel suo Il diritto come norma tecnica,
Cagliari, 1911. Più interessante, anzi, del tutto peculiare, la spiegazione genericamente
metempirica che ne fornisce la Scuola di Uppsala, sui cui cfr. S. CASTIGNONE, Wilhelm
Lundstedt. Nuove ricerche sul realismo giuridico scandinavo, in “Materiali per una storia
della cultura giuridica”, 1972, 463-517, IDEM, La macchina del diritto. Il realismo
giuridico in Svezia, Milano, 1974; C. FARALLI, Diritto e magia. Saggio su Axel
Hägerström (Bologna, 1981), II ed. in E PATTARO (a cura di), Contributi al realismo
giuridico, Milano, 1982, p.5-170; nonché E. PATTARO, Il realismo giuridico scandinavo. I
Axel Hägerström, Bologna, 1974; e, altresì, G. TARELLO, Realismo giuridico, in
“Novissimo Digesto”, vol. XIII, Torino, 1966.
345 C. F. GERBER, Grundzüge des deutschen Staatsrechts, cit., p. 102-3.
DIE JURISTEN
228
popolo storicamente emersa dalla coscienza che fornisce la doverosità
delle norme.
Metodo dogmatico, sistemazione unitaria, aggiustamento degli
istituti di diritto privato che si possono mutuare ed essere utilizzati nel
pubblico, sistema scientifico che sia “lo svolgimento di un idea unitaria
fondamentale”, ecco le premesse metodologiche all'indagine,
comprensibili, vista la formazione del nostro autore.
Il primo concetto da enucleare, der Grund, è lo Stato: “Nello Stato
un popolo trova la disciplina giuridica della sua vita collettiva. In esso un
popolo giunge ad essere riconosciuto e a valere giuridicamente come
un'entità etica totale".346
Il potere dello Stato è la forza di volontà di un
organismo etico idealmente personificato. Codesta forza di volontà non è
un insieme artificiale e meccanico di molte volontà individuali, ma è la
potenza etica di un popolo giunto a coscienza di sé. “Il suo essere non
riposa su di una determinazione astratta né è il prodotto di creazione
altrui, ma è una forza di natura, inerente connaturata allo Stato, in quanto
questo è la forma sociale dell'umanità. Ciò significa che lo Stato ha una
sola volontà, capace di realizzare i compiti posti alla collettività in esso
organizzata e alla quale è sottoposto, in ogni suo membro tutto il
popolo".347
La struttura dello Stato è allora quale quella dell'individuo,
l'unicità data, che si manifesta, che è, in quanto una volontà. Tutto ciò
funziona a patto che non riemergano tendenze individualistiche o volontà
particolari che possano rovinare con secche dissonanze quell’armonia così
faticosamente raggiunta.
Ecco la soluzione per evitare la sottoposizione dello Stato a volontà
individuali. “Quello scopo, di evitare cioè che lo Stato sia sottomesso alla
volontà privata di un individuo singolo, si ottiene già, nel modo più
completo, accogliendo l'idea di organismo. Lo Stato è un organismo
morale che si muove, non come il meccanismo, ad opera di una forza che
gli stia al di fuori, ma in virtù del proprio principio vitale che in lui stesso
risiede principio vitale che non è naturalmente, localizzato in un unico
punto, ma che diviene operante per gli scopi dell'ente nella sua totalità
secondo la determinazione autonoma di ogni suo singolo membro; questa
forma di vita, però, propria dell'organismo, rende possibile un'ininterrotta
espressione e realizzazione della volontà generale nel suo tendere al
346 C. F. GERBER, Grundzüge des deutschen Staatsrechts, cit., p. 95.
347 C. F. GERBER, Grundzüge des deutschen Staatsrechts, cit., p. 110-1.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
229
perfezionamento della vita collettiva. Per questa concezione, al quale
trova adesso sempre maggiori riconoscimenti, lo Stato non è un oggetto
sottoposto dall'esterno al potere monarchico, ma non è neppure un
soggetto accanto al monarca, ma il monarca stesso è appunto uno (e
precisamente il più elevato) dei molti membri che trovano, all'interno
dell'organismo, il loro ruolo vitale".348
È appena il caso di rinviare alle
Lezioni di Erdmann, solo per verificarne la corrispondenza quasi alla
lettera. D’altronde è passato solo un anno dal corso del professore di
Halle.
Viene poi chiarito il concetto di personalità dello Stato, chiave di
volta di tutta la costruzione, che vide ancora una volta il plauso di Jhering,
per la distinzione di “organo” da “personalità giuridica”. Ma questo
concetto della personalità non è il concetto giuridico, cioè capacità di una
volontà volta a sottomettere a sé stessa un oggetto,349
bensì il concetto
etico dell'autocoscienza, dell'unità spirituale. “Solo in questo senso, e con
piena ragione, Stahl parla di una personalità politica dello Stato".350
Dalla
definizione di Stato quale concetto etico, non giuridico, prende inizio
quell'astrazione concettuale, anzi quel processo di astrazioni concettuali,
che consentiranno di dedurre tutto il diritto pubblico da un principio primo
non più criticamente verificato, che sarà successivamente attaccato, ma
non intimamente scosso, dalla teoria istituzionalistica. Anche lo Stato
come organismo è un concetto che appartiene al dominio dell'etica; il
diritto non l'ha soltanto chiamato ad esistenza mediante una forma
giuridica, ma lo presuppone già come esistente ed entra a determinarlo
soltanto aprendo una via adatta al movimento dei suoi membri secondo i
criteri propri dell'idea di organismo. “Ne deriva che per il diritto non c'è
nessun bisogno di determinare la natura giuridica dello Stato nel suo
complesso, anche se gli fosse davvero possibile creare una figura
348 C. F. GERBER, Über öffentliche Rechte, cit., p. 21.
349 Il concetto di personalità come volontà capace di compiere atti giuridicamente
rilevanti è uno dei corollari della già incontrata equazione tra essere e volere. Parimenti,
l’idea di capacità come volontà di sottomettere un oggetto è corollario della costruzione
dell’ordinamento sulla figura del diritto soggettivo, inteso come luogo assoluto della
volontà nelle obbligazioni e signoria sulla cosa nei diritti reali. Per questi aspetti cfr. infra
§ III.3.
350 C. F. GERBER, Über öffentliche Rechte, cit., p. 21.
DIE JURISTEN
230
appropriata con i mezzi a sua disposizione".351
Il concetto di Stato viene
subito posto tra parentesi, fondamento, ma non oggetto, dell'indagine del
diritto pubblico. Una volta scoperto che esso è per storica necessità, non
dipendente dalla volontà di alcuno e che, altresì, i singoli trovano in lui il
proprio completamento e realizzazione, ogni ulteriore indagine (pseudo)
filosofica può essere pericolosa perché foriera di disordini nel rigoroso
schema dogmatico. Sicché la lanterna della diuturna speculazione critica
deve essere spenta ed il concetto di Stato come comunità etica sovrana dal
quale svolgere le proprie deduzioni può essere posto sull’altare
secolarizzato perché in suo nome sia edificata nuova dottrina.
Ma quale esigenza informava la scelta di un tale concetto di Stato, e
qual è la sua operatività? La risposta per tabulas si trova nell'introduzione
del 1880 dei Grundzüge: “Nella personalità dello Stato si trova il punto di
partenza e il nucleo di tutto il diritto pubblico; dal riferimento ad essa
dipendono, al tempo stesso, la possibilità ed il criterio informatore di un
sistema scientifico, di un sistema ispirato ad un'idea unitaria.”352
Se l'unità
è allora la categoria del metodo, unitario è lo Stato, ne discende che il
popolo è l'essenza di cui lo Stato è manifestazione. Tale identità, ed ecco
la novità di Gerber, si rompe invece nel rapporto discendente, nell'ordine
dello Stato, che è diretto non al popolo in quanto tale, ma al singolo. “Ora,
mentre il popolo negli altri suoi rapporti con lo Stato appare come un'unità
spirituale in cui il singolo non risulta isolato, bensì appare come parte
integrante di una grande individualità etica collettiva che racchiude in sé
passato e presente, la costruzione giuridica del potere dello Stato si rivolge
invece al singolo cittadino in quanto tale".353
Ed in questo Gerber riprende
quel paradigma ascendente – discendente che abbiamo visto teorizzato da
Mohl e da Bluntschli, in virtù del quale la volontà non si manifesta più nel
momento ascendente di formazione dello Stato (frutto non del contratto,
ma delle necessità della storia), ma nel momento discendente di cogenza
sui singoli, cioè nell’emanazione di quegli speciali atti di volontà che
costituiscono la legge.354
351 C. F. GERBER, Über öffentliche Rechte, cit., p. 22.
352 C. F. GERBER, Grundzüge des deutschen Staatsrechts, cit., p. 97.
353 C. F. GERBER, Grundzüge des deutschen Staatsrechts, cit., p. 131.
354 Ma cfr. infra nota n. 524 per la concezione che vede il Volksgeist in ogni atto di
volontà dello Stato, tanto generale ed astratto quanto puntuale e concreto.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
231
Tanto dalle premesse metodologiche unitarie, quanto dalla delineata
struttura dello Stato, già si intuisce il ruolo e la struttura assegnati alla
rappresentanza: il ruolo e la struttura, nel senso che la seconda è costruita,
attagliata al primo, corollario alla definizione di Stato.
Ma vi è un secondo aspetto da mettere in rilievo: è giuridico solo
ciò che è stabile,355
i diritti pubblici saranno veramente tali e non
elargizioni sovrane o conquiste di rivoluzioni passeggere solo se
stabilmente fondati. Si noti la matrice privatistica di questo assunto, ma
anche la radice etimologica di jus come la situazione di normalità
necessaria per i sacrifici agli dei.356
Questa teoria giuridica della libertà, libertà che viene riguardata
dalla prospettiva del tutto (cioè dello Stato), non è altro che “la teoria dei
limiti giuridici che i poteri pubblici pongono a se stessi”357
: è il risvolto
soggettivo dei limiti legali delle competenze statali. È chiaro, però, che in
questo modo si nega la specificità della libertà come diritto fondamentale
dell’uomo. In una simile concezione il cittadino – è stato osservato - “si
trova come tracciata tutto intorno da codesta operazione autolimitatrice
una cerchia, ove egli può a sua volta autodeterminarsi, cioè muoversi e
agire a suo piacimento, manifestando quella credenza religiosa che più gli
piace, valendosi della stampa come meglio gli pare, associandosi con chi
355 “Solo quel diritto pubblico che può essere concepito come un diritto privato e
quindi può essere determinato in tutti i lati secondo il suo valore durevole, sarà considerato
dall'individuo, cui esso spetta, come un bene sicuro. Egli lo considererà come un
allargamento effettivo della sua sfera giuridica, e rivolgerà ad esso un interesse uguale a
quello che richiedono i diritti privati patrimoniali, specialmente nei casi in cui esso è
protetto dalla stessa difesa giuridica di quelli. I diritti pubblici campati in aria come tanti
principi astratti, senza una sede determinata nella sfera giuridica dell'individuo, e che
autorizzano ad agire solo ogni tanto, saranno considerati dall'individuo sempre come
qualcosa di non immediatamente legato alla sua personalità. Se poi la legislazione, nella
sua variazione sperimentale troppo rapida, si rivela oggi in una forma e domani in un'altra,
l'individuo si crederà certamente colpito politicamente, ma forse nemmeno sfiorato
giuridicamente." Cfr. C. F. GERBER, Über öffentliche Rechte, cit., p. 78.
356 Sull'indagine etimologica di jus che, attraverso la radice indoeuropea, porta
proprio allo stato di normalità, di regolarità, necessario per il sacrificio agli dei cfr. F.
GENTILE, Il giuramento. (Conversazione tenuta agli Allievi del 170° Corso dell’Accademia
Militare – Modena 9 marzo 1989), Modena, 1989, specialmente p. 5; nonché il ricco
studio di A. PIETRANTONI, Il giuramento. Storia, legge, politica, Roma, 1883.
357 Cfr. A. BALDASSARRE, Libertà (Problemi generali), in “ Enciclopedia Giuridica
Treccani ”, Roma, 1990, vol. XIX, p. 5.
DIE JURISTEN
232
crede e per i fini leciti che sarà per proporsi, e così via”358
. Ma in tale
cerchia, può ben osservarsi, il cittadino può fare un’infinità di altre cose,
anche passeggiare o sposarsi: le libertà individuali, che pur si vorrebbero
diritti soggettivi (anche se imperfetti), rimangono confuse ed
indeterminate nell’ambito di ciò che è genericamente permesso359
.
Quale che sia la «tenuta concettuale» della categoria dei diritti
riflessi, può osservarsi che la libertà (diritto soggettivo o effetto riflesso
del diritto oggettivo che sia) di cui si discorre è ancora, e solo, la libertà
negativa. E ciò ben si comprende se si considera l’ottica (imperativistica)
in cui ci sta muovendo: non esistono diritti soggettivi dei singoli, ma
esiste solo il diritto (oggettivo e sovrano) dello Stato, il quale può,
valutando le condizioni dei tempi e le aspirazioni dei sudditi, limitare la
propria sfera (virtualmente illimitata) del suo diritto sovrano. I diritti
soggettivi deriverebbero da questa “graziosa concessione”360
dello Stato
che si autolimita. Ma è chiaro che come (graziosamente) concede lo Stato
può anche (graziosamente) revocare.
In ordine alla teoria gerberiana dei diritti soggettivi pubblici già
Santi Romano avrà modo di osservare innanzitutto che, per comprenderne
al meglio il significato, occorre considerare il «clima culturale» in cui essa
nasceva.
L’enucleazione della categoria dei diritti pubblici soggettivi maturò,
infatti, nell’ambito di una reazione contro le dottrine del diritto naturale
che in Germania fu particolarmente potente e diffusa.
358 Cfr. F. RUFFINI, Diritti di libertà, II ed., Firenze, 1946, p.115. Un’osservazione
(forse superflua): gli esempi riportati da Ruffini non sono, chiaramente, scelti a caso. Essi
mirano a rendere evidenti le conseguenze che dall’applicazione della categoria dei diritti
riflessi deriverebbero ai tradizionali diritti soggettivi di libertà (di religione, di stampa, di
associazione).
359 Sarà, poi Romano a distinguere nell’ambito del lecito le libertà cd. materiali
(attinenti all’indifferente giuridico) dalle libertà giuridiche (attinenti ad attività
giuridicamente rilevanti): cfr. S. ROMANO, Principi di diritto costituzionale generale,
Milano, 1947, p. 114 e p.119. Precisiamo, fin d’ora, che per il giurista italiano le libertà
costituiscono diritti soggettivi pubblici veri e propri.
360Al riguardo osserva Ruffini che i cittadini tedeschi, alla luce della costruzione di
Gerber, non godono di un vero diritto subbiettivo alla libertà di coscienza, di stampa, di
associazione, o così via, ma possono credere in ciò che vogliono, associarsi come meglio
credono ecc. solo perché lo Stato, “bontà sua”, si astiene dal fare ciò che un tempo faceva,
ossia dal porre limitazioni all’esercizio di tali loro naturali libertà. Cfr. F. RUFFINI, Diritti
di libertà, cit., p.114.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
233
“Noi non crediamo d’ingannarci – scrive Romano – dicendo che
essa intese dimostrare appunto il contrario di ciò che (...) le teoriche di
diritto naturale sostenevano: come, cioè, non sia vero che gli individui
abbiano diritti propri, primitivi, autonomi e che lo Stato invece abbia quei
diritti che essi gli hanno graziosamente concesso, ma sia vero
l’opposto”361
.
Ed, infatti, la costruzione risulta adesso rovesciata: punto di
partenza della dottrina del diritto naturale era la libertà originaria e
sconfinata dell’individuo che poi, per effetto dannoso del sorgere dello
Stato, veniva compressa e limitata; punto di partenza è, ora, il rapporto di
sudditanza dal quale scaturiscono, come suoi effetti benefici, i diritti
pubblici dei cittadini362
.
Questi, quindi, i presupposti: per quanto riguarda più
specificatamente la presa di posizione di Gerber in ordine alla titolarità in
capo ai singoli di situazione giuridiche soggettive di vantaggio nei
confronti dello Stato, Romano afferma che, in generale, non sembra che il
giurista tedesco "neghi al cittadino qualunque diritto in senso
subbiettivo"363
.
A sostegno di tale affermazione il nostro giurista riporta alcuni
passi dell'autore tedesco che appaiono in tal senso particolarmente
significativi: "lo Stato con la soggezione e per mezzo di essa conferisce
contemporaneamente una quantità di diritti importantissimi, i civici e
specialmente i politici che, in certo qual modo, hanno carattere di
reciprocità (..) e ciò perché la soggezione in uno Stato libero e ben
ordinato non ha alcun altro scopo ed alcun altro effetto che quello di
procurare un'esistenza dotata di diritti civili e politici"364
.
In base a queste considerazioni Romano propone di interpretare
l'espressione «Reflexrechte» non nel senso che il Gerber abbia voluto
distinguere (e perciò contrapporre) i diritti riflessi ai diritti subbiettivi, ma
nel senso che con tale qualificazione egli abbia voluto sottolineare la
361 Cfr. S. ROMANO, La teoria dei diritti pubblici subbiettivi. Nozioni sistematiche,
Milano, 1897 (Estratto da Primo trattato completo di diritto di diritto amministrativo
italiano, a cura di V. E. ORLANDO, Milano, 1900, vol. I, p. 6.
362 Cfr. S. ROMANO, La teoria dei diritti pubblici subbiettivi, cit., p.6-7;
363 Cfr. S. ROMANO, La teoria dei diritti pubblici subbiettivi, cit., p.7.
364 Cfr. S. ROMANO, La teoria dei diritti pubblici subbiettivi, cit., p.7.
DIE JURISTEN
234
genesi di tali diritti, i quali quindi sono veri e propri diritti soggettivi dei
cittadini, ma non naturali ed originari, bensì riflessi, derivati dal diritto di
sovranità dello Stato.
Tuttavia, aggiunge il Nostro, nell'opera di Gerber si ritrovano,
indubbiamente, anche dei passi di carattere oscuro, nei quali sembra che
venga negata l'esistenza della categoria dei diritti pubblici soggettivi; ma,
si avverte, non bisogna mai dimenticare il carattere polemico dello scritto.
In conclusione sembra più esatto ritenere che "da queste ambiguità,
se non direttamente dalla teorica del Gerber, prese le mosse quella dottrina
che, più o meno recisamente, con più o meno scarse concessioni, è
arrivata alla conclusione che al cittadino non spettano diritti pubblici nel
senso subbiettivo"365
.
L'espunzione della personalità giuridica dal concetto di Stato,
impone che la sua organicità trovi una manifestazione, per cui tutte le
forze che nascono dalla vita dell'organismo statale, nella misura in cui
possono assumere la natura di diritti, devono necessariamente essere
riferiti alla natura del reggente. Soltanto in virtù di questo riferimento alla
personalità del popolo rappresentata dal re, il potere statale acquista
carattere giuridico".366
Il re agisce allora come rappresentante di tutto il
popolo, la sua volontà è la volontà generale, che però, si badi bene
“«volontà generale» o «volontà del popolo» non significano più
naturalmente la volontà della maggioranza dei singoli individui nel
popolo”.367
La critica delle posizioni individualistiche, disorganiche, si
riflette anche sul rapporto tra eletti ed elettori, in assonanza con
Bluntschli, distinguendo Medioevo da Modernità sulla scorta della
rappresentanza, della partecipazione del popolo. “E così anche la volontà
di quelle antiche rappresentanze feudali non era la manifestazione di un
vero organo nella comunità statale, ma solo quella di una somma di
365 Cfr. S. ROMANO, La teoria dei diritti pubblici subbiettivi, cit., p.8.
366 Cfr. C. F. GERBER, Über öffentliche Rechte, cit., p. 47.
367 Cfr. C. F. GERBER, Über öffentliche Rechte, cit., p. 50. A questo proposito, M.
FIORAVANTI, Giuristi e Costituzione politica nell'Ottocento tedesco, cit, p. 271, osserva
come l'identificazione di popolo e Stato, caratteristica della teoria organicistica, sia la
causa della difficoltà dell'attività parlamentare, poiché con essa “non si rappresentata
qualcosa di esistente al di fuori dello Stato, di fronte al quale, esso, nella persona del
monarca, debba rispondere", ma semplicemente l'aspetto popolare dello Stato stesso.
L'autore sembra qui usare il termine rappresentante nel senso individuato nella prima parte
di questo lavoro, in altre parole sembra riconoscere la struttura dualistica della volontà.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
235
individui privilegiati, i quali facevano valere i loro diritti non entro e per
l'organismo statale, bensì in una posizione privata all'infuori di questo.
Così si verificava che i deputati non tanto avvaloravano il diritto proprio,
quanto quello dei loro mandanti dietro istruzioni. Ed è abbastanza
singolare che quest'ultimo rapporto, addirittura contrastante col carattere
del diritto pubblico delle moderne istituzioni parlamentari, riappare di
nuovo nelle discussioni sulla posizione degli elettori verso gli eletti, in
quanto anche qui si vuole riconoscere la base dello Stato non nel popolo
come insieme nazionale, ma in una somma di individui (e cioè di tutti) del
popolo stesso secondo il calcolo puramente aritmetico".368
La reazione
all'egalitarismo matematico di Sieyès non potrebbe essere più netta. Il
salto logico si annida dunque nel porre in relazione popolo — mandato
libero / individui — mandato imperativo. Anche non criticando, anche
accettando l'idea che il popolo sia un'unità (assunto non privo di aporie),
non per questo si supera l'esigenza di responsabilità, la verifica della
rispondenza di quanto fatto dagli eletti con quanto è volontà o interesse
(non vale qui distinguere) del popolo. Verifica che vi può essere solo nel
dualismo rappresentativo, qui superabile solo con la finzione che lo Stato
è la voce del popolo, asserto ancora una volta non verificabile, non avendo
il popolo altra forma di manifestazione che lo Stato. Ecco quello che si
intendeva quando si è detto che la rappresentanza ha in sé una valenza
critica, permette un'indagine dialettica, è spia di dualismo, di negazione
dell’unicità della sovranità.
Come in Erdmann, anche in Gerber vi è un cedimento, un dubbio
sull'asserita assoluta corrispondenza tra quanto interpretato dallo Stato e
quanto proprio del popolo. Se Erdmann in modo ottimistico sorvola sulla
questione, ritenendo che il legislatore sappia autocorreggere i propri errori
di interpretazione del Volksgeist, Gerber, avendo negato che il popolo
possa avere diretta capacità legislativa, incrina la sistematicità della
trattazione e spezza l'Einheit der Rechtsordnung, quando afferma: “Solo
questo è giusto, che atti dello Stato che in sé non sarebbero giuridicamente
validi, possono venire sanati con successivo riconoscimento da parte del
popolo. La sottomissione ad un tale atto del popolo nel suo complesso
(specialmente attraverso i suoi rappresentanti) è un rimedio, la cui
368 Cfr. C. F. GERBER, Grundzüge des deutschen Staatsrechts, cit., p. 73. Alla
stessa pagina, in nota, si legge: “Gli elettori non hanno i diritti che la Costituzione
conferisce ai deputati. Questo errore riveste spesso l'affermazione che il deputato esercita
soltanto i diritti degli elettori; tale errore si basa sulle teoria della sovranità popolare."
DIE JURISTEN
236
efficacia può essere valutata solo in relazione al caso singolo".369
In altri
termini, quello che lo Stato ha rinvenuto come costume del popolo e
trasformato in legge, deve essere verificato nella sua rispondenza al vero
dal popolo stesso, in questo caso non rappresentato dallo Stato, inteso
come rappresentato chiamato a ratificare l'opera del rappresentante.
L'assunto non è privo di contraddizioni. Quanto abbiamo appena
esposto cade, l'Einheit si spezza, ammettendo che vi sia un'entità popolo
diversa da quella rappresentata nello Stato, capace di manifestarsi in modo
giuridicamente rilevante, esternando atti di volontà. Se si prevede il caso
di un ricorso diretto al popolo per sanare un atto dello Stato, si riconosce
in esso il fondamento della potestà legislativa primaria. Anche le stesse
espressioni testuali di Gerber appena citate ricordano molto la ratihabitio
del mandante, giustificano un sindacato del popolo sull'operato
dell'organo legislatore, negando l'identità, o quanto meno il supposto idem
sentire et velle, di Stato e popolo.
Riconoscere al popolo capacità di volontà e rinvenirvi la fonte
prima del potere legislativo, vuol dire porlo come organo primario dello
Stato, da cui deriva il legislatore, organo secondario. Questa è infatti la
costruzione di Georg Jellinek, ma prima di lui nel dibattito interviene Paul
Laband.
369 Cfr. C. F. GERBER, Grundzüge des deutschen Staatsrechts, cit., p. 108.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
237
3.3.3 Volere è essere: Paul Laband
PREMESSA: RADICI HEGELIANE NELL’OPERA DI LABAND - NEGAZIONE DEL CARATTERE
RAPPRESENTATIVO IN SENSO GIURIDICO DEL REICHSTAG – IRRILEVANZA DEL MOMENTO
ELETTORALE - RAPPRESENTANZA E DIVISIONE DEI POTERI – RAPPRESENTATIVITÀ DEL KAISER
– DEDUZIONE DELL’ESISTENZA DI UN SOGGETTO (IL POPOLO) DALLA SUA CAPACITÀ DI
ESTERNARE ATTI DI VOLONTÀ GIURIDICAMENTE RILEVANTI: LA VOLONTÀ COME SPETTRO
DELLA PERSONALITÀ – CONCLUSIONE: RETTIFICHE E MUTAMENTO DI PROSPETTIVA
NELL’ULTIMA PARTE DELL’OPERA DI LABAND.
Prima di lasciare Gerber però occorre mettere in rilievo un aspetto a
cui si è già fatto riferimento: "Il sistema di diritto privato è un sistema di
facoltà giuridiche che poggiano sulla capacità di volere della persona
individuale umana (o di una personalità su di essa modellata). Anche il
diritto pubblico è un sistema di facoltà di volere, basato però sulla
capacità, rivestita della personalità, del popolo politicamente unito".370
Si
tratta dell'esposizione precisa di quella correlazione tra essere e volontà
con cui ci siamo congedati dagli Epigonen, l'assunto cioè che nel mondo
del diritto in tanto un soggetto è, in quanto possa concretamente volere. Se
fino ad allora tale equazione era rimasta nell'ambito del diritto privato, ora
viene introdotta nel pubblico, dove trova fertile terreno, essendo in
sintonia con le proposizioni già mutuate in quest'ambito. Si è detto di
come Gerber, rinvenendo in capo al popolo la capacità di approvare le
leggi, di sanare gli atti invalidi, in questa stessa opera, gli riconosce
capacità volitiva, e con questo, esistenza. La conseguenza, lo si è visto, è
la rottura dell'unità dell'ordinamento. Se il popolo vuole, il popolo è; e se
vuole al di fuori, oltre le forme dello Stato, è fuori, altro dallo Stato. È
appena il caso di notare come per lo Stato valga lo stesso ragionamento,
che ne giustifica l'esistenza: lo Stato è perché gli si riconosce una volontà.
Lo Stato è perché gli si attribuisce un volere, autonomo e distinto dal
volere, naturale, fisico, dei soggetti che lo compongono. Se il
370 Cfr. C. F. von GERBER, Grunzüge des deutschen Staatsrechts cit., p. 97 nota 5.
Il passo continua così: "Il suo punto di partenza non è una potestà di volere libera in tutte
le direzioni, com'è la personalità umana, ma è una capacità di volere tale, che si può
muovere soltanto entro l'ambito di fini determinati. La sua volontà giuridicamente è il
dominio, cioè attività giuridica svolta nell'interesse e per gli scopi propri dello Stato e
dotata di un'efficacia vincolante per tutto il popolo. Altre ragioni a fondamento di questo
sistema risulteranno dalla trattazione speciale dell'argomento. La sua idea centrale si trova
già in passato, ma non fu mai sviluppata e considerata nel suo giusto valore." É appena il
caso di notare come l'opera da cui citiamo sia del 1880, quattro anni dopo il primo volume
della prima edizione dello Staatsrecht di Laband.
VOLERE È ESSERE: PAUL LABAND
238
ragionamento dogmatico impone di dare esistenza solo a chi
giuridicamente vuole, in modo che è considerato soggetto di diritto chi
può emanare atti di volontà, non si dovrebbe fare riferimento, non si
dovrebbe avere in considerazione il criterio empirico, cioè ritenere
esistente ciò che fisicamente è. Quando Gerber considera esistente e
volente il popolo fuori dallo Stato, commette un duplice iatus logico: da
un lato perché aveva definito lo Stato come forma (la sola) di
manifestazione del popolo, mentre poi ammette che il popolo possa
approvare le leggi fuori dallo Stato. Dall'altro perché se aveva definito la
Stato dogmaticamente come forma (la sola) di manifestazione del popolo,
non può poi riconosce fisicamente che il popolo possa approvare le leggi
al di fuori dello Stato, in sostanza che abbia una volontà perché
naturalmente esiste. Se fino a quel momento ha dedotto l'essere dalla
volontà convenzionalmente assegnata ad un concetto, lo Stato nei suoi
organi, al contrario poi deduce la volontà del popolo dalla considerazione
empirica che questo esiste naturalmente. Vi è in sostanza un mutamento di
criterio logico: dal procedimento di deduzione dogmatica dal principio
che il popolo si realizza nello Stato, si passa all'osservazione fisica,
sociologica si sarebbe detto allora con disprezzo, che il popolo esiste al di
fuori dello Stato. Se prima egli rinviene l'essere nel volere, poi riconosce il
volere nell'essere; se fino a quel momento aveva dedotto dal principio
giuridico a fondamento della sua teoria, che in tanto si è in quanto si
vuole, successivamente riconosce che il popolo in tanto vuole poiché, de
facto, è. Che tale mutamento sia arbitrario o sia invece la riconosciuta
insufficienza del metodo dogmatico nella sua incapacità di spiegare il
manifestarsi dei fatti, questo è un altro problema. Resta la considerazione
che così facendo Gerber contraddice una terza volta la sua teoria.
Ammettere l’essenza empirica - naturalistica del popolo, vuol dire
riconoscere la sua volontà costituita da volontà individuali, il suo essere
una somma di singoli ad onta dell'unità del popolo derivata da un lato
dalla Scuola Storica, e dall'altro dall'insegnamento degli Epigonen. Si è
già detto di come le concezioni della storia delle due scuole, all'origine in
fiera opposizione, siano venute gradatamente amalgamandosi, tanto che
ogni distinzione è superata già nei primi anni Cinquanta del secolo XIX. Il
popolo è uno, da un lato per storica comunanza di lingua usi e tradizioni,
che ne costituiscono il Geist, dall'altro per la pietas, "l'attaccamento alla
patria", che lega i suoi membri per quanto riguarda gli affari pubblici; allo
Stato il compito di interpretare il Volksgeist, e di guidare il "patriottismo".
L'osservazione che esiste un popolo manifestantesi al di fuori dello Stato,
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
239
nega il principio primo per cui ogni cittadino non può avere nel campo
pubblico, un interesse diverso da quello dello Stato; in altri termini
ripropone le individualità, fittiziamente (in quest'ottica) sussunte nello
Stato. Uscito dalla costruzione unitaria per progressive astrazioni, il
popolo si frantuma nei mille rivoli degli individui. Contraddetta
l'Aufhebung del cittadino nello Stato, la stessa giustificazione
dell'obbedienza alle leggi cade, non rimane che il potere. Occorre allora,
per avere una teoria ordinata, risuscitare l'Einheit, negare la realtà
empirica del popolo (pericolosa somma di individui), negare che il popolo
abbia delle volontà. Ma questo è nient'altro che l'insegnamento di Paul
Laband.371
Se in Gerber si poteva ancora rinvenire una traccia di dualismo, per
considerazioni naturalistiche, un popolo di fronte allo Stato, Laband è
perentorio: "Das gesamte deutsche Volk hat keine vom Deutschen Reiche
verschiedene und ihm gegenüber selbständige Persönlichkeit, ist kein
Rechtssubjekt und hat juristisch keinen Willen; es ist daher außer Stande,
eine Vollmacht oder einen Auftrag zu erteilen und Rechte oder
Willensakte durch Vertreter auszuüben. Eine positive, juristische
Bedeutung hat die Bezeichnung der Reichstagsmitglieder als Vertreter des
gesamten Volkes daher nicht; im juristischen Sinne sind die
Reichstagsmitglieder niemandes Vertreter".372
371 Paul Laband, nato a Breslau nel 1838, addottoratosi nel 1858, insegnò nelle
università di Königsberg, Heidelberg e Strasburgo, l'università voluta dal Kaiser. Tra le sue
opere, ai nostri fini, ricordiamo: Beiträge zur Kunde des Schwabenspiegels, Berlin, 1861;
Das Magdeburg Breslauer Systematische Schöffenrecht, Berlin, 1863; Die "jura
Prutesorum", Königsberg, 1866; Die Magdeburger Rechtsquellen, Königsberg, 1869; Das
Budgetrecht nach den Bestimmungen der preusischen Verfassungsurkunde, Berlin, 1871;
Das Staatsrecht des Deutschen Reiches, in 4 voll., Tübingen, 1882 (ma il primo volume è
del 1876); a nostra disposizione sono la seconda edizione, in 2 voll., Freiburg, 1888; la
quinta edizione in 4 voll., Tübingen, 1911; nonché Deutsches Reichsstaatsrecht, settima
edizione, Tübingen, 1919, ristampa Aalen, 1969.
372 P. LABAND, Das Staatsrecht des Deutschen Reiches, il passo si ritrova identico
nella seconda ed., Freiburg, 1888, I° vol. p. 274, dalla prima riga, nonché nella quinta ed.,
Tübingen, 1911, I° vol. p. 296.Tuttavia M. FIORAVANTI (op. cit., p. 343) cita parte di
questo passo dalla prima ed. Tübingen, 1876, rinvenendolo a p. 503.
Propongo la seguente traduzione: "L'intero popolo tedesco non differisce
dall'Impero tedesco [si noti come Laband usi Reich e non più Staat: il 1870 è già passato] e
non ha nei suoi confronti una personalità indipendente, non è nessun soggetto di diritto e
giuridicamente non ha alcuna volontà; ne consegue che dalle classi [Stände] tramite il
rappresentante non deriva un mandato o una commissione da trasmettere, diritti o atti di
volontà. La configurazione del Parlamento come rappresentante di tutto il popolo non ha
VOLERE È ESSERE: PAUL LABAND
240
L'assunto non potrebbe essere più preciso e fin da subito Laband
coglie il nodo essenziale: il popolo deve manifestarsi giuridicamente solo
nello Stato. Tuttavia la soluzione proposta è molto più compromettente, la
portata dell'assunto, più radicale. Realizzate le difficoltà di sussumere il
popolo nello Stato, di ricomprenderlo nell'Einheit der Rechtsordnung, il
giurista di Strasburgo ne nega la giuridica esistenza, la volontà
giuridicamente rilevante. L'errore di chi l'ha preceduto, secondo Laband, è
stato quello di mantenere l'ambiguità di due soggetti, di cui uno
manifestazione dell'altro. Giuridicamente ciò è inconcepibile, poiché,
come insegna lo stesso Gerber, in tanto giuridicamente un soggetto è, in
quanto vuole. Ora non è possibile ammettere un soggetto che non vuole,
che non è se non manifestandosi attraverso un altro soggetto. Sicché delle
due l'una: o entrambi i soggetti vogliono e giuridicamente esistono, o si dà
un solo soggetto giuridicamente rilevante, e allora il resto non compete
all'indagine del giuspubblicista. È un fatto che la costituzione esiste e da
ciò Laband può occuparsi solo dello Stato; considerazioni "sociologiche"
sui sentimenti del popolo gli sono estranee. Più precisamente la volontà
popolare rileva solo in quanto è volontà dello Stato, cui giuridicamente il
popolo non è distinto. Tutte le pericolose evoluzioni che da Rosenkranz
attraverso Erdmann, Ahrens, Bluntschli, fino a Gerber, abbiamo visto
compiere per giustificare lo Stato come manifestazione giuridica del
popolo, per fondare la volontà dello Stato sulle esigenze, sulle richieste
del popolo, con Laband vengono tagliate di netto. Mantenere un popolo
distinto dallo Stato non solo è pericoloso, ma è anche errato. Occorre
stabilire con precisione infatti chi abbia la titolarità formale di produrre le
norme, che poi queste siano rispondenti o meno al Volksgeist, problema
che aveva affaticato Erdmann, Bluntschli e Gerber, per Laband non è
questione giuridica, essenziale rimane stabilire la fonte della legge, che
per definizione deve essere unica. Qual è allora la funzione del Reichstag,
e quale la sua struttura? Sicuramente non quella di rappresentare qualcosa
che non c'è. Il Reichstag è invece un organo dello Stato. "Oder mit
anderen Worten: eine Volksvertretung ist der Reichstag nicht mit
Rücksicht auf seine Bildung und Zusammensetzung. [Der Reichstag leitet
seine Befugnisse nicht aus dem Willen der Wähler, sondern unmittelbar
aus der Verfassung und den Gesetzen des Reiches ab; sie stehen ihm im
vollen Umfange zu, auch wenn er sich im offenen Widerspruch mit der im
alcun significato giuridico, positivo; in senso giuridico i membri del Parlamento non
rappresentano nessuno".
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
241
Volk herrschenden Stimmung befindet; der Reichstag ist nicht ein
Repräsentant oder Delegatar irgend welcher Wählerschaften, Parteien
oder Bevölkerungsgruppen und seine Befugnisse sind vollkommen
unabhängig von dem Willen der Wahlberechtigten.] Hieraus ergibt sich,
daß die Reichstagsabgeordneten an Instruktionen und Aufträge nicht
gebunden sind, daß sie weder ihren Wählern noch dem Vorstand einer
Partei oder Fraktion rechtlich Rechenschaft schuldig sind für die
Ausübung ihrer öffentlichen Befugnisse und deshalb auch nicht zur
Verantwortung darüber gezogen werden können, ferner daß ihnen die
Mitgliedschaft im Reichstage von ihren Wählern nicht entzogen werden
darf, daß sie gegen ihre Wähler keine Ansprüche auf Ersatz von Kosten
und Auslagen haben u. s. w.".373
Il Parlamento non rappresenta allora un'entità che non c'è, ma
riposa direttamente sulla costituzione, ogni interferenza esterna, ogni voce
extraistituzionale, è rigorosamente espunta. Al modo di Sieyès la Nazione,
o meglio, l'Impero, non può volere che tramite i suoi organi. La Nazione
non ha volontà se non quelle dell'Assemblea nazionale (cfr. supra § II.4).
Tuttavia un principio fondamentale separa i costituenti francesi dai
docenti tedeschi: la divisione dei poteri, e ancora una volta bisogna
ritornare a Hegel. Se coi Contributi per la rettificazione del giudizio del
pubblico sulla Rivoluzione francese, di Fichte, ancora non si vede la
373 P. LABAND, op.cit., citiamo dalla quinta ed., p. 297-8, avvertendo che la parte
racchiusa in parentesi quadre, non figura nella seconda ed., p. 275; tuttavia M. FIORAVANTI
(op.cit., p. 344) ne riporta il primo periodo (fino a "Reiches ab") citando dalla prima ed.
del 1876, p. 504, di cui non dispongo. Deve però rilevarsi che la seconda ed., a differenza
della prima, è in soli 2 voll.; può darsi che il periodo espunto nella seconda e più compatta
edizione, riappaia nelle successive: ricordiamo che del 1900 è l'intervento critico di
Jellinek e un tanto può giustificare la necessità sentita da Laband di riproporre con forza la
propria posizione. Propongo questa traduzione: "Oppure in altre parole, il Parlamento non
è una rappresentanza popolare, con riguardo ai suoi diritti e doveri, ma solo riguardo alla
sua formazione e nomina. [Il Parlamento esercita i suoi poteri non dalla volontà elettorale,
ma al contrario immediatamente dalla costituzione e dalle norme positive dell'Impero. Esse
lo sostengono in tutta la sua ampiezza, anche quando si trova in aperto contrasto con
l'opinione dominante del popolo; il Parlamento non è un rappresentante o un delegatario di
qualsivoglia gruppo elettorale, partito o movimento e i suoi poteri sono assoluti, non
sottomessi al volere dell'elettorato.] Da tutto ciò deriva che le Camere non sono vincolate
da istruzioni e ordini, così che non devono rendere conto giuridicamente né verso gli
elettori, né verso la direzione di un partito o gruppo, per l'esercizio dei loro pubblici poteri
e perciò non possono essere ritenute responsabili, né la deputazione del Parlamento può
essere revocata dal corpo elettorale e i loro elettori non hanno alcun diritto di indennizzo
per costi o esborsi e così via".
VOLERE È ESSERE: PAUL LABAND
242
carica dirompente del principio di Montesquieu, sarà il Maestro di Berlino
ad indicarne una volta per tutte, l'intrinseca contraddittorietà con ogni
forma di Stato (ovviamente, etico hegeliano). Si intenda; non bisogna
confondere divisione dei poteri con articolazione degli organi: la prima,
dovuta al Secondat, mira a frenare lo strapotere del sovrano per renderlo
meno pericoloso ed arbitrario, fondendosi con la tradizione inglese dei
checks and balances; la seconda, conosciuta e prevista anche da Hegel,
tematizzata dagli Epigonen (in particolar modo da Rosenkranz) e
sviluppata dagli Staatslehrer, concorre alla formazione dello Stato etico:
basti ricordare il rapporto corpo/membra di Erdmann. È tuttavia appena il
caso di notare, come la divisione dei poteri giunga in Germania solo con
Weimar, e anche allora strenuamente osteggiata. Tale principio, e da
questo la supremazia del legislativo, veicolano la rappresentanza
nazionale, e con questa presuppongono il contratto che è alla base dello
Stato. Erdmann si dice avversario dello Stato di diritto, Rosenkranz e
Gans, da parte loro, ricordano la polemica del loro Maestro con Rousseau
(cfr. supra § II.3.1). La costruzione dello Stato etico prevede il
superamento necessario dell'individuo nello Stato, come necessità storica
e logica, cui si oppone il contrattualismo, ove le singole individualità
permangono, anzi escono rafforzate dal contratto, avendolo concluso
proprio in vista del mantenimento della loro specifica individualità. In
altri termini allo Stato etico si contrappone lo Stato mezzo, garanzia del
singolo. È appena il caso di precisare come la stessa necessità dello Stato
etico prevedesse e volesse la salvaguardia dei suoi membri: lo Stato come
luogo dell'Eticità indica proprio la necessità di una convivenza non solo
de jure. Voler contrapporre in questa sede Stato etico, inteso come salus
rei publicae suprema lex, e Stato garantista come Stato mezzo, sarebbe
fuorviante.374
374 Faccio riferimento alle categorie di L. FERRAJOLI, Diritto e Ragione, Roma –
Bari (1989) III ed., p. 895 e ss. Completamente diversa, ancora una volta, l’esperienza
americana, ove l’ampiezza del territorio, unitamente alla varietà di razze, costumi,
confessioni, produce un’eterogeneità di interessi che non consentono di aggregare
maggioranze se non su aspetti fondamentali, immediatamente percepibili. La società
dovrebbe venire così garantita dalla possibilità di soggiacere a minoranze faziose, secondo
l’aspirazione illuministica del Federalist. Proprio per questo la tradizione (se così si può
dire) americana ha recepito massimamente la pratica dei checks and balances, pur
nell’ossequio formale del padri rivoluzionari alle dottrine del Secondat. Hannah Arendt,
attenta studiosa della sua patria d’adozione, parla infatti di un equilibrio più che di una
divisione di poteri: cfr. H. ARENDT, On Revolution, New York, 1963, trad. it., Sulla
rivoluzione, Milano, 1983, p. 171, n. 23. È da dirsi, comunque, che non può esservi
equilibrio se non v’è divisione e che, anzi, la divisione dei poteri era stata tematizzata
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
243
Non va dimenticata anche la radice del Volksgeist di Savigny, che
ritenendo il (solo) diritto privato come espressione degli Sitten di un
popolo, storicamente sedimentatesi, assisterà passivamente all'estensione
da parte dei suoi allievi, Lorenz von Stein e Carl Friederich von Gerber in
primis, di questo stesso principio anche nel diritto pubblico.
Alla divisione dei poteri si contrappone allora l'unità del governo,
alla prevalenza del legislativo si contrappone la continuità e regolarità
dell'esecutivo. Compito delle Camere è quello di consigliare, ratificare ed
approvare, quelli che comunque sono atti del governo, inteso come
l'insieme di Camere, amministrazione e Re, che parla per bocca del
sovrano. Il Parlamento, sostiene Laband, non è un organo particolare, se
non nella formazione, che è elettorale, ma non per le funzioni e i poteri
che, come ricordato del passo citato sopra, derivano direttamente dalla
costituzione e su di essa riposano. Solo per questo Laband deduce che non
vi può essere sindacato sull'opera del Reichstag nel suo complesso, né dei
suoi singoli membri; ogni funzione popolare cessa il giorno delle elezioni:
rimandare a Rousseau sarebbe superfluo.
Che Laband tenda a giustificare l'esistente cercando di congiungere
giuridico con statuale è considerazione tralatizia,375
ma in questo senso la
prima tendenza risale ai tentativi di codificazione, dove si cerca di definire
diritto solo quello promanante da norme positive, in antitesi con la ratio
scripta dello jus commune.
proprio per assicurare l’equilibrio tra le diverse componenti fondamentali dello Stato.
L’equilibrio può assumere forse particolare rilevanza nell’esperienza d’oltre oceano ove i
tre fondamentali poteri hanno tutti formazione elettiva: quest’aspetto affatto singolare,
soprattutto per quanto attiene il potere giudiziario, esclude quella primogenitura del potere
legislativo che ha sempre tentato di reclamare i propri diritti nel vecchio continente,
ottenendo una sorta di riconoscimento di immediato riflesso della sovranità popolare. Ove
invece il potere esecutivo riceve la propria investitura con un distinto atto di scelta
popolare, così come il titolare dell’azione penale, riflettendo tutti la stessa sovranità
popolare, prende particolare rilevo l’esigenza di equilibrio.
375 Cfr. M. FIORAVANTI, Costituenti cit., p. 345. È superfluo notare come, secondo
l’impostazione che abbiamo proposto nel legame tra Epigonen e Juristen, questa tendenza
sia frutto di un’altra malcelata radice hegeliana più che dell’esperienza codicistica
napoleonica che, pur avendo fatto proseliti tra i privatisti (Thibaut), nella sua brevità aveva
lasciato nuovamente la Germania sotto il vigore del Corpus Juris per altri ottantacinque
anni. In realtà, proprio la mancanza di un monopolio della produzione normativa in capo al
Kaiser richiedeva di congiungere giuridico a statale secondo la più volte citata dialettica
del Volksgeist, che serviva così anche a giustificare il suolo del sovrano.
VOLERE È ESSERE: PAUL LABAND
244
Più interessante, per i nostri fini, il paragone con il maestro del
formalismo, Hans Kelsen. Soprattutto in tema di rappresentanza, la
posizione dei due sembra essere identica. La già citata battuta di Kelsen
che la rappresentanza parlamentare è una finzione, scaturisce da una
serrata analisi del dato giuridico costituzionale, che ha come punti cardine
l'irresponsabilità, il divieto di mandato imperativo, l'impotenza del
rappresentato. Si è già messa in evidenza la consequenzialità logica di
Laband, e con lui, di Kelsen, nell'istituto esaminato. Descrittore puntuale
dell'esistente, non meno che giusprivatista raffinato, di solida formazione
romanista. Laband si rende conto che "giuridicamente" non ricorrono i
termini, gli elementi della rappresentanza, tra popolo e Reichstag; e si
deve a questa considerazione la necessità sentita di aggettivare
convenientemente il sostantivo, producendo così quell'espressione,
"rappresentanza politica", che denota tutto l'imbarazzo di una questione
irrisolta. Si apre la strada alle indagini, soprattutto americane, degli ultimi
cinquant'anni, tendenti a giustificare una rappresentanza che non c'è, con i
continui distinguo tra situazione e rapporto per non essere ricompresi in
toto nell'una o nell'altro.
Un'ultima similitudine accomuna tuttavia il giuspubblicista di
Strasburgo e il teorico generale praghese: l'attenzione alla forma, intesa
come procedimento di formazione delle norme, nella ricerca di una
purezza di metodo, che ancor oggi a Laband viene fatta risalire.376
Più che
coniugare giuridico con statuale, das Staatsrecht tenta di identificare
giuridico con governativo, laddove un atto del Kaiser è tale anche pur
dovendo essere approvato dal Reichstag ed anche nell'ipotesi in cui
l'approvazione venisse a mancare. Ricordiamo che il Kaiser, al pari del
Ministero o del Parlamento, è un organo statuale e per ciò stesso
rappresentativo del popolo che con lo Stato è così felicemente unito, tanto
376 La teoria di Laband ha avuto largo seguito non solo in Germania, ma anche in
Italia, fino al secondo dopoguerra, specialmente per quanto riguarda l’aspetto organico,
cioè il tratto più originale del pensatore di Strasburgo, dalla cattedra, cioè, istituita dal
Kaiser appositamente per lui. Fra gli altri, si segnalato O. RANELLETTI, Istituzioni di diritto
pubblico, XV ed, Milano, 1955, p. 70 e ss.; R. LUCIFREDI, La nuova Costituzione italiana,
Milano, 1952, p. 47; E. CROSA, Diritto costituzionale, IV ed., Torino, 1955, p. 43, 65 e
192; C. CERRETI, Corso di diritto costituzionale italiano, III ed. Torino, 1953, p. 168, 329 e
ss.; P. VIRGA, Diritto costituzionale, III ed. Palermo, 1955, n. 26; A.M. OFFIDANI, La
capacità elettorale italiana, Milano, 1953, p. 102 e ss.; U. PROSPERETTI, L’elettorato
politico attivo, Milano, 1954, p. 65 e ss; C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, II ed.,
Padova, 1952, sui cui amplius infra, III.4.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
245
da non aver rilevanza propria. Ma vi è di più: a differenza del Parlamento,
organo di limitate competenze, Re e Governo costituiscono l'Haupt dello
Stato e per questo, in base ai principi esposti, possono essere considerati i
veri rappresentanti dello Stato e, per suo tramite, del popolo.377
Tuttavia, a ben considerare, il limite di Laband consiste proprio in
questo: la tradizione di cui si appropria e che porta a svolgimento, si basa
sulla storicità dello Stato come presa di coscienza di un popolo, radici
hegeliane che vediamo ancora ben presenti in Gerber. Laband le taglia,
ma così facendo si priva del solo motivo che giustifica l'identità tra Stato e
popolo. Per garantire meglio (più dogmaticamente) l'Einheit, Laband nega
rilevanza giuridica alla figura del popolo, ma si priva con ciò di ogni
giustificazione filosofica dello Stato, esponendosi alle critiche di
concettualismo, meccanicismo, mosse poi da Jellinek.
In altre parole la ragione dell'obbedienza alle leggi e il principio
dello Stato come evoluzione storica del popolo, camminano di pari passo,
fondandosi sul delicato equilibrio fra singolo, popolo e Stato. Da un lato si
potrebbe sostenere che comunque lo Stato è storicamente la necessaria
Aufhebung del cittadino, per cui la semplice descrizione dello Stato,
qualunque esso sia, racchiude in sé l'obbedienza al comando, ma dall'altro
si sono viste le difficoltà e le precisazioni che l'Hegel di Rosenkranz
indica esponendo il rapporto tra gli organi nei suoi progetti costituzionali,
"avendo sotto gli occhi la costituzione inglese". Di qui che, se può
sembrare di poter dedurre dalla necessità storica del superamento -
assorbimento del singolo nello Stato la tesi che questo è comunque etico,
d'altra parte, l'attenzione che Hegel pone nella ricerca dell'equilibrio tra gli
organi, può essere intesa come indice di non automaticità dello Stato
etico, pur dovendo il singolo obbedienza alla legge in quanto tale. In ogni
caso, si potrebbe dire che Laband mini lo stesso terreno sul quale ha
elevato la propria costruzione. Tutto il valore dello Stato era dato
dall’identità di volontà con il popolo. Si può assorbire il secondo nel
primo, come pure era stato fatto fino ad allora, ma non può essere espunto
dal sistema giuridico e cancellato dal movimento dialettico, pena una
pericolosa contrapposizione tra governanti e governati in cui la sola
377 È appena il caso di ricordare le difficoltà degli autori che stiamo trattando nel
qualificare la figura del Re. Il problema nasceva dal dubbio se ritenerlo organo dello Stato
o superiore a questo e che prerogative assegnarli. Al proposito si confrontino le opere di
Laband e di Gerber citate, nei capitoli che riguardano il Monarca.
VOLERE È ESSERE: PAUL LABAND
246
legittimazione dei primi si riduce alla forza.378
In questo modo si perde
ogni eredità hegeliana. Si è visto proprio all’inizio di questo capitolo ed
anche al § I.2., come il Maestro di Berlino avesse assegnato un ruolo di
mediazione alla rappresentanza, indicando con precisione le conseguenze
deleterie di un suo inceppamento nella pericolosa contrapposizione tra
monarca ed articolazioni della Società civile. E non è un caso, allora, che
funzione mediatrice della rappresentanza (tra rappresentante e
rappresentato) e posizione mediana della società civile nella dialettica
hegeliana (tra famiglia e Stato) si muovano di pari passo, la crisi della
prima essendo null’altro che l’eclissi della seconda ad opera di Epigonen e
Juristen, avviando quella rincorsa al recupero di entrambe, che non appare
ancora terminata.
Un'ulteriore osservazione merita di essere fatta. Nel Deutsches
Reichsstaatsrecht del 1919, la trattazione dedicata alla natura del
Reichstag copre meno di una facciata, vi si legge: "der Reichstag ist eine
Vertretung des gesamten Deutschen Volkes, keine Versammlung von
Delegierten der Landtage der Einzelstaaten".379
L’assonanza con la
mozione di Cherles-Maurice de Talleyrand – Perigord risuona anche
378 È questo un esempio di astrazione dogmatica di cui si è fatto cenno supra al §
I.1. La pretesa astraente del metodo ipotetico deduttivo delle scienze, importato
acriticamente anche nelle discipline del diritto e dello Stato, contro l’avvertimento di
Aristotele (che se non poteva conoscere le categorie epistemiche moderne, tuttavia aveva
messo in guardia dallo spostare lo studio della polis dalle discipline pratiche a quelle
teoretiche o, peggio, poietiche), alla ricerca di un continuo affinamento per un maggior
rigore, produce la progressiva perdita di consapevolezza dei fondamenti della costruzione,
giungendo a recidere così le proprie radici. Dalla presa di consapevolezza del Volksgeist
come elemento caratterizzante il popolo, all’Aufhebung di cittadino nello Stato, con la
conseguente identità di volontà tra il primo ed il secondo si deduce la rappresentatività di
ogni organo statuale, quale interprete del Volksgeist, al pari di ogni membro del popolo.
Ma nel momento stesso in cui si espunge il popolo dalla costruzione non resta che
l’immagine, priva del fondamento che la rendeva utile. La teoria risulta allora meccanicista
ed il prosieguo dell’indagine, una volta perso di vista proprio fondamento (oltre a non
procedere alla sua continua verifica), rischia di contraddire le stesse premesse, ormai
inconsapevoli, su cui poggia. Fino a che la realtà, con un crescendo mozartiano, bussa alle
porte del diritto, secondo le parole di Ascarelli (su cui cfr. le acute pagine di F. CASA,
Tullio Ascarelli. Dell’interpretazione giuridica tra positivismo ed idealismo, Napoli,
1999).
379 P. LABAND, Deutsches Reichsstaats, VII ed., Tübingen, 1919; ristampa Aalen,
1969, p. 72.
Propongo questa traduzione: "Il Parlamento e una rappresentanza dell'intero
popolo tedesco, non la riunione dei delegati dei parlamenti locali dei singoli Stati.”
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
247
all’orecchio meno accorto, dimostrando la funzionalità operativa delle
posizioni rivoluzionarie anche per chi muove da prospettive
(apparentemente) opposte. È un passo generalmente sconosciuto, forse
perché meno provocatorio delle prime edizioni. Si deve comunque
dedurre che nell'ultima parte della sua vita, Laband abbia cambiato
posizione o, quantomeno, aggiustato il tiro. Non si deve comunque
dimenticare che l'uscita dell'edizione postuma seguiva di diciannove anni
l'intervento nel dibattito di Georg Jellinek.
ESSERE È VOLERE: GEORG JELLINEK
248
3.3.4 Essere è volere: Georg Jellinek
PREMESSA: IL POPOLO COME ORGANO PRIMARIO DELLO STATO: CAPOVOLGIMENTO DELLA
COSTRUZIONE LABANDIANA ED IMPUTAZIONE DI ATTI DI VOLONTÀ GIURIDICAMENTE
RILEVANTI IN CAPO A SOGGETTI REALMENTE ESISTENTI… - SEGUE: CONSEGUENZE IN ORDINE
AL SYSTEM DER SUBJEKTIVEN ÖFFENTLICHEN RECHTE… - SEGUE: CONSEGUENZE NEL TEMA
SPECIFICO DELLA RAPPRESENTANZA – CONCLUSIONE: VERIFICA DEI PRESUPPOSTI HEGELIANI
NELLA COSTRUZIONE DI JELLINEK, LORO SUSSITENZA E CONSEGUENZE.
La vastità dell'opera di Jellinek380
ha meritato una copiosa
letteratura critica e l'evoluzione del suo pensiero è stata ricostruita
puntualmente.381
Confrontando qui le posizioni di Jellinek con
l'insegnamento di Laband relativamente alla rappresentanza, non si potrà
che richiamare per sommi capi, quasi a cornice, i termini del dibattito tra i
due circa la dottrina generale dello Stato e il metodo logico giuridico, solo
per la parte che interessa per il prosieguo della nostra trattazione.
Fin dal suo primo ingresso nel dibattito, nel 1887,382
Jellinek
accoglie e sostiene l'idea labandiana dello Stato come creatore di diritto,
unità che costituisce persona giuridica, ma riafferma la necessità di non
espungere dalla disciplina tecnico - giuridica tutti quegli elementi che
possono aiutare a comprendere meglio il funzionamento dello Stato,
380 Georg Jellinek, di origine ebraica, nasce a Leipzig nel 1851, dopo una breve
parentesi come funzionario in Austria, nel 1883 viene chiamato all'università di Vienna
come professore straordinario di diritto dello Stato. Ottenuta l'abilitazione nel 1889, per un
anno insegna a Basilea e successivamente ad Heidelberg per vent'anni, fino alla morte che
lo coglie nel 1911. La sua vasta cultura nonché l'attitudine alla ricerca di un fondamento
filosofico delle teorie giuridiche, ci sono testimoniate fin dagli scritti giovanili, tra cui: Die
sozialethische Bedeutung von Recht, Unrecht und Strafe, Wien, 1878; Smith und Kant,
Wien, 1877; System der subjektiven öffentlichen Rechte, Tübingen, 1892; interessante ai
nostri fini, Die Erklärung der Menschen und Bürgerrechte II ed., Heidelberg, 1903, poi
curata ed ampliata nella IV ed. postuma, edita dal figlio Walter, München und Leipzig,
1927; segnalo altresì l'edizione critica curata da R. SCHNUR, Zur Geschichte der Erklärung
der Menschenrechte, Darmstadt, 1964.
381 Per un giudizio sul pensiero e l'opera di Jellinek nel periodo che ci interessa, ed
a riprova della sua influenza sulla dottrina francese, ma soprattutto, italiana, cfr. L.
DUGUIT, Traité de droit constitutionnel, Paris, 1911, I vol.; R. CARRÉ de MALBERG,
Contribution à la théorie générale de l'État, 2 voll., Paris, 1920-22, II vol.; P. ESMEIN,
Droit constitutionnel française et comparé, Bar le Duc, 1909; F. PIERANDREI, I diritti
subbiettivi pubblici nell'evoluzione della dottrina germanica, Torino, 1940.
382 Cfr. G. JELLINEK, Gesetz und Verordnung, Freiburg, 1887, rist. Aalen, 1964.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
249
soprattutto nel giustificarne l'opera e, aspetto non secondario, l'obbedienza
alle leggi. In questa prospettiva un aiuto importante giunge dall'analisi
storica, dall'evoluzione degli istituti, elemento principe per comprenderne
l'effettiva funzione. Tutti gli scritti di Jellinek dedicano ampio spazio alla
ricostruzione storica degli istituti trattati, confrontandone l'aderenza con la
situazione del tempo e giustificando i mutamenti di disciplina con le
diverse esigenze dei tempi a lui contemporanei.
Oltre al recupero della storia che, elemento fondante in Savigy (e in
Hegel), nel corso del secolo era andato vieppiù perdendosi di pari passo
con la progressiva consolidazione dell'ordinamento, Jellinek reintroduce la
nozione di Volk, sempre presente in tutti gli autori esaminati, fino a
Gerber,383
rigorosamente espunta da Laband. Del Volk, come è noto,
Jellinek farà l'organo primario dello Stato, da cui discendono tutti gli altri
organi. Secondo il giuspubblicista di Heidelberg, ammettendo, anche sulla
base dell'analisi storica, che il popolo è, esiste, non si può negargli
rilevanza nel campo giuridico senza incorrere nelle difficoltà in cui si
dibattevano i più stretti seguaci di Laband. Conseguentemente allora alla
correlazione giuridica tra volontà e essere, ricordata ed introdotta nel
diritto pubblico da Gerber, il popolo è soggetto di diritto, è dotato di una
sua volontà. Anzi, proprio da questa volontà derivano la loro giuridica
esistenza gli ulteriori organi di cui lo Stato è composto.
Si è osservato384
come per Jellinek l'opera di Laband non sia errata,
ma solo incompleta, avendo condotto il proprio esame solo su un primo
momento dell'indagine, cioè quello della necessaria derivazione dei diritti
pubblici dallo Stato, ma senza indagarne gli effetti nei destinatari, senza
cioè indagare l'enucleazione giuridica della figura di cittadino e delle
comunità minori. È appena il caso di notare invece, come il prosieguo
dell'indagine nel senso indicato dallo stesso Jellinek, passi
necessariamente attraverso un mutamento di metodo tale, da porsi in
antitesi con il sistema labandiano. Se infatti il giurista di Strasburgo dà
volontà solo a chi considera, secondo il metodo dogmatico,
giuridicamente esistente, ad Heidelberg, il suo collega invece considera
giuridicamente esistente chi, di fatto, vuole. Se per il primo il popolo non
383 Cfr. la corposa opera di O. von GIERKE, J. Althusius und die Entwicklung der
naturrechtlichen Staatstheorien, Breslau, 1880, trad. it. Torino, 1975, ma già anticipato in
Das deutsche Genossenschaftsrecht, Darmstad, 1868.
384 M. FIORAVANTI, op.cit., p. 404.
ESSERE È VOLERE: GEORG JELLINEK
250
poteva avere giuridica volontà perché giuridicamente inesistente (cfr.
supra), per il secondo poiché il popolo è, può giuridicamente volere.
Occorre precisare che questo mutamento di prospettiva altro non è che
proprio la diversità di un punto di partenza: storico per il secondo, logico
concettuale per il primo. Non crediamo si possa ritenere calzante una
contrapposizione per quanto riguarda tutto il metodo, del tipo empirista
per l'uno, idealista per l'altro, né la tradizione, risalente a Vittorio
Emanuele Orlando nella prefazione alla traduzione italiana parziale
dell'opera fondamentale di Jellinek, che vuole un Laband reazionario,
contrapposto ad uno Jellinek liberale. I due autori sono strettamente
accomunati, pur nella diversità dell'incipit, dal metodo logico concettuale,
importato dal Gerber privatista e (spesso ancor oggi) considerato il solo
oggettivo, perché "scientifico".
Dalla individuazione di un soggetto giuridico distinto, da cui
promanano gli altri organi dello Stato, si potrebbe già pensare di dedurre
un dualismo nel pensiero di Jellinek, ma proprio qui occorre essere
prudenti.
La distinzione concettuale, tra l'altro corroborata dall'analisi storica,
di un popolo e dell'organo statuale chiamato a rappresentarlo, veicola
l'idea di una concezione della rappresentanza basata sulla struttura
dualistica, quale si è enucleata nella prima parte di questo lavoro. Occorre
allora fare riferimento all'opera fondamentale di Jellinek, in quella parte
dedicata specificamente alla rappresentanza, cioè il capitolo 17.
dell'Allgemeine Staatslehre.
Prima di lasciare la parola direttamente a Jellinek, conviene
indicare la struttura dell'opera, proprio per poter comprendere appieno lo
spazio dedicato alla rappresentanza e il ruolo assegnatole dall'autore nella
costituzione dello Stato.
La prima edizione dell'Allgemeine Staatslehre385
ha una data
emblematica: il 1900. Divisa in venticinque capitoli, è ripartita in tre libri.
Il primo tratta dei compiti dello Stato, del metodo della dottrina dello
Stato, con un particolare accento sulla distinzione dal diritto privato, pur
nell'unità del metodo giuridico; una ricostruzione storica delle principali
teorie sullo Stato; il rapporto della dottrina generale dello stato con le
scienze in genere, dalla Natura aristotelica alla sociologia, passando per
385 G. JELLINEK, Allgemeine Staatslehre, Heidelberg, 1900; a nostra disposizione è
la più diffusa terza edizione, postuma, a cura del figlio Walter, Berlin, 1914, da cui
citeremo in seguito.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
251
Rousseau, Hegel, i socialisti francesi, Comte e Spencer, con un particolare
riguardo per i rapporti tra famiglia e Stato, questione disattesa dai giuristi,
ma anche dai filosofi, come abbiamo visto, già dagli allievi di Hegel; una
trattazione di tre pagine sui rapporti tra partiti politici e Stato e sul
rapporto tra società civile e Stato. Cinque pagine invece sono dedicate alla
distinzione tra Nazione e Stato. Il secondo libro è dedicato alla dottrina
sociale generale dello Stato e, come si è detto, è il contributo più
innovativo rispetto alla tradizione labandiana. Fra le altre cose si
individuano e trattano gli scopi dello Stato, prendendo le mosse da una
panoramica storica che copre il periodo da Aristotele a tutto l'Ottocento,
toccando i maggiori pensatori, per concludere con un capitolo che tratta
dei rapporti tra Stato e diritto. Il terzo libro è il solo che Laband avrebbe
ritenuto propriamente di diritto costituzionale, ma ancora una volta in
polemica con le posizioni del giurista di Strasburgo, Jellinek non lo
intitola "Il diritto pubblico tedesco" o "Il diritto dell'Impero tedesco",
delimitandone la portata ed accentuando il carattere prettamente positivo -
descrittivo della trattazione. Al contrario il titolo dell'ultimo libro è quasi
una parafrasi e una specificazione del titolo dell'intera opera, Allgemeine
Staatsrechtlehre, quasi ad indicarne l'intento non meramente esegetico del
diritto costituzionale vigente nel Reich, ma la costruzione logico -
giuridica che proprio perché tale, supera l'angusto limite della positività,
che è da sempre costretta a fare continuamente i conti con i mutevoli
capricci del sovrano. Il primo capitolo di questa terza parte riprende la
distinzione tra diritto pubblico e diritto privato, ma non più intorno al
metodo, che già era stato riconosciuto unitario nel primo libro, bensì
riguardo ai destinatari e all'ambito di applicazione. Poi si inizia a trattare i
singoli tradizionali elementi dello Stato secondo l'insegnamento di Bodin,
popolo, territorio, sovranità. Si tratta poi della costituzione dello Stato,
ancora una volta con ampi riferimenti da Wolff a Vattel e Rousseau, non
dimenticando l'esperienza inglese. In venticinque pagine poi, al
sedicesimo capitolo, viene esposta la teoria organica e, nelle ultime
cinque, si considera l'analisi del rapporto tra singolo e organo.
Immediatamente successivo è il diciassettesimo capitolo, che più ci
interessa, intitolato “rappresentanza386
e organi rappresentativi”. Da
386 Si noti come Jellinek non usi i tradizionali termini Vertretung o Darstellung,
propri della tradizione giuridica, ma senta la necessità di coniare un termine nuovo,
Repräsentation, quasi ad indicare la distinzione concettuale con il diritto privato e gli
istituti da esso derivati che lo sottende.
ESSERE È VOLERE: GEORG JELLINEK
252
questo punto in poi procede l'analisi sul funzionamento dello Stato,
sempre con un'ampia panoramica storica, che in questo caso vede, per la
prima volta in modo diretto, la trattazione delle teorie di Montesquieu e il
loro influsso sulla dottrina tedesca. Segue l'esame delle varie forme di
governo e di unioni di Stati. Conclude l'opera, non a caso, l'esame della
tutela dei diritti pubblici, o meglio, della loro garanzia.
Si comprende come veramente il nodo della rappresentanza sia
centrale nella Staatslehre di Jellinek, con la stessa consapevolezza con cui
Bluntschli (cfr. supra) riconosceva l'istituto essenziale al diritto pubblico,
automaticamente giustificando quella distinzione tra rappresentanza di
diritto privato e rappresentanza di diritto pubblico, i cui problemi hanno
mosso la nostra indagine. Riconoscendo infatti esistenza e giuridica
volontà al popolo, recuperandolo come fondamento di tutto lo Stato,
definendolo organo primario dello Stato stesso, ben si comprende come
dalla precisa costruzione dell'istituto in esame dipenda la tenuta della
teoria di Jellinek. Ma è giunto il momento di leggere la definizione di
rappresentanza.
"Unter Repräsentation versteht man das Verhältnis einer Person zu
einer oder mehreren anderen, kraft dessen der Wille der erstern
unmittelbar als Wille der letztern angesehen wird, so daß beide rechtlich
als eine Person zu betrachten sind".387
L'assunto sembra di primo acchito
condivisibile, se non fosse per l'ultima deduzione che l'autore trae da una
premessa in sé piana. In altre parole si indica fin da subito la distinta
esistenza di due soggetti giuridici, in cui però la volontà della prima è
riconosciuta come volontà della seconda. Il dualismo di premessa si
scontra con la coincidenza della volontà dei due soggetti, che li riduce ad
uno, conseguenza che esplicitamente l'autore trae sostenendo che
entrambe le entità giuridicamente devono essere considerate una sola
persona. Continuando la lettura, poche righe dopo si legge: "Allein im
engeren Sinne wird unter Repräsentation das Verhältnis eines Organes zu
den Mitgliedern einer Körperschaft verstanden, demzufolge es innerhalb
der Körperschaft den Willen dieser Mitglieder darstellt. Repräsentative
Organe sind somit in diesem Sinne sekundäre Organe, Organe eines
387 Cfr. G. JELLINEK, Allgemeine Staatslehre, 3° ed., Berlin, 1914, p. 566.
Propongo questa traduzione: "Con rappresentanza si intende la condizione di una persona
nei confronti di una o più altre, in forza della quale la volontà della prima viene
riconosciuta immediatamente come volontà della seconda, così che entrambe
giuridicamente sono trattate come una persona".
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
253
anderen, primären Organes. Dieses Primäre Organ hat, soweit die
Zuständigkeit des sekundären Organes reicht, an dessen Willen seinen
eigenen Willen und keinen Willen außer diesem. Das primäre Organ hat
nur so weit unmittelbare Willensäußerungen vorzunehmen, als sie ihm
besonders vorbehalten sind. Der regelmäßige Fall dieses Vorbehalts
bezieht sich auf die Bestellung der sekundären Organe durch Wahl.
Dieser Gedanke der Repräsentation ist ein rein juristischer".388
L'assunto è perentorio indicando che l'organo primario non ha altra
volontà che quella dell'organo secondario. Se volessimo trarre le
conclusioni dovremmo ritenere che giuridicamente un organo, e
precisamente quello primario, non esiste giuridicamente, non avendo
volontà autonoma, ma solo quella che l'organo secondario stabilisce essere
la sua. Viene immediata l'analogia con la posizione di Sieyès, laddove
afferma che la nazione non ha altro volere che quello dell'Assemblea
nazionale. La conferma esplicita giunge poche pagine oltre: "Volk und
Volksvertretung bilden demnach juristisch eine Einheit" e poche righe
dopo "Volk und Parlament sind daher eine rechtliche Einheit. Das Volk ist
durch das Parlament im Rechtssinne organisiert".389
Quelli che sembravano essere due enti distinti, popolo e organo
rappresentativo, Parlament (e non più Reichstag), col termine di Jellinek,
risultano in realtà uniti, anzi, costituire un'unità, ove cioè i singoli oggetti
che la compongono, non godono più di individualità propria. Se da un
lato, allora, si era riconosciuta giuridica rilevanza al popolo perché
empiricamente esistente, dall'altro nell'ambito giuridico tale esistenza si
388 Ibidem.
“Solo in questo senso ristretto sotto [il concetto di] rappresentanza viene
ricompresa la condizione di un organo verso il membro di una corporazione, di modo che
all'interno della corporazione questo membro rappresenta la volontà. In questo senso gli
organi rappresentativi sono organi secondari, organi di un altro organo primario.
Quest'organo primario ha la propria volontà, fin dove giunge la competenza dell'organo
secondario, in accordo con la sua volontà e nessuna volontà fuori di questa. L'organo
primario ha concessa solo una così estesa capacità immediata di emanare volontà, quanto
secondo necessità gli è riservata. La regolare caduta di questa riserva avviene attraverso la
scelta dell'organo secondario.
Questo concetto di rappresentanza e un concetto giuridico puro”.
389 Cfr. G. JELLINEK, Allgemeine Staatslehre, cit., p. 582/3.
“Popolo e rappresentanza popolare costituiscono giuridicamente un'unità”.
“Popolo e Parlamento sono giuridicamente un'unita. Il popolo è organizzato in senso
giuridico attraverso il Parlamento”.
ESSERE È VOLERE: GEORG JELLINEK
254
nega, riconoscendo al popolo la sola volontà che in suo nome manifesta il
Parlamento. Una distinzione tra popolo e Parlamento giuridicamente non
esiste, in altre parole per il diritto il popolo non rileva se non per quanto si
manifesta nel Parlamento. Appare chiaro che in questa prospettiva
problemi di mandato, di responsabilità, di correlazione, con espressione
d'uso comune, tra "paese reale e paese legale", non si pongono, perché
giuridicamente inesistenti.
Tuttavia le considerazioni fin qui svolte debbono confrontarsi con
la struttura dell'organo, quale proposta da Jellinek, al fine di verificare la
vera portata del rapporto tra organo e suo portavoce, tra organo e suoi
membri, tra Stato e suoi organi, al fine di poter vagliare l'effettivo
rapporto tra organi, per meglio comprendere la portata dell'integrazione
tra l'organo primario popolo e l'organo secondario Parlamento, tra
rappresentato e rappresentante, che si è vista poco sopra.
Come si è ricordato, la trattazione degli organi precede
immediatamente la parte dedicata alla rappresentanza e si conclude con
l'asserto di unitarietà, di Stato e organo. Quest'ultimo, afferma Jellinek,
non ha personalità distinta nei confronti dello Stato, “das Organ als
solches besitzt dem Staate gegenüber keine Persönlichkeit.“390
È appena il
caso di ricordare quanto perentoriamente sosteneva Laband, affermando
che il popolo non ha personalità distinta da quella dello Stato, che non ha
personalità giuridica, che non è un soggetto di diritto, che non ha volontà
giuridicamente rilevanti se non quelle che vengono manifestate dal
Reichstag. Conviene allora tener presente che per l'autore di Heidelberg il
popolo è un organo dello Stato, anzi organo primario dello Stato, e
continuare la lettura.
Non si tratta, continua di seguito Jellinek, di due soggetti
contrapposti, la personalità dello stato e la personalità dell'organo, ma al
contrario Stato e organo costituiscono una Einheit, e così spiega: "Der
Staat kann nur vermittelst seiner Organe existieren; denkt man die Organe
weg, so bleibt nicht extra noch der Staat als Träger seiner Organe, sondern
ein juristisches Nichts übrig. Dadurch unterscheidet sich das
Organverhältnis von jeder Art der Stellvertretung. Vertretene und
Vertretender sind und bleiben zwei, Verband und Organ sind und bleiben
eine einzige Person".391
Vale la pena di sottolineare nuovamente le
390 Cfr. G. JELLINEK, Allgemeine Staatslehre, cit. p. 559/60.
"L'organo così inteso non ha nei confronti dello Stato alcuna personalità".
391 Cfr. G. JELLINEK, Allgemeine Staatslehre, cit., p. 560.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
255
assonanze con Erdmann, dove affermava che se si separano da un corpo le
sue membra, non resta nulla.392
È il trionfo dell’organicismo, cioè della
riduzione di due soggetti (rappresentante e rappresentato) ad uno solo, di
cui l’altro non costituisce che uno strumento, un organo, appunto.
Tuttavia, ed è il lato paradossale, non è il rappresentante che si riduce a
strumento del rappresentato, quanto piuttosto il popolo che diviene organo
dello Stato: con un’inversione logica, prima che giuridica, l’ente diviene
mezzo, il popolo da sovrano (pure astratto) viene ridotto ad articolazione
dello Stato. Quanto tutto ciò sia lontano da Hegel è dimostrato dalla
circostanza che il paradigma di Jellinek riproduce la dialettica del servo –
padrone sulla quale aveva appuntato le sue critiche proprio il Maestro di
Berlino, riconoscendo che una concezione protagorea dell’individuo
veicola l’individualismo per il quale il servo è schiavo del padrone e delle
cose che manipola, per esercitare il suo dominio, mentre il padrone
dipende dal servo sia per le cose, sia per affermare il proprio ruolo di
dominio. Ancor più singolare, allora, appare il nesso tra organicismo e la
costruzione di Sieyès, laddove l’Abate riduce il “rappresentato” ad un
bene sotto l’amministrazione del “rappresentante”, il popolo sotto la tutela
dell’Assemblea, dal canto suo Jellinek riduce il popolo (che pur riconosce
esistente) ad un ganglo -secondo la terminologia amministrativa-
dell’apparato statale. In entrambi i casi, l’assemblea, anziché ricevere le
istruzioni (non vincolanti) dei rappresentati, si perita di instillare loro la
"Lo Stato non può esistere che attraverso i suoi organi; se per ipotesi si separano da
lui i suoi organi, non resterà più lo Stato, se non come Träger dei suoi organi, ma non
resterà che un niente giuridico. Da ciò si distingue la condizione organica da ogni forma di
rappresentanza. Rappresentato e rappresentante sono e rimangono due, gruppo e organo
sono e rimangono una persona unitaria".
392 Cfr. supra, nota n. 294. Il filo organicista a nostro avviso si dipana fino a N. LUHMANN,
Grundrechte als Institution, Berlin, 1965, ove i diritti fondamentali, tra cui la
rappresentanza e le stesse procedure di elezione, vengono intensi non più come strumenti e
garanzie per la libertà dell’uomo (senza qui distinguere tra libertà soggettiva illuministica
dell’individuo allo stato di natura o la libertà della persona all’interno di un ordine), quanto
piuttosto come funzionali alla conservazione dell’ordine sociale. Si vede dunque come la
posizione dei singoli sia organicamente inserita all’interno della società e come i diritti
fondamentali tutelino solo “di riflesso” la posizione dei cittadini, in quanto perseguono
solamente la salus rei publicae. Spogliato dei suoi organi l’ente resta muto, ma parimenti,
separati dall’ente gli organi cessano di avere autonoma esistenza. Questa posizione, in sé
condivisibile, rivela tutta la sa pericolosità ove, con un’inversione logica tra fine e
strumento, si ponga il cittadino nel ruolo dell’organo e lo Stato (o l’ordine sociale di
Luhmann) nel ruolo dell’ente.
ESSERE È VOLERE: GEORG JELLINEK
256
sua propria volontà, contrabbandata come volontà del Popolo, grazie a
quella fabbrica di maiuscole, secondo l’immagine con la quale ci siamo
congedati dal capitolo precedente. Si tratta di una costruzione raffinata
che troverà fortuna per molto tempo, pur se le critiche non mancheranno
pressoché fin dal primo momento.
Infatti, già con Carré de Malberg393
abbiamo una serrata
comparazione tra rappresentanza tradizionale, alla luce dell'esperienza
francese, e teoria organica nella versione di Jellinek. Questo autore, tra
l'altro docente dell'università di Strasburgo, da quella stessa cattedra che,
prima della guerra, era stata di Laband, aveva subito aderito, tra i primi in
Francia, alle posizioni di Jellinek, ma aveva ben presente anche
l'insegnamento di Gierke e le critiche mosse ai due autori da quella parte
della dottrina francese più affezionata all'elaborazione della
rappresentanza sviluppatasi dalla Rivoluzione francese, in sostanza
l'elaborazione delle posizioni di Sieyès. Con Carré de Malberg potremmo
dire che tra organo e rappresentanza vi sono due differenze fondamentali:
da un lato quest'ultima prevede due soggetti distinti di cui uno agisce per
conto dell'altro, al contrario l'organo, proprio in quanto tale ha una sola
personalità -quella della collettività organizzata-, poiché gli organi e la
collettività non formano che una sola persona. "Verband und Organ sind
und bleiben eine einzige Person", abbiamo visto scrivere Jellinek; "les
organes de la collectivité ne forment avec elle qu'une seule et même
personne",394
si limita a tradurre Carré de Malberg e precisa che non si
tratta di una struttura simile al corpo umano, non deriva da argomenti di
ordine fisiologico, ma riposa unicamente su di un'analisi giuridica del
rapporto esistente tra la collettività étatisée e gli individui che esercitano il
suo potere. Se ne deduce che mentre rappresentante e rappresentato sono
due persone completamente distinte, l'organo non è un estraneo nei
confronti della collettività, poiché è tutt'uno con i suoi membri, proprio
uno o più dei quali, lo "rappresenta" nei rapporti esterni. A questo punto
occorre fare attenzione, poiché se chi parla per l'organo è ad un medesimo
istante rappresentante e rappresentato, talché sembrerebbe essersi
assicurata la corrispondenza tra volontà del rappresentante e volontà del
rappresentato, per un altro verso si deduce che in questo senso chi
393 R. CARRÉ' de MALBERG, Contribution à la théorie de l'État, 2 voll., Paris,
1920/22, II vol. , p. 285 e ss.
394 Cfr. R. CARRÉ de MALBERG, Contribution, cit., II vol., p. 287.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
257
governa, essendo parte di un organo, è in perfetta sintonia con i voleri o le
necessità, non vale qui distinguere, dei governati. In altri termini, non vi
può essere distinzione di vedute tra governo e popolo, ed è la conclusione
di Jellinek per cui "Volk und Parlament sind eine rechtliche Einheit", ed è
la stessa di Laband, dove si afferma che il popolo vuole solo tramite lo
Stato, ed è, attraverso il dubbio di Gerber, la stessa delle Vorlesungen di
Erdmann, dove si inizia e si conclude che governanti e governati
costituiscono un organismo etico, essendo compenetrati chimicamente.
Vi è però una ragione più profonda che sospinge verso la teoria
organica: la necessità di non fondare lo Stato sopra un contratto tra
individui. Sovvengono le polemiche hegeliane, riportate da Rosenkranz,
sull'inconsistenza e fragilità di uno Stato derivato da un contratto, a cui si
contrappone la necessità storica del superamento del singolo soggetto
sussunto nello Stato etico. Lo stesso timore, che abbiamo visto ben
espresso in Erdmann, latente in Jellinek, risulta esplicito in Carré de
Malberg. Quest'ultimo individua infatti la differenza fondamentale tra
teoria tradizionale della rappresentanza e nuova costruzione organica nella
circostanza che mentre la prima trova la sua origine in un atto giuridico di
volontà da parte di chi vuol farsi rappresentare, che porta ad un contratto
con chi risulterà essere il rappresentante; la qualità di organo, al contrario,
non potrà mai sorgere da un atto di volontà. Quest'ultimo asserto, per la
verità, non viene suffragato in maniera stringente da Carré de Malberg,
tuttavia trova sostegno sufficiente nelle varie argomentazioni degli autori
che sono stati esaminati nei paragrafi precedenti. In questo senso,
avvertiva Hegel per bocca di Rosenkranz, uno stesso sovrano assoluto
eletto a vita sarebbe comunque subordinato e successivo, almeno
logicamente, ai singoli, agli individui che lo compongono: lo Stato non
sarebbe che in balia dei singoli. Tuttavia, nel tentativo di superare
l'individualità, fondando lo Stato su basi più sicure, gli allievi del filosofo
berlinese e i giuristi che da questi traggono a piene mani, risolvono il
delicato problema del rapporto tra cittadino e Stato rimuovendo,
cancellando il primo, e lasciando come unico individuo, lo Stato. In altre
parole la categoria dell'individualità non viene superata, ma anzi
riaffermata, costituendo al posto dei molti individui, un solo individuo, lo
Stato, che, come abbiamo visto, deve proprio "als ein Individuum
existieren". I raffinati equilibri di Hegel sono stati dimenticati.
A questo punto le obbiezioni non potevano tardare, la prima giunge
da Léon Duguit, l’esponente della scuola costituzionalista francese più
affezionata all’eredità scientifica di tradizone gallica: "Derrière le
ESSERE È VOLERE: GEORG JELLINEK
258
représentant, il existe une autre personne; derrière l'organe, il n'y a
rien".395
La stessa osservazione critica potrebbe essere mossa all’abate
Sieyès, e si è visto che l’artificio non era sfuggito agli studiosi francesi.
Per questo autore affermare che la collettività nasce di per sé
organizzata, per cui si può manifestare solo attraverso i suoi organi, è una
mera finzione giuridica, "si il n'y a rien derrière ce que l'on appelle les
organes de l’état, c'est qu'il n'y a que les organes, c'est-à-dire des individus
qui imposent aux autres individus leur volonté".396
L'obbiezione di Duguit
si fonda sull'assunto di Jellinek che abbiamo citato sopra, dove si dice che
lo Stato senza gli organi sarebbe un niente giuridico. Carré de Malberg
non sa dare una vera risposta a questa critica, se non affermando, con
Michoud, che la frase di Jellinek non va presa alla lettera in modo
assoluto. Tuttavia, poche righe dopo, riprendendo la distinzione tra
rappresentanza e teoria organica, afferma che l'organo esprime la volontà
della collettività, ma ciò non vuol dire che la collettività abbia realmente
una volontà propria al modo di Gierke. L'allievo di Beseler, infatti ritiene
che nelle corporazioni e specialmente nello Stato, esista una volontà
effettiva; che la corporazione e lo Stato siano capaci di volere e di agire,
essendo entità reali. Seppure queste possono cominciare a volere e ad
agire solo grazie al diritto, non per questo si deve dedurre che la loro
volontà è creata dal diritto, essendo in realtà a questo preesistente.
A questa posizione i giuristi francesi si oppongono con
l'osservazione, definita prettamente giuridica, ma che potremmo meglio
definire logico dogmatica, che se fuori del diritto non possono volere, tali
entità in vero, sono concetti giuridici e un'eventuale loro sussistenza
sociologica pregiuridica non rileva.
Come si è detto, per sua intrinseca struttura, l'organo si manifesta
attraverso l'opera di un suo membro, singolo o collegiale, a sua volta
organo derivato dall'organo di cui manifesta la volontà. Che tutto ciò non
sia rappresentanza è detto chiaramente e consapevolmente; in maniera
meno esplicita invece è affermato il presupposto che sostiene questa
costruzione, cioè che non vi sia alcuna differenza tra volontà del
rappresentante e volontà del rappresentato o, in modo più esplicito, che
l'unica volontà giuridicamente rilevante è quella dell'organo deputato a
395 L. DUGUIT, Traité de droit constitutionnel, 2 voll., Paris, 1911, I vol. p. 307 e
ss.
396 Ibidem.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
259
manifestarla. Tale presupposto viene giustificato, come si è visto, in
diversi modi, dall'identificazione tra volontà del cittadino e dello Stato,
alla irrilevanza giuridica del popolo fuori dello Stato, alla costituzione
della teoria organica. In ogni caso la conseguenza che se ne può trarre è
una sola: il divieto di mandato imperativo. La possibilità di una verifica
della corrispondenza tra quanto espresso e quanto voluto, "tra paese reale
e paese legale", è la negazione di questo presupposto, cioè la negazione di
quello che abbiamo chiamato il principio primo, da cui è discesa die ganze
Geschichte: in campo pubblico il cittadino non può avere una volontà
diversa da quella dello Stato.
Che questo non fosse l'intento di Hegel, lo si è già detto; preme
mettere qui in evidenza come l'eliminazione del secondo momento dello
Spirito Oggettivo, la Società civile, da parte degli stessi primi allievi del
Maestro di Berlino, abbia portato a quella rincorsa alla ricerca del medio
tra cittadino e Stato, già a partire da Stein e Mohl, fino a Gierke, di cui la
teoria degli organi non è altro, secondo noi, che l'ultimo tentativo.
Del resto questa ricerca affaticherà le menti dei giuristi del
ventesimo secolo, passando dalla teoria dell'istituzione e della fondazione,
al corporativismo, fino a rinvenire la possibilità di una conciliazione tra
Stato e singolo solo in sede superstatale.397
397 Paradigmatica, in questo senso, la parabola svolta nell’opera di Felice Battaglia,
sul cui pensiero cfr. A. SCERBO, Felice Battaglia. La centralità del valore giuridico,
Napoli, 1990, specialmente p. 126 e ss.
QUESTIONI DI SOVRANITÀ
260
3.3.5 Questioni di sovranità
PREMESSA: NECESSITÀ DI VERIFICARE L’ENTITÀ DELL’INFLUSSO DELLE POSIZIONI TEDESCHE
NELLA RIFLESSIONE ITALIANA – IL CONCETTO DI SOVRANITÀ POPOLARE COME IDOENO PIANO
DI RISCONTRO DI TALE INFLUSSO E COME IPOTESI PER CONSENTIRE LA RAPPRESENTANZA DEL
POPOLO – IL PROBLEMA DELLA COESISTENZA DI PERSONALITÀ (E SOVRANITÀ) DELLO STATO
CON LA DICHIARATA SOVRANITÀ POPOLARE – TESI DEL POPOLO COME ORGANO SOVRANO
DELLO STATO… - SEGUE: COME COLLETTIVITÀ AUTARCHICA DI FRONTE ALLO STATO… -
SEGUE: COME TITOLARE DI UNA PARTE DELLA SOVRANITÀ DELLO STATO… - SEGUE: COME
TITOLARE ESCLUSIVO DELLA SOVRANITÀ ESERCITATA IN MODO DIRETTO ED IN MODO
INDIRETTO TRAMITE LO STATO… - SEGUE: IDENTIFICAZIONE DEL POPOLO CON LO STATO
COMUNITÀ E SUA CONTRAPPOSIZIONE ALLO STATO APPARATO – RAPPRESENTANZA DEL
PRIMO NEL SECONDO – RICONOSCIMENTO DEL PRINCIPIO DI RESPONSABILITÀ COME
ELEMENTO ESSENZIALE PER LA RAPPRESENTANZA: LA RESPONSABILITÀ DELLO STATO
APPARATO NEI CONFRONTI DEL POPOLO – CONCLUSIONI: RICONOSCIUTA NECESSITÀ DI
RIVEDERE IL CONCETTO DI SOVRANITÀ - POSIZIONE DI CRISAFULLI, CROSA E TOSATO.
Nel nostro percorso critico alla ricerca dei tasselli teorici che
militano a sostegno della comune concezione della rappresentanza politica
-intesa come irresponsabilità degli eletti- per verificare l’entità del legato
tedesco raccolto dalla dottrina italiana, può costituire un valido piano di
riscontro la disputa tra i sostenitori della sovranità popolare che li ha visti
contrapposti ai fautori della sovranità statale. La questione si dimostra
interessante ai nostri fini non tanto per un amore di ricerca storica, che ci
ha portati da Sieyès alle soglie dell’Assemblea costituente, quanto per
misurare l’effettiva originalità delle posizioni teoriche della costituzione
repubblicana, oppure riscontrare che anche su di essa gravano le ipoteche
franco prussiane esaminate sopra. Solo in questo caso, allora, si potranno
muovere anche a questa costruzione le critiche di ordine logico, ancora
prima che giuridico, evidenziate già nei paragrafi precedenti nei confronti
dell’edificio statale innalzato a quattro mani da Epigonen e Juristen.
Tuttavia, la disputa sulla titolarità della sovranità, e della sovranità
del popolo in modo particolare, può esserci di aiuto per un'altra ragione.
Non si può infatti respingere ed abbandonare il concetto di sovranità398
senza prima aver tentato tutte le strade per verificarne la compatibilità o
meno con il meccanismo rappresentativo. Accantonata per un momento
l’eccezione per la quale comunque la sovranità è strutturalmente contraria
398 Pur mantenendolo attentamente distinto dal concetto di potestà di imperio,
come si è già detto e come ancora si dovrà dire. Cfr. infra § III.3.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
261
alla dinamica della rappresentanza,399
occorre esaminare le conseguenze
che si sono tratte o che si potevano trarre in tema di rappresentanza
muovendo dal principio della sovranità popolare. La questione può essere
posta in questi termini: chi è titolare del potere sovrano? Se sovrano è non
tanto lo Stato ma il popolo, esso può ben farsi rappresentare; trovandosi
nella duplice veste di rappresentato nella formazione della legge, che è
fatta in suo nome, e, parimenti, destinatario della stessa. La soluzione
involve anche il problema dei diritti pubblici soggettivi cioè del diritto a
farsi rappresentare ed a essere rappresentanti, di cui si parlerà nel
prossimo capitolo. Occorre allora seguire le singole deduzioni per
raccogliere argomenti che diano luce al nostro cammino, muovendo dalle
testimonianze dirette di quei cultori del diritto costituzionale che
parteciparono alla stesura dell’articolo primo della Carta del 1948.
Il problema è dato dalla rottura dell’unità della figura Stato. Come
si è visto la tradizione, affondando le sue radici, invero, fin nella dottrina
dei due corpi del re, scindendo la Corona dal titolare del supremo ufficio,
aveva prodotto il concetto dello Stato persona, accordandogli tutti gli
attributi della divinità secolarizzata, in primis la sovranità. Ora,
l’attribuzione della sovranità al popolo si sostituisce a quella dello Stato?
E come si pone quest’ultimo nei confronti del popolo? In fondo, chi è il
portatore della volontà suprema? Dalle diverse risposte a queste domande
discendono differenti concezioni del popolo, ora come organo dello Stato,
ora come corpo distinto dello Stato, ora come elemento dello Stato
persona, contrapposto allo Stato apparato, con ulteriori conseguenze in
tema di rappresentanza del popolo nello Stato. Per risolvere il problema
della rappresentanza, allora, non ci si può esimere dal circoscrivere la
figura del popolo, di ricercarne, se c’è, la soggettività e definirla nei suoi
precisi contorni, al fine di vedere se ed in che misura esso sia
rappresentabile. Solo poi si potrà regolarne il modo, ritagliando un istituto
giuridico acconcio alla figura del rappresentato, non meno che a quella del
rappresentante.
Inaugurando l’anno accademico 1956-57 all’Università di Torino,
Emilio Crosa apre provocatoriamente la sua prolusione trattando del
“mito” nel diritto e nel diritto costituzionale in particolare, veicolato da
formule suggestive: “Si ammantano alcune volte queste parole o formule
399 Giacché, come si è visto sopra, al § I.2, la sovranità ripete la sua struttura
dall’unicità, mentre la rappresentanza si fonda sul principio dualistico del rapporto tra
rappresentato e rappresentante.
QUESTIONI DI SOVRANITÀ
262
d’una luce che conferisce ad esse una forza capace anche di commuovere
e di trascinare le masse. Si presentano come un ideale cui si tende con
l’entusiasmo di un vero che apre un mondo nuovo”.400
Essi nascono in
tempi “fortunosi e sconvolti”, frutto delle ideologie in aspro contrasto
nelle assemblee ove il potere costituente tenta di diventare costituito, ove,
forse, più che la contrapposizione dei partiti che tentano l’impossibile
mediazione in formule vaghe, conta la necessità di recidere il cordone
ombelicale del passato. Nel mito, allora, che pur partecipa della realtà
(come ci insegna Esiodo401
), non si deve ricercare il rigore tecnico del
diritto e l’importazione immediata di queste formule nelle carte
fondamentali degli ordinamenti moderni impone un grande lavoro ai
giuristi per far si che esse non evaporino, da un lato, in vuote forme, e,
dall’altro non degenerino in elementi perturbatori dell’ordinamento,
“verità questa, di cui la storia del pensiero politico ha dato la più evidente
dimostrazione, anche troppo spesso dimenticata. L’affermazione dei diritti
del popolo, la proclamazione della sovranità del popolo, l’asserita
dittatura del popolo, costituiscono gli esempi più chiari del mito più
favoloso e più irreale se ad essi non corrisponda un ordinamento preciso
che stabilisca la posizione e i diritti di ogni singola persona.”402
E, come si
è detto, la necessità storica di contrapporre il nuovo assetto a quello
superato altera la prospettiva dei diversi elementi.
400 E. CROSA, Miti e realtà costituzionali. Sovranità del popolo, sovranità dello
Stato, in “Studi in onore di Giuseppe Menotti De Francesco”, Milano, 1957, vol. II, p. 303-
327; la citazione si trova alle pag. 306-7.
401 Sul passaggio dal mito alla storia, cfr. G. DE SANTILLANA – H. VON DECHEND, Il
mulino di Amleto. Saggio sul mito e sulla struttura del tempo, (1969) trad. it., Milano,
(1983) III ed., 1990, p. 71 e ss., nonché 85 e ss.; altresì, J. P. VERNANT, Mito e pensiero
presso i Greci (Paris, 1965 e 1971), trad. it. Torino, 1978, p. 93 e ss. Per il suolo della
storia come strumento di consapevolezza, cfr. J. JAYNES, Il crollo della mente bicamerale e
l’origine della coscienza, (1976) trad. it., Milano, (1984) II ed. 1988, p. 92 e ss., nonché p.
307 e ss.; per il profili più squisitamente politici, cfr. H. BLUMENBERG, Arbeit und Mytos,
Frankfurt a. M., 1991, specialmente p. 274 e ss. Per i riferimenti peculiari nello sviluppo
della letteratura greca classica sul punto, cfr., oltre ai classici saggi di A. J. TOYNBEE, Il
mondo ellenico, (1959) trad. it. Torino, 1967, p. 52 e ss., e di P. L’ÉVÊQUE, L’aventure
greque, trad. it., La civiltà greca, Torino, 1970, p. 215 e ss., si veda anche l’ottimo studio
di B. SNELL, Die Entdeckung des Geistes. Studien zur Entstehung Denkens bei den
Griechen, trad. it. La cultura greca e le origini del pensiero europeo, Torino, 1963, p. 70 e
ss., nonché 141 e ss., 190 e ss.
402 E. CROSA, Miti e realtà costituzionali, cit., p. 316.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
263
La difficoltà è stata percepita fin da subito in seno all’Assemblea
costituente, proprio nel momento di coniare la nuova formula che sancisse
in termini giuridici il principio della sovranità popolare.403
La prima discussione –ci informa, con la consueta precisione di
storico, Maurizio Fioravanti-404
si ebbe nelle sedute del 28 e 29 novembre
e del 3 dicembre 1946 all’interno della Commissione dei 75, ove si stabilì
la necessità di dedicare un articolo alla sovranità e allo Stato. Una prima
versione, nel solco della tradizione, affermava la sovranità dello Stato, pur
dichiarando l’esercizio dei poteri da parte del popolo, sia direttamente, sia
per il tramite di rappresentanti eletti. Si tratta di una posizione che
cementava Dossetti, Moro, La Pira e perfino Togliatti nel ritenere la
sovranità popolare un dogma politico ottocentesco, tanto che lo stesso
Togliatti chiamato ad esprimersi sul punto si pronunciò in favore della
sovranità dello Stato, in apparente iatus con la matrice delle idee che
professava. In verità le sinistre avevano ragione di temere la deriva
populista della sovranità statale, con la possibilità di far risorgere il potere
costituente contro il costituito, tramite il referendum, preferendo ottenere
dal parlamento le innovazioni sociali del proprio programma. Non era da
sottovalutare altresì la “sindrome bonapartista” di un potere forte
legittimato dal basso, che potesse contrapporsi alla gracile struttura
politica che si andava edificando, preferendo l’immagine della Nazione
alla nazione.405
Questa posizione, peraltro, si coniugava con la tradizione
giuridica liberale espressa per voce di Oreste Ranelletti, che dalle colonne
de “Il Foro Italiano” stigmatizzava pressoché tutte le novità della
costituzione, affermando la necessità del principio della sovranità dello
403 L’idea di contrapporre ad un principio il suo contrario, al modo del
capovolgimento, denota uno degli aspetti della struttura propria dell’utopia. Infatti “la
metamorfosi, cioè la trasformazione globale, costituisce l’autentica struttura del progetto
utopico che, indipendentemente dalla forma assunta, si presenta come alternativa globale
dell’esperienza sociale e politica presente”, ben indicato nel gesto che si fa rovesciando
dorso con palmo della mano per significare un cambiamento “da così a così”. Per questo e
per gli altri aspetti dell’utopia che ne fanno una filosofia simulata, cfr. F. GENTILE,
Intelligenza politica e ragion di stato, II ed., Milano, 1984, p. 107 e ss.; la citazione è a p.
110.
404 Cfr. M. FIORAVANTI, Sovranità e forma di governo, in M. Fioravanti e S.
Guerrieri (a cura di), La Costituzione italiana, Roma, 1999, p. 36-66, il punto è a p. 43.
405 Questa almeno l’interpretazione della posizione delle sinistre data da M.
FIORAVANTI, Sovranità e forma di governo, cit., p. 45.
QUESTIONI DI SOVRANITÀ
264
Stato, come architrave indefettibile dell’ordinamento, di ogni
ordinamento. Da questo dogma discendevano come corollari la necessità
di un presidente eletto, con possibilità di veto o comunque di influenza sul
potere legislativo, un governo forte, non semplice proiezione della
maggioranza parlamentare, il controllo delle leggi affidato alla Corte di
Cassazione, per mantenere quanto più rigida la divisione di Montesquieu,
profetando l’ineliminabile politicizzazione che avrebbe affetto la
Consulta.406
Sorvolando sull’osservazione che le critiche di Ranelletti alla
Carta erano destinate a divenire, cinquant’anni dopo, i capisaldi delle
proposte di riforma dell’ordinamento, preme qui considerare come sul
punto della sovranità dello Stato la tradizione liberale e le sinistre si
trovassero in pieno accordo, non in forza di un transeunte compromesso,
ma per fondato convincimento, pur nella diversità di approccio
epistemico.
La provocazione giunge nelle sedute del 22 e 24 gennaio 1947 che
si caratterizzano per l’intervento di Roberto Lucifero d’Aprigliano, di
provata fede monarchica (primo cugino di Falcone, già ministro della Real
Casa), che sfida tutti coloro che avevano voluto la repubblica ad essere
coerenti fino in fondo, scrivendo ben chiaro nella Costituzione che la
sovranità risiede nel popolo, secondo la nota formula giacobina. Le
cronache ci informano di una levata di scudi unanime, che nulla voleva
concedere allo spirito del giacobinismo, sostenendo una repubblica
parlamentare rappresentativa.407
Tuttavia, contro la formula proposta che la sovranità emana dal
popolo ed è esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione e delle
leggi, è dunque prevalsa poi la dicitura per cui la sovranità non emana
soltanto, ma è del popolo, che ne è dunque il titolare. Per quella strana
correlazione –già sottolineata più volte nei paragrafi che precedono-
secondo la quale in tanto un soggetto è in quanto è capace di atti di
volontà giuridicamente rilevanti, dall’attribuzione della sovranità al
popolo, corroborata da un suo indiscusso esercizio immediato, non si
poteva che dedurne la personalità del popolo. Con il conseguente
imbarazzo di avere un popolo - persona accanto ad uno Stato - persona;
406 Cfr. O. RANELLETTI, Note sul progetto di Costituzione presentato dalla
Commissione dei 75 alla Assemblea Costituente, in “Il Foro Italiano”, 1947, p. 81 e ss,
citato da M. FIORAVANTI, Sovranità e forma di governo, cit., p. 40-41.
407 Cfr. M. FIORAVANTI, Sovranità e forma di governo, cit. p. 44.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
265
imbarazzo creato dall’idea che due persone - Stato non possono essere
nello stesso tempo sovrane, in virtù (forse inconsapevolmente) della
categoria dell’unicità che sostiene la sovranità, cioè dell’impossibilità,
dell’incapacità di riconoscere altro da sé. In altri termini, una volta
riconosciuta allo Stato la personalità giuridica, si ritiene impossibile anche
solo pensare che lo Stato persona non sia soggetto di sovranità. Si tratta
del dogma della sovranità dello Stato in conseguenza della sua personalità
giuridica. Alla luce di quanto si è visto nei capitoli che precedono, non è
difficile riconoscere in questo assunto il prodotto più maturo della
speculazione germanica, importato da Vittorio Emanuele Orlando,408
ma
soprattutto, pur con le note elaborazioni originali, da Santi Romano, che
ha sempre sostenuto la correlazione personalità dello Stato – sovranità.409
Nello stesso volume ove Crosa parla del mito, Egidio Tosato
afferma con vigore l’effettiva sovranità del popolo,410
aderendo alla tesi
del collega ed amico Crisafulli, che vi aveva dedicato uno studio critico
approfondito.411
Ma tutti questi autori non si nascondono le difficoltà di
inserire il principio nell’ordinamento, di trasformare il mito in norma.
408 Trovo la prima dichiarazione programmatica di adesione in V. E. ORLANDO, I
criteri tecnici per la ricostruzione giuridica del diritto pubblico, 1889, in “Arch. Giur.”,
vol. XLII, p. 107 e ss. Successivamente, com’è noto, le osservazioni critiche si trovano in
IDEM, Capitoli aggiunti a G. JELLINEK, Dottrina generale dello Stato, trad. it. Milano,
1921, p. 735-736.
409 Cfr. S. ROMANO, Lo stato moderno e la sua crisi, in “Riv. dir. pubb.”, 1910, p.
97 e ss; IDEM, L’ordinamento giuridico, Pisa, 1917-18; IDEM, Principi di diritto
costituzionale generale, Padova, 1946, p. 66, 120, 144. Per le aporie della dottrina, non
solo romaniana, nell’equiparazione di Stato ed ordinamento, cfr. F. GENTILE, Ordinamento
giuridico. Controllo o/e comunicazione? Tra virtualità e realtà, in appendice a U.
PAGALLO, Testi e contesti dell’ordinamento giuridico, II ed., Padova, 1999, specialmente §
18 e ss, ora in edizione autonoma Ordinamento giuridico. Tra virtualità e realtà, Padova,
2000.
410 Cfr. E. TOSATO, Sovranità del popolo e sovranità dello Stato, in “Studi in onore
di Giuseppe Menotti De Francesco”, Milano, 1957, vol. II, p. 1-49; poi riprodotto in IDEM,
Persona, società intermedie e Stato, Milano, 1989, p. 25-82, da cui citeremo in seguito. La
circostanza che nel medesimo volume due saggi siano dedicati alla sovranità popolare,
oltre allo studio di Crisafulli, citato alla nota seguente, dimostra l’importanza della
questione per la dottrina del tempo, non potendosi resistere alla tentazione di ridisegnare
tutto l’ordinamento alla luce di questo fondamentale principio.
411 Cfr. V. CRISAFULLI, La sovranità popolare nella Costituzione italiana, in
“Rassegna Giuliana di diritto e giurisprudenza”, 1954, poi in “Scritti in onore di V.E.
QUESTIONI DI SOVRANITÀ
266
Se dunque il primo attributo dello Stato persona è la sovranità e
(seppure lo Stato è sempre ordinamento, ma può non essere persona)
riconoscendo, come diffusamente si faceva, personalità allo Stato italiano,
l’ordinamento giuridico risulta riposare su due principi contraddittori: la
tradizione della personalità dello Stato e la dichiarazione della sovranità
del popolo.
Comincia così la rincorsa per riappropriarsi del principio originario,
la ricostruzione dell’unità perduta.
La prima soluzione consiste nel riprendere in pieno la tradizione
labandiana, affidandovisi completamente, dopo aver semplicemente
sostituito alla sovranità di un organo, la sovranità di un altro organo dello
Stato: il popolo.412
Secondo un paradigma che abbiamo già visto nei
paragrafi che precedono, il popolo non costituisce un entità distinta dallo
Stato, non è nemmeno semplicemente un suo elemento costitutivo, ma ne
è vero e proprio organo. Sicché l’antitesi tra sovranità del popolo e
sovranità dello Stato viene superata nella sintesi organica tra i due. E
poiché lo Stato non può che agire tramite i suoi organi, la circostanza che
la sovranità appartenga all’organo popolo si limita ad indicare che essa è
esercitata in modo democratico. Dal punto di vista della rappresentanza
questa costruzione non ci fornisce nulla di nuovo a quanto non si sia già
notato supra trattando dei due maestri del diritto pubblico tedesco. Più
interessante l’eccezione che viene mossa a questa costruzione da Vezio
Crisafulli, sostenendo che un organo, in quanto tale, esercita poteri non
propri, ma facenti capo all’ente di cui l’organo altro non è che uno
strumento. Forte del dato positivo che attribuisce al popolo la titolarità
della sovranità, Crisafulli ha buon gioco nel porre in contraddizione il
ruolo strumentale dell’organo con la titolarità del potere, proponendo una
concezione del popolo come ente a sé stante, collocato al di fuori dello
Orlando”, Padova, 1955, vol. I, p 407, infine in IDEM, Stato, popolo governo. Illusioni e
delusioni costituzionali, Milano, 1985, p. 89 e ss, da cui citiamo anche in seguito.
412 In verità, come si è visto sopra, la configurazione del popolo come organo
primario dello Stato, più che quella di Laband, caratterizza la costruzione di Jellinek,
costituendone anzi il tratto precipuo. Non di meno gli autori italiani del secondo
dopoguerra fanno esplicito riferimento più all’opera del giurista di Strasburgo che al suo
collega di Heidelberg. Cfr. supra n. 376.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
267
Stato – persona, rinunciando così all’unità propria della tradizione
tedesca.413
Per la verità, lo stesso Santi Romano aveva, già prima della
costituzione repubblicana, enucleato l’idea del popolo come collettività
autarchica di fronte allo Stato, pensiero poi sviluppato, com’è noto, nella
teoria istituzionalistica, tematizzata da Gierke e ripresa Hauriou. I termini
della posizione sono chiari, pur nelle diverse varianti fornite dall’autore
nel corso della sua speculazione nella continua tensione per affinare il
concetto.414
In questa prospettiva il popolo esercita poteri che gli sono
propri, e lo fa non in nome altrui, ma direttamente in nome proprio,
ponendo in essere atti di volontà giuridicamente rilevanti come corpo
elettorale. Non di meno, come si vede, se la costruzione di Santi Romano
ha il pregio di rompere il monolitismo labandiano, cui l’autore aveva in
principio entusiasticamente aderito, non si concilia con il principio della
sovranità popolare. Fedele alla sua teoria della personalità dello Stato,
Romano mantiene fermo il principio della sovranità statale e pone di
conseguenza il popolo, giuridicamente organizzato in corpo elettorale,
come un soggetto dotato di autarchia, di indipendenza logico - giuridica
nei confronti dello Stato, cui resterebbe attribuita la sovranità. Ne
consegue che il popolo non può essere sovrano, ma, appunto, tutt’al più
autarchico, indipendente. Tuttavia, la costruzione importa un’altra
incongruenza logica, che non risulta esser stata rilevata dalla dottrina. Lo
stesso riconoscimento di una posizione di indipendenza, addirittura di
estraneità allo Stato, assegnata al popolo mina pericolosamente la
sovranità statale, che si trova limitata da un corpo sottratto al proprio
potere che, anzi, ha potere di influire sullo Stato stesso. Lo stridente
contrasto viene sfumato proprio dall’elaborazione della teoria
istituzionalistica che riporta all’interno dello Stato le diverse istituzioni
originarie che concorrono a costituirlo. Ma a questo punto è proprio la
concezione tradizionale di sovranità, intesa quale superiorem non
recognoscere che dev’essere ripensata. In tema di rappresentanza, poi, la
413 Cfr. Cfr. V. CRISAFULLI, La sovranità popolare nella Costituzione italiana, in
IDEM, Stato, popolo governo. Illusioni e delusioni costituzionali, Milano, 1985, p 111 e ss.
414 Cfr. S. ROMANO, Corso di diritto costituzionale, Padova, 1926, p. 166. Come si
è detto supra, l’autore aveva in un primo tempo abbracciato la costruzione di organica più
nella variante di Jellinek che in quella di Laband: cfr. IDEM, nozione e natura degli organi
costituzionali dello Stato, Palermo, 1898. Per le osservazioni critiche alla prospettiva
generale di questo autore, si veda anche supra alle note n. 115 e 409.
QUESTIONI DI SOVRANITÀ
268
posizione romaniana conduce all’aporia per la quale il popolo è si
soggetto a sé stante, capace di propri atti di volontà e quindi anche di
eleggere dei propri rappresentanti, ma questi ultimi divengono organi
dello Stato, partecipando della sua sovranità, in una posizione, dunque,
antitetica alla loro qualità di rappresentanti, riconducendo la figura in un
paradigma già visto nelle pagine che precedono.
Altrettanto insoddisfacente è stata ritenuta la posizione di Mortati
che ha proposto una figura anfibia di corpo elettorale, inteso come organo
dello Stato nella formazione di altri organi dello Stato, mentre avrebbe
una posizione esterna quando svolge funzioni di stimolo nei confronti di
altri organi dello Stato o esprime volontà ad essi contrarie, come nel
referendum abrogativo.415
Anche questa teoria non rende conto della
sovranità popolare, dacché anziché riunire le figure di Stato e popolo,
scinde ulteriormente quest’ultimo inteso ora come individuo, ora come
parte del tutto. La posizione trova la sua radice, forse inconsapevole, nella
teoria di Jean Jaques Rousseau, mai citato dall’insigne costituzionalista
romano, che tenta di far coincidere l’ipotetico uomo dello stato di natura
col cittadino proponendo lo sdoppiamento del primo in numeratore e
denominatore, da una parte come unico, dall’altra come parte del tutto,
che può così contrattare con sé stesso per l’edificazione dello stato
civile.416
Come si vede, la soluzione proposta in realtà si limita a spostare
il problema, giacché se il popolo, per la parte in cui è organo dello Stato
non è sovrano, per la parte in cui si contrappone allo Stato riproduce quel
dualismo di pretese sovranità, quella popolare e quella dello Stato
appunto, che era il problema cui si voleva dare soluzione. Superfluo dire
che in tal modo ogni tentativo di costruire la rappresentanza si infrange
nelle eccezioni che possono venire mosse da ambo i fronti: per la parte in
cui il popolo è organo dello Stato, la rappresentanza non si pone, attesa
l’identità di posizione tra ente e suo organo, secondo quanto si è visto
essere l’insegnamento degli Epigonen; per la parte in cui il popolo è fuori
dallo Stato, si propone il problema dell’autoesclusione di due enti che si
pretendono sovrani.
415 Così C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, II ed., Padova, 1952,
rispettivamente p. 45 e 226.
416 Cfr. sul punto, assimilato al problema della quadratura del cerchio in geometria,
le osservazioni critiche di F. GENTILE, Intelligenza politica e ragion di stato, II ed.,
Milano, 1984, p. 161.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
269
Più raffinata, l’ulteriore versione di questa teoria (che si appalesa in
realtà come uno sviluppo del pensiero di Santi Romano e, per questa via,
di Otto von Gierke) proposta da Balladore Pallieri, che richiama la
distinzione tra Stato - ordinamento, inteso come la collettività organizzata,
mentre lo Stato – persona è visto come l’apparato di governo, la sua
struttura organizzativa.417
Se il popolo, come collettività organizzata, è
elemento costitutivo dello Stato – ordinamento, in ossequio alle posizioni
tradizionali francesi del Cinquecento, esso deve considerarsi del tutto
separato dallo Stato – persona o Stato – apparato, inteso appunto come il
sistema di organi ed uffici necessari per l’espletamento delle funzioni
fondamentali dello Stato. La tesi dovrebbe condurre ad una soluzione del
problema della titolarità della sovranità, riconoscendola in capo al popolo,
con possibilità di esercitarla direttamente per certi aspetti, mentre per altri,
sovrano dovrebbe essere lo Stato – persona. Come si vede, la tesi non
risolve il dualismo, insistendo nella proposizione di due poli di sovranità
interdipendenti, concretando una contradictio in terminis, prima che una
violazione del disposto testuale del più volte citato articolo 1 della Carta.
Peraltro, tutte le costruzioni che scindono Stato - persona e Stato –
apparato sono debitrici, forse inconsapevolmente, della teoria della doppia
personalità dell’amministrazione, ed in qualche misura l’alimentano.418
La
costruzione di Balladore, inoltre, è stata criticata da Crisafulli perché il
dato positivo attribuisce al popolo tutta la sovranità, ponendovi solamente
dei limiti al relativo esercizio, sicché non sarebbe nemmeno pensabile una
titolarità dello Stato – persona.419
In verità, ci sembra che il tenore della
417 In perfetta assonanza con i colleghi d’oltralpe, Donato Donati riconosceva
l’elemento costitutivo dello Stato non nel popolo in quanto tale, quanto nel complesso dei
pubblici funzionari come tali, cioè l’organizzazione, anticipando quindi quegli autori
ricordati nel testo che attribuiscono la personalità allo Stato – apparato. Peraltro, giova
ricordare che, con logica conseguenza, l’autore padovano concepiva anche il popolo come
organo dello Stato, nei momenti di sua partecipazione diretta alla sovranità dello Stato, in
perfetto accordo, ancora una volta, con la posizione di Jellinek: si veda supra ai due §§
precedenti.
418 Per le premesse teoriche quantomeno ambigue e per le conseguenze pratiche
insoddisfacenti della teoria della doppia personalità dell’amministrazione, con particolare
riguardo alla tutela del patrimonio immobiliare del singolo, cfr. F. VOLPE, Le
espropriazioni amministrative senza potere, Padova, 1996, p. 56-56 e 127.
419 Cfr. Cfr. V. CRISAFULLI, La sovranità popolare nella Costituzione italiana, in
IDEM, Stato, popolo governo. Illusioni e delusioni costituzionali, Milano, 1985, p 102 e ss.
QUESTIONI DI SOVRANITÀ
270
proposta di Balladore Pallieri non mirasse a stabilire due centri di
sovranità, quasi secondo un criterio di competenza, quanto piuttosto un
ruolo servente dello Stato – persona nei confronti del vero sovrano, cioè il
popolo. Peraltro, la critica mossa alla tesi del Balladore si fonda sull’idea
di “limite” che si pone in contrasto già di per sé con l’idea di sovranità. In
questo senso, a ben vedere, il dato normativo testuale dimostra tutta la sua
ambiguità nell’affermazione solenne di attribuzione (o riconoscimento?)
della sovranità al popolo, subito accompagnata ad un limitazione
nell’esercizio, che può avvenire solo in determinati modi. A chi sostenesse
questa posizione, insistendo sul dato letterale della norma, possono essere
mosse almeno due osservazioni, che abbiamo già incontrato nelle pagine
precedenti. Da un lato, infatti, l’attribuzione del sommo potere, la
decisione dello stato di eccezione, il potere costituente, non può essere
soggetto a limiti: o esso è, oppure non è. È questa la posizione vista sopra,
dove la posizione era stata proposta all’Assemblea rivoluzionaria, nel
tentativo di imbrigliare il potere costituente, per cristallizzarlo nelle forme
del costituito; ma, una volta accolte le premesse, la consequenzialità
logica di Robespierre si presenta, è il caso di dirlo, incorruttibile: On ne
peut pas dire que la nation ne peut exercer ses pouvoirs que par
délégation; on ne peut point dire qu'il y eût un droit que la nation n'ait pas;
on ne peut bien régler qu'elle n'en usera point, mais on ne peut pas dire
qu'il existe un droit dont la nation ne peut pas user si elle veut.”420
E pare invece proprio questa la tesi sostenuta da Crisafulli, ove da
un lato afferma (in modo logicamente corretto) l’unica titolarità della
sovranità in capo al popolo, affiancandola tuttavia ad un esercizio che
viene promosso parte in modo diretto, parte in modo indiretto, per mezzo
dello Stato che si pone in veste di rappresentante. In altri termini, il potere
spetta tutto e solo al popolo, che lo esercita in parte direttamente negli
istituti di democrazia diretta, mentre in parte lo esercita tramite lo Stato –
apparato, che si pone così, come rappresentante del popolo: “lo Stato non
è il popolo, ma lo rappresenta nel mondo del diritto”, non come un
sostituto, ma come un rappresentante vero e proprio. Infatti, secondo il
chiaro autore, la forma di espressione unitaria della volontà popolare è e
resta lo Stato – soggetto, “avente carattere rappresentativo del popolo e
420 A.P., ser. I, vol. XXIX, p. 326-7; cfr. anche R. CARRÉ de MALBERG,
Contribution cit., vol. II, p. 261.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
271
strutturato in modo tale da esprimere quanto più è possibile, nella propria
attività, gli orientamenti politici prevalenti nel popolo.”421
La tesi non va esente da critiche, secondo l’amico e collega Tosato,
che si chiede come possa dirsi rappresentante ciò che è qualificato organo.
Infatti, l’idea di organo suggerisce l’assenza di titolarità giuridica dei
poteri che esso esercita, secondo quando era già stato affermato da
Jellinek: “das Organ als solches besitzt dem Staate gegenüber keine
Persönlichkeit“422
. In altri termini, secondo la classificazione dogmatica
tradizionale, l’organo svolge funzioni strumentali nell’esercizio di poteri
altrui, con la conseguenza che gli effetti giuridici delle sue azioni –ed è
questa la differenza dalla rappresentanza- ricadono in capo non ad un altro
soggetto, ma in capo allo stesso ente di cui l’organo è emanazione. Sicché,
mentre il rapporto rappresentativo è trilatero, dipanandosi sui tre poli di
rappresentato, rappresentante e terzi, il rapporto organico si manifesta tra
l’ente, che agisce per mezzo dei suoi organi, ed i terzi. La soggettività –
osserva Tosato- implica titolarità di poteri propri, ed il concetto di
personalità esclude radicalmente il concetto di strumentalità. Se ne deduce
la contraddittorietà di una concezione dello Stato apparato come “persona
essenzialmente strumentale.” Specularmente, continua l’autore, non si
vede per quale ragione non possa essere considerato soggetto di diritto il
popolo, che viene affermato sovrano, sia come potere costituente, ma
anche, preferibilmente per l’autore, come potere costituito. Respinta ogni
tentazione rousseauiana di parcellizzazione della sovranità tra i singoli
componenti il popolo, non sembra potersi sfuggire alla conseguenza per la
quale “la sovranità è attribuita quindi al popolo come unità indivisibile, e
pertanto, anche da questo punto di vista, nulla impedisce la conseguente
considerazione del popolo stesso come soggetto, come persona
giuridica”.423
Appare del tutto superfluo richiamare come anche questo
passaggio logico, al pari di molti altri incontrati nel nostro percorso, si
regga sull’equazione essere – volere: poiché il popolo vuole, in quanto
sovrano, il popolo è come soggetto. La necessaria conseguenza di
421 Cfr. Cfr. V. CRISAFULLI, La sovranità popolare nella Costituzione italiana, in
IDEM, Stato, popolo governo. Illusioni e delusioni costituzionali, Milano, 1985, p 132.
422 Cfr. G. JELLINEK, Allgemeine Staatslehre, (Heidelberg, 1900) III ed., Berlin,
1914, p. 559/60. “L'organo così inteso non ha nei confronti dello Stato alcuna personalità”.
423 Cfr. E. TOSATO, Sovranità del popolo e sovranità dello Stato, cit., p. 47, 48 e
51.
QUESTIONI DI SOVRANITÀ
272
affermare la soggettività del popolo, una volta riconosciutagli la sovranità,
non risolve tuttavia il problema di partenza, cioè il rapporto tra sovranità
del popolo e soggettività (e conseguente sovranità) dello Stato. La
proposta dell’autore risulta lapidaria, affermando che “il popolo è lo Stato,
che la personalità giuridica del popolo coincide esattamente con la
personalità dello Stato, che la persona dello Stato si identifica con la
persona del popolo e che quindi la sovranità del popolo non è che la
sovranità dello Stato e viceversa.”424
La suggestione testuale di un ritorno
al più rigoroso labandismo viene addirittura corroborata dal richiamo alla
posizione di Carlo Esposito425
e a due citazioni del già incontrato Oreste
Raneletti, che appaiono la parafrasi se non la mera traduzione dell’opera
del giurista di Strasburgo.426
In verità a ben guardare, la tesi risulta
opposta, concretando un rovesciamento della costruzione labandiana,
giacché Tosato non si ferma qui. Se infatti il popolo coincide con lo Stato
- ordinamento, l’idea di uno Stato apparato, inteso come complesso di
424 Cfr. E. TOSATO, Sovranità del popolo e sovranità dello Stato, cit., p. 70.
425 Allievo prima di Adolfo Ravà e poi di Donato Donati, Carlo Esposito aveva
importato dal suo primo maestro l’influsso germanico più squisitamente teorico
nell’elaborazione dell’idea di ordinamento giuridico poi sviluppata dagli studiosi italiani.
L’autore acutamente rileva come il problema consista non tanto nell’attribuzione formale
della sovranità, ma “a chi l’ordinamento attribuisca il potere supremo di decidere”, con una
formula troppo simile al giudice dello stato di eccezione di Schmitt e Kelsen per poter
essere casuale. Peraltro, l’autore afferma che la precisazione delle modalità di esercizio
della sovranità non costituiscono un limite al potere costituente, quanto l’organizzazione di
un potere che non c’è prima e fuori dell’ordinamento. Cfr. C. ESPOSITO, La Costituzione
italiana- Saggi, Padova, 1954, p. 11.
426 “Il popolo non è fuori e sopra lo Stato, ma nello Stato, e di questo è elemento
costitutivo. Lo Stato è il popolo stesso organizzato (…) Il popolo, perciò, non può essere
considerato come una unità o personalità diversa e distinta dallo Stato.” Così O.
RANELLETTI, Principi di diritto amministrativo, Napoli, 1912, nonché IDEM, Istituzioni di
diritto pubblico, Milano, 1956, citato in E. TOSATO, Sovranità del popolo e sovranità dello
Stato, cit., p. 71 e 72, che sottolinea l’identità di posizione dell’autore dal primo lavoro agli
scritti successivi all’entrata in vigore della Costituzione. Per parte nostra, la citazione
merita di essere riportata per constatarne l’assonanza pressoché letterale con i perentori
assunti di Laband: "Das gesamte deutsche Volk hat keine vom Deutschen Reiche
verschiedene und ihm gegenüber selbständige Persönlichkeit, ist kein Rechtssubjekt und
hat juristisch keinen Willen; es ist daher außer Stande, eine Vollmacht oder einen Auftrag
zu erteilen und Rechte oder Willensakte durch Vertreter auszuüben. Eine positive,
juristische Bedeutung hat die Bezeichnung der Reichstagsmitglieder als Vertreter des
gesamten Volkes daher nicht; im juristischen Sinne sind die Reichstagsmitglieder
niemandes Vertreter" Cfr. supra nota n. 372.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
273
organi, produce l’assurdo di un soggetto, privo di poteri, con funzioni
meramente serventi. Senza ricorrere a tali finzioni l’autore raccoglie ed
affina la proposta di Crisafulli, proponendo che i cosiddetti organi siano
intesi come veri e propri rappresentanti, e con estrema lucidità così
conclude: “ciò che è necessario invece è un riesame del concetto della
persona Stato, per rendersi conto che questo non è un soggetto astratto,
uno schema e, in definitiva, una finzione, costruita al fine di ricondurre ad
unità le varie attività statali, finzione della quale si può anche fare a meno,
come inutile ipostasi; ma un soggetto che impersona la realtà concreta e
vivente di una collettività umana giuridicamente ordinata a Stato e che
agisce, normalmente, per mezzo di persone che non sono organi ma
rappresentanti veri e propri, e quindi personalmente e responsabilmente
investiti dell’esercizio di poteri spettanti al popolo, sul quale poi, in
definitiva, ricadono, e non astrattamente, gli effetti, favorevoli e
sfavorevoli, della loro attività.”427
Le ultime due tesi testé esposte, quelle di Crisafulli e Tosato, ci
sono di conforto, poiché si richiamano, concordandovi, alla fondamentale
struttura della rappresentanza, alla quale si era giunti per altra via, nel
primo capitolo di questo lavoro. Da un lato, la posizione di Crisafulli
distingue il popolo dall’insieme dell’apparato statale, nella molteplicità
dei suoi organi, contrapponendo l’uno agli altri, recuperando quella
distinzione di ruoli che si era venuta progressivamente eclissando nel
percorso che dagli Epigonen conduce agli emuli di Laband, di pari passo
con la perdita di consapevolezza delle premesse hegeliane che ne
sostenevano le costruzioni. Dall’altro, la precisazione di Tosato riporta nei
dovuti termini giuridici il rapporto tra popolo ed apparato dello Stato,
dichiarando la soggettività giuridica di quest’ultimo e fornendo così al
parlamento quella autonomia che non aveva avuto nelle costruzioni
precedenti, ove era ridotto comunque al ruolo subalterno e servente tipico
dell’organo. Tuttavia, quest’ultima posizione appare chiarificatrice anche
dal punto di vista squisitamente logico. Infatti, la distinzione tra modello
organico e paradigma rappresentativo è data sulla distinzione
rappresentato - rappresentante – terzi rispetto a quest’ultimo, contrapposto
al meccanismo ente per mezzo dell’organo – terzi rispetto al primo. Ora,
lasciando da parte i terzi, elemento comune ai due schemi, che si pone
all’esterno della costruzione, quasi come piano di riscontro, ci sembra che
la distinzione si sveli tra la struttura eminentemente dualista propria della
427 Cfr. E. TOSATO, Sovranità del popolo e sovranità dello Stato, cit., p. 81-82.
QUESTIONI DI SOVRANITÀ
274
rappresentanza, con un rappresentato reale, distinto da un rappresentante,
parimenti esistente, e la struttura monista propria dell’organicismo. Non
c’è dubbio che entrambi i chiari autori riconoscano in tal guisa lo schema
della rappresentanza, né può esservi dubbio che per entrambi la
rappresentanza, in questo suo proprio schema, sia applicabile al diritto
pubblico, anzi ai vertici del diritto pubblico, ove si pone il diritto
costituzionale. Quest’aspetto conforta non poco in ordine alla struttura
della rappresentanza, al di là della distinzione tra privato e pubblico, ed
alla sua spendibilità nel diritto costituzionale. E la sovranità? Come si
pone la forma dell’unicità alla base della sovranità, ancorché sovranità
popolare? Non si era posta l’antitesi tra unicità sovrana e dualismo
rappresentativo? Il nodo dev’essere qui ripreso per essere sciolto.
A ben vedere, da un punto di vista squisitamente logico, l’unico -
sovrano non ammette nemmeno un proprio rappresentante che abbia una
soggettività distinta dalla sua, che si ponga come altro da sé, poiché già la
sola esistenza di un elemento estraneo intacca la sua unicità: non è un caso
il successo della teoria degli organi, concepiti appunto come entità
ricomprese nel grande unicum dello Stato. Ed è ancora Tosato ad
osservare con una battuta che all’État c’est moi del principe è succeduto,
dopo la Rivoluzione francese, l’État c’est moi del popolo, emulazione che
non deve consentire un indebito mutamento dello status giuridico dei
pubblici funzionari, complice la dottrina secolarizzata che attribuisce allo
Stato, progressivamente astratto e spersonalizzato, le caratteristiche del
dio mortale, di cui i servitori (non diversi da quelli che accudivano il Re
Sole, lascia sarcasticamente intendere l’autore) si ammantano a sacerdoti.
“Penetrata ormai nella loro mentalità, avviene infatti che, troppo spesso, i
funzionari e gli incaricati di pubblici servizi si credono, o danno
l’impressione di ritenersi, nell’esercizio della loro competenza, anziché
rappresentanti personalmente individuati e responsabili, ed agenti in nome
e per conto del popolo, organi di quel fantasma inafferrabile ed
inaccessibile che è, come viene presentato da una parte della dottrina, la
persona dello Stato; organi, e quindi espressioni di un ufficio che
nasconde e assorbe la loro personalità, così che tutto si svolge e procede,
come procede, nel campo dell’impersonalità, il che significa talvolta
irresponsabilità”.428
La diagnosi non potrebbe essere più pregnante, così
come abbiamo visto essere puntuale la terapia: il principio di
responsabilità. E si tratta dell’ulteriore elemento che abbiamo visto
428 Cfr. E. TOSATO, Sovranità del popolo e sovranità dello Stato, cit., p. 80.
DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA
275
caratterizzare la rappresentanza, la misura del rapporto che lega il diritto
del rappresentante ad agire, delimitandone l’ampiezza, al diritto
dell’elettore ad essere rappresentato. È di tutta evidenza che il principio di
responsabilità si pone per sua definizione in contrasto insanabile nei
confronti dell’idea stessa di sovranità. Sicché il sovrano come non può
tollerare un rappresentante non può ammettere di essere responsabile di
fronte a qualcuno. Ma in questo caso, abbiamo visto, è proprio l’eletto a
venire considerato responsabile e non – sovrano, rompendo una tradizione
perpetuatasi a partire da Sieyès. Tuttavia, il principio di responsabilità
opera anche nei confronti del soggetto verso cui si è tenuti a rispondere,
ridimensionandone l’assolutezza, come si è detto: il dualismo
rappresentativo è infatti biunivoco, giacché allo stesso rappresentante
dev’essere garantita una reale esistenza, un’autonoma volontà e posizione,
cioè quel fascio di obbligazioni che costituisce la situazione giuridica
soggettiva del rappresentante distinguendolo dal mero nuncius, secondo
quanto si è avuto modo di dire supra al § I.2. Come si può sostenere allora
che il popolo, il rappresentato, sia sovrano, senza provocare un’intima
contraddizione nel pensiero appena esposto? L’equivoco si annida
nell’uso del termine sovranità. In verità, lo stesso Tosato, che come si è
visto si dimostra attento nel correggere Crisafulli nell’uso dei termini
“organo” e “rappresentante”, pur dimostrando consapevolezza fin dai
tempi dell’Assemblea costituente dell’autentica portata del termine
“sovranità”, ne fa qui uso nel senso di potestà suprema, ma all’interno di
un ordine, non di potere assoluto fino ad essere arbitrario. La riprova si ha
nel saggio sul principio di sussidiarietà che, indicando i limiti e i doveri
dell’intervento statale, anticipa di quarant’anni temi oggi di pressante
attualità,429
tracciando le modalità di aiuto, di subsidium dei compiti dello
Stato, precisandone il dovere di rispetto della persona e delle comunità
intermedie. Solo in questo senso la “sovranità” (le virgolette, come si
429 Per una disamina delle diverse posizioni nel dibattito italiano sul principio di
sussidiarietà, rinvio alla relazione di P. RIDOLA, Forma di Stato e principio di
sussidiarietà, in ASSOCIAZIONE ITALIANA DEI COSTITUZIONALISTI (a cura della), La riforma
costituzionale, Atti del convegno (Roma, 6 – 7 novembre 1998), Padova, 1999, p. 177,
nonché al relativo intervento di D. FISICHELLA, sulle ragioni della polivalenza del concetto,
ivi, p. 213. Per una concisa indagine teoretica alle radici del principio di sussidiarietà, cfr.
F. GENTILE, Che cosa si intende per sussidiarietà, “Non profit. Diritto, management,
servizi di pubblica utilità”, V (1999), n. 4, pp. 639-647, nonché IDEM, Il principio di
sussidiarietà e la pedagogia del diritto naturale, “La società”, IX (1999), n. 4, pp. 749-
761.
QUESTIONI DI SOVRANITÀ
276
capisce, diventano d’obbligo) del popolo, che è la “sovranità” dello Stato,
può porsi nella categoria non assoluta, non unica del rappresentato, che ha
e rispetta il proprio rappresentante, con una specifica figura ed un suo
ruolo.
La posizione di Tosato, per quest’ultimo profilo, non era isolata,
com’è dimostrato dalla conclusione cui perviene, per altra via, anche
Emilio Crosa, da cui ha preso le mosse questo paragrafo: “che il termine
sovranità non possa né debba avere come suo presupposto il concetto di
un potere assolutamente indipendente, illimitato, indefinito, sul quale si
operano rinunce, risulta ovvio per qualsiasi giurista, il quale non potrà mai
ammettere che una potestà, considerata nel suo aspetto giuridico, possa
considerarsi illimitata.”430
E continua affermando che l’originale formula
emersa nella Rivoluzione e tralatiziamente riportata nelle principali Carte,
tra cui anche quella italiana, altro non sarebbe che la cristallizzazione
della dottrina rivoluzionaria, espressione e riproduzione di un momento
storico dell’evoluzione del principio, di cui i tempi attuali avrebbero
dimostrato il superamento.
Non vogliamo affermare che il tradizionale concetto di sovranità sia
stato ridimensionato, se non abbandonato (ma certamente
“problematizzato”), dalla dottrina costituzionalistica più attenta. Ci basti
essere stati ampiamente confortati dall’autorevolezza di questa
costruzione, ed avendo appurato nel presente capitolo che il rappresentato
non può essere sovrano, cioè superiorem non recognoscens, così come
non può esserlo il rappresentante, secondo quanto visto nel capitolo
precedente, occorre dunque procedere ad individuare meglio le figure di
rappresentato e rappresentante, cercando di definire i contorni delle
rispettive situazioni giuridiche soggettive.
430 Così E. CROSA, Miti e realtà costituzionali, cit., p. 319.
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
277
4 SITUAZIONI GIURIDICHE SOGGETTIVE E
RAPPRESENTANZA
4.1 Sulla applicazione della rappresentanza nell’ambito pubblico
PREMESSA: TEORIA DELLA DISTINZIONE TRA “RAPPRESENTANZA GIURIDICA” E
“RAPPRESENTANZA POLITICA”: - ELEMENTI DELLA PRIMA: PRESENZA DI DUE SOGGETTI
DETERMINATI O DETERMINABILI; ASTRATTA FUNGIBILITÀ DEL RUOLO DI RAPPRESENTANTE E
RAPPRESENTATO; PRETESA NECESSITÀ DI SPENDITA DEL NOME DEL RAPPRESENTATO; …E
CARATTERISTICHE DELLA SECONDA: PRETESA INDETERMINABILITÀ DEL RAPPRESENTATO;
INSUSCETTIBILITÀ DEL RAPPRESENTATO DI ASSUMERE IL RUOLO DI RAPPRESENTANTE;
ASSENZA DELLA SPENDITA DEL NOME DEL RAPPRESENTATO - ESAME E CRITICA: SULL’INDETERMINABILITÀ DEL RAPPRESENTATO E SUL CONCETTO GIURIDICO DI “PARTE” – IL
RUOLO DELLE ELEZIONI NELLA DISTINZIONE: CARATTERE FITTIZIO DELLA RAPPRESENTANZA
PLASMATA SUL MODELLO LABANDIANO UNA VOLTA RIMOSSI I PRESUPPOSTI
(PSEUDOHEGELIANI) DI QUELL’AUTORE – RAPPORTI TRA RAPPRESENTANZA E POTERE
POLITICO E TRA RAPPRESENTANZA E DIRITTO: CRITICA E RINVIO – RAPPORTI TRA
RAPPRESENTANZA POLITICA ED INTERESSE GENERALE: RUOLO DEL DIVIETO DI MANDATO
IMPERATIVO E RINVIO.
Riprendendo le fila di un dibattito assai ampio, Giuseppe Ugo
Rescigno ha sinteticamente ma puntualmente esposto la propria posizione
attorno alla rappresentanza politica, nei suoi rapporti con il potere, con il
diritto e con l’interesse generale.431
La sua tesi, sia perché ultima in ordine di tempo nel filone a cui
appartiene, sia perché “rappresentativa” della posizione dominante, può
essere qui analizzata in dovuto confronto con quanto esposto al § I.2, per
saggiare la spendibilità di un solo concetto di rappresentanza tanto
all’ambito pubblico quanto nell’ambito privato, dato e non concesso,
come già detto, che tale distinzione sia proficua.
Riferendolo ad un atteggiamento mentale diffuso e facendone
programmatica adesione, l’autore descrive quello che è noto come il
procedimento conoscitivo di classificazione per genere e specie.432
Come
431 Cfr. G. U. RESCIGNO, Alcune note sulla rappresentanza politica, in “Politica del
Diritto”, 1995, p. 543 – 560. Il testo riproduce una lezione tenuta il 16 ottobre 1995 a
Ferrara ai partecipanti al corso di dottorato in diritto costituzionale con sede presso la
facoltà di giurisprudenza di quella Università.
432 Com’è noto, quella che è conosciuta come classificazione per genere e specie
affonda le sue radici nella classicità dovendosene la compita formulazione ad ARISTOTELE
(Top. I, 8, 103 b. 15), poi fatta propria dalla filosofia tomistica, senza dimenticare di
individuarne la radice platonica, chiarissima in PLATONE, Sophista, 251 B), in Tutte le
APPLICAZIONE DELLA RAPPRESENTANZA NELL’AMBITO PUBBLICO
278
immediata conseguenza, dovendo trattare di rappresentanza politica,
correttamente viene richiamata l’attenzione sull’ambivalenza della
specificazione aggettivale, che può indicare una species di un comune
genus, nel nostro caso, quella “politica” all’interno della più ampia
categoria data dalla “rappresentanza”, oppure mutare completamente il
significato del sostantivo cui si accompagna. Più precisamente, nel primo
caso si potrebbe ritenere che il comune genus “rappresentanza” si
specifichi nella “rappresentanza politica” come nella “rappresentanza
giuridica”; nel secondo caso, all’opposto, l’ambito di applicazione (il
“politico” o il “giuridico”) avrebbe il potere di mutare il significato del
termine “rappresentanza”, che nelle due accezioni non potrebbe più essere
considerato sinonimo, ma nemmeno “parente”, se non alla lontana.433
In
altri termini, si tratta di ricercare gli elementi comuni tanto nella variante
“politica” quanto nella versione “giuridica” e giudicare, una volta
eventualmente rinvenuti, se essi consentano l’edificazione di un concetto
unitario di “rappresentanza”.
Se l’autore non si preoccupa di verificare il rigore epistemologico
del metodo adottato, non di meno, preliminarmente, per parte nostra,
avendo professato la bontà di questo criterio occorre respingere la critica
sulla mancanza di valenza euristica del procedimento di ricerca per
confronto tra “diverso” e “comune” nei termini d’indagine. La critica si
riassume nell’affermazione che siffatto confronto consentirebbe in ogni
caso di individuare un “genere generalissimo” di comunanza tra i termini
in comparazione. Proprio in quanto tale, questo genere sarebbe di dubbia
utilità, e, comunque, in quanto confronto di elementi dati, il procedimento
non aggiungerebbe alcun dato nuovo a quanto già noto prima della
ricerca. Infatti, la diffidenza sulla capacità euristica del procedimento per
diversità e comunanza, si annida proprio nell’affermazione che la
comparazione del dato non può fornire nulla in più del dato stesso, né,
tanto meno, potrebbe consentire di enucleare un concetto. La critica alla
precomprensione di siffatto canone conoscitivo si appunta sulla
circostanza che comparando i diversi oggetti si può trovare solo ciò che si
conosceva già, non il metron, cioè il criterio discretivo per distinguere o
aggregare i diversi oggetti di studio: la comparazione dei dati non può che
opere, a cura di G. Reale, Milano, 1991, p. 294; nonché Pol., 285 A – B) in op. cit., p. 344,
entrambi nella traduzione di Claudio Mazzarelli.
433 Cfr. G. U. RESCIGNO, Alcune note sulla rappresentanza politica, cit., p. 543-5.
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
279
avvenire in base a quel concetto che erroneamente si riterrebbe frutto
dell’indagine, ma che in realtà a questa preesiste (tanto da consentirne la
comparazione) e deve pertanto essere determinato in modo differente. In
sostanza, per questa via, non si potrebbe arrivare induttivamente a
costruire il concetto di “rappresentanza” comparando le diverse
manifestazioni della “rappresentanza politica” e della “rappresentanza
giuridica” o “degli interessi” in quanto l’aggregazione degli elementi
“comuni” e la separazione degli elementi “diversi” può avvenire solo in
forza di un criterio, di un termine di confronto che è proprio il concetto
che si vuole cercare e, nel nostro caso, proprio il termine
“rappresentanza”. Se, dunque, all’inizio della sua esposizione Rescigno
non sembra avvertire l’esigenza di affrontare il problema epistemologico,
per quanto ci riguarda riteniamo sufficiente in questa sede avvisare di aver
già respinto la critica metodologica e di aver enucleato, per altra via il
concetto unitario di rappresentanza,434
dovendoci ora limitare a
riconoscerne la manifestazione o meno nelle diverse forme aggettivate del
termine.
Alla ricerca dei profili propri e specifici della “rappresentanza
giuridica” contrapposta alla “rappresentanza politica”, intese come
“congeneri”, nella tesi dell’autore in esame vengono proposti i seguenti
elementi ritenuti peculiari e caratterizzanti. La prima sarebbe
caratterizzata da un struttura del tipo: “un soggetto A, nei casi previsti dal
diritto, compie atti giuridici in nome e per conto di un altro soggetto B,
nella cui sfera giuridica ricadono gli effetti giuridici degli atti così
compiuti”. Da un tanto viene esplicitamente dedotto che: 1) la
“rappresentanza giuridica” concerne sempre due soggetti determinati, o
tutt’al più determinabili, cioè individuabili successivamente all’atto
rappresentativo, affermando testualmente che “se i rappresentati sono più
di uno, ciascuno di essi è esattamente individuato, cosicché la
rappresentanza apparentemente collettiva può sempre scindersi in tanti
rapporti seriali tra il rappresentante e ciascun rappresentato”; 2) qualunque
“ente” che nel diritto può fungere da soggetto del rapporto può assumere
la veste di rappresentante o di rappresentato: una persona fisica,
un’organizzazione personificata, fino agli Stati; 3) infine, il rappresentante
deve agire sempre in nome e per conto del rappresentato, cosicché la
mancanza della spendita del nome integra altre figure giuridiche, lecite od
434 Cfr. supra, § I.2.
APPLICAZIONE DELLA RAPPRESENTANZA NELL’AMBITO PUBBLICO
280
illecite, mentre l’assenza del secondo elemento integra la fattispecie del
rappresentante infedele.435
Specularmente, vengono indicati i caratteri che sarebbero propri
della rappresentanza politica; così, 1) il soggetto qualificato come
rappresentante politico “non è mai rappresentante di uno o più specifici
soggetti, ma sempre di un gruppo nel suo insieme, non personificato e non
personificabile, dai confini fluttuanti e non esattamente determinabili”,
così da rendere impossibile la concezione e la pratica della rappresentanza
politica come insieme di rapporti seriali quanti sono i rappresentati; 2) il
rappresentante politico non spende e non è tenuto a spendere il nome di
nessuno ed in questo senso il divieto di mandato imperativo altro non
costituirebbe che un rafforzativo di tale fisiologica indipendenza; 3)
infine, il rappresentante politico agirebbe sempre (consapevolmente o
meno) nell’interesse di alcuni individui o gruppi secondo un criterio non
controllabile oggettivamente.
La conclusione proposta dall’autore conduce, come già anticipato, a
ritenere “congeneri” i termini “rappresentanza politica” e “rappresentanza
giuridica”. Altresì, la distinzione viene rafforzata con un argomento
logico, giacché il suo superamento presupporrebbe la definizione di un
concetto di “rappresentanza giuridica” più ampio di quello indicato, che
viene corroborato dall’autore riferendolo all’autorità della dottrina
unanime.
In verità, lungi dal voler riformare i caratteri di quella che viene
definita come “rappresentanza giuridica”, in questa sede preme mettere in
evidenza come essa si accordi con il profilo tracciato supra al § .I.2., né si
contrapponga, a nostro parere, con quelli che l’autore individua essere i
caratteri propri della “rappresentanza politica”.
Infatti, esaminando a ritroso gli argomenti proposti da Rescigno, la
spendita del nome si ritrova in ambo le fattispecie, dacché l’eletto, in
quanto tale, pone in essere atti giuridicamente rilevanti spendendo il nome
del rappresentato: egli è parlamentare in quanto eletto; la circostanza che
agisca per conto di un altro soggetto o per conto proprio, costituisce la
figura del procuratore infedele, tanto nel primo caso quanto nel secondo,
cioè tanto nella rappresentanza “giuridica” che in quella “politica”
(integrando, eventualmente, anche ipotesi sanzionate penalmente, come si
vedrà al § successivo). Che poi, nell’ambito politico, l’eletto possa
impunemente agire da falsus procurator è dovuto alla circostanza che sia
435 Cfr. G. U. RESCIGNO, Alcune note sulla rappresentanza politica, cit., p. 546.
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
281
istituzionalmente irresponsabile per quanto da lui compiuto (in quanto
partecipe della sovranità, come si è detto), ma questo è proprio il punto
che si vuole stigmatizzare, cioè la conseguenza dell’introduzione
nell’ordinamento positivo del divieto di mandato imperativo. Dacché non
può essere posto come giustificazione dell’assunto, pena una palese
petizione di principio. In altri termini, l’irresponsabilità –come preteso
tratto caratteristico- è frutto unicamente del divieto di mandato
imperativo, ben potendo essere concepita la rappresentanza come
storicamente si è verificato fino al 1789. Forse rilevando il punto,
Rescigno afferma che il divieto di mandato imperativo costituisce il
rafforzamento di un principio che comunque sussisterebbe, riservandosi di
ritornare sull’argomento, pur senza soddisfare la promessa.436
Ed
altrettanto dicasi per l’argomento secondo il quale, nell’ambito pubblico,
non sarebbe oggettivamente ravvisabile un referente dell’eletto.
Proseguendo nell’esame a ritroso dell’argomentazione dell’autore,
parimenti non risolutivo appare l’argomento per il quale nella
“rappresentanza giuridica” “qualunque ente che nel diritto può fungere da
soggetto del rapporto” può essere tanto rappresentante che rappresentato.
Così non è. A ben guardare, infatti, anche nel diritto privato vi sono casi
in cui un soggetto può essere rappresentato ma non rappresentante. Basti
pensare all’incapace che è rappresentato necessario, ma non potrà mai
essere rappresentante di alcuno. A prescindere dall’osservazione già
sollevata circa la vera natura rappresentativa della rappresentanza
necessaria (che si concreta in una finzione) è appena il caso di richiamare
quanto sopra si è fatto notare in ordine alla critica mossa da Gans nei
confronti di coloro che concepiscono il popolo come un minore, soggetto
a tutela, ove cioè si tratta di una situazione transeunte, di una finzione
necessaria, comunque giustificabile come tale perché provvisoria. La
tutela, come la minore età, è destinata ad essere superata da un nuovo e
più pieno status; la soluzione contraria impone di pensare al popolo come
ad un minus habens, rappresentato necessario che non sa quello che vuole.
Ma la pericolosità di tale costruzione, non nuova, si è manifestata a chi
non ha dato ascolto al monito di Gans (§ II.3.2.), ove rammentava il
436 Cfr. G. U. RESCIGNO, Alcune note sulla rappresentanza politica, cit., p. 546;
infatti nel paragrafo dedicato al divieto di mandato imperativo l’autore non sembra
sciogliere il dubbio sull’essenzialità od accessorietà del divieto di mandato imperativo e
sul suo ruolo all’interno della costruzione di “rappresentanza politica” da lui proposta.
APPLICAZIONE DELLA RAPPRESENTANZA NELL’AMBITO PUBBLICO
282
carattere necessariamente transitorio o, comunque, eccezionale della tutela
nel mondo del diritto.
In verità, tutti gli argomenti fin qui esaminati, ed altri ancora, sono
corollari del primo che ci sembra il solo rilevante, cioè la constatazione
dell’indeterminabilità del rappresentato. Non si può non riconoscere la
suggestione dell’assunto che rileva la non immediata riconoscibilità del
rappresentato nella variante “politica” della rappresentanza; anzi, forse la
stessa non numerabilità dei rappresentati, l’incertezza degli elettori può
essere alla radice della loro evanescenza anche in termini giuridici,
ingenerando l’ambiguità dei destinatari cui il rappresentante deve
rispondere, veicolando così il principio dell’irresponsabilità, consacrato
nel divieto di mandato imperativo che, quindi, lungi dall’introdurre
un’innovazione, non farebbe altro che sancire una prassi ormai affermata.
A poco vale la considerazione che i problemi non si superano
rimuovendoli e che la difficoltà nell’individuare il soggetto verso cui si è
responsabili non può che essere solo artificiosamente superata cancellando
tout-court il rappresentato.
Tuttavia, a nostro avviso, anche quest’osservazione critica può
essere superata facendo riferimento al concetto giuridico di “parte”. In
effetti, la pluralità di rappresentati è riunita nel concetto di parte,
tradizionalmente inteso come centro di imputazione di volontà ed
interessi. Non si può negare che il rapporto dualistico (implicitamente
riconosciuto come necessario dallo stesso Rescigno) si costituisca tra il
rappresentante, da un lato, e l’insieme dei rappresentati, dall’altro, riuniti
dalla comunanza di posizione giuridica soggettiva nella stessa parte,
sostanziale e processuale. Un tanto, peraltro, già si verifica nelle società
commerciali a grande parcellizzazione azionaria, nei partiti o nei sindacati
di massa e, in generale, in tutte le associazioni di grandi dimensioni ove i
rappresentati quasi decolorano, perdendo la loro propria fisionomia,
all’interno del grande numero. Si dirà che il problema è solo differito e
non risolto, poiché comunque permane la difficoltà di individuare gli
appartenenti alla “parte”. Non di meno, una volta riconosciuta la
possibilità logica si tratta di individuarne i mezzi di applicazione.
L’esperienza ammette in diversi ordinamenti istituti come il popular
recall o Aberuffungsrecht, non ostacolato nemmeno dai collegi elettorali
plurinominali. Pur avendo già chiarito l’assunto che il sistema elettorale
deve essere funzionale e servente alla rappresentanza, e non questa a
quello, non si riscontrano nemmeno le difficoltà applicative paventate
dall’autore, ben potendosi accordare il diritto di revoca del rappresentante
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
283
o dei rappresentanti ritenuti infedeli allo stesso collegio che li ha eletti.437
In latri termini, ferma la caratteristica di rappresentanti della nazione
propria dei deputati, come la misura dell’elezione è espressa dai suffragi
raccolti in una data circoscrizione, cioè dal collegio elettorale, così il
giudizio di responsabilità è demandato allo stesso collegio elettorale;
come per eleggere i propri rappresentanti la nazione è stata divisa
convenzionalmente ed operativamente in collegi, così avviene anche per il
giudizio di responsabilità. Per usare la terminologia dell’autore in esame, i
“rapporti seriali” si instaurano tra singolo elettore (abbia o meno votato,
come si dirà) ed eletto all’interno di un dato collegio. Il problema, semmai
resta quello della “misura” dell’infedeltà, ma su questo punto cfr. infra, al
§ III.3, ove si tratterà del programma elettorale. Basti qui ricordare come,
anche nel diritto privato, il potere di revoca spetti al rappresentato, con
qualche eccezione per la revoca del mandato (che non va confuso con la
rappresentanza) nei riguardi del mandatario in rem propriam, ovvero nelle
ipotesi che il mandante (rappresentante) abbia un interesse all’esecuzione
del mandato: tale sarebbe, nell’ambito “politico”, l’ipotesi nella
configurazione del diritto dell’eletto ad essere rappresentante, sulla quale
cfr. infra al § successivo.
Ad ogni modo, dopo aver concepito in tal modo la distinzione della
“rappresentanza politica” dalla “rappresentanza giuridica”, avendone data
una definizione in negativo, l’autore ne tratteggia la figura in positivo,
riprendendo l’esempio del re, riferito come di origine marxiana, ma
verosimilmente mutuato dalla fiaba popolare, resa celebre da Andersen.
Come il re non sarebbe tale per una sua qualità intrinseca, ma perché si
comporta da re, appare ed è creduto tale, allo stesso modo il
“rappresentante politico” non sarebbe tale per una qualche sua qualità,
tranne per il fatto che presentandosi e comportandosi da rappresentante
viene riconosciuto come tale. È lo stesso Rescigno a professare
esplicitamente la concezione della “rappresentanza politica” (le virgolette,
437 Senza per questo ridurre i deputati a rappresentanti del collegio. Restano
sempre rappresentanti della nazione, ma, come operativamente sono eletti dal collegio –
ove svolgono la campagna elettorale- così sono revocati dallo stesso. Si tratta di aver ben
chiara la definizione di collegio elettorale, quale indicato, per esempio, da Talleyrand: una
parte del tutto che concorre formare la volontà del tutto. Il collegio, allora, cessa di essere
una mera circoscrizione elettorale per costituire un’articolazione funzionale dell’intero
corpo elettorale, che non recide, ma anzi rafforza, i legami tra eletto e corpo elettorale,
giacché non è il collegio ad essere rappresentato, ma l’intera nazione. Cfr. anche infra §
III.3.
APPLICAZIONE DELLA RAPPRESENTANZA NELL’AMBITO PUBBLICO
284
come si intuisce, a questo punto sono d’obbligo) quale gioco infinito degli
specchi, ove ciascuno dei termini del rapporto vede nell’altro la stessa
cosa, ripetendo la loro presunta qualifica -rispettivamente, di
rappresentante e rappresentato- dalla circostanza che (e fino a che) tutto
ciò accade, per cui “il rapporto di rappresentanza sta tutto e solamente
nella testa dei soggetti di tale rapporto (esiste se e finché esiste nella loro
testa)”.438
A noi pare di vedere qui della mera psicologia giuridica,
piuttosto che rigoroso idealismo (quand’anche nella versione marxiana),
che riduce la rappresentanza ad un profilo puramente virtuale, ad un
momento di autosuggestione. Si tratta di una consaputa e dichiarata
concezione della rappresentanza come finzione, al modo già parimenti
espresso esplicitamente da Kelsen. Ma a differenza dell’autore di Praga,
Rescigno ne trae delle immediate conseguenze, affermando che, in tal
modo, per essere “rappresentanti politici” non v’è bisogno di alcuna
investitura ufficiale secondo regole prestabilite, mentre l’ordinamento può
proclamare che qualcuno “rappresenta politicamente” altri, dotandolo
anche dei poteri giuridici conseguenti, seppure un tanto non sarà
sufficiente ad innescare il “gioco degli specchi” di cui sopra. Per ulteriore
conseguenza, sotto diverso profilo, non esisterebbero né potrebbero
esistere controlli oggettivi condotti da un terzo imparziale sulla base di
criteri prestabiliti, tali da mantenere l’apparenza della “rappresentanza
politica” una volta che il meccanismo degli specchi si sia inceppato o sia
stato smascherato. L’autore, in fondo, raggiunge le stesse conclusioni che,
abbiamo visto, essere proprie di Laband: ma in quello erano conseguenza
necessaria della sua concezione di Stato, in questo proprio tale concezione
è rifiutata.
A ben vedere, l’assunto potrebbe comportare altresì la fungibilità
dell’eletto, con profili interessanti, al limite del paradosso, in quelle
componenti di organi collegiali a componente vincolata. Pensiamo alle
rappresentanze delle minoranze linguistiche nel consiglio provinciale di
Bolzano: si può veramente sostenere che la fungibilità sia tale fino al
punto di sostituire un componente di lingua tedesca con uno di lingua
ladina o italiana?
In tale prospettiva, poi, sono complici i meccanismi elettorali che
consentono, magari mediante la candidatura contemporanea in più collegi,
di ritrovarsi come “rappresentante” un candidato che non si era gradito:
438 Cfr. G. U. RESCIGNO, Alcune note sulla rappresentanza politica, cit.,
rispettivamente p. 548 e p. 549.
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
285
non è infrequente infatti, che i leaders dei partiti si pongano capolista in
due circoscrizioni, per “tirare la volata” ad un proprio delfino, rinunciando
od optando per una o l’altra sede, aprendo così la strada dell’assemblea a
chi non era stato “scelto” da quel collegio; in questo senso, la costruzione
dell’eletto come rappresentante non del bagliaggio ma della nazione
esplica tutta la sua rassicurante funzione mimetica. Infatti, ancorché non
scelto da quel collegio egli “rappresenta la nazione”.
Ecco che, il parallelo tra il re, tale perché creduto tale, e gli eletti, o
meglio i “rappresentanti politici”, tali perché creduti tali, anche a
prescindere dalla elezioni, ci risulta chiarificatore della struttura della
sovranità che sostiene entrambi, tematizzati come unici, supremi, nulla
ricevendo dagli altri e non dipendenti da alcuno se non che dalla propria
spada, secondo la formula già citata a sazietà. In questi termini, infatti, la
legittimazione “rappresentativa” dell’Assemblea nazionale non è diversa
da quella di Luigi XVI.
Peraltro, ci pare che questa teoria, che potremo chiamare “degli
specchi”, conduca ad ulteriori conseguenze, ma sveli anche alcune
ambiguità, finora mantenute opportunamente in secondo piano. Da un
lato, essa si configura come una costruzione solipsistica, cioè come
l’effetto di una pura costruzione mentale, esistente se ed in quanto voluta
dal soggetto pensante, per definizione l’unico ad esistere veramente, il
solus ipse,439
ed in quanto tale è e dipende dal soggetto pensante, sicché la
439 Addirittura “esistente” solo come res cogitans, secondo lo sviluppo del
dualismo cartesiano operato da Geulincx prima e da Malebranche, poi. Com’è noto, questa
posizione muove dalla tesi fondamentale di Cartesio che l’oggetto immediato della
conoscenza è soltanto l’idea e che una realtà diversa dall’idea –fuori dal soggetto pensante
e di Dio- è problematica. Inversamente da Hume, la presenza nelle mente di un’idea non
dice nulla intorno alla realtà che essa rappresenta. Per questa via solo Dio garantisce
l’esistenza dei corpi, sicché le nostre idee corrispondono ai corpi non perché siano causate
dai corpi, ma unicamente perché Dio le produce in noi in occasione della presenza dei
corpi stessi. Soltanto Dio è la causa vera di tutto ciò che accade. L’azione del corpo
sull’anima o dell’anima sul corpo non è possibile se non per mezzo dell’intervento divino.
All’obiezione mossa da Dortus de Mairan che in questo modo si perveniva alla
conclusione di Spinoza secondo cui ogni cosa altro non è che manifestazione, modalità
dell'unico essere (Deus, sive natura), Malebranche rispose che noi non vediamo in Dio le
cose ma le loro idee, cioè i loro archetipi o modelli, mantenendo una netta separazione tra
le cose e la sostanza divina per escludere il panteismo spinoziano. Ora, affermare –come
sembra fare Rescigno- che la rappresentanza è solo ed in quanto permane “nella testa” dei
consociati vuol dire negare ogni rapporto intersoggettivo, riducendo i singoli ad individui,
ognuno dei quali, per conto suo ed indipendentemente dagli altri, si crea o subisce
l’autosuggestione della rappresentanza. Per le conseguenze del solipsismo nella logica, cfr.
le osservazioni ancora attuali di A. PASTORE, Il solipsismo, Torino, 1924, da vedersi
APPLICAZIONE DELLA RAPPRESENTANZA NELL’AMBITO PUBBLICO
286
“rappresentanza politica” si ridurrebbe ad un momento psicologico;
dall’altro, svincolando il ruolo e la figura del rappresentante dal momento
elettorale si smaschera l’artificio dichiarando espressamente che il
momento di “scelta” è irrilevante. Tuttavia, forse, la teoria giunge oltre il
bersaglio, poiché, in questo modo, si finisce per compromettere
definitivamente il meccanismo parlamentare: consapevoli dell’irrilevanza
del loro atto di volontà (l’elezione) i cittadini non riconoscono più nel
Parlamento la rappresentazione della nazione, né nella legge la propria
volontà o quella dei loro “rappresentanti”, per quanto in accezione blanda
e parziale, finendo per delegittimare quella che si manifesta palesemente
come un’assemblea fittizia.
In altri termini, gli esiti necessitati delle teorie che sganciano i
“rappresentanti” dalla realtà che dovrebbero rappresentare, cioè quelle
teorie che sopra abbiamo raggruppato secondo il paradigma della
“situazione”, i fantàsmata di Platone, conducono alla presa di coscienza
della finzione, della riconosciuta non rappresentanza (oltre che non
rappresentatività) dell’assemblea. Per lo stesso assunto della teoria,
dunque, la dichiarazione esplicita della costruzione della “rappresentanza”
come apparenza, cioè il suo carattere di finzione, comporta il suo
smascheramento e la cessazione della sua esistenza, infrangendo il “gioco
di specchi”, ma, allo stesso tempo, incrina la definizione, la portata ed il
ruolo del prodotto di quella assemblea, cioè della legge.
Paradossalmente, dopo aver concepito la rappresentanza come
“situazione”, come apparenza che si regge sul convincimento del ruolo
della parti, si è costretti a dichiararla esplicitamente come tale, ma, così
facendo, la si distrugge anche nella sua apparenza. Con un bisticcio,
perché la “finzione funzioni” occorre non svelare il suo carattere virtuale:
quando una finzione viene svelata come tale, per lo più cessa di avere
efficacia, perde la presa sui consociati, con l’eccezione di quelle finzioni
così radicate che producono il risultato di far ritenere un pazzo o un
provocatore chi volesse infrangerle, come Platone aveva profetato, nel
mito della caverna.
Singolare destino, questo, di una teoria che portata logicamente alle
sue conseguenze estreme, perviene all’autodistruzione, rompendo
l’incantesimo su cui si reggeva, una volta che ha preso coscienza di esso.
Ma, in verità, si tratta di un destino comune ed obbligato, cui è soggiaciuta
la tematizzazione del solipsismo stesso, nonché le correnti più spinte
assieme ai brevi spunti accordati da L. WITTGENSTEIN, Tractatus logico – philosophicus,
trad. it. Milano, 1954.
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
287
dell’idealismo: basti pensare alla summa divisio gentiliana del pensiero
pensante e del pensiero pensato.
Alla luce di quanto detto sopra a proposito della dottrina germanica
di fine Ottocento, crediamo si poter individuare il percorso, nelle sue
ultime battute, che ha condotto a queste conclusioni. Si ricorderà, infatti,
come la teoria della “situazione”, tematizzata già da Sieyès per il
sovvertimento degli Stati generali di Francia, venga riconosciuta come
assenza di rappresentanza da Laband, ove afferma che in termini giuridici
il Reichstag non rappresenta nessuno. Tale assunto non poteva essere
scardinante all’interno della costruzione del maestro del diritto pubblico
tedesco, così come non lo era, pur nella diversità delle prospettive
teoriche, nell’edificio concettuale di Jellinek: avendo assunto lo stesso
popolo come organo dello Stato, nella pretesa identità di volontà tra
cittadino e Stato, ogni organo dello Stato era rappresentante e
rappresentativo dei sentimenti e delle aspirazioni del Volk a prescindere
dal momento elettorale.440
Non di meno, una volta superata siffatta
concezione, una volta rimosse, cioè, le ultime incrostazioni hegeliane che
pervadevano (ma in qualche modo ancoravano e cementavano) le
costruzioni di questi autori, l’assunto della “non rappresentanza” è
rimasto, sviluppando tutta la sua forza dirompente, manifestandosi come
finzione nell’icastica affermazione di Kelsen. Non essendoci più la
presupposta coincidenza tra volontà del singolo e volontà dello Stato,
come manifestata dai suoi organi -indifferentemente dal parlamento come
dal provveditore agli studi o di qualsivoglia funzionario (in quanto tale) in
grado di emettere atti di volontà riferibili allo Stato- una volta riacquistata
la dualità dei termini (Stato e popolo), si imponeva di recuperare anche la
rappresentanza dell’uno (o di un suo organo) nei confronti dell’altro. In
sostanza, Laband poteva permettersi di svelare l’artificio, la finzione della
rappresentanza, intesa come “situazione”, poiché, all’interno della sua
costruzione, essa giocava un ruolo marginale, giacché popolo e Stato
440 Cfr. supra § III.1, ove si è trattato dell’irrilevanza delle elezioni nel pensiero
degli Epigonen ed in particolare modo nella posizione di Hinrinchs ed Erdmann. Poiché il
cittadino, completandosi nello Stato, non può aver in capo pubblico una volontà distinta da
quella dello Stato, non si pone nemmeno il problema di trasmettere la volontà del primo
agli organi del secondo. Anzi, avendo la medesima volontà e gli stessi interessi (che,
quindi, da quella non si distinguono), cittadino e Stato costituiscono un unico centro di
imputazione di volontà e di interessi, cioè una sola parte giuridica. Come le elezioni sono
inutili, così il carattere rappresentativo è accordato –per definizione- a tutti gli organi dello
Stato in quanto tali.
APPLICAZIONE DELLA RAPPRESENTANZA NELL’AMBITO PUBBLICO
288
apparivano già concettualmente riuniti nell’identità di volontà, tanto da
rendere superflua qualsivoglia procedura per trasmettere gli intenti del
primo verso il secondo. Non così i suoi successori, poiché una volta
spezzata l’Einheit di cittadino e Stato, riconosciuta autonomia soggettiva
pubblica tra i due termini, la costruzione della rappresentanza ereditata
dalla Rivoluzione francese non può più essere spesa. In più, l’esplicita
dichiarazione della rappresentanza come finzione (o della finzione della
rappresentanza) pregiudica anche la teoria che abbiamo chiamato “degli
specchi”, poiché, una volta smascherata, la finzione perde ogni efficacia
operativa, giacché una finzione esplica la sua utilità solo a patto che (e
fino al momento in cui) vi sia la convinzione che all’apparenza
rappresentata vi sottostia la sostanza.441
Siffatta costruzione, in vero più
sociologica che giuridica, ricorda il meccanismo dell’obbedienza per
autosuggestione propria del realismo scandinavo,442
cioè l’obbedienza alle
norme nella inconsapevole convinzione che esse siano doverose: in questo
senso, ci pare, tutte le norme avrebbero il valore della (e si ridurrebbero
alla) consuetudine, cioè alla ripetizione di comportamenti uniti alla opinio
iuris ac necessitatis della loro doverosità. Così il rappresentante si pone ed
agisce come tale, diremmo quasi, sulla presupposizione di detta sua
qualifica, insita nei sudditi. In questo senso, dunque, le elezioni non
appaiono più necessarie, poiché sostituite dalla convinzione di essere o
avere un rappresentante e di riconoscerlo in qualcuno, elemento
essenziale, poiché il convincimento contrario non può trovare rimedio
nemmeno in un’elezione plebiscitaria, insuscettibile di dare legittimazione
“sostanziale” oltre o contro il sentimento dei “rappresentati”.
Ci si potrebbe chiedere se e quale ruolo competa al diritto in siffatta
prospettiva.
441 Cfr. F. TODESCAN, Diritto e realtà. Storia e teoria della fictio juris, Padova,
1979, specialmente p. 210 e ss.
442 Per la costruzione del pensiero di Hägerström, Ross ed Olivecrona, cfr. il
ponderoso saggio di E. PATTARO, Lineamenti per una teoria del diritto, Bologna, 1985,
IDEM, Introduzione al corso di filosofia del diritto, Bologna, 1987-90. Per la particolare
prospettiva della virtualità nel realismo scandinavo cfr. F. GENTILE, Ordinamento
giuridico, controllo o/e comunicazione? Tra virtualità e realtà, in appendice a U.
PAGALLO, Testi e contesti dell’ordinamento giuridico, II ed., Padova, 1999, specificamente
p. 230-1, ora in edizione autonoma Ordinamento giuridico. Tra virtualità e realtà, Padova,
2000, pag. 35-36.
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
289
La domanda trova un’esplicita risposta nell’assegnazione di una
funzione servente al diritto, inteso quale strumento per consentire la
competizione politica, vista come il luogo delle decisioni libere. Ecco che
allora la rappresentanza politica, di per sé, non garantisce che la decisione
politica sia conforme ai desideri dei rappresentati, limitandosi, tutt’al più,
a consentire l’espressione di tali desideri.443
Non di meno, alla rappresentanza e, più in generale, alla politica
viene collegata l’idea di competizione come momento ritenuto fisiologico
per la conquista del potere, fine ultimo dell’una e dell’altro. In altri
termini, la politica sarebbe il luogo, quasi agone, secondo regole
predefinite e comunemente accettate, per la conquista del potere da parte
della minoranza o per la sua detenzione da parte della maggioranza.444
Ecco che per questa via, viene reintrodotto lo stretto legame tra elezione e
rappresentanza, poiché solo la totale libertà di scelta (anche nel rifiuto di
farsi rappresentare) può consentire la competizione nella quale Rescigno
(come altri, cfr. infra § III.3.) vede l’essenza della politica. Vero è che in
questa prospettiva i “rappresentati”, anzi, gli elettori, costituiscono lo
spessore di forza dell’eletto, ma non sono rappresentati che in misura
ridotta ed occasionale, complice l’impotenza di incidere in modo adeguato
sull’eletto, almeno fino alle elezioni successive, seppure, medio tempore,
443 Cfr. G. U. RESCIGNO, Alcune note sulla rappresentanza politica, cit., p. 552.
L’assunto, in sé stesso, ci trova pienamente concordi, condividendo la conclusione cui si è
giunti supra al § II.2, ricostruendo la struttura del mandato limitativo, proposta da
Talleyrand, ove si chiarisce che compito del rappresentante non è né quello di imporre
delle istruzioni non negoziabili, né quello di gestire l’affare secondo il proprio arbitrio,
bensì quello di far concorrere gli intendimenti dei rappresentati alla formazione della
volontà generale, limite del proprio potere e criterio per commisurare la sua responsabilità.
Tuttavia, il senso dell’affermazione di Rescigno deve essere circoscritto dalla definizione
di politica che viene resa subito dopo, come riportata nel testo.
444 “Quello però che resta costante, non appena si ammetta la rappresentanza
politica, è la tendenza necessaria di ciascun rappresentante (e insieme con lui dei suoi
rappresentati) alla conquista del potere politico (e cioè il potere di decidere in modo
vincolante per tutti entro un determinato territorio). Il problema dunque diventa come
disciplinare questa concorrenza nella conquista del potere politico in modo tale che
qualcuno lo ottenga e possa esercitarlo senza scatenare la guerra civile”. Così G. U.
RESCIGNO, Alcune note sulla rappresentanza politica, cit., p. 553. La stessa funzione del
diritto viene tematizzata nella tecnica del controllo sociale, cioè nell’anestesia dei conflitti
tra gli individui, non nella loro risoluzione per permettere la comunicazione tra i singoli.
Per queste opposte prospettive, cfr. F. GENTILE, Intelligenza politica e ragion di stato, II
ed., Milano, 1984, p. 33.
APPLICAZIONE DELLA RAPPRESENTANZA NELL’AMBITO PUBBLICO
290
quest’ultimo mantenga il potere ed anche al momento delle elezioni possa
ottenere la rielezione, mercé l’assopimento del corpo elettorale o il suo
controllo da parte di un gruppo di pressione. In sostanza, dopo aver
svuotato il rappresentato del suo ruolo, si sente la necessità di individuare
un terzo, estraneo, quindi, al rapporto rappresentativo, che giudichi, per
così dire, della correttezza della funzione rappresentativa svolta
dall’eletto; non rinvenendo siffatto soggetto, se ne è dedotta la non
giuridicità della rappresentanza in ambito pubblico. Come si è già avuto
modo di ricordare supra, l’impasse è conseguenza del progressivo
integrale svuotamento del ruolo del rappresentato, al fine di ricondurre
l’eletto nell’ambito dell’unicità, dell’assolutezza, del non dipendere
(nemmeno concettualmente) da nessun altro, cioè nel luogo proprio della
sovranità, ma in tal modo sfigurando irrimediabilmente la struttura
essenzialmente dualistica propria della rappresentanza.
Per questa via, dunque, con un inversione logica, gli elettori si
riconoscono di volta in volta rappresentati da questo o quel eletto, ed anzi,
è il rappresentante ad instillare nei rappresentati le loro volontà od
interessi, sicché i desideri dei rappresentati nascono in quanto formulati
dal rappresentante. E si finisce così col riconoscere espressamente che “il
rappresentante in un certo senso non rappresenta nulla, perché prima della
formulazione non esiste nulla da rappresentare; il rappresentante fa
esistere la rappresentazione.”445
In sostanza, l’azione dell’eletto si spinge
all’interno dell’elettore, instillandogli le volontà o gli interessi opportuni.
La tesi della rappresentanza politica come “situazione” del solo
rappresentante dimostra qui tutta la sua drammaticità, mutandosi in
“sostituzione” del rappresentato. Infatti, in un primo tempo, viene sciolto
il legame tra rappresentato e rappresentante, svincolando il secondo dalla
volontà, dagli interessi del primo e, comunque, ponendolo al riparo da un
suo giudizio di responsabilità; reciso così il cordone ombelicale, poiché, in
fondo, il rappresentante deve la propria esistenza al rappresentato, in un
secondo momento l’eletto si pone come l’unico, secondo i canoni della
geometria legale, cioè come sovrano. Ma non solo: in un secondo tempo,
con un movimento discendente, è lo stesso “rappresentante” che plasma il
445 Cfr. G. U. RESCIGNO, Alcune note sulla rappresentanza politica, cit., p. 555. Per
questa via ci si spinge ad affermare un ulteriore ruolo del “rappresentante” che, quale
demiurgo, è destinato a “far emergere alla coscienza dei rappresentati ciò che forse
oscuramente era già al loro interno, ma che essi, prima che il rappresentante lo dicesse,
non avevano mai detto o pensato” (ibidem).
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
291
“rappresentato” a sua immagine e secondo i suoi propri interessi per
quello che è stato definito l’agone della lotta politica per la conquista del
potere, al quale concorre, è superfluo ormai dirlo, il solo eletto, usando
degli elettori come di un proprio strumento. Con un paradosso, troncato il
dualismo che vedeva il rappresentante responsabile verso il rappresentato,
secondo una tradizione bimillenaria che dalle antiche diete giunge fino al
giuramento della Pallacorda, ne viene creato uno nuovo, che mira a porre
gli elettori nella disponibilità degli eletti, sfociando nella pratica del
commercio di voti, per il quale nel XVIII secolo le assemblee di
Westminster avevano creato un apposito ufficio.446
Dal diritto ad essere
rappresentati si passa così al dovere di essere elettori; e non è un caso, in
questa prospettiva che l’eredità rivoluzionaria abbia condotto al dovere di
votare,447
parafrasando il noto passo del Ginevrino ove, trattando di coloro
che non intendessero recarsi in assemblea, affermava “li si costringerà ad
essere liberi”.
Non si può pertanto concludere che il diritto sia estraneo nemmeno
a siffatta concezione di “rappresentanza politica”, atteso il rilevante
numero di istituti che regolano il fenomeno: i diritti di libertà di
associazione e di manifestazione del pensiero, la disciplina elettorale, lo
stesso divieto di mandato imperativo; sicché, conseguentemente, il diritto,
e proprio il diritto positivo, crea, distrugge, modifica, configura e tutela il
rapporto (o il non - rapporto) tra eletto ed elettore. Né appare risolutivo
l’argomento portato da Rescigno, per il quale siffatti istituti giuridici si
limiterebbero a permettere e non impongono al “rapporto” di nascere. Un
tanto accade anche per l’applicazione della rappresentanza nel diritto
privato (l’unica ritenuta “giuridica” dalla tesi in esame), ove la disciplina
codicistica permette, ma non impone, la concreta attuazione dell’istituto:
ciò dipende dalla volontà delle parti (o dalla legge, nei casi previsti). Che,
poi, la rappresentanza politica sorga, nei suoi aspetti sociologici, a
prescindere dalla presenza di una regolamentazione giuridica, è
circostanza che riguarda, ancora una volta, la maggior parte degli istituti,
446 Si confronti l’aneddoto riportato supra alla nota n. 176.
447 Com’è noto, solo recentemente sono state abrogate le ultime conseguenze
amministrative dell’astensione dalle urne, che colpivano quei cittadini che esprimevano la
propria “preferenza” politica non recandosi nemmeno a votare. La dottrina non sembra
essersi occupata in modo approfondito delle diverse implicazioni giuridiche - politiche
connesse alla differenza tra scheda bianca e mancata votazione nelle elezioni, attratta forse
dalla maggiore rilevanza che la distinzione esercita in sede referendaria.
APPLICAZIONE DELLA RAPPRESENTANZA NELL’AMBITO PUBBLICO
292
dacché, con Tullio Ascarelli, il diritto viene a regolare quanto la realtà si è
già incaricata di creare.448
Ma si tratta, allora, di mutare radicalmente
prospettiva per guardare al diritto ed allo Stato. E, per limitarci alla nostra
ricerca, si potrebbe cominciare da un vaglio critico della “situazione”, cioè
di quel “diritto” dell’eletto a rappresentare nel quale sembra concludersi
tutta la “rappresentanza politica” modernamente intesa.
448 Cfr. il puntuale studio di F. CASA, Tullio Ascarelli. Dell’interpretazione
giuridica tra positivismo ed idealismo, Napoli, 1999, che analizzando la teoria delle lacune
dell’ordinamento tematizzata dall’insigne studioso di diritto commerciale, denuncia le
aporie conseguenti al dogma della completezza dell’ordinamento.
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
293
4.2 Diritto dell’eletto a rappresentare e diritto ad agire
PREMESSA: TEORIA DEL “LIBERO MANDATO PARLAMENTARE” COME DIRITTO SOGGETTIVO
DELL’ELETTO: LIMITI E CRITICA – DISTINZIONE DEL DIRITTO DELL’ELETTO AD AGIRE DAL
DIRITTO A RAPPRESENTARE – CORRELATIVA POSIZIONE GIURIDICA SOGGETTIVA DEL DOVERE
DELL’ELETTO DI RAPPRESENTARE – RISCONTRO: IL PROBLEMA DELLE VARIANTI AL P.R.G. ED
INCOMPATIBILITÀ DEI CONSIGLIERI COMUNALI NEI RECENTI ORIENTAMENTI
GIURISPRUDENZIALI – SOLUZIONI PROSPETTATE DALLA PRATICA ED OSSERVAZIONI CRITICHE:
LA RICHIESTA PREVENTIVA DI NOMINA DEL COMMISSARIO AD ACTA - INAMMISSIBILITÀ DI UNA
VALUTAZIONE EX ANTE DA PARTE DELL’ORGANO SOSTITUENDO – SEGUE: LA
“PARCELLIZZAZIONE” DELLA VARIANTE - CONTRASTO CON LA NATURA GENERALE
DELL’ATTO PROGRAMMATORIO – SEGUE: LA DELIBERAZIONE IN SECONDA CONVOCAZIONE –
L’ADOZIONE DELL’ATTO DA PARTE DI QUATTRO CONSIGLIERI – RAPPORTI CON LA NOMINA
DEL COMMISSARIO AD ACTA – SPUNTI RICOSTRUTTIVI – ESPERIBILITÀ DI AZIONI A TUTELA
DEL DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO - DIFFICOLTÀ
NELL’INDIVIDUAZIONE DELLE RELATIVE GARANZIE E RINVIO.
Anche alla luce di quanto sopra esaminato, si potrebbe essere
indotti a ritenere che il problema della situazione giuridica soggettiva
dell’eletto possa darsi per risolto con l’introduzione nel diritto positivo del
divieto di mandato imperativo, recepito, spesso in forma tralatizia, da
pressoché tutte le carte costituzionali. Invero, è solo tale preciso disposto
che impedisce qualsivoglia interferenza sul deputato da parte dei suoi
elettori, ne garantisce l’indipendenza e, quindi, la posizione all’interno
dell’assemblea, sciogliendolo dal legame genetico con chi l’ha scelto, una
volta che le procedure elettive (o di nomina) si siano concluse, ma così
stravolgendo l’intima struttura dualista propria della rappresentanza.
Peraltro, la necessità di tornare sull'argomento, pur in linea con le
posizioni dominanti, indica la difficoltà concettuale sottesa alla
rappresentanza nel diritto pubblico, che ne impone un ripensamento. In
questo senso sembra muoversi Nicolò Zanon,449
individuando la nascita
del "libero mandato" in due teorie contrapposte.
Da un lato, la teoria storica o continuista sostiene che si giunge a
tale costruzione per lungo travaglio le cui radici affonderebbero nell'idea
medioevale di rappresentanza e il riferimento d'obbligo è a Otto von
Gierke.450
Secondo questa prospettiva, in Francia avrebbero influito
449 N. ZANON, Il libero mandato parlamentare, Milano, 1991.
450 Della teoria della rappresentanza corporativa di Otto von Gierke si è già detto e,
in parte si avrà ancora modo di dire in prosieguo. Merita in vece di essere segnalata qui,
per l’assonanza concettuale l’idea di body politic, tematizzata da Burke, su cui si rimanda
al serrato studio di D. PANIZZA, Il concetto di “body politic” in Burke: i fondamenti
dell’organicismo moderno, in “Filosofia politica”, 1993, p. 415-445.
DIRITTO DELL’ELETTO A RAPPRESENTARE E DIRITTO AD AGIRE
294
anticipazioni degli inglesi che già con Locke e Burke avevano enucleato
l'istituto. La teoria giuridica o non continuista (chiamata dall’autore
“discontinuista”), al contrario, sostiene che il divieto di mandato
imperativo dovrebbe ritenersi il corollario dei principi rivoluzionari in
tema di sovranità e rappresentanza della nazione intera. L'autore riconosce
che entrambe le teorie prese singolarmente nella loro radicalità non sono
esaustive. Propone di conseguenza al lettore di considerare la cosa da più
"punti di vista".451
Dal punto di vista della storia parlamentare, l'istituto sarebbe il
frutto della ricerca di efficienza di un organo avente funzioni
essenzialmente deliberanti. Nel concreto svolgersi delle procedure
parlamentari, il collegio non potrebbe tollerare gli ostruzionismi e le
pratiche dilatorie che il sistema del mandato imperativo comporta. E,
d'altro canto, la necessità pratica del compromesso, preludio inevitabile
alla decisione finale, si opporrebbe alla sopravvivenza della
rappresentanza vincolata. In tale prospettiva è conveniente rilevare come
l'Assemblea nazionale costituente non intese vietare la pratica del
mandato imperativo, ma ne sancì l'inefficacia verso l'Assemblea stessa per
evitare pericolosi ostruzionismi (cfr. supra al § II.2).
Dal punto di vista “di una sociologia politica” il divieto di mandato
imperativo sarebbe il segno distintivo di un nuovo ceto politico, di una
vera e propria classe politica, che intenderebbe prendersi una decisiva
indipendenza nei confronti della società civile. I rappresentanti cioè
dovrebbero esprimere le loro opinioni, non quelle degli elettori. Essi in
realtà non rappresentano nessuno se non sé stessi e pretendono di
riprodurre nei dibattiti parlamentari la loro volontà individuale, tentando
più volte di contrabbandarla -aggiungiamo noi- per quella nazionale. Il
divieto di mandato imperativo sarebbe quasi la formula politica di questo
nuovo superbo ceto dominante. Una visione che si vuole forse introduttiva
delle concezioni liberali ottocentesche circa la separazione (solamente
concettuale, cfr. supra § II.3.) tra Stato e società.
Da un punto di vista di una teoria complessiva della società, il
divieto di mandato imperativo sarebbe il prodotto di una concezione
individualista, meccanica ed egualitaria: una concezione della democrazia
in opposizione a quella essenzialmente organica dell'Ancien Regime:
“rappresentanza è rappresentanza di ciò che è comune a tutti in una
451 N. ZANON, Il libero mandato parlamentare, cit., p. 74.
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
295
società teoricamente livellata”.452
L'autore non manca tuttavia di ricordare
come l'idea di una rappresentanza politica generale di tutti i cittadini, e
non di gruppi o di singole parti separate del corpo sociale, coesista con la
realtà di un’assai limitata capacità integratrice dello Stato liberale: i diritti
politici (il diritto di voto) continuano a spettare ad un ristretto numero di
cittadini.
Da un punto di vista di una “osservazione realista, e quindi di una
scelta politica” il divieto di mandato imperativo sarebbe l'espressione
giuridica del nuovo rapporto tra gli interessi sociali e la loro
rappresentabilità. Ad una società dinamica, cioè, dovrebbe corrispondere
un metodo di rappresentanza che ammetta discrezionalità, per adattarsi a
frequenti mutamenti. Il rappresentante può essere al più “responsivo”,
secondo la terminologia anglosassone. In sintesi: il divieto di mandato
imperativo sarebbe una forma di garanzia nel mutamento sociale,
attraverso la libera interpretazione che il corpo legislativo può fare della
dinamica degli interessi. Se ci è consentito, potremmo dire che si tratta di
una sorta di amministratore delegato di una grande società di capitali ad
azionariato diffuso, che deve godere di mano libera nella gestione degli
affari, senza essere impedito dall’assemblea (verso la quale, comunque,
almeno l’amministratore pur certamente risponde).
Dal punto di vista di una teoria costituzionale il divieto di mandato
imperativo contribuirebbe a disegnare la struttura del governo
rappresentativo.453
Tuttavia per Zanon, occorrerebbe circoscriverne
l'ambito ad un'esperienza storicamente delimitata, sostanzialmente quella
dei parlamenti ottocenteschi e delle relative forme di governo. La
composizione e la struttura dei parlamenti, nonché la ristrettezza del
suffragio, mostrano un tipo di rappresentanza autoritaria ed un circuito
rappresentativo che non conosce ancora né partiti politici, né altri
strumenti di controllo democratico. La teoria della sovranità nazionale,
nata per precisi scopi politici, verrebbe ipostatizzata dalla dottrina
successiva quale fondamento logico del divieto del mandato imperativo.
Grazie all'immagine del rappresentante della nazione la borghesia
452 N. ZANON, Il libero mandato parlamentare, cit., p. 86-7. Tutto ciò richiama la
sfera di Sieyès, costruita sull’eguaglianza ed equidistanza dei soggetti, resi uguali, quindi
numerabili e fungibili. Cfr. supra note 207 e 209.
453 N. ZANON, Il libero mandato parlamentare, cit., p. 88. O meglio, non
rappresentativo.
DIRITTO DELL’ELETTO A RAPPRESENTARE E DIRITTO AD AGIRE
296
potrebbe operare lo scambio tra i propri interessi e quelli generali,
autoponendosi come classe generale.
La vera novità tuttavia sarebbe costituita dalla introduzione dei
partiti, rivestiti di dignità costituzionale dalla nostra carta: alla discussione
ottocentesca si contrappone la radicalità propria dell'ideologia partitica e
partigiana. Tutto ciò porta con sé una ferrea disciplina di gruppo: un
mandato imperativo tra partito ed eletto nelle sue liste, di cui la pratica
delle dimissioni in bianco non sarebbe che l'ultima manifestazione.
Alla luce di queste considerazioni, viene proposta la più originale
interpretazione dell'art. 67 cost.454
Il divieto di mandato imperativo
dovrebbe considerarsi un dovere ed un diritto del parlamentare. Come
dovere, poiché l'attività parlamentare, libera da influenze di natura
particolaristica, costituirebbe la condizione per il funzionamento per il
sistema rappresentativo prescritto dalla Costituzione, respingendo
tendenze neocorporative ad esso contrarie. Come diritto, per non subire
condizionamenti ai propri voleri, per esempio da discipline di partito
rigorose. Diritto costituzionalmente fondato, ma a differenza di altri, per
Zanon, in certi casi estremi tutelabile anche sollevando conflitto di
attribuzione di poteri. Sicché, potremmo dedurre, una qualsiasi
innovazione in questo campo deve importare la prudenza che si addice
all'importanza di un istituto nella configurazione di un regime. La
conclusione tratta è che il divieto di mandato imperativo non deriva dalla
circostanza che il parlamentare rappresenta la "Nazione, intesa
quest'ultima come forma di unità politica presupposta a priori nel popolo".
Al contrario sarebbe l'attività rappresentativa libera da mandati a
contribuire, per la sua parte alla realizzazione dell'unità politica che non
esisterebbe come dato a priori, ma sarebbe solo il risultato di un processo
di integrazione.
Due osservazioni si impongono subito.
In primo luogo, per questa via, si sancisce l’assoluta “situazione”
dell’eletto, secondo la terminologia usata sopra, e si esce dalla
rappresentanza, quale riconosciuto (parrebbe anche da Zanon) sinolo di
“situazione” e “rapporto”. Si passa, altresì, dalla rappresentanza popolare
a quella assembleare, già teorizzata da Sieyès, affermando che la nazione
è nell’assemblea, è l’assemblea. Di più, il divieto di mandato imperativo
diviene un dovere per il deputato, poiché la presenza e l’opera partigiana
dell’eletto veicola “la forte probabilità che il suo comportamento risulti
454 N. ZANON, Il libero mandato parlamentare, cit., p. 288 e ss..
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
297
illecito anche penalmente”455
se si pone in contrasto con il disposto di
rango costituzionale che vuole il deputato come rappresentante della
nazione, secondo un’interpretazione della norma che assicura al deputato
piena indipendenza da influenze esterne, mentre gli impone di spogliarsi
di ogni particolarismo, di ogni interesse settoriale che potrebbe corrugare
la liscia superficie della sfera. Tuttavia, in verità, la tutela è a senso unico
ed è in favore dell’eletto, giacché egli potrà protestare il suo diritto
all’indipendenza nei confronti di chi volesse vincolarlo a volontà esterne
alla sua (magari quelle degli elettori), ma, parimenti, potrà rispondere
sdegnato di star seguendo la propria coscienza a chi lo ammonisse di non
lasciarsi condizionare, magari finanziariamente, da gruppi di pressione. E
si tratterebbe di un convincimento psicologico non accertabile da alcun
giudice
Peraltro, la skepsi viene rafforzata e si fornisce anche uno strumento
giuridico a guardia della distinzione tra “paese reale” e “paese legale”, per
scongiurare spiacevoli intromissioni, una volta che il potere siasi
costituito, eliminando anche il ruolo dei partiti, risolvendo la
degenerazione della loro fisiologica funzione di mediatori, semplicemente
neutralizzandone ogni possibilità di intervento, salvo l’espulsione dal
gruppo e la mancata ricandidatura, che si è già detto, peraltro, essere
sanzione pressoché inconsistente, soprattutto ove il “trasformismo”
consenta la trasmigrazione verso un altro partito, ovvero l’accoglienza in
altre liste. Si propone di tornare così d’amblé al parlamentarismo senza
partiti (ammesso che ce ne sia mai stato uno o che possa esservi).
Sotto diverso profilo, ed è la seconda osservazione, affermando che
“è l’attività rappresentativa libera da mandati a contribuire, per la sua
parte, alla realizzazione dell’unità politica, che non esiste come dato a
455 N. ZANON, Il libero mandato parlamentare, cit., p. 293. La rilevanza penalistica
della costruzione viene solo accennata ma non sviluppata dall’autore. Tuttavia, la
concezione del divieto di mandato imperativo come un diritto, ma, soprattutto, come un
dovere per il deputato, connesso “al proprio ufficio”, potrebbe far pensare che integri la
fattispecie prevista e punita dal vigente articolo 319 del codice penale colui che ha indotto
questo particolare tipo di pubblico ufficiale a commettere un atto contrario al dovere del
proprio ufficio; con la conseguenza che la semplice adesione ad una specifica istanza
elettorale (aliena da più gravi conseguenze) corroborata da qualche utilità, produrrebbe le
condizioni previste dalla norma incriminatrice speciale. La sola posizione del problema
rileva le aporie conseguenti alla concezione del divieto di mandato imperativo come
dovere, svelando un altro profilo dello stridente contrasto logico tra divieto di mandato
imperativo e rappresentanza.
DIRITTO DELL’ELETTO A RAPPRESENTARE E DIRITTO AD AGIRE
298
priori, ma può solo essere il risultato di un processo di integrazione”456
si
subordina alla forma di regime l’elemento aggregante la comunità, ovvero
gli si concede il potere di influire sull’esistenza stessa della comunità.
In questo senso, viene riproposta, con una particolare variante, la
tesi di Rousseau, esaminata sopra, ove comunità può esservi solo in
presenza di un regime democratico diretto, poiché è a tal condizione,
ovvero dalla partecipazione immediata di tutti i consociati all’assemblea,
che opera il meccanismo di riconoscimento della propria volontà nella
volontà generale la quale, invero, già prima di Sieyès, si svela essere la
volontà della maggioranza. Avendo adottando la democrazia diretta, cioè
il consenso di tutti i consociati alla formazione della legge, il Ginevrino
ritiene di aver risolto il problema dell’aggregazione della comunità
politica, in quanto si viene ad elidere la distinzione tra governanti e
governati, poiché obbedendo alla legge si obbedisce alla propria volontà.
La variante che ci viene proposta dall’autore -variante invero più
inquietante e meno raffinata- consisterebbe nel ruolo quasi paideutico
dell’assemblea, con funzioni di ricucire le pulsioni settarie e mantenere
l’unità nazionale, nel tenere insieme più soggetti altrimenti destinati a
soffocare nel particolarismo.
In sostanza, oltre a veder garantita la propria sovranità, contro
chicchessia (sotto la minaccia di sanzione penale, persino nei confronti di
quei propri componenti incrostati dalla ricerca di collegamenti fiduciari
con frazioni del corpo elettorale), con un singolare processo di inversione
è il “paese legale” ad assumersi il compito di modellare su di sé il “paese
reale”; con un rovesciamento dei ruoli, non è l’immagine che somiglia alla
realtà, ma è l’immagine a plasmare la realtà sulla propria figura. Non si
tratta più di un collegio che media, dialetticamente o, almeno,
algebricamente le diverse esigenze, quanto di un organo che, avulso da
ogni intromissione problematica dell’esperienza, mira a dirigerla, con i
propri atti di volontà.
In questi termini, così intesa la rappresentanza, la situazione
giuridica soggettiva attiva, il diritto ad essere rappresentante, si traduce
456 N. ZANON, Il libero mandato parlamentare, cit., p. 347-8, ma anche p. 323 e ss.,
dove sembra di voler riconoscere tale posizione negli scritti di H. HELLER e E. W.
BÖCKENFÖRDE. Per la distinzione tra comunità, classicamente intesa come insieme di
persone aggregate nella tensione verso il bene comune, e regime, inteso come forma di
organizzazione della comunità, nonché per le aporie prodotte dalle teoria, come quella
rousseauiana, che fanno del regime l’elemento aggregante la comunità, cfr. F. GENTILE,
Intelligenza politica e ragion di stato, II ed., Milano, 1984, p. 137.
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
299
nella garanzia della propria unicità, recidendo l’alterità, ovvero quella
caratteristica che, prima di essere propria della rappresentanza, è propria
del diritto.
Parimenti, per converso, la situazione giuridica soggettiva passiva,
il dovere di rappresentare, anziché essere speculare al diritto dell’elettore
ad essere rappresentato, si conclude nel suo opposto, ovvero nel dovere
dell’eletto di rendersi impermeabile ad ogni influsso esterno, sotto la
minaccia di una sanzione addirittura di rilevanza penale.
Emerge così la reale portata della costruzione che si sta criticando,
ove si appalesa che il “diritto” ed il “dovere” che vengono letti nel
disposto dell’art. 67 della Costituzione, lungi dal costituire due distinte
situazioni giuridiche soggettive, si rivelano integrare il medesimo precetto
nei confronti dell’eletto, ora nella formulazione positiva, ora nella
formulazione negativa, ma sempre nel perseguimento di un obiettivo che è
al di fuori di lui, imponendo cioè l’assenza di ogni interferenza (per il suo
tramite) nell’assemblea; scopo perseguito con l’assistenza di una sanzione
per un comportamento che, ci viene detto a chiare lettere, risulti “illecito
anche penalmente”.
Le osservazioni fin qui raccolte debbono essere raccolte alla fine di
questo lavoro, ove si cercherà di delineare le situazioni giuridiche
soggettive di rappresentante e di rappresentato. Per il momento occorre
occupare la nostra attenzione su di un aspetto collegato che non viene
trattato dall’autore de Il libero mandato parlamentare.
In fatti, l’indagine attorno al diritto dell’eletto a rappresentare e ad
agire non può dirsi compiuta se non si guarda anche al problema
dell’astensione del rappresentante, profilo che introduce l’ulteriore
questione del rapporto tra maggioranza e minoranza, sulla quale saremo
traghettati verso il paragrafo successivo. A quale condizione l’eletto ha il
diritto di rappresentare e quando e perché tale diritto (perché di un diritto
soggettivo tecnicamente si tratta) deve cedere il passo ad altre aspettative?
Il banco di prova per saggiare questo aspetto può essere dato da una
questione che negli ultimi tempi sembra riproporsi all’attenzione di teorici
e pratici del diritto amministrativo: il problema dell’incompatibilità dei
consiglieri comunali con particolare riguardo alle procedure di variante
dello strumento urbanistico generale.
La questione, invero mai sopita,457
che supera i confini del diritto
urbanistico per involvere gli spinosi aspetti in tema di rappresentanza che
457 La dottrina più recente sembra non essersi particolarmente interessata al
problema. Oltre ai contributi ancora fondamentali di L. GALATERIA, voce Astensione (dir.
DIRITTO DELL’ELETTO A RAPPRESENTARE E DIRITTO AD AGIRE
300
qui precipuamente interessano, risulta acuita da una recente rigorosa
pronuncia della quarta sezione del Consiglio di Stato, ove si sancisce che,
nel procedimento di adozione del piano regolatore generale, l’obbligo per
il consigliere comunale di astenersi dal prendere decisioni su questioni cui
potrebbe essere direttamente o indirettamente interessato è assoluto e non
conosce eccezioni, né ammette distinzioni, sicché la violazione della
regola dell’astensione obbligatoria comporta l’invalidità della
manifestazione di volontà che l’amministratore interessato ha concorso a
formare, a prescindere dai vantaggi o dagli svantaggi che abbia ricevuto e
dalla legittimità o illegittimità del procedimento seguito.458
Per onor del
vero, lo stesso collegio di Palazzo Spada, poco più di un anno prima,
aveva negato l’obbligo di astensione in conseguenza della semplice
allegazione dell’esistenza di interessi configgenti, ancorando
l’applicazione della norma che statuisce detto obbligo alla prova concreta
cost. e amm.), in “Enciclopedia del Diritto Giuffré”, vol. III, Milano, 1958, p. 939; G. B.
VERBARI, voce Organi collegiali, in op. ult. cit., vol. XXXI, Milano, 1981, p. 79; V.
CAIANIELLO, voce Astensione e ricusazione nel procedimento e nel processo
amministrativo, in “Enciclopedia Giuridica Treccani”, vol. III, Roma, 1988; A. M.
SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1989, p. 588, segnaliamo R.
CACCIN, In tema di obbligo di astensione e di interesse privato in atti di ufficio, in “Nuova
rassegna”, 1979, p. 303; I. CACCIAVILLANI, Obbligo di astensione nell’adozione di
strumenti urbanistici comunali e delitto di interesse privato in atti d’ufficio, in
“Giurisprudenza di merito”, 1984, II, p. 1141, su cui amplius infra; G. PIFFERI, Adozione di
strumenti urbanistici e partecipazione di consiglieri interessati, in “Rivista
amministrativa”, 1984, III, p. 253; A. COMPAGNONE, Aspetti della complessa vita degli
organi collegiali: il ruolo degli “astenuti”, in “Nuova rassegna”, 1986, p. 1631; V.
GIUSEPPONE – O. CALABRESI, Astensione negli organi collegiali amministrativi?, in
“T.A.R.”, 1989, II, 32; M. OCCHIENA, Un Comune “deus ex machina” di una lite
proprietaria tra cittadini: indagine giurisprudenziale sull’astensione obbligatoria, in
“Giurisprudenza italiana”, 1994, III, p. 176; IDEM, Adozione di piano regolatore generale e
obbligo assoluto di astensione per i consiglieri interessati, in “Rivista giuridica
dell’edilizia”, 1994, I, p. 1036, nota a C. d. S. sez. IV, 23 maggio 1994, n. 437 su cui
amplius infra; D. RODELLA, Adozione del piano regolatore generale ed obbligo di
astensione dei consiglieri interessati, in “Nuova rassegna”, 1996, p. 2065; cfr., altresì, G.
SORGE, Problemi relativi alla struttura ed al funzionamento del Consiglio comunale dopo
la L. 25 marzo 1983, n. 81, in “I Tribunali amministrativi regionali”, 1996, II, p. 845.
Sintetico sul punto N. ASSINI – PL. MANTINI, Manuale di diritto urbanistico, Milano, 1997,
p. 265. Tace, invece, GC. MENGOLI, Manuale di diritto urbanistico, Milano, 1997, 167-
169, pur, notoriamente, pressoché completo.
458 Così C.d.S., sez. IV, 1 settembre 1997, n. 937, che si può leggere in “Rivista
giuridica dell’edilizia”, 1998, I, 78. La sezione riprende l’orientamento rigoroso già
manifestato con la sentenza n. 437/94 segnalata sopra.
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
301
e specifica che l’atto generale sia stato emanato anche in considerazione
di tali personali e particolari interessi.459
Il tema è dato dalla duplicità di
interessi in capo al medesimo soggetto, seppure in veste diversa:
l’interesse degli elettori, cioè il consenso all’individuazione del bene
comune, e l’interesse privato del rappresentante uti singulus, dato dal
vantaggio o svantaggio a lui derivante di riflesso dall’argomento specifico
trattato.
Com’è noto, il fondamento normativo dell’obbligo di astensione
trova radice nell’art. 290 del Testo Unico della legge comunale e
provinciale, approvato con R.D. 4 febbraio 1915, n. 148, che dispone
l’obbligo dell’astensione dei consiglieri dalle deliberazioni, tra l’altro,
quando “si tratta di interesse proprio, o di interesse, liti o contabilità dei
loro congiunti od affini sino al quarto grado civile”. L’art. 279 del Testo
Unico della legge comunale e provinciale, approvato con R.D. n. 3 marzo
1934, n. 383, riprende letteralmente il disposto, specificando che l’obbligo
dell’astensione scatta anche quando portatore dell’interesse configgente
sia il coniuge460
dell’amministratore – rappresentante ed aggiungendo
l’obbligo per il membro affetto da incompatibilità di allontanarsi dall’aula,
precisazione importante che, nel caso in esame, trancia di netto ogni
questione attorno alla distinzione tra quorum strutturale e funzionale,
qualificando giuridicamente assente il consigliere soggetto all’obbligo
dell’astensione.461
È appena il caso di rammentare che entrambe dette
norme sono state fatte esplicitamente salve, rispettivamente, dalle lettere
b) e c) dell’art. 64 della L. 8.6.1990, n. 142. Analoghe disposizioni si
459 Così C.d.S., sempre sez. IV, 11 giugno 1996, n. 795, che si può leggere ancora
in “Rivista giuridica dell’edilizia”, 1996, I, 950, oppure in “Foro amministrativo”, 1996,
1851.
La questione era stata prospettata all’adunanza plenaria del 9.3.1983, n. 1, che
aveva sancito l’illegittimità dell’adozione di un piano regolatore, impugnata dal
proprietario di terreni ai quali veniva tolta l’edificabilità, prevista nel precedente
programma di fabbricazione, poiché alla seduta del consiglio comunale avevano
partecipato consiglieri proprietari di terreni sui quali tale edificabilità veniva trasferita,
localizzando gli insediamenti residenziali ritenuti necessari per la soddisfazione del
fabbisogno edilizio. Cfr. “Foro Italiano”, 1983, III, 161.
460 Invero, la precisazione può apparire superflua, ove si consideri che la figura del
coniuge rientra certamente nella categoria degli affini entro il quarto grado.
461 Così L. GALATERIA, voce Astensione (dir. cost. e amm.), in “Enciclopedia del
Diritto Giuffré”, vol. III, Milano, 1958, p. 942.
DIRITTO DELL’ELETTO A RAPPRESENTARE E DIRITTO AD AGIRE
302
rinvengono per i consigli regionali e nei regolamenti delle camere,
consentendoci di ritagliare, quasi con un actio finium regundorum, la
situazione giuridica soggettiva del rappresentante.
Di primo acchito, si può osservare come tanto il tenore letterale
quanto la ratio della norma lascino propendere per un dovere di
astensione immediatamente collegato al thema decidendum quale posto
dall’ordine del giorno o ad esso conseguente, ove emerga un interesse
personale dell’amministratore, anche non patrimoniale, ma comunque
apprezzabile, senza poter valutare sull’utilità o meno che il consigliere
interessato possa trarre dal provvedimento. In questo senso, appare
maggiormente aderente al disposto normativo l’orientamento più rigoroso
del Consiglio di Stato, non potendosi condividere l’opinione meno
recente, che richiede la prova dell’effettiva emanazione dell’atto in
conseguenza dell’interesse. Infatti, se un tanto integra l’ipotesi prevista e
punita dall’art. 323 del codice penale, tradizionalmente il vizio di eccesso
di potere si concreta non solo con la prova che il potere attribuito dalla
norma sia stato effettivamente usato per fini diversi da quelli per i quali
era stato accordato, quanto già sulla sola possibilità che tale devianza siasi
verificata.462
In sostanza, conformemente a tale impostazione dogmatica
tradizionale, l’obbligo dell’astensione mira ad una tutela ex ante,
eliminando già prima della discussione (addirittura tramite l’obbligo
dell’allontanamento dall’aula) gli ostacoli alla tensione verso il bene
comune che deve caratterizzare la formazione della volontà generale, per
il tramite del consigliere - rappresentante.
Peraltro, il problema dell’incompatibilità dei consiglieri assume
particolare rilevanza in materia di pianificazione urbanistica, ove vengono
toccati direttamente o di riflesso interessi assai rilevanti per un’estesa
pluralità di soggetti. Da qui l’alto numero di astensioni dovuto all’incrocio
di parentele ed affinità che, nei comuni di piccole dimensioni o con una
presenza di ceppi famigliari consolidati, riflettono molto spesso una
concentrazione immobiliare in nuclei ristretti.
A superamento di siffatto ostacolo, l’esperienza ha proposto tre
diversi rimedi.
Il primo e più diffuso consiste nell’invocazione da parte dello stesso
consiglio comunale dei poteri sostituivi di regione e provincia, chiedendo
la nomina di un commissario ad acta che adotti i provvedimenti che il
462 Cfr., e pluribus, A. M. SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, Napoli,
1989, p. 698.
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
303
consiglio non è, o non ritiene, in grado di prendere. La soluzione trova
fondamento normativo nell’art. 8, sesto comma, della legge urbanistica
fondamentale del 1942, ove prevede l’intervento del Presidente la Giunta
regionale affinché nomini “un commissario per la designazione dei
progettisti, ovvero per l’adozione del piano regolatore generale o per gli
ulteriori adempimenti necessari per la presentazione del piano stesso
all’Amministrazione regionale”. Il principio viene ripreso dalla
legislazione regionale in materia, così, l’art. 8 della legge regionale
siciliana n. 65/81, oppure l’art. 69 della legge regionale veneta n. 61/85.
In altri termini, la costruzione giuridica in esame propone un
inversione logica e temporale, per cui, anziché attendere l’inerzia
dell’amministrazione locale per la designazione del commissario, è
quest’ultima che ne richiede la nomina, proclamandosi incapace ad
adempiere gli obblighi di legge, invocando l’intervento del potere
sostitutivo affinché il commissario adotti lo strumento urbanistico o quella
sua variante che il consiglio si dichiara non in grado di assumere, stante
l’alto numero di suoi componenti interessati alla questione e, quindi,
soggetti al dovere di astensione.
La soluzione, come anticipato, risulta assai diffusa nella pratica ed è
stata anche autorevolmente avvallata dal Consiglio di Stato, ma non per
questo va meno esente da critiche.463
Sotto il profilo più strettamente positivo, si potrebbe obiettare che la
nomina di un commissario ad acta è prevista dalla legge solo in caso di
accertata inerzia in relazione ad “atti o adempimenti cui è espressamente
obbligato”.464
Tali sono sicuramente l’adozione del P.R.G., ai sensi della
463 Con ampia ed articolata sentenza n. 437 del 23 maggio 1994 (che si può leggere
in “Foro Italiano”, 1995, III, 495), in fattispecie ove i consiglieri comunali versavano in
situazione di incompatibilità in quanto intestatari di terreni ricompresi nel piano regolatore,
la IV sezione del Consiglio di Stato ha ribadito come presupposto dell’obbligo di
astensione, cui sono soggetti i consiglieri comunali in relazione alle delibere cui siano
direttamente o indirettamente interessati, sia il coinvolgimento di un interesse del
consigliere nella questione oggetto della delibera, indipendentemente dai vantaggi o dagli
svantaggi che in concreto ne possano a lui derivare. Peraltro, continua il collegio di
Palazzo Spada, la circostanza che nei piccoli paesi i rapporti di parentela o affinità fra
amministratori ed amministrati costituiscano fenomeno ricorrente ed inevitabile non
esclude, ma rende ancora più pressante, l’obbligo di affidare ad un commissario ad acta,
indicato dalla regione, la predisposizione dei piani di disciplina del territorio, laddove
l’organo consiliare competente non sia in grado di esprimere una maggioranza non
inquinata da interessi personali o familiari.
464 Così, testualmente, per esempio, l’art. 69 della L.R.V. n. 61/85.
DIRITTO DELL’ELETTO A RAPPRESENTARE E DIRITTO AD AGIRE
304
L. n. 1150/42465
e di quelle varianti generali di adeguamento agli
strumenti sovraordinati che, per la gerarchia della pianificazione
urbanistica, ben possono ritenersi come atti dovuti. Ne resterebbero
escluse, per esempio, le altre varianti generali e le varianti parziali,
previste rispettivamente dall’art. 49 e dall’art. 50 della L.R.V. n. 61/85,466
465 Le sezioni siciliane del Consiglio di Stato, con sentenza 22 maggio 1990, n. 160
(in “Consiglio di Stato”, 1990, I, 900, s. m.) affermano che l’adozione del piano regolatore
generale costituisce un obbligo del comune, non del sindaco o della giunta o del consiglio
comunale; precisando come la circostanza che il relativo inadempimento sia imputabile
maggiormente ad un organo del comune piuttosto che ad un altro non fa venir meno
l’inadempienza dell’ente considerato nella sua obbiettiva unitarietà e giustifica l’intervento
sostitutivo dell’assessorato a mezzo di un commissario ad acta. Per ulteriori osservazioni
su questa pronuncia, cfr. infra nel testo, nonché nota n. 481.
Indiretta conferma circa la permanenza nel nostro ordinamento della doverosità per
il comune di munirsi di piano regolatore generale si può trarre anche dall’art. 14 della L. n.
109/94, come modificata dalla L. n. 415/98 (“Merloni ter”), ove, il comma ottavo, priva di
qualsivoglia finanziamento per pubblici appalti quei comuni che non essendosi dotati di
strumento urbanistico generale non provvedano entro un anno dall’entrata in vigore della
legge stessa.
466 “Art. 49 -(Varianti generali).
Le varianti del Piano Regolatore Generale sono generali sia quando conseguono a
una modifica del Piano Territoriale Provinciale sia quando la comportano.
Nel primo caso il procedimento di adozione e approvazione è quello stabilito per il
Piano originario. Nel secondo caso la variante, quando sia adottata dal Comune ai sensi
dell'art. 42 e abbia ottenuto il parere favorevole della Provincia, è approvata dal Consiglio
Regionale come variante al Piano Territoriale Provinciale ai sensi dell'art. 37. La stessa è
automaticamente recepita nel Piano Regolatore Generale e nel Piano Territoriale
Provinciale secondo i contenuti dell'approvazione regionale.
In ogni caso non è richiesta l'adozione del progetto preliminare.
Art. 50 - Varianti parziali.
1. Le varianti del piano regolatore generale diverse da quelle dell'articolo
precedente sono parziali.
2. Le varianti generali e parziali indicano nella relazione tecnica gli obiettivi da
perseguire e devono contenere l'aggiornamento dello stato di fatto, la verifica dei rapporti e
limiti di dimensionamento e lo stato di attuazione del piano.
3. Le varianti parziali diverse da quelle elencate ai commi seguenti sono adottate e
approvate con lo stesso procedimento del piano originario, escludendo in ogni caso
l'adozione del progetto preliminare.
4. Sono adottate e approvate dal comune con la procedura prevista ai commi 6 e 7
le varianti parziali che interessano:
a) l'individuazione delle zone di degrado di cui all'articolo 27 della legge 5 agosto
1978, n. 457, e dei perimetri dei piani urbanistici attuativi nonché le modifiche al tipo di
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
305
strumento urbanistico attuativo previsto dal piano regolatore generale purché tali
modifiche rimangano all'interno di ciascuna delle categorie di cui all'articolo 11, comma 1,
numeri 1 e 2;
(si omettono le ipotesi da b a m)
6. Le varianti parziali di cui al comma 4 sono adottate dal consiglio comunale ed
entro cinque giorni sono depositate a disposizione del pubblico per dieci giorni presso la
segreteria del comune e della provincia; dell'avvenuto deposito è data notizia mediante
avviso pubblicato all'albo del comune e della provincia e mediante l'affissione di manifesti,
nonché attraverso altre eventuali forme di pubblicità deliberate dal comune. Nei successivi
venti giorni chiunque può presentare osservazioni alla variante adottata.
7. Il consiglio comunale entro trenta giorni dalla scadenza del termine stabilito per
la presentazione delle osservazioni, approva la variante apportando le eventuali modifiche
conseguenti all'accoglimento delle osservazioni pertinenti e la trasmette alla Regione per la
pubblicazione.
8. La variante approvata acquista efficacia trascorsi quindici giorni dalla
pubblicazione sul Bollettino Ufficiale della Regione del Veneto.
9. I comuni dotati di strumento urbanistico generale adeguato alle leggi regionali
31 maggio 1980, n. 80 e 5 marzo 1985, n. 24, nonché ai rapporti e ai limiti di
dimensionamento di cui agli articoli 22 e 25, adottano ed approvano, con la procedura
prevista ai commi 10, 11, 12 e 13, le varianti parziali che:
a) prevedono ampliamenti finalizzati esclusivamente al completamento delle zone
territoriali omogenee esistenti a destinazione residenziale, ovvero modifiche ai parametri
urbanistici delle zone stesse secondo gli indirizzi di cui all'articolo 120 corrispondenti ad
un numero di abitanti teorici, calcolati sui residenti insediati e rilevati alla data di adozione
dello strumento urbanistico generale, come di seguito indicato:
1) non superiore al cinque per cento per i comuni con popolazione fino a 3.000
abitanti
2) non superiore al quattro per cento per i comuni con popolazione compresa tra i
3.001 e i 5.000 abitanti;
3) non superiore al tre per cento per i comuni con popolazione compresa tra i 5.001
e i 10.000 abitanti;
4) non superiore al due per cento per i comuni con popolazione compresa tra i
10.001 e i 15.000 abitanti;
5) non superiore all'uno per cento per i comuni con popolazione compresa tra i
15.001 e i 50.000 abitanti;
6) non superiore al 0,5 per cento per gli altri comuni.
In tali casi deve essere previsto il conseguente adeguamento della dotazione di aree
per servizi;
b) prevedono ampliamenti delle superfici territoriali esistenti e incrementi agli
indici di edificabilità nelle zone a destinazione produttiva, commerciale, direzionale e
turistico ricettiva in misura non superiore al due per cento, delle aree rilevate alla data di
adozione dello strumento urbanistico generale, purché detti ampliamenti non comportino
nuovi accessi alla viabilità esistente e comunque secondo gli indirizzi di cui all'articolo
120;
c) determinano l'adeguamento del piano regolatore generale alle previsioni degli
strumenti urbanistici di livello superiore.
DIRITTO DELL’ELETTO A RAPPRESENTARE E DIRITTO AD AGIRE
306
che, dunque, non potrebbero essere adottate da un commissario ad acta, in
quanto questi non sarebbe nemmeno nominabile riguardo ad atti cui l’ente
non sia “espressamente obbligato”. Quest’argomento, tuttavia, ci sembra
provi troppo, poiché in comuni piccoli o con forti ceppi famigliari non
sarebbe possibile procedere ad alcuna pianificazione urbanistica, non
potendosi adottare che le varianti dovute, con evidente inattività dell’ente.
Peraltro, gli atti dovuti, proprio in quanto tali, superano il problema che ci
occupa, cioè quello dell’obbligo di astensione per interesse privato dei
consiglieri comunali, giacché in tali casi la formazione della volontà
dell’ente è già predeterminata nei suoi contenuti dalla legge, sicché in
rapporto a provvedimenti a contenuto strettamente vincolato o
predeterminato, quali le varianti di mero recepimento di atti sovraordinati,
non si pone alcun problema di astensione per interesse personale, giacché
la volontà consiliare non può minimamente incidere sul contenuto di
10. Le varianti parziali di cui al comma 9 sono adottate e pubblicate con la
procedura prevista al comma 6.
11. Il consiglio comunale entro trenta giorni dalla scadenza del termine stabilito
per la presentazione delle osservazioni, si pronuncia sulla variante confermandola o
apportando le modifiche conseguenti all'accoglimento delle osservazioni pertinenti e,
senza necessità di procedere alla ripubblicazione degli atti, trasmette la variante in Regione
per l'acquisizione del parere previsto al comma 12.
12. Il dirigente responsabile della struttura regionale competente, entro il termine
perentorio di sessanta giorni dal ricevimento della variante e accertata la sussistenza dei
requisiti di cui al comma 9, esprime un parere relativamente ai punti 1, 3, 4, 5 e 6
dell'articolo 45, nonché sulla pertinenza delle osservazioni accolte e sulla congruenza della
variante rispetto agli atti di indirizzo previsti dall'articolo 120. Trascorso detto termine
senza che il dirigente si sia espresso, il consiglio comunale procede all'approvazione della
variante prescindendo dal parere.
13. Il consiglio comunale approva la variante urbanistica in conformità al parere
del dirigente responsabile della struttura regionale competente, ovvero formula, entro
sessanta giorni dal ricevimento del parere, opposizione alla Giunta regionale che, nei
successivi novanta giorni, decide definitivamente, approvando o restituendo la variante.
14. La variante approvata, acquista efficacia trascorsi quindici giorni dalla
pubblicazione sul Bollettino Ufficiale della Regione del Veneto. (si omettono i commi 15 e
16)”
La lunga citazione (pur con i tagli evidenziati) vuol sottolineare l’attribuzione
dell’attività programmatoria nella disponibilità giuridica della comunità locale, in regime
di diarchia con la regione, per alcune fattispecie, ma in piena autonomia, per altre. Se per
la determinazione in queste materie -importanti, ma non essenziali- vengono valutate la
situazioni giuridiche soggettive del rappresentante e del rappresentato, prevedendo
opportuni (per quanto tecnicamente discutibili) rimedi alle situazioni di incompatibilità,
appare davvero singolare il regime di irresponsabilità dei rappresentanti che acquista
vieppiù maggior ampiezza mano a mano che si sale nell’importanza delle assemblee per
gli interessi che vi vengono trattati
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
307
questi atti. La questione deve essere mantenuta, dunque, all’interno della
categoria degli atti a contenuto non vincolato, ove si esplica la
discrezionalità dell’organo e, in quest’ambito, distinguendo quelli che
sono dovuti da quelli alla cui assunzione l’organo non è obbligato da
precisa disposizione di legge. Escludendo aprioristicamente la nomina del
commissario per tutte le varianti non strettamente “dovute”, non potendosi
svolgere alcuna attività di pianificazione urbanistica, cioè un’autentica
attività di programmazione, che di per sé comporta delle scelte
discrezionali, si perverrebbe comunque alla paralisi di una delle funzioni
(forse la più importante) dell’ente locale. Ed in tal senso, questa seconda
tipologia di atti, ancorché discrezionali, potrebbe essere ritenuta anch’essa
come afferente alla categoria degli “atti dovuti”, in quanto atti che non
possono essere pretermessi, pena il venire meno di uno dei precisi compiti
commessi all’amministrazione comunale dalla legge.467
Sotto altro profilo,
poi, a ben guardare la categoria degli atti dovuti non costituisce un
numerus clausus; sicché la determinazione ultima spetta sempre
all’organo o all’ente che deve nominare il commissario, per cui, con un
approccio pragmatico, se la regione o la provincia nomina il commissario
ad acta, si deve ritenere che vi sia stata una valutazione sulla sua necessità
o, quantomeno, sulla sua opportunità; seppure un tale approccio rimette,
in definitiva, al soggetto deputato alla nomina del commissario l’assoluta
discrezionalità nell’esercizio del potere sostitutivo, ponendo il sostituendo
in una sorta di regime di tutela. La questione, dunque, deve essere ripresa
nella conclusione di questo lavoro.
Sulla scorta di quest’ultima annotazione, sotto il profilo più
squisitamente teorico generale e con riguardo alla teoria della
rappresentanza, si propongono ulteriori osservazioni problematiche.
Da un lato ci si deve chiedere se spetti allo stesso organo
sostituendo la valutazione della propria inidoneità o incapacità
all’adozione dell’atto per il quale viene richiesta la nomina del
commissario, potendosi osservare che l’esercizio dei poteri sostitutivi è
condizionato all’inattività, rectius, alla mancata adozione di un dato
provvedimento in un termine previsto dalla legge o assegnato da un altro
organo. In verità, sembra più congruo e sicuramente più aderente al testo
467 Si è perfettamente consapevoli che siffatto modus procedendi, se portato alle
sue conseguenze, scardinerebbe la tradizionale categoria degli atti dovuti, giacché
finirebbe per farvi rientrare pressoché ogni atto, in quanto esercizio di un potere commesso
per il perseguimento di un determinato compito.
DIRITTO DELL’ELETTO A RAPPRESENTARE E DIRITTO AD AGIRE
308
della legge il giudizio del sostituto piuttosto che quello del sostituito,
purché conseguente all’accertata impossibilità di funzionamento entro un
dato termine, prima del decorso del quale il consiglio comunale è ancora
titolare del potere di agire, purgando, per così dire, la mora, e, altresì,
portatore di un dovere di agire, in adempimento delle sue funzioni. Inoltre,
a voler essere rigorosi, nel caso in esame, il consiglio comunale, come non
è in grado di pronunciarsi in ordine alla pianificazione urbanistica,
parimenti non dovrebbe essere in grado di pronunciarsi neppure sulla sua
attitudine o meno a statuire sul punto specifico; sicché l’obbligo
dell’astensione dovrebbe essere totale, impedendo l’intervento del
consiglio su qualsivoglia determinazione teleologicamente connessa con
l’adozione della variante “interessata”. Infatti, così come i consiglieri
toccati da interesse personale debbono astenersi dal concorrere a formare
la volontà dell’organo (e, quindi, dell’ente) attorno alla soluzione
urbanistica prospettata, ugualmente dovrebbero astenersi da una votazione
intorno alla (in)capacità propria dell’organo e che, per conseguenza,
stabilisca una diversa procedura per quella stessa pianificazione
urbanistica: non è men vero che l’interesse privato può estrinsecarsi anche
nel sottrarre al confronto dialettico tra maggioranza e minoranza la
determinazione “interessata”, specie quando, in casi di maggioranze non
particolarmente ampie, le posizioni potrebbero rovesciarsi in conseguenza
di doveri di astensione. Anzi, non appare eccessivo affermare in che in tali
casi, abdicando al proprio ruolo ed alle proprie responsabilità, la
maggioranza “espropria” il diritto della minoranza ad esercitare quel
controllo che le è fisiologico. A ben guardare, infatti, la richiesta di
nomina preventiva del commissario ad acta da parte dello stesso consiglio
comunale si concreta, in sostanza, nella dichiarazione unilaterale della
maggioranza (interessata) sull’impossibilità di funzionamento dell’organo,
a prescindere dal numero di consiglieri effettivamente coinvolti, che
potrebbe anche essere minimo o, comunque, non tale da provocare la
paralisi dell’organo: proprio per questo, supra si è insistito che solo il
decorso del tempo e la scadenza del termine a provvedere giustifica
l’esercizio dei poteri sostitutivi, trattandosi di un chiaro esempio di
rilevanza giuridica del fatto.468
468 È scontato che anche tale più rigorosa costruzione non è immune da abusi,
laddove lo scadere inutilmente del termine può essere artatamente provocato proprio al
fine d’integrare la condizione prevista dalla legge per la nomina del commissario ad acta.
Occorrerebbe, dunque, che la nomina del commissario ad acta fosse preceduta da un
opportuno accertamento attorno all’idoneità dei tentativi compiuti da parte dell’organo
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
309
Non di meno, un volta che il commissario sia stato comunque
nominato, si danno due ipotesi. L’organo straordinario potrebbe limitarsi
ad approvare la variante eventualmente predisposta dall’amministrazione
comunale, prima di dichiararsi “incapace” di procedere all’adozione, ed
allora verrebbe aggirata la norma sull’incompatibilità, poiché lo stesso
risultato verrebbe raggiunto sostituendo un organo ad un altro in relazione
all’atto finale del procedimento amministrativo (l’adozione da parte del
consiglio), una volta che questo sia oramai pervenuto alla sua conclusione
in conformità e secondo l’impronta impressagli dall’amministrazione, che
si limiterebbe solamente ad un’astensione formale (in tutta la sua
interezza, abbiamo visto, sia degli incompatibili che dei “compatibili”),
avendo già concorso ad impartire le scelte volute. In alternativa, il
commissario potrebbe sindacare la soluzione predisposta
dall’amministrazione, riservandosi di farla propria o di apportarvi
modifiche, oppure, ma è ipotesi di scuola, riformulando l’intero progetto
ex novo, giacché difficilmente un organo straordinario e temporaneo
intenderà assumere l’atto di programmazione fondamentale, seppure
normativamente non sia minimamente legato agli orientamenti di
principio eventualmente adottati dal consiglio.469
In tal ultimo caso, poi,
c’è il rischio di svilire il procedimento complesso (binario) della variante
al piano regolatore generale, che prevede un’adozione ed
un’approvazione: qualora anche la prima sia frutto di un organo
straordinario nominato dalla regione, il meccanismo dualista
necessariamente si inceppa.470
Né può considerarsi risolutiva sostituendo al fine di non incorrere nell’inadempimento. Si veda, ad esempio, la pronuncia
del T.A.R. Lazio, sezione I, 6 luglio 1985, n. 836, in “Foro Amministrativo”, 1986, 881,
con sintetica nota di G. SIRIANNI, ove viene riconosciuto che la regione nomina
legittimamente il commissario per l’adozione di un piano regolatore, a mente dell’art. 9
della L. n. 1150/42, allorché il consiglio comunale, seppure convocato come prescritto,
non abbia fatto fronte agli adempimenti relativi nel termine ex lege di trenta giorni, non
bastando a sanare l’inerzia il semplice conferimento dell’incarico al progettista per la
redazione tecnica del piano stesso, quando nel termine di cui sopra non si sia anche
provveduto all’adozione dello stesso strumento urbanistico.
469 Correttamente, la giurisprudenza ha riconosciuto che l’indicazione lasciata dal
consiglio comunale al commissario, mediante l’approvazione di criteri di massima da
seguire nel piano regolatore, non sia per nulla vincolante nei suoi confronti. Cfr. la
decisione del T.A.R. Calabria, sez. Catanzaro, del 6 novembre 1991, n. 706, che si può
leggere in “Foro Amministrativo”, 1992, 2793.
470 Cfr. anche infra alle note n. 481 e 483. Di diverso avviso sembra il T.A.R.
Sicilia, sezione I, Catania, che con pronuncia n. 839, resa lo 11 luglio 1989 (la sola
DIRITTO DELL’ELETTO A RAPPRESENTARE E DIRITTO AD AGIRE
310
l’osservazione che il commissario, pur nominato dalla regione, agisce in
sostituzione del consiglio ed in veste del consiglio, cioè come organo del
comune e non come organo della regione, con i poteri del consiglio
comunale. Questa è la tesi assolutamente prevalente, ripresa anche dal
Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana, con la
sentenza 160/90, che si è citata supra in nota, ove afferma che il
commissario ad acta di un comune è un organo straordinario che imputa
all’ente la propria attività anche nell’ipotesi in cui sia nominato
dall’autorità regionale. Non si riesce a capire perché, dunque, da tale
affermazione nella stessa massima venga dedotto che, in forza di tale
premessa, “il comune ha legittimazione ad impugnare il provvedimento di
adozione del piano regolatore adottato dal commissario”. Ci pare che, in
forza del rapporto organico (anche se non di servizio), se la volontà del
commissario ad acta è la volontà dell’ente, non sia data posizione di
alterità sostanziale e, segnatamente, processuale tra commissario e
consiglio in ordine agli atti adottati dal primo in sostituzione del
secondo.471
In più, non si vede come il consiglio possa deliberare in ordine
all’impugnazione dell’adozione del P.R.G. da parte del commissario,
atteso che una tale pronuncia richiederebbe una considerazione sul merito
delle scelte urbanistiche accolte dall’organo straordinario, valutazione che
dovrebbe essere preclusa al consiglio proprio per l’incompatibilità dei
suoi membri, che ha imposto la nomina del commissario. Quand’anche si
volesse osservare che, in caso di deliberazione per l’impugnazione, la
cognizione del consiglio si limita solo ad aspetti di legittimità e non,
quindi, a considerazioni di merito, unico luogo ove si concreta il rischio di
interesse personale e si manifesta l’incompatibilità, non di meno, si deve
rammentare che ogni allegazione del vizio di eccesso di potere per
incongruità dell’iter logico seguito, produce necessariamente una
valutazione sul contenuto dell’atto e sulla consequenzialità tra gli scopi
massima è in “Foro Amministrativo” 1991, 176) afferma che il commissario ad actus ha il
potere di assumere le deliberazioni di competenza del consiglio comunale in materia di
adozione del piano regolatore generale, con la sola preclusione in ordine alle
controdeduzioni alle osservazioni dei privati; l’assessore regionale del territorio e ambiente
conserva, invece, il potere di approvazione del predetto piano senza tuttavia poter
introdurre modificazioni sostanziali ai relativi criteri di impostazione.
471 Sul punto cfr. amplius infra § III.3, ove si approfondisce la figura dell’interesse
legittimo, in distinzione dal diritto soggettivo, nella sua derivazione dall’elaborazione della
Destra hegeliana.
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
311
(scelte di fondo) e i mezzi per attuarli; sicché ben difficilmente il consiglio
potrebbe svolgere una discussione ed adottare un atto di volontà senza
involgere aspetti che comportino l’incompatibilità dei propri membri. In
altri termini, per deliberare l’impugnazione della deliberazione promossa
dal commissario, il consiglio sarebbe comunque chiamato a conoscere il
merito del provvedimento (anche solo per valutarne un vizio di stretta
legittimità), riproponendo così quella situazione d’incompatibilità che era
alla radice della nomina del commissario ad acta. Infine, anche la mera
allegazione di vizi di stretta legittimità concreta il dovere di astensione,
atteso che anche il tentativo di caducazione del provvedimento in sede
giurisdizionale può comportare un “interesse personale” per alcuni
consiglieri.
Comunque, per quanto attiene ai profili di rappresentanza, il
commissario, ancorché venga qualificato organo del comune, è pur
sempre nominato dalla regione e non eletto dai cittadini del comune: può
ancora dirsi rappresentante della popolazione, atteso che a questa (tramite
i consiglieri - rappresentanti) spetta il potere di definire la pianificazione
urbanistica?472
L’obiezione non è oziosa, laddove l’adozione da parte di
un “non rappresentante” può produrre una deresponsabilizzazione del
consiglio o della giunta nel dare esecuzione ad un provvedimento
programmatorio che non è loro immediato prodotto. Inoltre, sviluppando
quanto si è detto supra, l’azione del commissario, anche inteso come
organo del comune, spoglia non solo le minoranze, ma ogni consigliere
che non sia incompatibile, del suo apporto, del suo concorso all’adozione
dell’atto, inficiando il meccanismo dialettico tra maggioranza ed
opposizione, assicurando l’integrità del “pacchetto” opportunamente
predisposto prima di invocarne la nomina ed evitando, altresì, la
formazione di maggioranze trasversali. Un tale procedimento, in quanto
mira a sottrarre alla discussione e, quindi, alla competenza del consiglio
l’adozione di un provvedimento commessogli dalla legge, potrebbe essere
fatto validamente oggetto di impugnazione da parte dei consiglieri non
affetti da incompatibilità (sia della maggioranza che della minoranza),
sull’assunto che non ricorrono gli estremi previsti per l’esercizio dei poteri
472 Sul punto, ancora fondamentale M. P. CHITI, Partecipazione popolare e
pubblica amministrazione, Pisa, 1977, specialmente p. 96 e ss. Si confrontino, altresì, le
deduzioni del T.A.R. Sicilia, n. 839/89, citata alla nota n. 470, ove esclude che il
commissario possa procedere all’accoglimento o alle controdeduzioni sulle osservazioni
presentate dai privati.
DIRITTO DELL’ELETTO A RAPPRESENTARE E DIRITTO AD AGIRE
312
sostitutivi o, comunque, che non si è proceduto alla loro verifica in
concreto.473
Il che impone, per altra via, di ricercare attentamente le
condizioni di nomina del commissario ad acta.
Il secondo sistema utilizzato per superare l’ostacolo
dell’incompatibilità dei consiglieri consiste nel frazionare il progetto
urbanistico in tante parti quanti sono i consiglieri incompatibili e, quindi,
procedere all’adozione delle singole varianti, con l’astensione, di volta in
volta, del consigliere incompatibile.474
Questo procedimento si ritiene abbia il vantaggio di por meglio al
riparo il consigliere incompatibile da responsabilità di ordine penale,
giacché la pura e semplice astensione nel singolo caso non richiede, come
nell’ipotesi trattata precedentemente, prese di posizione su atti prodromici
e, quindi, finalisticamente collegati.475
Se, formalmente, tale meccanismo
non incide sul normale funzionamento del consiglio, non di meno svilisce
la natura programmatoria dell’atto, impedendo, altresì, la formazione di
una volontà precisa dell’ente, nel senso di volontà aderente ad una corretta
rappresentazione della realtà ed alle sue conseguenze.
Infatti, la frammentazione del provvedimento da adottare sfigura la
programmazione urbanistica, trasformandola da atto generale in
disposizione puntuale e concreta, impedendo la ricostruzione del disegno
473 Per fortuna, la migliore giurisprudenza non sembra dare più credito alla
ritorsione con la quale veniva colpito il consigliere che impugnava un provvedimento
dell’organo o dell’ente di afferenza, sull’assunto che in tal modo si concretava una
condizione successiva di ineleggibilità (la pendenza giudiziaria nei confronti dell’ente),
che avrebbe dovuto portare alla decadenza del consigliere – ricorrente.
474 La tesi è stata autorevolmente sostenuta da I. CACCIAVILLANI, Obbligo di
astensione nell’adozione di strumenti urbanistici comunali e delitto di interesse privato in
atti d’ufficio, in “Giurisprudenza di merito”, 1984, II, p. 1141, che ne individua i limiti
entro i quali può trovare applicazione, con particolare riguardo ai profili di diritto penale.
Pur non riconoscendola pienamente soddisfacente ed in attesa di un invocato chiarimento
dell’Adunanza plenaria, sembra sostanzialmente aderirvi M. OCCHIENA, Adozione di piano
regolatore generale e obbligo assoluto di astensione per i consiglieri interessati, in
“Rivista giuridica dell’edilizia”, 1994, I, p. 1036, nota a C. d. S. sez. IV, 23 maggio 1994,
n. 437. Si limita a riportare la contrarietà della giurisprudenza a tale soluzione N. ASSINI –
PL. MANTINI, Manuale di diritto urbanistico, Milano, 1997, p. 265.
475 Sebbene è pur vero che l’artata singola astensione reciproca possa apparire
come indice di collaborazione tra consiglieri nell’identico disegno, al fine di eludere la
norma sull’astensione per incompatibilità, riproponendo quei profili penalistici che si
volevano evitare.
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
313
originario.476
Di più; le singole varianti, nella loro puntualità potrebbero
presentarsi come legittime ed opportune, mentre il disegno unitario che vi
è sotteso, risultante dalla loro approvazione, potrebbe dimostrarsi o
illegittimo o inopportuno. In questo modo, infatti, la regione non sarebbe
in grado di valutare l’intera scelta programmatoria del comune, né di
esercitare puntualmente il suo ruolo di controllo, efficacemente aggirato
dal disegno dissimulato. A mero titolo d’esempio, si pensi ad una
violazione dei dimensionamenti perpetrata tramite una serie successiva di
varianti parziali, tutte di per sé condivisibili: verosimilmente il sindacato
repressivo regionale potrebbe intervenire solo nel momento di valutare
quel provvedimento che scopre il disegno, magari superando i limiti di
legge nella proporzione tra le diverse destinazioni. In ogni caso, un tanto
non potrebbe inficiare le varianti, pur teleologicamente collegate, che
siano già state approvate, salvo, ovviamente, l’intervento del giudice
penale, laddove ne ricorressero i presupposti.
Altresì, siffatta procedura, come si è detto, solo formalmente
rispetta la struttura del collegio ed il suo ruolo rappresentativo, in quanto
viene presentata ai consiglieri non la vera proposta che si intende
sottoporre all’organo, bensì un aliquid novi, atteso che in questo caso la
somma delle parti non equivale al tutto, ovvero, fuor di metafora, la
somma delle varianti non corrisponde al disegno programmatorio generale
ad esse sotteso;477
non tanto per quanto attiene agli effetti, ché, anzi, questi
sono stati raggiunti, bensì per quanto riguarda la rispondenza di quegli
effetti ad un reale volontà dell'ente, che non può essersi convenientemente
formata, in assenza di una precisa rappresentazione della realtà. In altre
476 Non è il caso di riprendere l’articolata questione intorno alla natura del piano
regolatore generale, inteso come atto regolamentare a contenuto essenzialmente normativo,
oppure come provvedimento, a contenuto più dispositivo. Sul punto, si rinvia al
fondamentale contributo di LE. MAZZAROLLI, I piani regolatori urbanistici nella teoria
generale della pianificazione, Padova, 1966, specialmente p. 405 e ss.; più recentemente,
oltre alle voci delle enciclopedie ed ai manuali di GC. MENGOLI, di G. ORSONI, di F.
SPANTIGATI, cfr. M. PALLOTTINO, Problemi ed aspetti del piano regolatore generale, in
“T.A.R.”, 1984, II, p. 215.
477 In altri termini, la fattispecie all’esame può essere paragonata ai raggruppamenti
di disposizioni normative in un articolo di centinaia di commi, da votare nella sua
interezza, oppure in quei provvedimenti aventi forma di legge, ma privi dei caratteri della
generalità ed astrattezza, per assumere quelli della puntualità e concretezza più acconci al
potere esecutivo che non al legislativo; l’esperienza giuridica si è incaricata di fornire
esempi di ambo i tipi.
DIRITTO DELL’ELETTO A RAPPRESENTARE E DIRITTO AD AGIRE
314
parole, secondo i termini tradizionali della teoria generale del diritto, non
essendoci stata la completa rappresentazione della realtà (mercé la
parcellizzazione del provvedimento, sostanzialmente diverso dalla sua
unità), non può dirsi esservi stata nemmeno la rappresentazione degli
effetti, occultati dalla presentazione “a rate” della proposta, dacché se il
progetto fosse stato presentato nella sua interezza, la valutazione
veramente complessiva sarebbe stata senza dubbio diversa e, magari,
avrebbe portato ad un risultato differente; certo è che l’iter di formazione
della volontà sarebbe stato un altro, quantomeno per l’astensione
(simultanea) di tutti i consiglieri affetti da incompatibilità. Il che dimostra,
per altra via, per quanto ce ne fosse ancora bisogno, come il regolamento
del collegio, la procedura (la forma, se si vuole), incida sulla sostanza
degli atti. Ora, se appare un dato acquisito che laddove l’obbligo di
astensione sussista, la sua violazione è causa di illegittimità dell’atto che
sia stato assunto con la partecipazione al voto del consigliere che
dall’obbligo in questione era gravato, ci si deve chiedere quale sorte debba
toccare all’atto dissimulato comunque assunto, venuto ad esistenza con il
concorso della volontà di coloro che avrebbero dovuto astenersi, se esso
fosse stato presentato in forma palese, nella sua interezza, manifestando
gli effetti completi della sua adozione. Orbene, la dogmatica tradizionale
ci insegna che se l’atto dissimulato (qualora consapevolmente voluto, ma
già di tale circostanza v’è ragione di dubitare nel nostro caso) è lecito,
esso ha prevalenza sull’atto simulato. Non così se concreta un atto in
frode alla legge.478
È evidente che se la variante fosse stata presentata
nella sua interezza si sarebbe concretata l’incompatibilità simultanea di
tutti i consiglieri interessati, con la conseguenza di alterare la maggioranza
e, magari, di arrivare all’impossibilità di funzionamento dell’assemblea.
Qualora si vinca la prova di resistenza, si deve concludere che l’atto
dissimulato sarebbe caduto sotto la sanzione della norma sulla
incompatibilità e, quindi, sarebbe illegittimo; ed il problema si sposta
dunque sulla prova della contrarietà dell’iter alle disposizioni
dell’ordinamento.
Il terzo sistema per far fronte all’astensione per incompatibilità dei
consiglieri comunali consiste nella previa individuazione dei componenti
478 Peraltro, a nostro avviso, nell’esempio riportato nel testo, la violazione è
triplice: interessando sia il carattere generale e programmatorio che debbono rivestire le
varianti allo strumento urbanistico (non a caso denominato) generale, sia la verifica da
parte della regione, sia l’obbligo di astensione.
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
315
tenuti all’astensione, provvedendo, in eventualità di carenza di quorum
strutturale del consiglio comunale, ad una seconda convocazione, ove il
consiglio può deliberare con un numero ridotto di componenti. Si deve
ricordare, infatti, che l’ancor vigente art. 127 del già citato R.D. 4 febbraio
1915, n. 148 dispone che i consigli comunali non possono deliberare se
non interviene la metà del numero dei consiglieri assegnati al comune;
però, alla seconda convocazione, che avrà luogo in altro giorno, le
deliberazioni sono valide purché intervengano almeno quattro membri. Di
primo acchito può sembrare infelice la soluzione di far commettere alla
volontà di quattro persone (e, quindi, alla maggioranza di tre) l’adozione
degli atti fondamentali di pianificazione urbanistica.479
Non di meno, si
consideri che nei comuni maggiori il numero dei consiglieri “compatibili”
sarà verosimilmente ben superiore al minimo di legge, mentre nei comuni
minori si tratta di un quorum proporzionalmente non irrilevante in
confronto al numero di consiglieri assegnati all’ente; ed è proprio in questi
ultimi comuni che si concreta più facilmente il fenomeno
dell’incompatibilità. Certo, de jure condendo, sarebbe più opportuno
prevedere il quorum della seconda convocazione non in cifre assolute, ma
con un numero proporzionale ai consiglieri assegnati all’ente.
È evidente che in caso di fallimento del secondo tentativo non resta
che ricorrere alla nomina del commissario ad acta. 480
Tuttavia, la
differenza con la prima soluzione esaminata sopra non è meramente
formale. Infatti, solo in quest’ultimo caso viene rispettata la struttura
rappresentativa del consiglio e la nomina del commissario risulta ancorata
ad un più oggettivo riscontro di impossibilità di funzionamento
479 Giudica irrisorio il numero dei consiglieri per il quorum della seconda
convocazione e critica il mantenimento in vigore della norma da parte dell’art. 64, comma
1, lett. b) della L. n. 142/90 P. VIPIANA, commento all’art. 31, in C. MIGNONE – P. VIPIANA
– P.M. VIPIANA, Commento alla legge sulle autonomie locali, Torino, 1993, p. 347. Come
si precisa nel testo, la questione assume diversi aspetti secondo il caso concreto, nella
varietà dei quasi ottomila comuni d’Italia. Seppure è da auspicarsi un riferimento non in
termini assoluti, ma proporzionali, che sarebbe anche più confacente al carattere
rappresentativo dell’organo; aspirazione comunque tradita dalla L. n. 265/99.
480 La prima sezione del T.A.R. Veneto, con sentenza n. 900 del 19 maggio 1997,
ha statuito che un comune non possa chiedere alla provincia la nomina del commissario ad
acta senza prima aver esperito il tentativo di procedere all’adozione in seconda
convocazione ai sensi dell’art. 127 del R.D. n. 148 del 4 febbraio 1915.
DIRITTO DELL’ELETTO A RAPPRESENTARE E DIRITTO AD AGIRE
316
dell’organo fisiologicamente deputato all’assolvimento
dell’incombenza.481
481 Nella precitata sentenza n. 900/97, il T.A.R. Veneto riconosce la natura di
extrema ratio alla nomina del commissario, che, quale “organo monocratico straordinario”,
indubbiamente (ma inevitabilmente) altera i rapporti di rappresentanza dell’organo
collegiale, seppure, con acutezza, è lo stesso collegio a precisare che “la questione non
involge affatto i principi che regolano i rapporti di rappresentanza politica e la dialettica tra
la pluralità di interessi di cui sono portatori i singoli componenti il collegio politico. Anzi è
vero il contrario perché, se non è possibile raggiungere il quorum necessario in prima
convocazione, a maggior ragione se la causa va ricercata nella incompatibilità di alcuni
consiglieri, la cui partecipazione alla seduta determinerebbe altrimenti l’invalidità della
deliberazione, e se non fosse possibile nemmeno ricorrere alla seconda convocazione,
allora l’unica soluzione resterebbe la nomina di un commissario ad actus. Ma in
quest’ultima ipotesi la variante urbanistica non sarebbe più affidata alla volontà del
collegio (pur col quorum ridotto), ma alla decisione di un organo monocratico
straordinario” (con sottolineatura nostra). La pronuncia, peraltro, non prende posizione
sulla vexata quaestio indicata supra nel testo, in ordine all’alterità tra i due organi e sulla
legittimazione del consiglio a promuovere giudizio avverso il provvedimento del
commissario.
Il tema è stato invece affrontato dalla seconda sezione del T.A.R. Bari, ove
argomenta diffusamente che il commissario non deve intendersi come organo, neppure
straordinario, dell’amministrazione attiva, né come organo di controllo, bensì dev’essere
visto quale organo del giudice dell’ottemperanza, sia che venga scelto direttamente dal
collegio giudicante, sia che venga individuato “per interposta persona”, sicché avverso il
suo operato è ammissibile il reclamo secondo le forme di ottemperanza del giudicato, per
verificarne la conformità alla pronuncia giudiziale (così T.A.R. Bari, Sezione II, n. 861 del
17.11.1998, Pres. Corasaniti, Est. Spagnoletti, in “T.A.R.”, 1999, n. 3, p. 1108).
La tesi, invero suggestiva, rafforza la posizione del giudice nel controllo
dell’esecuzione del giudicato o della cautela (anche prima dell’inoppugnabilità
dell’ordinanza cautelare), ampliando anche i rimedi esperibili dal ricorrente di fronte alla
protervia dell’amministrazione soccombente (magari in fase cautelare) nel dare attuazione
ai disposti del giudice. Non di meno una costruzione siffatta apre seri dubbi in ordine al
principio di divisione dei poteri ed alla legittimazione dell’amministrazione soccombente
di ricorrere avverso l’operato del commissario ad actum. Infatti, per la tradizionale
definizione di “organo” contrapposto ad “ente”, secondo l’esposizione resa nel testo (cfr.
supra II.3.5), la configurazione del commissario quale organo del collegio conduce
irreversibilmente verso il riconoscimento della volontà del collegio, tramite il suo organo,
a fondamento dell’atto amministrativo attivo emanato in conseguenza della pronuncia
giurisdizionale, sia essa cautelare o definitiva. E ben si può ripetere, allora, secondo
l’intuizione della dottrina d’oltralpe, che juger de l’administration c’est administrer.
Peraltro, se il commissario ad actum non viene qualificato come organo, neppure
temporaneo e straordinario, dell’amministrazione attiva, per essere rappresentato come
organo del giudice, acquista un argomento a proprio favore la posizione che ammette la
legittimazione dell’amministrazione a ricorrere avverso l’atto compiuto dal commissario.
In questo caso, infatti, il commissario non esprime la volontà dell’ente, del quale non
sarebbe organo; sicché sarebbe superata la contraddizione evidenziata supra nel testo e alla
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
317
Infatti, anche quelle posizioni esaminate sopra che tematizzano il
diritto ad essere rappresentante come situazione giuridica soggettiva
attiva, processualmente tutelabile,482
non possono non riconoscere
nell’interesse privato dell’eletto un ostacolo giuridico all’esercizio di quel
diritto e, per converso, un deficit temporale di rappresentanza rispetto a
quegli elettori che tale consigliere hanno scelto; circostanza –si badi bene–
che si verifica pur sempre secondo un’eventualità prevista ed accettata.
Anzi, solo la prova dell’impossibilità di deliberare tanto in prima, quanto
in seconda convocazione, denotando l’inattitudine del collegio a statuire
sul punto, concreta in realtà una sottrazione oggettiva ex post della materia
specifica all’attribuzione dell’organo, secondo la tesi tradizionale per la
quale la sostituzione darebbe luogo al formarsi di una competenza
straordinaria, a lato di una competenza ordinaria, ponendo un rapporto tra
organi caratterizzato dall’alternatività della loro competenza,
relativamente ad una branca di attività o limitatamente ad alcuni o ad un
solo affare, pertinente al fascio di attribuzioni fisiologicamente commesse
al sostituito. Per quanto nel caso di sostituzione parziale, qual è quella in
esame, si deve rilevare che posizioni meno recenti abbiano sostenuto che
il commissario non divenga organo dell’ente presso il quale è inviato, ma
sia organo dello Stato (o della regione) e suo rappresentante,
sull’osservazione che in caso di sostituzione parziale la funzione
commissariale si esaurisce nel compimento di uno o più atti del sostituito
ed un tanto impedirebbe “che il commissario stesso assuma la
configurazione strutturale di elemento dell’ente minore”, ritenendo non
sufficiente allo scopo l’istituzione di un singolo rapporto, occorrendo
invece che si stabilisca una serie continua e varia di rapporti tra l’ente e
nota n. 465. Non di meno, per questa via, si viene a fornire un mezzo all’amministrazione
inadempiente proprio per affrancarsi dal provvedimento impostole dal commissario. Per
parte nostra riteniamo che seppure orami dottrina e giurisprudenza sono concordi
nell’ammettere legittimazione processuale di un organo nei confronti dei provvedimenti di
un altro organo, tale posizione di alterità sostanziale e processuale non possa darsi tra
organo sostituto e organo sostituito; sicché, come già detto, il consiglio non può agire nei
confronti del commissario, in quanto la volontà di quest’ultimo tiene luogo della volontà
del primo, cioè la volontà del commissario è la volontà del consiglio.
482 Cfr. N. ZANON, Il libero mandato parlamentare. Saggio critico sull’art. 67 della
Costituzione, Milano, 1991, p. 288 e ss., ove, come si è detto, viene affermata la possibilità
di tutela del divieto di mandato imperativo, come diritto a rappresentare, sollevando
conflitto di attribuzione di poteri. Il diritto ad essere rappresentante si estende anche ai
membri delle assemblee elettive diverse dal Parlamento nazionale.
DIRITTO DELL’ELETTO A RAPPRESENTARE E DIRITTO AD AGIRE
318
l’ufficio che agisce in sua vece.483
Come si è già detto, in accordo al
consolidato orientamento giurisprudenziale, ci pare che la configurazione
del commissario come organo straordinario dell’ente produca
l’imputazione degli atti (e non dei meri effetti materiali) all’ente stesso.
Se, tuttavia, la sostituzione non produce una sottrazione sia pure
temporanea delle attribuzioni conferite all’ente, parrebbe logico
concludere che il commissario ad acta sia da qualificare, anziché quale
organo straordinario dell’ente, come titolare straordinario dell’organo, in
luogo del titolare ordinario delegittimato in ragione dell’incompatibilità.484
Quest’ultima tesi dà conto anche delle questioni di rappresentanza
politica. Per questa via, infatti, anche la minoranza non viene espropriata
del suo ruolo fisiologico di controllo, dacché la declinazione di
competenza a favore del commissario non è frutto di una determinazione
precostituita, bensì dell’oggettivamente riscontrabile insufficienza di
consiglieri atti al voto, che esclude di per sé ogni fisiologica dialettica
all’interno del consiglio.
La conseguenza che se ne può trarre è che in tal caso, a differenza
di quanto visto sopra, non sembra sussistere in capo ai consiglieri alcuna
legittimazione ad agire avverso la deliberazione (se esistente) che,
prendendo atto degli esiti negativi della prima e seconda convocazione,
sollecitasse la nomina dell'organo straordinario, con il solo fine, dunque,
di stimolare la regione o la provincia ad usare un potere per il cui esercizio
si è verificata comunque la condizione prevista dalla legge. Per converso,
la deliberazione consigliare che richiede l’intervento della regione o della
provincia, nell’esercizio dei poteri sostitutivi, sarà legittima solo ove
dimostri l’inefficacia dei tentativi effettivamente svolti per procedere
483 Così L. TUMIATI – G. BERTI, voce Commissario e commissione straordinaria, in
“Enciclopedia del Diritto Giuffré”, vol. VII, Milano, 1960, p. 842 e ss., specialmente p.
846. Siffatta costruzione, peraltro, darebbe conto della legittimazione al ricorso del
consiglio nei confronti del provvedimento adottato dal commissario in sua vece, sostenuta
dal Consiglio di Giustizia nella pronuncia, citata supra alla n 15. Critico sul punto,
proponendo una terza soluzione, F. BENVENUTI, I controlli sostitutivi nei confronti del
Comuni e l’ordinamento regionale, in “Rivista Amministrativa”, 1956, p. 241, affermando
che anche nell’ipotesi di sostituzione parziale l’organo sostituente non agisce in forza di
una competenza sua propria, sostenendo che l’attività di controllo sugli atti possa
svilupparsi in senso surrogatorio o modificativo degli atti controllati; seppur resta da
vedere se nel caso all’esame può parlarsi (e in che termini) di posizione di controllo della
regione nei confronti dei comuni.
484 Cfr. G. SIRIANNI, nota a T.A.R. Lazio, 6 luglio 1985, cit.
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
319
all’adozione del provvedimento di programmazione urbanistica da parte
del consiglio.
Si può allora concludere che il diritto ad agire ed a rappresentare
debba cedere di fronte a quelle circostanze ove il suo esercizio
pregiudicherebbe il diritto degli elettori ad essere rappresentati. Questa e
non altra, ci sembra, debba essere considerata la ratio dell’astensione,
intesa come la momentanea inidoneità dell’eletto al compito che gli è
stato affidato, circostanza che comporta la rinunzia del proprio potere ad
agire, dimostrando, per quanto ce ne fosse bisogno, la circoscrizione di
quest’ultimo (quasi un actio finium regundorum) in ragione del diritto
degli elettori ad essere rappresentati. E questo aspetto, ci pare, accomuna
maggioranza e minoranza, giacché il dovere di astensione non conosce
distinzioni di ruoli.
Ma come si qualifica a parte objecti, cioè nei confronti degli
elettori, la violazione del dovere di astensione (ovviamente a prescindere
dall’illegittimità dell’atto confezionato in violazione del dovere di
astensione? Se infatti il dovere di astensione, come limite al diritto ad
essere rappresentante, trova fondamento nel diritto degli elettori ad essere
rappresentati, la violazione del primo non può che costituire un vulnus del
secondo, con due riflessioni. Da un lato, viene così svelandosi quello che
sarà il tema dell’ultimo paragrafo di questo lavoro, cioè la correlazione
sinallagmatica che si costituisce tra le situazioni di diritto – dovere a
rappresentare e diritto ad essere rappresentati, come conseguenza della
scoperta struttura dualistica della rappresentanza, che, come ripetuto a
sazietà, richiede l’esistenza di un rappresentante e di un rappresentato.
Dall’altro, si impone di verificare se e quale tutela sia accordata
all’elettore, venendo così a circoscrivere la sua posizione giuridica
soggettiva anche in relazione alle azioni esperibili o agli altri mezzi di
tutela delle proprie posizioni. Sotto quest’ultimo aspetto si potrebbe subito
dire che un primo strumento di tutela dell’eletto è dato dall’azione degli
altri rappresentanti: la denuncia dell’incompatibilità potrebbe provenire
dai colleghi che, rilevandola, sollevano la questione in assemblea. Si
tratterebbe di un mezzo indiretto, cioè dell’azione degli elettori a tutela del
proprio “diritto” ad essere rappresentati per il tramite di altri
rappresentanti. Tuttavia questa soluzione si espone alle stesse critiche che
verranno mosse alla tesi esaminata nel paragrafo successivo, che identifica
la caratteristica della rappresentanza politica nella dialettica tra
maggioranza ed opposizione. La soluzione infatti si presenta labile, poiché
prevede la tutela del rappresentato per il mezzo dell’opera di un eletto per
DIRITTO DELL’ELETTO A RAPPRESENTARE E DIRITTO AD AGIRE
320
il quale, magari, il tutelando non ha votato, sicché egli si troverebbe nella
singolare posizione di dover essere “rappresentato”, per far valere le sue
ragioni nei confronti del proprio rappresentante, da chi non ha “scelto”.
Sotto il profilo pratico, poi, la tutela è accordata e si fonda sulla sola
coscienza della minoranza nel rilevare e denunciare la violazione. Ma,
com’è noto, la minoranza potrebbe non essere così sensibile al suo ruolo o
abdicarvi per convenienze. Si potrebbe teorizzare allora la sussistenza di
un interesse proprio dell’elettore in quanto tale alla regolarità della
procedura nelle deliberazioni del collegio rappresentativo. Tuttavia, allo
stato, siffatto rimedio si concreta in un ricorso al giudice amministrativo
per far valere un interesse legittimo, inteso non solo quale interesse al
rispetto della mera legalità, cioè delle procedure deliberative come
determinate dalla legge, bensì con l’ulteriore elemento, visto come
interesse al ricorso e condizione dell’azione, costituito dal vantaggio
apprezzabile, attuale e concreto che deriva al ricorrente dalla rettificazione
del vizio lamentato. Secondo questa prospettiva, dunque, potrebbero
denunciare la violazione del dovere di astensione solo quei rappresentati
che siano nel contempo portatori di un interesse attuale e concreto,
traducentesi in un beneficio apprezzabile, per l’annullamento dell’atto
prodotto dalla deliberazione nella quale si è verificata la violazione
dell’obbligo di astensione. Sicché questo tipo di rimedio sarebbe
consentito solo a quei rappresentati che siano lesi in modo ulteriore e
qualificato dalla mancata astensione del loro rappresentante. Per converso,
non si può far a meno di osservare come simile tutela sia accordata anche
a coloro che siano immediatamente danneggiati dal provvedimento frutto
della deliberazione presa senza l’astensione dei consiglieri incompatibili,
pur se non rivestono la qualifica di “rappresentati”. Per continuare
nell’esempio fatto sopra, legittimati al ricorso saranno anche coloro che,
pur non facendo parte del corpo elettorale, abbiano in quel dato territorio
delle proprietà che vengono svilite dalla variante allo strumento
urbanistico illegittimamente adottata per violazione del dovere di
astensione. Sicché viene da osservare come, in realtà, la tutela sia
accordata al singolo non tanto come “rappresentato”, bensì, nel nostro
esempio, in quanto proprietario o, più in generale, in quanto portatore di
un diverso interesse leso non dalla mancata astensione in quanto tale,
bensì dal provvedimento che ne è stato il prodotto. In altri termini, si deve
concludere che, allo stato, la tutela alle ragioni dei rappresentati è
accordata solo in modo assai debole e del tutto riflesso, sia mediante
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
321
l’intervento di un altro rappresentante, sia mediante la coincidenza in capo
al rappresentato di altre posizioni autonomamente tutelate.
Per parte nostra, altrove485
avevamo avanzato l’ipotesi che la stessa
violazione dell’obbligo di astensione fosse lesione non solo del mero
generico interesse al rispetto della legalità, ma costituisse di per sé
violazione di un interesse meritevole di tutela, direttamente tutelabile con
azione autonoma esercitabile da qualsiasi elettore, sull’argomento per cui
la disposizione legislativa che impone l’obbligo di astensione e di
allontanamento dall’aula dei consiglieri interessati sia posta in favore
(anche) del corpo elettorale, con possibilità di ricorso quindi, senza
necessità di ulteriori condizioni all’esercizio dell’azione. In altri termini,
per questa via si poteva affermare l’esistenza quantomeno di un interesse
legittimo ad essere rappresentati, esercitabile nei confronti dei
rappresentati, seppur nelle assemblee degli enti minori e limitatamente
alla violazione dell’obbligo di astensione. Rimandando quest’aspetto al
paragrafo successivo, occorre però subito dire che le cose sembrano
destinate a complicarsi alquanto, visto il recente intervento del legislatore
proprio in subjecta materia.
In fatti, con legge n. 265 del 3 agosto 1999, intitolata Disposizioni
in materia di autonomia e ordinamento degli enti locali, nonché modifiche
alla legge 8 giugno 1990, n., 142,486
si è voluto, tra l’altro disciplinare lo
status degli amministratori locali, come recita il capo III. Più in
particolare l’articolo 19, rubricato condizione giuridica degli
amministratori, dopo aver ribadito pedissequamente il dovere di
astensione già contenuto nel R.D. n. 148/15, precisa che tale obbligo non
si applica ai provvedimenti normativi o di carattere generale, quali piani
urbanistici, se non nei casi i in cui sussista “una correlazione immediata e
diretta fra il contenuto della deliberazione e specifici interessi
dell’amministratore” o di parenti o affini fino al quarto grado. Il comma si
completa con il divieto di esercitare professione in materia edilizia
pubblica e privata nel territorio di pertinenza, per gli esponenti della
giunta con deleghe in materia urbanistica, edilizia e di appalti. Il secondo
comma, che più ci interessa, dispone che in caso di piani urbanistici, ove
la “correlazione immediata e diretta” di cui al comma 1 sia stata
485 Nella Rivista edita sotto gli auspici della Regione del Veneto, “Il diritto della
Regione ”, n. 1-2, 1999, p. 135 e ss.
486 Pubblicata in G.U. n. 186 del 6 agosto 1999 (supplemento ordinario).
DIRITTO DELL’ELETTO A RAPPRESENTARE E DIRITTO AD AGIRE
322
dimostrata con sentenza passata in giudicato, le parti di strumento
urbanistico che costituivano oggetto della correlazione sono annullate e
sostituite mediante nuova variante urbanistica parziale. Durante
l’accertamento di tale stato di correlazione immediata e diretta tra il
contenuto della deliberazione e specifici interessi dell’amministratore o di
parenti o affini “è sospesa la validità” (efficacia?) delle relative
disposizioni del piano urbanistico. L’articolato meccanismo si traduce in
sostanza in un’abdicazione del ruolo normativo in favore del mutevole
metro giurisprudenziale (si ricordi il sarcastico humor inglese sul piede
del Lord Cancelliere, assunto come fonte dell’Equity), mercé la vaghezza
della dicitura “correlazione immediata e diretta”, che demanda alla
valutazione del caso singolo da parte del giudice -con probabili disparità
di trattamento- la circoscrizione del dovere di astensione, secondo una
formula di definizione a contrariis, non esaustiva, ma sempre integrabile,
propria di una tecnica legislativa cui siamo ormai abituati.487
A prescindere comunque dalle incongruenze del testo normativo e
dai problemi sistematici, segnatamente processuali, che ne conseguiranno,
un aspetto appare interessante per le tesi che avevamo proposto e che, per
qualche verso, ci sembrano sostenere anche il maldestro intervento del
legislatore, oppure –quantomeno- consentirne una lettura più lineare. Si
potrebbe leggere l’azione popolare come strumento più efficace per
colpire la commistione di interessi concretatasi in capo al consigliere che,
pur dovendolo, non si sia astenuto; oppure, il rapporto processuale tra le
parti -consigliere e quivis de populo del comune- potrebbe leggersi come
tutela di qualcosa, di un aspetto sostanziale sottostante che lega le parti.
Nell’azione popolare crediamo di poter vedere un riconoscimento
autonomo del bene giuridico dato dal rapporto tra rappresentante e
rappresentato. Si tratterebbe, in sostanza di un’azione diretta a porre
rimedio alla violazione del rapporto di fedeltà tra eletto ed elettore, che si
è incrinato nel momento in cui il primo, di fronte ad una situazione di
incompatibilità, non ha declinato il proprio diritto a rappresentare in
considerazione della propria (momentanea) inidoneità ad adempiere
all’obbligo di rappresentare, nei confronti, cioè, del diritto dell’elettore ad
487 Questa ed altre osservazioni nelle acute note di commento prima facie di F.
VOLPE, Strumenti urbanistici, incompatibilità degli amministratori e tutela giurisdizionale.
(A proposito dell’art. 19 della recente legge sugli enti locali), in “Rivista di Urbanistica”,
1999, p. 489 e ss., il quale, con la consueta precisione, solleva il problemi dell’attribuzione
di giurisdizione, della legittimazione all’azione, della natura della sentenza, dei rapporti tra
questa ed atto amministrativo, nonché dei relativi corollari.
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
323
essere rappresentato. A questa conclusione si può arrivare in forza di
almeno due argomenti. Non crediamo di poter vedere nell’azione popolare
un mero strumento per consentire il perseguimento dell’ordine pubblico
per due ragioni: da un lato, nessuna sanzione viene irrogata al consigliere
che abbia violato l’obbligo di astensione, lasciando dunque la questione
all’interno del rapporto fra i due, senza intromissione dall’altro per la
tutela di un interesse “pubblico” assistito dalla sanzione; dall’altro, la
limitazione dello jus actionis accordato solo agli iscritti presso le liste
elettorali comunali, con esclusione di chi abbia subito la lesione di un
proprio diritto soggettivo od interesse legittimo, vanifica la possibilità di
“delazione”, escludendovi quei soggetti che possono essere più sensibili
perché direttamente toccati, e circoscrive l’azione solo all’interno di
coloro che sono “rappresentati” dal consiglio. È evidente che se l’azione
popolare fosse stata concepita come strumento per rendere più efficace
l’azione repressiva non vi sarebbe stata regione di escludervi i soggetti
direttamente o indirettamente lesi non iscritti nelle liste elettorali del
comune, giacché in tal modo si sminuisce molto l’operatività del sistema
repressivo, lasciando insomma la questione dell’astensione nelle mani
delle “parti” del rapporto: rappresentati e rappresentanti. Sotto altro
profilo, con questa azione non si colpisce l’atto se non di riflesso. Infatti, i
proprietari non iscritti potranno far valere l’azione ordinaria sulla
legittimità dell’atto; altri, quindi (abbiano votato o meno), agiscono per
violazione del rapporto; si tratta di due beni giuridici diversi e del
riconoscimento, a fianco della legittimità degli atti, della rilevanza per
l’ordinamento della regolarità dei rapporti.
Possiamo così raccogliere un ulteriore tassello, che dovrà trovare
sistemazione alla fine di questo lavoro, riconducendo la violazione del
dovere (obbligo) di astensione del consigliere incompatibile nel novero
delle fattispecie di violazione degli obblighi del rappresentante nei
confronti dei rappresentati (elettori). Per questa via, in caso di violazione,
si deve ammettere la legittimazione attiva di ogni membro del collegio
elettorale, o del corpo elettorale per gli enti minori –a prescindere dal
verificare per chi egli abbia effettivamente votato ed anche nel caso che
non si sia recato alle urne- in quanto risulta comunque rappresentato dal
consigliere (o deputato) non astenuto. In altri termini, il fondamento
dell’interesse ad agire consiste nell’utilità che trae il rappresentato alla
rinnovazione della votazione (che magari potrà portare allo stesso risultato
anche con l’astensione dell’incompatibile violatore), giustificata dal solo
fatto della violazione dell’obbligo di fedeltà del rappresentante,
DIRITTO DELL’ELETTO A RAPPRESENTARE E DIRITTO AD AGIRE
324
manifestatosi concretamente nel mancato rispetto dell’obbligo giuridico
all’astensione. Per questa via, crediamo, si risolve anche il problema della
tutela dei proprietari di aree non iscritti nelle liste elettorali del comune (o
del collegio): questi ultimi sono legittimati al ricorso secondo le regole
generali di cui all’art. 100 c.p.c. e, quindi, solo quando possano affermare
un interesse attuale e concreto che si traduca in un beneficio. Per
continuare nell’esempio fatto sopra, fra tutti i proprietari non elettori
saranno legittimati solo coloro che dallo strumento subiscano una lesione
giuridicamente apprezzabile (area edificabile trasformata in verde
pubblico) dei loro beni. Sicché, in conclusione, gli elettori agiscono per
violazione (non del mandato, ma) del rapporto rappresentativo, i non
elettori in conseguenza della lesione delle loro situazioni giuridiche
soggettive che, con le recenti novelle, può comportare anche il
risarcimento per il danno subito.488
Non osta alla costruzione proposta la
circostanza che in entrambi i casi (elettori o non elettori) il ricorso si
diriga nei confronti dell’ente che abbia emanato l’atto prodotto con il
contributo del consigliere astenendo e non contro quest’ultimo, cioè chi
abbia direttamente violato il dovere di astensione. Infatti, ci pare, il
rapporto fiduciario che riteniamo di individuare tra elettore ed eletto non
risulta incompatibile con il rapporto organico che si viene a costituire tra il
consigliere e l’ente di afferenza alla formazione della cui volontà egli
concorre. La questione si spiega con il carattere oggettivo della
giurisdizione, fino a poco tempo fa assolutamente dominante nella
dottrina processuale amministrativa ed ancor oggi fornita di ottimi
argomenti, non ostante le critiche mossele.489
Inoltre, questa soluzione è
488 Com’è noto, il D.Lgs. n. 80 del 31.3.1998, dopo aver devoluto alla giurisdizione
del giudice amministrativo le controversie in materia di pubblici servizi (33) e di
urbanistica ed edilizia (34), al primo comma dell’art. 35 dispone che nelle materie devolute
alla sua giurisdizione esclusiva, il giudice amministrativo dispone, anche attraverso la
reintegrazione forma specifica il risarcimento del danno ingiusto. Con tempismo
encomiabile, a poco più di un anno dall’entrata in vigore della novella, la Suprema Corte
di Cassazione, con la nota sentenza n. 500/99, invertendo il proprio orientamento
consolidato, ha addirittura ampliato la portata della norma, sancendo la risarcibilità anche
di figure giuridiche soggettive ulteriori al solo diritto soggettivo. Sul punto confronta le
ancora attuali osservazioni di Enrico Guicciardi nei contributi citati alla nota n. 525 e 535.
489 Per le diverse prospettive, cosiddette oggettiva e soggettiva, sulla giurisdizione
degli interessi legittimi, cfr. infra al § successivo. Nel caso concreto giova puntualizzare
che l’azione giurisdizionale mira a censurare la violazione del divieto di astensione
mediante l’annullamento dell’atto viziato, contro il quale si dirige in via diretta,
instaurando un giudizio sugli atti, più che sui rapporti. E proprio questo, secondo quanto si
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
325
sostenuta anche da un argomento a contrariis, giacché un’interpretazione
diversa della legge comporterebbe conseguenze inaccettabili. Non ci pare
comunque possibile leggere la novella legislativa in esame nel senso che
l’azione elettorale con essa introdotta assorba quella generale sugli atti,
ponendosi come unico rimedio per la violazione del dovere di astensione;
in questo caso i proprietari non residenti sarebbero senza tutela ed alla
mercé della valutazione circa la convenienza all’azione da parte dei
rappresentati, con urgenti profili di incostituzionalità. Infatti, in quanto
non residenti i proprietari non potrebbero agire con il rimedio disciplinato
dalla L n. 265/99, se poi questa dovesse intendersi come l’unica
ammissibile l’atto amministrativo illegittimo, confezionato in violazione
del divieto di astensione per incompatibilità e non impugnato da un
elettore, esplicherebbe tutti i suoi effetti dannosi nei confronti dei
proprietari non residenti che non avrebbero rimedio contro l’atto, con
urgenti problemi di costituzionalità in rapporto all’articolo 113 della
Carta.
Dai riscontri effettuati “sul campo” (ed otre a quello
dell’incompatibilità altri esempi potrebbero rinvenirsi) ci sembra trovare
consolidamento la nostra costruzione che riconosce l’esistenza di
situazioni giuridiche soggettive che collegano sinallagmaticamente
rappresentante e rappresentato in un rapporto di fedeltà, garantito
dall’azione a tutela (quantomeno) di un interesse legittimo ad essere
rappresentati. Seppure detta posizione, frutto dei risultati conseguiti fino a
questo momento del nostro percorso, debba ancora misurarsi con il
vigente divieto di mandato imperativo, vero nodo problematico della
nostra indagine.
A parer nostro non vi può essere confusione tra interesse alla
fedeltà del rappresentante e mandato imperativo. La distinzione che
appariva chiara a Talleyrand, come si è visto sopra, si svela pensando che
altro è l’indicazione di un mandato imperativo, un’istruzione vincolante
da sostenere in assemblea ad ogni costo, altro è il dovere di votare al di
fuori del proprio interesse personale, cioè il mantenere le condizioni per
essere rappresentante. In questo caso il rapporto discendente tra eletto ed
elettore non può essere inficiato dal divieto di mandato imperativo,
giacché non si tratta di istruzioni del secondo verso il primo; semmai,
nella singola ipotesi, è l’eletto che si colloca in una posizione di
dirà subito nel testo, può essere considerato uno degli esempi nei quali la concezione
oggettiva della giurisdizione amministrativa (sugli atti e non sui rapporti) accorda una
tutela più ampia di quella configurabile con la concezione soggettiva.
DIRITTO DELL’ELETTO A RAPPRESENTARE E DIRITTO AD AGIRE
326
incompatibilità generale con i doveri (e poteri) che si è assunto nel
momento dell’elezione. La distinzione appena esposta è stata data in
negativo e potrebbe risultare più sfumata, tuttavia, se si tentasse di
costruire in positivo il rapporto ascendente tra elettore ed eletto, ove, cioè,
si cerchi di individuare qual è il concorso del primo nella determinazione
della volontà assembleare, se, cioè, vi sia un quid pluris oltre alla scelta
del candidato, che trasformi il rapporto da elettore – eletto in quello di
rappresentato – rappresentante. Si tratta dell’introduzione del mandato
limitativo, dell’indicazione cioè degli intendimenti propri dei rappresentati
che gli eletti si impegnano a far concorrere nella formazione della volontà
generale.
È il problema del “diritto” dell’elettore ad essere rappresentato.
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
327
4.3 Diritto dell’elettore ad essere rappresentato
PREMESSA: CORRELAZIONE TRA FUNZIONE RAPPRESENTATIVA ED ESERCIZIO DEL POTERE –
CORRELAZIONE (ULTERIORE) TRA RAPPRESENTANZA E SOVRANITÀ - DISTINZIONE TRA
RAPPRESENTANZA POPOLARE E RAPPRESENTANZA NAZIONALE – CORRELAZIONE TRA
FUNZIONE RAPPRESENTATIVA E CONTROLLO SULL’ESERCIZIO DEL POTERE - LA MINORANZA
COME GARANZIA DI RAPPRESENTANZA: LIMITI E CRITICA – RAPPORTI TRA RAPPRESENTANZA,
CORPORAZIONE, SINDACATO DI VOTO – DISTINZIONE TRA RAPPRESENTANZA E NEGOTIORUM
GESTIO – DISTINZIONE TRA SOVRANITÀ E POTESTÀ DI IMPERIO (HERRSCHAFT) - CENTRALITÀ
DELL’INDAGINE SUELLE SITUAZIONI GIURIDICHE SOGGETTIVE DI RAPPRESENTATO E
RAPPRESENTANTE: CONCETTI TRADIZIONALI E PRINCIPI RICOSTRUTTIVI – POSSIBILITÀ DI
CONCEPIRE LA RAPPRESENTANZA COME INTERESSE LEGITTIMO: ENUCLEAZIONE DELLA
POSIZIONE DELL’INTERESSE LEGITTIMO IN DEDUZIONE DEI PRINCIPI TEMATIZZATI DAGLI
EPIGONEN – POSSIBILITÀ DI CONCEPIRE LA RAPPRESENTANZA COME DIRITTO SOGGETTIVO: CONCEZIONE DEL DIRITTO SOGGETTIVO COME SPAZIO DI SIGNORIA DELLA VOLONTÀ DEL
TITOLARE E CORRELATIVA DEFINIZIONE DEL DOVERE COME LUOGO DELLA SOGGEZIONE:
LORO DERIVAZIONE DALLA STRUTTURA DELLA SOVRANITÀ – POSSIBILITÀ DI CONCEPIRE LA
RAPPRESENTANZA COME FACOLTÀ: LO SPAZIO GIURIDICAMENTE VUOTO E LE LACUNE
DELL’ORDINAMENTO – INCOMPATIBILITÀ DELLA STRUTTURA MONISTA DELLA SOVRANITÀ
CON LA STRUTTURA DUALISTA DELLA RAPPRESENTANZA – CONSEGUENTE INCOMPATIBILITÀ
DELLE TRADIZIONALI DEFINIZIONI DELLE SITUAZIONI GIURIDICHE SOGGETTIVE, MUTUATE
SULLA SOVRANITÀ, CON L’ESERCIZIO DELLA RAPPRESENTANZA – PARTICOLARE RILEVANZA
PER LA TEORIA DEI DIRITTI PUBBLICI SOGGETTIVI – CONCLUSIONE: PRINCIPI RICOSTRUTTIVI E
PROPOSTE.
“Dunque, la democrazia rappresentativa (che è la “democrazia dei
moderni”: le due nozioni coincidono) si propone di assicurare e di
istituzionalizzare due prestazioni: l’esercizio del potere e l’esercizio
dell’opposizione. In ciò consistono la sua importanza e la sua superiorità
rispetto agli altri regimi politici, i quali invece lavorano, con tutte le
differenze empiricamente accertabili, sull’unico versante del potere.
Tuttavia proprio questa duplicità di prestazioni è uno dei segni della
natura ambivalente della democrazia rappresentativa.”490
In questo tratto,
secondo Domenico Fisichella, sarebbe da ricercarsi la caratteristica
precipua della rappresentanza politica e dei regimi che su di essa si
fondano. In altri termini, a differenza di ogni altra forma di reggimento del
potere, nella rappresentanza politica troverebbero spazio tanto gli aspetti
attivi del comando, quanto gli aspetti propositivi e di controllo affidati
all’opposizione.
490 Cfr. D. FISICHELLA, La rappresentanza politica, Roma – Bari, 1996, p. VII; il
saggio, con l’aggiunta di una prefazione, ripropone l’introduzione alla raccolta di scritti
curata dallo stesso La rappresentanza politica, Milano, 1983, da cui è attinto anche in
precedenza.
DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO
328
Peraltro, in questa prospettiva, viene subito da osservare che lo
spazio accordato all’opposizione, la sua sola presenza, costituisce anche
ulteriore legittimazione del potere stesso. Si potrebbe quasi sostenere la
necessità dell’opposizione, quale alternativa che non ha avuto la forza di
realizzarsi, o che, comunque, non è stata scelta, e che si pone come
avversario da vincere, momento dialettico dell’antitesi che deve essere
superato (o riassorbito, come avremo modo di vedere) nella sintesi.
Ecco, allora, che siffatta caratteristica, cioè la necessaria
compresenza di potere ed opposizione, produce quella “natura
ambivalente” della rappresentanza dimostrata dalla benevolenza, ovvero
dalla aperta ostilità con la quale è stata considerata da pensatori di opposte
ideologie, da Lenin al teorico della monarchia Maurras, e che può forse
trovare radice nella plena potestas di matrice medioevale, originariamente
intesa come condizione imposta dal sovrano per trattare con i
rappresentanti del popolo.491
Si tratta di un rovesciamento alquanto
singolare della concezione originaria, che vede il principe medioevale
pretendere i pieni poteri dai deputati con i quali deve trattare, per
assicurarsi che i patti sottoscritti saranno rispettati, mentre la modernità
vedrà nel mandato la legittimazione dei rappresentanti del popolo per
imporre al principe la propria volontà. E non si può dire che il mutamento
sia conseguenza dell’acquisita consapevolezza della sovranità popolare,
giacché nella tradizione medioevale era forte la costruzione del principe
come delegato del popolo, legame che tenderà ad essere reciso con
l’assolutismo, nell’organico disegno di soppressione delle diete e degli
altri organismi di consultazione regia, intesi come incrostazione di un
periodo buio; la cronologia degli Stati Generali di Francia ne costituisce
un esempio emblematico, da Filippo il Bello a Luigi XVI. Ed è indicativo,
ai nostri fini, che fin dalla prospettiva medioevale il principe, richiedendo
491 Cfr. D. FISICHELLA, La rappresentanza politica, cit., rispettivamente p. 3, 8 e 9.
Maurras la considerava un errore, peraltro in Francia circoscritto all’imprudenza del solo
Luigi XVIII. Lenin la vedeva con favore, ma –crediamo- nel solo momento del potere
costituente, in cui l’agitatore politico si trovava nella stessa posizione di Sieyès: nel
momento in cui la rivoluzione si è istituzionalizzata anch’egli, come i suoi successori,
assume un atteggiamento contrario alla rappresentanza o, meglio, sostenitore di una
rappresentanza fittizia, di cui l’esperienza del PCUS è dimostrazione precisa.
Contrariamente a Fisichella, quindi, si potrebbe ritenere che la rappresentanza sia invocata
per acquisire il potere (era anche quanto cercava di fare l’ultimo Luigi, quando rientrava in
Francia nei bagagli dell’esercito inglese), mentre sia fermamente respinta da chi l’abbia
ottenuto.
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
329
la verifica dei poteri, abbia trattato i deputati come degli ambasciatori di
un paese straniero, ai quali preliminarmente si chiede di mostrare delle
credenziali, legittimazione e limite del loro potere, concorrendo a creare
quel dualismo tra potere ed opposizione sive maggioranza e minoranza nel
quale Fisichella rinviene la caratteristica della rappresentanza, e che
preme fin d’ora avvisare non dover essere confuso con il dualismo tra
eikòn e fàntasma dal quale ha preso le mosse questa indagine.
Pertanto, la diarchia, più che il dualismo, è alla radice delle
difficoltà della rappresentanza e porta Fisichella a concludere che “da
quando esiste la rappresentanza politica (modernamente intesa, cioè nella
veste di democrazia rappresentativa), si parla di crisi della rappresentanza
politica (…). In breve: la democrazia dei moderni è caratterizzata da
un’ambiguità di fondo circa il problema della sovranità politica, e tale
ambiguità si riverbera inevitabilmente sul ruolo della rappresentanza
politica”.492
Per le osservazioni che si intendono svolgere in prosieguo preme
mettere fin da subito in evidenza la correlazione proposta tra
rappresentanza politica e democrazia rappresentativa, intese addirittura
come sinonimi. In verità, può essere opportuno mantenere
concettualmente distinti l’istituto della rappresentanza dalla forma di
regime data dalla democrazia rappresentativa, sull’assunto
(apparentemente condiviso dallo stesso Fisichella, come si vedrà) che
l’istituto giuridico trova applicazione anche al di fuori di tale forma di
regime. Infatti, la correlazione (il sinonimo) tra rappresentanza politica e
democrazia rappresentativa trasporta inconsapevolmente sull’istituto le
difficoltà proprie della forma di regime, che nella prospettiva della
modernità sono immediatamente connesse all’esercizio della sovranità,
ipotecando la riflessione sulla struttura della rappresentanza con i
problemi connessi alla sua applicazione nell’esercizio del potere, in una
prospettiva che sul concetto di unicità trova il suo fondamento.
Per questa via, Fisichella introduce nel dibattito sulla
rappresentanza “due fondamentali concezioni della sovranità politica: da
una parte l’idea della sovranità nazionale, la quale ha il suo puntuale
referente istituzionale nella rappresentanza politica, talché è quest’ultima
l’autentico sovrano, di diritto e di fatto (pur se non va trascurato che fino
al 1791 il Re è anch’egli rappresentante della Nazione, insieme al Corpo
492 Cfr. D. FISICHELLA, La rappresentanza politica, cit., rispettivamente p. VIII e
X.
DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO
330
legislativo), dall’altra parte l’idea della sovranità popolare, e in questo
secondo caso non la rappresentanza politica, ma il popolo nella sua
immediatezza è e rimane il sovrano, fermo restando che popolo è
l’universalità dei cittadini francesi, e che la cittadinanza politica non può
essere (o può non essere) requisito di tutti gli individui”.493
In sostanza, ci
pare, la tesi ripropone la distinzione tra la forma di governo della Francia
del 1791 e quella del 1793, cioè tra nazione di Sieyès e il popolo di
Robespierre, secondo quanto si è avuto modo di esaminare sopra al §
II.2.2. Tuttavia, ci pare, in tale prospettiva non si risolve il problema,
poiché si tratta sempre di individuare un “unico” sovrano. Non tanto il
riferimento al popolo o all’assemblea appare risolutivo, quanto la
circostanza della contrapposizione tra struttura dualista della
rappresentanza e struttura monista della sovranità. L’impasse è
conseguenza della correlazione tesa dall’autore tra rappresentanza politica
e democrazia rappresentativa, tra l’istituto giuridico e la forma politica di
regime, assorbendo l’uno nelle aporie dell’altro.
In questo modo, nella tensione tra maggioranza ed opposizione,
nella giustificazione del potere, il rapporto tra eletto ed elettore, la
“rispondenza” del primo verso il secondo troverebbe soluzione
sull’osservazione che empiricamente l’elettore non sarà sempre
rappresentato, così come non sarà mai sempre non rappresentato, poiché
di volta in volta egli potrà riconoscersi ora nelle posizioni del
“rappresentante” che egli ha eletto, ora nelle posizioni di altro deputato,
magari dell’opposizione. Tuttavia, come si intuisce, si tratta di un calcolo
probabilistico che se ha valenza politologica non consente riflessione
giuridica o di stretto rigore logico – filosofico: da un lato il rappresentato
493 Cfr. D. FISICHELLA, La rappresentanza politica, cit., rispettivamente p. XIII. A
questo proposito, l’Autore fa notare che la teoria di Edmund Burke sulla “rappresentanza
virtuale” sarebbe stata già anticipata dalle posizioni di Edward Coke: cfr. op. ult. cit., p.
10. In questo senso, per altra via, andrebbe allora sottolineato il concetto di prescrizione
che lega Hobbes a Burke: laddove il primo afferma che nella natura vi sono molte
prescrizioni, intendendo qualcosa di precedente la volontà sovrana, il secondo afferma con
forza che l’intera costituzione è una prescrizione. Sul concetto di prescrizione in Burke, il
rinvio d’obbligo è a P. LUCAS, On Edmund Burke’s Doctrine of Prescription; or on Appeal
from the New to the Old Lawyers, in “Historical Journal”, XI (1968), 1, p 35 e ss. Le
conseguenze distruttive dell’esame critico “senza pregiudizi” delle istituzioni
costituzionali, sono messe bene in evidenza da W. LEISNER, Demokratie. Betrachtungen
zur Entwicklung einer gefährdeten Staatsform, Berlin. 1998, specialmente p. 551. Peraltro
verso, sull’incoerenza della posizione di Burke, cfr. Ch. MÜLLER, Das imperative und freie
Mandat, Leiden, 1966, p. 26.
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
331
non può fare affidamento sulla parte opposta per essere rappresentato,
dall’altra, il rappresentante non può esimersi dai suoi compiti affermando
che il rappresentato aveva trovato tutela presso i suoi avversari. Infine tale
ragionamento presuppone, come coscientemente sembra fare Fisichella,
che vi sia una maggioranza ed un’opposizione, ovvero una competizione,
che viene così a costituire l’architrave dichiarato della sua costruzione; ma
un tanto, anche rimanendo al livello di osservazione empirica della
scienza politica non sembra reggere, atteso che lo stesso autore riconosce
le frequenti solidarietà tra maggioranza ed opposizione che annichiliscono
la competizione: e sono questi i casi in cui concretamente il difetto di
rappresentanza invoca una tutela giuridica puntuale e concreta.
Le premesse della costruzione all’esame conducono il suo autore
verso sbocchi obbligati: “in conclusione, la democrazia dei moderni vive
sotto la spinta, almeno potenziale, di tre premesse dottrinali che possono
diventare radicalmente alternative: sovranità nazionale, sovranità
popolare, rifiuto della sovranità. Anche a trascurare l’ipotesi che pure le
prime due visioni (la sovranità nazionale che distribuisce una porzione di
sovranità tra centinaia di rappresentanti, o la sovranità popolare che la
diffonde tra tutti i cittadini nella loro aperta non finità) vivano la
tentazione a sboccare, seppure per vie diverse rispetto al cammino
“pluralista”, nella dissoluzione per sparpagliamento del principio sovrano,
il punto da richiamare è questo. Quando la democrazia dei moderni riesce
di fatto ad esercitare un controllo sulla realtà sociale, una condizione di
sovranità trova modo di esprimersi nella concretezza dell’esperienza
storica, e nella effettività le istituzioni rappresentative sono l’autentico
sovrano di tale forma politica, almeno rispetto alla sovranità popolare ed
al sovrano popolo”.494
In buona sostanza le istituzioni “rappresentative”,
intendendo con queste quegli organi dell’ordinamento che per le
procedure della loro formazione, per la qualità personale di chi le incarna
o per altre circostanze, sono ritenuti costituire lo specchio della comunità,
494 Cfr. D. FISICHELLA, La rappresentanza politica, cit., p. XVII. In questo senso,
l’autore sintetizza che “la rappresentanza [si pone] come Giano Bifronte ma in realtà
Trifronte: sovranità nazionale, sovranità popolare, pluralismo potenzialmente acefalo”; cfr.
op. ult. cit., p. XIX. Questo terzo elemento veniva già stigmatizzato da Burke, almeno
secondo l’interpretazione di D. STERNBERGER, A Controversy of the Late Eighteenth
Century Concerning Representation, in “Social Research”, 1971, p. 593, cui rispondeva
indirettamente Paine, affermando che nessuno può avere il diritto di governare “fino alla
fine dei tempi” e sostenendo l’innata libertà soggettiva. Sul punto, cfr. G. CLAEYS, Thomas
Paine. Social and Political Thought, Boston (Mass.), 1989, p. 105.
DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO
332
esse costituiscono il vero sovrano, cioè la volontà ultima che nulla riceve
dagli altri e che non dipende se non dalla propria capacità di imporsi. In
questi termini, la costruzione all’esame si svela come la compiuta
tematizzazione della teoria dell’interpretazione, già descritta supra al §
I.3.1., cioè la presunzione iuris et de iure della corrispondenza delle
determinazioni del deputato alle volontà o agli interessi (non vale qui
distinguere) dell’elettore. Non è dunque un caso che lo stesso Fisichella
riporti la nota e provocatoria citazione di Eulau, per la quale il governo
rappresentativo può funzionare del tutto indipendentemente dalle elezioni,
sebbene solo in presenza di certe condizioni;495
seppure siffatta
affermazione potrebbe essere letta anche come presa d’atto
dell’autonomia della rappresentanza dal momento elettorale, nel senso che
il concetto di rappresentanza non dipende dal meccanismo di votazione
prescelto, secondo una suggestione proposta supra al § I.2. Tuttavia, la
conclusione che ne viene tratta è un'altra.
Infatti, la costruzione che stiamo vagliando si pone il problema
della partecipazione del rappresentato come condizione (essenziale?) per
il dualismo rappresentativo. In questo, tra l’altro, crediamo stia la
differenza della rappresentanza dalla negotiorum gestio costituita
dall’agire di un soggetto nell’interesse di un altro, momentaneamente
incapace di provvedere ai suoi interessi. Com’è noto, il gestor è tenuto
semplicemente a prevedere l’utiliter coeptum, cioè la convinzione fondata
dell’utilità per il gerito, secondo un giudizio prognostico; un tanto è
sufficiente perché il gerito sia tenuto a far propria l’attività (ancorché
tradottasi in un danno) espletata dal gestor. La partecipazione del
“rappresentato” non è richiesta, se non per prendere atto,
insindacabilmente (nei limiti, appunto, della previsione dell’utiliter
coeptum), di quanto espletato in suo nome da un altro soggetto.
Forse la proposta di Fisichella può essere considerata come
appartenente a questo secondo profilo, ove conclude che “se per
partecipazione si intende che attraverso l’elezione il popolo sia in grado di
assicurarsi rappresentanti che danno “risposta” e che “rispondano” al
demos in chiave di rapporto di mandato, sappiamo che tale ipotesi è falsa
495 Cfr. D. FISICHELLA, La rappresentanza politica, cit., p. 19. Come si è visto
sopra, anche Rescigno e Zanon ritengono che le elezioni non siano necessarie o,
comunque, non condizionanti la rappresentanza politica. Da parte nostra, se abbiamo
distinto il concetto di rappresentanza dai sistemi elettorali, riteniamo che il momento della
scelta (a prescindere dalla procedura, purché non contraria al dualismo rappresentativo) sia
ineludibile.
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
333
per molte ragioni, connesse alle caratteristiche degli elettorati di massa,
dei meccanismi funzionali dell’istituzione rappresentativa e dei problemi
affrontati dai rappresentanti. Ecco, dunque, cosa è “impossibile”. Se,
invece, per partecipazione si intende che il popolo è esso stesso parte di un
processo di competizione tra attori politici, e se l’elezione è un modo di
intervenire nel processo competitivo, dando luogo ad una conta dalla
quale dipende l’esclusione o inclusione dei candidati nell’organismo
rappresentativo, allora si può convenire che una misura di responsabilità –
vuoi indipendente vuoi dipendente – è certo connessa al momento
elettorale. Non solo. È l’aspettativa di tale momento periodicamente
ricorrente che per i rappresentanti costituisce stimolo ad assumere
atteggiamenti di disponibilità responsiva nelle fasi inter-elettorali”.496
Non di meno, a distanza di tredici anni dall’esposizione di queste
tesi, occorre dare atto all’autore di aver colto come “dal punto di vista
genetico l’equivoco sul principio di sovranità interferisce negativamente
sulla vicenda complessiva della democrazia rappresentativa, dando altresì
luogo a pesanti ricadute disfunzionali sul piano operativo”.497
496 Cfr. D. FISICHELLA, La rappresentanza politica, cit., p. 38-39. Come si vede,
questa posizione riprende quanto tematizzato da Hanna Pitkin e già esaminato supra in
fine al § I.2.2. Già in quella sede si sono espresse le nostre perplessità sulla definizione di
“disponibilità responsiva” che pervade gli eletti in prossimità delle scadenze. Se con tale
formula si intende un giudizio di responsabilità, non possiamo che essere concordi; se
invece, come sembra, si tratta di un’astratta disponibilità a rispondere alle esigenze o alle
domande degli elettori, non vi scorgiamo altro che una tecnica di cattura del consenso che
ha in Gorgia il primo adepto.
497 Cfr. D. FISICHELLA, La rappresentanza politica, cit., p. XX. Peraltro, alla
sovranità come fonte di aporie in materia di rappresentanza, l’autore affianca altre
concause che contribuirebbero ad aggravarne lo stato di crisi. Da un lato la “democrazia
elettronica” -che per il momento sembra concentrarsi in manifestazioni come il “popolo
dei telefax”, piuttosto che in manifestazioni di consenso o dissenso tramite Internet– mina
alla radice l’idea stessa di rappresentanza, per il solo fatto di consentire una partecipazione
più attiva dei governati, anche se non necessariamente più informata, posata e ragionata.
Sotto altro profilo e quasi in direzione opposta, contro la rappresentanza militano pulsioni
economiche e divisione del lavoro che tendono a dedicare meno tempo alla politica,
relegandola a ruoli di professionismo congenitamente antitetico alla rappresentanza. Infine,
viene indicata nella ricerca della felicità privata anziché nella diuturna cura dell’interesse
pubblico un’ulteriore ragione di disaffezione alla rappresentanza, ma, più radicalmente, ci
pare che questa sia la causa prima della crisi della politica, come paradossalmente
riconosceva anche Rousseau all’inizio del capitolo XVI del Contrat social, che si è visto
supra al § II.1.1. Peraltro, un’analisi opposta potrebbe osservare come il disinteresse alla
rappresentanza sia conseguenza di un benessere diffuso che renda indifferente il momento
di scelta dei governanti; e questa potrebbe essere una chiave di lettura del ricorrente
DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO
334
Riconosciuta, anche dal nostro autore, nella sovranità la ragione
delle difficoltà della rappresentanza, acuita dall’indebita correlazione, da
lui stesso proposta, tra rappresentanza politica e democrazia
rappresentativa, occorre verificare se le aporie riscontrate siano il frutto
del binomio rappresentanza – sovranità, ovvero se si diano in ogni caso
ove la rappresentanza viene a contatto con qualsivoglia forma di esercizio
del potere, se, cioè, il dualismo rappresentativo sia comunque
compromesso dal momento necessariamente imperativo connesso con
l’operatività della norma. In tale seconda ipotesi -cioè se struttura
dualistica della rappresentanza ed esercizio del potere non possono
accordarsi- la nostra indagine non potrebbe approdare ad alcun risultato
propositivo, dovendo riconoscere la necessaria “finzione” della
rappresentanza, secondo l’icastico giudizio di Kelsen. Peraltro, una prima
risposta rassicurante ci soccorre fin d’ora, ove l’identità strutturale della
rappresentanza, nel riconosciuto dualismo, non esclude il momento
imperativo per quanto attiene l’ambito di applicazione al diritto privato. Si
potrebbe allora già affermare sillogisticamente che se nel diritto privato la
rappresentanza non contrasta con l’esercizio del potere (conseguente alla
costrizione prodotta dall’attuazione di un diritto soggettivo), attesa
l’identità di struttura, anche applicata al campo pubblico, la
rappresentanza non dovrebbe contrastare con l’esercizio del potere.
In verità, l’aporia del rapporto tra rappresentanza e potere politico si
annida nelle pieghe della confusione tra sovranità e potestà di imperio,
locuzione con la quale traduco il termine tedesco Herrschaft, frutto
dell’elaborazione (ancora una volta!) della giuspubblicistica tedesca, ma
le cui radici, questa volta, affondano molto più indietro nel tempo. In
ossequio all’elaborazione della dottrina dello Stato sviluppatasi nella
Francia del XVI secolo, la sovranità, come abbiamo ripetuto a sazietà, è il
luogo dell’unicità, dell’incapacità a riconoscere altri fuori da sé stessi, il
luogo del puro volere che ha come limite solo il proprio potere, quel
superiorem non recognoscere che ancora racchiude in sé la molteplicità di
locuzioni con le quali si è tentato di imbrigliare le diverse sfumature di un
concetto per definizione ab solutus. Al contrario, la potestà di imperio
astensionismo nelle elezioni statunitensi. Come si vede, dunque, il momento “elettronico”
della democrazia può consentire letture opposte, tutte scientificamente legittime. Per i
profili teoretici circa la rilevanza dell’approccio tecnologico – informatico al diritto, cfr. le
stringenti deduzioni proposte da B. MONTANARI, Itinerario di filosofia del diritto, II ed.,
Padova, 1999, specialmente p. 94 e ss.
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
335
consiste nella soggezione dei consociati non ad un potere cieco ed
arbitrario, bensì alla traduzione in effetti di quella che è la norma
giuridica. In altri termini, la potestà di imperio è l’attributo proprio
dell’amministrazione nel momento in cui organizza uomini e cose nel
perseguimento dei fini individuati dalle norme; norme non da essa
individuate, bensì alle quali la stessa amministrazione è sottoposta.
L’individuazione delle norme è propria dell’attività di governo, che
fisiologicamente dovrebbe riconoscere i fini aggreganti la comunità
politica verso il bene comune. Il paradigma si regge sulla distinzione tra
funzione di governo, che orienta la comunità verso i fini che le sono
propri, tesi al perseguimento del bene comune, ed il ruolo
dell’amministrazione che organizza uomini e cose nel perseguimento di
quei fini. L’attività di governo, così intesa, si traduce in norme; quella
dell’amministrazione nella loro esecuzione.498
Si tratta delle due fasi della
“politicità” e della “positività” dell’ordinamento. Nel momento fisiologico
la distinzione tra le due attività scongiura l’arbitrarietà della sovranità,
qualora le norme siano frutto di un procedimento dialettico di
riconoscimento del bene comune proprio della comunità. Nel momento
patologico, come ammoniva lo Stagirita, la confusione tra i ruoli crea il
dispotismo di un’amministrazione che non svolge più il ruolo strumentale
che le è proprio, ma si arroga il potere di determinare da sé stessa i fini da
perseguire, alimentandosene. Esula dall’economia di questo lavoro
l’indagine se negli ordinamenti contemporanei l’amministrazione sia
titolare di potestà d’imperio o se non partecipi della sovranità. Basti
concludere che la rappresentanza non contrasta con la potestà di imperio
nell’attuazione delle norme riconosciute come aggreganti la comunità
dall’assemblea dei rappresentanti. In altri termini, come già si è avuto
modo di dire, il dualismo rappresentativo concorre all’attività di governo,
498 Per la precisa analisi dei concetti di governo ed amministrazione, nei loro
fondamenti teoretici, nonché per le conseguenze dispotiche della loro confusione, cfr. la
nota successiva. Pur se la soggezione alla legge è considerata caratteristica propria
dell’amministrazione dalla dottrina, non di meno le recenti riforme, veicolando
un’interpretazione forzata e riduttiva del concetto di autonomia, sembrano veicolare l’idea
di un’amministrazione che determini da sé stessa i propri fini. Per la varietà di idee del
ruolo dell’amministrazione nel meccanismo dello Stato, si confrontino i contributi di G.
BALLADORE PALLIERI, Dottrina dello Stato, Padova, 1958, p. 269, che sembra riprendere il
classico studio di G. JELLINEK, System der subjektiven öffentlichen Rechte, II ed.,
Tübingen, 1919; nonché, recentemente, le suggestive proposte della dottrina tedesca
avanzate da W. SELB, Die verwaltungsgerichtliche Feststellungsklage, Berlin, p. 54 e ss.
DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO
336
contribuendone a mantenere l’esercizio fisiologico, tramite l’intrinseca
struttura dualistica che veicola il procedimento dialettico dell’indagine del
“diverso” e “comune”.499
In forma più esplicita, la rappresentanza, nella
sua struttura dualistica quale sintesi di rappresentante e rappresentato,
esclude l’unicità della sovranità; altresì, proprio perché si regge sul
confronto tra rappresentante e rappresentato, predilige il paradigma
dialettico, del procedimento per identità e differenza, impraticabile nella
prospettiva dell’unicità; infine, a mente della distinzione tra attività di
governo e ruolo dell’amministrazione, la rappresentanza, accedendo al
primo momento, non è in contrasto con l’esercizio del potere, non tanto
perché quest’ultimo si attua in un momento successivo, quanto perché la
soggezione al potere dell’ordinamento da parte dei consociati trova la sua
ragion d’essere nel perseguimento del bene comune, che è stato distillato
in norma dai consociati tramite il confronto operato dai propri
rappresentanti; norma alla quale è sottoposta anche l’amministrazione che
esercita, nel caso concreto, il potere.
Ritenuto di aver risolta così la compatibilità della rappresentanza
con l’esercizio del potere, che attiene, seppure non esaurisce, il lato attivo
del rappresentare, nel momento di concorrere alla formazione della
volontà generale, tradotta in norme, resta da esaminare il rapporto che
lega rappresentante a rappresentato, cioè il secondo momento della
struttura dualistica, alla quale si deve l’inconciliabilità tra rappresentanza
e sovranità. Per tale profilo, la proposta di Fisichella è già stata anticipata:
si tratta di sostituirlo con la competizione tra maggioranza e minoranza.
“Sottolineo nell’opera qui riprodotta che, metodologicamente, la
questione della responsabilità politica va affrontata per la democrazia dei
moderni nel nesso con il processo competitivo. Questo per quel che
riguarda l’an: in altri termini, se responsabilità, e indirettamente
responsività emergono, ciò avviene nel contesto competitivo. È qui che, in
chiave sistemica, va individuato e affrontato per la rappresentanza politica
democratica il problema della rappresentanza e non altrove”.500
499 La lucida esposizione della dialettica governo / amministrazione e comunità /
regime, in riproposizione di una teoria che affonda le sue radici nella tradizione classica
platonico aristotelica, si deve a F. GENTILE, Intelligenza politica e ragion di stato, II ed.
Milano, 1984, p. 121 e ss., 137 e ss.
500 Cfr. D. FISICHELLA, La rappresentanza politica, cit., p. XXIX. Di diverso
avviso sembra invece il corposo saggio di W. LEISNER, Demokratie. Betrachtungen zur
Entwicklung einer gefährdeten Staatsform, Berlin. 1998, specialmente p.452 e ss.
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
337
Da un indagine attorno alle principali funzioni tradizionalmente
espletate dalla rappresentanza politica, l’autore ritiene lecito ricavare che
non ne esista una sola esclusiva della rappresentanza politica, cioè non
adempiuta da altre strutture sia pure in modi diversi, e che non esista una
sola funzione che sia infungibile, cioè tale da non poter essere cancellata o
surrogata senza che il sistema democratico cessi di essere e di operare in
quanto tale. In effetti così può dirsi delle funzioni finora enumerate dalla
dottrina, cioè informativa, pedagogica, di socializzazione, elettiva, di
articolazione degli interesse, di partecipazione e di comunicazione. “C’è
però una funzione, ed una sola, che è infungibile ed è esclusiva della
rappresentanza politica democratica”.501
E sarebbe il controllo connesso
alla, e frutto della, competizione, giacché, “la rappresentanza politica
comprende l’opposizione (espressa dalla competizione) per tutto il
periodo della propria esistenza, ed è in quanto ciò avviene che il controllo
politico democratico ha titolo e modo per realizzarsi. In breve, l’unica
funzione esclusiva ed infungibile della rappresentanza politica
democratica è quel controllo politico assicurato dalla presenza
nell’organismo rappresentativo di una maggioranza e di una opposizione
elette su basi competitive”.502
Come si è già avuto modo di anticipare, tutto il discorso di
Fisichella si regge sul controllo dell’avversario: non è il rappresentante
che è responsabile in sé, ma l’avversario ne costituisce la coscienza
critica, “denunciandolo”. Per questa via, si perviene alla
strumentalizzazione dell’opposizione, intesa non come alternativa
propositiva nei confronti della maggioranza, ma come mero delatore
presso gli elettori; questi poi, dovrebbero essere tutelati grazie alla
vigilanza di quei candidati per i quali non hanno votato, dei quali si
troverebbero, loro malgrado, ad essere “temporanei rappresentati”,
secondo quanto si è visto nei due paragrafi precedenti. Inoltre,
sviluppando questa posizione alle sue estreme conseguenze, si perviene
all’assoluta mancanza di responsabilità e/o responsività nel momento in
cui cessa l’antagonismo, anche per mere ragioni di opportunità politica; e
non occorre richiamare episodi recenti per i quali sono stati coniati nomi
501 Cfr. D. FISICHELLA, La rappresentanza politica, cit., p. 47.
502 Cfr. D. FISICHELLA, La rappresentanza politica, cit., p. 48.
DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO
338
nuovi, spesso sconci, per fenomeni noti che hanno in Agostino Depretis il,
finora, insuperato maestro.503
E se questi sono i limiti connessi all’an della responsabilità, urgenti
problemi sorgono per la definizione del quantum.
“Circa il quantum di responsabilità, poi, numerosi fattori
intervengono a muovere la bilancia verso il più o verso il meno. In breve,
la competizione è condizione necessaria ma non sufficiente di
responsabilità democratica.
Orbene, oggi quella che altrove chiamo la “sfida della competizione
manipolata” sta assumendo una incidenza crescente, che tende a ridurre
progressivamente il quantum della responsabilità possibile, abbassandola
a livelli di modestia assai inquietante. E dato il nesso tra competizione,
responsabilità e controllo, si capisce che più aumenta la manipolazione
della competizione, più si riduce lo spazio del controllo e quindi più si
vanifica la funzione che costituisce l’essenza della rappresentanza
politica”.504
In altri termini, la funzione di controllo, caratteristica della
rappresentanza e garanzia che l’elettore si possa riconoscere rappresentato
di volta in volta da qualcuno degli eletti, dipende dalla competizione che
si innesca tra le diverse parti politiche; tuttavia, oltre alla evanescenza
della distinzione dei ruoli, che si è denunciata sopra, è lo stesso autore a
dover riconoscere il rischio di incalzanti tentativi di manipolare
dall’esterno la competizione, riducendone se non vanificandone la portata,
compromettendo così, per simmetrica conseguenza, il ruolo della
rappresentanza politica, come da lui edificata, che si manifesta allo
spettatore gravemente affievolita nella sua figura. Questa ci sembra la
riprova che nel paradigma di Fisichella l’an dipende dal quantum. Tutto
ciò, oltre a costituire un errore logico, si rivela un errore operativo, se
503 Per un taglio particolare nella ricostruzione della figura e della prassi dallo
stesso introdotta, compiendosi un secolo dalla sua pubblicazione, si rinvia al raro volume
di G. ARANGIO–RUIZ, Storia costituzionale del Regno d’Italia, Firenze, 1898, ristampa a
cura di L. CARLASSARE (della quale si veda l’introduzione, specialmente p. xii, ove si
richiama il problema della “responsabilità”, centrale in questa indagine), Napoli, 1985,
p.338 e ss., da accompagnarsi con i saggi contenuti nel volume a cura di P.L. BALLINI, Idee
di rappresentanza e sistemi elettorali in Italia tra Otto e Novecento, Atti della terza
giornata di studio “Luigi Luzzatti” per la storia dell’Italia contemporanea (Venezia, Istituto
Veneto di Scienze Lettere ed arti, 17 novembre 1995), Venezia, 1997.
504 Cfr. D. FISICHELLA, La rappresentanza politica, cit., p. XXX.
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
339
tramite la competizione si perviene ad incidere sulla funzione che si
dichiara essere l’essenza della rappresentanza. Meglio allora ricercare la
soluzione muovendo dalla struttura fisiologica della rappresentanza,
deducendone i corollari; meglio trovare la responsabilità non nella
dialettica parlamentare delle fluttuanti maggioranze e minoranze, ma nel
rappresentante in sé stesso, a prescindere dagli avversari.
Il ragionamento vale anche per la corporazione, dall’autore
asseritamente ritenuta non garantista perché non pluralista, perché priva di
competizione interna, considerata, come si è visto, il carattere proprio
della rappresentanza. In sostanza, il ruolo delle professioni richiederebbe
un peso non par tête, ma par ordre, ovviamente aumentando gli ordini
secondo le diverse articolazioni di una società più complessa, fino ad un
numero non facilmente determinabile e, quindi, poco funzionale. Non di
meno, Fisichella trova difficoltà nel criterio di rappresentanza sia
all’interno della singola corporazione, ove si ripropongono, quanto meno,
i problemi del maggioritario, ma, soprattutto, del peso da dare alle singole
corporazioni, se sempre lo stesso o diverso di votazione in votazione, a
seconda della diversa materia in votazione, riportando così la sovranità a
colui che decide il peso della singola corporazione in quella tal votazione.
In altri termini, interpretiamo, il carattere non competitivo della
corporazione -che per sua definizione mira a comporre le diversità al suo
interno indirizzandole verso l’interesse comune che ne costituisce
l’elemento aggregante ed il carattere distintivo dalle altre corporazioni- si
pone come limite alla sua valenza politica, ponendo la questione in
termini di apparente alternativa, dacché o la dialettica tra maggioranza e
minoranza si ripropone tra le corporazioni, quali singoli riuniti in
assemblea, ovvero occorre determinare quale corporazione debba
prevalere nel singolo caso, ratione materiae; ma, come nella prima ipotesi
si ritorna al punto di partenza, così nella seconda eventualità il problema
si sposta all’individuazione del terzo che giudichi di volta in volta in
ordine alla competenza propria della singola corporazione e cioè, se si
vuol ben vedere, all’individuazione del sovrano.
“Se, perciò, il principio maggioritario è la regola essenziale in virtù
della quale il conflitto diventa competizione pacifica, esso ha peraltro
bisogno – in uno scenario a meccanica interattiva – di una garanzia
istituzionale di fondo per esprimersi propriamente e coerentemente, e tale
garanzia è costituita da quel particolare tipo di controllo politico che
rinvia alla rappresentanza politica come organismo espresso da una
campagna elettorale competitiva che investe e coinvolge la nazione in
DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO
340
quanto tale”.505
In buona sostanza, a quanto è dato vedere, l’essenza della
rappresentanza politica, pur rettamente riconosciuta nella responsabilità,
viene trasportata nella competizione tra maggioranza e minoranza e, più
specificamente, nella campagna elettorale. Nella tesi in esame, dunque,
come si legge a chiare lettere, l’assicurazione della responsabilità politica
sarebbe ancorata dunque alla correttezza della campagna elettorale.
“Ecco, allora, la differenza fondamentale tra questa [la
rappresentanza politica] e la rappresentanza corporativa: la seconda non è
attrezzata istituzionalmente e quindi non è idonea ad esercitare il controllo
politico cui quella è preposta”.506
Se con questo, come sembra, Fisichella vuol dire che la
rappresentanza della corporazione ha più la funzione di far conoscere che
di decidere, siamo d’accordo; già meno nella variante testuale per la quale
“la rappresentanza corporativa è essenzialmente finalizzata al controllo
tecnico, di competenza e di efficienza, invece che al controllo politico. Ma
questa obiezione non elimina e non soddisfa il seguente interrogativo:
quali garanzie esistono di svolgere liberamente ed autonomamente la
funzione di controllo tecnico, in assenza di un controllo politico che limiti
istituzionalmente il potere e possa chiamarlo a rispondere delle sue
prevaricazioni?”507
In limine osserviamo che l’aspetto tecnico delle corporazione non
esclude la sua attitudine a pervenire a delle decisioni “politiche”, cioè non
scientifiche o tecnocratiche, pur con le cautele necessarie per preservarci
505 Cfr. D. FISICHELLA, La rappresentanza politica, cit., p. 58. Si dimostra scettico
all’idea di poter istituire un serio confronto dialettico o anche un effettivo e consaputo
confronto in campagna elettorale, il già ricordato W. LEISNER, Demokratie. Betrachtungen
zur Entwicklung einer gefährdeten Staatsform, Berlin. 1998, specialmente p. 392, ove
viene coniata l’espressione di Medienstaat, con riferimento polemico al décalage del
Rechtsstaat.
506 Cfr. D. FISICHELLA, La rappresentanza politica, cit., p. 59. La tesi, come si è
già fatto notare, presuppone che il controllo si abbia solo grazie alla vigilanza reciproca dei
contendenti politici; sicché la corporazione, in quanto sintesi e componimento delle
diverse peculiarità verso una tensione comune non sarebbe foriera di controllo alcuno. Sul
punto sia consentito rinviare all’impegnativo saggio di B. SCHOFER, Das
Relativismusproblem in der neueren Wissenssoziologie. Wissenschaftsphilosophische
Ausgangspunkte und wissenssoziologische Lösungsansätze, Berlin, 1999, p. 227.
507 Cfr. D. FISICHELLA, La rappresentanza politica, cit., p. 59-60.
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
341
dal sogno di Saint – Simon.508
Ma proprio per questo non si può restare ad
un livello di sostituzione di un organo decisionale ad un altro, bensì
spingersi alla struttura della rappresentanza, nella corretta individuazione
dei due aspetti costitutivi, la situazione del rappresentante ed il suo
rapporto con il rappresentato.
Oltre alle difficoltà che si sono poste in evidenza sopra, Fisichella
stesso riconosce il limite del controllo introdotto dalla competizione: “E
allora il controllo stesso diventa a sua volta “oggetto” di equilibrio, più
che “soggetto” e induttore di equilibrio, diventa fattore il cui esercizio
esige ed impone equilibri variamente articolati, sul piano istituzionale e
sul piano etico. Non ci si può nascondere che in questo difficile gioco di
equilibri e di controlli il rischio per il sistema rappresentativo è quello
dell’avvitamento su sé stesso, fino all’estrema conseguenza, accaduta
ormai più volte, della fuoriuscita dal contesto democratico. Ma è anche
vero che altre esperienze rappresentative hanno saputo evitare un tale esito
traumatico, riuscendo a superare molte prove, non di rado assai pesanti ed
onerose”.509
In realtà, ci pare, la struttura necessariamente dualistica della
rappresentanza, come enucleata nella prima parte di questo lavoro, così
come ha richiesto di verificarne la compatibilità degli strumenti attuativi,
per non tentare di applicare un istituto o introdurre nell’esperienza una
costruzione mediante uno strumento con essa incompatibile (quale il
divieto di mandato imperativo), altresì comporta necessariamente di
rivedere le situazioni giuridiche soggettive di rappresentante e
508 Per le illusioni e disillusioni del conte socialista ante litteram, cfr. F. GENTILE,
Dalla concezione illuministica alla concezione storicistica della vita sociale. Saggio sul
concetto di società nel pensiero di C. H. de Saint-Simon, Padova, 1960, poi ripreso
nell’ormai raro IDEM, Che cosa ha “veramente” detto Saint-Simon, Roma, 1973,
specialmente p. 108, ove l’utopismo tecnocratico viene seguito nella sua parabola che
porterà il suo artefice a riflettere sul cristianesimo sociale. Per l’influsso del pronipote del
celebre testimone del regno di Luigi XIV sul pensiero italiano, cfr. IDEM, Saint-Simon in
Italia. Emozioni e risonanze sansimoniane nell’Ottocento italiano, Napoli, 1969
(tradizione del saggio Emotions et résonnances saintsimoniennes en Italie au XIXe siècle,
apparso nella rivista “Economies et sociétés”), che, muovendo dalla corrispondenza tra
Gino Capponi e Raffaello Lambruschini, ripercorre il tentativo italiano di coniugare il
sansimonismo con la tradizione cattolica, purgandolo dall’eresia, sull’onda
dell’entusiasmo del vento d’oltralpe.
509 Cfr. D. FISICHELLA, La rappresentanza politica, cit., p. 63.
DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO
342
rappresentato, ricostruite in logica conseguenza da quanto emerso in sede
generale.
Le difficoltà incontrate dalla dottrina, della quale le tre tesi sopra
esaminate –di Rescigno, Zanon e Fisichella- non costituiscono che le
elaborazioni più recenti, nel circoscrivere le situazioni giuridiche
soggettive di rappresentante e rappresentato si annidano proprio nella
tradizionale costruzione che vede nel diritto soggettivo l’ambito della
radicale libertà, la supremazia, l’assoluta signoria della volontà del
titolare. Nel contempo, la corrispondente figura del dovere appare
plasmata sulla obbligatoria necessità, sulla completa soggezione ad una
volontà esterna, sia essa quella dello Stato, ovvero quella di un altro
privato, titolare della posizione attiva, che gli è stata sempre e comunque
assegnata dallo Stato, direttamente o indirettamente, mediante un apposito
atto di volontà, derivante dalla sovranità (o dal suo esercizio se non dalla
titolarità formale, recentemente attribuita al popolo), nella forma di un atto
avente forza di legge, di una sentenza o di un provvedimento
amministrativo.
Quali figure convengono allora al rappresentante ed al
rappresentato? V’è un diritto a rappresentare e ad essere rappresentati
politicamente? V’è un mero interesse al funzionamento dell’assemblea o
alla “regolarità” delle procedure elettorali che si distingue dal tradizionale
rispetto della legge? Ad alcune domande si è già anticipata una risposta
nei paragrafi che precedono e che saranno utili in questo momento, ove
finalmente la questione può essere affrontata, giacché costituisce il nodo
centrale della nostra ricerca.
Si impone, dunque, un’indagine, seppure limitata ai fini che qui
interessano, sulle figure dell’interesse legittimo, del diritto soggettivo e
del dovere. E conviene prendere le mosse da quella identità di volontà tra
cittadino e Stato con la quale ci siamo congedati dagli Epigonen.
Tra i molteplici aspetti particolari, conseguenza e frutto delle
concezioni teoriche più generali, sopra esaminate al § II.3, emblematico
appare il problema dello jus actionis del singolo nei confronti dello Stato,
tutt'oggi manifestato da difficoltà giurisprudenziali,510
denotando un
510 Emblematico il problema della risarcibilità del danno per violazione di interessi
legittimi, particolarmente rilevante in materia urbanistico-edilizia, ove la giurisprudenza
procede su articolati percorsi in assenza di un apposito intervento legislativo, parzialmente
giunto solo, com’è noto, con gli art. 34 e 35 del D.Lgs. n. 80/98; fra le tante pronunzie, cfr.
Cass. S.U. 1.3.1989, n. 1137, in "Giust. Civ. Mass.", 1989, 305; Cass. S.U. 7.5.1981, in
"Giust. Civ.", 1981, 2254; Cass. Civ. I sez., 15.5.1986, n. 3169, in "Foro It.", 1986, I,
3022, con nota di G. BARONE. In dottrina, cfr. per tutti: E. FOLLIERI, Risarcimento dei
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
343
sotteso nodo concettuale non risolto che discende dai problematici
Grundbegriffe di sovranità, potestà di imperio (Herrschaft) e
rappresentanza necessaria.
In questo senso, nel nostro esame delle situazioni giuridiche
soggettive, può essere indicativo ricostruire la nascita e lo svilupparsi
della categoria dell'interesse legittimo in relazione al diritto soggettivo
nella giuspubblicistica tedesca511
agli inizi di questo secolo, che tanto
danni per lesione di interessi legittimi, Chieti, 1984; più recentemente, ma sempre prima
della “storica” sentenza della S.U. della Cassazione, n. 500/99, cfr. M. CAFAGNO, La tutela
risarcitoria degli interessi legittimi: fini pubblici e reazioni di mercato, Milano, 1996; al
tema è stato dedicato anche il 43° convegno di Varenna: Risarcibilità dei danni da lesione
di interessi legittimi. Atti del 43. Convegno di studi dell’amministrazione promosso
dall’Amministrazione provinciale di Lecco, Milano, 1998. Per la situazione in Francia, cfr.
J.M. WOEHRLING, La réforme du contentieux administratif, in "Dir. Proc. Amm.", 1995, n.
4 , p. 842 e ss. Per il superamento della tradizionale distinzione tra interesse legittimo e
diritto soggettivo, di ritenuta rilevanza costituzionale, che dovrebbe in questo senso essere
riformata, pur in esplicitazione degli stessi principi, cfr. recentemente A. PAJNO, Le norme
costituzionali sulla giustizia amministrativa, in "Dir. Proc. Amm.", 1994, n. 3, p. 419 e ss.,
specialmente p. 448 e ss., ove si propone una divisione di competenza tra giudice
amministrativo e giudice civile fondata su una distinzione di materia, combinata con un
criterio soggettivo, quale la presenza in giudizio di una Pubblica Amministrazione,
procedendo tuttavia ad una necessaria riorganizzazione anche per la fase cautelare, estesa
ai rapporti più che ai meri atti amministrativi.
511 Com'è noto, nella Germania del dopoguerra il problema ha avuto soluzione
legislativa già con legge 1.4.1960, recentemente novellata con l. 17.12.1990, su cui cfr. P.
BADURA, La recente novella della legge tedesca sul processo amministrativo: un passo
verso una più efficace tutela giurisdizionale del privato?, in "Dir. Proc. Amm.", 1992, n. 1,
p. 31 e ss, ma specialmente p. 40. Per un esaustivo panorama del problema nell'esperienza
tedesca tra diritto soggettivo e tutela di interessi individuali, cfr. recentemente E. SCHMIDT
ASSMANN, I limiti del sindacato dei Tribunali Amministrativi, in "Dir. Proc. Amm.", 1995,
n. 4, p. 683 e ss., ma specialmente p. 692, ove si indica l'interpretazione estensiva alla
tutela degli interessi del singolo in forza dell'art. 19, quarto comma, della Carta
fondamentale della Repubblica Federale Tedesca. Per un’attenta ricostruzione della figura
del diritto pubblico soggettivo in Germania, con allora audaci proposte di nuovo
inquadramento dogmatico, che hanno poi trovato seguito nella dottrina e nella
giurisprudenza italiane, cfr. W. HENKE, Das subjektive öffentliche Recht, Tübingen, 1968,
specialmente V Teil, Das subjektive öffentliche Recht im Verwaltungsprozeß.
L'enucleazione della figura dell'interesse legittimo da parte della dottrina italiana
ottocentesca, con notevoli rimandi alla scienza giuridica dei paesi limitrofi, è stata fatta
recentemente oggetto di corposo studio da B. SORDI, Giustizia ed amministrazione
nell'Italia liberale, la formazione della nozione di interesse legittimo, Milano, 1985, alla
cui densa bibliografia si rimanda, aggiungendovi solo quanto più recentemente apparso o
di prettamente interessante il dibattito germanico che qui maggiormente rileva.
DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO
344
influsso ha avuto in ogni ambito nello sviluppo della scienza giuridica
italiana, riscoprendone le radici teoriche su cui si è innestata.
A tal proposito, come si è già detto, non è peregrino, a nostro
avviso, ricercare il collegamento della giuspubblicistica tedesca tra XIX e
XX secolo coll'elaborazione della Destra hegeliana,512
più che un
fondamento diretto dei maestri del diritto pubblico tedesco
nell'insegnamento del Filosofo berlinese, per quel singolare nesso,
confortato da una corrispondenza quasi letterale nei rispettivi scritti, che
lega il pensiero di alcuni allievi di Hegel con i pionieri del diritto pubblico
tedesco attorno agli Hauptprobleme del diritto e dello Stato. I singoli
passaggi logici che cercheremo di ricostruire sono i seguenti: 1)
recepimento della conclusione della triade hegeliana per cui il cittadino
non può che realizzarsi nello Stato; 2) identità di Geist tra cittadino e Stato
in campo pubblico; 3) conseguente equivalenza degli interessi del singolo
con la sua volontà; 4) equivalenza della volontà del singolo con quella
dello Stato in campo pubblico; 5) impossibilità di configurare alterità tra
cittadino e Stato in campo pubblico; 6) cittadino e Stato costituiscono
giuridicamente un’unica parte sostanziale, cioè un solo centro di
imputazione di volontà ed interessi; 7) assenza di posizioni
sinallagmatiche di diritto e dovere tra cittadino e Stato in campo pubblico;
8) conseguente assenza di jus actionis del primo nei confronti del
secondo; 9) l’errore degli organi dello Stato nell’attuazione della legge
(precipitato del Volksgeist) non può costituire violazione di un diritto del
cittadino; 10) interesse del cittadino a por rimedia all’errore; 11)
attribuzione del potere di stimolare la rettificazione in capo a quel
cittadino che subisce uno svantaggio dalla violazione perpetrata; 12)
enucleazione dell’interesse legittimo come conseguenza dell’identità di
volontà tra cittadino e Stato; 13) difficoltà di tale situazione giuridica
soggettiva unitaria a cogliere le esigenze logiche della rappresentanza
nella sua struttura dualista.
Come si è già detto, il punto di riferimento potrebbe essere
individuato nei §§ 258 e 260 (e, per certi versi, nel 311) della Filosofia del
diritto, laddove, già nelle note di Gans,513
ma ancor più nell'opera
512 Sul pensiero degli Epigonen, cfr. supra, § II.3.1.
513 Per il ruolo di Gans nell'interpretazione della filosofia del diritto del Maestro,
cfr. M. RIEDEL, Eduard Gans als Schüler Hegels. Zur politischen Auslegung der
Rechtsphilosophie, in "Rivista di Filosofia", 1977, n. 7,8,9, pp. 234 e ss.; nonché M. H.
HOFFEIMER, Eduard Gans and the Hegelian Philosophy of Law, Dordrecht, Boston,
London, 1995, p. 15 e ss.
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
345
interpretativa-apologetica di Rosenkranz e, soprattutto, nella
sistematizzazione delle Philosophische Vorlesungen über den Staat che
Erdmann avesse tenuto ad Halle nel 1851, trova conforto l'assunto per cui,
nell'ambito del diritto pubblico, il cittadino non può avere alcuna volontà
né alcun interesse diverso da quello dello Stato, poiché è in quest'ultimo
che egli trova la sua Aufhebung, essendovi, secondo le parole dell'autore
hegeliano, "chimicamente compenetrato",514
consentendo ai colleghi
giuristi, come si dirà, di negare l’alterità tra cittadino e Stato,
riconducendoli ad un’unica parte sostanziale e processuale, ad un unico
centro di imputazione di volontà ed interessi.
Si è già notato come, proprio l'anno prima dell'ingresso di Gerber
nel dibattito, Erdmann, tiene ad Halle il proprio corso muovendo dalla
dimostrazione dell'assunto "Lo Stato come supremo organismo etico", in
cui -fra l'altro- negando la prospettiva individualistica propria
dell'illuminismo francese (e della Rivoluzione) sostiene la necessaria,
storicamente ineludibile compenetrazione (diretta) di singolo e Stato.
Dalla pretesa identità di volontà tra cittadino e Stato viene dedotta
l'attività del Parlamento, come inventore, nel senso di scopritore, cioè
come unico interprete autorizzato del Volksgeist, specificando che
l'eventuale trasformazione in legge positiva di quanto, per fretta o per
errore, non doveva essere riconosciuto come Volksgeist, troverà
un'opportuna autocorrezione nell'opera dello stesso legislatore, per cui,
con un assonanza platonica, l'organismo malato non muta la sua identità,
"il tronco immutabile delle sue istituzioni", per il solo fatto di subire delle
cure.
La semplificazione dell'autore di Halle sui momenti dello Spirito
oggettivo, svincolato dallo Spirito assoluto, fornisce ai colleghi
giuspubblicisti un'interessante costruzione logica del concetto di Stato,
apparentemente stringente, anche per il suo riferimento all'opera del
Filosofo di Berlino, seppur essa, ormai divelta dalle radici che l'avevano
generata, si reggeva su di un asserto non più criticamente verificato. Tale
assunto, come si è detto, è la necessaria compenetrazione di cittadino e
Stato, da cui la loro identità di volontà, che consente, con quel particolare
meccanismo descritto nel capitolo precedente, la formazione della legge,
intesa come reperimento e cristallizzazione del Volksgeist. E in questo
senso occorre ricordare la precisazione di Lorenz von Stein -che abbiamo
514 Il riferimento alla chimica non è casuale, cfr. supra nota n. 300.
DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO
346
già incontrato in veste di salace censore dell’opera di Savigny sulla
necessaria interpretazione estensiva del termine legge, comprensivo tanto
della fattispecie universale ed astratta, quanto della particolare e concreta,
sull'osservazione che né la legge né l'ordinanza di per sé sole sono la
manifestazione piena e sincera della volontà dello Stato, poiché “È
impossibile vivere in uno Stato soltanto secondo le leggi, o di esser
governato soltanto dalle leggi. La vera vita politica appare anzi
nell'incessante integrarsi della legge coll'esecuzione di essa, e
quest'integrazione si esprime col mutuo organico rapporto della legge
coll'ordinanza o regolamento”.515
Avendo semplificato la triade dialettica, tolto il medio della società
civile e dimenticata la famiglia, si inceppava però irrimediabilmente il
meccanismo del Maestro, con la conseguenza che il cittadino, non
volendo, non potendo avere in campo pubblico volontà diversa da quella
dello Stato, con questo forma una Einheit, cosicché con Laband, cittadino
e Stato giuridicamente costituiscono una parte sola, un solo centro di
imputazione di volontà e di interessi. In materia pubblica, tra essi non può
esservi alterità e, vedremo, si dichiarerà conseguentemente non potersi
dare tra gli stessi alcun rapporto giuridico soggettivo di diritto-dovere, da
cui la difficoltà di ammettere lo jus actionis del primo nei confronti del
secondo, inteso quale strumento per far valere un "diritto" che non sembra
risiedere da nessuna parte. Seppure, come si è detto, Gerber ricorda che
spetta al popolo la verifica della conformità della legge al Volksgeist.
Quanto abbiamo appena esposto cade, l'Einheit si spezza, ammettendo che
vi sia un'entità popolo diversa da quella rappresentata dallo Stato, capace
di manifestarsi in modo giuridicamente rilevante, esternando atti di
volontà. Se si prevede il caso di un ricorso diretto al popolo per sanare un
atto dello Stato, si riconosce in esso il fondamento della potestà legislativa
primaria, secondo la terminologia di Jellinek che, incaricandosi di
515 Cfr, L. von STEIN, Verwaltungslehre und Verwaltungsrecht (1865), citato da R.
von GNEIST, Der Rechtsstaat und die Verwaltungsgerichte in Deutschland, II, Berlin,
1879, rist. Darmstadt, 1958, p, 354, n. 65, che rileva la contraddizione di questa dichiarata
commistione tra le fonti e gli atti amministrativi con quanto altrove sostenuto con vigore
dallo stesso von Stein, affermando che il contrasto fra la legge ed il decreto è di
competenza dei tribunali ordinari, quello fra ordinanza ed il decreto è di competenza delle
autorità amministrative. Se compenetrazione organica c'è, deduce l'autore prussiano, non
può esservi contrasto. In questo modo, i tradizionali vizi degli atti amministrativi, e
segnatamente la violazione di legge, dovrebbero essere risolti al pari delle incongruenze
dei testi legislativi, tramite un'interpretazione sistematica.
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
347
capovolgere la costruzione labandiana, indicherà nel popolo l'organo
primario dello Stato, pur circoscrivendone subito la competenza.516
Anche
le stesse espressioni testuali di Gerber sopra citate ricordano molto la
ratihabitio del mandante.517
In altri termini, viene prospettata l'evenienza di fattispecie in cui
quello che lo Stato ha rinvenuto come costume del popolo ed ha
trasformato in legge (e, conseguentemente, in regolamento e ordinanza),
deve essere verificato nella sua rispondenza al vero dal popolo stesso. Ma
ben si vede come in questo caso il popolo non appaia sussunto
necessariamente nello Stato, secondo l'idea pseudo hegeliana che regge
tutta l'opera dell'autore prussiano. Al contrario, nella testé prospettata
ipotesi di "sanatoria" (e per il solo fatto di prospettarla) il popolo è
concepito in posizione di alterità dallo Stato, quasi si trattasse di due parti
distinte: lo Stato rappresentante ed il popolo rappresentato, che è chiamato
a ratificare l'opera del rappresentante.
L'assunto non è privo di contraddizioni. In questa prospettiva, ci si
potrebbe chiedere come debba considerarsi la legge od il provvedimento
(logicamente identici, cfr. nota 515), che non recepiscano correttamente il
Volksgeist. In forza dei principi esposti, in attesa del corretto reperimento
dello spirito del popolo, dovranno essere considerati invalidi o addirittura
inesistenti? In realtà, il problema appare ridimensionato ove si consideri
che il singolo non ha la facoltà di interpretare il Volksgeist, operazione che
è monopolio dello Stato o, apparentemente, del popolo, nella variante di
Gerber. Il cittadino che ritenga il provvedimento non conforme allo spirito
del popolo e quindi al pubblico bene, può solamente eccitare gli organi
dello Stato ad eseguire un'altra interpretazione, ma non certo a fornirla
egli stesso o a disattendere l'atto. La questione si sposta così ad indagare
quale debba essere la sorte degli effetti prodotti medio tempore dagli atti
annullati; ma non sembra che quest'aspetto sia stato indagato oltre la
frettolosa risposta per cui l'atto rinnovato deve rimuovere altresì gli effetti
516 Infatti, sul punto Jellinek, riconoscendo ineludibile il fondamento del Volksgeist
nel popolo stesso, assicura tuttavia il monopolio della sua interpretazione allo Stato,
rectius agli altri organi dello Stato, circoscrivendo la competenza del popolo, quale
"organo di legislazione primaria" nei termini ricordati supra al § II.3.4.
517 Si confronti quanto osservato supra al § II.3.2., in relazione al passo di Gerber,
citato alla nota n. 369.
DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO
348
dannosi per i singoli, senza con ciò guardare le situazioni giuridiche
soggettive favorevoli dei privati che riposano sugli atti viziati.
Conseguentemente, l'impossibilità per lo straniero di promuovere
ricorso deriva dalla mancanza di titolarità dei diritti derivanti dalla
cittadinanza, ma anche e soprattutto, dalla sua non intelligenza del
Volksgeist. In questo v'è concordanza tra i tradizionali criteri di
conferimento della cittadinanza, il sangue e la naturalizzazione, con
l'ingresso nella comunità, nel Volk, secondo la definizione, tra gli altri, di
Erdmann e di Gerber:518
Se in Gerber si poteva ancora rinvenire una traccia di dualismo,
costituito dalla riconosciuta esistenza di un rappresentato e di un
rappresentante, un popolo di fronte allo Stato, Laband è perentorio quando
afferma che "Das gesamte deutsche Volk hat keine vom Deutschen
Reiche verschiedene und ihm gegenüber selbstäntige Persönlichkeit, ist
kein Rechtssubjekt und hat juristich keinen Willen”519
Lo stesso Jellinek, già per molti versi in aperta polemica, quando
non in antitesi con il collega di Strasburgo, su questo punto non sembra
avere una posizione sostanzialmente diversa, ma anzi accoglie la
distinzione, già precedente a Laband, tra le leggi che costituiscono in capo
al cittadino un ampliamento della propria sfera giuridica soggettiva, da
quelle leggi che trattando dell'organizzazione dello Stato non incidono nel
patrimonio del singolo se non conferendogli un interesse al rispetto della
legalità.520
518 Cfr. supra, alle note n. 309 e 347.
519 P. LABAND, Das Staatsrecht des Deutschen Reiches, cfr. nota n. 426.
Per la diversa applicazione del medesimo principio che si andava consolidando in
Austria in quegli stessi anni, cfr. E. HOLTMANN, "Sozialpartenschaft" und "sociale Frage".
Korporatistische Tradition in Österreich: Der Ständige Beirat des Arbaitßtatistischen
Amtes als Beispiel paritätischer Intereßenvertretung in der Späthabsburgerzeit, in "Der
Staat", 1988, p. 233 e ss.
520 La distinzione tra legge in senso materiale e legge in senso sostanziale, trova
giustificazione proprio nell'assunto che in campo pubblico cittadino e Stato non possono
che avere la medesima volontà; per cui, trattandosi di un unica parte, le leggi prettamente
pubblicistiche di organizzazione dell'amministrazione statale non sono attributive di diritti
dell'uno nei confronti dell'altro. Cfr. G. JELLINEK, Gesetz und Verordnung, Freiburg, 1887
(rist. Aalen, 1964), p. 240.
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
349
Ulteriori conseguenze di una siffatta correlazione non tarderanno ad
essere tratte dai primi allievi di Laband521
nel settore del diritto
processuale amministrativo, ove la hegeliana pretesa identità di volontà ed
interessi tra cittadino e Stato nel campo del diritto pubblico consente ad
alcuni di dedurre dall'assenza di alterità anche la difficoltà nell'ammettere
lo jus actionis del primo nei confronti del secondo o, comunque, ove
ammesso, ne viene sottolineato il carattere speciale, eccezione alla regola
generale della tutela degli "interessi individuali" da parte della stessa
amministrazione. In ogni caso proprio dalla semplificazione della Destra
hegeliana sembra derivare la distinzione, nelle conseguenze dell'attività
amministrativa, tra "violazione del diritto" e "pregiudizio di un interesse
individuale".522
Peraltro, anche i critici della tradizionale dottrina
labandiana sembrano restare impigliati nell'equiparazione dei
Philosophen, laddove affermano che la stessa pronuncia giurisdizionale
amministrativa è un atto di amministrazione e, quindi, per definizione
sorretta dal perseguimento di quell'interesse pubblico rettamente
interpretato (solo) dallo Stato.523
In questo senso, tuttavia, già Rudolf von
521 Ma cfr. già L. von STEIN, Verwaltungslehre und Verwaltungsrecht (1865), rist.
della II ed. Frankfurt (a. M.), 1958; R. von GNEIST, Staatsverwaltung und
Selbstverwaltung, Berlin, 1869; IDEM, Der Rechtsstaat, Berlin, 1872; ed il compendio del
proprio pensiero all'indomani dello Zollverein, IDEM, Der Rechtsstaat und die
Verwaltungsgerichte in Deutschland, II, Berlin, 1879, rist. Darmstadt, 1958, con la
parziale trad. it. di Isacco Artom, in "Biblioteca di scienze politiche", diretta da A.
Brunialti, vol. VII, Torino, 1891, p. 1111-1335.
522 Cfr. O. MAYER, Le droit administratif allemand, nella traduzione e
ampliamento francese (Paris, 1903-1906, vol. I. p. 190, n. 2; p. 194, n. 5, nonché p. 207 e
ss., ma specialmente p. 210, n. 6), che per stessa ammissione dell'autore-traduttore (cfr.
préface de l'édition française, p. XV), "pour une partie de on exposé sur la nature des
droits publics subjectif et sur la force de la chose jugée en matière administrative, il
n'exixte point d'original allemand".
523 Cfr. op. ult. loc. cit. Ad analoga conclusione, ma con argomentazioni diverse,
giungerà anche Guicciardi, affermando che tutela giurisdizionale e autotutela debbono
essere considerate coincidenti, avendo identico scopo ed oggetto: cfr. infra, nota n. 525.
Per lo sviluppo e il ruolo dell'alterità in tutt'altra prospettiva nel successivo
ingresso nel dibattito di Carl Schmitt, cfr. M.S. BARBERI, Presenza e alterità. Tre figure
della rappresentazione politica in Carl Schmitt, in "Il Politico", 1989, p. 291 e ss.
Per radici diverse, ma connesse, dell'idea di Einheit nel periodo in storico in
esame, cfr. H. DREITZEL, Monarchiebegriffe in der Fürstengesellschaft. Semantik und
Theorie der Einherrschaft in Deutschland von Reform bis zum Vormärz, 2 voll., Köln,
1991; nonché, sotto altro profilo, M. WIENFORT, Ländliche Rechtverfassung in den
deutschen Staaten 1800 bis 1855, in "Der Staat", 1994, p. 207 e ss.
DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO
350
Gneist aveva ipotecato la possibilità di ogni diversa soluzione quando, in
perfetta deduzione dal principio hegeliano, aveva concepito il ricorso del
privato avverso i provvedimenti dello Stato in ambito pubblico al pari di
una querela penale. In entrambi i casi, secondo l'autore prussiano, si
chiede allo Stato di attivarsi per ripristinare la giustizia, nella corretta
interpretazione del Volksgeist, come nella rettificazione delle conseguenze
del reato. Ma in entrambi i casi non vi è propriamente azione dell'uno nei
confronti dell'altro, specificando che il carattere giuridico accordato a tale
interesse è ben diverso da quello accordato al "diritto individuale". Con
sillogistica precisione, “Si tratta quindi di un diritto obbiettivo, che, anche
senza istanza delle parti, deve essere esercitato per il bene pubblico. In
conseguenza tutti i controlli politici sono destinati a tutela tanto dei privati
come di tutta la società. Se nel contenzioso circa questo ordinamento si
accorda udienza alla parti, si discute in contraddittorio con esse, e si
ammette la prova, ciò avviene come nel diritto penale per guarentire che
la legge sia eseguita secondo il suo senso. Si accorda un carattere
giuridico all'interesse delle parti ma in modo distinto da quello che si fa
quando il diritto individuale è il solo, speciale oggetto della tutela
giuridica. Il diritto delle parti e, quindi, nella sfera amministrativa,
secondario: è un diritto di querela che non fa parte dei diritti individuali,
come la proprietà la famiglia etc. Bensì è una derivazione del diritto
pubblico e la parte v'ha un ufficio formale analogo a quello che ha nei
processi penali”.524
Per ulteriore conseguenza si nega che le norme di
524 Così nella sintetica trad. it. di Isacco Artom, in "Biblioteca di scienze politiche",
diretta da A. Brunialti, vol. VII, Torino, 1891, cit., p. 1294-5, con sottolineature nostre.
Cfr. R. von GNEIST, Der Rechtsstaat und die Verwaltungsgerichte in Deutschland,
II, Berlin, 1879, rist. Darmstadt, 1958, cit., p. 270-1: "Es handelt sich im eine
Verwaltungsrecht also um eine objective Rechtsordnung, welche auch unabhängig von
Parteianträgen um des öffentlichen Rechts und Wohles willen zu handhaben ist.
Folgeweise sind alle Controllen der Staatsverwaltung gleichzeitig zum Schutz der
Gesamtheit wie des Einzelnen bestimmt. Wenn in bestrittenen Fragen dieser Ordnung den
Untertanen rechtliches Gehör gewährt, contradictorisch verhandelt und Beweis
aufgenommen wird, so geschieht es (wie im Strafprozess) zur Sicherung einer
sinngemäßen Ausführung der Gesetze. Man erkennt das Interesse der Beteiligten als einen
Rechtsspruch an, aber in anderer Weise als da, wo der Rechtsschutz des Individualrechts
nächster Zweck und Gegenstand der obrigkeitlichen Tätigkeit ist.
Das Parteirecht erscheint daher in diesem Gebiet nur als ein sekundäres, aus dem
öffentlichen Recht abgeleitetes, analog wie die formelle Parteistellung des Anklägers und
Angeklagten im Strafverfahren sich Sekundär dem absoluten Gebote der Sinngemäßen
Anwendung des Strafgesetzes unterordnet. -Jene Beschwerderechte sind Keine
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
351
organizzazione facciano sorgere alcun diritto soggettivo in capo ai
cittadini, per cui la loro violazione (che può concretarsi solo da parte dello
Stato) non può comportare in capo al singolo alcuna pretesa di
risarcimento, ma al massimo il potere dovere di eccitare l'amministrazione
a correggere la propria falsa rappresentazione del Volksgeist. Ed in questa
prospettiva, come si è detto, si era posta la questione se la giurisdizione
amministrativa si distinguesse in qualcosa dall'autotutela. Il problema è
giunto in eredità anche alla dottrina italiana, ed è stato affrontato da Silvio
Spaventa, che sinteticamente aveva appuntato: “L'interesse pubblico,
protetto dalla legge, è che la legge non sia violata. Il ricorso è contro
l'amministrazione. Il ricorso sostiene la violazione della legge e domanda
l'annullamento dell'atto; l'amministrazione sostiene che la legge non è
stata violata e chiede che l'atto sia mantenuto. L'interesse che l'individuo e
l'amministrazione hanno nell'osservanza della legge è identico. Se
l'amministrazione riconosce che la legge è violata, ha l'obbligo,
indipendentemente dal ricorso, di correggere la violenza. Quest'obbligo è
fondato sul suo interesse, sull'interesse pubblico. L'interesse individuale,
dunque, che chiede la correzione, è rapporto alla legge un interesse
pubblico, e non un interesse particolare e opposto al pubblico, che la legge
volle proteggere. Qual’è questo interesse? È un interesse pubblico, del
quale l'individuo o il corpo morale sia partecipe, o un interesse privato,
particolare, non connesso con altri, riferibile a lui solo, opposto
all'interesse dell'amministrazione?" 525
Selbständigen Individualrechte, wie Eigentum und Familienrecht, welche um des
Individuums willen anerkannt werden". Le sottolineature sono nostre.
Richiama l'influenza della tradizione inglese nella produzione scientifica e quindi
nella posizione teorica dell'autore prussiano B. SORDI, op. cit. p. 91 e 93, che tuttavia
sottolinea come per von Gneist la specialità del giudice amministrativo non trovi
particolari ragioni nella tecnicità della controversia, ma nella ratio stessa dell'istituto,
riassumendone così l'intuizione fondamentale per cui "se non si devono proteggere diritti
privati, se non si deve risolvere un conflitto di parti, ma realizzare l'unità di giustizia ed
amministrazione, la linearità di un modello che rimane principalmente un modello di
organizzazione del potere legittimato nella superiore unità dello Stato, non può certo essere
il giudice ordinario il giudice competente per così delicate funzioni". Cfr. op. cit., p. 97; sul
punto cfr. anche G. ROEHRSSEN, Lo Stato di diritto secondo Rudolf von Gneist ovvero
dell'ideologia come reazione, in Materiali per una storia della cultura giuridica, VII
(1977), p. 25.
525 Così. S. SPAVENTA, Per l'inaugurazione della IV sezione del Consiglio di Stato,
ora in La giustizia nell'amministrazione, a cura di P. Alatri, Torino, 1949, p. 236, con
sottolineatura nostra. Sulla rilevanza e l’influenza di tale autore cfr. infra alla nota n. 536.
DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO
352
In altri termini, secondo i padri del diritto pubblico tedesco occorre
distinguere quando lo Stato agisce jure privatorum e quando invece è
espressione di jus imperii. Nel primo caso, trattandosi di diritto privato, la
volontà del cittadino ha rilevanza distinta da quella dello Stato, dando
luogo a due distinti centri di imputazione di volontà, a due distinte "parti"
in senso propriamente giuridico e particolarmente processuale, con la
conseguenza che per le questioni inerenti una compravendita il singolo
può evocare in giudizio lo Stato. Per converso, in tema di corvée di
manutenzione stradale, trattandosi di diritto pubblico, secondo la
suggestione hegeliana, il cittadino non ha, non può avere una volontà
diversa da quella dello Stato nel quale, con le parole di Erdmann, è
chimicamente compenetrato. Ne consegue che i due costituiscono
giuridicamente una parte sola, una juristische Einheit, con le parole di
Laband, di talché tra essi non vi può essere alterità. Quindi non è
logicamente possibile nessuna posizione simmetrica di dovere-diritto
soggettivo e pertanto fra di essi, in questi casi, non è dato jus actionis,
secondo i canoni della dogmatica tradizionale.
Se tuttavia lo Stato, nel promulgare una legge o nell'adottare un
provvedimento amministrativo dovesse errare nel recepire il Volksgeist,
chi potrebbe correggerlo? Già Gerber, sull'insegnamento di Erdmann, si è
visto, era esplicito sul punto: solo il popolo, cioè colui che nel campo
pubblico ha la medesima volontà dello Stato, l'idem sentire et velle, potrà
fruttuosamente correggerlo. Ma fra tutto il gesamte deutsche Volk
principalmente interessato alla correzione, alla naturale rettificazione, con
Da identica posizione, ma per via argomentativa diversa, muoveva la stringente
consequenzialità logica di Guicciardi: "Posto invero che la repressione ad opera del
giudice amministrativo si effettua sugli stessi atti, per i medesimi vizi e con le stesse
finalità che potrebbe assumere la repressione in via amministrativa, e che quest'ultima
viene chiamata autotutela dell'amministrazione, come negare che anche la prima si attui
per tutelare l'interesse giuridico dell'amministrazione stessa?" cfr. E. GUICCIARDI, Concetti
tradizionali e principi ricostruttivi nella giustizia amministrativa, (Padova 1937), Torino,
1967, p. 1. Per le considerazioni sulla Methodenlehre che sostiene questo scritto, cfr.,
infra, alla nota n. 531. In conseguenza di tale posizione, deduzione del principio di stretta
legalità, il Maestro padovano ha sostenuto il dovere dell'amministrazione di procedere in
ogni caso all'annullamento dell'atto illegittimo, senza nulla concedere all'orientamento
giurisprudenziale già allora maggioritario, che prevedeva un giudizio (tecnico o di valore?)
nel bilanciamento tra l'interesse pubblico al ripristino della legalità e l'interesse al
mantenimento delle situazioni giuridiche soggettive pubbliche e private che sull'atto
illegittimo si erano consolidate. Cfr. E. GUICCIARDI, La giustizia amministrativa, Padova,
(1942) 1954, p. 90.
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
353
le parole di Erdmann, può essere solo quel cittadino che più direttamente
sia stato colpito dall'errore. Proprio lui potrà ricorrere526
avverso il
provvedimento dello Stato che ha male interpretato il Volksgeist, seppure
necessariamente ancora una volta, si intende, spetta allo Stato stesso la
decisione ultima sulla reale portata dello Spirito del popolo. Tuttavia, per
opinione comune di questi autori, errare nell'interpretazione del Volksgeist
non costituisce violazione di un diritto del cittadino, come conseguenza
che le norme di organizzazione non sono attributive di diritti, tantomeno
suscettibili di risarcimento.
E così il cerchio si chiude: dalla pretesa identità di volontà di
cittadino e Stato in campo pubblico, frutto di una cattiva interpretazione
dell'opera hegeliana, si deduce che essi costituiscono una sola parte; un
solo centro di imputazione di volontà ed interessi, per cui non può esservi
alterità; non si danno posizioni simmetriche di diritto e dovere;
conseguentemente le norme di organizzazione non fanno sorgere in capo
al cittadino alcun diritto soggettivo, mentre la loro violazione da parte
dello Stato non dà azione di risarcimento, bensì solo ad una sorta di
reclamo per invocare il rispetto del Volksgeist; ma più rigorosamente,
siccome l'interpretazione del Volksgeist è attribuita necessariamente allo
Stato, l'azione si riduce ad una richiesta di riesame dell'interpretazione
dello stesso. In questa prospettiva, l'interesse a ricorrere è completamente
astratto: altro non è che un fattore di legittimazione all’azione,527
mentre la
giurisdizione amministrativa, qualora sia distinta dall'autotutela, non può
526 Nell’interpretazione restrittiva che del termine si perita di specificare Rudolf
von Gneist, cfr. supra, alla nota n. 524.
Conviene fin da subito anticipare l’apparente corrispondenza con la meno recente
dottrina italiana, p.es di E. BONAUDI, La tutela degli interessi collettivi, Torino, 1911, p. 23
e ss., che però sulle suggestioni degli autori francesi, sembra temperare la natura oggettiva
della giurisdizione amministrativa, argomentando che la l. 20 marzo 1865, all. E., 3 e
all’all. F., art. 379, concedendo l’ammissione al ricorso dei soli interessati, implicitamente
dichiara che non tutti i cittadini debbono ritenersi egualmente interessati alla tutela della
norma che si pretende violata e che di conseguenza l’interesse “deve variare a seconda del
diverso rapporto in cui la norma si trova rispetto a determinate persone” (p. 25).
527 Il problema si è posto a S. SPAVENTA, op. cit., p. 235, ove afferma che
"l'interesse individuale offeso è solamente preso come motivo ed occasione per
l'amministrazione stessa per il riesame dei suoi atti; ma non è l'oggetto proprio della
decisione, a cui tale riesame può metter capo". Quest'aspetto verrà compiutamente trattato
da G. CHIOVENDA, Principi di diritto processuale civile, IV ed., Napoli, 1928, rist. 1965,
specialmente p. 358, ma anche p. 50 e 67, ove viene citato espressamente Laband.
DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO
354
che aver natura oggettiva, vertendo sugli atti nella loro conformità al
pubblico bene.528
Tutto il meccanismo dogmatico, e segnatamente processuale, si
regge dunque sull'assunto per il quale "nel campo pubblico il cittadino non
possa avere volontà distinta da quella dello Stato poiché in esso trova la
sua Aufhebung". Assunto non dimostrato dai giuspubblicisti, ma
acriticamente recepito sulla convinzione tacita che trovi fondamento
nell'imponente e riverito sistema hegeliano.
Che tutto ciò sia in verità una palese forzatura e semplificazione de
"l'ingresso di dio nel mondo",529
appare talmente evidente da risultare
banale. Tuttavia, considerata l'autorevolezza degli interpreti, in
riferimento a quel periodo storico, tali rappresentazioni, per quanto
semplicistiche, non potevano che trovare, come riteniamo abbiano trovato,
accoglimento nei colleghi giuristi che, nello stesso periodo e -spesso-
528 Secondo le deduzioni di L. von STEIN, Verwaltungslehre und Verwaltungsrecht
(1865), rist. della II ed. Frankfurt (a. M.), 1958; R. von GNEIST, Der Rechtsstaat und die
Verwaltungsgerichte in Deutschland, II, Berlin, 1879, rist. Darmstadt, 1958, seppure O.
MAYER, Le droit administratif allemand, cit., le revochi in dubbio, almeno parzialmente.
Cfr. supra alle note n. 515 e 525.
529 Secondo la nota definizione dello Stato data da G.W.F. HEGEL, Grundlinien der
Philosophie des Rechts, 2. Auflage, Berlin, 1840, § 258, Zusatz.
La definizione iperbolica non deve trarre in inganno, come ci insegna già Adolfo
Ravà, tra l'altro collega di Donati, del giovane Guicciardi e primo maestro di Esposito
nell'Università patavina. Il riferimento non è solo alle tradizionali critiche rivolte allo Stato
etico hegeliano. Ravà infatti non rinuncia a mettere bene in evidenza le differenze tra la
struttura ed il posto occupato dallo Stato nella costruzione del Maestro di Berlino e
l'assoluta supremazia assegnatagli, p. es., da Giovanni Gentile, per cui se, nella costruzione
del primo, lo Stato è posto accanto alla famiglia e alla società civile, quale momento
culminate dello spirito oggettivo (cfr. G.W.F. HEGEL, Encyclopadie der philosophischen
Wissenschaften im Grundrisse, 3. Teil, 3. Abteilung, § 553 e ss.), ma comunque sottoposto
allo spirito assoluto, non ostanti le note affermazioni aforistiche con cui è descritto, tra cui
quella sopracitata, in Italia Giovanni Gentile si produce nell'esaltazione dello Stato, forse
come necessaria conseguenza del suo approccio attualistico - attivistico: cfr. A. RAVÀ
Diritto e Stato nella morale idealistica, Padova, 1950, p. XIV, nota 1. Come spiega il
filosofo romano, recuperando dichiaratamente l'insegnamento idealistico di Fichte, il
rapporto tra cittadino e Stato, anche nella versione di Hegel, è il rapporto della parte COL
tutto, ma non di una parte indistinta NEL tutto. Senza per questo condividere l'opinione di
N. TABARONI (La terza via neokantiana della gius-filosofia in Italia, Napoli, 1987, p. 41)
quando afferma che la differenza tra l'idealismo critico dei neokantiani (soprattutto nella
versione di Del Vecchio) e l'idealismo hegeliano sarebbe inferiore alle apparenze. Sul
punto sia consentito rinviare al nostro Adolfo Ravà. Tra tecnica del diritto ed etica dello
Stato, Napoli, 1998, p. 298 e 332.
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
355
nelle stesse università, ricercavano un solido (ed autorevole) fondamento,
più simmetricamente logico che genuinamente filosofico, alla loro
costruzione, in un periodo di tempesta politica e concettuale, quale il
Nachmärz, non inferiore, per tali aspetti, alla Rivoluzione francese. Da
tutto ciò si evince come la costruzione di Otto von Gierke, respingendo il
monolitismo labandiano, ma al contrario recuperando l'articolazione
medioevale degli Stände, ponendo cioè un medio etico e non meramente
giuridico (o meglio non legale) tra cittadino e Stato, seppur con i dovuti
distinguo, paradossalmente si avvicini ad Hegel più di quanto non
facciano i suoi colleghi giuspubblicisti, alla cui autorità, attraverso la
rappresentazione dei suoi allievi, si richiamavano. Ma l'aspetto più
singolare è la considerazione che la c.d. "teoria degli organi", di cui tanto
si servirà la dottrina costituzionalistica del Reich, sarà riconosciuta trovare
il suo primo elaboratore sistematico proprio in Otto von Gierke.
Per altro verso, ancora una volta è la distinzione di Barrère de
Vieuzac che sembra sostenere i costituzionalisti del Reich, laddove la
rappresentanza nel diritto pubblico non ammette nel rappresentato
interessi diversi da quelli della collettività, così come interpretati dagli
organi a ciò preposti, a differenza -sembra di poter dedurre- da quanto
avviene nel privato, poiché è solo nel campo pubblico che il singolo, in
quanto cittadino, non può avere un interesse diverso da quello dello Stato.
Lo iatus sta nell'assumere il risultato delle semplificazioni degli Epigonen,
senza coglierne le premesse, la negazione dell'individuo rousseauiano, su
cui ancora si fonda il sistema di diritto privato e sulle cui spalle, tramite
Gerber, poggiano i giuspubblicisti tedeschi. In altri termini, l'assunto per
cui nel diritto pubblico il cittadino non può avere altra volontà che quella
dello Stato, colonna portante dei giuspubblicisti, è il risultato di una
premessa, la reazione all'atomismo illuminista, respinta dai
giuspubblicisti, e in questa prospettiva risulta contraddittorio per due
ragioni. Da un lato non può fondarsi sull'autorità di Savigny, poiché
costituisce un rovesciamento del suo pensiero, in quanto l'identità di
volontà tra legge e popolo riposa sulla premessa che la prima sia il
distillato storico del Geist del secondo; per cui, semmai, dovrebbe essere
il Parlamento a non avere alcuna volontà diversa dal popolo, giacché un
errore del primo nel cogliere il Volkgeist trasformando in legge ciò che
non gli corrisponde veramente, comporterà la necessaria abrogazione (di
fatto o diritto) di siffatta norma, e in questo senso concludono anche J.E.
Erdmann e H. Ahrens. Per altro verso, il medesimo assunto è
contraddittorio non solo perché presuppone un'eticità malamente mutuata
DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO
356
da quella hegeliana, ma soprattutto poiché a tale concezione del soggetto
viene affiancata, sia nell'ambito privato, ma anche dello stesso pubblico,
la concezione prettamente individualistica rousseauiana, propria della
dottrina privatistica, contro la quale aveva appuntato le sue critiche Georg
Friederich Wilhelm Hegel. Pur facendo proprio il superamento del singolo
nello Stato, anzi, ponendo questo assunto come architrave della propria
costruzione, questi autori, pescando con disinvoltura da una parte e
dall’altra, mantengono fermo il pregiudizio individualistico originario,
anche quando il cittadino è nello Stato. E tutto ciò dimostra, per quanto ce
ne fosse ancora bisogno, la distanza di siffatta posizione dal pensiero del
Maestro di Berlino. Sotto questo profilo il problema trascende l'economia
di questo lavoro, poiché l'indagine, sviluppata ulteriormente, potrebbe
giungere a dimostrare più in generale il debito hegeliano della prima
giuspubblicistica tedesca, per cui, se fino ad ora la critica ai padri del
diritto pubblico del Reich è avvenuta all'interno della disciplina
costituzionalistica, seppure con alcuni tentativi di riferimento
metodologico alla topica e alla retorica,530
potrebbe ora allargarsi ad un
ambito più vasto, di pura Teoria Generale del Diritto, evidenziando da un
lato le aporie proprie delle semplificazioni operate dagli Epigonen sul
pensiero del Filosofo di Berlino, dall'altro dimostrando soprattutto
l'incompatibilità tra il metodo adottato dagli Juristen con le premesse
recepite dai colleghi filosofi: premesse che, per quanto snaturate, erano
pur sempre i risultati delle concezioni e del metodo di Hegel.
Tuttavia, per quanto l'influenza in Italia della scienza giuridica
tedesca in generale a cavallo del secolo sia un tratto riconosciuto, e per
quanto l'assonanza delle costruzioni appena esposte sembri accordarsi con
la distinzione tra norme di azione e norme di relazione, così come
compiuta dalla dottrina nazionale più sottile, appare affrettato trarre la
conclusione di una mera recezione letterale, quasi traduzione dal tedesco,
530 Recentemente, cfr. p. es. il corposo e denso saggio di K.A. SCHACHTSCHNEIDER,
Res publica res populi. Grundelgung einer Allgemeinen Republiklehre, Berlin, 1994, p.
541 e ss. e ancora p. 664 e ss; nonché H. BUCHHEIM, Wie der Staat existiert, in "Der Staat",
1988, p. 1 e ss. In verità spunti di ripensamento erano già apparsi nel poco conosciuto
volume di Henke, nella sua ricostruzione della figura dogmatica del diritto pubblico
soggettivo, anche attraverso un confronto con la meno recente giurisprudenza
amministrativa, cfr. W. HENKE, Das subjektive öffentliche Recht, Tübingen, 1968,
specialmente II Teil, § 14, Öffentliche Rechte gegen die Verwaltung in der älteren
Rechtsprechung, pp. 62-71.
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
357
operata dai nostri pionieri del diritto amministrativo e del diritto
processuale amministrativo in particolare.
Infatti, sebbene i volumi tedeschi da cui abbiano citato siano, anche
fisicamente, proprio gli stessi compulsati da Donato Donati, Carlo
Esposito, ma soprattutto Enrico Guicciardi, sarebbe azzardato dedurne un
debito del Maestro padovano che trascenda la normale ricerca e confronto
analitico con la dottrina straniera.531
Se da un lato l’Autore rappresenta la giurisdizione amministrativa
come obbiettiva, non per questo presuppone l’identità di volontà tra
cittadino e Stato; slegando così le proposizioni che per i colleghi
d’oltralpe stavano come premessa a conseguenza. A questo proposito due
sono state riconosciute le peculiarità della costruzione di Guicciardi.532
Sotto un primo profilo la prevalenza dell’interesse pubblico sul
privato, della collettività sul singolo, può avere rilevanza nel momento
politico, di individuazione del bene della comunità, cioè di confezione
della legge,533
ma una volta che questa sia promulgata, sono egualmente
531 La continuità che lega il Maestro padovano con la dottrina germanica e
segnatamente con la pandettistica è stato ampiamente riconosciuto da M.S. GIANNINI,
Discorso generale sulla giustizia amministrativa, in "Riv. dir. proc.", 1963, p. 527 e ss. In
verità, il debito, più che di contenuti, ci pare di metodo nella progressiva, chiara e
logicamente stringente deduzione dai principi, soprattutto se paragonato ad altri autori,
quali Mantellini e Ranelletti: si pensi, p. es., alla negazione della scientificità, dal punto di
vista dogmatico della stessa situazione giuridica soggettiva dell'interesse occasionalmente
protetto dimostrata in E. GUICCIARDI, Concetti tradizionali e principi ricostruttivi nella
giustizia amministrativa, (Padova 1937), Torino, 1967, p. 4 e ss. Il valore di questo scritto
trascende l'ambito puntuale del suo oggetto, assumendo rilevanza per la Methodenlehre
proposta, sulla scia della migliore tradizione germanica cui Guicciardi aveva direttamente
attinto (di nobile famiglia valtellinese, dall'impegnativo motto soccumbat virtuti fraus, era
figlio di Giuseppe e Maria Tobler, di madre lingua tedesca), richiamando l'attenzione sul
metodo di identità e differenza, alla luce dei principi di non contraddizione e del terzo
escluso. È interessante notare come la riproposizione, da parte di Guicciardi, di questi
canoni del procedimento conoscitivo, che, ricordiamolo, vantano origini nella Grecia
classica, riprenda in pieno la tradizione della metodologia giuridica. Cfr. supra, § I.1.
532 Cfr. LE. MAZZAROLLI, Presentazione a E. GUICCIARDI, La giustizia
amministrativa, ristampa della prima edizione (1942), Padova, 1994, p. VII.
533 Sul senso e la portata, tanto di contenuto quanto di metodo, della politica, intesa
in linea con la tradizione classica, nonché per la distinzione tra “governo” e
“amministrazione”, inteso l’uno quale ricerca ed indirizzo della comunità verso il proprio
bene e, l’altra, quale organizzazione di uomini e cose nel perseguimento dei fini
individuati dal governo, evidenziando altresì le aporie conseguente alla confusione dei
DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO
358
sottoposti ad essa cittadino e Stato-Amministrazione; con la conseguenza
che la prevalenza dell’interesse pubblico eventualmente si ridurrebbe ad
un mero canone ermeneutico e, come tale, fungibile.
Sotto un secondo profilo, si è osservato come mantenere la
giurisdizione sugli atti ed individuare la legittimazione su un elemento
non sostanziale (l’interesse) produca il risultato di ampliare la facoltà dei
singoli di eccitare gli organi di giustizia amministrativa anche in quelle
fattispecie nelle quali “le norme che si assumono violate non risultino
considerare neppure in via del tutto indiretta la loro sfera di interessi”;534
seppure in tal modo si esclude la risarcibilità per violazione degli interessi
legittimi, concepiti, appunto, come res facti.535
Pur riconoscendo la centralità nel dibattito attuale di questo secondo
aspetto, tuttavia sul primo, che ne pare il presupposto, preme richiamare
l’attenzione in accordo con i fini propostici.
Spezzando infatti la giuridica Einheit, sciogliendo il legame che
vedeva costretti cittadino e Stato in un’unica parte sostanziale e
processuale, riconoscendo cioè che tra di essi vi sia alterità di interessi e di
volontà, si può ammettere che, per fattispecie specifiche, virtualmente essi
abbiano, anche in campo pubblico, interessi e volontà distinti, quando non
addirittura configgenti o contrapposti; pur nella soggezione alla medesima
legge che entrambi li regola.
Ed è in fondo il tentativo di recuperare il delicato equilibrio
hegeliano, quell’Aufhebung dello Spirito Oggettivo che alla morte del
Maestro di Berlino sembrava essersi irrimediabilmente perduto. ruoli, cfr. F. GENTILE, Intelligenza politica e ragion di stato, II ed., Milano, 1984, p. 121 e
ss. Cfr. altresì infra alla nota n. 539.
534 Così LE. MAZZAROLLI, op. ult. cit., p. VIII. Cfr. altresì infra, alla nota n. 543.
535 L’intricato problema, che trascende l’economia di questo lavoro, era stato fatto
oggetto di acuta riflessione da parte del nobile valtellinese: E. GUICCIARDI, Risarcibilità da
interessi legittimi, in “Giur. It.”, 1963, che riprende IDEM Risarcibilità di interessi
legittimi? Tentativo di impostazione del problema... da parte di un suo negatore, in Atti del
Convegno Nazionale sul risarcimento del danno patrimoniale derivato da lesione di
interessi legittimi, (Napoli, 27-29. ottobre 1963) Milano, 1965, p.217-226. La risarcibilità
della lesione degli interessi legittimi, limitatamente agli atti, provvedimenti e
comportamenti delle pubbliche amministrazioni in materia urbanistica – edilizia di appalti
ecc., è stata positivamente introdotta dall’art. 35 del D.Lgs. n. 31 marzo 1998, n. 80.
Peraltro, a riprova di quanto viene detto nel testo, il solo momento positivo non ha risolto,
semmai acuito, il problema teorico – pratico della natura formale o sostanziale degli
interessi legittimi.
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
359
Non si può quindi accomunare semplicisticamente la posizione
dell’Autore padovano con le elaborazioni che gli Juristen operano sugli
enunciati degli Epigonen, ma la sua radice teorica deve essere ricercata
altrove.
Occorre infatti fare riferimento alla figura e all'opera di Silvio
Spaventa, che più di ogni altro ha influito sulla dottrina successiva,
specificando come il giurista abruzzese avesse maturato le proprie
posizioni, peraltro assai note, in deduzione rigorosa del proprio approccio
all'opera di Hegel, a differenza dei giuspubblicisti tedeschi, avvenuto
direttamente sull'opera del Maestro di Berlino, poi personalmente
rimeditata anche nel confronto continuo con il fratello Bertrando; e questa
sola osservazione serve per ridimensionare l'ipotesi che le contraddizioni
logiche degli Epigonen siano immediatamente giunte alla dottrina
processual amministrativa italiana della prima metà di questo secolo.536
536 Seppure Teresa Serra ci informa documentalmente dei contatti di Bertrando
Spaventa con gli hegeliani di destra, di cui fanno fede i numerosi rinvii a Hinrinchs,
Gabler, Schaller, oltre che a Rosenkranz, Michelet e Kuno Fischer sparsi nell’opera
spaventiana. Emblematico l’esempio dei manoscritti del 1865 sulla Fenomenologia (in B.
SPAVENTA, Scritti inediti e rari (1840-1880), a cura di D. D’Orsi, Padova, 1966), ove il
testo risulta pieno di note ed aggiunte che rinviano con precisione alle opere dei maggiori
hegeliani di destra, dimostrandone una conoscenza diretta. Meno citati i rappresentanti
della sinistra, dei quali si percepisce la conoscenza indiretta, forse per il tramite di
Michelet, al quale rinvia per distinzione tra destra e sinistra. Infine, viene osservato che per
quanto Spaventa si accosti più alla destra che alla sinistra, legge gli autori di destra con
attitudini apertamente progressiste e in termini che sono di sinistra. Così T. SERRA,
Bertrando Spaventa. Etica e politica, Roma, 1974, p. 37-38, in nota.
Le opere principali del giurista abruzzese, tra cui il famoso mai tenuto Discorso
per l'inaugurazione della IV Sezione del Consiglio di Stato (13.3.1890) sono raccolte in S.
SPAVENTA, La giustizia nell'amministrazione, a cura di Paolo Alatri, Torino, 1949.
Tuttavia, per comprendere la formazione filosofica del Nostro, occorre fare riferimento
agli studi giovanili raccolti in S. SPAVENTA, Dal 1848 al 1861, a cura di B. CROCE, II^ ed.,
Bari, 1923.
Per la ricostruzione del pensiero di Silvio Spaventa, quale teorico generale del
diritto ed amministrativista, nonché per il ruolo da lui svolto nello sviluppo della scienza
dell'amministrazione, cfr. F. FILOMUSI GUELFI, Lezioni e saggi di filosofia del diritto,
Milano, 1949; nonché G. CAPOGRASSI, Il ritorno di Silvio Spaventa, in Opere, VI, Milano,
1959, p. 19 e ss. Più recentemente, cfr. M. NIGRO, Silvio Spaventa e la giustizia
amministrativa come problema politico, in "Riv. trim. dir. pub.", 1970, p. 715; nonché
IDEM, Silvio Spaventa e lo Stato di diritto, in "Foro it.", 1989, V., p. 122; nonché il corposo
e denso saggio di N. DI MODUGNO, Silvio Spaventa e la giurisdizione amministrativa in un
discorso mai pronunciato, in "Dir Proc. Amm.", 1991, n. 3, pp. 375-482.
Oltre che in Salandra, il riferimento all’autore abruzzese appare principalmente in
F. D’ALESSIO, Le parti nel giudizio amministrativo, Roma, 1915; nonché in E. GUICCIARDI,
La giustizia amministrativa, Padova, (1942), III ed. 1954, specialmente p. 67 ove
DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO
360
Proprio il ripensamento critico dell'opera di Hegel, sfociante
tuttavia nella sostanziale adesione alle tesi fondamentali, da un lato
comporta la logicamente stringente deduzione del carattere c.d. obbiettivo
della giurisdizione amministrativa. Per quanto infatti recentemente si sia
inteso ricercare nell'opera del giurista abruzzese spunti per una diversa
soluzione,537
ne viene comunque riconosciuta la prospettiva idealistica con
la correlazione di interesse pubblico ed interesse del singolo.538
Dall'altro, quando Silvio Spaventa, sulla scia del fratello Bertrando,
sembra riconoscere il senso del dovere, l'attitudine a rispettare la regola
propria in ogni uomo in quanto essere ragionevole, logon èkon al modo
dello Stagirita,539
ammette l'alterità dei soggetti ed evita ad un tempo la
semplificazione degli Epigonen. La difficoltà della posizione di Hegel,
ripresa nell'idealismo di Spaventa risiede proprio in questo: nel concepire
che l'interesse del singolo e dello Stato tendenzialmente coincidano,
tuttavia non perché il primo sia annichilito nel secondo, ma proprio perché testualmente si afferma che "tale giurisdizione trova la sua ragion d'essere diretta ed
immediata nella tutela dell'interesse pubblico e nella necessità di assicurare la conformità
ad esso degli atti dell'Amministrazione", con esplicito rinvio in nota a Silvio Spaventa.
537 Cfr. N. DI MODUGNO, op. cit., ma sul punto specialmente p. 451 e ss.
538 "Ma è l'Universale (Stato, governo, diritto) il mezzo in cui gli individui e la loro
soddisfazione hanno e mantengono le loro piene realtà e mediazioni e consistenza". Così S.
SPAVENTA, Dal 1848 al 1861, cit., p. 193, con l'annotazione del curatore B. Croce, che ci
ricorda come tale passo provenga dall'Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio
di Hegel. Al proposito, con il consueto acume, G. CAPOGRASSI (op. cit., p. 19) precisa che
questa correlazione singolo-Stato non impedisce a Spaventa di mantenere il primo distinto
nei confronti del secondo.
Peraltro, la difficoltà concettuale di mantenere i due termini in delicato equilibrio,
introdotta nel dibattito giuridico da Silvio Spaventa, emerge prepotente nelle opere degli
autori di poco a lui successivi, tra cui E. BONAUDI, La tutela degli interessi collettivi,
Torino, 1911, p. 21 e ss., ove pur ammettendo che “l’interesse collettivo comprende
necessariamente l’interesse dei singoli”, non ritiene sia “lecito giungere alla conseguenza
ad ogni individuo possa consentirsi di far valere uti singulus e come suoi propri, gli
interessi che concernono quella comunità di cui è parte”, seppure subito dopo dissente
dall’”eccessivo rigore” delle deduzioni degli autori tedeschi in tema di giurisdizione di
diritto obbiettivo.
539 S. SPAVENTA, op. ult. cit., p. 192-3. Per il significato ed il ruolo della regolarità
come attitudine non convenzionale del soggetto al rispetto delle regole, pur nel loro
mutare, nonché per la collaterale idea di autonomia, quale attitudine a darsi delle regole ed
a rispettarle, in linea con la tradizione classica di Platone ed Aristotele, cfr. F. GENTILE,
Intelligenza politica e ragion di stato, II ed., Milano, 1984, p. 33 e ss.
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
361
il cittadino è il vero soggetto, libero in quanto dotato di propria volontà
all'interno di un ordinamento cui appartiene, cioè, con Hegel, l'essenza
dell'autocoscienza. È in fondo la quadratura del cerchio e non c'è da
stupirsi della difficoltà del periodare del Maestro di Berlino, né di quello
del giovane Spaventa che tentava di riordinare le proprie idee.540
540 Conviene richiamare l’esposizione del problema nel § 260 dei lineamenti di
Filosofia del Diritto di Hegel, cioè il passo da cui muove die ganze Geschichte della Destra
hegeliana: "Lo Stato è la realtà della libertà concreta; ma la libertà concreta consiste nel
fatto che l’individualità personale, e gli interessi particolari di essa, hanno tanto il loro
pieno sviluppo e il riconoscimento del loro diritto per sé (nel sistema della famiglia e della
società civile) quanto, in parte, si mutano, da sé stessi, nell'interesse della generalità, e in
parte, con sapere e volontà, riconoscono il medesimo, cioè in quanto loro particolare
spirito sostanziale, e sono atti al medesimo, in quanto loro scopo finale; così che né
l'universale ha valore ed è compiuto senza l'interesse, il sapere e il volere particolare, né gli
individui vivono come persone private semplicemente per quest'ultimo, e, senza che
vogliano, in pari tempo, nel e per l'universale, e abbiano un'attività cosciente di questo
fine. Il principio degli Stati moderni ha quest'immensa forza e profondità: lasciare che il
principio della soggettività si porti a compimento in estremo autonomo della particolarità
personale, e, insieme, riportarlo all'unità sostanziale, e, così, mantenere questa in esso
medesimo". Cfr. G. W. F. HEGEL, Lineamenti di Filosofia del diritto, trad. it. di F.
MESSINEO, Bari, 1913, rist. 1974, p. 246. In questo senso, guardando al singolo passo e
dimenticando il sistema generale, si può comprendere l’interpretazione datane dagli
Epigonen.
Dal canto suo, il Giurista abruzzese, rimeditando l'insegnamento hegeliano
scriveva: "La libertà vera è obbiettiva e subbiettiva nel tempo stesso: voglio dire che essa
deve aver contenuto la ragione obbiettiva e per forma la subbiettività dello spirito. Io sono
libero se voglio fare ciò che è ragionevole:
- io devo fare la legge, e devo volere la legge. La legge deve essere la mia volontà.
Gli astri si muovono secondo una legge razionale: non sono liberi. Per dirsi libero l'uomo
deve volere la legge: questo è il lato della soggettività.
- Ora, nello Stato, questo principio della soggettività della libertà come ha da aver
luogo? Lo Stato è la libertà: in esso cioè la libertà obiettiva (il ragionevole della libertà)
giunge alla sua verità: e parimenti della libertà soggettiva. Ma la libertà soggettiva, come
coscienza, non ha la sua verità che nella rappresentazione: la sua verità nello Stato è,
dunque, che vi sia rappresentata. Di qui il principio della rappresentazione" E ancora: "Se
io fo ciò che devo senza volerlo, io non sono neppure libero. Se io non voglio il mio
dovere, esso rimarrà esterno a me: non è la mia essenza, e non può essere la mia libertà: io
non mi riconosco in esso, esso è autorità, non libertà". Cfr. S. SPAVENTA, Dal 1848 al
1861, lettere, scritti e documenti, pubblicati da B. CROCE, II ed., Bari, 1923, p. 191e ss;
ove lo stesso autorevole curatore avvisa che proprio negli anni 1955-57 Spaventa
intraprese la traduzione della Fenomenologia dello Spirito di Hegel. Cit. entrambe in N. DI
MODUGNO, Silvio Spaventa e la giurisdizione amministrativa in un discorso mai
pronunciato, in "Dir Proc. Amm.", 1991, n. 3, rispettivamente p. 393 e 396.
DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO
362
Ed è verosimilmente per queste ragioni che, nella variante italiana
della prima giustificazione teorica dell'interesse legittimo, dalla
concezione di Stato accolta, si sviluppa la duplice logica conseguenza che
la giustizia amministrativa riguarda i provvedimenti, nella loro conformità
al pubblico bene;541
ma anche -a differenza della tradizione germanica-
che il cittadino è dotato di capacità giuridica di diritto pubblico.542
541 "In questa giurisdizione non si tratta di definire controversie nascenti dalla
collisione di diritti individuali e omogenei, ma di conoscere solamente, se il diritto
obiettivo sia stato osservato.
Ciò può servire mediatamente anche all'interesse dell'individuo, ma non ne è
l'immediata conseguenza. Il diritto obiettivo qui si realizza in sé e proprio conto, senza che
ne nasca in ogni singolo caso un diritto soggettivo, o, se può nascerne, non è qui la sede
dove possa farsi valere. L'interesse individuale offeso è solamente preso come motivo e
occasione per l'amministrazione stessa per il riesame dei suoi atti; ma non è l'oggetto
proprio della decisione, a cui tale riesame può metter capo.” Così S. SPAVENTA, Per
l'inaugurazione, cit. p. 235. Il passo continua con questa interessante deduzione: "Il
contenuto della decisione può essere duplice, com'è duplice il diritto d'ispezione delle
autorità superiori sulle inferiori: può essere la conferma o la revoca dell'atto impugnato, o
la emanazione di un atto nuovo in luogo di quello di cui si chiede la riforma" (ibidem); e
ben si può dire che in questo caso juger de l'Administration c'est administrer. Sul punto
rimando a N. DI MODUGNO, op. cit., p. 422-3. cfr. altresì le successive pagine 426 e ss,
nonché 458 e ss. per le indicative deduzioni che l'autore trae da tale affermazione di
Spaventa.
542 Così anche L. IANNOTTA, Motivi del ricorso e tipologia degli interessi nel
processo amministrativo, I, 1989, p. 28, n. 11. Cfr. altresì le anticipatrici intuizioni di W.
HENKE, Das subjektive öffentliche Recht, Tübingen, 1968, specialmente §2, Actio und
Anspruch, p. 4, nonché V Teil, Das subjektive öffentliche Recht im Verwaltungsprozeß, §
21, dal significativo titolo Verwaltungsgerichtsberkeit ohne subjekive öffentliche Rechte, p.
141 e ss.
La primogenitura dell'opera di Hegel per lo studio della scienza
dell'amministrazione, con le conseguenze logiche che si sono illustrate, è riconosciuta
anche da un Autore segnatamente aderente, quando non iniziatore, dell'orientamento c.d.
"soggettivo": cfr. M. NIGRO, Il procedimento amministrativo fra inerzia legislativa e
trasformazioni dell'amministrazione, in "Dir. Proc. Amm.", 1989, n. 1, p.7, n. 3. Peraltro,
lo stesso Autore aveva lucidamente dedotto le distinte posizioni di Rudolf von Gneist in
Germania e di S. Spaventa in Italia, dal diverso approccio con l'imponente costruzione
hegeliana, seppure -come esposto nel testo-, per quanto riguarda von Gneist il riferimento
debba essere ricercato non direttamente nel confronto dell'autore prussiano con il testo di
Hegel, ma attraverso la rappresentazione e semplificazione datane dalla Destra hegeliana.
Cfr. M. NIGRO, Silvio Spaventa e lo Stato di diritto, cit., tuttavia le differenze tra von
Gneist e Spaventa erano già state messe in evidenza da F. FILOMUSI GUELFI, Enciclopedia
giuridica, Napoli, 1907, p. 553, IDEM, Silvio Spaventa, Lanciano,1894. In senso opposto,
tesse la similitudine tra von Gneist e Spaventa, B. SORDI, Giustizia ed amministrazione
nell'Italia liberale, la formazione della nozione di interesse legittimo, Milano, 1985, p. 209
e ss.
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
363
Ed è proprio questo secondo aspetto -ben presente nel sistema di
Hegel, ma lasciato in ombra dagli interpreti- ad aprire la porta allo
svilupparsi della dottrina del processo amministrativo come processo di
parti, costituendone la chiave di volta.543
Per la verità, nella stessa prospettiva, non dissimile dalla figura
dell’interesse legittimo è anche la posizione del diritto soggettivo perfetto.
Non può essere un caso, infatti, che una delle opere sistematiche
sull’argomento, ritenute allora come oggi di importanza capitale, cioè il
volume di Thon sulla norma giuridica ed il diritto soggettivo, si apra con
una citazione di Hegel, posta quasi a fondamento dell’intera costruzione.
Scrive l’autore di Rostock: “Seit Hegel ist es üblich, das Recht im
objectiven Sinne als den allgemeinen Willen zu bestimmen”.544
Ed in
perfetta conseguenza hegeliana viene dedotta la figura del diritto
soggettivo dal diritto oggettivo. È già stato fatto osservare, infatti, come –
unico caso in tutta la sua opera- sia data distinzione tipografica
all’affermazione per la quale “das gesammte Recht einer Gemeinschaft ist
nichts als ein Complex von Imperativen”,545
sicché la violazione di alcuni
543 Per l'enucleazione del concetto di parte nel processo amministrativo, in
deduzione dai principi generali del diritto pubblico, cfr. F. BENVENUTI, Parte (Dir. Amm.),
in "Enciclopedia del Diritto Giuffré", vol. XXXI, Milano, 1981, p. 962 e ss; nonché IDEM,
La discrezionalità amministrativa, Padova, 1986. Per alcune puntuali considerazioni
sull’evoluzione, non priva di contraddizioni, dalla natura oggettiva alla soggettiva della
giurisdizione amministrativa, con riferimento anche a conseguenti aspetti pratici, cfr. LE.
MAZZAROLLI, Profili evolutivi della tutela giurisdizionale amministrativa, in “Dir e Soc.”,
1990, p. 3 e ss.; IDEM, Notificazione alle Amministrazioni statali dei ricorsi al giudice
amministrativo e rilevanza della distinzione tra giudizi sugli atti e giudizi sui rapporti, in
“Dir. proc. amm.”, 1992, p. 435.
544 Cfr. A. THON, Rechtsnorm und subjectives Recht. Untersuchungen zur
allgemeinen Rechtslehre, Weimar, 1878, p. 1. “Da Hegel in avanti si definisce
comunemente il diritto oggettivo come la volontà generale”. In modo logicamente corretto
l’autore richiama anche con precisione bibliografica G. W. F. HEGEL, Philosophie des
Rechts, § 82 Zusatz, avvertendo di voler lasciare impregiudicata la questione se la volontà
generale profetata di Hegel sia l’autentica volontà della comunità. Da parte nostra, per
quanto si è visto supra riteniamo di poter sciogliere il dubbio in senso positivo, ritenendo il
diritto obbiettivo nient’altro che la cristallizzazione del Volksgeist.
545 “L’intero diritto di una società non è altro che un complesso di imperativi”.
Così A. THON, Rechtsnorm und subjectives Recht, cit., p. 8, con grassetto nel testo. Lo
speciale sistema di co-attività delineato da Thon trova forse la sua radice teoretica in K.
BINDING, Die Normen, vol I, Leipzig, 1872. Cfr. altresì A. RAVÀ, Il diritto come norma
tecnica, Cagliari, 1911, p.71.
DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO
364
costituisce sovente la condizione di ciò che da altri viene comandato,
attesa la loro stretta connessione. E pur nella prospettiva imperativistica,
che già emerge e di cui si dirà, non risulta una negazione del fondamento
hegeliano il riferimento alla socialità del diritto, con la precisa
affermazione che una norma deve ritenersi giuridica per il solo fatto di
essere considerata obbligatoria per il reciproco contegno dei consociati,
con la conseguenza che lo Stato non può essere ritenuto il solo creatore
del diritto.546
Tuttavia l’aspetto più interessante è dato dalla definizione
“in negativo” del diritto soggettivo -che aveva fatto dire a Binding che i
diritti soggettivi di Thon non sono diritti-547
ove il nostro afferma che il
diritto soggettivo sorge in capo al soggetto tutelato dalla norma, in base ad
una disposizione del diritto oggettivo, in forza della quale, in caso di
trasgressione delle norme stesse, viene assicurato al titolare un mezzo,
cioè la pretesa, allo scopo di realizzare ciò che era stato comandato o
rimuovere ciò che era stato vietato.548
In questo senso, l’essenza del diritto
soggettivo sarebbe nella pretesa ed è già stata messa bene in evidenza
l’assonanza con la proposizione hegeliana del diritto come negazione
della negazione, cioè come strumento per ristabilire l’ordine che era stato
turbato con la violazione del diritto oggettivo,549
così come la pena è la
negazione della negazione, cioè del delitto che aveva negato il precetto.
Tuttavia, il punto essenziale ci sembra un altro: la circostanza che il diritto
soggettivo nasca dal diritto oggettivo, che sia stato definito come il volere
della comunità, il Volksgeist; ed è importante, allora, precisare che il
diritto oggettivo non è monopolio dello Stato. In altri termini, dalle
premesse poste si può evincere che le situazioni giuridiche soggettive
attive del singolo non sono a lui ottriate dallo Stato, procedendo anche da
altre realtà, se si vuole dagli Stände che Gierke550
aveva profetato, e gli
546 Cfr. A. THON, Rechtsnorm cit., p. 345 e ss.
547 Nella “Kritische Virteljahrsschrift”, 1879, p. 564 e ss.
548 Cfr. A. THON, Rechtsnorm cit., p. 218.
549 Cfr. A. LEVI, Introduzione alla trad. it. di A. THON, Rechtsnorm cit., Padova,
1939, p. XLVII, ove parimenti viene negato un riferimento di Thon alla dottrina
pessimistica di Schopenhauer.
550 Sulla rappresentanza nel Medioevo, per il particolare ruolo che ha avuto nella
trattazione, occorre ricordare nuovamente l'interessante ricostruzione di O. von GIERKE, J.
Althusius und die Entwicklung der naturrechtlichen Staatstheorien, Breslau, 1880, trad. it.
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
365
sono accordate per un certo scopo connesso alla comunità, non certo come
uno spazio ritagliato sul modello dell’unicità, come il luogo, cioè, ove
l’unico ritorna ad essere sovrano, ad esplicare tutta la sua individualità.
Non di meno, tutte queste suggestioni debbono fare i conti con
l’intero disegno di Thon e con le posizioni dottrinali, allora ed ancora
dominanti, dell’imperativismo giuridico, cui, per la verità, nemmeno il
professore di Jena si affranca. Infatti, oltre alla citazione che dipinge il
diritto come complesso di imperativi, evidenziata con carattere grassetto
dallo stesso autore, nella prefazione al proprio lavoro,
programmaticamente si dichiara l’intento di sottoporre ad un rinnovato
esame il concetto di diritto soggettivo. Muovendo infatti, come si è visto,
dal presupposto (latamente hegeliano) che il diritto di una società sia
interamente costituito dalle sue norme, occorre individuare il momento nel
quale una parte del tutto (il diritto oggettivo) diventi patrimonio del
singolo (il diritto soggettivo). Occorre dunque, per il nostro autore,
prendere le mosse dalla norma, per coglierne l’essenza (l’imperatività) e
le conseguenze della sua trasgressione. Un tanto passa per la soluzione del
problema di chi sia il destinatario delle norme: la circostanza che esse si
dirigano anche nei confronti degli incapaci assicura che la violazione da
parte loro garantisce il risarcimento del danno a chi di riflesso è tutelato
da quelle norme.
Come si vede, non solo gli interessi legittimi, ma anche i diritti
soggettivi, in questa prospettiva, sono accordati al singolo come tutela
riflessa per la violazione delle norme statali, secondo quella definizione in
negativo, vista sopra, che portava Binding a sostenere che i diritti
soggettivi prospettati dal suo antico compagno di studi sono “non diritti”.
Spetta a noi ricercare se le difficoltà ad inquadrare un “diritto”
dell’elettore ad essere rappresentato derivino anche dalla particolare
costruzione del diritto pubblico soggettivo.
In sillogistica deduzione del suo carattere riflesso si perviene alla
quadripartizione del diritto soggettivo, inteso come aspettativa di
pretese,551
come tutela delle norme,552
come godimento dei beni protetti
Torino, 1975, ma già anticipato in Das deutsche Genossenschaftsrecht, Darmstad, 1868
(cfr. altresì, IDEM, Die Grundbegriffe des Staatsrecht, Tübingen, 1915), dove viene ripresa
la teoria federalistica e corporativa propria dell'Althusius per riproporre, in anticipo su
Santi Romano e Hauriou, la teoria pluralista della società, costituita da corporazioni che si
intrecciano e si raccordano, gli Stände, Gemeinde, Genossenschaften.
551 Cfr. A. THON, Rechtsnorm cit., specialmente p. 108, ove si tratta dei diritti
pubblici e privati, modulando i primi sulla struttura assoluta dei secondi. L’idea di un
DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO
366
dalle norme,553
come facoltà, cioè come posse giuridico, liceità, di cui
ampiamente si dirà in seguito,554
seppure alla prima definizione il
prosieguo degli studi riserverà la maggior fortuna. A questa, infatti, si
deve l’incrinatura del dogma tradizionale che vede nel diritto reale lo
schema del diritto soggettivo, inteso come immediata signoria sulla cosa.
E, per quanto inaspettatamente, è qui che si può trovare un elemento utile
per il seguito della nostra indagine. Il diritto di proprietà, come ius
escludendi omnes alios non significa che all’acquisto del diritto derivi
immediatamente il possesso del bene, che è, appunto, res facti
manifestantesi come un potere effettivo sulla cosa. Non sarebbe dunque
l’acquisto del diritto reale a dipendere da un rapporto immediato con la
cosa; all’opposto, quest’ultimo dovrebbe essere conseguenza e
diritto pubblico obbligatorio farà molta fatica ad affermarsi, dovendo confrontarsi con
l’idea di sovranità dello Stato. Infatti, una situazione giuridica attiva del cittadino di
carattere obbligatorio nei confronti dello Stato produrrebbe una soggezione di quest’ultimo
al primo, del tutto alla parte (secondo la prospettiva geometrica che qui si manifesta)
costituirebbe una capitis deminutio inaccettabile della sovranità statale. Parimenti, risulta
di difficile configurazione anche un diritto obbligatorio a favore dello Stato, che vede
impegnato nei suoi confronti il privato: anche in questo caso il soddisfacimento della
pretesa dello Stato passa attraverso l’adempimento del cittadino, secondo quella che si
suole chiamare la collaborazione del debitore nelle obbligazioni: anche in questo caso la
sovranità dello Stato ne risente, poiché il suo soddisfacimento passa per l’opera (spontaneo
o coatta) di un altro soggetto. Proprio per questa ragione i diritti soggettivi pubblici
tendono a configurarsi originariamente come diritti assoluti, cioè luogo di signoria
dell’unico, sia esso lo Stato, sia esso l’individuo, accomunati nella loro pretesa unicità.
552 Cfr., e pluribus, E. R. BIERLING, Juristische Prinzipienlehre, 3 Voll, Freiburg
und Leipzig, 1894-98, vol I (1894), p. 145 e ss.
553 Cfr. la nota affermazione che vede il diritto come “eine von der Rechtsordnung
verliehene Willensmacht oder Willensherrschaft, proposta da B. WINDSCHEID, Lehrbuch
des Pandektenrechts (1962-70), VIII ed., I vol., Freiburg, 1900, p. 131.
554 Ancora B. WINDSCHEID, Pandekten. In antitesi a questa costruzione, escludono
che i giuristi romani conoscessero la categoria dei diritti soggettivi, affermando il carattere
moderno del concetto M. VILLEY, L’idée du droit subjectif et les systèmes juridiques
romains, in “Revue d’historie du droit” (?), 1946 – 47, p. 201 e ss.; B. ALBANESE, Appunti
su alcuni aspetti della storia del diritto soggettivo, in “Studi in onore di Arturo Carlo
Jemolo”, IV, Milano, 1963, p. 3 e ss.; R. ORESTANO, Azione, diritti soggettivi, persone
giuridiche, Bologna, 1978; IDEM, Verso l’unità della conoscenza giuridica, in “Rivista
trimestrale di diritto pubblico”, 1984, p. 635.
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
367
contrassegno d’ogni diritto reale.555
Ciò che fonda il diritto è dunque il
riconoscimento altrui, per il tramite dell’ordinamento giuridico. Per
converso, il dovere, anche nella concezione imperativistica è un momento
dello stesso concetto di comando normativo, sicché si definisce dovere la
situazione giuridica soggettiva del destinatario dei comandi, sia delle
norme primarie (che hanno per destinatari tutti i soggetti di diritto, anche
gli incapaci), sia le norme dette secondarie, che hanno per destinatari i
funzionari pubblici, concretando in capo ad essi, appunto, il dovere
d’ufficio, per il perseguimento, con altri mezzi, dello scopo che non è
stato raggiunto dalle norme primarie. Il dovere giuridico è dunque
correlativo e speculare al diritto, sicché l’essere destinatari di un dovere o
essere titolari di un diritto descrive dei concetti paralleli.556
Il parallelismo
conduce l’attenzione sul rapporto giuridico, cioè sulla necessaria
collaborazione (spontanea o meno) di almeno due soggetti per il
riconoscimento del diritto. Ecco allora che la vera caratteristica del diritto
soggettivo si ridurrebbe alla pretesa, definita come la forza prestata
dall’ordinamento giuridico di porre la condizione preliminare per l’entrata
in vigore degli imperativi che impongano a determinati organi statuali di
ordinare la prestazione di un rimedio giudiziario, cioè di un procedimento
contro gli obbligati al fine di produrre o ripristinare la situazione, al
raggiungimento o mantenimento della quale era preposto l’imperativo
trasgredito.557
Quando il riferimento non è più al dominium ma alla
proprietas, pur permanendo l’idea della realità nel suo collegamento con
555 Cfr. A. THON, Rechtsnorm cit., specialmente p. 301, ove l’autore svolge tutta
una serie di esempi a dimostrazione della scissione tra diritto e potere che induce a
ricercare l’essenza del primo non tanto sul secondo, quanto piuttosto sul riconoscimento
accordato dall’ordinamento, cui consegue la tutela.
556 Cfr. C. MAIORCA, voce Diritto soggettivo, in “Enciclopedia Giuridica
Treccani”.
557 Cfr. A. THON, Rechtsnorm cit., p. 228. Lo stesso autore non si nasconde le
obiezioni alla sua costruzione: la vita quotidiana mostra che chi viene leso dall’illiceità non
sempre riesce a far valere, nemmeno davanti l’autorità giudiziaria, il suo buon diritto; così
come chi non ha diritto, può trovare aiuto presso il giudice. Un tanto potrebbe faro
concludere –sostiene il nostro- che diritto e tutela giudiziaria non stiano in intima
connessione. Per questo, in realtà, la pretesa consiste “unicamente nella potestà di dar la
sveglia agli imperativi che comandano al giudice di prestare assistenza giudiziaria. Se a
questo comando da parte del giudice non è stato dato seguito, ciò non muta nulla del fatto
che il comando pur tuttavia è stato emanato” (sic!); cfr. op. cit., p. 229. Cfr. anche la
traduzione italiana s.n. (ma, A. LEVI), Padova, 1939, p. 224-5.
DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO
368
l’assolutezza della difesa, si introduce l’idea di quel momento ulteriore
della difesa che è l’intervento coercitivo degli organi pubblici, senza i
quali l’esercizio dell’actio potrebbe essere mero flatus vocis. Qui, allora,
gli elementi della definizione del diritto soggettivo sono, da un lato,
l’interesse del privato, che non solo chiede, ma in prospettiva ottiene
protezione; e, dall’altro lato, l’intervento protettivo, inteso come momento
autonomo che può intervenire o meno. In questo modo si coglie appieno
la definizione di Rudolf von Jhering, che si concreta su questa
concatenazione: accogliendo la riunificazione di foro interno e foro
esterno, tanto crudelmente separati da Kant, il professore di Gottinga
afferma che la lotta per il diritto è, in primo luogo, un dovere della
persona verso sé stessa, poiché con il suo diritto difende le condizioni
etiche della sua vita, giacché l’onore e la proprietà non sono di meno della
vita ed al di sopra del materiale, nel diritto v’è un valore ideale, che
costituisce il valore del Diritto.558
Tuttavia, ed è quanto più interessa ai
nostri fini, la lotta per il diritto costituisce anche dovere verso la comunità
(Gemeinwesen). Dacché il diritto astratto (il diritto oggettivo) dipende dal
concreto (il diritto soggettivo) quanto il secondo dal primo. Sicché, chi
agisce per difendere il proprio diritto, agisce per difendere il Diritto:
l’esercizio dell’azione sarebbe l’occasione per por rimedio al turbamento
concretatosi. Di più, difendendo il proprio diritto, il singolo difende
l’ordinamento della vita socievole e coopera, in fondo, all’attuazione
dell’idea di Diritto, cioè al diritto ideale; anzi, l’autore si spinge fino ad
affermare che lo stesso spirito dell’egoismo si mostra compreso di tale
verità e la conservazione del diritto fa la forza dello Stato.559
Di fronte a
558 Cfr. R. VON JHERING, Der Kampf um’s Recht, Wien, 1873, specialmente p. 42 –
68, ove viene tematizzata la rilevanza etica del diritto soggettivo, tranne nei casi di
violazione puramente materiale, stigmatizzando il calcolo nell’esercizio dell’azione in
dipendenza di motivi economici, che possono ottundere l’affermarsi della giustizia.
559 Cfr. R. VON JHERING, Der Kampf um’s Recht, cit., 69 e ss.; 90 e ss. In tutta
l’opera si rinviene il continuo riferimento all’idealismo, all’utilità del singolo connessa a
quella del tutto, al beneficio che può derivare al diritto pubblico dalla precisa attuazione
del diritto privato; il cittadino è strumento per l’affermarsi dello Stato: in tanto gli sono
accordate situazioni giuridiche soggettive in quanto queste siano funzionali ai bisogni dello
Stato. Sul punto, cfr., si vis, il mio Adolfo Ravà. Fra tecnica del diritto ed etica dello Stato,
Napoli, 1998, p. 335 e ss. In questo senso si comprende anche il significato dei quelle
costruzioni che prevedono un dovere di comportamento come responsabilità verso sé
stessi. La formula della responsabilità verso sé stessi (“Verschulden gegen sich selbst”) si
trova per la prima volta, a quanto ci risulta, in E. ZITELMANN, Allgemeine Teil, Leipzig,
1901, p. 152. N. IRTI (Due saggi sul dovere giuridico. Obbligo – Onere, Napoli, 1973, p.
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
369
tali affermazioni, sottolineare le assonanze hegeliane appare invero
superfluo. Tale posizione che vede il diritto come interesse protetto, non si
sostituirebbe né sarebbe in contraddizione con la definizione di
Windscheid dedotta dalla struttura dell’actio in rem.560
In questo senso è
stato notato che la definizione in termini di tutela sposta il punto di
preminenza dal soggetto che chiede la tutela, alla norma che offre la
tutela, avviando così le premesse per la concezione normativa
imperativistica ed alla conseguente definizione del diritto soggettivo come
un riflesso ed in un certo senso come un prodotto della norma di tutela,
seppure un prodotto sprovvisto di autonomia definitoria.561
Ed in effetti,
per le osservazioni poste nei paragrafi precedenti, i germi di questa
95, nota) avverte che la prima ricezione in Italia di siffatto principio può rinvenirsi in G.
MESSINA, Contributo alla dottrina della confessione (1902), ora in Scritti giuridici, vol.
III, Milano, 1948, p. 27, nonché IDEM, La simulazione assoluta (1907), in op. ult. cit., vol.
V, Milano, 1948, p. 82-83.
560 Cfr. B. WINDSCHEID, Diritto delle Pandette, trad. It. di C. Fado e P.E. Bensa,
Torino, 1902, I, 1, 172 e ss.
561 Così, testualmente, C. MAIORCA, voce Diritto soggettivo, in “Enciclopedia
giuridica Treccani”, cit., p. 3. Peraltro l’autore ha l’accortezza di avvisare subito che a ben
considerare l’ottica e l’idea della res publica, che egli disinvoltamente equipara all’idea
moderna di Stato, prenderebbe il posto della Civitas e della familia, della gens e della
tribus, che richiama piuttosto l’idea di comunità (aristotelicamente intesa, crediamo), che
nel diritto è matrice diretta in una perfetta correlazione – identificazione. Cosicché se è
dato conciliare e commisurare la giuridicità all’idea ed alla realtà della “comunità”, in uno
con il riferimento all’idea di ciò che si denomina Stato, vi sarebbe ancora posto per una
definizione della giuridicità, come qualificazione teoricamente distinta da politicità; e, con
ciò, ad una qualificazione del diritto soggettivo, sia pur restando nei termini e nel quadro
del discorso dogmatico. In questo senso sarebbe accettabile la definizione di Rudolf von
Jhering, che parlava –si è visto- di diritto come interesse protetto, ma solo in quanto calata
nel Geist des römisches Rechts (ibidem). La tesi non convince. Per quanto sia lecito tessere
un parallelo (come pur è stato anche autorevolmente fatto) tra Aristotele ed Hegel, da un
lato bisogna osservare, come si è detto, che la radice dei giuspubblicisti in esame in esame
affonda più nell’esegesi semplificata degli allievi che non alla conoscenza del Maestro
(salva, forse, le citazioni dirette all’opera del Filosofo di Berlino da parte di Thon),
dall’altro, comunque, crediamo che (limitatamente all’aspetto giuridico politico che qui
interessa) il filo tra lo Stagirita e il Filosofo dell’idealismo si spezzi nel momento in cui
l’Aufhebung dello Stato assorba in sé la pluralità degli èndoxa della koinonìa. Per una
panoramica ragionata sui nessi tra i due Filosofi, con particolare riguardo al momento della
logica, e del sillogismo in modo speciale, cfr. S. FUSELLI, Forme del sillogismo e modelli
di razionalità in Hegel. Preliminari allo studio della concezione hegeliana della
mediazione giudiziale, Trento, 2000, pag. 82, nota 69.
DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO
370
costruzione si trovano tutti nella presupposizione di identità di volontà tra
cittadino e Stato, con la conseguente irrilevanza di un momento
autenticamente rappresentativo. Sicché, a ben vedere, la differenza tra
diritti soggettivi ed interessi legittimi potrebbe dirsi meramente
quantitativa.562
Queste le premesse concettuali sottese al dibattito sulla libertà, o
meglio, alla configurazione giuridico-formale della libertà, che agitava la
dottrina tedesca e che sfociò in un primo momento nella concezione della
libertà come diritto riflesso, successivamente in quella della libertà come
diritto pubblico soggettivo.
Più in generale, il senso della «questione» posta dalla categoria dei
diritti pubblici subbiettivi è stato ben espresso, sullo scadere del XIX
secolo, da Santi Romano che l’ha compendiato nella seguente domanda:
“nella sfera del diritto pubblico è possibile che esistano dei diritti
subbiettivi, pertinenti ad altre persone che non siano lo Stato ?”563
Le risposte, come vedremo, furono diverse, ma si può rilevare,
almeno all’inizio, una tendenziale inclinazione a negare, o quanto meno,
ad ammettere in termini ristretti, tale categoria: insomma, anche i diritti
soggettivi pubblici (come in Francia i diritti di libertà) «lottarono» per
affermarsi.
Sotto il profilo concettuale, abbiamo visto, le difficoltà
all’ammissione di diritti soggettivi pubblici dei singoli nei confronti dello
Stato derivavano direttamente dalla concezione volontaristica del diritto
ed imperativistica dello Stato, all’epoca largamente predominanti nella
dottrina tedesca: infatti, concepito il diritto essenzialmente come volontà,
e posto il problema in termini di contrapposizione tra la volontà dello
Stato e la volontà del singolo necessariamente soccombente alla prima, se
si configura l’ipotesi di un diritto nei confronti dello Stato, la risposta,
562 E non è un caso che la dottrina parli tradizionalmente di “diritti affievoliti” per
descrivere la minor tutela offerta ad una situazione giuridica soggettiva che diviene minus
quam plena, oppure di “diritti in attesa di espansione”, per indicare le posizioni che
necessitano di un quid pluris per assurgere a “pretese” nel senso indicato nel testo. Cfr. M.
CAFAGNO, La tutela risarcitoria degli interessi legittimi: fini pubblici e reazioni di
mercato, Milano, 1996; nonché L. IANNOTTA, Atti non autoritativi ed interessi legittimi,
Napoli, 1984.
563 Cfr. S. ROMANO, La teoria dei diritti pubblici subbiettivi. Nozioni sistematiche,
Milano, 1897 (Estratto da Primo trattato completo di diritto di diritto amministrativo
italiano, a cura di V. E. ORLANDO, Milano, 1900, vol. I, p. 2.
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
371
nell’ambito del diritto pubblico, non poteva che essere negativa.564
Se lo
Stato è la fonte del diritto, se esso è dotato di un potere sovrano, allora
esso non può tollerare situazioni giuridiche individuali per esso
svantaggiose, in quanto, altrimenti, ne risulterebbe menomata e, con ciò
stesso negata, la sua sovranità.
Ed, infatti, la neonata dottrina pubblicistica tedesca mentre non
mancò di rivestire, sul modello privatistico, lo Stato di personalità
giuridica, anzi facendo della personalità giuridica dello Stato il
fondamento del diritto pubblico (nonché, in definitiva di tutto il diritto),
dimostrò non poche remore ad ammettere una titolarità di situazioni
giuridiche soggettive di vantaggio in capo ai singoli nei confronti dello
Stato: non erano, si badi bene, i diritti soggettivi pubblici dello Stato ad
essere messi in discussione, ma i diritti soggettivi pubblici dei singoli.
Il rifiuto più radicale della categoria fu espresso da Bornhak, il più
autorevole trattatista del diritto pubblico prussiano, il quale arrivò a
proporre di abolire la stessa categoria dei diritti pubblici soggettivi; più
moderata, invece, la posizione del massimo trattatista del diritto pubblico
imperiale germanico, Laband, il quale ammise la categoria, ma configurò,
in capo ai cittadini, tassativamente (solo) tre diritti soggettivi pubblici: il
diritto del cittadino ad essere protetto all’esterno, il diritto del cittadino ad
essere protetto all’interno, il diritto di partecipare alla vita politica,
seppure, come si vede, più che di tre “diritti”, si tratta di tre categorie
generali, attinenti ai diritti civili e politici, speculari (anche) a quelli che
sono i compiti di benessere della pubblica amministrazione.
Anticipiamo fin d’ora che la posizione di Gerber in ordine alla
ammissibilità o meno di diritti soggettivi pubblici è da sempre
controversa, non essendo facile stabilire se egli abbia inteso negare in
tutto o in parte la categoria, ma nel complesso può dirsi, aderendo in ciò al
giudizio di Romano,565
che egli l’ammetta (tanto in capo allo Stato, quanto
in capo ai sudditi) seppur in limiti ristretti.
Come si è detto, Gerber concepisce lo Stato, politicamente, come
un organismo,566
una collettività nazionale unitaria, e, giuridicamente,
565Cfr. S. ROMANO, La teoria dei diritti pubblici subbiettivi, cit., p. 8: “non deve
confondersi la negazione di alcuni diritti pubblici, con la negazione di tutti questi”.
566 Abbiamo già accennato ad una evoluzione, nel pensiero di Gerber, nel modo di
concepire lo stato: inizialmente egli rifiuta la concezione dello stato-persona giuridica (sul
modello romanistico) introdotta nella dottrina tedesca da Albrecht, asserendo che
l’accoglimento di essa comporta un ritorno al diritto privato, nel senso che l’intero diritto
DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO
372
come un’unità di volontà: sotto il profilo giuridico, quindi, lo Stato si
configura, e non può che configurarsi, come «unità di volontà» dal
momento che giuridicamente non esistono altro che rapporti di volontà.567
Questi rapporti (di volontà), in cui consistono essenzialmente i
diritti soggettivi, si atteggiano però in maniera diversa nel diritto privato e
nel diritto pubblico: mentre nel diritto privato si tratta di rapporti di
volontà tra soggetti posti su un piano di parità giuridica, implicanti facoltà
liberamente disponibili dai singoli (agere licere), il diritto pubblico si
caratterizza per una relazione di sovra (Stato)–sotto (individuo)
ordinazione tra i soggetti del rapporto giuridico, per cui di fronte al
fondamentale diritto di dominio (Herrschftsrecht) dello Stato si pongono i
diritti soggettivi pubblici dei singoli, i quali, però, non spettano al singolo
in quanto tale, ma solo in quanto membro della collettività o della persona
fisica investiti di una particolare funzione pubblica,568
per cui tali diritti
pubblico viene costruito e concepito (esattamente come il diritto privato) quale sistema di
relazioni intersoggettive, di rapporti tra lo Stato-persona e i sudditi, tra lo Stato e il
monarca medesimo; suggerisce di far riferimento al concetto di organismo morale,
concetto che sa cogliere e mettere in luce la peculiarità del diritto pubblico, perché colloca
lo Stato su un piano superiore a quello di parte di un normale negozio giuridico; sul punto
cfr. M. FIORAVANTI, Giuristi e costituzione politica nell’Ottocento tedesco, cit., p.200.
Aggiungiamo, e sottolineiamo, che questo concetto di organismo, che Gerber pone a
fondamento del diritto pubblico, è “tutt’altro che un concetto giuridico (..), esso appartiene
alla teoria generale della politica e dell’etica”; cfr. C. F. GERBER, Diritto pubblico, cit.,
p.43. Successivamente anche Gerber metterà la concezione dello Stato-persona a
fondamento del sistema di diritto pubblico da lui costruito, riconoscendo che “la
concezione dello Stato come persona è il presupposto di ogni costruzione del diritto
pubblico”; e ancora, “nella personalità dello Stato è il punto di partenza e centrale del
diritto, richiamandosi ad essa si ritrova la possibilità e la direttiva di un sistema scientifico,
di un sistema, cioè, dominato da un pensiero unitario”; cfr. C. F. GERBER, Grundzüge eines
Systems des deutschen Staatsrechts, Leipzig, 1865, rispettivamente p.2 nota (1) e p.3.
567 Lampante, in queste affermazioni preliminari di Gerber, la sua adesione alla
concezione volontaristica: tutto il diritto, quello oggettivo e quello soggettivo, quello
statale (la legge) e quello privato (il contratto è legge per i privati), sono essenzialmente ed
immancabilmente manifestazioni di volontà. Aggiungiamo l’osservazione che la
giovanissima scienza del diritto pubblico utilizzava per l’elaborazione degli istituti di
diritto pubblico schemi concettuali e categorie privatistiche: lo stesso Gerber opera in tal
senso, anzi affermando esplicitamente che “il diritto privato serve da impalcatura alla
costruzione di tutto l’edificio del diritto pubblico”; cfr. C. F. GERBER, Diritto pubblico,
cit., p.43.
568 Questa affermazione ci consente di rilevare come nell’ambito delle dottrine sui
diritti pubblici subbiettivi venga in considerazione non l’uomo come l’unico dell’ipotetico
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
373
risultano sottratti alla libera disponibilità del singolo e vanno esercitati
esclusivamente secondo la destinazione e per la funzione oggettiva per cui
sono stati riconosciuti.569
In questa costruzione i diritti soggettivi privati e i diritti soggettivi
pubblici appaiono essere realtà sostanzialmente diverse: nel diritto
pubblico i cittadini sono oggetto del dominio dello Stato, si trovano in una
situazione di soggezione (pati), e anche i diritti soggettivi pubblici
risultano essere nient’altro (o poco più) che «diritti funzionali» attraverso
cui si svolge l’originaria capacità giuridica dello Stato, quasi
un’articolazione interna della sua potestà di dominio.
Alla base della teoria dei diritti soggettivi pubblici sviluppata da
Gerber sta la convinzione che ogni situazione soggettiva del singolo, tanto
di dovere quanto di diritto, deriva dallo Stato: essa è ammissibile solo se e
nei limiti in cui lo Stato la concede.
Per quel che riguarda specificatamente i diritti pubblici essi
“trovano (tutti) il loro fondamento, il loro contenuto, il loro fine
nell’organismo statale, nel quale deve realizzarsi la volontà nazionale nel
suo tendere al compimento della vita collettiva”;570
il loro possesso si
fonda sulla qualità di membro attivo dell’organismo statale.
I vari diritti soggettivi pubblici vengono da Gerber distinti,
classificati e analizzati su base soggettiva, vale a dire con riferimento ai
soggetti portatori di tali diritti. Essi risultano così suddivisi:571
a) diritti del
monarca (persona concreta in cui prende corpo la superiore persona
statale); b) diritti dei pubblici funzionari; c) diritti dei sudditi.
Non può rimanere inosservata l’utilizzazione di quest’ultimo
termine, sudditi, per indicare gli individui in contrapposizione allo Stato:
trattasi, infatti, di una qualificazione che, oltre a giustificarsi in
riferimento alla forma di governo vigente in Germania (la monarchia,
stato di natura del giusnaturalismo moderno, quanto piuttosto l’uomo calato
nell’organizzazione della comunità statuale, ossia il cittadino.
569 Il diritto (soggettivo) pubblico presenta, secondo Gerber, due caratteristiche
generali: la prima è che tali diritti non rientrano nella sfera di volontà del singolo e sono
sottratti alla illimitata disposizione di questi; la seconda è che essi comportano, per il
titolare, non solo determinate facoltà, ma anche determinati obblighi.
570 Cfr. C. F. GERBER, Diritto pubblico, cit., p. 43
571 Cfr. C. F. GERBER, Diritto pubblico, cit., p.44.
DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO
374
appunto), ben esprime i rapporti intercorrenti tra lo Stato e gli individui
che lo compongono. È bene, preliminarmente, precisare due punti: il
primo è che i diritti che vengono qui in considerazione sono soltanto i
diritti (soggettivi) pubblici del monarca, ossia tutti e soltanto i diritti che
spettano al Re non in quanto persona umana, ma in quanto membro
supremo dell’organismo statale;572
il secondo è che il potere statale
acquista carattere giuridico, afferma Gerber, soltanto “in virtù del
riferimento alla personalità del popolo rappresentata nel Re”:573
il Re,
infatti, quando agisce non come individuo umano ma come monarca,
agisce con la coscienza che il popolo trova in lui la sua personalità, e,
quindi, come membro supremo dell’organismo. Ne segue che tutti i diritti
dell’organismo statale vanno necessariamente riferiti alla persona del
reggente:574
I diritti soggettivi pubblici del Re sono: il diritto di emanare le
leggi, il diritto all'obbedienza dei suoi comandi e delle sue disposizioni, il
diritto di esercitare la sovranità sopra il territorio dello Stato, il diritto di
rappresentare lo Stato all'estero.
Questi diritti sono diritti propri del Re, nel senso che egli ne è il
titolare e li esercita in nome proprio.575
572 Cfr. C. F. GERBER, Diritto pubblico, cit., p.47: “ a questo riguardo s’intende da
sé che in questa indagine non viene in considerazione il Re nel diritto privato. Il Re non è
semplicemente Re, ma è anche un individuo umano; questa qualità non è assorbita da
quella. Il campo del diritto cui il Re appartiene come individuo, è il generale diritto
privato..”.
573 Cfr. C. F. GERBER, Diritto pubblico, cit., p.47; torna qui il concetto di
organismo che "costituisce il punto di partenza per la costruzione del sistema di diritto
pubblico" (così C. F. GERBER, op. ult. cit., p.21). Si tratta di un concetto "tutt'altro che
giuridico", ma che riesce a cogliere la peculiarità dello stato, il quale è sì un fatto giuridico,
ma anche sociale e morale; non solo, esso permette anche di salvare la posizione di
superiorità che spetta allo stato all'interno di questo organismo.
574 La titolarità delle situazioni giuridiche soggettive pertinenti allo stato spetta,
quindi, al monarca; unica eccezione a tale principio in materia fiscale: "allo Stato non è
riconosciuta personalità giuridica se non nella sua qualità di fisco"; cfr. C. F: GERBER,
Diritto pubblico, cit, p.47.
575 L'affermazione vale, precisa lo stesso giurista, soltanto nell'ambito di una
costituzione monarchica, anzi costituisce la peculiarità di tale forma di governo;
nell'ambito di un regime diverso, ad esempio in una Repubblica il Presidente esercita i
diritti pubblici non in nome proprio, bensì in nome altrui. Cfr. C. F. GERBER, Diritto
pubblico, cit.., p.55.
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
375
Nell’ambito dell’organismo statale i funzionari e gli impiegati dello
Stato, per parte loro, svolgono un ruolo specifico, quello di “esercitare i
diritti del potere statale che confluiscono nelle facoltà del capo supremo
dello Stato, sostituendo quest’ultimo”:576
essi sono gli organi esecutivi del
monarca.
Da questa premessa deriva che il diritto all’obbedienza ed al
riconoscimento delle disposizioni e degli ordini dei funzionari non si basa
sul loro proprio diritto, ma è il diritto del monarca.
Nell’ambito del diritto pubblico ai funzionari spetta, come loro
diritto specifico ed indipendente, solo il diritto di rappresentanza;577
essendo tutti gli altri diritti del monarca, diritti che essi esercitano in
qualità di suoi organi esecutivi.
Tutti gli altri diritti dei funzionari (come la pretesa allo stipendio,
alla pensione) rientrano, invece, nella sfera dei puri diritti privati.
I sudditi sono i “soggetti dominati dal Re”:578
essi sono subordinati
al suo volere costituzionale e perciò obbligati all’obbedienza e alla fedeltà
verso di lui. Ma, aggiunge Gerber, la sottomissione dei sudditi al monarca
non è illimitata: essa, a differenza del rapporto di dominio di diritto
privato (in cui il sottoposto al dominio è interamente abbandonato alla
volontà altrui), è sempre limitata, in quanto s’intende che i sudditi sono
sottomessi non alla volontà (personale) del monarca, bensì alla volontà
statuale e poiché lo Stato non assorbe l’intera vita sociale degli uomini, ne
risulta che una parte, più o meno ampia, della vita dei sudditi rimane al di
fuori dell’orbita statale.
Questa sottomissione di diritto pubblico, inoltre, deve intendersi
propriamente come “partecipazione alla comunità organica nella vita
statale”:579
essa, si aggiunge, “diventa ricca di effetti benefici e fecondi di
ogni bene, ed è condizione di libero sviluppo e progresso morale”.580
576 Cfr. C. F. GERBER, Diritto pubblico, cit., p.61.
577 Peraltro questo unico diritto non è, afferma Gerber, “originario ed
originalmente di diritto pubblico”; cfr. C. F. GERBER, Diritto pubblico, cit., p. 61.
578 Cfr. C. F. GERBER, Diritto pubblico, cit., p.65
579 Cfr. C. F. GERBER, Diritto pubblico, cit., p.65: anche sotto questo profilo,
quindi, la sottomissione di diritto pubblico si differenzia da quella di diritto privato.
580 Cfr. C. F. GERBER, Diritto pubblico, cit., p.66; a tale affermazione farà
riferimento il Romano nel valutare la versione gerberiana della dottrina dei diritti
DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO
376
Si arriva, in questo modo, al punto che più ci interessa: all’interno
di una siffatta costruzione che posto hanno, possono avere le libertà degli
individui? Si possono configurare veri e propri diritti dei sudditi nei
confronti dello Stato? Si pone il problema, giuridico e politico, di definire
e “sistemare” quelli che Gerber chiama, con significativa espressione, “i
cosiddetti diritti civili”.581
Come in precedenza ricordato, la costruzione teorica dei diritti
soggettivi pubblici si prestava ad essere utilizzata per una ri-definizione
dei rapporti tra lo Stato e il singolo, per stabilire un equilibrio tra le due
opposte esigenze della libertà dei singoli e della supremazia dello Stato.
La soluzione proposta da Gerber riguardo alla definizione dei diritti
civili e politici non può certo dirsi cristallina, ma occorre considerare che
nel sistema da lui costruito, in cui i diritti pubblici soggettivi consistevano
o “in una relazione organica fra una persona fisica e il suo ufficio oppure
nella forma di manifestazione dell’autorità pubblica verso i sudditi”,582
non c’era posto alcuno per posizioni giuridiche attive riassuntive di libertà
del cittadino verso lo Stato.
I «cosiddetti» (precisa Gerber) diritti civili e politici trovano la loro
fonte, la loro radice genetica in effetti riflessi delle norme che limitano le
competenze statali,583
cioè a dire che le libertà nascono giuridicamente da
soggettivi pubblici sostanzialmente come una reazione alle teoriche dei diritti naturali,; cfr.
S. ROMANO, La teoria dei diritti pubblici subbiettivi, cit., p.7.
581 Cfr. C. F. GERBER, Diritto pubblico, cit., p.67: significativo è, infatti, che lo
stesso Gerber non s’arrischi neppure a denominarli semplicemente diritti, in quanto risulta
evidente la ritrosia, o quanto meno la cautela, dell’autore ad includere nella categoria diritti
soggettivi pubblici le libertà.
582Così riassume l’essenza e la portata, nell’ambito della costruzione in esame, dei
diritti soggettivi pubblici pertinenti ai funzionari ed ai sudditi; cfr. A. BALDASSARRE,
Diritti pubblici soggettivi, in “Enciclopedia Giuridica Treccani”, vol. IV, Roma, 1989, p.3.
583 La soluzione proposta da Gerber, secondo il quale le libertà (dei cittadini,
rectius, sudditi) non costituiscono veri e propri diritti soggettivi, risolvendosi in (puri)
effetti riflessi del diritto oggettivo, verrà criticata – circa quarant’anni più tardi - da G.
Jellinek, il quale ebbe a giudicarla “un grossolano approccio” al problema delle libertà
civili: in polemica con le precedenti teorie, il giurista di Heidelberg opporrà l’osservazione
che da norme limitative di competenze statali, ovvero, da norme attributive di funzioni
pubbliche, non possono scaturire diritti soggettivi in capo ai cittadini. Vedremo più avanti
come da questa critica muova poi Jellinek, il quale staccandosi dalla tendenza, più volte
sottolineata, della giuspubblicistica tedesca a negare la categoria dei diritti pubblici
soggettivi (tra cui, in primis, i diritti di libertà) riporta le libertà allo status negativo.
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
377
un effetto (un fatto, un risultato) non da un diritto posto sullo stesso piano
o, tanto meno, prima del potere e della volontà dello Stato.
Conseguenza immediata, ed importantissima sul piano pratico, di
tale impostazione è la non azionabilità584
di tali situazioni soggettive: non
avendo a loro (diretta) tutela alcuna azione le libertà dei cittadini non
possono qualificarsi (veri e propri) diritti soggettivi.
La soluzione proposta da Gerber piacque a molta parte della
dottrina giuspubblicistica (soprattutto) tedesca, la quale distinse a lungo il
diritto soggettivo pubblico dal diritto riflesso (Reflexrecht): a quest’ultimo
era riportata l’ipotesi di disposizioni legislative contenenti norme di diritto
obiettivo non rivolte ai cittadini, i quali, quindi, ne potevano trarre
vantaggio solo indirettamente, come puro effetto riflesso dell’applicazione
della legge.
Configurati, quindi, tali cd. diritti come meri effetti, la loro
titolarità, il loro svolgimento e il loro ambito risultava essere rimesso alle
decisioni dell’autorità pubblica nel libero esercizio delle sue competenze;
i diritti civili nella costruzione gerberiana, insomma, altro non
rappresenterebbero se non la pretesa dei cittadini verso lo Stato a veder
riconosciuto un certo spazio di diritto privato a loro favore. Ma poiché,
come abbiamo visto, si trattava di pretesa non azionabile in realtà questa
definizione si risolveva nel mero riconoscimento dell’esistenza di uno
spazio vuoto, si potrebbe dire di «irrilevanza giuridica», in cui i privati
possono liberamente disporre delle proprie facoltà.
In questa prospettiva si riesce a cogliere il senso esatto delle parole
del Gerber quando afferma che “il significato generale dei cosiddetti
diritti civili e politici può trovarsi solo in qualcosa di negativo, e cioè nel
fatto che lo Stato nel suo dominio ed assoggettamento dell’individuo si
Anticipiamo soltanto che, secondo Jellinek, perché si possa parlare di diritto soggettivo
occorre che lo Stato attribuisca con le sue leggi un potere positivo al singolo, potere
specificatamente diretto a far valere a proprio vantaggio determinate situazioni (status).
Cfr. G. JELLINEK, Il sistema dei diritti pubblici subbiettivi, Tübingen 1892, trad. it.
Milano,1912, p. 77.
584 Per questo, cioè per aver configurato come diritti (seppur “cosiddetti”) posizioni
non comportanti alcuna pretesa giuridica verso la supposta controparte, Gerber fu
attaccato: in risposta alle critiche ricevute nelle opere più tarde egli precisò che siffatti
cosiddetti diritti costituiscono posizioni soggettive solo in parte giuridiche, mentre più in
generale esse sono puri “effetti riflessi”. Essi, quindi, sarebbero solo in parte veri e propri
diritti soggettivi ( di cui, peraltro, rimane indefinito il contenuto) rimanendo per in maggior
misura, come si è detto, effetti riflessi di norme di diritto obbiettivo.
DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO
378
mantiene entro limiti suoi naturali, lasciando libera, fuori della sua cerchia
ed influenza, quella parte della persona umana la quale non può
assoggettarsi all’azione coercitiva della volontà generale; (…) essi sono
diritti al riconoscimento del lato libero, non statale, della personalità”.585
È
una concezione tutta «negativa» della libertà, per lo meno sotto il profilo
giuridico.
Possiamo anticipare qualche osservazione critica: abbiamo visto
come Gerber risolva la questione delle libertà individuali configurandole
come effetti riflessi di norme di diritto oggettivo. Questo significa che, pur
trattandosi di situazioni soggettive di vantaggio, esse non possono
qualificarsi propriamente diritti soggettivi dal momento che esse non sono
azionabili. E la loro non azionabilità deriva semplicemente dal fatto che
non esiste alcuna norma che attribuisca un potere di azione al titolare di
detta situazione soggettiva. Esistono, invece, norme di diritto obbiettivo
volte a regolare l’attività dello Stato, determinandone le competenze ed
attribuendo funzioni: tali norme comportano una autolimitazione dello
Stato.
Questa teoria giuridica della libertà, libertà che viene riguardata
dalla prospettiva del tutto (cioè dello Stato), non è altro che “la teoria dei
limiti giuridici che i poteri pubblici pongono a se stessi”:586
è il risvolto
soggettivo dei limiti legali delle competenze statali.
È chiaro, però, che in questo modo si nega la specificità della
libertà come diritto fondamentale dell’uomo.
In una simile concezione il cittadino – osserva Ruffini - “si trova
come tracciata tutto intorno da codesta operazione autolimitatrice una
cerchia, ove egli può a sua volta autodeterminarsi, cioè muoversi e agire a
suo piacimento, manifestando quella credenza religiosa che più gli piace,
valendosi della stampa come meglio gli pare, associandosi con chi crede e
per i fini leciti che sarà per proporsi, e così via”.587
585 Cfr. C. F. GERBER, Diritto pubblico, cit., p.67; peraltro, aggiunge Gerber, la
portata negativa di tali diritti per i sudditi si trasforma nella determinazione positiva “dei
limiti del potere del monarca dal punto di vista dei sudditi”.
586 Cfr. A. BALDASSARRE., Libertà (problemi generali), in “ Enciclopedia Giuridica
Treccani ”, Roma, 1990, vol. XIX, p.5.
587 Cfr. F. RUFFINI, Diritti di libertà, II ed., Firenze, 1946, p.115. Un’osservazione
(forse superflua): gli esempi riportati da Ruffini non sono, chiaramente, scelti a caso. Essi
mirano a rendere evidenti le conseguenze che dall’applicazione della categoria dei diritti
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
379
Ma in tale cerchia, può ben osservarsi, il cittadino può fare
un’infinità di altre cose, anche passeggiare o sposarsi: le libertà
individuali, che pur si vorrebbero diritti soggettivi (anche se imperfetti),
rimangono confuse ed indeterminate nell’ambito di ciò che è
genericamente permesso.588
Quale che sia la «tenuta concettuale» della categoria dei diritti
riflessi, può osservarsi che la libertà (diritto soggettivo o effetto riflesso
del diritto oggettivo che sia) di cui si discorre è ancora, e solo, la libertà
negativa. E ciò ben si comprende se si considera l’ottica (imperativistica)
in cui ci sta muovendo: non esistono diritti soggettivi dei singoli, ma
esiste solo il diritto (oggettivo e sovrano) dello Stato, il quale può,
valutando le condizioni dei tempi e le aspirazioni dei sudditi, limitare la
propria sfera (virtualmente illimitata) del suo diritto sovrano. I diritti
soggettivi deriverebbero da questa “graziosa concessione”589
dello Stato
che si autolimita. Ma è chiaro che come (graziosamente) concede lo Stato
può anche (graziosamente) revocare.
In ordine alla teoria gerberiana dei diritti soggettivi pubblici
Romano osserva innanzitutto che, per comprenderne al meglio il
significato, occorre considerare il «clima culturale» in cui essa nasceva.
L’enucleazione della categoria dei diritti pubblici soggettivi maturò,
infatti, nell’ambito di una reazione contro le dottrine del diritto naturale
che in Germania fu particolarmente potente e diffusa. “Noi non crediamo
d’ingannarci – scrive Romano – dicendo che essa intese dimostrare
appunto il contrario di ciò che (...) le teoriche di diritto naturale
sostenevano: come, cioè, non sia vero che gli individui abbiano diritti
riflessi deriverebbero ai tradizionali diritti soggettivi di libertà (di religione, di stampa, di
associazione).
588 Sarà, poi, Santi Romano a distinguere nell’ambito del lecito le libertà cd.
materiali (attinenti all’indifferente giuridico) dalle libertà giuridiche (attinenti ad attività
giuridicamente rilevanti): cfr. S. ROMANO, Principi di diritto costituzionale generale,
Milano, 1947, p. 114 e p.119. Precisiamo, fin d’ora, che per il nostro giurista le libertà
costituiscono diritti soggettivi pubblici veri e propri.
589Al riguardo osserva Ruffini che i cittadini tedeschi, alla luce della costruzione di
Gerber, non godono di un vero diritto subbiettivo alla libertà di coscienza, di stampa, di
associazione, o così via, ma possono credere in ciò che vogliono, associarsi come meglio
credono ecc. solo perché lo Stato, “bontà sua”, si astiene dal fare ciò che un tempo faceva,
ossia dal porre limitazioni all’esercizio di tali loro naturali libertà. Cfr. F. RUFFINI, Diritti
di libertà, cit., p.114.
DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO
380
propri, primitivi, autonomi e che lo Stato invece abbia quei diritti che essi
gli hanno graziosamente concesso, ma sia vero l’opposto”.590
Ed, infatti, la costruzione risulta adesso rovesciata: punto di
partenza della dottrina del diritto naturale era la libertà originaria e
sconfinata dell’individuo che poi, per effetto dannoso del sorgere dello
Stato, veniva compressa e limitata; punto di partenza è, ora, il rapporto di
sudditanza dal quale scaturiscono, come suoi effetti benefici, i diritti
pubblici dei cittadini.591
Questi, quindi, i presupposti: per quanto riguarda più
specificatamente la presa di posizione di Gerber in ordine alla titolarità in
capo ai singoli di situazione giuridiche soggettive di vantaggio nei
confronti dello Stato, Romano afferma che, in generale, non sembra che il
giurista tedesco "neghi al cittadino qualunque diritto in senso
subbiettivo".592
A sostegno di tale affermazione il nostro giurista riporta alcuni
passi dell'autore tedesco che appaiono in tal senso particolarmente
significativi: "lo Stato con la soggezione e per mezzo di essa conferisce
contemporaneamente una quantità di diritti importantissimi, i civici e
specialmente i politici che, in certo qual modo, hanno carattere di
reciprocità (..) e ciò perché la soggezione in uno Stato libero e ben
ordinato non ha alcun altro scopo ed alcun altro effetto che quello di
procurare un'esistenza dotata di diritti civili e politici".593
In base a queste considerazioni Romano propone di interpretare
l'espressione «Reflexrechte» non nel senso che il Gerber abbia voluto
distinguere (e perciò contrapporre) i diritti riflessi ai diritti subbiettivi, ma
nel senso che con tale qualificazione egli abbia voluto sottolineare la
genesi di tali diritti, i quali quindi sono veri e propri diritti soggettivi dei
cittadini, ma non naturali ed originari, bensì riflessi, derivati dal diritto di
sovranità dello Stato.
Tuttavia, aggiunge il Nostro, nell'opera di Gerber si ritrovano,
indubbiamente, anche dei passi di carattere oscuro, nei quali sembra che
590 Cfr. S. ROMANO, La teoria dei diritti pubblici subbiettivi, cit., p.6.
591 Cfr. S. ROMANO, La teoria dei diritti pubblici subbiettivi, cit., p 6-7.
592 Cfr. S. ROMANO, La teoria dei diritti pubblici subbiettivi, cit., p 7.
593 Cfr. S. ROMANO, La teoria dei diritti pubblici subbiettivi, cit., p 7.
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
381
venga negata l'esistenza della categoria dei diritti pubblici soggettivi; ma,
si avverte, non bisogna mai dimenticare il carattere polemico dello scritto.
In conclusione sembra più esatto ritenere che "da queste ambiguità,
se non direttamente dalla teorica del Gerber, prese le mosse quella dottrina
che, più o meno recisamente, con più o meno scarse concessioni, è
arrivata alla conclusione che al cittadino non spettano diritti pubblici nel
senso subbiettivo".594
Per altro verso, come si è detto, Jellinek pone a fondamento della
sua indagine il principio per cui il diritto non può essere compreso se non
come rapporto tra soggetti:595
le relazioni dell’uomo con gli altri uomini e
con le cose del mondo esterno, relazioni che costituiscono i rapporti della
vita degli uomini, in quanto riconosciute e regolate dall’ordinamento
giuridico, vengono qualificate come rapporti giuridici. L’affermazione
che il diritto, qualunque diritto, in quanto rapporto giuridico, è possibile
soltanto tra soggetti di diritto, l'affermazione cioè del carattere,
essenzialmente e necessariamente, relazionale del diritto, porta a
riconoscere, anche nel diritto pubblico, l’esistenza di soggetti di diritto
altri rispetto allo Stato: “se lo Stato ha dei diritti pubblici sopra i sui
sudditi, ciò significa che riconosce loro, quali membri della comunità del
popolo, una capacità giuridica di diritto pubblico, dalla quale scaturiscono
pretese giuridiche di fronte allo Stato”.596
L’autore sottolinea l’importanza del riconoscimento dell’esistenza
di diritti pubblici soggettivi non solo per la configurabilità del diritto
pubblico, ma anche per la possibilità e l’esistenza stessa del diritto
594 Cfr. S. ROMANO, La teoria dei diritti pubblici subbiettivi, cit., p 8.
595 Cfr. G. JELLINEK, Sistema dei diritti pubblici subbiettivi, cit., p.11 “Un
individuo assolutamente isolato non è concepibile come investito di diritti. Anche lo Stato,
in conseguenza, non può avere diritti, se non in quanto lo si pensi come contrapposto ad
altre persone. Un rapporto di dominazione di fatto diventa rapporto giuridico solamente se
entrambi i membri, dominante e dominato, si come investiti di diritti e doveri reciproci.”
L’autore esemplifica questo concetto facendo riferimento al rapporto padrone-schiavo,
rapporto che poteva dirsi giuridico soltanto rispetto ai terzi (come qualunque rapporto tra
una persona e una cosa), mentre rispetto allo schiavo, il potere del padrone era un potere di
fatto.
596 Cfr. G. JELLINEK, Il sistema dei diritti pubblici subbiettivi, cit., p.12: “Dal
riconoscere l’esistenza di diritti pubblici di coloro che fanno parte dello Stato, dipende
pertanto l’esistenza del diritto pubblico in generale. Un ordinamento giuridico che
attribuisca diritti a una persona soltanto è impossibile”.
DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO
382
privato, affermando, testualmente, che “senza diritto pubblico non è
possibile il diritto privato”:597
la ragione di ciò, ben si comprende se si
considera che il riconoscimento, la garanzia, l’attuazione di qualunque
diritto non può prescindere da un’organizzazione statale di difesa,
operante secondo norme giuridiche (di diritto pubblico, naturalmente).
Torna, chiaramente, qui un motivo ricorrente nella dogmatica tedesca del
secolo scorso, vale a dire la priorità e la superiorità temporale e
concettuale del diritto pubblico rispetto al diritto privato: per questa via si
giunge a configurare il diritto privato come facente parte dello stesso
diritto pubblico, più precisamente, come quella parte del diritto pubblico
volto a disciplinare i rapporti (giuridici) tra privati.
Si può notare, inoltre, in tale affermazione una presa di posizione,
di fronte al rapporto diritto soggettivo/diritto oggettivo, inversa, ribaltata,
rovesciata rispetto a quella fatta propria dalle dottrine (francesi) del diritto
naturale: non più diritti soggettivi che esistono prima e indipendentemente
(in certi casi anche contro ) dallo Stato, ma diritti soggettivi creati,
riconosciuti, protetti in maggiore o minore misura, dal diritto oggettivo.598
Il passo riportato all’inizio del paragrafo consente, infine, un’ultima
osservazione: Jellinek parla (ancora) di «sudditi», non di cittadini. La
scelta terminologica probabilmente non è casuale, sicuramente non è priva
di significato, in quanto ben dice, anche sul piano lessicale, la superiorità
dello Stato sull’individuo.
A questo punto si tratta di conciliare la giuridicità dello Stato con la
sua sovranità: infatti, come può lo Stato apparire soggetto del diritto,
limitato dal diritto, sottoposto dal diritto, quando il diritto è opera dello
Stato, quando è lo Stato che crea il diritto? Jellinek supera l’impasse
attraverso il concetto di «autolimitazione», intesa come una sorta di
597 Cfr. G. JELLINEK, Il sistema dei diritti pubblici subbiettivi, cit., p.12. Possiamo
osservare, al riguardo, che il rapporto tra diritto privato e diritto pubblico è, qui, opposto,
rovesciato rispetto a quello indicato dal Gerber: il «padre riconosciuto del diritto del diritto
pubblico tedesco» affermava ancora che il diritto pubblico presuppone il diritto privato,
che quello non può esistere senza questo. Ed infatti Gerber «costruisce» il diritto pubblico
con le categorie concettuali del diritto privato, le quali vengono a costituire l’impalcatura
di tutto l’edificio del diritto pubblico (l’immagine è dello stesso Gerber); cfr. C. F.
GERBER, Diritto pubblico cit., p.43. Contro questa utilizzazione di strumenti privatistici
insorgerà, in particolare, qualche anno più tardi Otto von Gierke.
598 Cfr. G. JELLINEK, Il sistema dei diritti pubblici subbiettivi, cit., p.10 “Concepire
il diritto come qualcosa di originario, che derivi soltanto da sé medesimo la sua autorità e il
suo valore, importa nient’altro che scambiare il fatto col diritto”.
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
383
promessa di diritto pubblico: “non vi è nulla di contraddittorio
nell’asserire l’esistenza di impegni assunti unilateralmente dal soggetto
interessato”.599
Questa (necessaria) «auto-limitazione» dello Stato si
configura quale premessa e condizione imprescindibile della sua stessa
possibilità giuridica e della possibilità dell’intero fenomeno giuridico.600
Il
rapporto tra lo Stato e il cittadino, infatti, è giuridico in quanto rapporto
tra soggetti di diritto, ma questi soggetti non si trovano in una posizione di
parità (come, invece, tipicamente avviene nel diritto privato), perché uno
(lo Stato) fonda e determina la soggettività giuridica degli altri (i cittadini)
attraverso un atto di autolimitazione. In tal modo si salva (o si crede di
salvare) sia la sovranità dello Stato, sia la sua (giuridica) limitazione.
Tuttavia il paragone con la promessa di diritto privato non regge,601
perché
mentre questa è davvero vincolante in quanto c’è una forza esterna (lo
Stato, appunto) che, all’occorrenza ne garantisce l’adempimento, la
promessa prestata dallo Stato non vincola affatto, non essendoci nessuna
autorità o forza esterna in grado di costringere lo Stato a rispettarla. A
meno che non si voglia riconoscere l’esistenza di qualcosa d’altro e di
superiore rispetto allo Stato: ma allora verrebbe negata la sovranità dello
Stato, e con ciò stesso lo Stato, essendo la sovranità (intesa come
supremazia) un carattere essenziale dello Stato moderno.
Constata l’insufficienza e l’unilateralità delle principali teorie
esaminate sopra relative alla natura del diritto soggettivo, il giurista di
Heidelberg suggerisce, per comprendere appieno la realtà in cui tale
diritto consiste, di concepire in generale il diritto soggettivo come
un’entità costituita di due elementi, uno materiale ed uno formale.
599 Cfr. G. JELLINEK, Allgemeine Staatslehre, cit. p.368.
600 Nell’asserzione della necessaria autolimitazione dello stato viene indicato il
fondamento di quella «ambiguità sostanziale di fondo» che spesso si «rimprovera» al
giurista di Heidelberg, del quale si sottolinea “l’irrisolta tensione tra l’ideale liberale e la
pretesa di incapsularlo in categorie giuridiche che, (..), erano e sono ideologicamente
intrise di autoritarismo”; con il concetto di autolimitazione, infatti, si pone da un lato lo
Stato-persona come soggetto e autore delle manifestazioni di volontà da cui scaturisce
tutto il diritto e, dall’altro, si condiziona la giuridicità dello Stato alle limitazioni che egli
stesso crea con la sua volontà; cfr. sul punto le osservazioni di A. BALDASSARRE, I diritti
pubblici soggettivi, cit., p.5.
601 In tal senso cfr. G. BALLADORE PALLIERI, La dottrina dello stato, Padova, 1958,
p.60.
DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO
384
Quanto all’elemento materiale è facile osservare, infatti, che le cose
che sono oggetto del diritto sono quelle che servono a realizzare scopi
individuali considerati necessari ovvero semplicemente riconosciuti
dall’ordinamento giuridico: queste “cose” sono qualificate beni.
Ora, ciò che obbiettivamente costituisce un bene, soggettivamente
diventa interesse: l’interesse, in altre parole, è l’apprezzamento soggettivo
di ciò che per i fini dell’uomo costituisce un bene.602
Si aggiunge che tutto
lo scopo del diritto consiste nella tutela dei beni o degli interessi.
Ma per l’esistenza del diritto soggettivo non è sufficiente che un
bene o un interesse sia protetto dall’ordinamento giuridico: occorre,
altresì, che tale bene o interesse sia posto in rapporto con una volontà,603
essendo la volontà il mezzo necessario per trasformare una cosa in bene o
interesse. È il riconoscimento giuridico della potestà di volere rivolta ad
un interesse che produce l’individualizzazione del diritto, riferendolo a
una persona determinata.
Tali considerazioni preliminari permettono a Jellinek di definire (in
generale) il diritto subbiettivo come “la potestà di volere che ha l’uomo,
riconosciuta e protetta dall’ordinamento giuridico, in quanto sia rivolta a
un bene o ad un interesse”.604
Questa definizione pone in evidenza
entrambi gli elementi costitutivi del diritto soggettivo, tanto l’elemento
formale (la potestà di volere), quanto l’elemento materiale (il bene o
l’interesse).
602 Il giurista austriaco, dopo aver definito l’interesse come “l’apprezzamento
subbiettivo di ciò che, per i fini dell’uomo costituisce un bene” , si affretta a precisare che
rilevante, e decisivo, non è l’apprezzamento individuale, ma quello generale: “perché un
bene dia luogo a un interesse, non basta però l’apprezzamento individuale, ma occorre che
un bene sia considerato come tale dall’apprezzamento medio, che risulta dallo stesso
ordinamento giuridico”; cfr. G. JELLINEK, Il sistema, p.47. Si ritrova in questa
osservazione, chiaramente, l’eco della concezione dello stato dominante nella dottrina
tedesca del secolo scorso, secondo la quale lo stato è la fonte e l’interprete necessario del
diritto: esso crea il diritto nel senso traduce in termini giuridici, in norme, lo spirito
popolare. Determinante, in tale senso, l’apporto della Scuola storica.
603 G. JELLINEK, Il sistema, p.48: ”il bene, o l’interesse protetto dal diritto diventa
tale, soltanto perché è posto in rapporto con la volontà umana”.
604 G. JELLINEK, Il sistema, p.49; il testo così prosegue:” soltanto il riconoscimento
giuridico della potestà di volere rivolta ad un bene o ad un interesse può produrre quella
individualizzazione del diritto, quella sua connessione con una determinata persona, che
formano uno dei criteri essenziali del diritto subbiettivo”.
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
385
Alla definizione concettuale, Jellinek, fa seguire due osservazioni
importanti. Con la prima precisa che non è necessario che la persona cui
appartiene la volontà rivolta verso l’interesse, sia la stessa cui l’interesse
torna a vantaggio, vale a dire che se per l’esistenza del diritto soggettivo
non si può prescindere da una volontà, ciò non significa che deve trattarsi
necessariamente della volontà dell’interessato.605
Con la seconda sottolinea che ci sono interessi individuali protetti
dall’ordinamento anche a prescindere dal riconoscimento, ovvero, dal
riferimento a una volontà individuale; in tal caso abbiamo un interesse
tutelato giuridicamente, ma non un diritto soggettivo:606
“soltanto se la
volontà individuale è riconosciuta come decisiva per l’esistenza e per
l’estensione dell’interesse, questo si trasforma in un diritto pubblico
subbiettivo”.607
Siamo giunti, a questo punto, al «cuore» della costruzione dello
Jellinek: la fondamentale distinzione tra licere e posse, che è quanto
interessa precipuamente ai fini che ci siamo proposti per la nostra ricerca.
L’indagine del giurista austriaco prosegue con l’osservazione che le
azioni umane si distinguono fondamentalmente in azioni giuridicamente
rilevanti e in azioni giuridicamente irrilevanti: mentre queste ultime non
vengono in considerazione (si tratta con tutta evidenza delle azioni di cui
il diritti si disinteressa), le prime assumono rilievo giuridico in due modi
diversi , e si parla in un caso di «agere licere», nell’altro di «agere
posse». Il licere giuridico è costituito dal complesso delle facoltà già
esistenti per natura, a cui è attribuita dall’ordinamento rilevanza giuridica;
ma l’ordinamento giuridico può non solo riconoscere, attribuendo
605 Il rilievo di tale precisazione si coglie con particolare, anche se non esclusivo,
riferimento alla situazione degli incapaci (naturalisticamente) di volere, dei quali si salva,
in questo modo, la possibilità di essere titolari di diritti soggettivi. Anche il Romano che,
come vedremo, aderisce alla definizione proposta da Jellinek (sia pur soltanto per il diritto
soggettivo privato), ebbe ad osservare espressamente che “la persona il cui interesse viene
riconosciuto può non coincidere con quella che vuole, come nel caso degli incapaci, delle
persone giuridiche e perciò anche dello Stato”; cfr. S. ROMANO, La teoria dei diritti
pubblici subbiettivi, cit., p.15.
606 G. JELLINEK, Il sistema, cit., p.49: “un interesse è tutelato giuridicamente dal
diritto obbiettivo, anche quando esso non riconosca alcuna potestà di volere individuale.
Ogni misura che tende a tutelare l’interesse generale, tutela necessariamente una somma in
blocco di singoli interessi individuali, senza creare con ciò diritti subbiettivi”.
607 G. JELLINEK, op. cit., p.49.
DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO
386
rilevanza giuridica, facoltà «naturali» dell’individuo, bensì anche
concedere, attribuire all’individuo qualcosa che egli non possiede per
natura, facoltà in senso lato che non esistono in rerum natura. In altre
parole, può concedere al singolo la facoltà di pretendere che alcune delle
di lui azioni siano riconosciute come fatti/atti giuridici (ad es. contratto,
testamento) e che, come tali siano suscettibili di tutela (giuridica). Licere e
posse sono tra loro diversi sotto molteplici aspetti:608
oltre a riferirsi a
facoltà differenti – semplicemente riconosciute e permesse quelle relative
al licere, create e concesse quelle relative al posse -, essi si pongono su
piani diversi. Infatti, mentre ciò che è giuridicamente lecito si riferisce a
rapporti tra una persona ed un’altra ed attiene alla sfera di libertà naturale
del singolo, ciò che è giuridicamente possibile si riferisce “a rapporti tra
un tutto che crea il diritto e le unità comprese in questo tutto”,609
quindi,
primariamente ai rapporti tra lo Stato ed il singolo. Licere e posse, però,
sono tra loro strettamente connessi, anche se in modo diverso: mentre ogni
licere presuppone un posse, al contrario un posse può esistere senza un
licere. Infatti ci sono vari casi in cui l’ordinamento giuridico concede una
potestà, cioè crea una determinata possibilità di agire, ma non permette,
cioè ne vieta l’esercizio. Non solo, l’indicato rapporto tra licere e posse si
riflette anche nella diversa realtà propria dei diritti soggettivi privati e dei
diritti soggettivi pubblici, i quali pur dotati di una stessa struttura
(interesse tutelato dall’ordinamento mediante il riferimento ad una
volontà) si distinguono sia in base ad un criterio formale, sia in base ad un
criterio materiale. La distinzione formale concerne proprio la distinzione
tra licere ed posse: mentre i diritti soggettivi privati consistono in un
agere licere, cioè attengono alle manifestazioni della facoltà naturale dei
608 La differenza tra ciò che è giuridicamente lecito (agere licere) e ciò che è
giuridicamente possibile (agere posse) ben si coglie, suggerisce Jellinek, se si guarda alle
conseguenze di un’eventuale trasgressione di un licere ovvero di un posse: mentre la non
osservanza di un divieto relativo ad un non licere e possibile e produce un’azione contraria
alla legge, la non osservanza, invece, di un non posse è impossibile (giuridicamente) e non
produce nulla. In altre parole, essendo la potestà giuridica qualcosa di artificiale, una
creazione dell’ordinamento giuridico, che viene concessa dallo Stato all’individuo e che lo
rende capace di compiere atti che “naturalmente” (cioè al di fuori di una concessione
statale) non avrebbe la possibilità di compiere, un eventuale azione contraria a un non
posse semplicemente non esisterebbe giuridicamente: noi diremmo, sarebbe un atto
giuridicamente nullo. Cfr. G. JELLINEK, Il sistema cit., pp.51-52.
609 Cfr. G. JELLINEK, Il sistema, cit., p. 54: “ciò che è lecito, lo è rispetto ad una
persona, ciò che diventa giuridicamente possibile, lo diventa rispetto allo Stato”.
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
387
singoli, ma presuppongono necessariamente un agere posse, consistente in
una pretesa giuridica (di diritto pubblico) al riconoscimento e alla tutela
statale, i diritti soggettivi pubblici, invece, non concernono alcuna facoltà
naturale dell’individuo, ma hanno per contenuto esclusivamente un posse,
che poi altro non è se non la capacità, concessa, di attivare a proprio
vantaggio le norme giuridiche.
La distinzione materiale riguarda, invece, i motivi per cui
l’interesse individuale viene protetto; lo stesso autore sottolinea come la
distinzione attenga solo ai motivi della tutela, non all’interesse in sé, il
quale è sempre, tanto nel diritto soggettivo privato quanto nel diritto
soggettivo pubblico, un interesse individuale.610
Premesso che la tutela giuridica di ogni interesse individuale è
possibile solo se, ed in quanto, lo richieda l’interesse generale, per cui
“non esiste alcun interesse giuridico individuale che non abbia rapporto
con un interesse generale”,611
il diritto soggettivo privato si caratterizza
per la circostanza che l’interesse individuale è costituito prevalentemente
da scopi individuali, laddove nel diritto soggettivo pubblico l’interesse
individuale è riconosciuto prevalentemente nell’interesse generale.
Concludendo: la capacità, meglio, la possibilità giuridica di
pretendere riconoscimento e tutela giuridica, costituisce, per così dire,
l’anima del diritto soggettivo, essendo presupposta nel diritto soggettivo
610 Cfr. G. JELLINEK, Il sistema cit., p.58: la specificità del diritto soggettivo
pubblico, si spiega, “non può consistere nella natura dell’interesse, poiché il diritto
individuale deve necessariamente avere per contenuto un interesse individuale. Piuttosto
deve essere ricercata nei motivi che hanno indotto l’ordinamento giuridico a riconoscere
l’interesse individuale”: Peraltro, lo stesso Jellinek riconosce che questo criterio, a
differenza del criterio formale, è in sé indeterminato e quindi, “la linea di confine materiale
(tra diritto soggettivo privato e diritto soggettivo pubblico) non si può sempre tracciare con
sicurezza”. Op ult cit., p.59. L’indeterminatezza del criterio scelto, quello della prevalenza,
verrà apertamente criticato, tra gli altri, da Romano: cfr. S. ROMANO, La teoria dei diritti
pubblici subbiettivi cit., p.20.
611 Cfr. G. JELLINEK, Il sistema cit., p.58: la coesistenza, si aggiunge, di un
interesse individuale e di un interesse generale in ogni diritto soggettivo è fuori
discussione; solo può variare, anche sensibilmente, il grado di questo rapporto.
Aggiungiamo una precisazione: la prevalenza s’intende riferita ai motivi della tutela, non
all’interesse in sé (individuale ovvero generale): nell’ambito di una concezione come
quella dello Jellinek, infatti, l’interesse individuale non può mai prevalere sull’interesse
generale.
DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO
388
privato612
e costituendo il contenuto esclusivo del diritto soggettivo
pubblico.613
Ebbene, spiega Jellinek, questa potestà deriva unicamente dallo
Stato. E aggiunge: “il posse è identico con la giuridica capacità. Esso
denota le singole direzioni secondo le quali la capacità giuridica può
manifestarsi. L’insieme dei posse costituisce la personalità”.614
Il giurista austriaco parla testualmente di capacità giuridica, ma tale
espressione va intesa, nell’ambito della sua costruzione teorica, in senso
ampio, comprensivo non solo (e non tanto) di quella che tecnicamente
viene indicata come capacità giuridica, cioè “l’attitudine ad essere titolare
di diritti e di doveri”,615
ma anche (e soprattutto) di quella che
tecnicamente viene indicata come capacità di agire, cioè “l’attitudine a
compiere manifestazioni di volontà giuridicamente rilevanti”,616
ossia a
compiere atti giuridici.
Nel linguaggio di Jellinek il termine persona (o personalità) è usato
come sinonimo di capacità giuridica: “personalità o persona è la capacità
di poter essere titolari di diritti, in una parola la capacità giuridica”.617
Trattasi di una realtà che non fa parte del mondo naturale, per usare
le parole dell’autore “essa non risulta mai da natura, non è soprattutto un
612 Cfr. G. JELLINEK, Il sistema cit., p.56: “..i diritti privati sono sempre connessi
con una pretesa giuridica (Anspruch) di diritto pubblico al riconoscimento giuridico e alla
tutela, così che in essi il licere e il posse si trovano sempre congiunti”.
613 Cfr. G. JELLINEK, Il sistema cit., p.57: “il diritto pubblico subbiettivo, dal punto
di vista formale, consiste pertanto in pretese giuridiche (Ansprüchen), le quali derivano
dalle qualificazioni concrete della personalità”.
614 Cfr. G. JELLINEK, Il sistema cit., p.57.
615 Fra le molte formulazioni di questo tradizionale principio, ci è cara quella di A.
TRABUCCHI, Istituzioni di diritto civile, Padova, XXX ed., Padova, 1992, p.68, che
riconosce così il debito giusnaturalista della sua formazione con Adolfo Ravà, prima, e con
Francesco Carnelutti, poi.
616 Cfr. A. TRABUCCHI, op. cit., p.68.
617 Oggi, per lo più, la dottrina distingue concettualmente la personalità giuridica
dalla capacità giuridica: la personalità (come sinonimo di soggettività) è l’astratta idoneità
a diventare titolare di rapporti: è la titolarità potenziale di una serie indeterminata di
rapporti. La capacità giuridica è la misura di tale idoneità che definisce i contorni della
personalità. Cfr. A. TRABUCCHI, Istituzioni di diritto civile, XXX ed., Padova, 1992, p.62,
nota 1.
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
389
essere, ma un rapporto che intercede fra un subbietto ed altri subbietti e
l’ordinamento giuridico: la personalità è conferita sempre dal diritto”.618
E aggiunge: “non esiste perciò una personalità naturale, ma soltanto una
personalità giuridica (…) la persona è una relazione astratta, che esiste
soltanto psicologicamente”.619
Il carattere essenzialmente artificiale e
derivato della personalità giuridica, e la conseguente discendenza dallo
Stato della qualificazione e del riconoscimento della soggettività giuridica
di qualsiasi entità «altra» rispetto ad esso, ben si coglie in questo passo:
“soltanto come membro dello Stato…l’uomo è in generale soggetto
(Träger) di diritti. Ciò significa niente altro che partecipare alla tutela
giuridica. Un essere vivente è elevato alla condizione di persona, di
soggetto di diritti innanzitutto pel fatto che lo Stato attribuisce ad esso la
capacità di richiedere efficacemente la tutela giuridica statale. È lo Stato,
quindi, quello che crea la personalità.”620
618 Cfr. G. JELLINEK, Il sistema cit., p.31. A dimostrazione ed esemplificazione
dell’asserzione appena fatta, il giurista ricorda la situazione giuridica dello schiavo:
“riconoscere apertamente l’uomo quale subbietto di diritto è un postulato etico affermato
dal progresso dei secoli. Tuttavia la storia ci ammaestra purtroppo, che è possibile un
ordinamento giuridico, il quale non realizzi il postulato su espresso. Lo schiavo aveva la
capacità naturale di volere, ma non la capacità giuridica, ossia egli non poteva mettere in
movimento, nel suo interesse, le norme dell’ordinamento giuridico, che proteggono
l’individuo; imperocchè quest’ultima capacità, per la sua essenza, è artificiale, cioè a dire
che non risulta da un processo organico di natura, ma dall’opera cosciente degli uomini”; e
ancora: “lo schiavo, prima che lo Stato lo avesse liberato o gli avesse attribuito la limitata
capacità di disporre del suo peculio, non era nemmeno persona, nemmeno nel senso che
possedesse siffatta qualità come a lui inerente, indipendentemente dal riconoscimento dello
Stato. Naturalmente egli era riconosciuto come uomo. Questo però non importava che egli
fosse subbietto di diritti ma soltanto subbietto di doveri. Dalla qualità di uomo,
storicamente e logicamente risulta come conseguenza necessaria soltanto il dovere, non il
diritto verso lo Stato.” Cfr, Cfr. G. JELLINEK, Il sistema cit., p.93. S’intende che quanto
affermato per lo schiavo dell’antica Roma vale anche per il cittadino della Germania o di
qualsivoglia Stato: l’uomo non ha diritti se non quelli che gli attribuisce lo Stato.
619 Cfr. G. JELLINEK, Il sistema cit., p.31. Si vede qui, al di là della ricercata
iperbole estrema, il carattere di relazione proprio del diritto, momento non superabile,
nemmeno quando la personalità è attribuita con atto sovrano dallo Stato.
620 Cfr. G. JELLINEK, Il sistema cit., p.92. Come si è già avuto di osservare,
affermazioni consimili rinvenibili in tutta l’opera dell’insigne giuspubblicista, rivelano la
(forse inconsapevole) propensione per il momento processuale che viene così a prevalere
su quello sostanziale: in tanto un diritto è in quanto ne sia garantito l’esercizio; e siccome
l’esercizio del diritto è monopolio dello Stato, l’esistenza stessa del diritto è concessione
dello Stato, in tanto attribuita ai singoli in quanto conforme con le finalità pubbliche dello
Stato stesso. Non è azzardato, a nostro parere, rinvenire qui un’assonanza (dovuta alla
DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO
390
Queste le premesse che portano Jellinek ad asserire che “la
personalità (giuridica) individuale non è il fondamento, bensì il risultato
della società giuridica”.621
L’affermazione, peraltro, è perfettamente coerente con quel
concetto di autolimitazione che abbiamo visto costituire il fondamento
dell’intero sistema costruito dallo Jellinek: è dall’autolimitazione che
nasce la personalità giuridica dello Stato ed, insieme ad essa (dato il
carattere relazionale del diritto), quella dei soggetti «altri» rispetto allo
Stato; è dall’autolimitazione che deriva il diritto obbiettivo, perché lo
Stato, oltre a creare (giuridicamente s’intende) i soggetti, detta le norme
del loro agire;622
è dall’autolimitazione che derivano i diritti soggettivi,
perché ogni diritto soggettivo presuppone una norma (di diritto obiettivo)
che attribuisca al titolare una pretesa al riconoscimento o alla tutela.
La teoria dei diritti pubblici di Georg Jellinek ha rappresentato, per
circa mezzo secolo, la concezione comunemente accettata tanto in
Germania, quanto in Francia e in Italia.
Giurista raffinato e di grande cultura elaborò un sistema in cui
trovano posto i principi del tradizionale statalismo autoritario tedesco, ma
in cui fanno il loro ingresso anche principi nuovi, liberali.623
tradizionale formazione romanistica di questi autori) con il sistema edittale del pretore
romano, che creava le figure di diritto sostanziale, concedendo o negando l’azione nelle
fattispecie dichiarate all’inizio del suo mandato, poi cristallizzate.
621 Cfr. G. JELLINEK, Il sistema cit., p.32; osserviamo che i termini risultano
ribaltati rispetto al postulato giusnaturalistico, secondo cui «in principio» c’è l’individuo
con i suoi diritti, con la sua personalità, (sorta di patrimonio giuridico innato); lo stato
viene creato dopo proprio sul fondamento e a tutela di tale personalità. In tal senso cfr. V.
E. ORLANDO, Diritto pubblico generale. Scritti vari coordinati in sistema, Milano, 1940,
p.281.
622 Due punti mi sembra di dover sottolineare: il primo è che il diritto obiettivo
deriva sempre e tutto dallo stato; il secondo che il diritto soggettivo riposa su una norma di
diritto obiettivo, e quindi, è anch’esso una creazione dello stato. Condivide entrambe
queste affermazioni Orlando, che però le giustifica senza ricorrere al concetto di
autolimitazione; per ulteriori approfondimenti cfr. V. E. ORLANDO, Diritto pubblico cit.,
p.281.
623 Le novità apportate sul piano dottrinale, da un lato testimoniano, dall’altro
danno il loro contributo a importanti trasformazioni sia sul piano socio-politico, sia sul
piano giuridico-costituzionale; vale la pena ricordare, per quanto appena affermato, che la
prima edizione de I diritti pubblici soggettivi di G. Jellinek è del 1892, la seconda del
1905; in ordine alle menzionate trasformazioni, invece, si possono ricordare: nel 1871 la
concessione del suffragio universale maschile, seguita qualche anno più tardi dal
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
391
I rapporti di diritto pubblico, che sono quelli che intercorrono tra lo
Stato persona titolare della potestà giuridica suprema da un lato, e altro
soggetto di diritto dall’altro, possono dar luogo a situazioni giuridiche
(Zustande) diverse, situazioni giuridiche che Jellinek denomina status:
“una gamma varia e complessa che parte dalla esclusione della personalità
dell’individuo laddove egli, suddito dello Stato, sia interamente sottoposto
al suo sovrano potere, e poi di tale personalità segna, attraverso posizioni
ulteriori e grado a grado più favorevoli, la progressiva piena
affermazione”.624
Nella maggior parte dei casi, spiega Jellinek, sono
rapporti di subordinazione dei cittadini alla volontà superiore dello Stato,
trovandosi quelli in una situazione giuridica di dovere nei confronti di
questo: per i cittadini, quindi, la situazione giuridica generale nei rapporti
di diritto pubblico è lo status subiectionis. Ma possono darsi anche
situazioni giuridiche diverse.
Così Jellinek parla di status libertatis con riferimento alla
situazione giuridica di libertà di azione (naturale) dei cittadini, cioè allo
spazio di libera azione che essi, in quanto sottratti ai precetti imperativi
dello Stato, hanno. Si tratta, evidentemente, di una libertà che ha carattere
negativo e residuale: essa, in sé, non ha rilievo giuridico, ma l’assume se e
nella misura in cui viene ad interessare sfere giuridiche altrui.625
riconoscimento di una serie di “diritti sociali” per i lavoratori e gli impiegati, e soprattutto
–per la sua importanza sul piano della tutela delle libertà individuali- il riconoscimento
legislativo del diritto dei cittadini di ricorrere al giudice amministrativo contro i
comportamenti illegali della pubblica amministrazione immediatamente lesivi delle libertà
dei singoli.
624 Cfr. E. CASETTA, Diritti pubblici subbiettivi in “Enciclopedia del Diritto
Giuffré”, vol. XII, Roma, 1964, p.794, nonché, dello stesso Autore, l’ottimo Manuale di
diritto amministrativo, Milano, 1999, specialmente, p. 279 e ss.; cfr. altresì il classico P.
VIRGA, Diritto amministrativo, vol. II, V ed., Milano, 1999, p. 170.
625 F. PIERANDREI, I diritti subbiettivi pubblici nell’evoluzione della dottrina
germanica, Torino, 1940, p. 127, dove riporta queste parole di Jellinek: “lo status libertatis
comprende un complesso di azioni che, in sé, sono giuridicamente irrilevanti, di cui le
libertà costituzionali sono alcune, ma non le sole, manifestazioni….Il diritto che a tale
status corrisponde è quello di poter agire autonomamente senza essere impedito dagli
organi statali. L’individuo non deve venire costretto ad alcuna prestazione contraria alla
legge, ed in conseguenza ha la pretesa derivante dal riconoscimento della sua libertà, di
ottenere che le autorità si astengano dall’impartigli ordini non conforme alla norma
suddetta e di esigere che siffatti ordini vengano, ove occorra, annullati”. E lo stesso
Jellinek afferma che la libertà “niente altro è che l’esenzione da costrizioni illegali”: cfr.
Cfr. G. JELLINEK, Il sistema cit., p.115.
DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO
392
Ulteriore e possibile situazione giuridica è quella denominata status
civitatis, la quale si viene a creare quando lo Stato concede ai cittadini
posizioni attive nei suoi confronti, in virtù delle quali in capo ai cittadini si
hanno situazioni giuridiche di vantaggio o beneficio, cui corrispondono
determinati obblighi dello Stato: ciò significa che in questo tipo di
rapporto pubblico i cittadini hanno diritto a determinate prestazioni da
parte dello Stato.
Infine, considerato che lo Stato-persona per poter agire
giuridicamente, non può non servirsi di persone fisiche, cui affida il
concreto esercizio delle sue competenze, l’ultima situazione giuridica è
quella in cui si trovano i cittadini che partecipano attivamente all’esercizio
delle funzioni statali: questo è lo status activae civitatis.
È bene chiarire che questi status non sono di per sé diritti
soggettivi: essi, infatti, hanno una valenza oggettiva, nel senso che
indicano le posizioni giuridiche generali in cui possono trovarsi i soggetti
giuridici che entrano in rapporto con lo Stato. Ciò che trasforma queste
situazioni (oggettive) giuridicamente rilevanti in diritti soggettivi è la
previsione legislativa di una pretesa del cittadino (che in uno di tali status
si trovi) nei confronti dello Stato al fine di far valere la tutela giuridica di
determinati beni collegati ai vari status.626
In questa prospettiva il carattere fondamentale del diritto soggettivo
è la capacità di agire giudizialmente: l’essenza del diritto soggettivo, sia
privato che pubblico, sta tutta in questo posse. Considerato che questo
posse consiste in una potestà creata e concessa dallo Stato, si deve anche
riconoscere che il diritto soggettivo è sempre una concessione dello Stato.
Affermata la pretesa del cittadino contro lo Stato, si tratta ora di
stabilire verso quali organi dello Stato-persona questa pretesa possa essere
avanzata.
Al riguardo Jellinek condivide la tesi, che fu già di Laband, secondo
cui i diritti soggettivi pubblici dei cittadini si fanno valere (soltanto)
contro lo Stato-amministrazione. Alla base di questa soluzione sta una
626 Cfr. G. JELLINEK, Il sistema cit., p.96:”Per il fatto di appartenere allo Stato, di
essere membro di esso, l’individuo è qualificato sotto diversi aspetti. I possibili rapporti
nei quali esso può trovarsi con lo Stato lo mettono in una serie di condizioni
giuridicamente rilevanti. Le pretese giuridiche che risultano da siffatte condizioni, sono ciò
che si designa col nome di diritti pubblici subbiettivi (il corsivo è dell’autore). I diritti
pubblici subbiettivi consistono, perciò, esclusivamente in pretese giuridiche (Ansprüche),
che risultano direttamente da condizioni giuridiche (Zustande)”.
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
393
particolare concezione delle funzioni statali,627
per cui, mentre la
legislazione e la giurisdizione rappresentano la sfera del giudizio,
l’amministrazione rappresenta la sfera dell’azione. Se ne inferisce che
rapporti giuridici e posizioni giuridiche attive possono aversi soltanto tra
soggetti che agiscono e, quindi, tra i privati e la pubblica
amministrazione.628
Se confrontata con le precedenti classificazioni, quella proposta da
Jellinek si caratterizza per essere basata su un criterio prettamente
oggettivo (gli status),629
ma quanto al contenuto i diritti soggettivi pubblici
di Jellinek sono gli stessi già enunciati da Gerber e Laband. Con
un'aggiunta importante, però: i diritti di libertà.
Analizziamo il contenuto dei diritti pubblici di libertà: essendo
connessi con lo status negativo, essi ineriscono a quella sfera individuale
di irrilevanza giuridica che risulta, in via residuale, dalla limitazione delle
competenze statali. In quest'ambito il singolo è naturalmente, non
giuridicamente libero. Essendo a priori escluso l'intervento dello Stato
(che solo crea il diritto) viene altresì esclusa la possibilità di situazioni
giuridiche soggettive.630
Esistono solo le facoltà naturali del soggetto, non
diritti: perché queste facoltà naturali si trasformino in situazioni giuridiche
soggettive, precisamente in diritti, occorre che intervenga lo Stato,
attribuendo, con una norma di diritto obbiettivo il potere (giuridico) di
agire giudiziariamente.
Se ne inferisce che il cittadino ha un diritto di libertà solo se ha (in
virtù di un'attribuzione statale) il potere di esperire un'azione
627 La concezione cui si fa riferimento nel testo era stata elaborata da Laband e
viene espressamente condivisa da Jellinek. Cfr. supra, § II.3.3 e II.3.4.
628 In una simile concezione i diritti pubblici soggettivi appaiono nascere e vivere
nell’ambito dei rapporti, e degli eventuali conflitti, tra privati e pubblica amministrazione
per il riconoscimento o la tutela della rispettiva libertà di azione; cfr. in tal senso A.
BALDASSARRE, Diritti pubblici soggettivi cit., p.6.
629 Gerber, invece, aveva distinto i diritti soggettivi pubblici sulla base di un
criterio soggettivo (monarca, funzionari, sudditi) e Laband si era avvalso di un criterio
misto (diritti dello Stato: all'ubbidienza e alla fedeltà; diritti dei cittadini: alla protezione
all'interno, alla protezione all'estero, alla partecipazione alla vita costituzionale dello
Stato).
630 Fin qui la posizione di Jellinek è perfettamente uguale a quella di Gerber, per il
quale, abbiamo visto, la libertà si configura giuridicamente più come un effetto riflesso che
come vero e proprio diritto soggettivo.
DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO
394
giudiziaria:631
l'azione non è più strumentale , ma costitutiva. Sembra,
infatti, potersi affermare che in tale prospettiva non è il potere di azione
che nasce dal diritto, ma il diritto che nasce dal un potere di azione.
Consideriamo, ora, la peculiarità, o se si vuole, la specificità dei
diritti pubblici di libertà. "Dal punto di vista del diritto pubblico la libertà
individuale (..) non si presenta né nella sua limitazione per un effetto di un
dovere, né nel suo rapporto con una facoltà; qui si tratta piuttosto della
possibilità astratta di intraprendere certe categorie di azioni, la quale, in
forza dello status negativo, non ha importanza giuridica di fronte allo
Stato. Nella stessa maniera in cui al diritto reale corrisponde il dovere
puramente negativo da parte delle persone, che eventualmente si trovino
in rapporto con colui che ne è investito, di non recargli molestia, così allo
status negativo corrisponde l'analogo dovere da parte di tutte le autorità le
quali vengano a trovarsi in rapporto con l'individuo. Esso è uno status
assoluto".
Questo passo ci permettere si sottolineare come per Jellinek i diritti
di libertà non solo non sono effetti riflessi ("la libertà nel diritto pubblico
non si presenta né nella sua limitazione per effetto di un dovere"), ma non
neppure diritti soggettivi privati ("..né nel suo rapporto con una facoltà").
Lo stesso passo ci permette anche un'altra osservazione: per Gerber
i diritti soggettivi privati e i diritti soggettivi pubblici costituivano due
entità concettuali completamente distinte; per Jellinek la distinzione, pur
ponendosi,632
non è più così netta. Gli uni e gli altri derivano unicamente
da una norma di diritto obbiettivo, il che è a dire dallo Stato: alla base di
ogni diritto soggettivo, attenga esso al diritto privato ovvero al diritto
pubblico, vi è sempre una potestà (consistente, come si ricorderà, nella
capacità di richiedere efficacemente tutela giuridica), la quale deriva da
una qualificazione della personalità.
Il limite della costruzione di Jellinek è insito nell’impostazione
concettuale del rapporto cittadino – Stato. Partendo dalla premessa che
631 A. BALDASSARRE, Diritti pubblici soggettivi cit., p.6: "in altre parole, l'actio,
che, secondo la comune dottrina processualistica, è qualcosa di strumentale rispetto a una
posizione giuridica sostanziale, è da Jellinek identificata con la posizione stessa per la cui
tutela giurisdizionale è prevista. (..) il principio per cui l'azione nasce in quanto si ha un
diritto viene rovesciato nel suo opposto".
632 Abbiamo visto, infatti, come il giurista di Heidelberg distingua i diritti
soggettivi privati e i diritti soggettivi pubblici sia sotto il profilo formale sia sotto il profilo
materiale.
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
395
l’unica e suprema volontà, nel campo del diritto pubblico, è quella statale,
e che il singolo è titolare di diritti, solo in quanto a lui concessi da questa,
il potere “di mettere in movimento norme giuridiche nell’interesse
individuale”, cioè il diritto pubblico subbiettivo (söR), è considerato
meramente eventuale, dato che spetta allo Stato decidere se conferirlo al
singolo o meno.633
Fondatore della teoria classica del söR è Othmar Bühler, che,
nell’opera Die subjektiven öffentlichen Rechte und ihr Schutz in der
deutschen Verwaltungsrechtssprechung,634
formula la prima definizione di
söR, rimasta a lungo indiscussa: “Subjektives öffentliches Recht ist
diejenige rechtliche Stellung des Untertanen zum Staat, in der er auf
Grund eines Rechtsgeschäft oder eines zwingenden, zum Schutz seiner
Individualinteressen erlassenen Rechtssatzes , auf den er sich der
Verwaltung gegenüber soll berufen können, vom Staat etwas verlangen
kann oder ihm gegenüber etwas tun darf ”.635
Il söR, dunque, designa il potere giuridico, attribuito al singolo da
norme di diritto pubblico, di perseguire i propri interessi, con l’aiuto
dell’ordinamento. La definizione di söR, fornita da Bühler, tuttavia, non
delinea soltanto il concetto dell’istituto, bensì individua anche i tre
presupposti necessari per la sua esistenza:636
1) “Zwingender Rechtssatz”: Una norma giuridica coercitiva di
diritto pubblico (o un negozio), che obblighi l’Amministrazione ad un
determinato fare, permettere, non fare; norma ,dunque, che escluda la
libera determinazione della Pubblica Amministrazione.
633 Con l’entrata in vigore della Costituzione tedesca, l’art. 19, IV comma,
attribuisce, in via generale, il potere di rivolgersi ad un giudice, in caso di lesione di un
söR. Il problema, attualmente, si è spostato sullo stabilire quali siano le norme di diritto
pubblico, che attribuiscono un söR al cittadino.
634 Cfr. O. BÜHLER, Die subjektiven öffentlichen Rechte und ihr Schutz in der
deutschen Verwaltungsrechtssprechung, Berlin - Stuttgart - Leipzig 1914.
635 Op. ult. cit., p. 7; propongo la seguente traduzione: “Il diritto soggettivo
pubblico è quella posizione giuridica del suddito nei confronti dello Stato, per cui il
suddito stesso, sulla base di un negozio giuridico o di una norma obbligatoria, emanata per
la protezione di un suo interesse individuale, ai quali egli nei confronti della pubblica
amministrazione, deve potersi richiamare, può pretendere qualcosa dallo Stato o può
permettersi di far qualcosa di fronte ad esso”.
636 H.U. ERICHSEN, Allgemeines Verwaltungsrecht, XI ed, Berlin, 1998, p. 244;
P.M. HUBER, Allgemeines Verwaltungsrecht, II ed., Heidelberg, 1997, p. 111.
DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO
396
2) “Schutznorm”: Lo scopo di questa norma deve consistere anche
nel soddisfacimento dell’interesse individuale, non solo, dunque, nella
realizzazione di quello pubblico.
3) “Verliehene Rechtsmacht”: La norma deve attribuire
all’interessato anche il potere di agire, in caso di violazione della stessa.
Il primo presupposto, (Zwingender Rechtssatz), sottolinea, con
chiarezza, la dipendenza del söR dal diritto oggettivo (rectius,
ordinamento giuridico). Ricollegandosi ai suoi predecessori, Bühler
riafferma il principio, per cui un söR sussiste in capo al singolo solo in
quanto attribuitogli dallo Stato, e non certo in quanto posizione
simmetrica ad un obbligo, previsto per la P. A., da una norma
pubblicistica.
Nel primo requisito, inoltre, si esclude che un söR possa essere
contenuto in una norma, che preveda per la P. A. un comportamento di
tipo discrezionale: il singolo, in questo caso, non può pretendere che la P.
A. eserciti tale discrezionalità.637
Il secondo presupposto (Schutznorm) rappresenta il tratto distintivo
dell’istituto, dal quale si è sviluppata l’ancora attuale “teoria della norma
di protezione” (die Schutznormtheorie).638
Affinché possa parlarsi di söR,
l’obbligo per la P. A., contenuto nella norma di diritto pubblico, deve
essere previsto dal legislatore, non solo in vista del perseguimento
dell’interesse della collettività, bensì anche al fine di tutelare la persona
del privato. In questo modo s’intende rivalutare la figura del singolo, che
non più mero Objekt del potere statale, assurge al ruolo di Rechtssubjekt,
titolare d’interessi considerati meritevoli di tutela da parte
dell’ordinamento giuridico; in questa prospettiva, ad una prima analisi,
non sembra che lo Stato escluda l’autonomia del soggetto, bensì sembra
637 In realtà, alla base di ogni forma di discrezionalità, c’è anche il dovere per la P.
A. di esercitarla; inoltre non può trattarsi di un esercizio arbitrario. Il fatto, quindi, che il
potere discrezionale non venga esercitato da una P. A., quando la legge lo preveda, o sia
male esercitato, può giustificare la pretesa, da parte del cittadino, che la legalità sia
rispettata. Tutto questo è stato recepito dall’attuale dottrina tedesca, facendo risultare
superfluo il primo presupposto, contenuto nella definizione di Bühler. Si confronti, in
particolare, H. MAURER, Allgemeines Verwaltungsrecht, XI ed., München, 1997, pp. 158-
159; nonché A.M. SANDULLI, Diritto amministrativo, cit., vol. 1, pp. 592-597.
638 Cfr. il classico U. BATTIS, Allgemeines Verwaltungsrecht, Heidelberg 1985, p.
74; altresì l’autorevole ed assai diffuso, H.J. WOLFF – O. BACHOF, Verwaltungsrecht I, X
ed., München, 1994, p. 564.
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
397
che la indirizzi verso la costituzione di se stesso, accogliendo in sé
l’individualità e personalità dei sudditi.
In realtà, anche per Bühler, continua ad essere valida la distinzione
fondamentale tra diritto privato e pubblico, operata dai suoi predecessori:
Nell’ambito del diritto privato, gli interessi individuali sono sullo stesso
piano, ed ognuno può liberamente perseguire i propri; nell’ambito del
diritto pubblico, invece, l’interesse pubblico prevale su quello dei privati,
e, affinché il singolo possa “mettere in movimento norme giuridiche
nell’interesse individuale”, è indispensabile che il legislatore riconosca,
come degno di tutela, tale suo interesse. L’esercizio di un söR da parte del
singolo non è, dunque, libero, bensì vincolato alla circostanza che possa
giovare anche alla collettività. Non più in netta evidenza, ma comunque
sempre presente, rimane la concezione pseudo-hegeliana di
compenetrazione tra cittadino e Stato.
L’ultimo presupposto della definizione di Bühler, (Verliehene
Rechtsmacht), consiste nell’espresso conferimento al singolo, (contenuto
nella norma pubblicistica), del potere giuridico, (legittimazione
all’azione), di adire un giudice, in caso di lesione da parte della P.A. del
söR, avvenuta in violazione della norma medesima. Questo elemento, già
riconosciuto da Jellinek, rappresenta un tratto distintivo della costruzione
di Bühler, rispetto a quella gerberiana, che escludeva l’azionabilità di
norme pubblicistiche, in favore dei singoli. Il requisito della Verliehene
Rechtsmacht risulta, dunque, indispensabile al fine di distinguere i söRe
dai Rechtsreflexe di matrice gerberiana.
Per quanto si possa affermare, infine, che anche i diritti
fondamentali (Grundrechte) dell’individuo mirino alla tutela di interessi
individuali, e quindi siano anch’essi söRe, secondo Bühler possono essere
norme di protezione (Schutznormen), in senso stretto, soltanto le
disposizioni di legge, che disciplinano il comportamento della P.A. I
Grundrechte sono considerati, piuttosto, quali principi direttivi, che il
legislatore deve osservare nella produzione di norme giuridiche.639
La
struttura del söR, enunciata nella definizione di Bühler, riprende, infatti,
quella della pretesa (Anspruch) di tipo privatistico, che si evince dal § 194
639 Cfr. O. BÜHLER, Die subjektiven öffentlichen Rechte und ihr Schutz in der
deutschen Verwaltungsrechtssprechung, cit., p. 155. Questa concezione continua a
prevalere anche nell’attuale dottrina. Cfr. A. BLEKMANN, Die Klagebefugnis im
verwaltungsgerichtlichen Anfechtungsverfahren, in “Verwaltungsblätter für Baden -
Württemberg ”, 1985, pp. 361-365.
DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO
398
del BGB,640
e non si adatta a quella dei Grundrechte; di conseguenza, la
volontà del legislatore continua a rivestire un ruolo decisivo
nell’attribuzione di söRe ai singoli.
Al tempo in cui Bühler scriveva, la distinzione tra söRe e
Rechtsreflexe trovava, in realtà, la sua giustificazione nella mancanza di
una norma di carattere generale che consentisse al cittadino di far valere i
propri diritti verso lo Stato, attribuendogli la legittimazione ad agire
(Klagebefugnis), in tutti i casi in cui avesse subito una lesione illegittima
da parte della P.A.. Con l’entrata in vigore della Legge Costituzionale
tedesca (Grundgesetz) nel 1945, invece, venne introdotta la clausola
generale della Rechtsweggarantie, contenuta nell’Art. 19, IV comma.
Questa norma riconosce al singolo la legittimazione ad agire dinanzi ad un
giudice, in caso di qualsiasi lesione antigiuridica dei propri diritti, operata
dallo Stato.641
Fu Otto Bachof, dunque, negli anni Cinquanta, a sottolineare
l’inutilità del terzo requisito della definizione di söR, fornita da Bühler,
dato che la Rechtsmacht veniva già attribuita al Bürger, in via generale,
dalla suddetta norma costituzionale.
Per Bachof, il söR consiste nella “einer Person verliehene
Willensmacht zur Befriedigung des Eigeninteresses oder eines ihr durch
die Rechtsordnung ausdrücklich zur Wahrnehmung im eigenen Namen
übertragenen Interesses”.642
Requisito essenziale per l’esistenza di un söR diventa, dunque, il
carattere di Schutznorm, che la disposizione di diritto pubblico deve
rivestire: La ratio di questa disposizione dovrà consistere sia nella tutela
dell’interesse pubblico, sia di quello privato. In seguito all’entrata in
640 Nel BGB (Bürgerliches Gesetzbuch, il Codice Civile tedesco), al § 194, I
comma, nel disciplinare la prescrizione, viene fornita una definizione di Anspruch: “Das
Recht, von einem anderen ein Tun oder ein Unterlassen zu verlangen (Anspruch),
unterliegt der Verjärung”. Che si può tradurre: “Il diritto di pretendere da un altro un fare
od un non fare (pretesa), è sottoposto a prescrizione”.
641 Cfr. H. MAURER, Allgemeines Verwaltungsrecht, XI ed., München, 1997, p.
117; nonché H.J. WOLFF – O. BACHOF, Verwaltungsrecht I, X ed., München, 1994, p. 323.
642 O. BACHOF, Reflexwirkungen und subjektive Rechte im öffentlichen Recht, in
“Gedächtnisschrift für Walter Jellinek”, 1955, pp. 287-300. Propongo la seguente
traduzione: “Potestà di volere attribuita ad una persona per il soddisfacimento dei propri
interessi o di un interesse a lei trasferito espressamente dall’ordinamento giuridico,
affinché sia realizzato in nome proprio”.
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
399
vigore della GG, inoltre, i Grundrechte acquistano un’efficacia superiore
rispetto alle altre fonti giuridiche: Il legislatore è tenuto a concedere söRe
ai cittadini non in modo arbitrario, bensì ottemperando ai principi
costituzionali, così come aveva già anticipato Bühler.
In realtà, di regola, spetta al legislatore l’attribuzione di söRe al
Bürger, ed i Grundrechte hanno solo il ruolo di direttiva; ultimamente,
però, in via eccezionale, è stato possibile un richiamo diretto ai
Grundrechte, in qualità di söRe, nei casi in cui il legislatore non abbia
garantito con legge interessi individuali, considerati degni di tutela
costituzionale.643
Tutto questo è significativo della sottesa concezione
autoritativa al rapporto Bürger - Staat, ancora oggi presente nel diritto
amministrativo della Repubblica federale di Germania.
Nel 1924 Otto Mayer affermava: “Verfassungsrecht vergeht,
Verwaltungsrecht besteht”,644
per quanto, infatti, il diritto amministrativo
dipenda dal diritto costituzionale, e ne sia la realizzazione sul piano
positivo, fornendo concrete soluzioni alle modificazioni della realtà
sociale accolte nella Costituzione, relativamente alla figura del söR,
invece, sembra trovare conferma quanto asseriva Mayer.
Il söR è un istituto fondamentale sia del diritto costituzionale, sia di
quello amministrativo, e, dunque, punto di connessione dei due distinti
ambiti giuridici; ad una prima riflessione, però, sembra che l’evoluzione
in senso democratico della visione del rapporto Bürger - Staat,
sviluppatasi sul piano costituzionale, non si sia verificata, invece, su
quello amministrativo, in particolare riguardo ai söRe.
Con l’entrata in vigore della GG, i Grundrechte, (diritti soggettivi
pubblici per eccellenza), sono stati riconosciuti come situazioni giuridiche
soggettive, proprie di ogni Bürger in quanto tale, inviolabili ed
inalienabili, e lo Staat è stato sottoposto alla GG stessa; dal punto di vista
del diritto amministrativo, invece, il Bürger viene ancora considerato in
posizione subordinata e di dipendenza rispetto allo Staat - Verwaltung,
come dimostra il fatto che la definizione attuale di söR, non si discosta
minimamente da quelle di Jellinek e Bühler, che , ricordiamo, si avvalsero
643 Cfr. la decisione del 16 giugno 1969 del Tribunale Amministrativo Federale
(Bundesverwaltungsgericht), che si può leggere nella sua interezza in
“Bundesverwaltungsgerichtsentscheidungen”, vol. 32, p. 173.
644 Cfr. O. MAYER, Deutsches Verwaltungsrecht, III ed. Leipzig 1924, vol. 1,
introduzione; che può essere reso: “Il diritto costituzionale passa, il diritto amministrativo
resta”.
DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO
400
delle stesse premesse teoriche dei giuristi, che nel secolo scorso subirono
la suggestione dei Rechtshegelianer. L’unica differenza, infatti, tra le
definizioni dell’istituto, di ieri e di oggi, consiste nell’aver sostituito il
sostantivo Untertan con quello più moderno di Bürger.645
Ad una più attenta analisi, in realtà, è da notare che l’esigenza di
pervenire ad una modificazione concettuale del rapporto tra cittadino e
Stato, anche nell’ambito del diritto amministrativo, si è manifestata,
recentemente, proprio sul piano della pratica, portando, da un lato, il
legislatore ad aumentare in misura considerevole le fattispecie normative,
attributive di söRe, da un altro, la giurisprudenza a ideare istituti
d’interpretazione delle norme stesse, da ultimo la dottrina a formulare
proposte di nuovo inquadramento concettuale dell’istituto, al fine di
superare i limiti delle vecchie concezioni organicistico - autoritative.
Con l’introduzione della Rechtsweggarantie dell’Art. 19, IV
comma, GG e la sua traduzione sul piano del diritto positivo nel § 42, II
comma, VwGO,646
viene meno, dunque, il terzo requisito della definizione
classica di söR, assumendo rilievo, invece, il carattere di Schutznorm che
deve avere una disposizione di diritto pubblico, affinché possa essere
azionata dal singolo per la tutela di un proprio interesse, in virtù della
Klagbefugnis647
contenuta, appunto, nel § 42, II comma, VwGO.
645 Si confrontino le definizioni di Jellinek e Bühler, con quelle fornite dalla più
recente dottrina: “Das söR ist demnach – aus der Sicht des Bürgers – die dem Einzelnen
kraft öffentlichen Rechts verliehene Rechtsmacht, vom Staat zur Verfolgung eigener
Interessen ein bestimmtes Verhalten verlangen zu können.” Traduco così: “Il diritto
soggettivo pubblico è dunque - dal punto di vista del cittadino- il potere giuridico,
attribuito al singolo in forza del diritto pubblico, di poter pretendere dallo Stato un
comportamento determinato, al fine del perseguimento dei propri interessi”; H. MAURER,
All. Verw., cit., p. 149; così anche E. FORSTHOFF, Lehrbuch des Verwaltungsrecht
Allgemeiner Teil, X ed., München, 1973, vol. 1, p.186; R. SCHWEICKHARDT, Allgemeines
Verwaltungsrecht, VI ed., Stuttgart, 1991, p. 100; H.J. DRIEHAUS – R. PIETZNER,
Einfürung in das Allgemeines Verwaltungsrecht, II ed., München, 1992, p. 47; K. SUPLIE,
Allgemeines Verwaltungsrecht, Herford, 1992, p. 151; E. EYERMANN – L. FRÖHLER,
Verwaltungsordunungsgericht. Kommentar, II ed., München, 1998, p. 267.
646 Abbreviazione di Verwaltungsgerichtsordnung (Legge di giustizia
amministrativa) del 1.4.1960, novellata il 17.12.1990.
647 Per un’esposizione sui vari tipi di Klage previsti dall’ordinamento tedesco, a
tutela delle situazioni soggettive di carattere pubblicistico vedi N. ACHTERBERG, Die
Klagbefugnis-eine entbehrliche Sachurteilsvoraussetzung?, in “Deutsches
Verwaltungsblatt”, 1981, pp. 278-283.
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
401
Una norma può essere “di protezione” solo quando tuteli, accanto
all’interesse pubblico, anche un interesse privato. Dato che, il più delle
volte, il legislatore non indica espressamente quale sia la ratio di una
disposizione normativa pubblicistica, spetterà all’interprete, in particolare
al giudice (Richter), stabilire se la norma alla quale l’attore (Kläger) si
richiama, (in seguito ad una lesione subita da parte di una P.A.), sia
indirizzata, o meno, anche alla tutela dell’interesse individuale di questi,
conferendogli, così, la titolarità di un söR.648
A partire dagli anni Cinquanta la figura del söR si è, dunque,
trasformata in un problema d’interpretazione (Auslegungsproblem).
L’oggetto dell’interpretazione è costituito dal carattere di Schutznorm, che
deve possedere la disposizione pubblicistica, potenzialmente attributiva di
un söR al Bürger; per questo motivo, l’insieme delle proposte elaborate649
da dottrina e giurisprudenza, al fine di individuare se sussista o meno tale
caratteristica, ha preso il nome di “Teoria della norma di protezione”
(Schutznormtheorie).
La dottrina non è, ancora oggi, unanime, riguardo a quale criterio, o
somma di criteri,650
ci si debba riferire, per individuare se sussista, o
meno, un söR, in capo ad un soggetto.
Tutto questo comporta che, nell’ambito di un processo, il Richter è
libero di richiamarsi all’uno o all’altro autore, assumendo, dunque, un
ruolo significativo, (e quasi prevalente, rispetto a quello del legislatore),
648 Si confronti U. BATTIS, Allgemeines Verwaltungsrecht, Heidelberg 1985, p. 74;
nonché H.J. WOLFF – O. BACHOF, Verwaltungsrecht I, X ed., München, 1994, p. 564; ed in
fine, H.U. ERICHSEN, Allgemeines Verwaltungsrecht, XI ed, Berlin, 1998, p. 244.
649 Si veda H. BAUER, Geschichtliche Grundlagen der Lehre vom subjektiven
öffentlichen Recht, Berlin, 1986, p. 140-143; IDEM, Subjektive öffentliche Rechte des
Staates. Zugleich ein Beitrag zur Lehre vom subjektiven öffentlichen Recht, in “Deutsches
Verwaltungsblatt”, 1986, pp. 208-219, nonché IDEM, Altes und Neues zur
Schutznormtheorie, in “Archiv des öffentlichen Rechts”, vol. CXIII (1988), pp. 583-631.
650 Ci riferiamo al tradizionale canone interpretativo, noto anche alla dottrina
italiana, che si basa: 1) sul tenore letterale della norma (Wortlaut); 2) sul contesto in cui la
norma si trova (Systematik); 3) sul criterio storico (Entstehungsgeschichte) e 4) sulla ratio
(Schutzzweck). Si veda H.U. ERICHSEN, Allgemeines Verwaltungsrecht, XI ed, Berlin,
1998, p. 251; P.M. HUBER, Allgemeines Verwaltungsrecht, II ed., Heidelberg, 1997, p.
111-113. Relativamente alla letteratura italiana, si veda anche L. PALADIN, Le fonti del
diritto italiano, Bologna, 1996, pp. 97-119; M. BERTOLISSI - R. MENEGHELLI, Lezioni di
diritto pubblico generale, Torino, 1996, pp. 94-104; L. CARLASSARE, Conversazioni sulla
Costituzione, Padova, 1996, pp. 110-114.
DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO
402
nello stabilire il grado di tutela, da conferire al singolo, nel caso
concreto.651
Il Kläger, si troverà, dunque, in uno stato di completa
incertezza, non potendo prevedere le sorti del processo.
La posizione del Richter, inoltre, sembra non essere conforme al
principio democratico della “separazione dei poteri”: Il giudice del caso
concreto, infatti, nel bilanciamento degli interessi in gioco, fa le veci del
legislatore, tutte le volte in cui quest’ultimo non fornisce indicazioni
precise sulla natura della ratio di una norma pubblicistica.
Questa problematica non investe solo quei soggetti di diritto, che
sono diretti destinatari (Adressaten) di un atto amministrativo
antigiuridico (Rechtswidrige Verwaltungsakt), bensì anche quei soggetti
terzi (Dritte), rispetto al rapporto giuridico destinatario- P.A., a cui l’atto
medesimo non è indirizzato. In tutti i casi, quindi, in cui il rapporto
giuridico, che intercorre tra Bürger e Staat, non sia di tipo bilaterale
(zweiseitige Verhältnis), cioè tra due soggetti, bensì trilaterale
(Dreieckverhältnis),652
o plurilaterale, in caso di più soggetti coinvolti, si è
cercato, sia in dottrina, sia in giurisprudenza, di estendere la tutela
soggettiva giurisdizionale anche a questi soggetti terzi. Essi saranno
titolari di un söR, ogniqualvolta la norma violata dalla P.A. abbia ad
oggetto anche il perseguimento del loro interesse individuale, oltre a
quello pubblico, valendo, dunque, anche per loro la Schutznormtheorie.653
651 Alcuni autori, con preoccupazione giungono a descrivere il fenomeno come un
“Irrgarten des Richterrechts” (“giardino degli errori del diritto giudiziale”); vedi R.
BREUER, Baurechtlicher Nachbarschutz, in “Deutsches Verwaltungsblatt”, 1983, pp. 431-
440; così anche W. KREBS, Subjektiver Rechtsschutz und objektive Rechtskontrolle, in
“System des verwaltungsgerichtlichen Rechtsschützes, Festschrift für Christian - Friedrich
Menger zum 70. Geburtstag”, 1985, pp.191-210, specialmente p. 206; K. REDEKER, Das
baurechtliche Gebot der Rücksichtnahme(I), in “Deutsches Verwaltungsblatt”, 1984, pp.
870-874.
652 Si tratta, per esempio, del rapporto tra cittadino avvantaggiato da un
provvedimento amministrativo, Stato, e cittadino svantaggiato dallo stesso provvedimento
(begünstigter Bürger/Staat/belasteter Bürger). Confronta su questo punto M. BOTHE, Die
Entscheidungen zwischen öffentlich-rechtlich geschützten Positionen Privater durch
Verwaltung und Gerichte, in “Juristen Zeitung”, 1975, pp. 399-406; ma già G. FROMM,
Verwaltungsakte mit Doppelwirkung, in “Der Staat”, 1964, pp. 26-54.
653 Secondo il Bundesverwaltungsgericht “…bei der Anfechtung von
Verwaltungsakten mit Drittwirkung der belastete Dritte nur die Verletzung solcher
rechtliche Vorschriften geltend machen könne, die nicht nur dem allgemeinen öffentlichen
Interesse, sondern auch seinen besonderen Belägen zu dienen bestimmt seien”, in
“Bundesverwaltungsgerichtsentscheidungen”, vol. 53, pp. 30-63; propongo la seguente
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
403
Questa attenzione rivolta ai Dritte, del rapporto pubblicistico tra
Bürger e Verwaltung, testimonia l’esigenza di estendere la tutela
soggettiva dei cittadini, di fronte allo Stato, sempre ad un numero
maggiore di fattispecie, cercando, in questo modo, di aggirare il
monopolio che il Legislatore ancora oggi detiene sul potere di
“concedere” söRe ai singoli.
Ulteriore e significativo passo avanti, in questo senso, si è avuto, tra
gli anni Cinquanta e Sessanta, attraverso l’elaborazione della “Teoria del
Destinatario” (Adressatentheorie), da parte della dottrina, e in particolare,
della giurisprudenza del BverwG.654
La Adressatentheorie distingue tra i
casi in cui il Kläger sia, o meno, Adressat dell’atto amministrativo
illegittimo, che egli intenda fare annullare, in quanto antigiuridico e lesivo
di un suo interesse particolare (§ 42, II comma e § 113 VwGO). Si
sostiene, infatti, che il Kläger, in qualità di Adressat, sia titolare, in via di
principio, della pretesa che l’atto medesimo sia conforme alla legge
(Anspruch auf Rechtmäßigkeit), sulla base dell’Art. 2, I comma, GG:
“Jeder hat das Recht auf die freie Entfaltung seiner Persönlichkeit, soweit
er nicht die Rechte anderer verletzt und nicht gegen die
verfassungsmäßige Ordnung oder Sittengesetz verstößt”.655
La P.A., considerata soggetto di diritto e sottoposta anch’essa
all’ordinamento giuridico, in base all’Art. 2, I comma, GG, non può agire
in violazione della legge e ledendo gli interessi dei cittadini, perché ciò
sarebbe contrario ai principi costituzionali; il cittadino, dunque, che
traduzione: “…nel caso di annullamento di atti amministrativi con effetti verso il terzo
danneggiato, questi può far valere la lesione solo di quelle norme giuridiche, che intendono
giovare, non solo all’interesse pubblico generale, bensì anche i suoi particolari affari”. Per
quanto riguarda il parere contrario di applicare la Schutznormtheorie anche ai rapporti
trilaterali vedi A. BLANKENGEL, Klagefähige Rechtspositionen im Umweltrecht. Vom
subjektiven Recht eines Individuums zum Recht eines individualisierten Subjekt, in “Der
Staat”, 1990, pp.1-26.
654 Si veda la decisione in “Bundesverwaltungsgerichtsentscheidungen”, vol. 6, pp.
32-41 del 16.1.1957; nonché R. BERNHARDT, Zur Anfechtung von Verwaltungsakten durch
Dritte, in “Juristen Zeitung”, 1963, pp. 302-308; R. SCHMIDT, Der Rechtsschutz des
Konkurrenten im Verwaltungsprozess, in “Neue Juristische Wochenschrift”, 1967, pp.
1635-1639; M. ZULEEG, Hat das subjektive Öffentliche Recht noch eine
Daseinsberechtigung?, in “Deutsches Verwaltungsblatt”, 1976, pp. 509-515.
655 “Ognuno ha il diritto al libero sviluppo della propria personalità, fino al punto,
(però), di non ledere i diritti degli altri e di non andare contro l’Ordinamento costituzionale
o le consuetudini”.
DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO
404
decida di convocare in giudizio una P.A., potrà pretendere l’annullamento
di un atto amministrativo antigiuridico, emesso nei suoi confronti e a suo
svantaggio, denunciandolo quale attacco (Eingriff) dello Stato -
Amministrazione alla sua sfera di libertà. L’Art. 2, I comma, GG, così
interpretato, sancisce in via generale il principio di libertà del Bürger, di
fronte a qualsiasi costrizione antigiuridica statale. Il BverwGE riconosce
in questo articolo costituzionale la garanzia “eines letzten unantastbaren
Bereiches menschlicher Freiheit, der der Einwirkung der gesamten
öffentlichen Gewalt entzogen ist”,656
richiamandosi direttamente a tale
articolo, il singolo può vantare il diritto fondamentale (grundrechtliche
Anspruch) di non subire un pregiudizio a causa del potere statale, che non
trovi giustificazione nella Costituzione.
In conclusione, il destinatario di un atto illegittimo, sulla base
dell’Art. 2, I comma, GG, è legittimato ad agire in giudizio, contro la P.A.
che l’ha emesso, indipendentemente dal fatto che l’illegittimità dell’atto
risieda nella violazione di una norma di diritto pubblico, che sia diretta
alla tutela di un suo interesse, o di quello di un altro soggetto, o della
collettività in generale: Per lo Adressat non vale più la
Schutznormtheorie.657
La Adressatentheorie, condivisa attualmente dall’opinione
dominante (herrschende Meinung), è di grande significato sul piano
teorico, perché rappresenta la risposta, maturata sul piano della pratica,
all’esigenza di abbandonare l’ormai inadeguata concezione della
compenetrazione tra cittadino e Stato, di suggestione pseudo hegeliana; la
figura del cittadino è innalzata dal ruolo passivo di Untertan a quello
attivo di Bürger, cioè soggetto di diritto, che riveste un ruolo di rilievo
nella società. Per quanto riguarda il rapporto cittadino - Stato, la
prospettiva nel considerare i due soggetti risulta completamente
modificata, rispetto a quella dei padri fondatori del diritto pubblico,
perché, ora, il primo viene considerato alla pari del secondo e, non
656 Propongo la seguente traduzione: La garanzia “di un ultimo inviolato ambito di
libertà umana, sottratto all’influenza del potere pubblico nel suo complesso”; l’originale si
può leggere in “Bundesverwaltungsgerichtsentscheidungen”, vol. 6, p. 41.
657 Confronta l’analisi critica di M. HOFFMANN, Der Abwehranspruch gegen
rechtswidrige hochzeitliche Realakte, Berlin, 1969, pp. 61-70.
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
405
essendo più in questo sussunto, può controllarne l’agire da una posizione
distinta, pur sempre all’interno dell’ordinamento giuridico.658
L’indagine potrebbe proseguire ancora a lungo; tuttavia, per i nostri
scopi, è sufficiente mettere in evidenza come la stessa concezione
imperativistica del diritto (cioè quella concezione che professa l’essenza
del diritto nell’imperativo della volontà), nei sui tratti più raffinati, fondi
l’essenza del diritto soggettivo non sulla potestas del titolare sulla cosa,
ma sul riconoscimento altrui del proprio diritto sulla cosa, che si manifesta
nell’aspettativa di comportamenti, positivi o negativi, da parte degli altri
consociati o degli organi dello Stato, eccitabili, eventualmente, mediante
la pretesa. Si tratta, ci pare, di quel carattere noto come “alterità” del
diritto che, se può essere anche inteso come coesistenza degli arbitri, al
modo di Kant, non di meno veicola la fuoriuscita dalla prospettiva
dell’unicità ancora tematizzata da Windscheid.
Anche qualora si ammetta che oltre queste due figure, interesse e
diritto (dovere), vi sia il luogo della facoltà, intesa come agere licere
secondo le costruzioni dello spazio giuridicamente vuoto o della norma
generale esclusiva proposta da Zitelmann, non è men vero che tale spazio
e circoscritto ancora una volta da una norma dello Stato, ovvero ancora
una volta in forza di una manifestazione della sovranità.
Infatti, all’idea di monopolio del diritto da parte dello Stato, si lega
inscindibilmente il dogma della sua completezza: l’ordinamento giuridico
dello Stato è considerato completo o meglio deve ritenersi come se fosse
completo e il diritto statale idoneo a disciplinare ogni caso possibile.
Altrimenti, se si ammettesse l’esistenza di fonti extrastatuali, si
introdurrebbe la possibilità di un diritto concorrente,659
non più
658 Per König: “Insoweit wird also der Grundsatz der Gesetzmäßigkeit der
Verwaltung durch das Grundrecht, (l’Art. 2, I comma, GG), subjektiviert”; che così
traduco: “Perciò, dunque, il principio della conformità alla legge dell’Amministrazione
viene soggettivato attraverso il diritto fondamentale, (l’Art. 2, I comma, GG)”; S. KÖNIG,
Drittschtz. Der Rechtsschutz Drittbetroffener gegen Bau- und Anlagengenhmigungen im
öffentlichen Baurecht, Immissionschutsrecht und Atomrecht, Berlin, 1993, pp. 33-35; si
veda anche W. KREBS, Subjektiver Rechtsschutz und objektive Rechtskontrolle, in “System
des verwaltungsgerichtlichen Rechtsschützes, Festschrift für Christian - Friedrich Menger
zum 70. Geburtstag”, 1985, pp.191-210.
659 Ma ciò significherebbe, osserva Bobbio, “rompere il monopolio della
produzione giuridica statale. Ed è per questo che l’affermazione del dogma della
completezza va di pari passo con la monopolizzazione del diritto da parte dello Stato”. Cfr.
N. BOBBIO, Teoria dell’ordinamento giuridico, Torino, 1960, p.133.
DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO
406
espressione della volontà del Sovrano,660
contravvenendo al principio
fondamentale del positivismo giuridico.
È noto che se si concepisce il diritto come atto di volontà sovrana,
esclusivamente statuale e, di conseguenza, l’ordinamento giuridico come
completo, si deve escludere l’esistenza stessa della lacuna, intesa quale
mancanza, nell’ordinamento giuridico positivo (l’unico cui si possa fare
riferimento), di una norma idonea a disciplinare un determinato caso
sottoposto all’interprete.
In realtà, si è riconosciuta l’impossibilità per qualsiasi legislatore di
prevedere e regolare tutti i casi che la multiforme esperienza si incarica di
procurare. In quest’ottica, sul piano operativo, laddove il giudice abbia per
legge il dovere di decidere,661
e l’obbligo di far ciò, applicando al caso una
norma dell’ordinamento (anche il giudice infatti è completamente
soggetto all’atto di volontà del Sovrano-legislatore), il dogma della
completezza può reggere, perché dinanzi alla lacuna che pur si apre,
contravvenendo a qualsiasi affermazione di principio (secondo Ascarelli,
è la realtà che, con un crescendo mozartiano, “bussa” alle porte del
diritto!), si può “fingere” che questa non sia una reale mancanza di norma,
che le lacune pertanto siano inesistenti, poiché dev’essere sempre
possibile risolvere il caso, ed applicando una norma dell’ordinamento
positivo.
Com’è noto, a tal fine, si ricorre all’analogia (analogia legis) e ai
principii generali del diritto (analogia iuris)662
alla ricerca di una volontà
660 Con la formazione degli Stati assoluti, il concetto stesso di diritto comune a
Stati diversi entra in crisi, mentre si irrobustisce l’idea del diritto come legge emanata dal
singolo Stato. Cfr. L. LOMBARDI VALLAURI, Corso di filosofia del diritto, Padova, 1981, p.
26. È interessante notare come, in parallelo con l’integrazione europea, da un lato, la
centralità del dato positivo sembri sospingersi verso un rinnovato jus commune, dall’altro,
al di là del diritto positivo, emerge una nuova lex mercatoria. Per quest’ultimo aspetto, cfr.
L. FRANZESE, Contratto negozio e lex mercatoria tra autonomia ed eteronomia, in “Riv.
dir. civ.”, 1997, parte I, p. 771 e ss.
661 Capostipite degli ordinamenti fondati sul dogma della completezza è quello
francese, in cui l’art. 4 del Code Napoléon dispone: “il giudice che ricuserà di giudicare,
sotto pretesto del silenzio, dell’oscurità, od insufficienza della legge, potrà essere
processato come colpevole di denegata giustizia”.
662 Il ricorso ai principi generali del diritto si pone, in quest’ottica, come assai
problematico, poiché la maggior parte di essi è inespressa; manca, insomma, per
definizione, una disposizione o espressione normativa dalla quale possa ricavarsi la norma
da applicare alla fattispecie concreta. Per un’individuazione di quali possano essere i
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
407
legislativa non espressa, ma, si dice, facilmente ricavabile dal sistema, una
volontà presunta, implicita. Può essa essere allora considerata veramente
atto di volontà?
Tutto ciò ci impone la distinzione tra volontà presupposta e volontà
presunta.
La prima delle due qualificazioni del termine volontà indica ciò che
si deve ammettere come precedente ad altro e come sua condizione, ciò
che è posto a fondamento ipotetico deduttivo di un ragionamento, di
un’argomentazione: trattasi della convenzione663
da cui procede il
ragionamento scientifico.
principi generali, si veda R. QUADRI, Dell’applicazione della legge in generale, a cura di
A. SCIALOJA e G. BRANCA, Bologna-Roma, p. 282. Ci sono principi espressi
positivamente, per es. quello che dice che la capacità giuridica è regola nel nostro
ordinamento. Talvolta, e qui nascono le difficoltà predette, si elevano a principi taluni
concetti inespressi che in realtà trascendono il sistema legislativo (si veda il principio
dell’indebito arricchimento nella vigenza del codice del 1865), quasi si potrebbe dire per la
loro eccessiva evidenza nel quadro di una tradizione giuridica e di un tipo di civiltà. In altri
casi si tratta di concetti di pura logica come quando si cita il principio nemo plus iuris in
alium transferre potest quam ipse habet.
Sull’argomento, si veda N. BOBBIO, Teoria dell’ordinamento giuridico, cit., p.
179-184, in particolare si sofferma sulla differenza tra principi generali espressi o non
espressi, dopo averne constatata la natura normativa.
Per il dibattito sull’analogia legis e iuris, si vedano: B. BRUGI, L’analogia di diritto
e il cosiddetto giudice legislatore, in “Dir. Comm.”, 1916, I, p. 262-75; G. DEL VECCHIO,
Sui principi generali del diritto, in “Archivio Giuridico”, LXXXV, 1921, p. 33-90, ora in
Studi sul diritto, vol. I, Milano 1958, p. 207-270; V. MICELI, I principi generali di diritto,
in “Riv. Dir. Civ.”, 1923, p. 23-42; V. RAGUSA, L’araba fenice, ovvero dei principi
generali del diritto, Roma, 1924; M. ROTONDI, Equità e principi generali del diritto, in
“Riv. dir. civ.”, 1924, p. 266-275; N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino,
1938; E. BETTI, Sui principi generali del nuovo ordine giuridico, in “Riv. dir. comm.”,
1940, I, p. 217-223; M. S. GIANNINI, L’analogia giuridica in “Jus”, 1941, p. 516-549,
1942, 35-75. Per il dibattito successivo, cfr. E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione,
2 voll., Milano (1955), ed. postuma 1990; N. BOBBIO, Analogia, in Novissimo Digesto
Italiano, Torino, 1957, p. 601; A.G. CONTE, Ricerche in tema di interpretazione analogica,
Pavia, 1957; L. CAIANI, Analogia. b) Teoria generale, in “Enc. dir.”, II, Milano, 1958, p.
348; N. BOBBIO, Principi generali di diritto, in “Novissimo Digesto Italiano”, XIII,
Torino, 1966, p. 887 ss.; F. MODUGNO, Principi generali dell’ordinamento, in “Enc. Giur.
Treccani”, Roma, 1991, vol. XXIV. Cfr., altresì, supra note 165 e 166.
663 “Con il principio di convenzionalità perde valore il classico argomento di
Kirchmann contro la scientificità della giurisprudenza. Se è possibile, infatti, una scienza
rigorosa che parte da una proposizione qualsiasi scelta come premessa, è possibile allora
una scienza che assume come premessa le proposizioni del legislatore”. Cfr. A. BARATTA,
Il positivismo e il neopositivismo, in “Atti dell’XI Congresso nazionale della Società
Italiana di Filosofia giuridica e politica”, Milano, 1977, p. 52.
DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO
408
La seconda qualificazione del termine volontà, che ci fornisce
l’aggettivo presunta, indica invece ciò che si ritiene esistere dai più in
base ad indizi più o meno validi. Appare, quindi, chiaro che la volontà
presunta non sia pensata come una convenzione, che è posta per un fine
operativo, ma come una realtà esistente, anche se provata indirettamente,
tramite appunto una presunzione. Ma in tal modo ci si pone al di fuori del
procedimento scientifico e, per non subire critiche radicali, si dovrebbe
dimostrare che l’esistenza di detta volontà è reale, come si è presunto. Ci
si è infatti serviti di una presunzione iuris tantum, cioè relativa, che si
espone alle critiche di chi, ponendosi in una prospettiva an-ipotetica,
possa arrivare a contraddire la presunzione, dimostrandone il contrario. È
chiaro dunque come quest’ultima non sia da sola sufficiente per la prova
dell’esistenza della volontà, perché all’attacco mosso da più parti sarà
necessario ricorrere ad una prova, non solamente indiretta, qual è la
presunzione, ma diretta del fatto ignoto, ovvero della volontà del
legislatore, che ci si era limitati solo a presumere, per giungere infine a
dimostrare che tale volontà esiste.
Alla volontà reale si ricorre qualora la norma espressa risulti essere
nel caso specifico oscura o poco chiara, pur nella certezza che l’intenzione
del legislatore abbia regolato effettivamente tale rapporto. La volontà
presunta corrisponde, invece, alla finzione di rappresentare la logica del
legislatore nell’eventualità che abbia omesso di regolare un fatto in via
esplicita. Una volontà implicita si riconosce attraverso l’analogia e i
principi generali dell’ordinamento, stabilendo così la norma che il
legislatore avrebbe imposto se avesse previsto il caso. Ci si è posti il
problema se la cosiddetta volontà presunta sia veramente tale, una volontà
esistente (ma allora, come si è detto, v’è bisogno di una prova ulteriore
per salvare la completezza del sistema da una possibile prova contraria),
oppure sia una volontà presupposta dagli esegeti del codice. Il rinvio a
strumenti quali l’analogia ed i principi generali di diritto non renderebbero
che vano il concetto di completezza,664
poiché solo formalmente si
Si ha l’abbandono, proprio da parte dei neopositivisti, del vecchio concetto della
apoditticità dei postulati, con cui si fa riferimento ad una dimostrazione fondata
sull’apodissi, che in Aristotele indica la dimostrazione logica di una conclusione sulla base
di premesse certamente vere. È ad una teoria apodittica che ci riferiremo, quando diremo
che la premessa volontaristica è presunta come vera. In questo caso vale la critica con cui
Kirchmann contesta il carattere scientifico della giurisprudenza. Cfr. op. ult. cit., p. 27-28.
664 Per altro verso, si può notare come proprio grazie a tali strumenti interpretativi,
sapientemente usati dall’interprete, l’ordinamento giuridico possa completarsi. Si veda in
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
409
qualificherebbe unicamente legale l’ordinamento, mentre in realtà
sostanziale sarebbe il potere del giudice quale unico arbitro di tali canoni
interpretativi.
Tuttavia, si è individuata un’altra strada, diversa appunto da quella
tradizionale, cui sopra si è fatto riferimento, attraverso la quale si arriva
ugualmente alla completezza dell’ordinamento giuridico positivo e alla
corrispondente665
negazione della reale consistenza delle lacune, sempre
però in una prospettiva volontaristica del diritto. Si è sostenuto che nel
sistema sia implicita una norma di chiusura, configurata come risalente
alla volontà del legislatore, il cui contenuto può variare dalla negazione
(Zitelmann), per i casi non previsti, dei limiti posti dalle norme espresse,
alla positiva (Donati) affermazione della liceità di tutti i comportamenti
non vietati e non obbligatori.666
Ma anche qui ci si pone la domanda di
come possa esserci una dichiarazione di volontà implicita.
Si deve vedere inoltre se questa seconda soluzione (quella cioè
della norma generale) sia diversa da quella tradizionale: in entrambi i casi,
infatti, si fa riferimento ad una “presunta” volontà del legislatore. Ed
proposito la tesi di T. ASCARELLI, Il problema delle lacune e l’art.3 disp. prel. nel diritto
privato (appunto critico), Modena, 1925. Per un profilo critico del pensiero di questo
autore, cfr. il brillante saggio di F. CASA, Tullio Ascarelli. Dell’interpretazione tra
idealismo e positivismo, Napoli, 1999.
665 Scrive Bobbio che “poiché la mancanza di una norma si chiama di solito
lacuna, completezza significa mancanza di lacune”. Cfr. N. BOBBIO, Teoria
dell’ordinamento giuridico, cit., p. 125.
666 Per questi aspetti, cfr. la teoria della norma generale esclusiva in E. ZITELMANN,
Lücken im Recht, Leipzig, 1903, p. 17 e ss., la cui tesi sarà ripresa in Italia con originali
varianti da D. DONATI, Il problema delle lacune dell’ordinamento giuridico, Milano, 1910.
Cfr. altresì, K. BERGBOHM, Jurisprudenz und Rechtsphilosophie, Leipzig, 1892, le cui tesi
saranno riprese in Italia da S. ROMANO, L’ordinamento giuridico, Pisa, 1917-18, p. I, p.
190, nonché IDEM, Osservazioni sulla completezza dell’ordinamento statale, Modena,
1925, ora in Scritti minori, I, Milano, 1950, p. 371 e ss; ma si veda anche A. SOLMI, Sulle
lacune dell’ordinamento giuridico, in “Riv. dir. comm.”, 1910, p. 492; A. ASQUINI, La
natura dei fatti come fonte del diritto, Modena, 1921, p. 10. Per le critiche a tali
concezioni, cfr. A. LEVI, Contributi ad una teoria filosofica dell’ordine giuridico, Genova,
1914, p. 383; F. FERRARA, Trattato di diritto civile italiano, I, Roma, 1921, p. 225, nota 1;
G. BRUNETTI, Il dogma della completezza dell’ordinamento giuridico, Firenze, 1924, p.27;
M. ASCOLI, La interpretazione delle leggi, Roma, 1928, p. 34; E. BETTI, Metodica e
didattica secondo E. Zitelmann, in “Riv. Int. Fil. Dir.”, 1925, p. 49 ss.; Id., Teoria generale
dell’interpretazione (1955), II ed., Milano, 1990, p. 839, nota n. 2. Cfr., altresì, A.
FRANCO, Problema della coerenza e della completezza dell’ordinamento, Torino, 1988.
DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO
410
allora, la volontà è presunta o presupposta? Se presupposta si tratta di
convenzione e bene quidem; se presunta, si riesce veramente a superare
ogni prova contraria e a salvare la prospettiva volontaristica del diritto
nella misura in cui si dia dimostrazione non indiretta di siffatta volontà del
legislatore.
Comunque, si può osservare, il riferimento ad una volontà implicita
appare, nella concezione del diritto come volontà del legislatore, quasi una
necessità. Modugno,667
a questo proposito, obbietta giustamente che
l’ordinamento giuridico non può essere considerato necessariamente
completo solo perché lo dev’essere. Non si può, secondo quest’autore,
scambiare la realtà esistente con l’obbiettivo da realizzare, non si può
confondere il Sein con il Sollen, anche se quest’ultimo rappresenta lo
stimolo, la molla per la realizzazione, se mai questa sia possibile, del Sein,
senza per questo aderire in toto alla legge di Hume.
Il secondo modo per negare l’esistenza delle lacune, cui sopra si è
accennato, è venuto sostenendosi in Italia da alcuni autori, in primis da
Donato Donati,668
proprio nell’Università di Padova soprattutto, per
reazione a quelle medesime correnti antipositivistiche, avverso le quali
anche Adolfo Ravà ha lanciato in suoi strali.669
Oscar Bülow, nel volume “Legge ed ufficio del giudice”, sostiene
che la legge non produce diritto bensì lo prepara.670
La sentenza del
667 Cfr. F. MODUGNO, Appunti per una teoria generale del diritto, Torino, 1988, p.
207 ss.
668 Cfr. D. DONATI, Il problema delle lacune dell’ordinamento giuridico, cit. Nello
stesso senso, P. L. PEDRALI-NOY, I vuoti del diritto, Bologna, 1911.
669 Ci riferiamo con questa dizione ad una vasta ed eterogenea corrente di pensiero
giuridico, risalente alla fine del secolo scorso, sviluppatasi in Europa, e non solo in
Europa. Essa si presenta come una rivolta contro il formalismo, una reazione contro il
feticismo legislativo e contro il dogma della completezza. Meglio sarebbe parlare non di
corrente al singolare, ma di una serie di correnti antipositivistiche che vanno dalla
giurisprudenza sociologica di Ehrlich alla Scuola del diritto libero di Kantorowicz,
dall’école scientifique du droit di Gény, alla giurisprudenza degli interessi di Heck. Cfr. N.
BOBBIO, voce Lacune del diritto, in Novissimo Digesto Italiano cit., p. 419 e segg.
670 “La legge non è in grado di produrre immediatamente diritto; essa è «soltanto
una preparazione, un tentativo per la realizzazione di un ordinamento giuridico». Ogni
controversia giuridica «pone in essere un problema giuridico peculiare, per il quale la
legge non fornisce ancora in maniera esauriente la soluzione appropriata, che... neanche è
possibile dedurre con l’assoluta sicurezza di una conclusione logicamente vincolante dalle
disposizioni legislative»”. È certo che in von Bülow non troviamo un mero soggettivismo
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
411
giudice ne è la reale espressione, tanto che la vantata equipollenza tra
legge e diritto scompare, rilevando altresì la fallibilità dell’ordinamento in
parallelo ad un’inevitabile, quanto necessaria funzione creatrice del
giudice in sede interpretativa della norma.671
Parimenti, com’è noto, si sviluppa in Francia, in netta
contrapposizione alla scuola dell’Esegesi, la Scuola Scientifica il cui
nome sottolinea lo scarto teorico dalla tradizione precedente. Gény,
caposcuola della nuova tendenza, elabora per primo, nel 1899, in
“Méthode et sources en droit privé positif”,672
il concetto di libera ricerca
del diritto, preludendo alla stessa nascita del movimento del diritto
libero.673
Indicativo, ai nostri fini, richiamare come due anni prima della
pubblicazione del saggio di Adolfo Ravà su Il diritto come norma tecnica,
del 1911, Degni osservasse che nella teoria di Gény, si muove dal
principio che il diritto debba soddisfare, innanzitutto, alle necessità della
vita sociale (ecco la connessione tra diritto e realtà, che vedremo sostenuta
da Ascarelli). Affermato questo principio, se ne devono ammettere tutte le
conseguenze (non come farebbe invece Gény), e la volontà del legislatore,
per quanto chiara nel regolamento di taluni rapporti ed istituti giuridici,
non può essere mantenuta, quando si rivela inadeguata alle esigenze del
loro ordinamento. Affermare che la legge debba essere interpretata, come
ogni altro atto della volontà umana, sempre nello stesso senso, cioè quello
che ad essa ha attribuito il suo autore, senza tener conto delle circostanze
nella ricerca della norma da parte del giudice, come invece in Kantorowicz: “ogni sentenza
giudiziaria è una prestazione creatrice, guidata dalla conoscenza”. Cfr. K. LARENZ, Storia
del metodo della scienza giuridica, trad. it., Milano, 1966, p. 82-83.
671 Cfr. O. BÜLOW, Gesetz und Richteramt, Leipzig, 1885, p. 28 e segg. Addirittura
von Bülow afferma che anche là dove esiste una norma, essa dà solo una direttiva generica
per l’effettivo regolamento della controversia.
672 Nella sua opera, Gény “contrapponeva alla pedissequa esegesi dei testi
legislativi la libre recherche scientifique, attraverso la quale il giurista avrebbe dovuto
ricavare la regola giuridica direttamente dal diritto vivente nei rapporti sociali. «Il diritto è
cosa troppo complessa e mobile -scriveva Gény- perché un individuo o un’assemblea ,
ancorché investiti di autorità sovrana, possano pretendere di fissarne d’un sol colpo i
precetti in modo da soddisfare a tutte le esigenze della vita giuridica»”. Cfr. N. BOBBIO,
Teoria dell’ordinamento cit., p. 140.
673 Larenz ci informa che “l’espressione «dottrina del diritto libero» risale ad una
conferenza di Eugen Ehrlich dell’anno 1903”. Cfr. K. LARENZ, Storia del metodo della
scienza giuridica cit., p. 83.
DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO
412
posteriori che ne hanno potuto modificare la portata e gli scopi, significa
disconoscere la fecondità del principio, che si pone a base del sistema,
significa negare l’evoluzione del diritto nell’ordinamento di quei rapporti
su cui si è fermata la volontà del legislatore.674
Si tratta, dunque, della critica che Degni muove a Gény, ove, da un
lato lascia nel dominio della legge ciò che deriva da essa, rispettando,
perciò, l’intenzione del legislatore (diritto come volontà), dall’altro,
rigettando la finzione che la legge debba in sé contenere la disciplina di
tutti i rapporti, e combattendo l’abuso delle astrazioni logiche, riconosce,
accanto alla legge, altre fonti parallele di diritto che, nascendo
spontaneamente dalla natura delle cose, debbano regolare, per sé stesse,
tutte le nuove manifestazioni della vita sociale.
Si è visto, quindi, come Gény certo consideri la legge atto di
volontà del legislatore, per lo meno laddove essa dispone precisamente.
Eppure quest’autore accetta anche il principio che il diritto debba
soddisfare alle necessità della vita sociale. Si è posta in luce, quindi, la
stridente contraddizione che deriva nella sua teoria dall’accettazione di
quel principio e contemporaneamente dell’assoluto rispetto, laddove
espressa, della volontà del legislatore.
E da osservare comunque che, ove non provveda il legislatore,
sovviene la volontà dell’interprete, ma si tratta di interprete legittimato, il
giudice, e pertanto la sua volontà è legge solo perché “autorizzata”: non si
esce, dunque, con la critica di Gény al legalismo e formalismo, dalla
concezione positivistica.
Per non cadere in contraddizione, nota Degni, bisognerebbe
ritenere, come non stentano a fare altri all’interno della corrente, che
l’intenzione di chi ha formato la legge non può essere che un elemento
dell’interpretazione di questa, la quale, non derivando dalla volontà di un
individuo o di un gruppo, ma essendo l’espressione del diritto, che il
legislatore riconosce e non crea, si separa dalla volontà di chi l’ha
emanata (il quale non è colui che l’ha creata), per vivere di una vita
propria. E così la sua applicazione, piuttosto che essere dominata in modo
inflessibile da quella volontà, dev’essere sempre corrispondente a tutte le
condizioni della vita sociale che agiscono e reagiscono sulla vita del
diritto, non può cristallizzarsi nelle formule legislative, ma deve elaborarsi
nella dinamica del diritto. Questo principio è così forte che finisce per
imporsi allo stesso Gény, il quale non può non riconoscere che, in qualche
674 Cfr. F. DEGNI, L’interpretazione della legge, Napoli, 1909, p. 207.
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
413
caso, l’interpretazione della legge debba variare col tempo della sua
applicazione, quando, cioè: “i rapporti sociali, le circostanze economiche
che hanno determinato la legge, che ne sono state, anzi, le condizioni,
siano venute a mancare o a trasformarsi.... giacché trovandosi la
prescrizione iniziale della legge, condizionata da certi elementi essenziali,
si può dire che questi elementi stessi ne limitano necessariamente l’effetto
nel senso che, la regola, tale, qual è stata voluta e formulata, resti
inapplicabile a uno stato di cose, assolutamente differente da quello che il
legislatore aveva in vista.”675
Evidentemente, Gény, per rimanere coerente
al principio informatore del suo metodo, è stato condotto a questa
affermazione, la quale, in verità, pare, come giustamente ha osservato il
Degni, inconciliabile coll’altro principio, secondo cui l’intenzione del
legislatore dovrebbe sempre essere rispettata. Per meglio riassumere la
posizione di quest’autore, si ricordi che egli si pone dallo stesso punto di
vista del metodo giuridico tradizionale, ma se ne allontana
sostanzialmente in ciò, che, mentre quello, coi mezzi che gli forniscono la
logica interna e gli elementi esteriori, che hanno influito sulla formazione
delle leggi, ed avvalendosi del sistema delle costruzioni giuridiche, mira a
ricercare la volontà del legislatore, anche nell’ordinamento di quei
rapporti che, in realtà, eccedono tale volontà, questo Autore, invece, si
ferma alla volontà concreta e reale che la legge racchiude. L’interprete,
insomma, deve inchinarsi ad essa, ma, quando si tratta di rapporti che
effettivamente il legislatore non ha contemplati, s’impone la necessità di
riconoscere nell’interprete un’attività più larga che, indipendentemente
dalla legge, che, a questo riguardo, non esiste, gli permetta di
determinarne l’ordinamento giuridico, di ricercare qual è il nuovo diritto e
dichiararlo. Accanto alla legge scritta, e in sostituzione di essa, perciò,
egli ammette altre fonti di diritto positivo.
Si ricordi la posizione di Gény, che se riconosce la necessità che il
diritto debba soddisfare alle esigenze della vita sociale, d’altro canto vuole
il rispetto assoluto della volontà della legge che definisce una volontà che
emana da un uomo o da un gruppo di uomini condensata in una
formula.676
675 Cfr. F. GÉNY, Méthode d’interprétation et sources en droit privé positif, Paris,
1900, p. 238-239, n. 99.
676 Cfr. F. GÉNY, Méthode d’interprétation en droit privé positif cit., p. 230, n. 98.
DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO
414
Nel mondo germanico, ed è il centro nodale di questo sviluppo
critico, si articola un insieme di opinioni tutte dirette al superamento del
formalismo giuridico.
Ehrlich, considerato il padre della sociologia giuridica,677
afferma
infatti che “si rileva essere falso quanto dai più si crede: che istituti sociali
come il matrimonio, la famiglia, la corporazione, il possesso, i contratti, la
successione, siano stati introdotti se non mediante norme giuridiche. Con
le leggi non si creano che istituti statali”.678
Questo “perché la società è
più antica delle norme giuridiche”.679
677 “Nell’ambito più vasto della sociologia, si formò una corrente di sociologia
giuridica, di cui Ehrlich è uno dei rappresentanti più autorevoli: il programma della
sociologia giuridica fu all’inizio principalmente quello di mostrare che il diritto era un
fenomeno sociale, e che pertanto la pretesa dei giuristi ortodossi di fare del diritto un
prodotto dello Stato era infondata, e conduceva a varie assurdità, come quella di credere
alla completezza del diritto codificato. I rapporti tra scuola del diritto libero e sociologia
giuridica sono molto stretti […]. Se il diritto era un prodotto della società e non soltanto
dello Stato, il giudice e il giurista dallo studio della società […] dovevano ricavare le
regole giuridiche adeguate ai nuovi bisogni, e non dalle regole morte e cristallizzate dei
codici. Il diritto libero, in altre parole, traeva le conseguenze non solo dalla lezione dei fatti
(constatazione dell’inadeguatezza del diritto statuale), ma anche dalla nuova
consapevolezza, che lo sviluppo delle scienze sociali andava diffondendo, dell’importanza
delle forze sociali latenti nell’interno della struttura, solo apparentemente granitica, dello
Stato”. Cfr. N. BOBBIO, Teoria dell’ordinamento giuridico, cit., p. 139. Il tutto contribuì a
combattere il monopolio giuridico dello Stato, e, con questo, il dogma della completezza.
678 Cfr. E. EHRLICH, La sociologia del diritto, in “RIFD”, 1922, p. 104. Il
riferimento ad un prius giuridico, anteriore al momento di diritto positivo professato
dall’autore non deve trarre in inganno. Pur negando efficacia costitutiva al momento
positivo, il limite dell’indagine sociologica si manifesta nella professata acritica
descrizione della realtà, con ricerca delle sue cause, secondo i canoni del metodo
scientifico: ammesso che sia possibile la valutazione della realtà sociale da un asettico
punto di vista, che garantisca l’osservatore della nitidezza dell’immagine, come
dell’asetticità della visione.
679 Cfr. E. EHRLICH, La sociologia del diritto cit., p. 98. L’autore, peraltro, non
indaga il rapporto tra società e norme giuridiche, che –secondo le premesse poste-
dovrebbe prospettarsi come realtà e buona immagine. La buona norma, allora, è come la
buona immagine della comunità, rappresentando l’orientamento della stessa al bene,
creando così un parallelo tra l’eikòn di cui abbiamo ampiamente parlato ed il ruolo della
prescrizione giuridica come strumento della comunità per il perseguimento dei propri fini.
Nella prospettiva sociologica, invece, la produzione normativa è vista come momento di
un più ampio processo deterministico tra premessa e conseguenza.
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
415
Egli avoca quindi alla società la fonte stessa della necessità della
regolamentazione giuridica, la quale non deve così essere limitata a quella
statale ma eterointegrata per porre fine all’equazione diritto/legge dello
Stato. È interessante notare come Ehrlich mantenga, nonostante il
riconoscimento della naturale creazione da parte della società delle
proprie regole, una struttura moderna dello Stato, non scevra da influssi
idealistici, poiché sembra ammettere l’esistenza di due sistemi paralleli: lo
Stato e la Società, seppure non compie il passaggio successivo:
considerare lo Stato una comunità sociale. Ciò comporta che mai potrà
essere reputata valida, se pure in sostanza efficace nel tessuto sociale, una
fonte che non promani dallo Stato stesso.
Si potrebbe enucleare un ulteriore concetto di lacuna, facendo
riferimento al caso in cui la norma di legge esista, preveda una data
fattispecie, ma tale norma sia incompiuta in qualche suo elemento. Il
termine lacuna avrebbe qui un significato diverso, perché non
indicherebbe la mancanza di una norma di legge, reale o apparente che
sia, ma, pur nell’esistenza della norma, una sua incapacità di regolare
interamente la fattispecie concreta; quindi lacuna laddove pur ci sia una
regolamentazione.680
Si tratta, si potrebbe affermare, di lacuna per incompiutezza della
volontà legislativa che pur regola il caso: siamo sempre allora nell’ambito
di una teoria volontaristica del diritto, più precisamente nell’ottica
positivistica, con la conseguente accettazione di entrambi i dogmi cui
nella stessa si fa riferimento. Si ritiene, per questo, non solo che la lacuna
possa essere colmabile, ma che, in effetti, non sia nemmeno una vera
lacuna, in quanto esiste sempre, basta trovarla, una presunta e implicita
volontà legislativa, che completa quella esistente.
Si può ritenere, altrimenti, che la lacuna parziale sia “reale”, cioè la
sua esistenza non sia percepita come problematica, e, quindi, essa risulti
colmabile con l’intervento dell’interprete, che collabora col legislatore,
nel riconoscimento di ciò che è. In questa prospettiva non si ha bisogno
della finzione per coprire quello che in verità fa l’interprete, il quale
680 Tale caso è prospettato da Zitelmann, inferendo così la suggestione
dell’incapacità del legislatore, che pone norme incapaci di regolare l’intera fattispecie;
considerazione più pericolosa –in ambito positivista- dell’affermazione della presenza di
lacune: passi un legislatore che non fa le norme, ma non può passare un legislatore che
legifera male. Sul punto contra Donati. Cfr. supra.
DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO
416
riconosce una norma già esistente, perché “è” nella realtà, senza necessità
di una volontà legislativa, che la ponga.
In definitiva, quindi, ci sono due significati di lacuna, lacuna
assoluta e lacuna parziale; entrambe, a seconda della concezione che si
accoglie, possono rivelarsi apparenti o reali e si hanno così diversi modi di
procedere.
Considerando, poi, l’astrattezza della norma giuridica, suo carattere
peculiare e necessario, si può giungere a porsi il problema se sempre la
norma sia incapace, senza una qualche mediazione demiurgica, di
raggiungere la concretezza della fattispecie.681
Ogni norma di legge si
pone allora come lacunosa, proprio per la sua astrattezza.
Si può quindi concludere che, in questa prospettiva, anche la lacuna
del diritto è un atto di sovranità, che lo stesso agere licere è un atto di
volontà sovrana che si astiene dal regolare la fattispecie e lascia al jeau
delle volontà la soluzione del caso. Non v’è dubbio, dunque, che
pressoché tutte le figure di situazione giuridica soggettiva siano state
modellate sull’unicità, le si voglia intendere come spazio giuridicamente
vuoto (lacune), luogo dell’individualità, oppure ambito di estrinsecazione
della personalità – volontà (diritti – potestà) oppure luogo della
soggezione alla volontà altrui (doveri – obblighi).
Peraltro, come si ha avuto modo di evidenziare fin dall’inizio, per
quanto nel corso della storia del pensiero la sovranità abbia con continuità
inesausta tentato di appropriarsi della rappresentanza, ammantandosene in
un processo mimetico teso a dissimulare l’esercizio del potere,682
non di
meno, così come il dualismo rappresentativo non può essere costretto
nelle maglie dell’unicità sovrana, altrettanto – ci pare- la rappresentanza
681 In effetti, osserva Caiani, “l’interprete deve muovere da un oggetto certo ma
astratto, che discende dal carattere stesso di tipicità della norma, per riaverne alla fine
qualcosa di meno certo indubbiamente, ma assai più concreto, e come tale molto più
efficiente per il compito che egli deve svolgere”, inquadrare cioè per quanto possibile
esattamente, e pertanto equamente, le situazioni concrete dell’esperienza. Cfr. L. CAIANI, I
giudizi di valore nell’interpretazione giuridica, Padova, II ed., 1954, p. 169-170. Cfr.,
altresì, il classico contributo di J. ESSER, Precomprensione e scelta del metodo nel
processo di individuazione del diritto, Napoli, 1983.
682 Per questi aspetti, cfr. M. MANZIN, La natura (del potere) ama nascondersi, in
F. Cavalla (a cura di) Cultura Moderna e Interpretazione Classica, Padova, 1997, p. 85 e
ss., specialmente p. 105, ove viene richiamata e criticata l’osservazione di Bertrand Russel,
che afferma la mutevolezza del potere solo nelle sue manifestazioni, stando esso alla
società, quanto l’energia alla massa.
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
417
non può essere messa convenientemente in atto mediante strumenti o
figure giuridiche che sulla sovranità (cioè sull’unicità) siano fondate.
Ne consegue che il diritto a rappresentare non può essere
considerato il luogo della signoria della volontà del suo titolare, ovvero
del rappresentante. Non si tratta di diritti assoluti,683
ma di posizioni che
trovano nella correlativa situazione del rappresentato il loro limite. Non
per questo si può applicare semplicisticamente lo schema dei rapporti
obbligatori, ove la posizione attiva trova il suo limite nella posizione
passiva, oppure, secondo altre costruzioni, in un fascio di rapporti che
legano le parti in posizione alternativa di attività a passività, per cui i
diritti dell’uno nei confronti dell’altro sono limitati (e definiti) dai doveri
che lo stesso primo ha nei confronti del secondo. Infatti, il diritto
dell’eletto a rappresentare trova il suo limite non nel dovere dell’elettore a
farsi rappresentare, bensì nel diritto di quest’ultimo ad essere
rappresentato, cui corrisponde il dovere dell’eletto a rappresentare.
Inoltre, l’intreccio diventa vieppiù articolato, laddove si consideri
che lo stesso eletto partecipa della duplice veste di autore e destinatario
dell’attività dell’assemblea (anch’essa, peraltro, soggetta al prodotto della
683 Anche i diritti assoluti hanno i limiti dell’ordinamento (divieto di atti
emulativi), di talché nemmeno la proprietà è il luogo assoluto dell’individualità, al modo
dell’ipotetico originario stato di natura. Senza entrare in concezioni di significato
vagamente sociale della proprietà privata, recentemente introdotte anche ai massimi gradi
dell’ordinamento giuridico positivo, non si può che riconoscere una progressiva
circoscrizione della posizione giuridica soggettiva del proprietario che, da originario
titolare dello ius utendi et abutendi, si trova limitato allo ius utendi e nemmeno nella sua
interezza. Per questi aspetti, tra i moltissimi contributi in materia, ci limitiamo a segnalare
sotto il profilo della filosofia politica, G. GERIN, Il diritto di proprietà nel quadro della
Convenzione europea dei diritti dell’uomo, Padova, 1989; per un’analisi della portata dei
principi costituzionali in materia e per i presupposti teorici che li sostengono, cfr. A.
GENTILI, Impresa proprietà e credito: art. 41, 45, 47, Milano, 1989, terzo volume
dell’opera I rapporti economici nella Costituzione: rassegna di 40 anni di giurisprudenza
sul titolo III., 4 vol. Milano, 1987 – 90; per il ruolo della proprietà negli equilibri della
democrazia, un esame critico delle teoria professata da Locke, cfr. C. K. ROLWEY,
Property rights and limits of democracy, Aldershot, 1993; per le prospettive del diritto di
proprietà, sempre più svuotato delle caratteristiche proprie del diritto reale per essere
attratto nell’ambito delle obbligazioni, cfr. le fondate previsioni di D. WEIMER, The
political economy of property rights: institutional change and credibility in the reform of
centrally planned economies, Cambridge, 1997. È più che lecito, quindi, ed in parte è già
attuata, una trasformazione del diritto di proprietà dai diritti assoluti ai diritti relativi, con
la conseguente perdita (già denunciata) di questa figura come paradigma del diritto
soggettivo, che partecipa sempre di più del profilo dell’alterità, cioè della collaborazione
tra i singoli.
DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO
418
sua volontà, seppure non vincolata neppure alla logica interna e, quindi,
“autorizzata” a contraddirsi.
Se dunque l’esercizio della rappresentanza non può accompagnarsi
con e non può essere veicolato da strumenti mutuati sulla struttura
dell’unicità, ne consegue che anche le figure giuridiche soggettive di cui
sono titolari rappresentante e rappresentato debbono essere compatibili
con la struttura di cui sono serventi ed in tal senso debbono essere
rivisitate.
Un tanto, peraltro, com’è intuitivo, supera la portata di uno studio
sulla rappresentanza per approdare ad un’indagine sulle figure
fondamentali della teoria generale del diritto, involvendo anche il rapporto
tra il singolo e l’ordinamento giuridico, toccando, cioè quei Grunbegriffe
dei quali si è parlato supra al § I.1.; ma si è già visto poche pagine sopra
come anche la concezione imperativista del diritto pervenga a riconoscere
l’alterità come fondamento del diritto.
Tornando al punto, affinché sia salvaguardata tanto la situazione del
rappresentante quanto il rapporto con il rappresentato occorre costruire sia
il diritto a rappresentare, sia il diritto ad essere rappresentati al di fuori
dello schema dato dalle premesse teoriche della sovranità, ovvero
dell’unicità. Il diritto del rappresentante non può essere il luogo della
signoria assoluta della sua volontà. Per superare l’impasse, può essere
d’aiuto la concezione di “autonomia” classicamente intesa, ovvero la
capacità di darsi delle regole e di rispettarle, sostituendo la libertà
soggettiva, il luogo dell’arbitrio dell’individualità, con la responsabilità.684
Lungi dal costituire una sorta di “spazio” concesso dal sovrano
all’insopprimibile sregolatezza dell’individuo, il diritto soggettivo diviene
strumento del singolo per concorrere all’orientamento della comunità.
684 Per le aporie sottese a siffatta prospettiva, conseguente allo spostamento della
riflessione dal macrocosmo al microcosmo, propria della modernità, ma con radici nella
presunzione protagorea, cfr. D. CASTELLANO, La libertà soggettiva, Napoli, 1984,
specialmente p. 87 e ss; nonché IDEM, La razionalità della politica, Napoli, 1993, su cui
infra; ed, infine, IDEM, L’ordine della politica, Napoli, 1997, p. 69. Anche N. IRTI, Società
civile, Milano, 1992, p. 21, riconoscendo la centralità e l’importanza dell’autonomia
sembra aderire a questa impostazione, seppure ritiene di trovarne la radice nel “mite”
Locke, in quel celebre passo del pensatore inglese ove si afferma che la libertà, lungi
dall’essere licenza, anche quando non dipende dalla volontà altrui, deve svolgersi entro i
limiti della legge di natura. Peraltro, con l’ambiguità del termine “natura”, che nelle opere
del medico di Oxon vale ora come stato di natura, luogo della violenza dalla quale si esce
solo tramite il contratto sociale, che ci traghetta verso lo stato civile, ora come fysis, nel
senso classico della tradizione platonico - aristotelica.
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
419
Così come il dovere non è soggezione all’altrui arbitrio, bensì
adempimento responsabile della propria permanenza alla comunità, se si
vuole, voluntas ius suum cuique tribuere.685
Per converso, il diritto
oggettivo, anziché costituire lo strumento per la coesistenza degli arbitri,
al modo di Kant, si pone come il mezzo (medium) per l’edificazione della
comunità. E ciò sia per i diritti pubblici soggettivi, che legano cittadino e
Stato, come per quelli privati (sempre ammesso che tale distinzione sia
scientificamente conveniente): un principio di prova può essere rinvenuto
nel divieto degli atti emulativi.686
Si precisa, per quanto possa apparire superfluo, che in tale
prospettiva non vi è un fine superiore dello Stato, per il perseguimento del
quale i singoli cittadini sono meri strumenti. Si prescinde, cioè, da una
concezione che in tanto attribuisce ai cittadini dei diritti soggettivi, in
quanto siano funzionali al perseguimento dei fini dello Stato, secondo uno
schema già visto.687
Al contrario, si ritiene che il divisamento dei singoli,
685 D. 1,1,10 (Ulpianus I regularum) in V. ARANGIO-RUIZ – A. GUARINO,
Breviarum iuris romani, VI ed., Milano, 1983, p. 445.
686 Il divieto di atti emulativi, seppure nella sua formulazione negativa, impone la
necessità di un esercizio del diritto soggettivo in conformità ai fini ritenuti conformi
dall’ordinamento. Infatti, impedendo di avvalersi del proprio diritto al solo scopo di
nuocere agli altri, si rafforza il carattere sociale anche dei diritti assoluti, che
tradizionalmente vengono ritagliati sull’idea di unicità. Si innesta qui il problema
dell’abuso del diritto, cioè del cattivo uso di un potere in sé lecito, figura dogmatica di non
facile definizione, seppure immediatamente percepibile, che rischia sempre la confusione
con l’illecito puro e semplice: Per questi aspetti, oltre ai già citati studi di Jellinek e Jhering
si rinvia ai contributi di M. BARTOSEK, Sul concetto di atto emulativo specialmente nel
diritto romano, in “Atti del congresso di diritto romano e di storia del diritto (1948)”,
Milano, 1951, p. 189 e ss.; M. BESSONE, Proprietà “egoista”, abuso del diritto e poteri del
giudice, in “Foro italiano”, 1974, IV p. 142-4; G. ALPA, Come fare cose con principi, in
“La nuova giurisprudenza civile commentata”, 1992, II, p. 383-416; M.C. TRAVERSO,
L’abuso del diritto, nella stessa Rivista, p. 297-317; nonché la densa monografia di G.
LEVI, L’abuso del diritto, Milano, 1993; si occupa del problema anche M. LA TORRE,
Disavventure del diritto soggettivo. Una vicenda storica, Milano, 1996, che prende in
considerazione l’influsso dell’hegelismo nella costruzione delle situazioni giuridiche
soggettive.
687 Cfr. si vis il nostro Adolfo Ravà. Tra tecnica del diritto ed etica dello Stato,
Napoli, 1998, ove la concezione dello Stato etico di quest’Autore (che si era formato come
giurista e come filosofo nella Germania del primo Novecento) prevede l’attribuzione di
diritti soggettivi ai singoli come mezzo per la tensione verso lo Stato etico; sicché l’abuso
del diritto soggettivo da parte del privato si configura al pari di un eccesso di potere da
parte della P.A., cioè nell’uso diverso da quello per il quale il diritto (ed il potere) era stato
attribuito.
DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO
420
“autonomamente” orientato, nella specifica diversità propria di ognuno,
concorre dialetticamente all’orientamento della comunità, riportando la
politica (intesa come disciplina del diritto e dell’ordinamento giuridico)
nell’ambito della filosofia pratica, ove l’aveva già allocata Aristotele e
dalla quale la modernità l’aveva tanto crudelmente divelta, applicando le
maglie delle teoretica alla varietà della pratica. Seppure questa
considerazione non autorizza a relegare il momento giuridico – politico
nell’ambito del soggettivismo, come è pure stato detto, ponendo
nell’indeterminatezza delle opinioni tutto quello che non è passibile di
scientificità, ritenuta, quindi, l’unica forma di oggettività.688
688 Sull’appartenenza della politica alla filosofia pratica nella costruzione dello
Stagirita, cfr. per tutti, E. BERTI, Le ragioni di Aristotele, Roma - Bari, 1989; P.
AUBENQUE, La prudence chez Aristote, Parigi, 1993; G.F. ZANETTI, La nozione di giustizia
in Aristotele, Bologna, 1993, nonché, recentemente, l’ottimo T. IRWIN, I principi di
Aristotele, trad. it., Milano, 1996.
Com’è noto, la difficoltà evidenziata nel testo sorge quale conseguenza di
un’alternativa mal posta: il sapere scientifico è oggettivo, ogni sapere scientifico non è
oggettivo, quindi non è certo, quindi non è propriamente sapere. L’aporia di fondo è già
stata denunciata ampiamente svelando la natura convenzionale del sapere scientifico che,
per scelta, non mira alla conoscenza dell’essere: cfr. F. GENTILE, Intelligenza politica e
ragion di Stato, II ed., Milano, 1984, e pluribus p. 187 e ss. L’aspetto singolare, tuttavia,
che dimostra il radicamento del pregiudizio, è percepibile nella riflessione anche dei più
attenti studiosi di Aristotele, ove la pur corretta qualificazione del diritto fuori dall’ambito
teoretico, per collocarlo nella filosofia pratica produce l’idea che la natura non tecnica del
diritto lo ponga alla mercé delle opinioni, nell’indeterminatezza della soggettività. Al
contrario, pur nella consapevolezza della fisiologia “imprecisione” delle discipline
giuridiche, la tecnicità insita nella sua struttura, come mezzo per un fine, unita alla
valutazione politica nell’individuazione dei fini, esclude l’assoluta opinabilità in
quest’ambito, richiamando più che altrove la necessità della “prudenza regia”
raccomandata da Platone, così come la tensione teoretica che deve pervadere il momento
pratico ed il momento poietico del filosofare secondo Aristotele. Per la negazione
dell’aspetto tecnico del diritto, cfr. E. BERTI, L’unità del sapere in Aristotele, Padova,
1965, p. 178 e ss.; IDEM, La razionalità pratica. Moldelli e problemi, Genova, 1989. Sotto
altro profilo, lo stesso autore richiama l’attenzione della dottrina continentale e
d’oltreoceano nel mantenere distinte le due anime della filosofia pratica in Aristotele, la
fònesis alla portata di ogni persona, e la filosofia pratica nel senso proprio del termine, cioè
il momento “scientifico” dell’arte di governo: cfr. E. BERTI, Aristotele nel Novecento, Bari,
1992, specialmente p. 229. Per altro verso cfr. IDEM, Ragione scientifica e ragione
filosofica nel pensiero moderno, Padova, 1977, che riprende i temi esposti da M. GENTILE,
Umanesimo e tecnica, Milano, 1943.
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
421
Tutto ciò, per quanto attiene soprattutto al profilo dei diritti pubblici
soggettivi, ci pare, lungi dal riproporre una sorta di Stato etico, potrebbe
concorrere ad edificare un’etica dello Stato.
Delimitate così le figure giuridiche soggettive, occorre ora
verificare se ed in che misura esse consentano il superamento delle aporie
emerse nell’applicazione della rappresentanza.
Quand’anche si ridimensionasse la figura tradizionale del diritto
soggettivo, potandolo degli arbusti cresciuti sul terreno dell’idea di
unicità, se pure il diritto ad essere rappresentante non è più il luogo della
signoria della volontà dell’eletto, ciò non di meno non si garantisce di per
sé l’elettore ad essere rappresentato.
Il dualismo congenito alla rappresentanza si manifesta ove al diritto
dell’eletto a rappresentare si affianca il diritto dell’elettore ad essere
rappresentato, inteso non come luogo della signoria del volere di
quest’ultimo nell’imporre i propri arbitri come limiti invalicabili per la
discussione assembleare, quanto nella consapevolezza del concorrere
all’orientamento della comunità verso quel bene comune, che se è proprio
di ciascuno non è esclusivo di alcuno.
Operativamente l’obbiettivo si può realizzare non tanto tramite il
conferimento da parte dell’elettore all’eletto dei propri orientamenti, in
forma diretta, bensì in forma invertita, ovvero nell’adesione dell’elettore,
attraverso l’operazione di voto, alla “proposta contrattuale” del candidato,
resa nei termini non della “coazione”, ma nei termini della possibilità
d’azione. Come si vede, trattasi di una sorta di mandato limitativo, già
vagheggiato da Talleyrand, cui dovrebbe essere affiancata una forma di
Aberuffungsrecht, per sostituire quell’eletto che si ritenga sia venuto meno
alle condizioni per le quali era stato scelto ed inviato come rappresentante.
Si tratterebbe di un’azione popolare cui legittimati sono tutti gli iscritti
nelle liste elettorali, senza distinguere tra chi ha votato per il
rappresentante di cui si tratta, anzi, senza distinguere neppure tra chi
aveva partecipato o meno all’elezione. Tutto ciò, lungi dal ridurre il
deputato da rappresentante della nazione a mandatario del collegio
elettorale, consente la concezione del collegio, del bagliaggio, come parte
di un tutto, “ayant le droit de concourir à la volonté générale”. Così, come
per convenzione ed a meri fini di praticità si è diviso il corpo elettorale
assegnando a diversi collegi il compito di indicare i rappresentanti della
nazione, altrettanto agli stessi collegi deve essere attribuito il diritto di
sindacare l’operato di quegli stessi rappresentanti della nazione. Non ci
deve essere ragione di temere il particolarismo paventato da Sieyès
DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO
422
nell’attribuire al collegio elettorale il potere di controllo sui rappresentanti
della nazione che sono stati eletti in quella data circoscrizione, poiché
come sono e restano rappresentanti della nazione anche se eletti da una
parte della nazione, permangono rappresentanti dell’intera nazione anche
se il sindacato sul loro operato è affidato (vorremmo dire demandato,
delegato) ad una parte della nazione, dacché come il potere di eleggere i
rappresentanti non trasforma il collegio in un corpo separato della nazione
-secondo la preoccupazione di parte dell’Assemblea nazionale- così il
revocare i rappresentati eletti non eleva il bagliaggio ad un tutto a sé
stante. E soprattutto, non bisogna dimenticare che anche la funzione
rappresentativa, come ogni potere pubblico, dev’essere esercitata in
funzione dello scopo per la quale è stata accordata. Ed anch’essa, proprio
come ogni potere pubblico, deve trovare la sua ampiezza nella misura
della responsabilità, dacché l’esercizio di un potere scevro da ogni
responsabilità è peculiare solo di colui che nulla riceve dagli altri e non
dipende che dalla propria spada. Di più. Ci pare che il principio di
responsabilità trovi cittadinanza nell’ordinamento giuridico positivo,
quale principio fondamentale, “principio politico”, secondo la
terminologia degli studiosi di diritto costituzionale. Tuttavia, la sua
valenza non si esaurisce qui, nel solo momento positivo. Infatti, al
principio di responsabilità è stata riconosciuta una propria valenza morale,
non ostante l’apparente contraddittorietà di una responsabilità verso sé
stessi.689
Più propriamente se ne potrebbe dare una valenza etica,
muovendo dall’alterità che è connessa alla responsabilità, ove un soggetto
è responsabile nei confronti di un altro, con un dualismo che, non occorre
nemmeno più dirlo, richiama la struttura fondamentale della
rappresentanza quale si è venuta disvelando nel progredire della nostra
689 Come si è ricordato supra, alla nota n. 559, la formula precisa della
responsabilità (giuridica) verso sé stessi (“Verschulden gegen sich selbst”) si trova per la
prima volta, a quanto ci risulta, in E. ZITELMANN, Allgemeine Teil, Leipzig, 1901, p. 152.
Peraltro, la pandettistica e la dogmatica, nella lenta e faticosa enucleazione della figura del
negozio giuridico avevano già messo in evidenza in modo più o meno esplicito la necessità
del principio di responsabilità come fondamento nella struttura dell’obbligazione giuridica.
La tesi, tutt’altro che peregrina, nella sua versione di origine germanica, si deve
verosimilmente a C. ROEVER, Über die Bedeutung des Willens bei Willenserklärungen,
Rostock, 1874, che formula la compiuta elaborazione di una teoria dell’affidamento nella
stessa città e negli stessi anni ove teneva il suo magistero August Thon. Cfr. anche K.
BINDING, Die Normen und ihre Übertretung, Leipzig (1877), 1914 – 1919, vol. III (1918),
specialmente p. 279 e ss. Cfr., altresì, E. ZITELMANN, Irrtum und Rechtgeschäft, Leipzig,
1879.
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
423
indagine. Più propriamente, il principio di responsabilità dev’essere
considerato giuridico, nel senso che esso si pone come condizione
costitutiva (essenziale) e funzionale (operativa), nel senso che ne consente
il funzionamento, dell’ordinamento giuridico, imprescindibile solo che si
pensi come ogni situazione giuridica soggettiva, come la partecipazione
attiva di ogni consociato, si fondi sul principio di responsabilità, cioè sulla
capacità di rispondere dei propri atti, secondo l’attitudine alla promessa,
già riconosciuta come caratteristica propria del “bipede implume”
nell’antica Grecia. Con la conseguenza che chi nega il principio di
responsabilità riduce necessariamente l’esperienza giuridica a pura
forza.690
Possiamo allora riassumere la posizione come segue.
La riconosciuta dualità strutturale della rappresentanza si
contrappone alla struttura monista della sovranità, programmaticamente
fondata sulla categoria moderna691
dell’unicità. Siffatta contrapposizione,
prima che giuridica, è di ordine logico ed appare insuperabile. Di qui le
difficoltà degli istituti giuridici che, nel corso della storia, hanno tentato di
porre insieme i due termini, cioè di conficcare il dualismo dell’una nel
monismo dell’altra. Dev’essere così respinto il mandato imperativo, che si
concreta in un assoluto rapporto, cioè nella sola (unica) rilevanza del
rappresentato, come avviene nel contrattualismo rousseauiano e in tutte le
costruzioni che su questo schema direttamente o indirettamente si
fondano. Parimenti dev’essere respinto il divieto di mandato imperativo,
690 In questo senso, il principio di responsabilità altro non è che una manifestazione
del concetto di autonomia classicamente inteso, di cui si è fatto abbondante cenno nel
testo, cioè nella capacità di darsi delle regole e di rispettarle. Su questo caposaldo poggia
tutto l’evolversi della giuridicità, a partire dalla fondamentale struttura della sponsio
forgiata dagli antichi romani, poi articolatasi nella molteplicità delle figure giuridiche
nominate ed innominate con le quali si misurano tutti i giuristi (anche) pratici, figure
sempre e comunque riconducibili alla sponsio. E non è men vero che il principio di
responsabilità non si manifesta solo nei contratti consensuali, che sono immediatamente
espressione della sponsio, poiché anche nelle sempre più rare ipotesi di contratti reali
l’elemento della fides si dimostra espressione di responsabilità, in sostanza di autonomia.
691 È ben vero che l’unicità, come categoria logico concettuale, ha origini giudaico
cristiane, seppure non si deve dimenticare la riflessione greca classica attorno all’atomo,
all’indivisibile, come fondamento dell’essere. Tuttavia, è con la rinascenza che il concetto
acquista una valenza giuridico politica ben precisa, anzi un ruolo chiave nell’edificazione
dell’ordinamento giuridico secondo un novum organon.
DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO
424
che si concreta nell’assoluta situazione, cioè nella rilevanza del solo
(unico) rappresentante, funzionale tanto alla costruzione illuminista –
contrattualista di Sieyès quanto alla prospettiva organicista dello Stato
etico, spesso ereditata negli ordinamenti liberal democratici, pur nel
mutamento di prospettiva teorica originaria. Entrambe, negando ora il
rappresentante ora il rappresentato, negano la rappresentanza, poiché
negano la responsabilità, fondamento (e limite) del potere di agire
giuridicamente per (in nome e per conto di) un altro soggetto. Allo stesso
modo non può essere accolta la concezione della rappresentanza come
lotta per il raggiungimento del potere, secondo una visione che vede nel
vincitore la sintesi anche del perdente,692
o riduce il concetto alla
meccanicistica tensione tra maggioranza e minoranza, secondo una
suggestione che dagli allievi di Hegel sembra colpire anche l’agire
comunicativo di Hannah Arendt. Così come insoddisfacente risulta il
tentativo di ridurre il problema della rappresentanza alla scelta del sistema
elettorale.
Di più. La contrapposizione strutturale tra dualismo rappresentativo
e monismo sovrano si ripercuote anche sulle figure che sull’unicità sono
fondate. In questo senso sono parimenti d’ostacolo i paradigmi tanto del
diritto soggettivo come signoria della volontà, luogo dell’assolutezza
dell’individuo, quanto del dovere specularmente inteso al modo della
soggezione ad una volontà altrui:693
essi non possono esprimere
692 Secondo uno schema elaborato da Rousseau, ma viziato in radice dalla pretesa
eguaglianza dei cittadini – votanti, come si è detto supra al § II.1.1, seppure il Ginevrino
aveva avuto l’accortezza di respingere il sistema rappresentativo, sostenendo la necessità
della democrazia diretta. Seppure l’egualitarismo rousseauiano non deve essere confuso
con la libertà e l’eguaglianza nel diritto di voto, come garanzia della rappresentanza
politica, di cui tratta esaustivamente l’ottimo studio di M. GOBBO, La propaganda politica
nell’ordinamento costituzionale. Esperienza italiana e profili comparatistici, Padova,
1997, p. 145 e ss.
693 Com’è noto, il procedimento astraente nell’affinamento concettuale del diritto
soggettivo ha prodotto il progressivo affrancamento della situazione giuridica soggettiva
attiva nei confronti del diritto di proprietà, che ha costituito l’origine e, per lungo tempo, il
modello del diritto soggettivo: cfr supra, nota n. 683. All’opposto, la speculare situazione
di dovere passa da un fondamentale pati, da un dovere di astenersi dal turbare il diritto
altrui, sopportarne eventualmente il peso come limitazione di un proprio diritto (la servitù
ne costituisce il più classico degli esempi) ad un facere, ad un obbligo di attivarsi
concretamente per consentire il godimento del diritto altrui che, quindi, da situazione di
dominio, si trasforma in un aspettativa di comportamenti dell’obbligato, ma anche degli
organi dello Stato affinché, opportunamente eccitati, pongano anch’essi in essere quei
comportamenti che si aspetta il titolare del diritto soggettivo, al fine di ottenere
SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA
425
degnamente i momenti della rappresentanza, essendo funzionali ad una
concezione dell’ordinamento improntata sull’unicità. Occorre dunque
rivedere le figure giuridiche soggettive del diritto, come negazione della
libertà soggettiva e del dovere, come luogo della responsabilità, entrambi
funzionali al bene comune. Così applicate al rappresentato ed al
rappresentante, fanno sorgere un mandato limitativo, fondato sul
consenso, manifestato nel voto, su di una “proposta contrattuale” avanzata
dal candidato, cui si affianca un diritto di recall, quale strumento di
controllo e di effettiva misura della responsabilità. In altri termini,
contrariamente alla visione premoderna, ove il contenuto del mandato era
confezionato dagli elettori, candidandosi alle elezioni l’aspirante
rappresentante formula una proposta contrattuale agli elettori del proprio
collegio; accordandogli il proprio voto, gli elettori aderiscono alla sua
proposta contrattuale, instaurando il rapporto rappresentativo e
determinando l’oggetto del sindacato di responsabilità. Per la definizione
di collegio, come parte del tutto, la rappresentanza è sempre nazionale,
seppure come per l’elezione si articola il corpo elettorale in più
circoscrizioni, allo stesso modo l’esercizio dell’Aberuffungsrecht è
demandata allo stesso collegio ove è stato ottenuto il consenso.
Tuttavia, anche in questa prospettiva, un’ulteriore questione si
pone: quid iuris, quando il candidato trovi il consenso su di un programma
tale da consentirgli ogni più ampio margine di manovra? Può ritenersi il
“contratto” nullo per indeterminatezza dell’oggetto? Ed in tal caso, non
sarebbe il “giudice” di tale fattispecie un nuovo sovrano? Ancora una
volta verrebbe da ripetere con Rousseau, che ogni popolo ha il governo
che si merita, ma più radicalmente, con il Signore di La Brède, che vulgus
vult decipi. Viene da chiedersi se l’equivoco non stia proprio nel concetto
di sovranità, quand’anche risieda nel popolo o nella nazione, sicché è
proprio quest’ostacolo a dover essere rimosso (il che non vuol dire
spazzare via dal panorama giuridico la potestà di imperio che con la
sovranità non dev’essere confusa, com’è stato detto più volte). Senza
dubbio si deve osservare come lo stesso principio della sovranità
popolare, non a caso elevata a dogma, si sia svelato in una vera e propria
finzione, consentendo l’esercizio del potere da parte di chi, al di fuori
della titolarità formale, si ponga come unico interprete di un sovrano che
non c’è da alcuna parte.
coattivamente l’effetto di quel comportamento non espletato spontaneamente
dall’obbligato originario, comportamento che diviene così il contenuto del dovere e la cui
aspettativa costituisce il relativo diritto.
DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO
426
Ad ogni modo, a noi preme aver dimostrato che non c’è alcun
valido ostacolo teorico al controllo dell’elettore sull’eletto; anzi, che è
logicamente corretto e politicamente opportuno il contrario, poiché tale
controllo è fisiologico alla struttura rappresentativa: si tratta ora di
individuare concretamente i mezzi più idonei a questi fini.
Questo trascende il nostro impegno, rientrando nella tèkne e nei
suoi cultori. Ad ogni modo, per noi è sufficiente ritenere di aver
individuato nel divieto di mandato imperativo la negazione –logica, prima
che giuridica- di ogni forma possibile di rappresentanza e la necessità di
un legame –anche giuridico, oltreché logico- tra eletto ed elettore,
condizione perché divengano rappresentante e rappresentato.
Quod erat demonstrandum.
427
CONCLUSIONE
A chi volesse svolgere una spassionata indagine, la rappresentanza
si dimostrerà con una struttura, logica prima che giuridica, prettamente
dualista, data, cioè, dalla necessaria presenza di un rappresentato e di un
rappresentante e di un rapporto che li lega. Proprio per questo essa
intimamente mal si concilia con la struttura dello Stato moderno, che è
stato edificato sull’elemento della sovranità, categoria plasmata
sull’unicità, cioè sull’impossibilità di riconoscere altro da sé, ovvero la
negazione del dualismo dialettico. Sicché, anche da un punto di vista
meramente operativo (riscontrabile nel Parlamento nazionale non meno
che negli organi collegiali degli Enti territoriali), la diversità strutturale si
traduce in una difficoltà di applicazione dell’istituto rappresentativo
all’interno di un contesto che gli è radicalmente alieno.
Per converso, la ricerca di trasformare del proprio potere in diritto,
a mo’ di giustificazione, spinge il sovrano verso un processo mimetico di
assorbimento nella propria unicità della struttura essenzialmente dualista
della rappresentanza. Al tentativo del sovrano di ammantarsi della
qualifica di rappresentante di coloro che gli sono sottoposti per legittimare
il proprio dominio, tiene seguito il progressivo svilimento della posizione
dei rappresentati che finiscono quasi per essere edulcorati nelle spire del
potere. E in questa prospettiva l’introduzione positiva del divieto di
mandato imperativo altro non è che la compiuta cesura del cordone
ombelicale con cui l’Assemblea nazionale, affrancandosi da coloro che
l’hanno generata, calpestando le istruzioni dei propri elettori, raggiunge la
sovranità, nulla dovendo più agli altri e non dipendendo che dalla propria
capacità di imporsi. Così come, meno di duecento anni prima, l’affermarsi
dell’assolutismo aveva soffocato la pluralità dei ceti e delle articolazioni
corporative proprie della feudalità.
A nostro avviso, dunque, la difficoltà si annida nel tentare di
conficcare la struttura dualistica della rappresentanza nelle maglie della
pretesa unicità dello Stato moderno. Sicché ogni tentativo giuridico
positivo di far coesistere il dualismo rappresentativo con l’unicità
dell’assemblea sovrana è destinato a fallire, giacché il sovrano, in quanto
tale, può “rappresentare” qualcuno a patto di non dovergli rendere conto
di nulla, cioè di non rappresentarlo.
Non resta allora che rinvenire il dualismo perduto, recuperando la
responsabilità degli eletti verso gli elettori, quel rapporto che è proprio di
ogni struttura rappresentativa, ma anche giuridica in generale.
428
Dall’indagine attorno alla rappresentanza che abbiamo condotto
sono emerse anche altre considerazioni. Da un lato l’istituto è apparso
veramente centrale nella dottrina dello Stato, dall’altro questa sua
riconosciuta rilevanza ne ha comportato l’introduzione nelle maggiori
costruzioni teoriche e la traduzione pratica in tutte le carte fondamentali.
Da tutto ciò è derivata una diversità di definizioni di rappresentanza, tale
da renderne difficile la ricostruzione nei suoi elementi essenziali.
Molto prima che Bluntschli definisse la rappresentanza come
istituto essenziale per il diritto pubblico, già i teorici medioevali dello
Stato ne avevano intuito l’importanza come giustificazione del potere
sovrano, che poteva risultare più giuridicamente fondato se fatto derivare
da un contratto che lo istituiva rappresentante dei governati. Certo, come
si è detto, la categoria monista della sovranità mal si conciliava con la
struttura dualistica della rappresentanza: se il rappresentante deve
riconoscere un rappresentato in nome del quale agire e al quale
rispondere, un atto che lo ha reso tale, non è più assoluto, non è più unico,
non è più sovrano. Tale è la difficoltà di Sieyès, il quale, dopo aver
affermato il primato del potere costituente sul costituito, è costretto a
riconoscere rilevanza giuridica solo alla voce dell’Assemblea, sostituendo,
in realtà, ai “duecentomila privilegiati” contro cui aveva lanciato il suo
pamphlet,694
non i quaranta milioni di cittadini, ma le poche centinaia di
“rappresentanti” del Terzo stato.
Tutto ciò comporta la distinzione tra rappresentanza di diritto
privato, che permane fedele alla tradizione dualista propria della
giurisprudenza romana, e rappresentanza di diritto pubblico. Quest’ultima,
però, abbiamo visto, assume tante forme quante sono le posizioni delle
singole teorie o costruzioni che la ospitano, talché una definizione di
rappresentanza di diritto pubblico non appare possibile. La manifestazione
più evidente di questa difficoltà è l’aggettivo “politica” che,
invariabilmente dalla metà di questo secolo, accompagna il sostantivo
rappresentanza, quasi nel tentativo di ricomprenderne e giustificarne i
multiformi aspetti.
694 Cfr. supra II.4. Nel pamphlet “Che cos’è il Terzo Stato?” del gennaio 1789,
l’Abate individuava il fondamento del diritto nel volere della Nazione, a prescindere da
ogni forma positiva; al contrario nel luglio dello stesso anno, discutendosi del mandato
imperativo, Sieyès affermava, con violenza, che la Nazione aveva un solo voeu: quello
dell’Assemblea nazionale.
429
Tuttavia sarebbe semplicistico e riduttivo identificare la causa della
distinzione, della summa divisio tra rappresentanza di diritto privato e
rappresentanza di diritto pubblico, nell’ipotesi contrattualistica dello
Stato. Abbiamo visto, infatti, come agli stessi esiti pervengano anche quei
pensatori e giuristi che tale ipotesi fortemente avversano. Crediamo di
poter dedurre che il divieto di mandato imperativo, l’irresponsabilità di
colui che si continua a chiamare rappresentante, da un lato è funzionale
alla Nazione di Sieyès, dall’altro alla teoria dello Stato degli Epigonen e
di tutti coloro che su di essi mediatamente o immediatamente si
fondano.695
Tutto ciò trova forse una ragione nella permanenza del
medesimo carattere nelle due diverse costruzioni dello Stato: la sovranità.
Non tanto nel suo aspetto autoritativo, di obbedienza necessaria alle
comuni regole della convivenza, cioè in quell’aspetto della sovranità che è
ormai assurto nella ricerca costituzionalistica alla dignità concettuale
espressa dal termine potestà di imperio, traduzione del concetto che la
giuspubblicistica tedesca già prima aveva racchiuso nel termine
Herrschaft, 696
quanto piuttosto nel suo aspetto originario, di paludamento
dell’unicità come categoria della modernità: il superiorem non
recognoscens che annulla la pluralità degli éndoxa, importando nella
filosofia pratica quella che era la caratteristica delle teoretica, sostituendo
le opinioni notevoli con l’asserzione certa. L’equilibrio dualistico del
dubbio cartesiano è in questo senso la fine dell’essere e l’inizio del volere.
La necessità di mascherare il potere sovrano sotto la veste di
rappresentante dei governati, risponde all’esigenza di far credere agli
695 Ancora su queste posizioni sembra posta la dottrina italiana anche più recente.
Oltre alla monografia specifica di N. ZANON, Il libero mandato parlamentare, Milano,
1991, già ricordata al § II.2, si confrontino i principali testi di istituzioni di diritto pubblico
e costituzionale.
Le aporie a cui conduce il divieto di mandato imperativo, si estendono anche alla
struttura interna dei partiti politici, dei sindacati e, in generale, di tutte le associazioni
regolate dal Codice Civile agli artt. 36 e ss. di rilevanti dimensioni, nei rapporti tra gli
organi direttivi e gli associati. Problemi analoghi si sono posti per la rappresentanza alle
assemblee di società commerciali, ove, pur nei limiti dell’ordine del giorno, l’impossibilità
di dare istruzioni esaustive al mandatario, impone di lasciargli quell’ambito di
discrezionalità, di “situazione”, che lo rende effettivamente rappresentante.
696 Come si è già avvisato, non si deve confondere la sovranità con la potestà di
imperio, termine con cui traduciamo il concetto di Herrschaft elaborato dalla dottrina
tedesca. La critica al concetto di sovranità, lungi dal vagheggiare un individuo anarcoide
(che, anzi, è proprio all’origine di quel concetto), non intacca la potestà di imperio
connessa al momento di positività dell’ordinamento. Il punto è stato trattato al § III.3.
430
uomini di obbedire a sé stessi. In questo ancora una volta emerge la
radicale consequenzialità di Rousseau che a questo scopo elabora la sua
costruzione senza dover misurarsi con le aporie che comporta conficcare
la struttura dualistica della rappresentanza, l’esistenza distinta di
rappresentante e rappresentato, nel monismo, nell’unicità che caratterizza
il sovrano. E seguendo questa strada ci si trova necessariamente costretti a
ripetere con Laband e con Kelsen che la rappresentanza è una finzione.
Chi sostiene l’indefettibilità del mandato imperativo o, comunque, la
necessaria irresponsabilità degli eletti nei confronti degli elettori, anche
motivando con ragioni pragmatiche in ordine alla difficoltà di esercitare
un controllo sui primi da parte dei secondi, deve comunque misurarsi con
i presupposti teorici che, per quanto obliati, sono alle basi di siffatta,
diffusa, convinzione.
Bisogna allora uscire dall’alternativa capziosa tra mandato
imperativo e suo divieto, quali uniche manifestazioni della
rappresentanza. In effetti queste posizioni hanno in comune l’identica
matrice nell’individualismo, con una struttura improntata all’unicità, per
cui l’unico sovrano ammesso è ora il mandante, ora l’assemblea dei
mandatari che hanno gettato al vento le propri istruzioni. Occorre uscire
dalla prospettiva moderna, riconoscendo il carattere partecipativo ed
eminentemente dualista della struttura rappresentativa e su questo
ricostruire gli istituti giuridici.
431
INDICE DEI NOMI
ACCARINO B., 7, 61, 143.
ACHTENBERG N., 394.
AGOSTINO D’IPPONA (SAN), 186,
190.
AHRENS A., 18, 209, 210-1, 214-
5, 234, 349.
ALAMBERT J.B. LE ROND DE,
107.
ALATRI P., 99, 149, 345, 353.
ALBANESE B., 360.
ALBRECHT E., 365.
ALIGHIERI D., 55.
ALPA G., 413.
ALTHUSIUS J., 6, 14, 74, 110,
152, 243, 358, 359.
ALTHUSSER L., 144.
AMATO G., 10-1.
AMLETO, 256.
AMSELEK P., 25.
ANCONA E., 199.
ANDERSEN H.C., 277.
APPELT W., 19.
AQUARONE A., 58, 88-9, 99.
ARANGIO RUIZ G., 332.
ARANGIO RUIZ V., 152, 413.
ARENDT H., 29, 40, 236, 418.
ARGIS B. DE, 108.
ARISTOTELE, 16, 21, 29, 52, 54,
84, 101, 177, 184, 240, 245, 271,
329, 354, 363, 402, 414.
ARTOM I., 343.
ARU T., 67.
ASCARELLI T., 240, 286, 400,
403, 405.
ASCOLI M., 403.
ASQUINI A., 403.
ASSINI N., 294, 306.
AUBENQUE P., 414.
AUSTRIA DI (VON ABSBURG) A.,
89.
AVERSANO A., 65.
AYUSO TORRES M., 62.
BACHMANN C.F., 163, 170.
BACHOF O., 390, 392, 395.
BACON (DA VERULAMIO) F., 84.
BADURA P., 337.
BAECHELER J., 155.
BAGOLINI L., 177.
BALBONI E., 11.
BALDASSARRE A., 225, 370, 372,
377, 387, 388.
BALLADORE PALLIERI G., 75,
263-4, 329, 377.
BALLINI P.L., 332.
BARATTA A., 401.
BARBERA A., 9, 11, 20.
BARBERA M., 10.
BARBERI M.S., 13, 343.
BARBERIS M., 14, 137.
BARONE G., 336.
BARTOLE S., 12.
BARTOLO DA SASSOFERRATO,
111.
BARTOSEK M., 413.
BASTID P., 137.
BATIFFOL P., 25.
BATTAGLIA F., 177, 253.
BATTIS U., 390, 395.
BAUER H., 395.
BECCHI P., 162, 164.
BEIME K. VON, 19.
BELLINAZZI P., 38.
432
BENDIX R., 17.
BENEDICKT M., 154.
BENSA P.E., 363.
BENTHAM J., 147.
BENVENUTI F., 312, 357.
BERGBOHM K., 403.
BERGSTRASSER L., 18.
BERKELEY, G., 31, 33-4.
BERNHARDT R., 397.
BERTI E., 16, 21, 25, 29, 52, 414.
BERTI G., 312.
BERTOLISSI M., 151, 395.
BERTRANDO DI CHARTRES, 159.
BESELER G. VON 252.
BESSONE M., 413.
BETTI E., 207, 401, 403.
BETTINELLI E., 15.
BHOM A., 19.
BIANCA C.M., 67.
BIAUZAT G. DE, 133.
BIERLING E.R., 25, 206, 360.
BINDING K., 357-9, 416.
BISMARCK O. VON, 177.
BLAKSTONE W., 7,
BLANKENGEL A., 397.
BLEI F., 126.
BLEKMANN A., 391.
BLUMENBERG H., 256.
BLUNTSCHLI J.K., 163, 183, 216-
7, 218-9, 224, 228, 234, 246, 422.
BOBBIO N., 17, 22, 73, 110, 158,
399, 401, 403-5, 408.
BODIN J., 72, 92, 129, 191, 245.
BÖHLER D., 26.
BÖKENFÖRDE E.W., 13, 19, 292.
BONAPARTE N., 106, 192.
BONAUDI E., 347, 354.
BONIFACIO VIII, 89.
BORDOLI R., 6.
BORKENAU F., 201.
BOSL K, 19.
BOTHE M., 396.
BOTTIN F., 72.
BOUCHETTE J.B.N., 124.
BRANCA G., 67, 401.
BRAUN F., 201.
BRECCIA F., 65.
BRUGI B., 401.
BRUNETTI G., 25, 403.
BRUNIALTI A., 343.
BRUNNER O., 12, 19.
BUCHHEIM H., 350.
BUFFON G.L. LECLERC DE, 156.
BÜHLER O., 389, 390-4.
BÜLOW O., 404-5.
BURKE E., 40, 42, 48, 58, 70, 99,
102, 107, 116, 118-9, 142-3, 287-
8, 322, 325.
CACCIAVILLANI I., 294, 306.
CACCIN R., 294.
CADART J., 12.
CAFAGNO M., 337, 364.
CAIANI L., 401, 410.
CAIANIELLO V., 294.
CALABRESI O., 294.
CALANDRA P., 11.
CALISSE C., 65
CAPOGRASSI G., 13, 16, 353-4.
CAPOTOSTI P.A., 9.
CAPPONI G., 335.
CAPPUCCI PL., 155.
CARACCIOLO A., 50.
CARCASSONNE E., 145.
CARELLI R., 9.
CARINI C., 10-3, 137, 141.
CARLASSARE L., 332, 395.
CARLO VII (DI FRANCIA), 89.
CARLO VIII (DI FRANCIA), 89.
433
CARNELUTTI F., 382.
CARRÉ DE MALBERG R., 7, 103,
146, 149, 151-2, 242, 250-2, 264.
CARTESIO R., 279.
CASA F., 240, 286, 403.
CASETTA E., 385.
CASINI P., 108.
CASSIRER E., 16-7, 46.
CASTELLANO D., 191, 412.
CASTELOT D., 106.
CASTIGNONE S., 221.
CAVALLA F., 27, 410.
CEDRONI L., 10, 137.
CERRETI C., 238.
CERRI A., 10.
CESA C., 158, 161-2, 170-2, 175,
177-9, 183-4, 186-7, 189, 191,
193, 195, 201.
CESARE C.G., 43.
CHAPMANN J.W., 143.
CHELI E., 11, 212.
CHEVALIER J.J., 93.
CHIMENTI C., 10.
CHIOVENDA G., 347.
CHITI M.P., 305.
CIAURRO L., 13, 31.
CICÉ CH. DE, 136.
CICERONE M.T., 43.
CIESZKOWSKY F., 174.
CLAEYS G., 325.
CLERMONT – TONNERE S. DE,
124, 136.
COACCIOLI – PERLETTI A, 66.
COCHIN A., 89, 90-1, 94-5, 98,
139, 154-7.
COKE E., 324.
COLOMBO P., 11.
COMPAGNONE A., 294.
COMTE A., 60, 189, 245.
CONDILLAC É. BONNOT DE, 156.
CONDORCET M.J.A.N. CARITAT
DE, 97.
CONTE A.G., 401.
CONZE W., 19.
CORASANITI A., 8, 20.
CORASANITI S., 310.
CORDINI G., 10.
COSSUTTA M., 93.
COTTA M., 9.
COTTURRI G., 9.
CRIFO G., 207.
CRISAFULLI V., 9, 254, 259, 260-
1, 263-5, 267, 269.
CROSA E., 111, 238, 254-6, 270.
CUSANO N., 5, 110, 129, 215.
D’AGOSTINO G., 12.
D’ALESSIO F., 353.
D’HONDT J., 162.
D’ONOFRIO F., 9.
D’ORSI D., 353.
DAHL, R.A., 16, 147, 151.
DAL PRÀ M., 143.
DANDURAND, P., 18.
DE CRÈVŒUR R., 125, 135.
DE FRANCESCO G.M., 256, 259.
DE FRANCISCI P., 207.
DE LORENZO G., 38.
DE MARTINO F., 152.
DE SIMONE G., 12.
DECHEND H VON, 256.
DEGNI F., 405-7.
DEL GIUDICE P., 210.
DEL VECCHIO G., 348, 401.
DELEUZE J., 6.
DERRIDA J., 26.
DI CIOLO V., 9.
DI MODUGNO N., 353-6.
DI NUOSCIO E., 10.
434
DIAZ F., 143.
DIDEROT D., 107-8, 117, 170.
DILLIER J., 18.
DONATI D., 263, 266, 348, 351,
403-4, 409.
DOSSETTI G., 257.
DREITZEL H., 343.
DRHAT M., 18.
DRIEHAUS H.J., 394.
DROETTO A., 6.
DUGUIT L., 7, 144, 242, 251-2.
DUQUESNOY D., 125, 135-6.
DUSO G., 13, 22, 43, 45, 51, 162.
DUVERGER M., 16, 80.
DWORKIN R., 21.
EDOARDO I (D’INGHILTERRA),
107.
EHRLICH E., 404-5, 408-9.
EISENMANN CH., 25.
EISERMANN, G., 48.
ELIA L., 11, 13.
ELLUL J., 19, 88, 91-2, 96.
ENRICO II (DI FRANCIA), 89.
ENRICO IV (DI FRANCIA), 89.
ERACLITO, 192.
ERCOLE F., 111.
ERDMANN J.E., 7, 48-9, 56, 62,
74, 161, 178, 182-4, 187, 189,
190, 192, 193, 200-1, 203, 207,
210, 219, 223, 229, 234, 236,
249, 251, 281, 339, 342, 346-7,
349.
ERICHSEN H.U., 389, 395.
ESIODO 256.
ESMEIN P., 141, 242.
ESPOSITO C., 9, 266, 348, 351.
ESSER J., 410.
EULAU H., 17, 326.
EYERMANN E., 394.
FADO C., 363.
FALZEA A., 207.
FARALLI C., 221.
FARINACCIO P., 103.
FERRAJOLI L., 236.
FERRARA F., 403.
FERRERO G., 153.
FICHTE J.G., 7, 13, 235, 348.
FILIPPO IV (DI FRANCIA) “IL
BELLO”, 89, 322.
FILMER R., 7, 35, 111.
FILOMUSI GUELFI F., 353, 356.
FIORAVANTI M., 27, 75, 208,
220, 228, 233, 235, 243, 257-8,
366.
FISCHER K, 163-4, 353.
FISICHELLA D., 9, 13, 17, 20, 42,
76, 269, 321-7, 330-6.
FOLLIERI E., 336.
FORSTHOFF, E., 394.
FORTUNA S., 9.
FOSTER J., 33.
FRAENKEL E., 17, 18, 48.
FRALIN R., 117.
FRANCESCO I (DI FRANCIA), 89.
FRANCO A., 403.
FRANZESE L., 55, 400.
FREITAG H.O., 141.
FRETEAU C. DE, 124.
FRIED C.R., 19.
FRIEDERICH C.J., 18, 137.
FRÖHLER L., 394.
FROMM G., 396.
FROSINI V., 21.
FURET F., 14, 94, 97-8, 125.
FUSARO C., 10.
FUSELLI S., 363.
FUSELLI S., 363.
G. DE SEMO, 67.
435
GABLER G.A., 353.
GADAMER H.G., 29, 40, 46.
GALATERIA L., 293, 295.
GALGANO F., 57, 121.
GALIZIA M., 14.
GALLI G., 7, 9, 15, 50-1.
GALLICET CAVALLI C., 6.
GAMBINO S., 11.
GANS E., 7, 42, 57, 71, 73, 162-4,
167-8, 196, 198-9, 213, 236, 275,
338.
GAZZONI F., 57.
GEHLEN A., 187.
GENTILE F., 15, 20, 54-5, 61-2,
72, 100-1, 104, 110, 113, 149,
154-5, 157-8, 225, 227, 259, 262,
269, 282-3, 292, 330, 335, 352,
354, 414.
GENTILE G., 38, 348.
GENTILE M., 21, 23, 25-6, 31,
414.
GENTILI A., 411.
GÉNY F., 25, 404-7.
GERBER C.F. VON, 6, 7, 27, 48,
50, 163, 178, 183, 192, 203, 219,
220-229, 230-4, 237, 239, 243-4,
251, 339, 340-2, 246, 349, 365-9,
370-6, 387-8, 391.
GERIN G., 411.
GEULINCX A., 279.
GIACON C., 111.
GIANCOTTI BOSCHERINI E., 6.
GIANFORMAGGIO L., 19.
GIANNINI M.S., 351, 401.
GIBSON S.B., 154.
GIERKE O. VON, 6, 18, 74, 75,
110, 152, 163, 243, 250, 252,
253, 261, 263, 287, 349, 358,
376.
GIULIANI E.M., 10.
GIUSEPPONE V., 294.
GLUM F., 45.
GNEIST R. VON, 340, 343-5, 347-
8, 356.
GOBBO M., 418.
GOUBERT P., 143.
GRASSERIE R. DE LA, 135.
GRASSO, P.G., 18, 158.
GREGO M., 137.
GRIMM D., 19.
GRISOLIA M.C., 11.
GROSSI P., 14, 192.
GROTHUYSEN B., 134, 143.
GROZIO U., 155, 191.
GUERRIERI S., 257.
GUICCIARDI E., 318, 343, 346,
348, 351-3.
GUICCIARDI G., 351.
GUSY CH., 48.
GUZZO A., 33.
HABERMAS J., 17, 139.
HÄGERSTRÖM A., 221, 282.
HALEVI R., 125.
HALLER B., 20.
HARRIS I, 111.
HARRIS SACKS D., 12.
HARTMANN V., 17.
HÄTTICH H., 43.
HAURIOU M., 6, 53, 152, 261,
359.
HAYM R., 170.
HECK PH., 404.
HECKER J., 20.
HEGEL G.F.W., 44-5, 48-9, 74,
77-8, 85, 110, 114, 158, 161-9,
170-9, 180-3, 185, 189, 190-1,
193, 196, 199, 200-1, 206-7, 209,
211, 213-4, 218, 25-7, 239, 243,
436
245, 249, 251, 253, 267, 338,
348-9, 350, 352-7, 363, 418.
HELLER H., 47-8, 152, 292.
HENKE W., 337, 350, 356.
HENRICH D., 162.
HINRINCHS H.F.W., 163, 281,
353.
HINTZE O., 18.
HOBBES TH., 7, 13-4, 20, 49, 50,
56, 62, 84, 110-1, 115, 129, 173,
187, 324.
HOFFEIMER M.H., 162, 168, 338.
HOFFMAN PH. T., 12.
HOFFMANN M., 398.
HOFMANN H., 17, 20, 22, 31, 32,
109.
HOHENZOLLERN (famiglia), 174.
HOLBACH P.H.D. DE, 108-9, 111,
112, 114-9, 120-1, 201, 216.
HOLTMANN E., 342.
HORSTMANN R.P., 162.
HUBER H., 18.
HUBER P.M., 389, 395.
HÜGLIN TH., 14.
HUME D., 31, 34-6, 143, 279,
404.
HYDITE F.A. VON DER, 19.
IANNOTTA L., 356, 364.
IENSEE J., 11, 13.
ILTING K.H., 29, 162, 196.
IRTI N., 362, 412.
IRWIN T., 414.
IUSTINIANUS, 70.
JACOBSON R., 154.
JAEGER H.,18.
JAHR G., 21, 26.
JAUCURT L., 108.
JAUME L., 14.
JAYNES J., 256.
JELLINEK G., 6, 7, 27, 42, 48,
163, 219, 230, 235, 239, 241-9,
250-2, 259, 260-3, 265, 281, 329,
340-2, 370-1, 375-9, 380-8, 391-
4, 413.
JELLINEK W., 242, 244, 392.
JEMOLO A.C., 360.
JESSOP TH. E., 33.
JHERING R. VON, 220, 223, 362-
3, 413.
JONAS H., 29.
JOUVENEL B. DE, 118.
KAISER J.H., 16, 48.
KANT I., 13, 36, 37, 38, 74, 155,
163, 173, 178, 191, 242, 362,
399, 413.
KANTOROWICZ E., 6, 173, 404-5.
KARPS, P.D., 17.
KELSEN H., 15, 17, 19, 26-7, 48,
52-3, 74, 147, 151-2, 238, 266,
278, 281, 328, 424.
KIM J., 200.
KIRCHHEIMER O, 48.
KIRCHHOF P., 11, 13.
KIRCHMANN J.H. VON, 401.
KLÜVER J., 21.
KOCH C., 18.
KOENIGSBERGER G., 145.
KÖNIG S., 399.
KOSELLECK R., 18, 19, 77, 145.
KRAMNICK I., 143.
KREBS W., 396, 399.
L’ÉVÊQUE P., 256.
LA PIRA G., 257.
LA ROCHEFOUCAULD F.A.F. DE,
133.
LA TORRE M., 413.
LABAND P., 6, 7, 27, 75, 152,
163, 178, 182-3, 193, 207, 219,
437
230-1, 233-5, 237-9, 240-5, 248,
250-1, 260-1, 266-7, 271, 278,
281, 340-3, 346-7, 349, 365, 386-
7, 424.
LACLOS P.A.F. CHODERLOS DE,
155.
LALLY – TOLLENDAL G.T., 124,
134, 217.
LAMBRUSCHINI R., 335.
LAMENNAIS F.R. DE, 87.
LANCHESTER F., 9, 10-1.
LANDSBERG E., 25, 206.
LANDSHUT S., 16.
LANGUET H., 111.
LARENZ K., 25, 161, 183, 187,
206, 405.
LARRÈRE C., 141.
LEIBHOLZ G., 13, 16, 20, 23, 28,
31, 33, 43, 44, 46-9, 51-2, 54,
130, 147, 152, 166.
LEIBNIZ G.W., 14, 38.
LEISNER W., 324, 330, 334.
LENIN V.I. UL’JANOV, 149, 322.
LEVI A., 358, 361, 403.
LEVI G., 413.
LOCKE J., 7, 14, 31, 33-5, 109,
110-1, 187, 288, 411-2.
LOEWENSTEIN K., 18, 125, 132.
LOMBARDI G., 207.
LOMBARDI VALLAURI L., 400.
LONG G., 9, 11.
LOSURDO G., 162, 164.
LOUGH J., 108, 117.
LOUSSE É., 94.
LÖWITH K., 161.
LOYSEAU H., 92.
LÜBBE H., 74, 148, 161, 170,
174-5, 177, 179, 183-6, 188, 191-
2, 195, 201.
LUCAS P., 324.
LUCCHINI P.L., 219.
LUCE A.A., 33.
LUCIANI M., 10.
LUCIFERO D’APRIGLIANO F.,
258.
LUCIFERO D’APRIGLIANO G.,
258.
LUCIFREDI R., 238.
LUHMANN N., 249.
LUIGI XII (DI FRANCIA), 89.
LUIGI XIII (DI FRANCIA), 87.
LUIGI XIV (DI FRANCIA), 89, 92,
268, 335.
LUIGI XV (DI FRANCIA), 92, 93.
LUIGI XVI (DI FRANCIA), 89,
130, 196, 279, 322.
LUIGI XVIII (DI FRANCIA), 113,
322.
LUNDSTEDT W., 221.
LURASCHI G., 207.
LUYNES CH. D’ALBERT DE, 72.
LUZZATTI L., 332.
MABLY G. BONNOT DE, 15, 143.
MACHIAVELLI N., 6.
MADELIN L., 126.
MAIHOFER W., 21, 26.
MAIORCA C., 361, 363.
MAIRAN D. DE, 279.
MAITLAND F.W., 6.
MALEBRANCHE N., 279.
MANIN B., 94.
MANTEL W., 17.
MANTELLINI G., 351.
MANTINI PL., 294, 306.
MANTL W., 13.
MANZELLA A., 11.
MANZIN M., 410.
MARGHIERI A., 18, 210, 214.
438
MARINI G., 158, 164, 196,
MARONGIU A., 18.
MARRAMAO G., 13, 201.
MARSILIO DA PADOVA, 5, 55, 72,
84, 129, 215.
MARTINES T., 46.
MARX K., 78,173.
MASSARI O., 10
MATASSI E., 162, 169.
MATTEUCCI N., 59, 60, 77, 116,
210.
MAURER H., 390, 392, 394.
MAURRAS CH., 322.
MAURY J.S., 146.
MAYER O., 7, 343, 348, 393.
MAZZANTI PEPE F., 15, 143.
MAZZARELLI C., 272.
MAZZAROLLI LE., 307, 351-2,
357.
MCILWAIN E. CH., 77, 116.
MCINTYRE A., 29.
MEDICI M. DE, 89.
MELANTONE F. SCHWARZERD,
111.
MENEGELLI R., 26, 207, 395.
MENGER C.F., 396, 399.
MENGHI C., 162.
MENGOLI GC., 294, 307.
MERCADANTE F., 13, 87.
MERLO M., 5.
MESSINA G., 363.
MESSINEO F. (JUN), 57,
MESSINEO F. (SEN), 164, 355.
MESTRE A., 16.
MEUTER G., 47.
MEYER H., 19.
MEZZADRA S., 75,
MICELI V., 401.
MICHELET C.L., 163, 174-8, 204,
353.
MICHOUD C., 252.
MIGLIO G., 9, 11, 118.
MIGNONE C., 309.
MILL J.S., 116.
MIRABEAU G.H. DE, 136, 146,
218.
MODUGNO F., 401, 404.
MOHL R. VON, 7, 18, 163, 207-9,
216-7, 224, 253.
MOLA G., 11.
MOMMSEN TH., 152.
MONTANARI B., 17, 74, 328.
MONTESQUIEU ET LA BRÈDE,
CH. L. DE SECONDAT DE, 7, 10,
14, 100, 103, 109, 111, 113, 120,
144-5, 147-8, 153, 156, 165, 236,
246, 258, 419.
MORNET D., 143.
MORO A., 257.
MORTATI C., 14, 238, 262.
MOSCHELLA G., 11.
MOSÉ, 6.
MOUNIER J.J., 142.
MÜLLER CH., 19, 324.
MÜLLER F., 18, 25-6, 206.
NICOLLIER B., 111.
NIETZSCHE F., 161.
NIGRO M., 353, 356.
NOCILLA D., 13, 31, 39, 46.
NORBERG K., 12.
OCCAM G., 5, 72.
OCCHIENA M., 294, 306.
OFFIDANI A.M., 238.
OLDRINI G., 162, 170, 174, 179,
184, 189.
OLIVECRONA K.H.K., 282.
439
OLRANDO V.E., 227, 244, 259,
260, 364, 384.
OMAGGIO V., 129.
ONIDA V., 11.
OPITZ P.J., 21.
OPPENHEIM H.B., 48, 74, 163.
ORANGE G. DE, 111.
ORECCHIA R., 27.
ORNAGHI L., 20.
ORSETANO R., 360.
ORSONI G., 307.
ORWELL G., 176.
OZOUF M., 94, 97-8.
PAGALLO U., 84, 155, 157, 259,
282.
PAGANO R., 9.
PAINE TH., 325.
PAINO A., 337.
PALADIN, L., 8, 11, 395.
PALLOTTINO M., 307.
PANIZZA D., 287.
PANUNZIO S., 177.
PANUNZIO S.P., 11, 212.
PARISI V.E., 20.
PARMENIDE, 53.
PASQUINO G., 10-1.
PASQUINO P., 9, 14, 152.
PASTORE A., 279.
PATTARO E., 221, 282.
PAULSON S.L., 26.
PAWLIK M., 21.
PEDRALI – NOY P.L., 404.
PEGORARO L., 11.
PEIRCE C.S., 37.
PENNOCK J.R., 143.
PETTY W., 107.
PFITZER A., 18.
PIERANDREI F., 18, 242, 385.
PIETRANTONI A., 225.
PIETROBON V., 63.
PIETZNER R., 394.
PIFFERI G., 294.
PIOVANI P., 27.
PIRETTI M.S., 10.
PITKIN H.F., 17, 39, 42, 44, 58,
63, 75-6, 132, 152, 327.
PLATONE, 2, 31, 37, 39, 40, 46,
83, 85, 129, 271, 280, 354, 414.
PODLECH A., 17.
POT F., 18, 89, 118, 129, 152.
PRINS A., 18, 73, 145.
PROSPERETTI U., 238.
PROSPERO M., 116.
PROUST J., 117.
PUFENDORF S., 191,
PUGLIATTI S., 57.
PUNZO L., 177.
QUADRI R., 401.
QUARITSCH H., 17.
RAGOTZKY H., 108-9.
RAGUSA V. 401.
RANELLETTI O., 238, 257-8, 266,
351.
RAUSCH H.H., 16-8, 43, 45.
RAVÀ A., 6, 111, 178, 221, 266,
348, 357, 362, 382, 404-5, 413.
REALE G., 83, 272.
REDEKER K., 396.
REDSLOB R., 18.
REICHARDT R., 137.
REID J.PH., 13, 58, 70.
REINCKE O., 18.
RESCIGNO G.U., 11, 22, 136,
271-9, 283-5, 326, 336.
RHINOW R.A., 17.
RICCAMBONI G., 11.
RICHELIEU A.J. DU PLESSIS DE,
89, 101.
440
RIDOLA P., 9, 14-5, 269.
RIEDEL M., 29, 338.
RITTER J., 29.
RIZZI L., 15, 19.
ROBESPIERRE M.F.I. DE, 151,
264, 324.
ROBINSON H., 33.
RODELLA D., 294.
ROEHRSSEN G., 345.
ROELS J., 17, 108, 141.
ROEVER C., 416.
ROLWEY C.K., 411.
ROMANO A.A., 8, 20, 22.
ROMANO S., 6, 75, 226, 227, 228,
259, 261, 359, 364, 369, 370,
373, 374, 375, 379, 381, 384,
403.
RONCHETTI E., 143.
ROSENKRANZ K.F., 48, 74, 161,
163, 169, 170-1, 173-4, 170, 180,
190, 201, 207, 218, 134, 236,
239, 251, 339, 353.
ROSS A., 282.
ROSSI P., 84.
RÖSSLER C., 48, 74, 163, 164.
ROTONDI M., 401.
ROTTECK C., 152.
ROUSSEAU J.J., 7, 15-9, 56, 73,
82, 88, 94-6, 98-9, 100-8, 118-9,
129, 131, 138, 142, 144, 147-9,
150, 156, 169, 173, 181, 218,
236-7, 245, 262, 285, 292, 327,
418-9, 424.
ROUX A., 12.
RUFFILLI R., 9.
RUFFINI E., 19.
RUFFINI F., 226, 372-3.
RUPPERT K., 48.
RUSSEL B., 410.
RUSSEL M.J., 18.
S. FERRARI, 67.
SABBADINI R., 92.
SAINT-SIMON C. H. DE
ROUVROY DE, 335.
SAITTA A., 133, 136, 142.
SALANDRA A., 353.
SANDULLI A.M. 294, 296, 390.
SANIT-JUST L. DE, 145.
SANTILLANA G. DE, 256.
SANTORO PASSARELLI F., 63.
SAUER W., 18, 25, 206.
SAVI – LOPEZ P., 38.
SAVIGNY C.F. VON, 25, 48, 83,
196-8, 204, 206, 221, 237, 340,
349.
SCALONE A., 14, 47-8, 147.
SCERBO A., 253.
SCHACHTSCHNEIDER K.A., 13,
49, 350.
SCHALLER J., 353.
SCHEFOLD D., 12.
SCHIERA P., 9, 75.
SCHMIDT ASSMANN E., 337.
SCHMIDT R., 397.
SCHMITT C., 13, 15-6, 23, 27, 45,
47-9, 50, 51, 54, 82, 266, 343.
SCHMITT E., 19, 115, 137.
SCHNEIDER H.P., 12.
SCHNUR R., 242.
SCHOFER B., 332.
SCHOPNEHAUER A., 38, 169,
358.
SCHRAMM H., 115.
SCHUMPETER J.A., 147.
SCHÜTTEMEYER S. 11.
SCHWEICKHARDT R., 394.
SCIACCA E., 15.
SCIALOJA A., 67, 401.
441
SELB W., 329.
SELBY – BIGGE L.A., 34, 36.
SENSINI A., 9.
SHAFTESBURY A.A. COOPER DI,
157.
SIEP L., 162.
SIEYÈS J.E., 10, 14, 39, 49, 50,
64, 71, 75, 84-5, 87, 103, 115,
119, 120, 127, 130-1, 133-, 135-
9, 140-1, 143-9, 150-1, 153, 157,
158, 176, 182, 207, 213, 215,
217-8, 229, 235, 247-9, 250, 252,
254, 269, 281, 289, 290, 292,
322, 324, 415, 418, 422-3.
SIMMEL G., 48, 51.
SIMONNET H., 18.
SIRIANNI G., 303, 312.
SLAPNICA H., 12.
SMEND R., 47-8.
SNELL B., 256.
SOBUL A., 145.
SOLMI A., 403.
SORDI B., 337, 345, 356.
SORGE G., 294.
SORGI, G., 13.
SOULE C., 89.
SPADARO, A., 9.
SPAGNOLETTI L., 310.
SPANTIGATI F., 307.
SPAVENTA B., 353-4.
SPAVENTA S., 345, 347, 353-6.
SPENCER H., 245.
SPINOZA B., 6, 38, 170, 279.
SPIRITO U., 177.
SRTORI G., 11, 15, 63.
ST. ETIENNE R. DE, 152.
STEIGER H., 12.
STEIN L. VON, 163, 178, 204,
206, 237, 253, 339, 340, 343,
348.
STEINBERG H.J., 48.
STERNBERGER D., 17, 325.
STINTZING R., 25, 206.
STRATE L., 154.
STRAUSS D.F., 161.
STRAUSS L, 29.
SUHR D., 19.
SUPLIE K., 394.
TABARONI N., 348.
TAINE H.A., 99.
TALLEYRAND – PERIGORD CH.
M. DE, 70, 106, 125-8, 130-6,
142, 144, 146, 158, 240, 277,
283, 319, 415.
TALMON J.L., 16.
TARELLO G., 197, 221.
TEETETO, 39.
TEGG TH., 33.
TENTONI L., 10.
TERESI F., 10.
TERNEYRE, P., 12.
TESSITORE F., 27.
THAISEN U., 11.
THIBAUT A.F.J., 206, 237.
THOMA R., 13.
THOMASIUS C., 191.
THOMPSON E., 18.
THON A., 221, 357-9, 361, 363,
416.
TOBLER M., 351.
TODESCAN F., 282.
TOGLIATTI P., 257.
TOMMASI C., 38.
TOSATO E., 254, 259, 265-9, 270.
TOSI R., 11.
TOYNBEE A.J., 256.
442
TRABUCCHI A., 57, 121, 382.
TRACY D. DE, 113.
TRAVERSO M.C., 413.
TREVES R., 26.
TSATSOS D.TH, 12.
TUMIATI L., 312.
ULPH O., 89.
ULPIANUS, 67, 413.
VALMONT, VISCONTE DE 155.
VATTEL E. DE, 245.
VATTIMO G., 40.
VERBARI G.B., 294.
VERNANT J.P., 256.
VIEUZAC B. DE, 134-5, 148, 153,
218, 349.
VIGNAUX P., 73.
VILLENEUVE DE P., 142-3.
VILLEY M., 25, 360.
VINCENTI U., 27.
VIOLANTE P., 17, 114, 116, 118-
9, 132, 135, 141.
VIOLLET A., 92.
VIPIANA P., 309.
VIPIANA P.M., 309.
VIRGA P., 238, 385.
VIRGILIO, 189.
VOEGELIN E, 5, 6, 13, 16, 21, 29,
23, 51, 52, 53, 54, 56, 80.
VOEGELS A., 18.
VOLLAND S., 117.
VOLPE F., 72, 263, 316.
VOLPE G. DELLA, 78.
VOLPI M., 9.
VOLTAIRE J.M.A., 156.
WAECHTER K., 13, 47.
WALPOLE R., 143.
WALTHER C., 12.
WEBER A, 12.
WEBER M. 48.
WEIMER D., 411.
WEISS E., 108.
WENZEL H., 109.
WESTFALEN R. GRAF VON, 12.
WIENFORT M., 343.
WINDSCHEID B., 360, 363, 399.
WITTGENSTEIN L., 280.
WOEHRLING J.M., 337.
WOLF H.J., 18, 390, 392, 395.
WOLFF C., 191, 245.
ZACHER E., 26.
ZANETTI C.F., 414.
ZANETTI, G., 51.
ZANON N., 14, 146, 287-9, 290-
2, 311, 326, 336, 423.
ZANUSO F., 97.
ZAPPATA R., 65.
ZAPPERI R., 136, 146, 218.
ZITELMANN E., 63, 362, 399,
403, 409, 416.
ZOLO D., 15, 147.
ZULEEG M., 397.
ZWEIG E., 18, 141.