Il Parroco Di Arasolé-Il Dio Petrolio-F Masala

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Francesco Masala Il parroco di Arasolè Il Maestrale

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Francesco Masala

Il parroco di Arasolè

Il Maestrale

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Romanzo

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Francesco Masala

Il parroco di Arasolè[Il Dio Petrolio]

Il Maestrale

Grafica e impaginazioneNino Mele

EditingGiancarlo Porcu

Edizioni Il Maestralevia XX Settembre, 46Tel.+Fax 0784.3183008100 Nuorowww.edizionimaestrale.it

I edizione Il Maestrale ottobre 2001

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Tutti sanno cos’è un’eclisse totale di sole. Un pre-vedibile avvenimento astronomico e, precisamen-te, la luna che va a mettersi tra la terra ed il sole,ad ogni determinato numero di anni.

Una manifestazione della natura, dunque, pro-prio come questa cui sto assistendo, dall’alto delcampanile di Sarrok, oggi, mercoledì delle ceneridell’anno del Signore millenovecentosessantuno.

Eppure, il mio occhio colpito da una anormaleluce, il mio orecchio sommerso da un innaturalesilenzio, la mia epidermide ferita dal freddo di uninsolito crepuscolo, tutte queste inconsuete sen-sazioni fisiche si vanno traducendo in uno stato didisagio mentale, in un interiore malessere, comeuna spina che ti fa male, non per il dolore dellapuntura ma per il timore che ti abbia inoculatoun veleno sconosciuto.

Il bianco corpo della luna, fra le rosse braccia delsole, sembra una vergine nuda che va a coricarsi,

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tadina di Arasolè per la nuova parrocchia indu-striale di Sarrok, mi capita, spesso, troppo spesso,di parlarmi addosso.

Inoltre, contravvenendo ad una precisa regola dianalisi logica, in questi miei interminabili solilo-qui, quasi sempre, uso la terza persona, insomma,mi do del Lei.

Probabilmente, un rifiuto di identità, una dene-gazione dell’io ma, a pensarci bene, potrebbe trat-tarsi di narcisismo, una forma di onanismo cere-brale, una specie di perversione linguistica, un mo-do di comunicare simile, molto simile, al vizio difar l’amore con se stesso.

Sia lecita un’altra ipotesi: forse, è una manieradi punirsi, simile, molto simile, alle autoflagella-zioni medievali. Durante questi lunghissimi ca-roselli mentali, il mio cervello, la res cogitans, nonvolendo pensare se stesso, s’inventa un interlocu-tore, un antagonista, un alter ego.

La prima e la terza persona, l’Io e il Lui, armatidi lunghi scudisci, come due ascetici crociati, siaffrontano nel deserto della solitudine sacerdota-le: la flagellazione, si sa, è più godibile quando èfatta di frustate che si alternano.

Infine, per chiudere questa parentesi, vorrei as-sicurare i miei sette lettori, che, qui, non si trattadi alcun sdoppiamento di personalità e, perciò,

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per la prima volta, col suo legittimo marito, spe-gnendo, con mano pudica, il paralume acceso sulvasto letto matrimoniale del cielo; oppure, se è le-cito mettere in fila una metafora dietro l’altra, ilsole e la luna, padre e figlia, amanti incestuosi, ac-coppiati in una impudica congiunzione cosmica,in un unico mostruoso essere androgino.

Pensare è come fare, per un prete. A causa del-le mie riprovevoli metafore, ora, sono costretto aprendere in considerazione il sospetto che non siasoltanto il freddo improvviso dell’eclisse a farmirabbrividire, ma che ci sia, anche, qualche rela-zione tra l’oscurità che va lentamente coprendo laterra e le ombre della mia anima.

C’è, insomma, il veleno della paura che aumen-ta mano a mano che aumenta il buio dell’eclisse.

Comunque, poggiando bene i piedi sul pavi-mento della cella campanaria, dico forte a mestesso: – È una chiesa nuova, un campanile nuo-vo, niente paura, Don Adamo!

***

(Fra parentesi, mi corre l’obbligo di confessareche da un po’ di tempo in qua e precisamente daquando, per volontà del mio vescovo, sono statocostretto ad abbandonare l’antica parrocchia con-

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autentico mezzo di comunicazione, l’unica auten-tica salvezza contro la solitudine. Ma un prete, unprete cattolico, dico, deve essere solo, non puònon essere solo.

È il suo ineluttabile itinerarium mentis in deum, ilsuo fatale cammino verso la santità.

In seminario, un vecchio insegnante di teologia,nel segreto del confessionale, carezzandogli i ca-pelli con mani grasse ed ambigue, lo aveva pater-namente avvertito: – Adamo, stai attento, guai achi è solo! Tutto ti può capitare! Tu, con i tuoi ca-pelli color foglia d’autunno, con i tuoi occhi vio-la, con la tua faccia di passero spaventato, tu seiproprio il pretino disponibile a colmare il deser-to del cuore, quello delle contadine della tua par-rocchia ed anche il tuo.

***

Certamente, il vecchio insegnante di teologianon poteva sospettare che sarei andato a finire inmezzo alle operaie petrolchimiche della Raffine-ria di Sarrok.

Qui, nonostante il parere contrario del mio Ve-scovo, la Chiesa è una contraddizione in termini,se è vero, come è vero, che ecclesia vuol dire riu-nione, adunanza, gente riunita intorno al proprio

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questo non è il diario di uno schizofrenico ma vuolessere soltanto la trasmissione, in presa diretta, diun’eclisse totale di sole.)

***

Don Adamo, dunque, sta qui, in cima al cam-panile, infreddolito, chiuso dentro la lunga neratunica del suo monotono abito talare: attraversoun pezzo di vetro affumicato, osserva la faccia delsole, già metà rossa e metà nera, come la mam-mella di una bella donna, tonda e rosata, divora-ta a metà da un cancro nero.

Il giovane parroco di Sarrok, ancora una voltatrascinato nel gorgo delle sue biforcute similitu-dini, è costretto a fermare il suo pensiero davantialle inconsce fantasie poetiche come si ferma ilpiede davanti alla testa di una vipera sbucata im-provvisamente in mezzo all’erba.

Non c’è scampo. La solitudine trasforma l’ange-lo in verme.

Il pensiero che pensa se stesso è un cane chemorde la propria coda.

Ogni altro uomo sa come fuggire la solitudine.Un prete, no.

Ogni altro uomo sa come deve fare: va e cerca ilrimedio di una donna. In fondo, il sesso è l’unico

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di, la mia vita va avanti, se non felice almeno man-sueta, ma quando si aggrovigliano i nodi di vipe-re della precaria condizione di uomo e di sacerdo-te, allora il filo s’intrica, si attorciglia, si riempiedi nocchi, si spezza e sono costretto ad urlare in si-lenzio, come un negro gonfio di terrori, solo, inmezzo ad un villaggio di razzisti bianchi.

Così, in questa cattedrale nel deserto, i mieipensieri vanno per conto loro, senza freno, in com-pagnia di inafferrabili miraggi, dietro immaginidove ha termine la purezza del cuore ma dove, al-meno, è possibile immergere la mia malinconia diuomo solo: è come franare dentro una voraginemorbida e calda, scivolare nudo lungo un muro divelluto, fino ad un giardino proibito, con unaemozione fisica che scioglie tutte le mie midolla.

***

Dall’alto del campanile, Don Adamo scruta l’o-scena congiunzione. Il sole e la luna perfettamen-te combaciano, come un unico, mostruoso erma-frodito. La protuberanza della cromosfera sembrail rosso bubbone di una cosmica malattia venerea.

Il giovane sacerdote è solo, desolatamente solo,al centro dell’universo spento. Il suo cuore, ciecocome una talpa, rintocca aritmico come una cam-

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parroco. Per quanto mi riguarda, vivo in perfettasolitudine, disgregato in mezzo agli altri disgre-gati del nuovo polo di sviluppo industriale. Vivocontro natura, in contrasto col più profondo istin-to dell’uomo, l’istinto sessuale, cioè l’amore.

La mia chiesa è, veramente, una cattedrale neldeserto e io ci vivo dentro come un fanciullo chiu-so in una stanza buia e vuota, alle prese con i mo-stri che crescono nell’oscurità. In fondo, la mia,non è solo paura della solitudine, horror vacui, maè paura di dover riempire quel vuoto con presenzementali pericolose, ambigue, inammissibili, pec-caminose.

Una paura, occorre dirlo, mista ad un orgasmosicuramente fisico, dal momento che combatto lasolitudine in compagnia di una donna inventata,sempre la stessa donna, una giovane donna senzavolto, un simulacro mentale, un feticcio sessuale:immergo il mio volto nelle sue ampie e gonfiemammelle fino a farmi mancare il respiro e, comeun povero cristo deposto dalla croce, mi abban-dono fra le sue braccia, senza mai riuscire a sape-re se il mio orgasmo, infinitamente ripetuto, siauna naturale congiunzione oppure un incesto.

In sostanza, addipanare e sdipanare gomitoli dipensieri è il succo della mia esistenza: fino a quan-do la matassa si avviluppa e si sviluppa senza no-

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giorni, che diventi petrolchimico, anche lui. Così,proprio così, secondo il Vescovo, deve essere un sa-cerdote industriale: eclissato il tempo di Arasolè,l’antica azzurra chiesetta contadina, la religionecontadina, che dico!, la superstizione contadina, isuoi riti, i suoi miti, i suoi feticci, i suoi tabù, ilsuo folclore, insomma.

Forse è necessario dire che, per convincere DonAdamo a lasciare la parrocchia contadina e ad ac-cettare di buon grado la parrocchia industriale,Sua Eccellenza, con grande enfasi gli aveva detto:– Parroco a Sarrok! Nel polo petrolchimico! UnaChiesa Nuova! Un campanile nuovo!

In effetti, Sua Eccellenza è un fallo pieno di pe-trolio, un’oloturia gonfia di catrame, in conclu-sione, un coglione.

***

Un tempo, in verità, non molto lontano, duran-te le notti di bufera, quando le campagne di Ara-solè, erano in mano della pioggia e del vento, unessere nefando, dal corpo di bue e dalla testa d’uo-mo, passava mugghiando tra le tanche. Aveva oc-chi di fuoco.

Il suo muggito era così forte che i cani fuggiva-no col pelo dritto.

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pana pazza. Non riceve aiuto né dalla fede, né dal-la speranza, né dalla carità. Non spuntano, in lui,le ali della preghiera.

La lingua di fuoco, che scarica i gas della Raffi-neria, getta una luce diabolica sul campanile. Ilvescovo (un vecchietto secco e rugoso, con la bar-betta caprina e la voce stridula) ha voluto un cam-panile in stile moderno, un’architettura tale danon sfigurare di fronte all’iperrealismo tecnologi-co della Fiaccola.

D’altronde il campanile è brutto, proprio brut-to, freddo, astratto, disumano, senza campane: as-somiglia ad una garitta militare, un lungo paral-lelepipedo conficcato nel cielo.

Don Adamo, nonostante i suoi guai, non è uo-mo da rinunciare ad una metafora sul campanile:– Sembra il dito di Sua Eccellenza, un dito lungoe secco, puntato contro il cielo, come per dire“Tu, Dio, stattene lì dove sei, sconosciuto e mi-sterioso, alle cose di qui ci penso io”.

Ed è giusto, proprio giusto che, nel nuovo nu-cleo industriale, anche la chiesa sia conforme allanuova realtà: in fondo un lungo, tecnologico cam-panile, è un sicuro rimedio contro i veleni che laFiaccola rovescia ininterrottamente nel cielo e nelmare del lunato Golfo degli Angeli.

Ed è giusto, infine, che anche il parroco si ag-

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le sue furie improvvise, i suoi istinti sfrenati, le suevoglie pazze. Il bue, il mite, il paziente bue, im-provvisamente, diventava fontana di terrore, fra-tello della malasorte, amico del demonio.

La solitudine, il tedio, l’amargura, l’amarezza deipastori di Arasolè diventavano paura, alienazione,identificazione con l’oggetto amato e temuto: l’uo-mo diventava bue, boe muliache, bue che mugghia.

Ma il passato è passato. Oggi, dove un tempopascolavano i pastori di Arasolè, è sorto il polopetrolchimico di Sarrok, la raffineria più granded’Europa.

Un’altissima lingua di fuoco, notte e giorno, se-condo la legge del ciclo continuo del petrolio, il-lumina le antiche tanche: è la Fiaccola, la lunghis-sima torcia che brucia tutti i gas di scarico dellaRaffineria e li scaglia, simile ad un drago vam-pante fiamme, contro l’azzurra indifferenza delmare e del cielo.

Il petrolio grezzo esce dal ventre delle navi pe-troliere, nero e giallo come l’occhio della vipera,scorre freddo dentro i tubi, va a scaldarsi le venenei forni di distillazione, entra in orgasmo nei ta-lami a serpentina, si accoppia come una bestia im-monda dai mille sessi dentro le torri di fraziona-mento e, infine, partorisce migliaia di figli: benzi-na, vaselina, glicerina, paraffina, metano, butano,

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Era un uomo che diventava bue, un pastore che,fatalmente, da mezzanotte all’alba, doveva anda-re e assumere forma di bue, animamala che con-servava la coscienza umana fino a sentire dolore eterrore della propria follia. Per tutta la giornataera uomo, un pastore come gli altri, poi, improv-visamente, in una notte di pioggia e di vento,egli andava a mugghiare tra le macchie di cisto edi lentischio, per ritornare, all’alba, ridiventatouomo, nella sua capanna.

Secondo Don Adamo, l’uomo-bue era la stessacosa dell’uomo-lupo, la licantropia del nord era si-mile, molto simile alla taurantropia del sud: unaforma di alienazione dell’antica, errabonda, so-cietà pastorale.

Eppure, la gente di Arasolè voleva bene al suobue. Lo amava perché era compagno del suo lavo-ro, della sua sorte. Significava forza, aiuto, carne,pelli. Era utile, simbolo del bene, dell’abbondan-za, amico buono come un’annata buona.

In certe feste, lo inghirlandava di spighe, gli in-filava arance sulla punta delle corna. Gli metteva,persino, curiosi nomi, teneri, affettuosi: Occhio-di-sole, Vestito-a-festa, Bandiera-in-mare, Trop-po-ti-miri, Rovina-donne, Cento-ne-vuoi, Bello-son-io.

Ma, anche, lo temeva. Temeva le sue corna dure,

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dalla povertà, dall’emigrazione, dai sequestri dipersona, dagli incendi, dall’abigeato, dal pascoloabusivo, da tutti i mali, insomma, dell’antica, cri-minosa civiltà agro-pastorale.

In verità, pur essendo sacerdote, Don Adamo,non crede ai miracoli. Il fatto è che, proprio adArasolè, Dio non ha fatto mai miracoli. Perché,dunque, una volta trasferito a Sarrok, dovrebbecambiare parere?

Infine, gli operai di Sarrok sono altrettanto alie-nati che i pastori di Arasolè: piccoli uomini in tu-ta, il casco in testa, un cacciavite in una mano, euna chiave inglese nell’altra mano, si aggiranofreneticamente fra giganteschi tubi, enormi sfere,colossali cilindri, mastodontici parallelepipedi,mostruosi alambicchi. I ritmi di lavoro sono sem-pre gli stessi. I movimenti sempre uguali, identi-ci, senza variazioni: cacciavite e chiave inglese,chiave inglese e cacciavite.

I pastori di Arasolè hanno ancora bisogno di Dioe, perciò, pregano per l’acqua e per il sole, per ilcaldo e per il freddo, per la luce e per il buio, perl’erba verde e per il grano giallo.

Gli operai di Sarrok non hanno più bisogno diDio. Se c’è buio, Lui, il Petrolio, fa luce. Se c’èfreddo, Lui, il Petrolio, aziona i termosifoni. Sec’è caldo, Lui avvia i condizionatori d’aria.

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esano, ottano, etilene, acetilene, propilene, polisti-rene, alchilati, nitrati, clorati, solfonati, eccetera,eccetera, eccetera.

Il petrolio, ovverosia l’olio di pietra, come l’an-tico scongiuro delle dodici parole della gente di Ara-solè, è buono a tutto: a curare la rogna, a uccide-re pidocchi, ad eliminare il verme solitario, a con-cimare rape e cavoli, a fare neri i capelli bianchi efare bianchi i denti neri, a produrre un incalcola-bile numero di oggetti di plastica, dalle scarpe aipantaloni, dalle mutande ai reggiseni, dai colapa-sta ai vasi da notte. Non è improbabile che ungiorno o l’altro, dal petrolio, escano fuori buoi dibioproteina, per la bistecca agli operai di Sarrok oper tirare l’aratro ai contadini di Arasolè.

Ciononostante la Raffineria di Sarrok, secondoDon Adamo, è una cattedrale nel deserto: il suocampanile è, naturalmente, la Fiaccola, altissimatorcia vampante fiamme ininterrotte, eterna can-dela luciferina, allegoria del nuovo polo indu-striale.

Il Vescovo, quando la benedì, nonostante qual-che riserva in ordine all’altezza eccessiva del cam-panile profano rispetto al sacro campanile dellaChiesa, predicò che essa, la Fiaccola, era il simbo-lo del progresso umano, fuoco purificatore dellanuova civiltà tecnologica, che ci avrebbe liberato

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nero che il tempo aveva reso umani (padri o ma-dri, tutti con facce da paesani, una vera famigliaper un povero bastardo senza famiglia, come me),effettivamente, mi sentivo mezzo di comunica-zione e messaggio, speranza e carità, verbum carofactum, parola fatta carne.

Arasolè è un minuscolo paese. Un villaggio sper-duto, dentro un’isola sperduta nel vasto mondo.Un piccolo villaggio di contadini e di pastori, unpiccolo gregge di case di pietra nera, raggruppa-to sotto un campanile.

Arasolè non dà nulla al mondo e il mondo nondà nulla ad Arasolè. Quelli di Arasolè non conta-no nulla per il mondo, eppure sentono che la pro-pria vita è molto importante, l’unica cosa impor-tante, e ad essa sono tutti legati da straordinarivincoli comunitari. Per me, Arasolè era un mera-viglioso pollaio, da cui sono stato sbattuto fuori,con ordinanza vescovile, come un pulcino allon-tanato da mamma chioccia.

A Sarrok, invece, non c’è comunità, non c’è ec-clesia. Non c’è nessun cristiano, credetemi, a Sar-rok. Forse, Don Adamo. Forse.

Non ha alcun senso il mio ministero sacerdotalefra gli operai petrolchimici. Sono estraneo a loro.Non esisto né come mezzo di comunicazione nécome messaggio. Essi non hanno né speranza né

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Se l’acqua non viene dal cielo, Lui la cava fuoridal mare col dissalatore.

Infine (anche se non è carità, per un parroco,mettere in dubbio le certezze del proprio vesco-vo) il Petrolio, col suo ciclo continuo, non per-mette nemmeno di santificare le feste, non per-mette che s’interrompa il lavoro neppure la Do-menica, giorno del Signore, neppure a Natale,neppure a Pasqua. Il vero, unico, Dio, a Sarrok, èLui, il Petrolio. Non c’è altro Dio all’infuori diLui.

In fondo, l’alienazione dell’operaio non è menotriste dell’alienazione del pastore: uno poteva di-ventare bue ad Arasolè ma diventerà sicuramenteun cacciavite, a Sarrok.

***

E c’è, anche, il mio problema personale. Finchévissi ad Arasolè, la mia vita era strettamente le-gata a quella degli altri: i fatti della vita religio-sa, della liturgia, coincidevano con quelli dellavita quotidiana, i cicli dell’uomo, della famiglia edelle stagioni.

Quando predicavo, nella chiesetta azzurra, contutto l’odore buono dell’incenso che vi era statobruciato da secoli, con tutti quei santi di legno

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il suo affanno. E, in fondo, in quanto a questo,Don Adamo sopporta bene la croce del potere. Edè una croce neppure tanto leggera da quando si èreso conto che una cosa è aver a che fare con lemogli dei contadini di Arasolè ed altra cosa è avera che fare con le mogli degli operai di Sarrok.

In confessionale, ascolta, imperterrito, i peccatidi bestemmia contro la Raffineria che paga malei loro mariti. Certo, comprende bene la giustacausa delle loro invettive ma, come parroco, nonpuò assolutamente rompere l’alleanza con chi hacacciato fuori i soldi per costruire la Nuova Chie-sa, la grande, ricca, moderna, tecnologica ChiesaNuova.

Don Adamo si serve del Vangelo per convince-re le mogli degli operai, con la sua solita viltà,con la solita frattura fra le sue idee e le sue paro-le. Dice loro: – Osservate gli uccelli del cielo, avescoelorum, non seminano, non mietono, non raccol-gono nei granai, eppure il Padre Celeste li nutre.– Ma, in verità, Don Adamo non può impedirealle mogli degli operai di osservare che il PadreCeleste, che pure nutre gli uccelli del cielo, nonnutre a sufficienza i loro figli.

O dice: – Considerate i gigli dei campi, liliacampi, nessuno ha il vestito più bello di quello chedà loro il Padre Celeste. – Ma, in verità, egli non

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timore di Dio. Credono solo nella lotta fra sfrut-tati e sfruttatori, fra vinti e vincitori. Non parte-cipo alla loro sorte. Non sono dalla loro parte: fac-cio parte, secondo gli operai, dell’Anonima Pe-trolchimica. Se qualche volta mi nasce il dubbiocristiano di essere dalla parte sbagliata, il mio ve-scovo mi ammonisce: – Campanile e Fiaccola nondevono litigare. Dobbiamo essere alleati, uniti.Chiesa e Raffineria, uniti.

Perciò, faccio silenzio. E, così, a Sarrok, la Chie-sa del Silenzio non è quella che sta zitta per pau-ra del Potente ma sta zitta perché è alleata col Po-tente. In quanto a ciò, per dirla a chiare lettere,mi sento un fariseo, un ipocrita del Sinedrio, unsepolcro imbiancato, un mercante del Tempio,insomma.

***

Naturalmente, assieme agli operai, Don Adamotradisce anche Gesù, che usò la fune per cacciarevia i mercanti dal Tempio. Gesù è dalla parte deivinti, Don Adamo sta dalla parte dei vincitori.

Bisogna dire che l’uso del potere è una tenta-zione per tutti, anche per Don Adamo, soprattut-to per lui, che il potere lo ritiene ovviamente as-segnatogli da Dio. Ma, unicuique suum, a ciascuno

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grande dipinto, un trittico, opera insigne del Mae-stro Aligi, ateo ma grande dipintore, pictor optimus,di santi, di cardinali rossi e di canonici viola: anchelui è, come me, un emigrato di Arasolè, anche lui,come me, è un contadino che non diventerà maioperaio, anche lui, come me, destinato a creparecon Arasolè dentro al cuore.

Fra qualche secolo, quando della Raffineria nonrimarrà dado su dado, se è vero, come è vero, chesolo le chiese durano eterne, il Trittico di Aligi sa-rà l’unica gloria di Sarrok. Ora come ora, il di-pinto è solo un’altra spina per pungere il miocuore.

Nella parte centrale dell’affresco, è raffigurato ilsanto protettore di Arasolè, come a dire che perSarrok non ci sono santi in Paradiso: vestito dibianco, dentro un fiume di luce gialla, a bracciaspalancate, scende dal cielo in aiuto ad un grup-po di donne contadine, genuflesse, tutte chiusedentro il loro lungo scialle nero.

Il pittore ha dipinto questo scialle come unalunga tunica d’ombra, un’oscura nicchia di lananera con una stretta finestra all’altezza degli oc-chi: più che un costume, il lungo scialle nero èuna cupa uniforme, l’emblema delle donne diArasolè, un lutto di secoli che solo alle donne èdato portare, come una divisa simile alla loro ne-

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può impedire alle mogli degli operai di conside-rare che il Padre Celeste, che pure veste i gigli deicampi, permette che i loro figli vadano in giro coni pantaloni rotti nel culo.

Pertanto, l’inganno continua, l’alleanza conti-nua. Don Adamo continua, per obbedienza sacer-dotale, ad usare il Vangelo per convincere i vinti:ma essi, gli operai di Sarrok, continuano ad esse-re vinti ma non convinti.

***

Il fatto è che non sono autentico. Questa è lamia sorte. Sono arrivato al punto in cui a uno nonpiace più nulla di tutto quello che ha intorno.Giorno dopo giorno, quotidie, mi aggiro, comeuna larva, dentro la chiesa fatta di acciaio e di so-litudine, biascicando preghiere che si perdono frale navate, come elemosine non raccolte, in com-pagnia delle mie metafore e delle mie similitudi-ni: dal pulpito al confessionale, dall’altare alla sa-grestia, fra l’immobilità gelida degli arredi sacri,l’ostensorio d’oro, il calice d’argento, le ampolledi cristallo, il campanello di bronzo, il turibolo dirame.

Infine, la spina più pungente, per il mio cuore.Dietro l’altare, l’intera parete è occupata da un

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I deliri della metafisica hanno fatto di Don Ada-mo un essere fuori dalla verifica della esperienzasensibile, un cane che si morde la coda: egli alterail prodotto della realtà con la somma delle coseimmaginate. I mostri delle sue metafore, come ilpetrolio di Sarrok, inquinano tutto quello che toc-cano.

Anche l’idea di Dio è in lui, sacerdos in aeternum,oscura, ambigua, confusa, come l’idea di padreper un fanciullo bastardo. (E devo dire, ora, fraparentesi, che io sono veramente un bastardo, nonho conosciuto né padre né madre, sono stato ab-bandonato in fasce sui gradini della chiesetta diArasolè e, proprio per questo motivo, il vecchioparroco, che mi raccolse, mi mise addosso il no-me del primo uomo, Adamo, un nome che nes-suno s’è mai sognato di portare, ad Arasolè.)

Dio, in fondo, per Don Adamo, fu una cosa ne-cessaria finché, fanciullo, ebbe disperato bisognodi una padre: divenuto prete, sentì meno bisognodi Dio o, meglio, ora, non si aspetta nulla dallabontà del Padre Celeste, semmai ora sente, in ma-niera acuta e peccaminosa, il desiderio di una ma-dre.

La sua vita, perciò, è come una stanza vuota,senza porte, senza finestre, da cui tenta disperata-mente di uscire attraverso i sotterranei cunicoli

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ra e triste vita, per cui esse soltanto, le donne, adArasolè, piangono e, quindi, esse sole pregano.

In mezzo alle oscure donne in preghiera, comeun’agnella di fuoco dentro un gregge di pecorenere, il pittore Aligi ha dipinto Eva, la maestrinadi Arasolè, la più bella donna, anzi l’unica belladonna di Arasolè: alta, formosa, appoggiata al fu-sto di un albero verde fatto a guisa di serpente,con un vestito rosso che lascia intravedere tutta lasua colma, lattescente nudità. Esattamente così,di sesso femminile, femina gratia plena, con tuttigli attributi femminili al loro giusto posto, in se-minario, il vecchio insegnante di teologia ci de-scriveva il Maligno.

***

Certamente mai, come durante il mercoledì del-l’eclisse, le metafore di Don Adamo si rivelanoper ciò che esse veramente sono: mostri partoritidal sonno della ragione. Quando tutta la superfi-cie del sole viene oscurata dal cono d’ombra, laluna, che all’inizio gli è sembrata una sposina pu-dica in nozze di miele, ora gli appare come unaturpe vedova nera che, dopo essersi fatta possede-re dal suo rosso compagno, gli succhia il sanguefino a provocarne la morte.

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tutto e la consapevolezza di essere niente, l’ango-scia di non poter essere come gli altri, i nodi ine-stricabili della sua esistenza, dio, la carne, il dia-volo, il terrore di potere cadere ad ogni momen-to, il cuore che diventa a un tratto folle e batte ebatte come una campana pazza.

In compenso, l’attività di Don Adamo si dilatadurante il sonno, per mezzo dei sogni. In fondo, ilsogno lo libera, completamente, da tutti gli osta-coli: primo fra tutti, l’irreversibilità degli avveni-menti del passato che, come gomitoli di filo, puòsdipanare e addipanare in forme e dimensioni con-tinuamente diverse. Per esempio, la sua storia d’a-more con Eva.

***

Fu l’anno in cui entrai in seminario. Eravamoancora fanciulli, Eva ed io. Come usano ad Ara-solè, la domenica di Pasqua ci vestirono da an-gioletti, per il rito della Resurrezione, con le alidi cartapesta sulla lunga tunica azzurra e la coro-na di fiori di campo sulla testa. La piccola Evasembrava, veramente, un angelo. Ma io no, per-ché ero magro e pallido. Suonavano a gloria lecampane. Uscimmo dalla chiesetta per la proces-sione attraverso le vie del nostro villaggio. Eva mi

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delle sue allucinate fantasticherie. Castelli in aria,insomma, res ficta.

Anche le sue rare azioni sono inerti, perché nonsono mai le risposte ai suoi stimoli, alle sue ne-cessità ma sono soltanto frutto della liturgia quo-tidiana, in cui, per pura casualità, cioè senza scel-ta, gli tocca di vivere.

Il suo modo di fare, quindi, è una linea orizzon-tale, statica, rituale, mentre il suo modo di pensa-re è una linea verticale, dinamica, freneticamentetesa fra passato e futuro. Diacronia e sincronia, inlui, non hanno la minima possibilità di sintesi.Mentre le sue emozioni internamente bruciano conaltissime fiamme, il suo comportamento esternorimane scialbo, abulico, allo stato potenziale, co-me una pila atomica destinata a non esploderemai, frenata da insuperabili pareti di materiale re-frattario.

D’altro canto, le sue azioni, appunto perché nonhanno né l’assenso né il rifiuto della sua volontà,non sono mai plastiche, non variano mai il lorocorso ma continuano ad esistere, per conto loro,cieche, sclerotiche, perentorie, nel tempo e nellospazio.

Era, per i suoi superiori, in seminario, la sua do-te più lodata, maxime probanda, la perseverazione.

In realtà, il suo duro limite: la voglia di essere

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esperienza che fa sembrare veri o verosimili i loropersonaggi, mentre io conosco un solo personag-gio, me stesso, e suppongo di essere un po’ ridi-colo nel voler descrivere quelle notti d’amore, maiesistite, se non nei miei sogni.)

Una cosa certa è che, durante gli incontri not-turni con Eva, lievitavo come il pane dentro il for-no, crescevo come l’erba, diventavo gonfio di lin-fe, il mio sangue si faceva caldo dentro le midollae rifluiva, come l’onda di un fiume, verso la suanaturale foce: era ciò che, volgarmente, viene chia-mata polluzione notturna, nocturna pollutio.

D’inverno, quando il freddo notturno gelava lecamerate del vecchio seminario, mi riscaldavo frale braccia di Eva, proprio come era accaduto al reSalomone, nella Bibbia: “Si cerchi per il Re unagiovinetta e la si ponga nuda fra le sue braccia,mentre dorme, in modo che il Re abbia caldo”.

In verità, devo dire che, prima di andare a let-to, osservavo un rituale, un cerimoniale invaria-bilmente ripetuto, tutte le sere: disponevo il mioguanciale in posizione longitudinale, come fossela forma di un corpo accanto a cui dovevo tra-scorrere la notte.

Il guanciale non era, soltanto, come potrebbesembrare, il feticcio del corpo di Eva ma era, anchee soprattutto, il corpo senza volto di mia madre

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prese per mano. Allora gli altri fanciulli (i nostricoetanei, le cui fantasie erotiche non andavano aldi là del gallo e della gallina che facevano l’amo-re dentro il cortile) si misero ad urlare: – Alleluia!Alleluia! Adamo ed Eva sono marito e moglie!

Tutto lì. Alla fine dell’estate lasciai Arasolè perandare in seminario: la mia breve, illibata luna dimiele era finita.

Da allora, il mio cuore divenne un gomitolo pie-no di nodi, che riuscivo a sciogliere solo nel sogno.

Certamente, per un seminarista, il sogno è l’u-nica maniera di peccare senza colpa e, dunque, inperfetta letizia.

Recitavo, ogni sera, prima di mettermi a letto,la preghiera “Procul recedant somnia ne polluanturcorpora”, allontana i sogni, o Signore, perché nonscorrano i fiumi della libidine: nonostante ciò,ogni notte, una donna senza volto, luminosa co-me un’agnella di fuoco, entrava nel buio del se-minario e si fermava vicina al mio letto. Il vestitorosso le cadeva di dosso, come un fiore di ciliegioal primo vento d’aprile e, nuda, entrava nel mioletto, chiudendomi nel suo seno ampio, colmo,gonfio. (A questo punto, devo ammettere le diffi-coltà di questo mio diario per narrare quelle not-ti d’amore e devo anche ammettere la superioritàdei veri romanzieri, con tutto il peso della loro

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Malauguratamente, il mio paradiso terrestre sirisolse in un incubo insopportabile. Una voce spa-ventosa d’uomo mi ordinò: – Togliti di mezzo,brutto rospo, che sta entrando tuo padre.

***

Non è giusto considerare reali soltanto le emo-zioni che proviamo quando siamo svegli, come seesse sole contino nella vita di ognuno di noi. An-che le emozioni che proviamo nei sogni appar-tengono alla nostra vita, sono esistenti nel tempoe nello spazio: anzi, ben più e al di là del limita-to suolo della coscienza, noi possiamo, sepolti nelsottosuolo illimitato dei sogni, rifare il passato,costruire il futuro, dilatare i nostri stati d’animo,essere come il grano, insomma, che ha l’esile ste-lo fuori, alla luce, ma ha le radici, la matrice, sot-to, al buio, nel ventre della terra.

I sogni, come direbbe un teologo nominalista,sono ante rem, in re, post re, cioè vengono prima, as-sieme e dopo la realtà.

Certo, c’è un rischio nel voler considerare le im-magini dei sogni alla stessa stregua di quelle del-la realtà. Ma è un rischio che si corre anche dasvegli. Così, le illusioni sono costruzioni mentalicompletamente avulse dal reale. Ugualmente, il

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sconosciuta, fabbricato dalla mia fantasia di bastar-do, ansioso e insicuro dal giorno stesso della mianascita, dall’istante stesso in cui essa mi partorì emi allontanò da sé, dall’oscuro paradiso terrestredel suo liquido amniotico, lasciandomi solo, ai pie-di del campanile di Arasolè, in balia della respira-zione ansiosa dei miei polmoni: un’ansia che, nel-l’infanzia, si trasformò in asma, nevrotico e pecca-minoso.

Dato che l’unica mia biografia possibile è la de-scrizione dei miei sogni, mi sia lecito garantire laloro assoluta sincerità, caso mai ci fosse, fra i mieisette lettori, qualche psicanalista.

Una notte, il mio guanciale si gonfiò in manie-ra insolita, fino ad assumere la forma di una don-na incinta. Non ebbi alcun dubbio, essa non eraEva (la sposa bambina di Arasolè, con l’ali d’an-gelo di cartapesta) ma era il corpo gravido di miamadre, era il suo ventre gonfio dove penetrai:dentro di lei trovai ciò che infinitamente avevocercato nella mia triste infanzia, la culla morbidae calda per un feto che mai sarebbe dovuto veni-re al mondo, chicco di grano messo dentro un va-so pieno d’acqua, in assoluta oscurità, secondo ilrito della Settimana Santa di Arasolè, per germo-gliare ma non per diventare spiga, il non nato, ilnon finito e, dunque, infinito ed eterno.

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regista gira e rigira le sequenze erotiche del suofilm dentro scenari notturni.

Bisogna dire, ad onor del vero, che egli facevatutti i suoi sforzi di bravo seminarista per allon-tanare i fantasmi della notte. Prima di infilarsidentro il suo lettino, si annodava strettamente lacinghia del pigiama e coscienziosamente pregava:Praecinge lumbos meos cingulo castitatis, circonda, oSignore, i miei fianchi libidinosi con una cinturadi castità, affinché non anneghi nell’impurità,cum effusione seminis.

Ma sapeva, anche e purtroppo, per diuturnaesperienza, essere suo destino di possedere, a li-vello di rappresentazione, tutto ciò che non pote-va possedere a livello di volontà: liberato dallacensura della coscienza, rielaborava in terminitattili (niente di più liscio e imporoso del corpodi Eva, nuda e calda, nel mio lettino di semina-rio) gli stimoli repressi durante il giorno, risoltiin una sequenza notturna molto naturale e logica,molto più logica e naturale della sua innaturale eillogica condizione di giovane uomo, per forza dicose, ancora vergine ed illibato, ma carico di ap-petiti e di voglie.

I suoi sogni, in fondo, erano una indispensabilenecessità per chi, come lui, non solo incatenava ipropri naturali istinti ma si negava, anche, da sve-

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fare poetico è violenza di linguaggi, organizzatidalla fantasia, contro lo stupido vero. Infine, lereligioni (e sia perdonato a Don Adamo, sacerdosin aeternum, questo discutibile punto di vista) al-tro non sono che evasioni metastoriche, la fede,appunto, un teorema mentale, somma delle cosesperate e argomento delle non parventi, come halasciato scritto un poeta-teologo che è finito, poi,fulminato, nella luce aniconica del nono cielo,l’empireo.

Dunque, ben più delle illusioni quotidiane, del-le invenzioni poetiche e delle alienazioni religiose,i sogni spalancano all’uomo orizzonti sconosciuti,molto al di là di ogni possibile dimensione reale edi ogni fattibile costruzione razionale.

Un cieco, nel sogno, vede. Un sordo, nel sogno,sente. Chi è senza amore, in sogno, può possede-re mille amanti. Individui dalla vita monca, lacu-nosa, trovano una vita piena solo nei sogni.

Appunto, come il giovane Adamo, in semina-rio. Quando era sveglio, vegetava, inerte, abulico.Nel sogno, spezzava le catene dei divieti diurni,riacquistava la possibilità di prendere decisioni,liberato dagli innumerevoli dogmi della coscien-za. Proprio così, il sogno era la sua vera vita. Tut-to gli era possibile. Tesseva e ritesseva le tramedelle sue affabulazioni amorose, come un bravo

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l’unica maniera lecita di saziare il mio bisogno diLei.

Con qualcosa in più, però, rispetto al seminario.Da sveglio, potevo raccogliere tutti i messaggidella sua muta adorata presenza ed aspettare iltramonto del sole, la fine delle mie pallide gior-nate, per andare a letto a trascorrere le mie rossenotti in un lungo rituale abbraccio con Lei (quel-li di Arasolè, con un pudore semantico tutto con-tadino, il membro eretto lo chiamano aratro edio, ogni notte, aravo il campo morbido e biancodi Eva, il suo corpo bianco e morbido come il pa-ne e, come il pane, saporito, sano, nutriente), fi-no a che non squillava la voce del gallo anteluca-no, nel pollaio della canonica, che mi svegliavaper la prima Messa.

Alle prime luci dell’alba, le donne di Arasolèentravano nell’azzurra chiesetta, avvolte nei lorolunghi scialli neri, in gruppo, come un gregge dipecore nere e, in mezzo a loro, la mia agnella difuoco, vestita di rosso.

Ogni mattina, precipitavo dal paradiso dell’in-coscienza notturna al purgatorio della coscienzadiurna, con il terrore, una volta cessata la prote-zione del sonno, di non poter ritenere lecito il mi-stero gaudioso e doloroso del mio illecito amore.

Ogni mattina, d’altronde, leggevo negli occhi

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glio, il lusso del tutto innocente e gratuito deipoeti, cioè di sognare ad occhi aperti, di dare libe-ro sfogo alle sue fantasie, di tradurre in giuocopoetico le sollecitazioni erotiche che si accumula-vano nei rituali quotidiani.

Spesso, l’insonnia era la risposta obbligata aisuoi profondi conflitti, se il terrore per la licen-ziosità e, dunque, per i peccati della sua fantasia,si trasformava, nell’opaco silenzio del seminario,in una interminabile lotta con le metafore elabo-ranti il materiale onirico per il suo sogno futuro.Gli era insopportabile, insomma, l’idea di ag-giungere, alle dolorose ore diurne, l’angoscia del-l’insonnia notturna, senza la salvezza e la felicitàdei sogni incolpevoli: d’altronde, allora, era con-vinto che i puri sono coloro che si accontentanodi sognare le cose proibite che gli impuri fanno,realmente, da svegli.

***

Del resto, una volta ordinato sacerdote, il vesco-vo mi assegnò alla parrocchia di Arasolè: ritornai,insomma, nell’ombelico dell’universo, ahimè, nuo-vamente vicino, troppo vicino, ad Eva, ormai giun-ta al culmine della sua luminosa giovinezza. E,naturalmente, il sogno continuò ad essere, in re,

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gli altri, un uomo cui era necessaria una donna,senza la quale era come se gli mancasse una co-stola: le donne di Arasolè, stringendomi tutte lemattine dentro il rosario dei loro affetti comuni-tari, tacitamente, a loro modo, mi fecero capireche la loro maestrina, Eva, al di là di ogni cano-nico divieto, poteva benissimo diventare la miadonna.

***

Il mercoledì delle ceneri è un giorno molto im-portante per la comunità di Arasolè, la giornatapiù importante dell’anno. Un giorno liturgicoche non significa più nulla per gli operai di Sar-rok ma che significa, ancora, molto per i contadi-ni di Arasolè. Ogni anno, proprio il mercoledìdelle ceneri, il villaggio contadino celebra la suaantichissima festa pagana: il funerale del carneva-le pazzo.

Secondo Don Adamo, è un rito liberatorio, tra-mandato per millenni, dai tempi in cui quelli diArasolè avevano quattro occhi e quattro braccia evivevano in grandi case tronco-coniche di pietranera.

Il mercoledì delle ceneri, fin dalla prima matti-na, la gente di Arasolè porta nella piazzetta, sot-

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di Eva la mia stessa malattia, la mia stessa ansio-sa febbre, il mio stesso desolato sentimento. Conuna differenza: in Eva, c’era l’ingenuo abbandonod’essere letta da me, mentre in me c’era l’abbiet-ta frustrazione di non volere essere, a mia volta,letto da Lei.

È mai possibile che il buon Dio ce l’abbia tan-to contro il suo sacerdote da costringerlo a sce-gliere? O Lui o Lei! In verità, in verità, vi dicoche chiunque avrà guardato una donna per desi-derarla, ha già commesso adulterio!

Una mattina, mentre introducevo fra le sue lab-bra, con mano tremante, l’ostia consacrata, Eva, lamalfatata, malauguratamente, sfiorò la mia manocon la sua lingua, ed io sentii, orrendamente, ilmio aratro che si drizzava sotto l’abito talare,mentre la mia mano paralizzata non riusciva astaccarsi dalla sua bocca.

Da quella mattina vissi nella peccaminosa cer-tezza di essere indegno della eucarestia che distri-buivo alle donne di Arasolè, come se l’ostia che iodavo loro non servisse più a purificare le loro ani-me ma ad infettarle della mia torbida, pervertitapeste.

Ma, in verità, ben presto mi accorsi che le don-ne di Arasolè, nella loro antica saggezza contadi-na, erano convinte che il prete era un uomo come

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È un riso rituale, anch’esso tramandato dal tem-po dei tempi, quando ad Arasolè i vecchi padrivenivano uccisi dai loro stessi figli. Era una verae propria legge di Arasolè, in forza della quale ifigli dovevano eliminare i propri padri, non ap-pena essi diventavano vecchi, cioè inutili, impro-duttivi, e il rito doveva essere celebrato fra le ri-sate, proprio per mostrare fermezza, forza d’ani-mo, da parte di coloro che dovevano eliminare iloro cari.

Secondo Don Adamo, era un provvedimento dinatura economica, indicante una costante immu-tabile della storia di Arasolè: la fame. Mentrepresso altri popoli dell’antichità si uccideva ilbambino, per placare il Dio della Fame, ad Ara-solè, giustamente, si uccideva il vecchio, colui,insomma, che ha terminato il suo ciclo produtti-vo, per avere una bocca in meno, un concorrentein meno nella divisione di uno scarso cibo. Però,per poter sopportare meglio il dolore, per poterridere durante il rito di eliminazione dei padri, ifigli si passavano sulle labbra il lattice dell’eufor-bia, l’erba sardonica, amara come il fiele, chesgangherava la loro bocca in una dolorosa risata,il riso sardonico, appunto.

Ora, i vecchi di Arasolè non muoiono più dimorte violenta ma di mancanza di fiato, nel pro-

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to il campanile, un fantoccio fatto di stracci e dipaglia, con un otre pieno di vino nero al posto delcuore, tutti intorno, uomini e donne, ridono, ur-lano, bestemmiano.

Dopo un lunghissimo lamento funebre, il fan-toccio viene processato, condannato a morte e pu-gnalato al cuore.

E mentre il vino nero zampilla dall’otre foratodal pugnale, il fantoccio di paglia, fra risate, urla,nitriti, sputi, bestemmie, viene messo sottoterra,come per seppellire, almeno per un giorno, la mi-seria, la bruttezza, la malattia, la cattiva annata,la malasorte, tutti i mali, insomma, di cui, se-condo la gente di Arasolè, quel fantoccio, dio odiavolo che sia, è responsabile.

Per tutto l’anno, asini rassegnati e muti, attac-cati alla noria della loro fatica quotidiana, im-provvisamente, in un giorno stabilito, con un ri-tuale immutabile, eccitati e pazzi come galli chemettono lo sperone addosso alle galline, i contadi-ni di Arasolè esplodono in un riso sfrenato e folle.

Il sudore di un anno, d’un tratto, si fa coro la-mentoso, rauco e senza gioia, come il terrore delnegro si fa blues: intorno a un dio fatto di stracci,si alza, monotona e tetra, cupa e sensuale, gonfiadi antiche paure e di antiche voglie, la risata fu-nebre.

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improvvisamente impazzito, divenne bue e si pre-cipitò in paese con una scure in mano. Sfondò ilportale della chiesetta, mugghiando: – Aiutatemi,buona gente! – Fu riportato a casa, legato. La mo-glie lo prese fra le braccia, lo coccolò, se lo portò aletto e fece l’amore con lui, alla presenza di tutti:e lo guarì.

In realtà, l’idea base di quelli d’Arasolè o, se vo-gliamo, la loro cultura è la perfetta conoscenza el’esatta applicazione delle norme comunitarie, uncodice non scritto da giuristi ma modellato damillenni di civiltà contadina: i cicli dell’uomo edelle stagioni, il succedersi del lavoro e della fe-sta, dell’abbondanza e della carestia, dell’amore edel dolore, dell’allegria e della amargura, del ma-le e del bene, della vita e della morte, secondo ri-tuali che coinvolgono tutta la collettività.

Ad Arasolè, tutto è in comune, il pascolo, l’aia,la fonte, il lavatoio. Tutti simili, se non uguali, al-l’interno di una società comunitaria, dove ognunovive, se non felice, almeno certo e tranquillo di es-sere sotto il controllo e l’aiuto degli altri. Gli esse-ri sono legati uno all’altro, nessuno sta solo perchéognuno conosce il male dell’altro: ogni battesimo,ogni matrimonio, ogni funerale è un fatto collet-tivo che stringe gli uni agli altri, li assicura dallasolitudine e rende sopportabile il loro destino.

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prio letto, eppure il riso sardonico è rimasto, enon solo durante la festa di carnevale: è il riso ros-so della melagrana che cade per terra e si sfasciamostrando i suoi denti sanguinanti, è il riso ver-de del capretto di pasqua, quando viene sgozzato,coi suoi denti color d’erba.

I contadini di Arasolè, ogni anno, nel mercoledìdelle ceneri, in mezzo al buio di un destino senzacolpa e senza rimedio, ridono e ammazzano il lo-ro padre, un fantoccio fatto di stracci e di paglia.

Bestemmiano per illudersi di essere uomini li-beri. Per un anno intero, il silenzio è stato il loromodo migliore d’intendersi: il mercoledì delleceneri, la loro voce esplode in un lungo rosario dibestemmie. In fondo, gli uomini di Arasolè be-stemmiano in gruppo, intorno al loro feticcio dipaglia, per lo stesso motivo per cui le loro donnepregano in gruppo intorno al Dio Crocefisso: perpaura della solitudine. Essi insultano il dio dellaloro infelicità come noi insultiamo uno spigolocontro cui abbiamo sbattuto lo stinco. Quandodiamo un volto alla causa dei nostri mali, quandofacciamo partecipi gli altri dei nostri mali, c’èsempre rimedio.

In effetti, ad Arasolè, quando uno è nei guai ri-corre a tutto il paese: piange per essere consolato egrida per essere aiutato. Una notte, un pastore,

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tabù sono la religione dei vinti, resistenza passivaalla violenza dei vincitori.

Il villaggio è, infine, un’idea sessuale. Le donne diArasolè chiamano aratro il membro con cui i lorouomini le soggiogano e le possiedono, infliggendoloro lo stesso solco che il vomere infligge alla terra,prima del seme: e chiamano forno l’addome delladonna incinta, dove il seme dell’uomo deve starenove mesi a lievitare e maturare, così come il semedel grano deve stare nove mesi dentro il ventre del-la terra, per poter diventare spiga matura.

***

Nel bel mezzo dell’eclisse, Don Adamo si de-dicò ad uno dei suoi soliti onanismi cerebrali: co-sa facevano, giorno e notte, i suoi antichi antena-ti nuragici dell’età neolitica? Cosa vogliono si-gnificare tutte quelle pietre conficcate nel terre-no, sas pedras fittas, enormi falli di ossidiana eret-ti contro il cielo? Cosa vogliono voler dire tuttequelle statue femminili, le madri mediterranee,culimannas e pettorutas, dall’ampio sedere e dallevaste mammelle? Cosa vogliono far sapere quellestatuine di bronzo, piccoli uomini con quattroocchi e quattro mani e con un enorme sesso, rigi-do e puntato verso l’infinito?

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Forse, per questo, Arasolè è tutta raggruppata sot-to il campanile, come sotto un parafulmine, persalvarsi dal temporale e dal peccato di esistere.

Ma Arasolè non è un residuo archeologico. Nonè folclore. Non è storia di ieri. Non è sopravvi-venza del passato ma è, semplicemente, il risulta-to del presente: un’idea di società contadina, vin-ta ma non convinta dalla nuova società industria-le. I mali antichi di Arasolè non sono, necessaria-mente, più gravi dei nuovi mali di Sarrok.

Arasolè, insomma, è un’idea economica ma è,anche e soprattutto, un’idea religiosa. L’ostia concui le donne di Arasolè riempiono la fame della lo-ro anima, è pane del loro Dio Contadino, che nonè loro padre e neppure loro figlio ma è loro mari-to. In confessionale, erano loro, le donne di Ara-solè, a spiegare a Don Adamo, loro parroco, chi èDio, come è fatto, cosa vuole da noi: un Dio chenon è riuscito mai a saziare i loro corpi terreni ma,in compenso, da buon massaio, ha preparato perloro, in Paradiso, forni pieni di pane caldo, gonfio,dorato.

Esse hanno sacralizzato, a loro modo, il propriodestino e la propria condizione umana: cantanosopra le bare, con teneri lamenti, e piangono so-pra le culle, con tristi ninnenanne. Le loro cre-denze, i loro riti, i loro miti, i loro feticci, i loro

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serie assurda di immagini, metafore, similitudi-ni, provocate dalla mia solitudine. Incessante-mente, giungevano fino a me, ad attizzare il sen-timento di disgusto e di pietà verso me stesso, lerisate funebri dei contadini di Arasolè intorno alloro Dio fatto di paglia, grida di allegria e di lut-to, selvatiche e profane, ma cariche di legami, divincoli, di nodi umani, insomma.

Rimasi, così, tutto il giorno, chiuso nel confes-sionale, come dentro un vestito di legno nero, perimprigionare le sfrenate tentazioni del mio ordi-ne mentale sconvolto dalla forza misteriosa del ri-tuale pagano.

Erano già cadute le prime ombre della sera, di-rebbe un romanziere dell’Ottocento, quando sen-tii un passo leggero che si avvicinava al confes-sionale. Nessuno, ad Arasolè, per tradizione anti-ca, entra in chiesa durante il funerale del carneva-le pazzo. È un tabù rispettato. Invece, improvvi-samente, un vestito rosso uscì dalla penombra e sifermò davanti a me: sembrava il cuore di fuocoappeso al retablo nero dell’altare.

Due rette parallele, destinate a non incontrarsimai, Eva e Don Adamo, erano lì, soli, al buio, co-me due ciechi che vogliono prendersi per mano,col rischio di cadere insieme dentro un fosso chenessuno dei due può, naturalmente, prevedere.

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Un amico archeologo diceva che gli uomini deinuraghi erano grandi matematici, valenti astro-nomi, uomini religiosi e pii. No, no, non è così.Col permesso del suo amico archeologo e, anche,del suo vescovo, Don Adamo opinava che i suoiantenati nuragici pensavano ad una sola cosa: ilsesso. Notte e giorno, giorno e notte. Insomma,l’antico popolo nuragico, secondo Don Adamo,era una “nazione fallica”. Mentre tutti gli altripopoli neolitici pensavano a “fare la guerra”, ilpopolo nuragico pensava a “fare sesso”. Notte egiorno, giorno e notte. EROS contro TANATOS.ARASOLÈ contro SARROK.

***

Certamente, sine dubio, fu la cerimonia del car-nevale pazzo che sconvolse la mente di Eva, ilmercoledì delle ceneri di un anno fa. Per tutta lagiornata, mentre quelli di Arasolè celebravano illoro rito pagano, ero rimasto rintanato dentro ilconfessionale, a pregare, a mani giunte, strette,premute una contro l’altra, come fossero le manidi due diverse persone, per una necessità assolutadi contatto, per un bisogno fisico di toccare e diessere toccato.

In realtà, non pregavo ma svariavo dietro una

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logia, una volta, di nascosto, carezzandomi i ca-pelli, mi aveva detto: – La donna in mestruazioneincenerisce i fiori, brucia il raccolto, uccide i ger-mogli, ammazza le api, fa abortire le cavalle, setocca il vino questo diventa aceto, il latte diventaacido, l’uomo diventa impotente…

L’odore che usciva dal corpo di Eva era quel chegli inglesi chiamano sex appeal, appello del sesso,e che gli uomini di Arasolè chiamano odor-di-fica,considerato da loro il rimedio sovrano, l’unicamedicina contro la malasorte.

La donna che mi stava davanti era una creaturaumana, in amore, con tutti gli attributi femmi-nili bene in evidenza, una giovane donna aperta,secondo natura, come una pianta al vento che lafeconderà dopo averla lungamente accarezzata. Ilsuo seno, ampio, gonfio, chiuso ma visibile nel-l’abito rosso, disponibile per nutrire altre vite,sconvolse il fragile santocchio bastardo, fuco ste-rile ronzante intorno alla splendida ape regina.

Soffocando dentro l’antico legno tarlato delconfessionale, sentivo l’odore di una creatura vi-va, autentica, il suo odore di animale giovane, incalore, ma sentivo, anche, un odore di consunzio-ne, un odore di foglie morte, che era, a pensarcibene, non solo l’odore dei fiori secchi, sopra l’al-tare, l’odore della sacrestia, della camera mortua-

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– Non devi uscire dal confessionale, dalla tua ve-ste di legno, – dissi a me stesso.

Come in una commedia gestuale, recitavamo sen-za parlare.

Un silenzio senza rimedio e senza vie d’uscita.Per conto mio, mi sentivo diviso, spaccato in dueda stimoli contrapposti, provenienti dal mio cer-vello, dal mio sangue, dal mio sesso, dalle miemani crocefisse una sull’altra, dalla solitudine diun intero giorno, di un’intera vita. Due sensazio-ni organiche, profonde ma distinte, mi comuni-cavano, contemporaneamente, un senso di benes-sere e di malessere, di piacere e di disagio, di or-gasmo e di disgusto: un altro mistero gaudioso edoloroso della mia penosa via crucis.

Se era vero che la comunità di Arasolè, tacita-mente, mi aveva assegnato Eva, in un modo o nel-l’altro, come compagna della mia solitudine sacer-dotale, non era men vero che, coram femina, unavolta davanti alla sua conturbante presenza, misentii salire dalle viscere una sensazione oscura,impensata, inconfessabile: la paura dell’odore cheusciva dal corpo della giovane donna, che avevainvaso tutto il confessionale. Ebbi il terrore, a dirtutta la verità, che Eva fosse nel periodo mestrua-le.

In seminario, il mio vecchio insegnante di teo-

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Il presente ha il cuore del passato, anche per unbastardo come me. Il patetico ricordo mi eccitò emi spinse, grondante miele, fuori del confessio-nale.

Era un segnale giusto, anche se immediatamen-te indebolito dalla resipiscenza, che mi fece rica-dere subito nell’ipocrisia. M’inginocchiai ai piedidi Eva e, farisaicamente, mormorai: – Perché seivenuta?

Alla mia miserabile domanda, Eva umilmenterispose: – Non lo so.

Era una risposta naturale, comprensibile. An-che io non sapevo perché fossi lì, in ginocchio, aisuoi piedi, al buio. Oppure, era vero il contrario:sapevamo benissimo entrambi, ambedue, perchéLei era lì, davanti a me, e perché io ero in ginoc-chio, davanti a Lei.

Anche Lei, del resto, con grazia infinita, si mi-se in ginocchio e tese le sue mani verso le mie ma-ni, sussurrando: – Alleluia, alleluia, Adamo edEva sono marito e moglie!

Nisi caste, caute: anche se non sei casto, Don Ada-mo sii per lo meno cauto. Dunque, solo per viltà,non raccolsi l’elemosina delle sue mani e neppurecontraccambiai, con pari tenerezza, il delicato se-gnale, noto ad ambedue, quell’ironico grido deifanciulli di Arasolè, rivolto a due angioletti dalle

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ria, delle candele di cera ma, anche e soprattutto,era l’odore del mio corpo, il mio corpo di bestiacasta e immonda.

Evitando gli occhi di Eva, lentamente posavo imiei sguardi sull’immobilità fredda degli arredisacri ordinatamente collocati sopra l’altare: l’osten-sorio d’oro, il calice d’argento, le ampolle di cri-stallo, il campanello di bronzo, il turibolo di rame.

Non volendo e non potendo interrompere quelmisterioso silenzio, vilmente, per sfuggire al pre-sente mi rifugiai nel passato; disseppellendo, dalcimitero della nostra storia d’amore, un episodiosepolto. Da ragazzo, durante le vacanze estive, ilvecchio parroco di Arasolè mi obbligava a fare lospaventapasseri nella vigna della parrocchia, die-tro la canonica, un lavoro che consisteva nel gira-re, col mio nero abito di seminarista, in mezzo aifilari dell’uva matura, facendo esplodere, ognitanto, una miscela di clorato potassico dentro unascatola di latta, per allontanare, col botto, i pas-seri che venivano a beccare l’uva nella vigna delSignore. Un giorno, la scatola mi esplose fra lemani. Mentre gli altri fanciulli di Arasolè, in se-gno di scorno per il mio abito di corvo, urlavanocra-cra, Eva asciugò, con il suo bianco fazzoletto,le mie ferite sanguinanti e le baciò misericordio-samente.

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sta dentro il cuore degli uomini ma, dentro il miocuore, ci stai solo tu. I tuoi occhi, due fiori di lucenera, come due angeli, vengono a trovarmi, ogninotte, nel mio letto.

Era questa la perentoria richiesta che leggevo neldenso sguardo di Eva. Ma era come zappare nelmare. Ero più bastardo del fantoccio di carnevaleche quelli di Arasolè stavano mettendo sotto terra.

Quando ruppi il silenzio, la mia voce era cosìfioca che la giovane donna dovette avvicinare ilsuo volto alle mie labbra: – Sì, ti fermai, una se-ra, sotto il campanile, ma ti dissi, soltanto, egosum sacerdos in aeternum.

Una nefanda bugia. Una scena madre, insom-ma. L’ultima battuta dissimulatoria di una com-media diventata farsa. Eppure, ero io il più debo-le, perché Lei era dalla parte della verità. Io minascondevo, come al solito, dietro il fumo dell’i-pocrisia: come una seppia che fugge lasciando an-dare il suo nero inchiostro per intorbidare le ac-que. Un sepolcro imbiancato, ecco che cosa ero.

Appena udì la mia incredibile menzogna, Evaebbe un lungo fremito, come agghiacciata dalvento gelido dell’inganno, si alzò in piedi e miguardò, a lungo, dall’alto in basso, in assoluto si-lenzio, con occhi neri come il tormento. Poi, il ve-stito rosso scomparve nel buio. Io mi rinchiusi nel

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ali di cartapesta. Invece, continuai a rimestare,dentro di me, secondo la mia logica perversa, unaltro torbido episodio della nostra infantile rela-zione amorosa.

Un giorno, mentre giuocavamo, soli nella vignadella parrocchia, si ruppe la cinghia che reggeva imiei pantaloni e rimasi col sesso nudo davanti adEva. Lei guardò, con invidia, il mio piccolo aratroeretto, poi esclamò: – Che bello! Anche io ce l’ho!– e sollevò il suo vestitino. Io toccai, con manoesitante, la pesca dorata del suo piccolo sesso, se-gnata da una sottile spaccatura. Naturalmente,l’aratro non ce l’aveva. E tutto, allora, finì lì!

Mentre rimestavo il passato, Eva restò silenzio-sa. Tutti, ad Arasolè, sanno che il silenzio è il mi-glior modo d’intendersi, perché il pensiero è piùveritiero e profondo della parola che abbiamo adisposizione per esprimerlo.

Ma non era l’impudico episodio infantile cheoccupava la mente di Eva. Nei suoi occhi lessiuna precisa domanda, una categorica richiesta al-la mia ignobile memoria: c’era un altro più com-promettente episodio, che io avevo sepolto, comeun becchino che sotterri una persona ancora viva.

Certamente, ricordavo bene quella sera d’estate,in cui fermai Eva, sotto il campanile, e le dissiquella frase incredibile, ampollosa, grottesca: – Dio

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di Sarrok. Perciò, lo assolse da tutti i peccati e lotrasferì.

Bisogna dire che il vescovo, beato lui, non hadubbi: la religione o è industriale o non è. Mun-dus, secondo Don Adamo, vuol dire pulito. Ma ilsuo vescovo non è pulito, adora un dio uscito dalprofondo dell’inferno, l’olio di pietra.

Questo dio, come Satana, ha il piede nero, sor-dido e bisulco, e insozza tutto, l’erba e il fiore, laspiaggia e la scogliera, la terra e il mare. Un mon-do immondo, insomma.

Ma il vescovo ha una sua millenaria sapienza sto-rica e, naturalmente, la usa per fare le sue scelte:se vuole durare, deve legarsi al più forte, deve sta-re dalla parte del vincitore, senza preoccuparsi diColui che si fece mettere in croce per stare dallaparte dei vinti.

Perciò, ha deciso di legare la Croce alla Fiaccola.Anzi, con grande abilità strategica, si è fatto elemo-siniere del nuovo dio ed ha esercitato il suo poterespirituale sul potere politico, per un finanziamentodi mille miliardi al fine della costruzione, nella suadiocesi, della più grande raffineria d’Europa.

A pro del nuovo dio, il vescovo, con grande umil-tà, si è trasformato in campanaro. È andato fra icontadini ed ha predicato loro: – Contadini diArasolè, su, andate a lavorare a Sarrok, lì divente-

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confessionale, nuovamente solo, disperatamentesolo, a bruciare dentro le fiamme turpi dell’orga-smo e del disgusto di Onan.

***

La fiaccola della raffineria getta fiamme infer-nali sul ragno nero appeso al fosco cielo dell’e-clisse. Don Adamo ha la sensazione di essere pro-prio diventato un ragno rinchiuso dentro un bic-chiere rovesciato, senza la minima speranza chequalcuno, dio o diavolo che sia, lo rimetta nellagiusta posizione: Eli, Eli, lamma sabactani, Dio,Dio, perché mi hai abbandonato!

Ma, in verità, per lui, non c’è solo il problemadell’insolita devianza cosmica. L’eclisse, per DonAdamo, è cominciata propriamente dal giorno incui fu trasferito da Arasolè a Sarrok, un trasferi-mento determinato, non soltanto dalla logica disviluppo industriale del suo beneamato vescovoma, anche, da una accurata confessione dei propripeccati, fatta a Sua Eccellenza. Una specie di far-sa con pentimento, con cui supponeva di porre fi-ne alla sua peccaminosa storia d’amore con Eva.

Don Adamo voleva essere confessato, non tra-sferito. Ma il vescovo aveva un altro problema darisolvere: il posto vacante nella nuova parrocchia

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rompere, nemmeno per un istante i ritmi del lo-ro lavoro: la fiaccola, secondo la legge del ciclocontinuo del petrolio, seguita a vampare fiamme,cioè a vomitare sul Golfo degli Angeli tutti i gasdi scarico della raffineria, illuminando sinistra-mente una intricata foresta di tubi, alambicchi,serpentine, sfere, cubi, cilindri, parallelepipedi,colonne, torri, rampe, sottopassaggi, svincoli,quadrifogli, falansteri, capannoni, magazzini, la-boratori,m minimamente dell’eclisse, rimangonoindifferenti, non collegano l’insolito fenomenodella natura ai misteriosi disegni della divinità.Nemmeno le donne, a Sarrok, durante l’eclissesentono la necessità di accostarsi alla Casa del Si-gnore e il loro parroco se ne sta sul campanile, so-lo, come una vacca sacra in un villaggio indù.

Secondo Don Adamo, le donnette di Arasolè,invece, quando hanno visto il sole tramontare dimattina, sicuramente, lo hanno considerato un al-tro segno della terribile potenza del loro DioContadino e si sono rifugiate, atterrite, nella loroazzurra chiesetta per liberarsi dai mostri dell’e-clisse e dai loro peccati. (Peccati, in verità, inesi-stenti o esistenti soltanto nella fantasia perversadel mio vescovo, quando predica, con la sua vocecaprina, che il demonio in persona penetra sotto iloro neri scialli ad operare le sue lussurie. La peg-

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rete operai, lavoro fisso, paga sicura, la rinascitadi Arasolè si realizzerà a Sarrok!

E i contadini hanno abbandonato le campagne esono venuti a Sarrok, qui li hanno messi a semina-re tubi, piantare mattoni, sistemare alambicchi,innalzare fiaccole. Dopo che essi hanno terminatodi costruire la raffineria, li hanno cacciati via, per-ché il tempio del dio petrolio è cibernetico, cioècammina da solo: essi non sono diventati operai,non sono più contadini, sono diventati soltantoemigrati, in qualche parte del nostro vasto mondo.

– Accidenti all’olio di pietra – impreca DonAdamo – nessuno è rinato a Sarrok!

Arasolè aveva mille abitanti prima che venissecostruita la raffineria e, onestamente, bisogna direche un miliardo a testa, o come sociologicamentesi dice, un miliardo per ogni posto lavoro era unacifra ragguardevole e laudanda, per sistemare, aSarrok, i mille abitanti di Arasolè. Solo è necessa-rio aggiungere che, oggi come oggi, nessun abi-tante di Arasolè lavora a Sarrok, tranne uno, DonAdamo.

***

Nonostante l’eclisse, gli operai petrolchimici diSarrok proseguono la loro attività, senza inter-

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sua rabbia contro tutti quelli che, in un modo onell’altro, glielo impediscono, contro coloro, in-somma, che stanno dalla parte del padrone.

Il prete, in definitiva, a Sarrok, è un totem soli-tario, un idolo inavvicinabile, non perché la clas-se operaia lo consideri un uomo sacro ma perchénon lo considera un uomo, bensì un satellite delsistema, una cane da piatto, un cagnolino ben nu-trito, ben vestito, ben lavato, ben pettinato. Quan-do il padrone gli ordina di abbaiare, Lui corre su-bito in chiesa e fa una predica dal pulpito: poi, sisiede sulle zampe posteriori e alza quelle anterio-ri, per aspettare l’osso.

***

Nel caso mio, se è lecito passare dalla storia al-l’autobiografia, bisogna dire che mi è capitato ciòche capita ai contadini quando vanno a lavorarenell’industria: smarriscono la logica della loro cul-tura paesana, senza riuscire ad acquistare la logi-ca della cultura urbana. Smarrii, insomma, la miaidentità.

Finché vissi ad Arasolè, la mia, chiamiamolapure così, alienazione sacerdotale era sublimata,salvificata, da sottili ma inestricabili legami co-munitari. A Sarrok, invece, l’alienazione, per dir-

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giore cosa che un uomo può dare al suo simile èquesta: la morte. Bene, il mio vescovo sa fare an-che di più: dare la morte eterna, l’Inferno).

In compenso, l’indifferenza della classe operaiaverso il problema metafisico è totale. Un operaio,a Sarrok, non entra mai in chiesa, fuorché in dueoccasioni e mai con le proprie gambe: quando na-sce, per il battesimo, e quando muore, per il fu-nerale.

Sine dubio, senza dubbio, è stato un operaio ascrivere, col catrame, sul muro interno del cimi-tero, sopra una fossa comune, un’epigrafe in ver-si, un tazebao: “Qui è sepolto / Tiu Franziscu Fer-rale, / emigrato di Arasolè, / morto di fame. / Pre-te, non pregare / per la sua anima, / sarebbe la tuapeggiore ipocrisia.”

E il parroco, anche lui un emigrato, prega ma stazitto. Anche lui fa parte della Chiesa del Silenzio.Ma capisce tutto, proprio tutto. Il contadino diArasolè conosce perfettamente il prodotto finaledel suo lavoro, che ha seguito, con ansia o congioia, dalla semina al raccolto. L’operaio di Sarrok,invece, non conosce che una parte del totale. Ilprodotto finale è a lui assolutamente sconosciuto.Ergo, dunque, non può calcolare né il valore né ilplusvalore di ciò che produce. Inde, quindi, la sualotta per appropriarsi di ciò che non conosce e la

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te il mio aratro, lo imprigiona e lo divora, peniscaptivus sine effusione seminis. L’incubo, insomma,ha trasformato le mie estasi erotiche nell’orroredell’impotenza e, dunque, nel terrore del risve-glio. Ho capito, in maniera disorganica e confu-sa, che la rimozione della sessualità, ad Arasolè,era compensata, in parte, dai legami comunitari,dai valori comunitari ma, a Sarrok, in una societàdisgregata, inquinata, amorale, non c’è alcun fineterreno che compensi la mia castità.

Così, la frustrata ossessione di conoscere carnal-mente la donna mi rende egoista, bugiardo, falso,intollerante: come prete industriale, amo solo mestesso, carezzo solo me stesso, riverso su me stes-so l’amore che, come prete contadino, riversavosu Eva e su tutta la comunità.

Se penso alla monotona persistenza delle mieattuali fissazioni (tanto per citarne qualcuna: l’in-veterata pratica del peccato di Onan, l’ostinataidea di non mettere mai il piede sulle linee divi-sorie delle mattonelle durante i miei solitari va evieni fra le navate della Nuova Chiesa, l’abitudi-ne di spremermi con le unghie sporche i comedo-ni pieni di grasso del mio naso greco, il vizio in-callito di annusare le mie calze appena sfilate daimiei piedi sudati, la magagna di mollare unagrande scoreggia silenziosa, loffa silens, proprio

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la a chiare lettere, si è trasformata in nevrosi, unavera e propria caduta ad inferos, nell’inferno.

Di ciò ho preso coscienza, prima di tutto, neisogni. I fantasmi erotici, appaganti, che avevanoaddolcito, in qualche modo, la mia esistenza nelvillaggio contadino, si sono trasformati, nel polodi sviluppo industriale, in incubi assolutamenteintollerabili.

L’incubo, il cosiddetto pavor nocturnus, non è unsogno, come comunemente si crede, ma un vero eproprio disordine mentale, un istante di follia,accompagnato da contorsioni e da gemiti, unadrammatica e impotente lotta, che si svolge ef-fettivamente dentro di noi, per impedire il pas-saggio dallo stato di sonno allo stato di veglia, unmomento confusionale del nostro essere che nonvuole ritornare alla realtà, un vero e proprio statoansioso come rifiuto al rientro nella coscienzaquotidiana.

Per quanto direttamente mi riguarda, come sele infinite metamorfosi dell’olio di pietra abbianoa che fare proprio col sesso, nei miei incubi, laRaffineria è l’inferno notturno dove vengono pu-niti i miei peccati sessuali: la mia dolce sposa ditutte le mie notti di Arasolè si è trasformata, aSarrok, in una mater dolorosa, una donna senza vol-to, dal sesso grande come un abisso, che inghiot-

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derlo e, ritualmente, divorarlo. È, forse, per que-sto che non provo alcuna beatitudine a divorarel’ostia, il corpo del nostro padre celeste. Se il fi-glio Giove ha divorato il padre Saturno è proprioperché aveva capito che stava per essere divoratoda lui. Mancano, insomma, in me, i sentimentiambivalenti d’amore e d’odio, che fanno d’ognibambino un uomo che ha amore e timore di Dio.

Io sono soltanto paura: paura della morte e del-la vita, paura della carne e dello spirito, pauradella castrazione, paura dell’impotenza, paura delfinito e paura dell’infinito, horror vacui.

E bisogna dire che, continuamente, nel colmodelle mie paure, mi pongo domande a cui non èpossibile dare risposte ma, ugualmente, mi con-cedo il lusso di rispondermi. Per esempio, pur es-sendo un essere finito, cerco di definire l’infinito.Una contraddizione in termini, poiché l’infinitovuol dire l’indefinibile.

Ma io, imperterrito, procedo col metodo indut-tivo, dal basso verso l’alto, dal centro al cerchio.

La terra è un granello di sabbia in mezzo al si-stema solare. Il sistema solare è un altro granello disabbia in mezzo a miliardi di sistemi solari rac-chiusi nella galassia. La galassia è un pugno disabbia in mezzo a miliardi di galassie contenutein quella infinitesima parte dell’universo pensa-

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nel bel mezzo delle adunanze diocesane per ve-derli impallidire tutti nella incertezza della pa-ternità del sacrilego fetore e, infine, il vezzo diguardarmi allo specchio, tutto nudo, con l’aratroeretto, cantando chicchirichì), se penso a tutte que-ste deliranti monomanie, manifestatesi dopo ilmio trasferimento nella parrocchia del Dio Petro-lio, mi rendo conto di essere caduto in quella ta-cita follia sacerdotale che il mio vecchio teologo,in seminario, chiamava sacralità.

Purtroppo, l’inquinamento di Sarrok mi ha ri-velato, anche, un’altra faccia conturbante del mioprisma esistenziale. Se è vero, come sostiene unateoria messa, sì, all’Indice ma non contemnenda, danon disprezzare, se è vero che la fede, in fondo, al-tro non è che la sublimazione delle pulsioni ses-suali e che Dio, in ultima analisi, non è altro cheil surrogato del padre, se è vero tutto ciò, io stes-so ne sono l’orribile conferma.

Qualcuno ha detto che ogni bambino ha un’im-magine di Dio conforme all’immagine paterna e,allora, si capisce come, sconosciuta a me l’imma-gine paterna, il mio Dio è senza volto: essendomimancato l’amore di mio padre, la mia fede in Dionon è atto d’amore. D’altronde, non avendo po-tuto amare mio padre, non l’ho potuto nemmeno,come capita a tutti i bambini, odiarlo, cioè ucci-

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viceversa, Dio non può essere a immagine dell’uo-mo. Delle due l’una: o Dio è imperfetto, disordi-nato, finito, come l’uomo, appunto, oppure l’uo-mo non è fatto a somiglianza di Dio, che è, nonpuò non essere, deve essere ordine assoluto, illimi-tata perfezione, infinito indefinibile.

Insomma, Dio, il Dio di cui sono sacerdote, ètotalmente altro, impensabile, inspiegabile, indi-cibile, inenarrabile, incomunicabile.

Se vuoi, o lettore, una vita da incubo, fatti pre-te solo a metà.

***

Se n’era accorto anche il Vescovo che Don Ada-mo era diventato un prete a metà, dimidiatus sa-cerdos: perdinci! mehercule! il nuovo parroco di Sar-rok torna indietro! invece di evolversi verso unostadio industriale, manifestamente torna indie-tro, verso un livello medievale, sviato dietro que-stioni teologiche di lana caprina, ontologia, ente-lechia, escatologia e cose così! Per sua Eccellenza,l’inquinamento del giovane sacerdote era dovuto,non al petrolio di Sarrok ma al suo contrario, l’i-dea contadina di Arasolè.

Bisogna dire che la perseverazione era la dotepiù lodevole di Sua Eccellenza, la sua dote più

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bile dal nostro cervello. E allora? Ergo, dunque,sono arrivato a questa conclusione: lo spazio infi-nito, l’Universo, è un cancro enorme, incommen-surabile, una metastasi cosmica in continua espan-sione. E il tempo infinito, l’eternità? Immagina-te un topo, un topolino che, ogni mille secoli,viene a rosicchiare una forma di cacio grande quan-to il sole e la luna accoppiati assieme: bene, quan-do il topolino avrà rosicchiato completamente tut-to il formaggio, allora è passato un minuto nel-l’eternità.

C’è ordine o caos nell’Universo? C’è armonia odisarmonia nel cielo stellato? E tutta questa robachi l’ha fecondata? Uno sperma provvidenziale oun mostruoso liquor seminalis? Dio o il Diavolo?La Legge o il Caso? Dio è caldo o freddo? È calo-re atomico a miliardi di gradi o è gelo allo zeroassoluto?

Anche se avessi studiato la teologia, in semina-rio, non tre anni ma tre miliardi di anni, non avreimai e poi mai potuto dare una risposta ai miei pre-suntuosi e sacrileghi quesiti.

Comunque, ogni qualvolta vengo cacciato dal-l’Infinito, di norma, me ne ritorno al Finito, cioèsbarco nuovamente sulla terra. Anche qui ho nonpochi punti interrogativi. Per esempio, a mio pa-rere, l’uomo non può essere a immagine di Dio e,

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sere servitore di due padroni, o il Dio Crocefisso oil Dio Petrolio. – Il Vescovo esclamò: – Figliolo,figliolo.

E, dalli, ancora, con figliolo, figliolo. Don Adamosi vendicò, insultando il suo vescovo, mental-mente: “Stronzo”. Naturalmente, il presule nonsentì nulla e allora, come ulteriore vendetta, DonAdamo lasciò andare una loffa silens, una scoreg-gia silenziosa. Il Vescovo impallidì per il sacrile-go fetore ma non fiatò: non c’erano prove aurico-lari. La fine del colloquio fu segnata da una deci-sione perentoria, unilaterale, premeditata: – Tu,figliolo, ti recherai in missione evangelica pressoil tuo gregge disperso. – Ciò significava che l’exparroco di Arasolè doveva andare proprio a visita-re il gregge disperso, alias emigrato in una zonaindustriale della Germania, dove erano andati afinire, appunto, gli emigrati di Arasolè, dopo cheerano stati espulsi dalla raffineria cibernetica diSarrok.

La missione, secondo la riserva mentale del pre-sule, era necessaria per i seguenti due motivi: 1)perché è giusto che il pastore visiti il propriogregge; 2) perché le ossa di un sacerdote, mala-mente industrializzato, si sarebbero irrobustite acontatto con una civiltà tecnologicamente avan-zata, ossia il verace Paradiso Terrestre. – Partenza

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probanda e, dunque, nessuna cosa al mondo riu-scì a distoglierlo dal suo disegno, dal suo proget-to: fare, del suo parroco, un sacerdote di plastica,un prete al catrame. Perciò, tempestivamente, con-vocò Don Adamo ad audiendum verbum, a rappor-to, insomma.

L’udienza ebbe inizio. Don Adamo stava inguardia. Il Vescovo, dolcemente, gli chiese: – Seicontento, figliolo, della nuova sede? – Il parrocorispose: – Contento, sì, Eccellenza, come un canein chiesa. – La faccia del Vescovo si oscurò e, me-no dolcemente, gli chiese: – Dimmi, figliolo,con esattezza, le cose vanno, sì o no, per il versogiusto?

Don Adamo avrebbe dato qualsiasi cosa, si sa-rebbe anche tagliato a zero i suoi lunghi, adorati,capelli color foglia d’autunno, purché il Vescovola smettesse di chiamarlo figliolo, figliolo. Comun-que, la sua risposta fu: – Le cose vanno per il lo-ro verso, Eccellenza. Se è quello giusto non sonoproprio in grado di stabilirlo.

Dolcemente non è l’avverbio più esatto per defini-re il tono della richiesta del Vescovo: – Spiegatimeglio, figliolo, spiegati meglio, esplica più chia-ramente il tuo pensiero. – Il parroco rispose: – Ec-cellenza, se uno nasce bue non può morire caccia-vite. Eccellenza, non posso, proprio non posso es-

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Questo è il diario di un parroco e non un saggiosull’emigrazione. Non ho l’obbligo, perciò, di de-scrivere il modo di vivere del mio gregge disper-so. Del resto, anche io, oggi come oggi, non sobene se è più difficile vivere che morire.

Non so se la vita discende dalla volontà di Dio odalla cieca sessualità dell’universo. So soltanto o,meglio, credo di sapere che l’Infinito non si curadel Finito. Ciò che faremo, come finiremo, dovesaremo, se qui o là, in questo va e vieni della vitae della morte, non sta scritto da nessuna parte.

Una sola cosa, ora, dopo il mio viaggio tra gliemigrati, posso sicuramente affermare: vivere nellager è mille volte peggio che vivere ad Arasolè.Il lager è, propriamente, uno schifo. Una distesasquallida di capannoni di latta, dove convivono,stretti ma disgregati, migliaia di uomini, turchi,slavi, greci, marocchini, spagnoli, italiani e, so-prattutto, sardi: chi va al lavoro, chi torna dal la-voro, chi dorme, chi mangia, chi beve, chi scrive,chi legge, chi sputa, chi bestemmia, chi prega,chi scoreggia, giorno e notte, notte e giorno.

Quelli di Arasolè stanno tutti da una parte, a par-lare fra loro, preoccupati di salvare la loro lingua dauna grave malattia che li ha colpiti da quando sono

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immediata – concluse Sua Eccellenza – con un ae-reo della Raffineria.

In effetti, la sera stessa, Don Adamo partì, per-ché l’obbedienza dei sacerdoti è come quella deicaporali, pronta, rispettosa, assoluta. E Don Ada-mo è fatto proprio così, come un caporale: si pie-ga ma non si spezza.

Sull’aeroplano, il giovane parroco ebbe la cer-tezza, la prova provata, di essere più simile al ver-me che all’angelo. Veramente, non fa per lui l’ar-te di Dedalo, riesce meglio nel mestiere di spa-ventapasseri. Durante il viaggio nel cielo, per laprima volta più vicino al suo Padre Celeste, provòun nefando horror vacui, terrore del vuoto, che gliprocurò un miserabile stringimento dell’intesti-no retto, una cosa indegna per chi, come lui, dafanciullo, fantasticava di volare nell’alto dei cieli,con le ali di cartapesta, sopra Arasolè, proprio lui,il trovatello bastardo, che faceva crepare d’invidiagli altri fanciulli del villaggio, regolarmente for-niti di padre e di madre.

L’orrore del vuoto cessò solo quando l’aereo delDio Petrolio atterrò in Germania, nell’aeroportodi un’altra divinità, il Dio Automobile, nei pres-si di un immenso lager, fatto di capannoni di lat-ta, dove vivevano, appunto, nelle ore non lavora-tive, gli emigrati di Arasolè.

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In verità, in verità vi dico: è più facile che uncammello passi attraverso la cruna di un ago cheun parroco petrolchimico entri nel regno dei cie-li, regnum caelorum. Non potevo mica mettermi aspiegare che, a mio modo, ero un emigrato an-ch’io e che, in fondo, non ero nemmeno un prete,un vero prete, intendo, secondo il modello bre-vettato di Sua Eccellenza. Preferii adottare la teo-logia tecnologica del mio vescovo e usai con loroil linguaggio dei farisei, degli ipocriti, dei sepol-cri imbiancati: come ricompensa al loro infernoterrestre promisi loro il paradiso celeste. Ma po-che ore mi bastarono per capire il dramma deimiei poveri contadini di Arasolè, mai diventatioperai, simili a valige legate con lo spago, barat-toli vuoti, presi a calci dalla malafortuna e finitidentro un ingranaggio folle e disumano: arbai-ten… arbaiten… schlapp… lavorare… lavorare…presto… montierenkette… catena di montaggio…carica… scarica… monta… suda… fatica…smonta… avvita… spingi… gira… pinza… te-naglia… tira… arbaiten… arbaiten… schlapp.Giorno e notte, notte e giorno.

Tutti, dico tutti, mi spiegarono che volevano ri-tornare al nostro villaggio, per lavorare la terra, seavessero avuto un pezzo di terra. Come è possibi-le che un operaio voglia tornare a fare il contadi-

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arrivati in fabbrica, la glottofagia, un male spietatoche distrugge la lingua dei lavoratori emigrati, di-vorata dalla lingua dei datori di lavoro.

Ci dovrebbe essere una sola lingua, fra gli uo-mini, per potersi capire, tutti, gli uni con gli al-tri. O, forse, non è neppure così.

Da noi, c’è gente che parla la medesima linguae non ci comprendiamo ugualmente uno con l’al-tro. Perché c’è la lingua dei ricchi e la lingua deipoveri, la lingua dei padroni e la lingua dei servi-tori, la lingua dei vecchi e la lingua dei giovani,la lingua dei giudici e la lingua dei giudicati, lalingua dei carcerieri e la lingua dei carcerati, lalingua dei medici e la lingua degli ammalati, lalingua dei santi e la lingua dei peccatori. Eccocom’è, parliamo la stessa lingua ma non ci com-prendiamo lo stesso fra di noi.

Anche se la malasorte parla, ovunque, la stessalingua, gli emigrati del lager piangevano in linguediverse. Quelli di Arasolè parlavano la mia stessalingua ma non mi capirono e fecero il muso durocon me. Dopo il mio trasferimento a Sarrok, essinon si fidano più di me. Ormai faccio parte, an-ch’io, dell’Anonima Petroli.

Uno mi ha chiesto come mai le organizzazionidegli emigrati sono tutte in mano dei preti. Lamia missione evangelica si sfaldava.

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e di catrame. Ai lati della strada, alte ciminiereconficcate come croci sopra un calvario di nebbia.Camminai a lungo. Sentivo dietro di me il rumo-re di un passo, lento, stanco, pesante. Mi fermai eil rumore cessò. Era il mio passo. Ripresi a cam-minare. Di nuovo, il rumore alle mie spalle, comedi un passo altrui. Brutto passo, pensai. Mi senti-vo come una donna incinta, nuda, deforme, da-vanti allo specchio.

Passai sotto un fanale. Mi cadde addosso una lu-ce viscida. Vidi la mia ombra: una larva sporca dicatrame e di fango. Oltrepassai il fanale: la larvami precedette, andò avanti, s’allungò, scomparvenella nebbia. Foglie morte, da alberi invisibili,cadevano ai miei piedi, portate dal vento e dallapaura dell’inverno. Da grandi falansteri, immersinella nebbia, occhi di finestre mi guardavano conil loro silenzio di vetro.

Infine, la voglia di camminare si fermò sotto unascritta al neon: Zimmer, insomma, per il mio po-vero vocabolarietto teutonico, luogo dove si dor-me. Spinsi una porta a vetri ed entrai. Dietro unbancone lercio, c’era un uomo grasso e biondo, inmaniche di camicia, con grosse braccia pelose. Alcigolio della porta, l’uomo alzò la testa e miguardò con fastidio. Tolsi dalla mia tasca un po’ dimonete tedesche e le misi sopra il bancone. L’uo-

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no? Questo proprio Sua Eccellenza non lo capiràmai, se è vero, come è vero, che non ha mai capi-to la differenza fra un emigrato sudicio e un ve-scovo che, ogni sera, si fa la doccia al culo conl’acqua di rose.

Ma cos’altro può fare un povero prete, per il suogregge disperso, se non consolare i dannati dellaterra con la promessa di un sicuro premio in cielo?E così feci. Però, absit iniuria verbis, cioè chiedendoscusa ai miei sette lettori, non posso non rievocareche, proprio in quel momento, mi venne in mentel’orinale di maiolica di una giovane donna di Ara-solè, sul cui fondo, in odio ad un uomo che le ave-va tolto la verginità senza sposarla, aveva messo lafoto con dedica del suo seduttore. Pensando a que-sto utensile domestico, in verità molto in uso aitempi della mia infanzia, mi venne la malvagiatentazione di procurarmene uno, magari in plasti-ca, sul cui fondo sistemare la foto in gruppo delmio vescovo e di tutti i sagrestani del Dio Petrolio.

***

La mia missione evangelica finì lì. Era durata,più o meno, una giornata. Sul far della sera, lasciaiil lager e mi avviai verso l’aeroporto, lungo unastrada d’asfalto coperta da grandi chiazze di fango

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Ad un tratto, il mio occhio si fermò su di unimprevisto primo piano: in un angolo della stan-za, seduta per terra, accanto ad una valigia apertacolma di indumenti intimi messi alla rinfusa, c’e-ra una donna del tutto nuda.

Per un bastardo, come me, che non aveva maivisto, in vita sua, nuda nemmeno la mammelladella propria madre, c’era da rimanere secco: finoad allora, le donne nude me l’ero sognate, sullatraccia del Cantico dei Cantici, nell’Antico Testa-mento, l’unico libro pornografico permesso in se-minario.

Naturalmente, bisogna subito dire che quellafemmina tedesca era molto diversa dalle descrizio-ni del testo sacro. Un corpo vasto, polposo, boffi-ce. Un viso rotondo, molle, burroso. Occhi porci-ni, liquidi, senza ciglia. Labbra grosse, tumide,sanguigne. Due grandi mammelle pendule gelati-nose, con due grandi capezzoli viola. Il ventre, unpromontorio di grasso, con un ombelico tondo,profondo, un corollo da vacca. Le cosce lisce, car-nose, terminavano in un triangolo di pelo rosso,dentro l’oscurità del pube.

Riguardo all’età, quella grossa puttana tedesca,per quanto ne so, poteva essere mia madre. La po-situra della grossa frau era inesplicabile: col culonudo per terra, rigidamente immobile, gli occhi

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mo dalle braccia pelose sbirciò i soldi e mi dissequalcosa. Alzai le mani in segno di non capire. Al-lora, l’uomo si alzò e mi fece cenno di seguirlo.

Salimmo una scala sudicia, con una guida di le-gno sporca di sudore aggrumato. Giunti in cimaalla scala, l’uomo si fermò davanti ad una porta,la spinse con la mano sinistra e con la destra mifece cenno di entrare. Entrai a ritroso, diffidentedi quelle grosse braccia pelose, e la porta si rin-chiuse, da sola, bruscamente, davanti al mio viso.

Prima ancora di voltarmi verso l’interno dellastanza, ebbi la sensazione netta di un’altra pre-senza in quel luogo: se i miei pochi soldi mi ave-vano dato la possibilità di avere una Zimmer, nonmi avevano dato il diritto di averla solo per me.Spostai lentamente il mio sguardo verso gli og-getti disposti lungo un muro giallo, del coloredel cane che fugge, un letto a due piazze, con unmaterasso senza lenzuola e due guanciali senza fo-dere, un treppiede di ferro arrugginito con un la-vamano di smalto sbrecciato, una brocca di terra-cotta piena d’acqua, un orinale di plastica.

Una lampadina al neon appesa al soffitto lascia-va cadere dall’alto una luce scialba, lattiginosa. Ilmio occhio era come una macchina da presa chefacesse emergere gli oggetti, in una lenta sequen-za, ad uno ad uno.

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cosa ti è accaduto… un posto lercio questo… co-me fai a starci… è lercia questa zimmer… anche illager è lercio… fa schifo… malfatati gli emigra-ti… vuoi ridere… Sua Eccellenza dice… qui c’è ilParadiso Terrestre… mi ha mandato qui per ve-dere… de visu… quante fesserie dice… Sua Eccel-lenza… roba da pazzi… quos vult perdere Deus au-mentat… Dio toglie il senno agli stronzi… matu… perché te ne stai così… col culo per terra…vienitene qui… sul letto… è un letto lercio… maè meglio di niente… è lercia questa città… maivista una città così lercia… come fate a starci… ètutta una merda… per questo ti sei messa nuda…per non sentirti la merda addosso… vienitenequi… sdraiati… e parliamo… perché… vedi…sorella… uno può forarsi i timpani per non senti-re… cavarsi gli occhi per non vedere… tagliarsi lalingua per non parlare più… ma come si fa… so-rella… come si fa a togliersi il cervello… e conti-nuare a vivere… così… come un albero… comeuna pietra…

Non ce la facevo più a parlare. Ero diventato afo-no. Non ce la facevo proprio più. Una cosa oscura,incomprensibile, c’era dentro quella malfatata don-na seduta per terra. Fino ad allora, nella mia vita,avevo fatto sogni che mi parevano realtà: ora, larealtà mi pareva un sogno, anzi, un incubo. Ad

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spalancati nel vuoto, le gambe in croce, le maniferme sul ventre, fra l’ombelico e il pube, con ildito pollice, digitus impudicus ficcato tra l’indice eil medio.

Mi avvicinai alla donna e le dissi le due paroleche sicuramente conoscevo in lingua tedesca: Gu-tentag, Gutenabend, buongiorno, buonasera. Il miosaluto rimase sospeso nell’aria, come un’elemosi-na non raccolta da un mendicante distratto. Gu-tentag, Gutenabend, replicai. Nessuna risposta.Habet oculos et non videt, la donna seduta per terraguardava ma non vedeva.

Sentii una sorda improvvisa stanchezza ai mieipiedi e mi sdraiai sul letto. Una blatta nera ar-rancava lungo la parete, verso il soffitto: la lucedella lampada al neon ne proiettava l’ombra sulmuro, aumentandone orridamente le disgustoseforme. Il tempo nella stanza si era fermato.

Non riuscii a sopportare a lungo il silenzio: miagitai sul letto come una mosca impigliata den-tro una ragnatela mortale. Ebbi un’idea geniale:parlare. Probabilmente, la grossa frau non avreb-be capito nulla. Non importa, dovevo parlareugualmente. Se uno parla, non sente il triste si-lenzio. Così, uno prende e parla, come un caneche abbaia alla luna.

– Che cos’hai… che cosa ti hanno fatto… che

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ne: – Scusami… sorella… è il primo ombelico didonna… sono senza madre… senza cordone om-belicale… – La donna rimase immobile, insensi-bile.

Avvicinai le mie labbra alla sua mammella e,come un lattante affamato, a lungo rimasi a suc-chiare un grosso capezzolo viola, slabbrato, te-nendo tra le mani, come una brocca d’acqua, lagonfia, pendula, gelatinosa mammella.

La donna rimase completamente inerte. Nono-stante ciò, il mio miserabile pene entrò in erezio-ne. Il mio aratro pareva la statua del Dio Priapo.Ma non ebbi il coraggio di modificare la posizio-ne della donna, sdraiarla sul letto o stenderla sulpavimento, per favorire, come prescrive un teolo-go tomista, la penetratio penis in vaginam, cosicchéla mia peccaminosa mentula eiaculavit inter mam-mas semen in testiculis elaboratum sine copula, cioè inparole povere, lo sperma elaborato dalle mieghiandole sessuali fu emesso, senza accoppiamen-to, tra le mammelle della grossa frau.

In fondo, avevo commesso altri due imperdona-bili errori: da un lato, un’occasione perduta perpotere, finalmente, come dice la Bibbia, agnosceremulierem, possedere la donna; dall’altro lato, un’a-zione sacrilega, secondo la summa teologica, per averseminato fuori dal natural vasello. Insomma, non

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Arasolè, quando uno impazziva, diventava bue opecora, e si muoveva, si agitava, parlava, muggi-va, belava. Quella donna era diventata un albero,una pietra.

Ebbi un’altra idea geniale: fare altri segnali, co-municare con lei in maniera diversa, toccarla, peresempio. D’altronde, devo confessarlo, la nuditàtotale di quella grassa puttana cominciava a pro-durre i suoi effetti sul mio sistema sessuale.

A questo proposito, mette conto di spiegare chel’estetica di Arasolè è la seguente: una donna èbella solo se è grassa. Se una donna non è grassa,non è bella. Ad Arasolè, il massimo complimen-to che si può fare ad una giovane donna è questo:una grassa vitella. Così stanno le cose, ad Arasolè:la bellezza s’identifica con l’opulenza, l’abbon-danza, la grassezza. Questa è l’estetica di Arasolè,riguardo alle donne.

Mi alzai dal letto e mi sedetti per terra, accantoalla tedescona.

Naturalmente, non ignoravo che avrei trasgre-dito la regula tactus, cioè il divieto assoluto, per unsacerdote cattolico, di toccare una donna, nem-meno con la punta delle dita.

Le toccai l’ombelico, umbilicus maternus. Provaiun’emozione assoluta, da neonato. Spinsi il ditodentro il corollo, il fosso profondo di morbida car-

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fialetta di vetro e una siringa per iniezioni con l’a-go e tutto. Spezzò il collo alla fialetta, vi infilòl’ago e ne aspirò il contenuto dentro la siringa.Poi, spinse l’ago dentro la sua grossa coscia e s’i-niettò il liquido, ridivenendo subito una biancaimmobile statua di carne.

Che fare? Ad uno ad uno riconsiderai gli ogget-ti della zimmer: il letto a due piazze, i materassisenza lenzuola, i guanciali privi di federe, il trep-piede di ferro arrugginito, il lavamano di smaltosbrecciato, la brocca di terracotta, l’orinale di pla-stica. Basta. Mi alzai in piedi. Posi un piede sul-la fialetta di vetro sminuzzandola in infiniti fram-menti scintillanti. L’altro piede, involontariamen-te, andò a finire sopra la blatta nera, spiaccican-dola.

Mi avvicinai alla porta, indeciso. Rivolto alladonna seduta per terra, la osservai con uno sguar-do diviso, spaccato in due da due opposti senti-menti: il primo, la pietà, perché, bene o male, es-sa aveva ricostruito, in me, con la sua nuda edeforme grassezza, il corpo di mia madre scono-sciuta; il secondo, l’ira, perché quella botte di lar-do aveva distrutto, in me, l’idea di Eva, l’imporo-sa e liscia creatura, l’agnella di fuoco che, tutte lenotti, nel letto del seminario, ricomponevo sullatraccia, appunto, del Cantico dei Cantici.

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ero riuscito ad accoppiarmi nemmeno con una put-tana.

Post coitum omne animal triste, solus gallus cantat:ma io non sono un gallo canterino e rimasi con lamia irrimediabile tristezza. In verità, il mio squal-lore non mi impedì, come al solito il giuoco delleridicole metafore: immaginai di avere tra le gam-be, non più il mio rustico aratro contadino ma unsesso inquinato dall’industria petrolchimica, unaspecie di fiaccola di raffineria, vampante una nubedi sperma tossico o, meglio, un alambicco goccio-lante spermatozoi velenosi.

Dopo questa ulteriore dimostrazione delle miecapacità poetiche, tornai a sdraiarmi sul letto. Nel-la luce lattiginosa della lampada al neon, oltre allagrossa puttana tedesca che ormai faceva schifo allemie viscere c’era un altro essere vivente: la blattanera che arrancava verso il soffitto.

Ad un tratto, il lurido animaletto cadde dall’al-to e andò a sbattere sul naso della grossa frau. Fucome un segnale d’allarme. La donna ebbe un tre-mito, quasi si destasse con violenza da un lun-ghissimo letargo a causa di una scossa elettrica.

Senza percepire minimamente la mia presenza,con movimenti nevrotici, a scatti, disfece primale fiche delle sue mani e si mise a frugare tra gliindumenti della sua valigia. Ne trasse fuori una

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maccheroni ben conditi. I maccheroni servivanoper la fabbrica dell’appetito dei dodici figli diZanfretta ma servivano, anche, per un loro giuo-co, per far ridere la gente.

Zanfretta Padre legava le mani dei suoi figli die-tro la schiena e poi dava il via: i dodici ZanfrettaFigli dovevano mangiare i maccheroni ben condi-ti, senza l’uso delle mani. Si riempivano la panciae, allo stesso tempo, facevano ridere la gente diArasolè, con i loro musi sporchi di sugo di mac-cheroni.

Il circo tedesco era proprio simile al circo Zan-fretta. Un pagliaccio ubriaco faceva smorfie ecantava. La gente rideva e beveva birra. Bevevabirra e rideva. Non capivo ciò che cantava il pa-gliaccio ma mi misi a ridere lo stesso. Il riso, co-me il sesso, è un verace mezzo di comunicazione.Non è vero che abbonda nella bocca degli stolti,risus abundat in ore stultorum, le solite cazzate de-gli antichi proverbi. Ridevo e, così, mi dimenti-cavo dei miei compaesani nel lager e della malfa-tata puttana nella zimmer.

Al centro della pista c’era una gabbia di ferro.Dentro c’erano un orso, vestito da ballerina, con lemutande di pizzo, e uno scimpanzé, vestito da con-tadino, che suonava un’armonica a bocca. L’orsoballerino ballava, in tutù, al suono dell’armonica a

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Basta. Spinsi la porta e abbandonai la stanza.Discesi la scala di legno, lercia di nero sudore ag-grumato. Dietro il bancone, l’uomo dalle bracciapelose alzò la testa e mi guardò con fastidio.

Mi passai la mano sulla bocca, come per pulir-mela. Ed uscii.

***

C’era una fitta nebbia. Arrancai a lungo, finchéla mia voglia di camminare si fermò davanti altendone di un circo. Decisi di entrare per vederedi sollevare il morale. Forse, c’era da ridere.

Gente ce n’era: i tedeschi con bottiglie di birra.Era il solito circo di periferia. Tutti uguali questicirchi di periferia: pagliacci, fachiri, nani, digiuna-tori e qualche bestia spelacchiata, feroce, un tem-po, forse.

Quando ero ragazzo, ne veniva uno, ad Arasolè,tutti gli anni. Il pagliaccio si chiamava Zanfretta.Era anche fachiro, si sdraiava sui chiodi e digiu-nava, chiuso dentro una bara di vetro. Era nano eaveva dodici figli, tutti nani, pagliacci, fachiri edigiunatori, come lui. Circo Zanfretta, ecco, cosìsi chiamava. Noi ragazzi di Arasolè, se non ave-vamo soldi per pagare il biglietto d’ingresso, era-vamo autorizzati a portare, ognuno, un piatto di

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nire ad bassum, stavo per farmela sotto, insomma.Allora, prendo e comincio, lentamente, a piccoli

passi, a fare marcia indietro, verso l’uscita. Quan-do lo scimpanzé si accorse che stavo per filarme-la, alzò verso di me la sua zampa destra e, muo-vendola ritmicamente verso il suo muso, mi fecesegno di avvicinarmi. Un po’ guardavo verso lagabbia e un po’ verso l’uscita. Allora, lo scim-panzé, con mossa furbesca, mi fa: – Ps… ps…ps… – così, con la bocca a forma di culo e col di-to indice puntato verso di me.

Io rimango secco. Non sapevo più che pesci pi-gliare. Andarmene o avvicinarmi a quella bruttabestia? E quello: – Ps… ps… ps… – ancora conla bocca a sfintere e col dito puntato. Alla fine midecisi e mi avvicinai alla gabbia. La gente, ormai,se n’era andata. Eravamo soli, io e lui. Allora, loscimpanzé mette il muso fra le sbarre e, con vocetriste, mi dice: – Ehi… Don Adamo… non mi ri-conoscete… sono Cocoi… Pietro Cocoi… di Ara-solè… diteglielo a mia moglie… diteglielo… cheho trovato lavoro.

***

Rientrato a Sarrok, Don Adamo fece una minu-ziosa confessione al suo vescovo: confessò tutto,

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bocca suonata dallo scimpanzé vestito da contadino.Dall’istante in cui ero entrato nel circo, lo scim-

panzé mi aveva messo gli occhi addosso. Suonavae mi guardava. Era uno scimpanzé dal pelo rossic-cio, gli occhi piccoli e furbi. Aveva una faccia pro-prio astuta. Fissava il suo sguardo su di me, comese volesse comunicarmi qualcosa o come se io solofossi degno della sua attenzione. In verità, non eromolto lusingato. Uno scimpanzé, insomma.

C’era nei suoi occhi molta furbizia ma, anche,molta cattiveria, col suo volermi coinvolgere nel-lo scherno dei bevitori di birra. Guardava me, so-lo me. Mi strizzava anche l’occhio. Mi venne l’i-dea che qualcuno poteva supporre che qualcosapassava fra me e il bestione. Qualcuno comincia-va ad osservarmi come si osserva un animale cu-rioso e rideva.

A pensarci bene, in fondo, tra la sua faccia discimpanzé e la mia non c’era molta differenza. Nonero molto lusingato.

Meno male che lo spettacolo stava per termina-re e la gente sfollava. Anch’io prendo e comincioad allontanarmi dalla gabbia di ferro. Lo scim-panzé entrò in grande agitazione. Con piccoli sal-telli si aggrappa alle sbarre e mi fa capire chiara-mente che non gli piace che io me ne vada.

Ero in un maledetto guaio: cacarellam sentivi ve-

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con la contemporanea presenza di tre persone: uno,bino e trino, insomma, come Dio.

Tutto sommato, questo diario è simile, propriosimile, al povero Don Adamo: angelo e verme, du-ro e molle, proteiforme e sclerotico, seduttore e se-dotto, eretto e moscio, sadico e masochista, diar-roico e cacastecchi.

Ugualmente, è simile a lui la sua ars dicendi. Inverità, niente di più letterariamente ovvio e scon-tato: una inventio ambigua, trama incerta, un po-vero fanciullo bastardo, abbandonato da chissàchi, diventato prete senza vocazione; una insinua-tio erotica, un esordio insinuante per fregare il let-tore; una dispositio incomposita, una farraginosa mi-scellanea di sequenze e dissolvenze, carrellate avan-ti e indietro, ordine e disordine, norma e caos; unaelocutio spuria, stile da puttana, orpelli, ornamen-ti, similitudini, metafore, iperbati, ipotiposi, pro-sopopee, enallagi, zeugmi, ossimori, e cose così,roba da seminario, insomma, parole per significa-re tutto e il contrario di tutto.

Don Adamo, mai che usi un sostantivo senza ag-giungervi un aggettivo, mai un verbo senza un av-verbio, mai un’immagine senza infilarvi una ca-terva di metafore e di similitudini. Don Adamo,insomma, il lettore l’ha ormai ben capito, non èun uomo ma un pleonasmo.

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proprio tutto, compreso il peccaminoso coito conla puttana tedesca. Ma Sua Eccellenza non capìnulla, proprio nulla: né la cattività babilonese delsuo gregge emigrato né la confusione esistenzialedel suo povero parroco inquinato.

Quello lì è sordo, non ha capito un accidenti. Loha assolto anche della fornicazione con la grossafrau. Tutto va bene, tutto si accomoda, secondoSua Eccellenza, purché il giovane parroco diventiun buon prete industriale.

E il bello è che, forse, c’è riuscito. Forse. DonAdamo sembra, attualmente, dentro il sistema,sistemato, come si dice: un sacerdote di plastica,un reverendo di catrame, un perfetto cappellanodel Dio Petrolio.

Ma, accanto alla Storia con la S maiuscola, cioèla Storia della Chiesa e della Raffineria, c’è anchela storia con la s minuscola, la storia di un pretecontadino che non è riuscito a diventare prete ope-raio: è diventato semplicemente una specie di sa-cerdote sottoproletario, uno straccione, un lumpen,insomma, dalle idee confuse, in cerca di una por-ta che non c’è.

Di tutto ciò è testimonianza, anche, questo dia-rio. Don Adamo vi compare in prima, in secondae in terza persona. Egli è, allo stesso tempo, io, tue lui. Compensa la propria mancanza d’identità,

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coppiamento dell’energia sessuale cosmica aut unascappatella coniugale, il solito triangolo, un mari-to infedele (il sole), una moglie cornuta (la terra) eun’amante puttana (la luna).

Veramente, in questo caso, siamo di fronte, nonad un sillogismo ma ad un trilemma cornuto, ec-cetera, eccetera.

A pensarci proprio bene, questi pensieri cornu-ti di Don Adamo, in cima al campanile, sono unsegnale della sua eclisse esistenziale, come se l’o-mologo fenomeno della natura, capitatogli tra ca-po e collo proprio nel momento del trapasso dal-la cultura di Arasolè alla cultura di Sarrok, lo ab-bia defraudato di antiche certezze, sostituite dacatramosi dubbi.

Al limite, Don Adamo non crede più in nulla,neppure, per esempio, che ci sia alcuna diversitàfra il giorno e la notte. È, semplicemente, per lui,una improprietà lessicale. In pratica, due terminidifferenti per significare la medesima cosa. Il soleè sempre lì, sempre acceso. È sempre lì, fisso, unacosa sempre uguale a se stessa, anche se, ogni ven-tiquattro ore, la terra gli volta le spalle e la luna,ogni tanto, lo copre col suo culo rotondo. In fon-do, anche i due termini vita-morte sono un’altraimproprietà del lessico umano. Due parole diver-se per indicare la stessa cosa: vita uguale materia

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Nonostante tutto, Don Adamo spera che questodiario non procuri ripugnanza ma piacere, ai suoisette lettori. Anzi, timidamente, il povero preteavanza la sommessa preghiera di considerare lepagine del presente libro come un mazzo di carteche si possono leggere e, poi, mescolare, rilegge-re e, ancora, rimescolare, ad libitum et in perpetuum.O lettori, abbiate, dunque, pietà della sua amabi-le follia.

***

Tanto per intenderci e per non perdere il filodella narrazione, è necessario spiegare che i pen-sieri retroversi, arrière-pensée, flashback, escogitatida Don Adamo per riempire i tempi intermina-bili, incalcolabili, i miliardi di minuti costituen-ti la mezzora circa d’eclisse, là, in cima al campa-nile di Sarrok, sono delle vere e proprie seghementali, onanismi metafisici.

Eccone qualche esempio: se tutto è sogno, se to-do es sueño, come dice un acchiappanuvole spagno-lo, se l’Universo tutto, la natura naturata tutta, or-ganica e inorganica, non è che sogno, bene, allora,l’eclisse totale di sole altro non è che un incubo nelsonno eterno di Dio. Oppure, l’eclisse - continuaa sillogizzare Don Adamo - è aut un normale ac-

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libri, quelli del realismo, con o senza neo. I letto-ri conoscono la realtà solo attraverso la metaforadelle cose, cioè la narrazione delle cose, ma nonhanno nessuna certezza che la realtà sia la cosa oil racconto della cosa.

In secondo luogo, nessuno sa con certezza - no-nostante tutta la buona volontà dei teologi - se laparola viene dopo la cosa oppure prima della co-sa o sta dentro la cosa, insomma, per dirla allamaniera di Don Adamo, post rem aut ante rem autin re.

La realtà è come il petrolio. Apparentementesembra un’unica sostanza, un viscido serpente ne-ro e giallo ma, in un secondo momento, comeProteo, si trasforma in una bestia dai mille volti:polimero, poliamido, alchilato, nitrato, clorato,solforato, ossidato, idrogenato, glicerina, paraffi-na, vaselina, metano, butano, esano, ottano, etile-ne, propilene, acetilene, polistirene, benzina, ga-solio, nafta, bitume, detersivo, concime, insetti-cida, medicinale, profumo, rossetto, dentifricio,brillantina, proteina, bistecca, plastica, camicia,reggipetto, mutanda, colabrodo, vaso da notte.

Se la serie sfrenata di paralogismi, cioè cazzate,formulate da Don Adamo crocefisso nel buio del-l’eclisse, fossero giunte all’orecchio del Vescovo,certamente lo avrebbe accusato, perlomeno, di

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che diventa energia e morte uguale energia che di-venta materia. Dunque, vita è uguale morte et in-vicem, e viceversa.

E ancora: il tutto è omologo al nulla e il nulla èomologo al tutto. Per Don Adamo, fra il tuttodella vita e il nulla della morte non esiste alcunarilevabile dissimilitudo.

A conferma dell’aforisma del suo antico inse-gnante di teologia, vivimus ergo morituri, viviamoe dunque stiamo per morire, Don Adamo avanzala tesi del professore ebreo che ha sostituito ilconfessionale col divano, èros uguale tànatos, l’a-more, massima espressione della vita, è uguale al-la morte.

Del resto - sempre secondo Don Adamo - perquanto riguarda l’esistenza - non esistenza diognuno di noi, bisogna andare coi piedi di piom-bo. “Io non esisto, è un fatto notorio”, ha soste-nuto un filosofo folle e sapiente ma se esisto - ag-giunge Don Adamo - sto in un luogo dove nes-suno mi conosce, sono una combinazione di segniche nessuno sa decodificare. Sono un innominabi-le, un nefandus. Parlo e non dico niente perchénessuno mi sente: vox clamans in deserto.

In sostanza, voglio dire che nessuno è testimo-nio della realtà perché è la stessa realtà che si ri-fiuta di essere testimoniata. Pigliamo il caso dei

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nemmeno storia: gli archivi, insomma, contengo-no soltanto le carte lasciate dai vincitori.

Ergo, dunque, Don Adamo è stato costretto adusare la lingua egemone, con qualche saltuariaintroduzione della lingua dei morti, la lingua deipreti, la lingua dei farisei, degli ipocriti, dei se-polcri imbiancati.

Eppure, secondo il battagliero parroco, se è ve-ro che i vinti non lasciano nulla negli archivi, cioèche sono parlati ma non parlanti, è altrettanto ve-ro che sono essi, i vinti, formiche silenziose, mu-ratori senza nome, a costruire e demolire, dallefondamenta, la storia dei vincitori.

Non è improbabile - sempre secondo Don Ada-mo - che la Raffineria di Sarrok, per forza di co-se, sia destinata a diventare un mucchio di ferrofuori uso e lui, Don Adamo, tornerà a pascolare ilgregge disperso nelle tanche di Arasolè.

Fin qui l’idea di Don Adamo. E potrebbe basta-re. Ma è che il vizio assurdo dell’iperbole lo portaad inventariare, con l’aiuto dell’Apocalisse, tuttoil futuro dell’umanità. E, così, piscia fuori dal va-so.

Con la sua solita operazione mentale, malde-stramente, affronta i temi dei modelli di svilup-po tecnologico, non in termini economici ma intermini, ahinoi, morali, filosofici.

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“teologismo medievale”, perché sua Eccellenza,dopo il compromesso storico fra Chiesa e Raffine-ria, è convinto di essere un “modernista”, un teo-logo-tecnologo, id est, cioè, culo e camicia col DioPetrolio, tanto da prefigurare, anche una eucari-stia industriale, con l’impiego di ostie fatte colpolistirolo espanso.

***

Come ben si comprende, Don Adamo gira sem-pre intorno al proprio cadavere, un parroco con-tadino morto nel tentativo di trasformarsi in sa-cerdote industriale.

Il fatto è che, più che ad ogni altro essere viven-te, al prete è negata, per cause dipendenti dal suomestiere metafisico, la conoscenza della realtà:unicuique suum, a ciascuno il suo affanno.

Per esempio, a giudizio di Don Adamo, questodiario sarebbe dovuto essere scritto in due lingue,libellus bilinguis: una parte scritta nella lingua diArasolè, la lingua dei vinti, la lingua del grano,dell’erba e della pecora; un’altra parte scritta nel-la lingua di Sarrok, la lingua dei vincitori, la lin-gua del petrolio e del catrame.

Ma l’Editore è del parere che i vinti non hannolingua e, siccome non hanno lingua, non hanno

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va metafora di Don Adamo: – Sarrok, un nuraghedi ferro arrugginito! Se c’è, sulla faccia della ter-ra, molta gente come Don Adamo, l’umanità èfottuta.

***

Io credo fermamente di avere bisogno di unabuona confessione, non già di un disonesto diario,dove mi diletto a manovrare il povero Don Ada-mo come un burattinaio fa col burattino.

Il fatto è che, fra gli altri vizi, ho anche qualchevelleità artistica o, meglio, come sosteneva il vec-chio insegnante di teologia innamorato dei mieicapelli color foglia d’autunno, ho il deprecabilepervertimento di considerare l’arte come il postogiusto dove raccontare i miei peccati.

Veramente, per un sacerdote cattolico, il postogiusto è il confessionale, refugium peccatorum, mala confessione con Sua Eccellenza, diciamolo purea chiare lettere, non è altro che tirar via la pellead un agnello: la sfili, la stendi ci metti il sale so-pra e la lasci ad asciugare. Sei spellato fuori madentro tutto sta come prima, dal momento che laconfessione, confessio oris, senza il pentimento, con-tritio cordis, è una bastarda finzione, una tombaimbiancata.

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Con intollerabile prosopopea, usa e abusa delleinterrogazioni retoriche: Dove va l’uomo indu-striale? Dove sono andati a finire i valori dell’uo-mo contadino? Dove va la religione? La religionedi plastica, dico, la religione al catrame, la reli-gione di polistirolo espanso?

Domande retoriche, ovviamente, con rispostealtrettanto retoriche: La società industriale ha ge-nerato mostri! L’homo faber ha ucciso l’homo sa-piens! La macchina ha ammazzato Dio e, dunque,ammazzerà l’uomo!

Naturalmente, per l’apocalittico parroco di Sar-rok, la punizione è vicina. Il vero Dio altre volteè risorto. Il Dio Petrolio, il demonio nero-giallo,sarà ricacciato nel ventre della terra, dove diven-terà, nuovamente ed eternamente, di pietra. Ilsuo sesso oscuro, creatore di mostri, oloturia mol-le gonfia di catrame, sprofonderà nel Tartaro, nel-la Geenna, nel mondo immondo dell’abisso.

La lingua infuocata della Fiaccola si spegnerà,per sempre, in aeternum. Il gomitolo di tubi dellaRaffineria, gli alambicchi di distillazione, le tor-ri di frazionamento, i forni a serpentina, le colon-ne, le sfere, i cubi, i cilindri, lo steam cracking, in-somma, ovverosia la pirolisi, tutto, tutto sarà di-vorato dalla ruggine.

Così, si realizzerà la grande, suprema, definiti-

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mente: sono costituzionalmente capace di assassi-nare chiunque. A mio giudizio, qualunque crea-tura umana, soprattutto di genere femminile,prima muore e meglio è. Se dipendesse solo dame, le donne le eliminerei tutte. Magari, in su-bordine, l’idea è che il sottoscritto, con la suastraordinaria potenza sessuale, ne procrei altret-tante, per un’altra infornata nei lager dell’elimi-nazione.

Però, per far morire qualcuno, bisogna primafarlo nascere ma, il lettore lo ha ormai ben capi-to, io sono costituzionalmente incapace di far na-scere chicchessia. Laonde, nonostante sia convin-to della necessità di eliminare il prossimo, di ge-nere femminile, sono altrettanto convinto chenon c’è bisogno di ammazzare nessuno, perché cipensa la vita, e non la morte, ad ammazzarci tut-ti, se è vero, come è vero, che la vita è un morirea poco a poco. E la cosa comincia proprio dal mo-mento in cui nasciamo.

Soltanto uno, a mio parere, non è nato e, dun-que, non morirà. Intendo, appunto, riferirmi aDio, l’unico che non muore mai perché non è mainato. È proprio Lui, Dio, l’Infinito senza princi-pio e senza fine, che fa nascere tutto e fa moriretutti: l’usignolo che canta e, contemporaneamen-te, il serpente che lo incanta e lo divora.

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Meglio, allora, il divano del professor Freud. Piùdel confessionale, sarebbe il posto adatto per far-mi sputare fuori tutti i rospi che stanno dentro dime, dannatio memoriae, fregatura della mia memo-ria.

In fondo, l’uno e l’altro, il confessionale e il di-vano psicanalitico, sono due sacchi per immondi-zie, oggetti molto comodi per chi, come me, nonvuole la casa pulita ma vuole soltanto un po’ dispazio per poterci mettere, ancora, altra sporcizia.

In realtà, per uno come me, il posto più appro-priato sarebbe la galera. Non ho alcuna difficoltàad ammettere che qualunque accusatio aut insimu-latio, qualunque imputazione, nei miei confronti,potrebbe risultare molto vicina alla verità, daireati minori ai crimini peggiori, assassinio com-preso. Né intendo servirmi, ai fini della mia asso-luzione, di alcuna attenuante o di alcuna formuladubitativa, neppure della solita insufficienza diprove o del ragionevole dubbio sulla mia totaleincapacità d’intendere e di volere.

Sono, a mio parere, capace di tutto, di ogni equalsiasi scelleratezza: se non ho commesso infi-niti delitti è perché non sono stato capace di por-tarli a compimento e non perché non ne abbiaavuto l’intenzionalità, per esempio, l’assassinio diSua Eccellenza il Vescovo. Lo ripeto esplicita-

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Perciò, proprio perciò, è necessario ricordaretutto, proprio tutto, per poter dimenticare tutto.Insomma, sgravarsi, sradicare, rimuovere tutto,affinché tutto, definitivamente e senza lacrime,requiescat in pace.

Per quanto direttamente mi riguarda, spero, senon mi ha ucciso il morso della tarantola nera del-l’amore, che non mi uccida il rimorso, come capi-ta, a volte, a qualche giovane femmina di Arasolè,frustrata dal sesso, col tabù sessuale, che vienemorsicata, d’estate, da un inesistente ragno vele-noso, l’argia, il latrodectus tredecim guttatus, mai esi-stito nel mio villaggio contadino. È una giustapunizione erotica per espiare il rifiuto alla inizia-zione sessuale.

Ma, a me, cosa capiterà, per colpa della mia pec-caminosa storia d’amore con Eva? Niente. Duevermi verranno a fare l’amore dentro il mio te-schio. Forse.

***

A piedi, pedibus calcantibus, dal campanile diArasolè si arriva in meno di un’ora al campaniledi Sarrok. Quando ancora non era sorto il polo disviluppo industriale e c’era soltanto una grandetanca di cisto e di lentischio, ci venivamo, io e la

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Di questo Dio, nonostante tutto, sono ancorasacerdos in aeternum, servitore in eterno, con quel-la paura e quella castità che sono, ormai, due fio-ri secchi sull’altare di questa bituminosa catte-drale nel deserto, dove ancora trascino, fra dispe-razione e speranza, il mio triste itinerarium mentisin deum, il mio triste viaggio verso la santità.

Ed, ecco, che sono ricaduto nella metafisica. Ec-co che di nuovo mi nascondo dietro un dito. Scu-satemi. In realtà, sono un grande bugiardo. La bu-gia ce l’ho dentro la testa, connaturata talmenteda sembrare verità. Ho detto, dunque, un sacco dibugie, soprattutto per quanto attiene ai fatti nar-rati in questo diario.

Solo per quanto riguarda i luoghi, dal momentoche possono essere reperiti in qualsiasi carta geo-grafica, non ho detto bugie: anche se, dopo quan-to ho svelato sulla mia personalità, Arasolè e Sar-rok, così come li ho descritti, possono essere autcompletamente veri aut completamente falsi.

Anche per quanto riguarda i tempi in cui si so-no svolti i fatti, per forza di cose, non ho potutodire bugie: nel presente secolo e nel nostro borea-le emisfero, c’è stata una sola eclissi totale di soleche, casualmente, ha coinciso con l’eclisse della ci-viltà contadina di Arasolè e l’avvento della societàindustriale a Sarrok.

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sughero, cambiano pelle le lucertole fra le crepe deimuri di basalto.

Era proprio allora che Eva ed io, come piccoli id-dii, lasciavamo la piazzetta sotto il campanile diArasolè e venivamo qui a celebrare la nostra festa,i nostri divini giuochi: gli zufoli di canna, le trot-tole di ghianda, le croci di pervinca, i lacciuoli difieno, i carretti di sughero, i buoi di granoturco, icavalli di ferula col fiocco rosso in testa.

Qui, in questo luogo, cominciò la mia storiad’amore. Devo dire, però, che ho mentito quandoho raccontato l’episodio di Adamo ed Eva che, dapiccoli, si toccarono, a vicenda, il piselletto e latoppettina, per giuoco. Certo, l’avrei voluto fare,quel giuoco erotico, perché ero pieno di curiosità.Ma ero, anche, un frustrato e non lo feci. Eva, leisì che me lo toccò, quando si spezzò la cinghiache reggeva i miei pantaloncini: il mio piccoloaratro, duro ed eretto, uscito fuori alla luce del so-le, andò a finire tra le mani della piccola, mali-ziosa Eva.

Ecco come son fatto. Vi ho già avvertito: sonoun grande bugiardo. La fichetta di Eva, purtrop-po, per me, rimase tabù. Del resto, allora, ero tan-to scemo che non mi guardavo nemmeno l’ombe-lico: ero convinto di non averlo, come il mio an-tico omonimo, quello del Paradiso Terrestre, fi-

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piccola Eva, a cercare la madre del sole, Maria Fi-lonzana, tessitrice dei raggi di sole.

È una donna altissima e dorata. Cammina e tes-se con innumerevoli dita. Tesse e cammina con unpasso che batte come un’ala. Cammina, tesse e can-ta con le gole degli uccelli e con l’acqua dei ru-scelli.

Solo i fanciulli hanno la felicità di poterla vede-re. Ai grandi non è dato di vederla, mai. I fanciul-li, invece, vedono e toccano i suoi fili dorati ste-si sulla tanca verde, gli innumerevoli fili sparsiattraverso i sentieri come lacciuoli per farfalle, ifili dorati che allacciano i pallidi asfodeli ai cardiazzurri, il cisto al lentischio, la ferula al mirto,l’elce alla sughera.

La madre del sole arriva, d’improvviso, dal ma-re, quando s’alza il vento del Sud. Non c’è una da-ta fissa. Può arrivare in aprile o marzo, a volte an-che a febbraio. Al suo arrivo accadono fatti straor-dinari per i cuori in tumulto dei fanciulli conta-dini: si spiana il volto rugoso del vecchio nura-ghe, giunge la rondine bianca e nera a costruire illetto nuziale per la sua luna di miele, si tingonodi rosa i ciliegi e di bianco i mandorli, si riapro-no gli occhi chiusi dei sarmenti nelle vigne, ga-loppano di lussuria gli steli verdi del grano, si sve-gliano le api addormentate dentro gli alveari di

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Giustamente, Dio, nella sua infinita saggezza,ha fulminato Onan, il sacerdote che, pur giacen-do nel letto accanto alla Sua sposa nuda, continuòla sua ars coeundi cum suis quinque digitis, cioè se-guitò a far l’amore solitario con la propria mano.

***

Natura morta cum figura: sullo sfondo, il cielonero dell’eclisse e, in primo piano, Eva che ema-na una luminosità fluorescente, come le aureoledelle sante lievitanti nelle pale d’altare di oscurechiese gotiche.

Ma procediamo con ordine. In primis et ante om-nia, prima di tutto, Don Adamo viene colpito dal-l’odore, l’inconfondibile odore di Eva, quell’odoreche, già un’altra volta, gli aveva tolto il respiro, si-gnum Veneris, indizio di Venere, l’odor di fica, l’e-lisir di lunga vita, secondo gli uomini di Arasolè.

Forse, è stata la paura dell’eclisse a spingere Evafino al campanile di Sarrok o, forse, nuovamente,il lamento funebre del carnevale pazzo o, forse,l’amore. Forse.

Ora è lì. Il suo vestito rosso è una fiamma nell’o-scurità. Sine dubio, certamente, l’omonimo di DonAdamo, nel Paradiso Terrestre, è passato attraversoquesta fiamma, prima di mangiare la mela.

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glio di nessuno, anche lui, figlio senza madre, ba-stardo, come me.

Comunque, nonostante le mie frustrazioni ri-guardo alla vagina della donna, non ho alcunadifficoltà ad ammettere che l’uomo di lì è venutoe lì deve, di necessità, ritornare, per salvarsi dallasolitudine e dal terrore della esistenza.

Non c’è salvezza se l’uomo non torna ad essereciò che deve essere: un seme, una vita dentro un’al-tra vita, un essere unico, non scisso, uomo dentrola donna, com’è naturale e sacrosanto che sia. Unuomo fuori dalla donna è nulla. Unito, accoppia-to, annodato, intrecciato con la donna, completa-mente incastrato dentro la donna, l’uomo contienein sé la vicenda di tutto l’universo, come il semedel grano, dentro la terra, contiene tutto il cibo delmondo.

Da ciò, a pensarci bene, la mia inautenticità, lamia disperazione, la mia solitudine esistenziale,deforme e contronatura, di prete cattolico-aposto-lico-romano, l’unico essere umano che interrompela catena che lega chi è nato a chi nascerà, l’anellodi carne che lega una generazione all’altra, il pas-sato al futuro, il finito all’infinito, l’unico essereumano che non impiega il seme che ha a disposi-zione per far scaturire, dalla propria vita, un’altravita.

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crisantemo putrefatto, che provoca, in me, unainsopportabile nausea ma che, al contrario, scate-na in Eva un godimento sfrenato, incendium libi-dinis, un terribile innalzamento della sua tempe-ratura sessuale. Annusa golosamente la mia nau-seabonda nudità. Annusa e mugola. La sento gan-nire e belare, come una capra bianca alle prese conun nero caprone, nei salti di Arasolè.

Don Adamo, improvvisamente, con terrore, ca-pisce che sta per aver termine il primo atto dellasua farsa di bambinello lattante. La verecondamaestrina di Arasolè, con improvvisa violenza,staccandolo dalla sua mammella, lo spinge versoaltre parti del suo corpo, ad secretas partes corporis,il suo ventre caldo come il sole, i suoi glutei, im-porose galassie lattescenti, le sue gambe, alte e sa-cre colonne di una cattedrale cosmica.

Stentatamente, la mia biscia, subdola e viscida,striscia verso il tabernacolo del pube: Eva è aper-ta, come un fiore notturno, jasminum nocturnum,con i petali rossi in attesa della rugiada.

Insomma, la vergine folle intende portare a ter-mine l’ultimo atto dell’eterna commedia umana,il summum bonum, il gran finale, quello che, in se-minario, con sacrilega ironia, chiamavamo l’ente-lechia cartesiana: coito ergo sum.

A questo punto, però, la farsa di Don Adamo

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Sia lecito dire che il pallido divoratore di ostie,il bastardo asceta, mai e poi mai avrebbe sospet-tato che il nudo femminile fosse così infinitamen-te bello se Eva, senza aprire bocca, non avesse la-sciato cadere ai suoi piedi il rosso vestito: naturamorta cum figura nuda, eccetera, eccetera, esclamasconvolto Don Adamo.

Il fantasma delle sue notti è lì, diventato carne,verbum caro factum, idea diventata realtà, nel cielomisterioso dell’eclisse, simile alla figura umanadentro il cerchio divino che un folle poeta ha vi-sto, nel Paradiso, prima di finire fulminato.

Don Adamo si avvicina a quella tremenda nu-dità e si aggrappa, come un lattante, alle mam-melle di Eva, tonde come la luna.

Laetata est anima mea. Senza sottrarsi alla miaviolenza di lattonzolo, Eva, teneramente, accostaalla mia bocca il suo turgido capezzolo, mormo-rando: – Succhia, succhia, piccolo figlio mio.

Poi, sussurrando, piano piano, parole materne esenza senso, come a calmare la mia trepidazionedi bambino ansioso, fa uscire, ad uno ad uno, da-gli occhielli del mio lungo abito talare, gli infi-niti bottoni che imprigionano il mio corpo. In-somma, mi spoglia.

Dalla mia carne nuda si sprigiona un grottescoodore di giglio vergine, di cera, di sagrestia, di

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tante e non membro dritto, duro e luminoso, diuomo in erezione.

Il pretonzolo si trova nella medesima situazionedi un pittore che, a lungo, ha dipinto donne nu-de, tratte dalla sua fantasia erotica, ma quando sitrova davanti una modella in carne ed ossa, perl’emozione, gli cade il pennello di mano.

In realtà, Don Adamo, nel campanile di Sarrok,desidera e, allo stesso tempo, teme di volare e dicadere. Così come, da fanciullo, la mano nella ma-no della piccola Eva, desiderava e temeva di vola-re e di cadere dal campanile di Arasolè, con in più,ora, la consapevolezza che volare e cadere sono,contemporaneamente, desiderio dell’atto sessualee paura di non poterlo portare a compimento.

C’è una vecchia fattucchiera, ad Arasolè, esper-ta in malie a pro di mariti cornuti, cioè compe-tente in sortilegi adatti a restituire la perduta po-tenza sessuale: è indegno alla mia etica professio-ne, lo so, ma bisogna pure che Don Adamo si de-cida ad andare dalla vecchia maliarda per farsi re-citare addosso lo scongiuro delle dodici paroleproibite, illicita verba, che ridanno la virilità.

Intanto, ancora una volta, quel bastardo di DonAdamo ricorre al vecchio armamentario della teo-logia per giustificare la sua incapacità, la sua impo-tentia coeundi. Enumera alla vergine folle quattro

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diviene tragedia. Finché il rapporto con Eva si li-mita alla poppata, tutto funziona a meraviglia.Ma quando la giovane donna vuole trasformarsi,secondo natura, da madre in moglie, matrimonioper usum coniuncta, il cuore del povero prete cadein preda all’aritmia. Il respiro rallenta o acceleracon ritmo disordinato e il tam-tam cupo del cuo-re rimbomba dal campanile fino all’alto dei cieli,dove il sole e la luna, felicemente accoppiati, sigodono l’ultima fase del loro orgasmo.

Naturalmente, quel bastardo di Don Adamo,sul più bello, nel momento cruciale, si fa venireun attacco di nevrosi asmatica, proprio in procin-to dell’assalto finale, infinite volte prefiguratocon vittorioso coito, durante le sue notturne eser-citazioni con Eva.

Il suo aratro (chiamiamolo pure così, anche se lametafora non sembra essere, ormai, molto calzan-te) è un inutile arnese. Fa ridere. Fa ridere e pian-gere. Un utensile ridicolo, comico allo stato puro.

La giovane donna che gli sta tra le braccia, inve-ce, femina gratia plena, è disponibile, pronta, comeuna tavola apparecchiata, colma di cibi sostanzio-si, troppo sostanziosi per uno stomaco delicato,come il mio. Il suo sesso cresce, grida: grandi lab-bra spalancate in attesa di nutrimento. Solo il miosesso non cresce, è assoluto silenzio: pisello di lat-

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dell’imitazione, cioè che la sua verga maschile en-tri in gara con la virga feminea.

Ma è una vana speranza. L’unica risposta all’ecci-tazione di Eva, ancora una volta, è un altro queru-lo attacco d’asma infantile. Ecco cosa accade quan-do due rette parallele, destinate a non incontrarsimai, invece s’incontrano ai limiti dell’infinito: l’e-clisse, impotentia imago mortis, il nulla.

Bene. Il teologo incatramato non demorde. Conuna totale assenza di carità, comunica ad Eva unasua ennesima teoria per legittimare la propria ste-rilità: sicuramente, sine dubio, la donna in calore èun mostruoso fiore di carne, una pianta carnivo-ra, femina cum vagina dentata, predisposta a far pri-gioniero il fallo, penis captivus, morderlo e divo-rarlo. (Ahi, tu, Don Adamo, sacerdos in aeternum,bastardo, sepolcro imbiancato, figlio di puttana,becco, caprone, scarafaggio, gallo di sagrestia,aratro petrolchimico!).

Comunque, bene o male, a un dato momentodell’eclisse e nello stesso preciso istante, vengonoportati a termine tre orgasmi: l’orgasmo asmaticoe turpe del povero prete, l’orgasmo disperato emonco della sua malfatata sposa e l’orgasmo apo-calittico e felice del sole e della luna che hannoconcluso il loro astronomico amplesso.

Quando ricompaiono le rosse protuberanze del-

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miserabili cause metafisiche sulla mancata immissiopenis in vaginam, sulla fallita penetrazione dell’ara-tro dentro la buona terra: 1) il tabù della mela e delserpente nel Paradiso Terrestre; 2) il panico per lamantide religiosa, la vedova nera che, dopo il coi-to, uccide il maschio; 3) il terrore per la mulier iper-gamica, la ninfomane assatanata, col diavolo in cor-po, che prolifica bastardi con la coda, come me; 4)l’inquinamento, turpis defecatio, del Dio Petrolioche trasforma il sesso maschile in oloturia molle.

A dir tutta la verità, mentre mi diletto ad enu-merare le mie tesi sulla teologia del sesso, la miainfuocata sposa, senza darmi il minimo ascolto,continua ad esplorare la mia nudità, mi lecca l’om-belico con la sua lingua di pecora impazzita: ahi,mia sposa, ianua coeli, invalicata porta del paradiso!

Ecco che cosa ha Eva, colomba di fuoco, rispet-to a me, corvo nero: la fortuna di amare e, dun-que, di godere, senza paura e senza castità.

Ad onor del vero, bisogna dire che Don Adamonon ostacola mai la follia amorosa della sua caldacompagna: è un oggetto erotico, un feticcio docile.Con grande stupore e non senza l’ovvio confrontocon la sua biscia a testa in giù, Don Adamo, conl’aiuto di Eva, scopre l’omologo femminile del suopene, un meraviglioso clitoride eretto. Per un istan-te, il povero prete spera nella mimesi, nella legge

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C’è solo, per terra, una grande macchia di catra-me. Deo gratias, non sono un uxoricida. Sono sol-tanto un vigliacco. Se non fossi, appunto, un ba-stardo vigliacco, a quest’ora, avrei gettato la tona-ca alle ortiche e mi sarei sposato, matrimonio co-niunctus, con Eva.

Un autobiografo pentito, dopo aver scritto cer-te sue orribili cose, così ha concluso: Scrivo questepagine che nessuno leggerà, perché spero di avere tantalucidità da distruggerle prima della mia morte.

Bravo, ipocrita! Per conto mio, invece, le miecose impudiche, facta pudenda, ci tengo che ven-gano conosciute e le ho messe tutte, proprio tut-te, dentro queste pagine ma ho disposto che ven-gano pubblicate postume: insomma, non me nefrega niente di salvare la faccia dal momento che,quando saranno conosciute, sarò già morto.

Per ora, sono ancora vivo. Il futuro ha il cuoredel passato e, dunque, se mi è lecita un’ultimametafora, ognuno di noi è un chicco di grano chegermoglierà chissà quando e chissà dove.

Perciò, non fatevi venire l’idea di conoscere l’e-pilogo di questa storia. Toglietevela subito dallatesta. Nemmeno io so come andrà a finire. Il bel-lo della vita è che, a differenza dei libri, non sipuò mai scrivere la parola fine.

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la cromosfera solare e il primo raggio di sole se-gna la fine dell’eclisse, Don Adamo si ritrova so-lo, completamente solo, nella cella campanaria.

Epilogo

Rebus sic stantibus, così stando le cose, c’è un’av-vertenza: è proibito, non licet, è fatto assoluto divie-to, a chiunque, di volersi riconoscere nel protago-nista di questa narrazione. Se qualche ministro diDio, putacaso, ritiene di potersi identificare, bene,si tolga immediatamente dalla testa questa idea,perché l’originale è, naturalmente, il sottoscritto.

D’altronde, Don Adamo ha detto un sacco dibugie, riguardo ad Eva. Per esempio, non c’è l’as-soluta certezza che la giovane maestrina dal vesti-to rosso, durante l’eclisse, abbia lasciato Arasolè esia venuta a Sarrok, per trastullarsi con me, in ci-ma al campanile.

Rimane il fatto, però, che quel bastardo di DonAdamo, immediatamente dopo la fine dell’eclis-se, si è messo a guardare giù per vedere se, ai pie-di del campanile, c’è qualche nudo di donna sfra-cellato al suolo: insomma, vuole verificare se Evasi è gettata volontariamente o se è stato lui stessoa spingerla giù.

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Notizia sul testo

Il romanzo che in questa edizione viene ripropo-sto all’attenzione dei lettori venne pubblicato per laprima volta nel 19851. Altro era il titolo originale, IlDio Petrolio, qui riportato fra parentesi sul frontespi-zio sotto quello nuovo: Il parroco di Arasolè.

A motivare la scelta di una nuova intitolazionebasterebbe qui dichiararne la volontà d’autore2, sen-nonché quella scelta ha il vantaggio di certificare,appunto fin dal titolo, i molteplici legami tra questanon notissima prova di Masala ed il resto della suaproduzione; correlandola a quello che potrebbe defi-nirsi il “sistema Masala” (che si esprime per la coe-rente ricorrenza di grumi tematici, al limite di uninstancabile e sorprendente autoplagio). Il nuovo ti-tolo palesa la contiguità e la continuità rispetto allapiù nota opera masaliana, il romanzo Quelli dalle lab-bra bianche3, a partire dalla quale il paese di Arasolèsi è imposto come paradigmatico villaggio universaledella moderna narrativa sarda. Autore ed Editore s’il-ludono, poi, che il nuovo titolo sia portatore, oltre-

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toriali presenti, previa approvazione d’autore): tratti-no (–) per il discorso diretto in luogo delle virgolet-te uncinate (« »); corsivo per termini tra virgoletteuncinate; eliminazione di virgolette in alcuni termi-ni (es. bue e cacciavite, p. 20); È per E’.

Pochi interventi hanno riguardato la grafia e l’ac-centazione dei termini sardi: muliache per muliàke;Cocoi per Cocòi; Filonzana per Filonzàna.

Giancarlo Porcu

Note

1 Francesco Masala, Il Dio Petrolio, Cagliari, Edizioni Castello. Poiriproposto in: Id., Opere, Quartu S. Elena, Alfa Editrice, 1993, vol. I:pp. 84-158.

2 Già approdata con una soluzione simile alla presente nel titolo dell’edizione francese: Le curé de Sarrok [Il parroco di Sarrok], Arles, Actes Sud, 1989.

3 Francesco Masala, Quelli dalle labbra bianche, Milano, Feltrinelli,1962; ora: Nuoro, Il Maestrale, [1995], con prefazione di Natalino Piras.

4 Id., lettera a Il Maestrale del 13 luglio 2001.5 Id., Opere, cit.6 In contesto che ammette soltanto un che di valore relativo.7 In: la lingua dei padroni è la lingua dei vincitori (O); proposizione

quanto mai fuori dal “sistema Masala”.

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ché di maggiore evocatività, di una più spiccata let-terarietà (che è un fatto anche liminare, paratestua-le), per il superamento dell’originaria denominazio-ne da testo a tesi (ciò che almeno potrebbe interessa-re i futuri studiosi dell’estetica della ricezione).

Il testo qui riproposto è essenzialmente quello del1985. Se ne differenzia per un’aggiunta d’autore (pp.45-46; capitoletto che principia con Nel bel mezzo del-l’eclisse e termina con SARROK): un altro onanismo ce-rebrale del povero Don Adamo, sulla condizione fallica deisuoi antenati nuragici4.

Sulla base del testo pubblicato in Opere5, si è pro-ceduto ad eliminare i refusi (O=Opere; M=Maestrale):

O M

p. 89 fami 12 farmi91 di buon grado, 15 di buon grado127 ché 67 che6

129 è 70 e7

129 lingua, degli ammalati 70 lingua degli ammalati135 ieaculavit 79 eiaculavit141 una inventio 87 una inventio151 Lei si che 101 Lei sì che155 illìcita 107 illicita

Altri interventi sono di natura per lo più grafica(soprattutto di adeguamento del testo ai criteri edi-

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Opere

POESIA:Pane nero, con prefazione di G. Titta Rosa, Siena,

Maia, 1956.Il vento. Pane nero, Siena, Maia, 1961.Lettera della moglie dell’emigrato (poesie), Milano,

Feltrinelli, 1968.Storia dei vinti, Milano, Jaca Book, 1974.Poesias in duas limbas, Milano, Scheiwiller, 1981, 19932.

NARRATIVA:Quelli dalle labbra bianche, Milano, Feltrinelli, 1962.Il Dio Petrolio, Cagliari, Edizioni Castello, 1986.

TEATRO E RADIODRAMMI:Quelli dalle labbra bianche [riduzione teatrale in col-

laborazione con il regista Giacomo Colli], Cagliari,«I Quaderni del CIT», [1974].

Su connottu [dramma popolare bilingue, in collabora-zione con Romano Ruju e col regista Gianfranco Mazzoni], Cagliari, Coop. Teatro Sardegna, 1976.

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Traduzioni

IN SPAGNOLO:da Pane nero, a cura di Librado Basilio in «El caracol»,

Città del Messico, marzo-aprile, 1956.

IN CROATO:Kljeb ciorni [Pane nero], a cura di Ante Cetineo, in

«Knjzevne Novine», Spalato, 1956.

IN RUSSO:Poeti italiani, a cura di Surkov, Mosca, Edizioni Let-

terature straniere, 1956.

IN UNGHERESE:Azok a fehérajkúak [Quelli dalle labbra bianche], a cura

di Zoltán Héra e Jenó Faragó, Budapest, Edizioni Europa, 1975.

A fehérajkúak, traduzione di Lukacsi Margit, Budapest,Editrice Noran, 2000.

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Carrasegare [dramma popolare bilingue, in collabora-zione col regista Gianfranco Mazzoni], Cagliari, Coop. Teatro Sardegna, 1978.

Emilio Lussu, il capotribù nuragico [radiodramma bi-lingue], RAI 1979, in «La Grotta della Vipera», a. V, n. 16-17, primavera-estate 1980.

Gramsci ovvero l’uomo nel fosso [radiodramma bilingue],RAI 1981.

Sigismondo Arquer, al rogo! [radiodramma], RAI 1987.

SAGGISTICA:Il riso sardonico, Cagliari, GIA, 1984.Storia del Teatro Sardo, Quartu S. Elena, Alfa Editrice,

1987.S’istoria (Condaghe in limba sarda), Quartu S. Elena,

Alfa Editrice, 1989.Storia dell’acqua in Sardegna, Cagliari, EAF, 1987.Sa limba est s’istoria de su mundu, Cagliari, Condaghes,

2000.Manifesto della gioventù eretica del comunitarismo e della

Confederazione politica dei Circoli, (con Eliseo Spiga e Placido Cherchi), Cagliari, Zonza, 2000.

Opere, Quartu S. Elena, Alfa Editrice, 2 voll., 1993 [contiene: Quelli dalle labbra bianche, Il Dio Petrolio,S’istoria, Il riso sardonico, Storia del Teatro Sardo, Storiadell’acqua in Sardegna, Poesias in duas limbas, Sos la-ribiancos].

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Fra storia e autobiografia

Sono nato in un villaggio di contadini e di pastori,fra Goceano e Logudoro, nella Sardegna settentriona-le e, durante la mia infanzia, ho sentito parlare e hoparlato solo in lingua sarda: in prima elementare, ilmaestro, un uomo severo sempre vestito di nero, ciproibì, a me e ai miei coetanei, di parlare nell’unicalingua che conoscevamo e ci obbligò a parlare in lin-gua italiana, la «lingua della Patria», ci disse. Fu co-sì che, da vivaci e intelligenti che eravamo, diven-tammo, tutti, tonti e tristi.

In realtà, la lingua sarda è il linguaggio del grano,dell’erba e della pecora ma è, anche, la lingua dei vinti:nelle scuole, invece, viene imposta la lingua dei vincito-ri, chiamiamola pure il linguaggio del petrolio e delcatrame, cioè la lingua della borghesia italiana delNord, che ha concluso il Risorgimento colonizzandoindustrialmente il Sud ma convincendoci di aver uni-ficato la Patria. È proprio vero che, in Sardegna, gliunici «italiani» sono gli «intellettuali», che parlano in«italiano» ma mangiano in «sardo».

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IN FRANCESE:Epitafe pour un voleur de betail [Epitaffio per un

abigeatario], a cura di Claude Schmitt, in «La Nou-velle Revue Francaise», Parigi, Aprile 1982.

Le braconnier et autres poèmes de Sardaigne [da Storia dei vinti e da Poesias in duas limbas], a cura di Savina Lella e Claude Schmitt, Arles, Actes Sud Nyssen Editeur, 1984.

Le curé de Sarrok [Il Dio Petrolio], a cura di Alain Sar-rabayrouse, Arles, Actes Sud Nyssen Editeur, 1989.

Europoésie 90, Namur, Sources, 1990.Histoire d’amour [Il vento], a cura di Marc Porcù, Ate-

lier de Poésie de l’Université de Saint Etienne, 1992.Ceux d’Arasolé, Paris, Zulma, 1999.

IN POLACCO:da Poesias in duas limbas, in Collected translation from

world poetry, a cura di Jerzy Wielunski, Lublin, Tristana, 1992.

IN BRASILIANO:da Poesias in duas limbas, a cura di Mario Gardelin,

Università Caxias do Sul do Brasil, 1992.

IN CATALANO:Pà negre [da Poesias in duas limbas], a cura di Antoni

Arca, Edes/Apeus, 1993.

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plausi, in appoggio all’oratoria epica e colloquiale delMussolini, soltanto perché c’era la possibilità di riem-pire di «diciotto» il libretto d’esami, senza aprire nélibro né bocca.

A pensarci bene, però, la guerra mi tolse, per cosìdire, dagli occhi, le bende di due retoriche ufficiali:da un lato, quella della «eroica piccola patria sarda»e, dall’altro lato, quella della «grande imperiale pa-tria italiana».

A scanso di equivoci, prima di andare oltre, ancheper evitare, nuovamente, l’accusa di traditore della pa-tria, mette conto di dire che, la guerra, l’ho veramentefatta, sono stato decorato al valor militare, sono statoferito in combattimento sul fronte russo, cioè, comecomunemente si dice, ho versato il sangue per la patria.Ma mi è capitato ciò che già capitò a mio nonno, gam-badilegno, che perdette la gamba destra nella Battagliadi Custoza, durante la Terza Guerra d’Indipendenza:anche la mia intrepida gamba destra si è beccata la suaeroica pallottola, russa, stavolta, là, fra il Dnepr e ilDon. Voglio dire, insomma, che io e mio nonno, am-bedue di nazionalità sarda, abbiamo fatto le guerre ita-liote da leali sardi, s’intende, eroi buoni, in tempo diguerra, ma cattivi banditi, in tempo di pace: in guerra,nelle patrie trincee, in pace, nelle patrie galere.

In compenso, se compenso c’è, in Russia cominciaila stesura del mio «bellico» romanzo, Quelli dalle lab-bra bianche, scoperto e pubblicato, molti anni dopo,da Giangiacomo Feltrinelli, buonanima, quando, ve-

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In uno spiazzo, vicino alla scuola elementare, il mae-stro vestito di nero fece piantare un certo numero dialberelli e lo denominò «Parco della Rimembranza».Ogni alberello fu dato in consegna a un balilla-guar-dia d’onore. Io ebbi il mio alberello da guardare, sulmio onore. Un bel giorno, una capra, penetrata nelParco della Rimembranza, si avvicinò al mio alberelloe cominciò a scorticarlo. Io, forse perché ero tonto operché avevo paura delle capre, non ebbi il coraggio dicacciarla via e la capra si divorò tutto l’alberello. Ilmaestro, severamente, in piena classe, mi chiamò tra-ditore della patria e mi licenziò da guardia d’onore, congrossi paroloni, tutti naturalmente in lingua italiana.Io, altrettanto naturalmente, non capii i paroloni ma,da quel giorno, mi sentii disonorato. Ovviamente, inme, cominciarono a nascere delle riserve sul concettodi patria.

Comunque, la mia carriera scolastica (dalle elemen-tari del mio villaggio contadino fino all’università, aRoma, l’Urbe) mi ha lasciato bilingue: cioè, voglio di-re, è stato l’itinerario di un antico fanciullo agro-pa-storale verso la piccola borghesia cittadina, alloradeformata, gonfiata, travestita dalla retorica del fasci-smo.

Ero sotto il «balcone» di Palazzo Venezia il 10 giu-gno 1940, il giorno in cui il «duce», con una orazio-ne alla finestra, trascinò l’Italia e la Sardegna nella se-conda guerra mondiale: noi studenti dell’Università diRoma facevamo un casino del diavolo, con grida e ap-

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Segni, futuro presidente della Repubblica Italiana,chiedeva reiteramente la ricostituzione delle Compa-gnie Barracellari, il Bargello campestre, soppresse dalfascismo: era seriamente preoccupato per i ladri di gal-line, che si aggiravano nella sua tenuta, Sa Crucca.

Era il dolce tempo in cui il giovane esploratore cat-tolico Francesco Cossiga succhiò la prima caramellademocristiana, offertagli dal «Cugino», e succhiandosucchiando arrivò al Quirinale. Ed era, anche, il tem-po in cui un altro «cugino», il giovane missile comu-nista Enrico Berlinguer, dalle rampe della prigionepolitica di San Sebastiano, andò ad atterrare in viadelle Botteghe Oscure.

Ma ci fu anche qualche divertimento. Alle elezioni,un candidato, certo avvocato Marche, oriundo italiota,in un comizio a Sassari, davanti a ventimila persone, perottenere voti promise un ponte di ferro fra Olbia e Civi-tavecchia. Fece la fine di Sant’Andrea che, legato allacroce, con una orazione, tenne avvinte ventimila perso-ne: ma nessuno lo liberò. Il candidato-oriundo, a Sassa-ri, tenne avvinte ventimila persone: ma nessuno lo votò.

Il giorno 8 maggio 1949 fu eletto il primo Consi-glio regionale della Regione Autonoma della Sarde-gna. A me non piace la «storia», i libri di storia in-tendo, perché essi sono, sempre, «storia dei vincitori»:in questo senso la Storia, come dire, è una grande tap-patrice di buchi. Andate a leggervi la Storia dei tren-t’anni di autonomia per la Sardegna, scritta da quattrostorici, pubblicata a spese della Regione Autonoma,

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nuto in Sardegna, da bravo milanese, confuse la miaisola con l’isola di Cuba.

Al mio ritorno in Sardegna, alla fine della guerra,mi capitò di comprendere che, con la caduta del fa-scismo, in sostanza, poco o nulla era cambiato, nellaterra dei nuraghi: capitalismo fascista e capitalismodemocratico, stato accentratore fascista e stato accen-tratore democratico erano la stessa musica, anche se imusicisti erano cambiati.

Con regio decreto, il 27 maggio 1944, fu nomina-to Alto Commissario della Sardegna uno della nostraregione, Pietro Pinna: sardo, sì, ma generale italiota.Comunque, fu una stagione di grandi democratichesperanze, di grandi democratiche promesse, di grandidemocratiche bugie e di grande democratica fame. Ese è vero, come è vero, che la Rockefeller Foundationci liberò dalla zanzara anofele, non è men vero che que-sta liberazione segnò la ricomparsa della sanguisuga,il continentale, il nemico che nuovamente veniva dalmare, non più tenuto lontano dalla paura della mala-ria. I sardi, come al solito, senza sapere che in conti-nente c’era l’inflazione, vendevano ai continentali, alprezzo d’anteguerra, grano, lana, pelli, formaggio.Quando qualcuno se ne accorse, propose di stampi-gliare i Quattro Mori sui biglietti della Banca d’Ita-lia circolanti nell’Isola. Era una forma di separatismomonetario. Forse per questo, appunto, nacque a Sas-sari il Banco di Sardegna.

Intanto, sulle colonne dell’«Unione Sarda», Antonio

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co equestre, come è capitato a un emigrato del miovillaggio, soprannominato Mammutone, a causa dellasua bruttezza e del suo corpo peloso. Esportiamo, pu-re, «sequestratori», anche se non sono più belli, né fe-roci, né prodi, come ai tempi di Sebastiano Satta, co-munque portano l’etichetta «made in Sardinia». E gliintellettuali? Il monolinguismo italiota si è divoratotutto, limba, letteratura, arte, musica, tutta la cultu-ra, insomma, della Nazione Sarda. Il Referendum popo-lare sul bilinguismo giace, morto sotterrato, sotto il cu-lo dei consiglieri regionali. Sembra compito specificodell’intellettuale sardo, oggi, franare ideologicamenteil maggior numero possibile di volte. La frana ideolo-gica - lo diceva Machiavelli - è necessaria per campa-re la vita. Il poeta del villaggio ci ha fatto sopra un al-tro epigramma: «Un tempo ero giovane cane, / senzafune né pane, / ora ho la pancia piena, / son diventa-to un cane da catena».

Ciò premesso, ritorniamo al privato, cioè dalla storiaalla autobiografia. Qualcuno, infatti, potrebbe chieder-mi: «Ma, tu, non fai altro che parlare del villaggio?»Bene, gli risponderò che Tolstoj, Leone Tolstoj, mi hadetto all’orecchio: «Descrivi il tuo villaggio e divente-rai universale; se cerchi di descrivere Parigi, diventeraiprovinciale».

In questi cinquant’anni di «storia di vinti», di«autonomia tradita», di «nazione mancata», mi è ca-pitata la sorte di poter scoprire che, se volevo fare lo«scrittore» e non il pisciatinteri, il pisciainchiostro,

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curata dal Comitato dei Festeggiamenti per il Tren-tennale dell’Autonomia. Gente allegra! Un poeta delmio villaggio mi aveva preavvertito con questo epi-gramma: «Galileo aveva un amico, / come lui scien-ziato, / anche lui, per conto suo, / aveva scoperto / chela terra girava intorno al sole, / ma non disse nulla, /perché aveva moglie e figli».

Il fatto è - diceva Emilio Lussu - che l’Autonomia ènata come un cervo maschio, con le corna. Man manoche è diventata adulta, le corna sono cresciute e ramifi-cate. A trent’anni, chiaramente, l’AUTONOMIA è di-ventata una perfetta ETERONOMIA: raffinerie milane-si, basi militari americane, alberghi musulmani. Dopo duelunghe gravidanze, la Regione ha partorito due «Pianidi Rinascita»: due «Piani», dico, ma la «Rinascita», co-me la Signora Godot, non si è fatta ancora viva.

Alla fine dell’Ottocento, cioè dopo la cosiddetta«unità» delle patrie, la Sardegna, tosata e munta daiformaggiai continentali, veniva chiamata, con unasimilitudine agro-pastorale, la «pecora d’Italia»: ora,alla fine del Novecento cioè dopo la cosiddetta «au-tonomia» regionale, la Sardegna, violentata e inqui-nata dal Dio Petrolio, la possiamo tranquillamentechiamare, rispettando la similitudine agro-pastorale,una «forma di formaggio marcio». Altra legna vienepiantata e importata in Sardegna.

In compenso, l’Isola esporta «emigranti» che, aonor del vero, trovano tutti lavoro, fuori casa, qua-lunque lavoro, magari facendo lo scimpanzé in un cir-

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INDICEnon dovevo fare il «pifferaio dell’universo»: era me-glio fare quello che i francesi chiamano l’avvertisseurdel villaggio, una specie di cane da caccia, con la co-da dritta indietro e il muso dritto in avanti, per fiu-tare e scovare la volpe nascosta. Mal me ne incolse:gli insocatores mi hanno preso al laccio e sono diven-tato un mammutone.

Mi è di consolazione un ultimo epigramma del poe-ta del mio villaggio: «C’è un momento, / nella storiadi ognuno di noi, / in cui se tu dici / che due più duefa quattro, / ti crocefiggono. / L’importante è di nonsapere / quanto soffre colui che è messo in croce, / l’im-portante è sapere / se, veramente, sì o no, / due più duefa quattro».

L’importante è che la terra continui a girare, nonostan-te il parere contrario del Tribunale dell’Inquisizione.

Francesco Masala

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INDICE

007 Il parroco di Arasolè113 Notizia sul testo di Giancarlo Porcu117 Opere119 Traduzioni121 Fra storia e autobiografia

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Volumi pubblicati:

Tascabili

Grazia Deledda, ChiaroscuroGrazia Deledda, Il fanciullo nascostoGrazia Deledda, Ferro e fuocoFrancesco Masala, Quelli dalle labbra biancheEmilio Lussu, Il cinghiale del DiavoloMaria Giacobbe, Il mareSergio Atzeni, Il quinto passo è l’addioSergio Atzeni, Passavamo sulla terra leggeriGiulio Angioni, L’oro di FrausAntonio Cossu, Il riscattoBachisio Zizi, Greggi d’iraErnst Jünger, Terra sardaSalvatore Niffoi, Il viaggio degli inganniLuciano Marrocu, FáulasGianluca Floris, I maestri cantoriD.H. Lawrence, Mare e SardegnaSalvatore Niffoi, Il postino di PiracherfaFlavio Soriga, Diavoli di NuraiòGiorgio Todde, Lo stato delle animeSalvatore Niffoi, CristoluFrancesco Masala, Il parroco di ArasolèMaria Giacobbe, Gli arcipelaghi

Narrativa

Salvatore Cambosu, Lo sposo pentitoNatalino Piras, La Mamma del Sole

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In coedizione con Edizioni Frassinelli

Marcello Fois, Sempre caroMarcello Fois, Sangue dal cielo

Marcello Fois, NullaFrancesco Cucca, Muni rosa del SufPaolo Maccioni, Insonnie newyorkesiBachisio Zizi, Lettere da OruneMaria Giacobbe, Maschere e angeli nudi: ritratto d’un’infanziaGiulio Angioni, Il gioco del mondoAldo Tanchis, Pesi leggeri

Poesia

Giovanni Dettori, AmaranteSergio Atzeni, Due colori esistono al mondo. Il verde è il secondoGigi Dessì, Il disegnoRoberto Concu Serra, Esercizi di salvezzaSerge Pey, Nierika o le memorie del quinto sole

Saggistica

Bruno Rombi, Salvatore Cambosu, cantore solitarioDino Manca, Voglia d’Africa. La personalità e l’opera di un poeta

erranteGiancarlo Porcu, La parola ritrovata. Poetica e linguaggio in Pascale

Dessanai

FuoriCollana

Salvatore Cambosu, I raccontiAntonietta Ciusa Mascolo, Francesco Ciusa, mio padreAlberto Masala Massimo Golfieri, Mediterranea

I Menhir

Salvatore Cambosu, Miele amaroAntonio Pigliaru, Il banditismo in Sardegna. La vendetta barbaricina

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