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Panorama Internazionale Il Segretario Generale della NATO Jaap de Hoop Scheffer con l’Ammiraglio Di Paola, Presidente del Comitato Militare della NATO ©NATO Mario Rino Me S iamo da tempo in un contesto generale in cui la globalizzazione fa si che “issues cross bejond borders1 , e che, in linea con la “parola d’ordine dell’interdipendenza 2 ”, ha intrecciato i nostri destini. Per cui turbolenze locali, benché minori, possono coinvolgere, prima o poi, tanti. Come vediamo quotidianamente sui nostri scher- mi, le condizioni dell’economia globale, una delle forze trai- nanti della globalizzazione, stanno cambiando rapidamente, mettendo in discussione l’egemonia degli USA e, più in gene- rale, dell’occidente. Ho detto egemonia ma non leadership, in quanto, l’incidenza del 25% sulla ricchezza globale fa sì che gli USA, grazie alla straordinaria capacità di recupero, continueranno a mantenere il ruolo di “ strategic guarantor 3 di gran parte del potere economico mondiale. Non bisogna dimenticare, difatti, le straordinarie capacità di recupero che gli USA hanno dimostrato nel corso della loro storia. L’ago della bilancia non si è ancora posizionato, ma si percepisce di già la direzione del riorientamento dei nuovi centri di po- tere. Un potere aperto, a “n” dimensioni di una immaginaria rappresentazione spaziale, in cui il military might è una delle componenti della sua rappresentazione spaziale, di rilievo ma non “la” principale. Questo processo è accelerato dagli effetti della guerra al terrorismo, dove alcuni errori nelle linee politico-programmatiche (in Afghanistan si sta rischiando di perdere la vera guerra contro Al Quaeda) hanno inferto duri colpi al prestigio e alla credibilità degli Stati Uniti, sia nel soft che nello hard power 4 . Si è sentito dire molto spesso che il primo aspetto ha risentito le conseguenze del growing divide e il Mediterraneo Il nuovo contesto strategico 9 n. 1 - 2009 Informazioni della Difesa 1 Intervista Seg. Gen. ONU Ban Ki Moon a BBC World del 3feb 2008 al riguardo della crisi in Kenia. 2 Kenneth N. Waltz “Theory of International Politics”, Mc Graw-Hill Boston, 1978, pag.139. 3 Izaki Laidi, “The complexities of a multipolar future”, Financial Times, 23 Oct 2008. Egli afferma anche che “The US will more than ever need to build coalitions. But there will be also competition between poles”. 4 Joseph S. NYE, Jr. “SOFT POWER the means to success in world politics”, pag 78. In questo libro egli sostiene che esercitare il power, nella sua accezione generale, vuol dire far fare agli altri ciò che si vuole: hard power significa farlo con la forza, per contro, il soft power” (la via indiretta del potere, the second face of power) mette in campo la capacità di attrazione.

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Panorama Internazionale

Il Segretario Generale della NATO Jaap de Hoop Scheffer con l’Ammiraglio Di Paola, Presidente del Comitato Militare della NATO ©NATO Mario Rino Me

Siamo da tempo in un contesto generale in cui la globalizzazione fa si che “issues cross bejond borders”1, e che, in linea con la “parola d’ordine

dell’interdipendenza2”, ha intrecciato i nostri destini. Per cui turbolenze locali, benché minori, possono coinvolgere, prima o poi, tanti. Come vediamo quotidianamente sui nostri scher-mi, le condizioni dell’economia globale, una delle forze trai-nanti della globalizzazione, stanno cambiando rapidamente, mettendo in discussione l’egemonia degli USA e, più in gene-rale, dell’occidente. Ho detto egemonia ma non leadership, in quanto, l’incidenza del 25% sulla ricchezza globale fa sì che gli USA, grazie alla straordinaria capacità di recupero, continueranno a mantenere il ruolo di “strategic guarantor”3 di gran parte del potere economico mondiale. Non bisogna

dimenticare, difatti, le straordinarie capacità di recupero che gli USA hanno dimostrato nel corso della loro storia. L’ago della bilancia non si è ancora posizionato, ma si percepisce di già la direzione del riorientamento dei nuovi centri di po-tere. Un potere aperto, a “n” dimensioni di una immaginaria rappresentazione spaziale, in cui il military might è una delle componenti della sua rappresentazione spaziale, di rilievo ma non “la” principale. Questo processo è accelerato dagli effetti della guerra al terrorismo, dove alcuni errori nelle linee politico-programmatiche (in Afghanistan si sta rischiando di perdere la vera guerra contro Al Quaeda) hanno inferto duri colpi al prestigio e alla credibilità degli Stati Uniti, sia nel soft che nello hard power4. Si è sentito dire molto spesso che il primo aspetto ha risentito le conseguenze del growing divide

e il MediterraneoIl nuovo contesto strategico

9n. 1 - 2009Informazioni della Difesa

1 Intervista Seg. Gen. ONU Ban Ki Moon a BBC World del 3feb 2008 al riguardo della crisi in Kenia.2 Kenneth N. Waltz “Theory of International Politics”, Mc Graw-Hill Boston, 1978, pag.139.3 Izaki Laidi, “The complexities of a multipolar future”, Financial Times, 23 Oct 2008. Egli afferma anche che “The US will more than ever need to build coalitions. But there will be also

competition between poles”.4 Joseph S. NYE, Jr. “SOFT POWER the means to success in world politics”, pag 78. In questo libro egli sostiene che esercitare il power, nella sua accezione generale, vuol dire far fare agli

altri ciò che si vuole: hard power significa farlo con la forza, per contro, il soft power” (la via indiretta del potere, the second face of power) mette in campo la capacità di attrazione.

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Il Ministro Francesco Frattini partecipa al Meeting dei Ministri degli Esteri della NATO ©NATOSotto: Vertice NATO - Georgia ©NATO

tra gli USA e “il resto”; ed è proprio qui che la leadership del neo-eletto Presidente intende porre rimedio con la “forza delle idee” anche sulle “alliances to repair”. Se, da un lato, gli effetti della crisi dei subprime ci fanno vedere un mondo sempre più interdipendente, si nota altresì che nelle relazioni internazionali, le interazioni tra gli Stati evidenziano una sor-ta di ritorno della geopolitica del power politics, dove, come sosteneva il neo-realista Hans Morgenthau “politics among nations (is) struggle for power”. Nel mondo multipolare che inizia a schiudersi, il complesso dei paesi BRIC (Brasile, Russia, India,Cina), certi forzieri alimentati da oil&gas reve-nues, e altri importanti attori regionali, sembrano destinati a esercitare ruoli chiave sempre più assertivi. Una prova in-confutabile di quanto detto è fornita dal conclamato ricono-scimento che gli schemi operativi del G8 non si adattano più all’attuale contesto, tanto che l’ambito di partecipazione dei Grandi, dopo una prima ipotesi di allargamento a 14 (G8+ Brasile, India, Cina, Egitto, Messico e SudAfrica), è stato esteso ulteriormente, richiamando la formula decennale del G20. Si spera così che una forte cornice istituzionale di go-vernance globale5, verosimilmente trainata dalla dimensione economica, possa portare, nel lungo termine, a un mondo di interessi convergenti. Qualcuno potrebbe vedere qui un ri-chiamo all’utopia Kantiana della “pace perpetua”. Ma, come vedremo tra poco, dobbiamo essere realistici. È ben vero difatti che, sotto l’egida dell’economia globalizzata, l’intrico, sovente ricercato, di interessi economici\finanziari\industriali che si dipana in reti complesse, contribuisce ad attenuare le situazioni di crisi, ma è altrettanto necessario sottoline-are che esso non si dimostra capace di risolvere le cause di fondo. Nel mondo post-crollo di Wall Street, senza una governance efficace, da realizzarsi con link inter-regionali, con l’engagement degli USA e maggiore condivisione tran-satlantica di oneri e responsabilità, la tentazione a risolvere contese attraverso il ricorso alle armi è valutata in aumento. Più che un wonderful, sembra profilarsi, dunque, un dange-rous world o, nelle parole di Barak Obama “a planet in peril”. La recente crisi Russo-Georgiana ci fornisce una prima av-

visaglia sul profilarsi di un nuovo arco di tensione dal Baltico alla Georgia. E, come diceva Alexis de Tocqueville “in tempi inquieti la parte dello spettatore può essere pericolosa”. Per-tanto, se si vuole rimanere nel Club dei Grandi, non ci si può “estraniare dalla lotta”, altrimenti il declassamento è dietro l’angolo. Nonostante le speranze per un ruolo più assertivo, sorretto da autorità e credibilità, le Nazioni Unite sottoposte alle sfi-de delle dinamiche di un ordine o, forse meglio, disordine, appaiono in affanno, di fatto incapaci di risolvere spinose problematiche, quali i sempre più probabili conflitti intra-sta-tuali a fronte dei meno probabili conflitti interstatuali. A livello globale, si colgono, da un lato, dei segni incoraggianti, quali il disgelo delle relazioni tra Tokio e Pechino, Pechino e Tai-pei, Islamabad e New Deli, una vera e propria variante nel complesso mosaico delle relazioni interAsiatiche, la derubri-cazione di stati, già definiti “canaglia”, verso connotazioni più blande di “biricchini”. Dall’altro, la stabilità globale è messa in discussione da: - rischi derivanti dal perdurare di processi di riequilibrio strate-

gico in aree cruciali del pianeta, quali il Medio Oriente (Iran – Iraq – Paesi del Golfo), le cui tensioni tendono a scaricar-si sul Mediterraneo (basti pensare alla fragilità del Libano);

- la gestione delle “ambizioni nucleari” (N. Corea, Iran), in cui si alternano alti e bassi;

- difficoltà incontrate nello sforzo di stabilizzazione in Afgha-nistan, in cui l’escalation impressa dall’insurgency, riporta indietro il profilo delle operazioni verso il full combat, con potenziale spill-over verso aree già stabili;

- problematiche di instabilità e insicurezza nel Pakistan, real-tà militare non trascurabile per consistenza (force structure di circa 500.000 persone, che ne fanno il secondo paese contributore di caschi blu) e, soprattutto, per il suo arma-mento nucleare.

Nel frattempo, molti conflitti congelati e\o riedizioni in chiave moderna, nonché nuove e complesse situazioni di crisi si trascinano nel tempo, con possibilità di contagio ed esca-lation. Si pensi al Darfur (una crisi, nell’ambito di una crisi

5 “It will be a world in which multilateral diplomacy and regulation will no longer be a choice. It will be a reality and a necessity. We are all partners now”, Thomas Friedman, The Great Iceland Meltdown, NYT 19 oct 2008.

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più generale secondo linee divisorie Nord-Sud del Sudan6, che si è estesa al Chad), all’instabilità nel Corno d’Africa (in cui spicca la polveriera della Somalia) e nell’area dei Grandi Laghi (Kivu, nella Repubblica Democratica del Congo), alle problematiche irrisolte del “nostro giardino”, nei Balcani Occi-dentali, Caucaso, Moldavia. Benché vi sia stata un’opera di “ammodernamento”, intra-presa a valle dello storico Millemnium Summit del settembre 2000 e che ha interessato la struttura della gestione delle crisi, l’ONU si è rivelata efficace solo quando si è appoggiata a credibili organizzazioni regionali (è il caso dell’intervento della NATO in Bosnia-Erzegovina, della Unione Europea nel processo elettorale nella repubblica Democratica del Congo Kinshasa) o a singole nazioni con responsabilità post-co-loniale (ad esempio, il Regno Unito in Sierra Leone). E qui veniamo alla crescente tendenza al “Regionalismo”, all’inse-gna del principio Regional solutions to regional problems. Nel suo lato positivo, si mettono in risalto la crescita progressiva delle Componenti Regionali dell’Architettura di Pace e Sicu-rezza Africana (APSA) “dell’Iniziativa 5+5 Difesa”, relativa al Mediterraneo Occidentale, il progetto di Unione Per il Medi-terraneo (UPM). Quest’ultima, nella fattispecie, prospetta la fattibilità di uno spazio geo-politico Mediterraneo nell’attuale contesto, marcato, se non proprio dall’assenza, quantomeno da una debole leadership mondiale. Questa linea di tenden-za appare destinata a irrobustirsi, visti i ruoli crescenti nei processi di integrazione sia endogeni, sia nel proprio near abroad. È caso della South African Developpement Com-munity (SADC), in prima linea nell’attuale fase tormentata di power sharing nello Zimbabwe, dell’intensa attività diploma-tica messa in campo dall’Arabia Saudita e dalla Turchia, che si vengono ad aggiungere all’opera sin qui svolta dall’Egitto nella mediazione tra Israele e Autorità Palestinese, e sempre della Turchia nella delicata vicenda del contrasto Armenia-Azerbaigian su Nagorno-Karabach. In un mondo dove sono cadute le barriere e quelle rimaste non sono quelle di prima, è sempre più evidente che la “prossimità geografica è una realtà durevole che sottende la crescente interconnessione”. Quest’u-tima affermazione, alla base del partenariato stra-tegico tra l’Unione Europea, il Mediterraneo ed il Medio Oriente, conferma una realtà geopolitica di oggi: il Mediterraneo. Una realtà di oltre 4.000 Km di larghezza da Est a Ovest, cui si vengono ad aggiungere, nella visione Americana, altri 3.000

Km che inglobano il Mar Caspio, il vicino Medio Oriente, fino all’Asia Centrale Afghanistan. Come si può vedere, siamo ben oltre il concetto di Mediterraneo Allargato, ben descritto dalla prosa lirica di Fernand Braudel7 (Mille choses à la fois... non un mare, ma un susseguirsi di mari... non una civiltà ma più civiltà ammassate l’una sull’altra... un vecchio crocevia... da millenni, tutto è confluito in questo mare, scompigliando e arricchendo la sua storia). Si sa che l’amalgama territorio, potere, capacità di influenza e storia sono gli ingredienti della geopolitica. Partendo dal primo aspetto, quello geografico, alla fine dell’Ottocento, il geografo francese L. Grègoire, trat-teggiando gli elementi salienti dell’habitat mediterraneo, mette in evidenza le due caratteristiche del complesso terracqueo: crocevia (“centro dei movimenti e delle civiltà”), e “passerel-la”, ovvero ambito interconnesso, strutturalmente, attraverso le “tre grandi penisole, Iberica, Italiana e Greco–Turca (che) si protendono verso Sud come ad incontrare l’Africa e l’Asia”. Ne deriva una duplice natura, che si descriverà nel corso della trattazione. Dal punto di vista della geografia politica, il Bacino Mediterraneo, che con le sue appendici euro-africane dell’Atlantico Centro-Orientale da una parte, e del Mar Nero e Vicino Oriente dall’altra, definiamo Mediterraneo Allargato, è ora più coerentemente inteso come un “security complex8”. Questa definizione sovrappone all’ambito geografico un continuum eterogeneo di spinte ed interessi differenti (fatto-ri etnici, religiosi e socio-economici), che hanno generato e possono generare seri ed imprevedibili rischi per la sicurezza dei paesi rivieraschi e del sistema internazionale, ma nel cui ambito si possono trovare anche le soluzioni. Questa teoria trova la sua applicazione dimostrativa nei vari progetti, come “l’Alleanza delle Civiltà”, proposta dal premier L. Zapatero all’inizio del corrente anno, e altre varie iniziative autoctone, quali le attività di cui si è fatto cenno nell’ambito della tema-tica del regionalismo. Nell’aggregato, esse accreditano, sul

6 Di matrice religiosa tra il Nord arabo musulmano e il Sud animista, di natura etnica nel Darfur, regione occidentale di superficie equivalente alla Francia.7 Fernand Brudel “La Mèditerranèe L’Espace Et L’Histoire”, Flammarion, pag. 8-9.8 Secondo il prof. Roberto Aliboni dello IAI, “la teoria dei «security complexes» viene dalla Scuola di Copenhagen. Si veda Ole Waever, Barry Buzan, «An Inter-Regional Analysis: NATO’s

New Strategic Concept and the Theory of Security Complexes», in S. Behrendt, C.-P. Hanelt (eds.), Bound to Cooperate. Europe and the Middle East, Bertelsman Foundation, Gütersloh, 2000, pp. 55-106, nel quale gli autori manifestano scetticismo circa l’efficacia delle relazioni inter-regionali di sicurezza come il “Dialogo Mediterraneo” della NATO e il «Partenariato euro-mediterraneo». Secondo la Scuola di Copenhagen, la fine del rapporto strategico bipolare ha reso le regioni più autonome e meno sensibili ai fattori globali di scurezza. Così, il conflitto arabo-israeliano genera percezioni e problemi di sicurezza diversi in Europa e Medio Oriente. L’Europa desidera una soluzione del conflitto in vista della maggiore stabilità che ne derive-rebbe. I paesi del Medio Oriente percepiscono il conflitto come un vero e proprio problema di sicurezza nazionale. Le agende di sicurezza sono perciò diverse. Ciò complica la cooperazione tra Europa e Medio Oriente in materia di sicurezza e, ancor più, l’instaurazione di un sistema di sicurezza cooperativa”.

Aereo ONU in attività umanitaria in Africa

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piano geostrategico, l’esistenza di opzioni mediterranee per l’uscita dagli stati di crisi. Tuttavia, per poter sperare in un successo, queste “vie” dovranno muoversi in armonia con le politiche di “vecchi” e noti attori, sempre attivi nell’area e indispensabili alla sicurezza regionale. In primis, le Organiz-zazioni Regionali dell’area Euro-Atlantica con i rispettivi par-tenariati “mediterranei”, quindi gli Stati Uniti con il loro ruolo “insostituibile”9 e la Russia, realtà politico-energetica, che non può essere relegata al solo Mar Nero. Né si possono trascurare le potenzialità diplomatico-finanziarie dei paesi del Golfo. I soggetti sono dunque tanti, per cui questo proliferare di iniziative richiede l’impianto di meccanismi operativi che possano consentire sinergie. Il che non è affatto semplice giacché si tratta di mettere in opera processi graduali di de-conflicting, quindi coordinazione e integrazione per ottenere quelli che vengono definiti effetti coerenti. Un caso eloquen-te di queste difficoltà lo troviamo, nel nostro continente, nella non facile interazione, in materia di sicurezza, tra la NATO e la UE. Si parla tanto di complementarità e sussidiarietà ri-spettivamente, ma finora non c’è stata molta sostanza. Tutto ciò potrebbe cambiare con l’atteso e imminente ritorno della Francia nella struttura integrata della NATO; ma vedremo a quale prezzo. Per dare seguiti concreti a questa ineludibile esigenza, visto che siamo tutti in ristrettezze, noi abbiamo proposto l’applicazione di due principi: burden share e com-parative advantage.NATO e UE ci portano ora a un breve inciso sul versante della dimensione Sicurezza, dove il contesto strategico, in rapido divenire, è caratterizzato da:- comparsa dell’energia (e del conseguente approccio a tri

dente su protezione delle infrastrutture, trasporti ed estra-zione) come prossima sfida. Sul piano geopolitico assistia-mo alla contrapposizione tra geological peaks e geopolitical peaks10, nel senso, rispettivamente, di disponibilità reali e uso politico delle concessioni. Sul piano mercantile, le com-modities energetiche si presentano come un vero e proprio quiz. L’attuale speculazione finanziaria, al ribasso, non ci deve illudere: il problema esiste davvero. Lo scenario di apprensione che abbiamo vissuto nel primo semestre si profila all’orizzonte tra non più di un lustro. Agli annessi e connessi dell’energia si abbinano l’accesso agli elementi vitali per lo sviluppo (materie prime, alimenti ergo sicurezza alimentare), come pure le prevedibili conseguenze del tan-to discusso climate change;

- Carattere transnazionale delle sfide, rischi e minacce. Gli studi condotti dalla NATO e dalla UE sugli scenari futuri\futuribili (Future Security Environment, Future Vision e la-

vori successivi) hanno in comune la diagnostica sècuritai-re. Entrambi elencano il terrorismo transnazionale come il nemico pubblico n°1, per la sua capacità di porre una sfida strategica alla Comunità Internazionale in relazione alla sua portata e letalità. Prestazioni tali da colpire gli USA in una consolidata certezza: di essere protetti da barriere ocea-niche. Seguono proliferazione di armi di effetto di massa (è opportuno differenziare questi espedienti dai mezzi di superiorità strategica) e tecnologie associate, stati in via di dissoluzione e criminalità transnazionale. Naturalmente, rischi e minacce possono manifestarsi singolarmente o in-trecciarsi e alimentarsi in combinazioni varie. In particolare, le strategie di prevenzione\contrasto sin qui seguite deno-tano alcuni vincoli\limiti, quali:

- effetti della guerra\lotta al terrorismo. Le attività a conno-tazione terroristica e dei gruppi radicali sono in aumento in Europa, NordAfrica e Asia Centrale. I complotti scoperti qua e là evidenziano ancora una volta che la sicurezza non può essere parcellizzata (principio della indivisibilità della sicurezza). Per di più, visto che le minacce si posso-no originare dall’interno, si viene a stabilire un continuum tra sicurezza interna ed esterna);

- il persistere della proliferazione di materiali illegali sta a di-mostrare l’esistenza di brecce nell’ambito dell’architettura di controllo degli armamenti. Sussistono “preoccupazioni” per il profilarsi di quello che potrebbe essere “un nuovo mercato” per il traffico di materiale nucleare rubato e non ritrovato11. Interventi ad hoc, quali la Proliferation Security Initiative (PSI), mirano a colmare le carenze di struttura;

- legame sicurezza-sviluppo sostenibile. Sicurezza e Svilup-po sono legati in una relazione univoca tanto che gli esper-ti, in un’ottica di human security12, parlano di “securisation of development”, nel senso che insicurezza e differenziali di sviluppo possono creare, in sequenza, condizioni di in-stabilità, propedeutiche a situazioni di crisi e conflitti. Da qualche tempo, infatti, la nozione statica della sicurezza, imperniata su termini spaziali-militari dello stato (state-cen-tric), sta evolvendo per considerare le dinamiche incentra-te sul sociale (socio-centric). Da qui, in caso di interventi “riparatori”, la crescente importanza delle Operazioni di Risposta alle Crisi (CRO), in particolare quelle di Stabiliz-zazione e Ricostruzione, in cui alla Comunità Internazio-nale viene chiesto di risolvere sia i vecchi problemi, vale a dire le cause di fondo, sia quelli nuovi (ad esempio quelli impegnativi di disarmo, smobilitazione, integrazione delle ex-fazioni in lotta). È questo uno dei problemi chiave nella crisi nella regione del Kivu nella RDC Kinshasa. Mediazio-

9 Mohamed Chafick Mesbah (UPM: Utopie ou rèalitè. Un point de vue Algèrien, Dèfense Nationale, hors sèrie 2008) la definisce “presence encountournable”. Come ricorda l’inno dei Mari-nes, gli USA, sono nel Mediterraneo sin dai primi del XIX secolo.

10 Jad Moouawad, “Politics saps influence of oil giants”,The New York Times / La Repubblica sept 1-200811 Neil MacFarquhar “Rate of nuclear theft «disturbingly high», monitoring chief says”, International Herald Tribune 27 oct 2008. Nella sua deposizione al Consiglio di Sicurezza, il Presidente

dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) M. Albaradei, parla di 600 furti registrati nel corso del primo semestre. L’ammontare, ancorché insufficiente per la fabbricazione di un’arma, potrebbe, tuttavia, essere impiegato per il confezionamento di materiale sporco.

12 Per brevità di trattazione, ci si limiterà ad alcuni riferimenti dell’uso corrente: - “Assenza di minaccia alla vita umana, stile di vita e cultura [garantendo] il soddisfacimento delle necessità di base” (Dichiarazione delle Nazioni Unite sui Diritti Umani n°53\144, 8-3-1999); - “Protezione delle popolazioni da minacce e situazioni critiche, padronanza dei propri processi” (Rapporto della Commissione sui Diritti Umani, New York 2003, pag. 1-13); - “Nozione multi-dimensionale che va oltre la nozione di sicurezza dello Stato. Comprende il diritto di partecipazione nei processi governativi, di accedere alle risorse e necessità di base,

--la salute. La human security ha lo scopo di garantire la sicurezza individuale, comunitaria e dello Stato, la vita della nazione nelle dimensioni economico-politiche e sociali (“Dottrina sulla --Human Security”, collegata al “Patto di Non- Aggressione e Difesa Comune” dell’Unione Africana).

- -Altri dati sono disponibili sul sito dell’African Human Security Initiative www.africanreview.org

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ne socio-politico-culturale e ricerca di soluzioni favorevoli alle parti in causa (contesti win-win) sono parte integrante della human security, in cui si cerca di conciliare gli interessi individuali, insiti nel cosiddetto human risk, con quelli dello Stato. La ricerca del consenso è però una sfida per il pro-cesso decisionale strategico;

- per far fronte alle nuove sfide si rendono necessari approcci alla sicurezza multilaterali13 (è di fatto acquisito che nessu-no ce la può fare da solo) e multidisciplinari, ovvero inter-ministeriali. Nella dimensione continentale Euro-Atlantica, NATO e UE, rispettivamente Alleanza e concetto di aggre-gazione, hanno seguito strategie di proiezione della stabi-lità, allargando il perimetro di sicurezza, con programmi di partenariato e buon vicinato, nonché collegamenti (links) in-terregionali con altri attori globali. Nella fattispecie, la NATO ha stretto legami con Giappone, Australia, che costituisco-no gli ancoraggi geopolitici di EurAsia. Tuttavia, nonostante l’innesco di processi favorevoli, quali cross-fertilization of ideas, scambi socio-culturali etc., queste attività hanno in-nescato, sul piano politico, contraccolpi sulle percezioni di sicurezza delle nuove controparti di frontiera. Per esempio, viste nella prospettiva di una Russia in piena fase di rimon-ta, alcune attività promosse dalla NATO (Difesa contro Mis-sili Balistici (ATBM), offerta di membership ad alcuni paesi sensibili della periferia, hanno causato tensioni, anche tra Alleati, con potenziali ripercussioni sull’intero impianto della cooperazione NATO-Russia, messa in opera a Pratica di Mare nel 2002. A questo proposito, se, da un lato, appare chiaro che nessuna delle parti vuole un ritorno alla Guerra Fredda, in ciò confortati dal prosieguo del lavoro sotterra-neo, occorre riconoscere, dall’altro, che siamo arrivati hic et nunc a un momento cruciale, che impone una seria ri-flessione sulle politiche sin qui seguite. In definitiva, le due organizzazioni chiave, in cui si incardina la nostra difesa e sicurezza, si trovano di fronte a una crisi ontologica, di natura funzionale per la prima (difesa\sicurezza collettiva o proiezione di potenza), di identità, suscitata dalle attuali e future linee di frontiera, per la seconda. Non a caso, da tempo, si è dato impulso a un’opera di revisione delle relati-ve strategie. C’è da dire che l’identità europea di difesa si è trasformata da vana retorica, vaga e non vincolante, legata alla semplice acquisizione di armamenti, in una ESDP le-gata agli indirizzi di politica estera. La crescita progressiva della dimensione di Politica Estera di Sicurezza Comune e, in contemporanea, della Sicurezza\Difesa appare destinata a dare un quid aggiuntivo a un’Europa sempre più appeti-bile, a tutt’oggi vista nell’arena internazionale come “payer” e “honest broker”. È noto difatti che “foreign policy without credible military is not foreign policy”. Nel merito, la gestione della crisi Russo-Georgiana, sotto la regia della Presidenza

di turno francese, segna una tappa importante in questa di-rezione (la presidenza, pur facendo dolorose concessioni, ha parlato con una sola voce);

- sul versante operativo, l’impronta occidentale nelle aree di crisi, derivante dall’esigenza di interventi tempestivi per l’isolamento dei focolai, si preannuncia destinata a limitarsi a quelle capacità di nicchia\moltiplicatori di forza (mobilità strategica\tattica, comando\controllo\ comunicazioni\Intelli-gence, C4I), capacità di pianificazione etc.) in sostegno a quelle reperibili in loco, che provvedono alla massa di ma-novra, i cosiddetti “boots on the ground”. Ciò non esclude, tuttavia il ruolo, sempre necessario, in quanto decisivo, di attori globali e protagonisti consolidati, anche nelle fasi cri-tiche della mediazione, formazione dl consenso. Parimenti, capacità aeronavali di pregio, che i locali non possiedono, si dimostrano strumentali allo sviluppo di strategie di limited aims\indirect approach della Comunità Internazionale nei punti caldi del pianeta (embargos, anti-pirateria negli spa-zi marittimi ungoverned e così via). Sulla base di quanto detto, si può vedere che le Organizzazioni della Comunità Internazionale si muovono nel quadro di una visione or-ganica della sicurezza, che, nell’accezione completa del lessico inglese, ingloba le nozioni di safety e security. Ciò ha generato un processo di adattamento ai nuovi scenari. Per rimanere nel campo marittimo, l’ambito della Interna-tional Maritime Organisation (IMO), punto di riferimento in materia di Convention on Safety Of Life At Sea (SOLAS), al fine di far fronte al fenomeno del terrorismo in mare, è stato allargato in modo da coprire le nuove esigenze di sicurezza. Le Marine Militari, da sempre avanguardie nel-la trasformazione, nell’ambito del continuum tra sicurezza interna ed esterna si sono adattate, a loro volta svolgen-do anche compiti di constabulary14 per colmare il gap in materia di policing dell’Alto Mare. E qui veniamo a quello che i Romani definivano semplicemente Mare Magnum e, dopo la piena padronanza, Mare Nostrum, entrambe deri-vate dalla traduzione letterale dei riferimenti in lingua greca. Contesto strategico e statistiche ci fanno intravedere che oggi siamo ritornati a scenari che danno pertinenza alle tematiche regionali e restituiscono alla geografia del Medi-terraneo la rilevanza strategica, più volte dimenticata. Nella Geografia delle Risorse Energetiche, i dati di varie fonti si commentano da sé: in Mediterraneo transitano circa 2.000 navi al giorno per un complessivo di circa 750mil di tonnel-late\anno15, il 25\30% del petrolio mondiale, 2\3 del fabbiso-gno energetico europeo. Ridotto a fianco Sud dell’Alleanza Atlantica ai tempi della Guerra Fredda, il Mediterraneo ha visto rinascere un certo interesse strategico negli anni ’90, interesse che, con l’integrazione degli oleodotti mediterra-nei pare dunque destinato ad accrescere. n

13 A questo proposito Kenneth WALTZ afferma che “No one will deny that collective efforts are needed if common problems are to be solved or somehow managed (THEORY OF INTERNA-TIONAL POLITICS, pag. 210).

14 M. J. JANOWITZ “THE PROFESSIONAL SOLDIER, a social and political portrait” ed. 1960, non più reperibile. A pag. 418, l’autore definisce le Constabulary Forces, derivanti da un’emerging task delle Military Forces, come “continuously prepared to act, committed to the minimum use of the force seeking rather than victory, viable international relations because it has incorporated a protective military attitude”. Evidentemente, l’autore non conosceva bene la realtà europea delle forze di polizia a statuto militare (Carabinieri, Gendarmerie, Guardia Civil etc).

15 Partendo da questi dati, Jacques Attali propone, per determinate merci un sorta di “tassa di pedaggio”, che, ancorché minima, ad es.1 euro\ton, consentirebbe con introiti dell’ordine di 1mil.euro\giorno, di finanziare capacità di sorveglianza marittima nella Riva Sud. Cfr “La Mèditerranèe ou l’ultime utopie”, Defense Nationale et Sècuritè Collective”, hors sèrie Union pour la Mèditerranèe, CEREM Paris, may 2008, pag. 11-20.