Il morto di Passy

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altrevie • narrativa straniera

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Barbara Bongartz

il morto di passy Traduzione di Claudia Crivellaro

gran vía

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Titolo originale: Der Tote von Passy© 2007 Dittrich Verlag GmbH, Berlin

© 2011 gran vía edizioni s.r.l.Tutti i diritti riservati

Prima edizione: ottobre 2011isbn 978-88-95492-17-9

Progetto grafico: Mirko Visentin | www.spaziosputnik.it

Questo libro è stato tradotto grazie al contributo del Goethe-Institut finanziato dal Ministero degli Affari Esteri tedesco

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a Pascal

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E infine possiedo il luogo in cui sono natoe sono posseduto dalla sua lingua.

ross macdonald

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Uno

Per molto tempo ho desiderato la morte dei miei genitori. Li amavo e mi vergognavo di questo sogno, il cui compimento, alla ragazzina di allora, appariva tuttavia come l’unica via d’uscita per la nostra famiglia. Ero convinta che se fossero morti le loro ango-sce sarebbero terminate e saremmo stati finalmente felici. Troppo tardi mi sono chiesta chi erano stati i miei genitori prima di di-ventare i miei genitori.

C’era qualcosa in loro che non andava. Sembravano in disaccordo con la propria vita. E questa tensione regnava in tutta la casa. In-felicità negli occhi di mia madre. Rancore nella voce di mio padre. La bocca di lei. Lo sguardo di lui. E dentro di me un profuso sen-so di colpa. Come se qualcosa non funzionasse. Lo percepivo. Si tormentavano. Ma non capivo il motivo. Mi rivedo a cinque anni, mentre rincorro l’auto di mio padre per tentare di fermarlo. Mi rivedo a dieci, accanto al suo letto. Ero convinta che avesse avuto un infarto e che fosse in pericolo di vita. Di sotto, in giardino, sento i parenti di mia madre bisbigliare. Mio padre a volte non tornava la sera. Se aprivo leggermente la porta della mia stanza, sentivo lei che singhiozzava. Ma non mi era permesso entrare nella loro camera di notte. Avevo provato solo una volta, all’età di due o tre anni. Per alcune notti il buio mi aveva fatto paura. Il silenzio e la luce riflessa in cui di solito mi cullavo fantasticando, all’improvviso mi spaventarono. Mia madre mi mandò via. Quan-

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do fui di nuovo nella mia camera cominciai a piangere, sconvolta dalla solitudine: non capivo perché non potessi restare con lei. Ma il mio dolore era evidentemente troppo rumoroso. Come un allarme impazzito. Pochi minuti dopo mio padre entrò in camera. Era fuori di sé dalla rabbia e mi picchiò.

Ci fu uno strano soggiorno a Bad Reichenhall. Dev’essere stato nell’estate del 1963. Avevo iniziato la scuola a Pasqua. Partimmo anche se non era periodo di vacanza. Dopo il nostro arrivo nella città termale, l’umore dei miei genitori peggiorò ulteriormente. Non si parlavano quasi più. Ricordo quel rumore che penetra-va ovunque, persino negli angoli più remoti dell’albergo, come se il paese fosse incessantemente attraversato da orde di cavallette. Proveniva dalle saline, dove l’acqua si riversava fragorosamente sulle palizzate di legno. L’intera città era regolata da quel sotto-fondo, un ritmo speciale che dopo un paio d’ore sembrava caden-zare persino il respiro. L’acqua delle saline continuava a scorrere tutta la notte. Spesso rimanevo sveglia, distesa ad ascoltare quel frastuono e chiedendomi perché la nostra famiglia fosse così in-felice.

Un giorno mia madre mi spiegò che papà era molto malato, che dovevamo avere maggiori riguardi per lui ed essere più gentili. Non mi disse qual era il problema. Io pensai che avesse qualcosa al cuore, perché spesso si premeva in quel punto. Una decina di anni dopo, quando la interrogai su quella vacanza, mi raccontò che in quel periodo mio padre aveva avuto un’altra donna e il soggiorno a Reichenhall sarebbe dovuto servire a chiudere la faccenda.

Lei divenne triste. Lui imprevedibile. E più le cose degenerava-no, più io desideravo la loro morte. Avevo visioni di boschi, fiori, prati, un lago sul quale calava il sole. Fantasticavo che fossero se-polti in un luogo incantevole e tranquillo, sotto una bella lapide

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ricoperta d’edera. Quando fui un po’ più grande, immaginai un cimitero irlandese o ebreo. Le tombe tedesche hanno bisogno di cure continue solo per evitare che si dica che sono trascurate. I fiori recisi, la lapide lucida e levigata, la terra rastrellata. No. Non era questo che volevo. E poi la festa per ricordare le anime dei morti, a novembre, quando interi sciami di persone si riversano nei cimiteri, come se dovessero portare le pecore all’ovile per l’in-verno. Anche mia madre in realtà non approvava questa messa in scena, lo sapevo. Ma non si ribellò mai. Faceva ciò che gli altri si aspettavano da lei. Ancora oggi, il principio fondamentale che re-gola la sua vita è il giudizio altrui. Mio padre restava fuori sempre più spesso. Lei rovistava nell’auto, nei cassetti, nelle tasche del suo cappotto. Troppe volte trovava qualcosa, un gioiello o una lettera.

Noi eravamo davvero diversi dalle altre famiglie, o almeno così mi pareva. Ero figlia unica e molto sola, sopratutto quando i miei genitori partivano per i loro viaggi. Rimanevano via a lungo. Mi irrigidivo quando li vedevo preparare le valigie, portarle fuori di casa e accennare un saluto. Dentro di me qualcosa si pietrificava, mentre fissavo i loro volti che sbiadivano gradualmente in lon-tananza. Allora sprofondavo nelle mie fantasie. Quando sentivo di non poter più resistere, immaginavo un’altra vita. Fingevo che potessimo ricominciare tutto daccapo. Mi succede ancora, da quando Viktor è in Afghanistan. Mi sento perduta, come in quel periodo della mia infanzia. Sarà una cosa intrinseca al distacco?

Anche quell’autunno, prima di trasferirmi a Berlino, mi sentivo perduta. Il mio matrimonio era fallito. E improvvisamente, in quel mio spazio privo d’aria, la notizia piombò come una bomba. I fotogrammi scorrono ancora davanti ai miei occhi, mi succede sempre così, quando accade qualcosa di speciale. Ogni singolo ge-sto si dilata e rallenta. Un orologio interno scandisce i rintocchi.

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Una certa melodia si ripete, come un ritornello. Avevo fatto la spesa. Appoggiai la bicicletta al palo della luce ed entrai nell’atrio della casa. La porta del mio appartamento si era bloccata. All’in-terno squillava il telefono. Quando finalmente risposi, non c’era più nessuno. Uscii di nuovo e controllai la posta. La cassetta era strapiena, come se non l’avessi vuotata da giorni. Dopo aver smi-stato la normale corrispondenza, mi rimase una lettera. Era una busta sottile, scritta a mano con una grafia sconosciuta. Timbrata a Parigi. Nessun mittente, solo un sigillo di lacca rossa. La aprii e lessi, in alto, una parola francese, mentre tutto il resto era in tedesco. Come in un film doppiato, in cui il pubblico sa subito di trovarsi in Francia, ma può capire i dialoghi.

Madame, devo per prima cosa avvertirla che il nome che lei porta non è il suo vero nome. Dopo questa premessa, la informo che suo padre, M. Alphonse Steiner, verrà sepolto venerdì prossimo, 14 dicembre, alle ore 8:30 a Passy. Successivamente si terrà un ricevimento a casa del defunto. Ho pensato che la cosa potesse interessarle.B.

Nessun’altra firma. Nessun nome. Nessun indirizzo. Un B punto non lo conoscevo proprio. Che razza di lettera era? Si trattava di uno scherzo? Durante il periodo del mio matrimonio non era mai capitato uno scambio di nomi. Mio padre non si chiama Steiner. Si chiama Bongartz, come me, e non ha mai abitato a Parigi. È un anziano signore che vive con la sua compagna, non so più quale, in una casa di riposo vicino al confine olandese. Residenze, le chia-mano oggi, come se gli anziani fossero un popolo di re che gover-nano tutti insieme. Sta poco bene. Non ha un soldo. Non lo vedo da anni. Ma solo tre giorni fa la sua voce, ormai molto debole, mi ha confermato che è ancora vivo. Aveva registrato un nastro, vole-va dirmi addio. Per lui sta arrivando la fine. Il tono era così fievole

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che pareva potesse spezzarsi da un momento all’altro. Ma sapevo che era una finzione. Non è la prima volta che lo fa. Da anni ogni tanto chiama e dice che morirà presto. Tuttavia, preoccupata, ho chiamato la reception e ho chiesto come stava. Bene, mi hanno risposto. Sì, certo, non è più attivo come un tempo ed è dimagrito molto, ma con le signore fa ancora il gallo del pollaio. Tutte si divertono ai suoi scherzi. Desidera parlare con lui? Proprio ora è seduto giù, al caffè. Se vuole vado a chiamarlo.

All’epoca in cui ricevetti la lettera, mio padre era ancora ener-gico e la sua voce era robusta. Non so come sia potuta mutare così. Ma non importa. Ho persino dimenticato quando e come il nostro rapporto sia cambiato.

Mi chiesi per chi fosse stata veramente pensata la lettera e come il mio nome e il mio indirizzo fossero finiti lì sopra. Un errore postale? O aveva davvero qualcosa a che fare con me? Conoscevo Passy. Un tempo avevo studiato a Parigi. E in quel periodo ave-vo girato a Passy alcune scene per un film, anche al cimitero. Il tema era l’annientamento della donna artista da parte del mondo maschile. Il mausoleo della pittrice Marie Bashkirtseff si trovava proprio sopra la montagnola coperta di tombe, un luogo adatto a pellegrinaggi di femministe, esiliati russi e persone che amano le storie lugubri. Tutto ciò andava benissimo per il mio film, e potei sfruttarlo appieno. Marie Bashkirtseff, la giovane pittrice russa morta di tubercolosi, rappresentava perfettamente la trage-dia dell’artista senza patria tradita dagli uomini e dal mondo con-formista. La sua reputazione era stata crudelmente distrutta. La morte le conferì poi un’aura di tenue fama. La sua tomba è pom-posa come doveva essere stata la sua casa, per non parlare del suo studio. Mi perdevo fantasticando su come doveva aver sofferto per le calunnie. In ogni caso il suo mausoleo si trovava lì, a Passy. Un dignitoso cimitero, nel sedicesimo arrondissement, una zona molto raffinata. In gran parte accoglie vecchie tombe di famiglia

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nelle quali riposano più generazioni di morti. Stimate persone di religioni diverse, anche ebrei. Monsieur Steiner non avrebbe potuto scegliersi luogo migliore per l’ultima dimora. Questo mi piacque. La classe mi è sempre piaciuta. Nobiltà e dinastia. Gran-di e potenti famiglie di antica e illustre origine. Era come se in tutto questo vi fosse racchiusa una sorta di promessa. La reden-zione da qualcosa che faceva soffrire mia madre, pur senza poter dire cosa fosse.

«Ma da dove credi di venire? Sei proprio convinta di essere spe-ciale!» brontolava ogni volta che il mio atteggiamento incrinava la sua sicurezza. Poteva trattarsi di un episodio qualunque. La voglia improvvisa di mangiare le patate con la buccia. Indossare un fou-lard di seta mentre mi arrampicavo sugli alberi. Bere un limone spremuto a stomaco vuoto la mattina. L’avversione per i capelli arricciati. Trovavo particolarmente irresistibili il linguaggio segre-to e i nomi in codice. Ero ancora molto piccola, giovane e ine-sperta quando iniziai con queste manie. Era la mia vendetta per il modo in cui lei si mortificava. Non potevo sopportare quando si reprimeva e si sviliva, trascinandomi in qualche modo nel suo triste gioco. Eravamo persone di seconda categoria. Lo si poteva dedurre dal fatto che alcuni non ci salutavano. Molti ci ignora-vano e ogni volta che questo accadeva mia madre non mancava di farmelo notare. Guarda, quella è la vicina che abita di fronte a noi. Io l’ho appena salutata e lei fa finta di non vedermi. Come se non ci conoscesse. Dovevamo accontentarci di ciò che per gli altri non era abbastanza. Non dovevamo frequentare certi risto-ranti, indossare determinati vestiti o essere presuntuosi né trop-po appariscenti in ciò che facevamo o dicevamo. Non potevamo scambiarci tenerezze o baci. Non chiariva le motivazioni di tutto ciò. Era così e basta.

Solo ogni tanto era diversa. In tali circostanze mia madre su-biva una meravigliosa metamorfosi. Ricordo la sera in cui erano stati invitati a un ballo. Lei si avvicinò al mio letto per augurarmi un’ultima buonanotte. Aveva un buon profumo ed era avvolta da

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una nube di mistero. Indossava un abito di raso turchese e una mantellina di visone castano e i suoi gioielli brillavano anche nella luce fioca della lampada da notte. Era bellissima. Quanto la amai. In quel momento pregai che restasse così per sempre, splendida, addirittura maestosa e sicura di sé. Che rimanesse in eterno ac-canto a me. Pregai che la smettesse di criticare le mie stramberie. Mio padre si avvicinò alla porta. Indossava un frac. Disse che l’au-to era arrivata, era ora di andare. Lei lisciò la mia coperta e mentre usciva dalla stanza notai che il vestito aveva una toppa.

Passy le sarebbe sembrato troppo bello. Avrebbe avuto l’impres-sione di non meritare quel luogo: non ci meritavamo il meravi-glioso panorama sulla città e neppure la strada che scendendo lungo la Senna appariva antica, ampia ed elegante. Era come se il tempo per incantarsi davanti a un timpano, a una facciata o a una fontana fosse infinito. I movimenti là sono lenti, senza frenesia, spesso senza un fine. Ozio. Passeggiate. Una volta alla settimana c’è il mercato di strada nei pressi del Palais de Chaillot. Ma lei sarebbe stata afferrata dall’impazienza, una sorta di nervoso senso di colpa, e avrebbe detto che bisognava affrettarsi. Non avreb-be saputo cosa rispondere se avessi obiettato che quella era solo una gita in un quartiere parigino, e non la nostra vita quotidiana. Quanto mi ha fatto soffrire da bambina, da adolescente, e poi da ragazza non poterla mai rendere felice.

Alphonse Steiner. Seguii il richiamo misterioso, come se volessi solo staccare per un paio di giorni dalla quotidianità, per non pen-sare alla separazione da mio marito. Anche ora vorrei distrarmi dalle mie terribili paure. Per questo motivo sono qui, seduta, a scrivere del passato. Ho paura per Viktor, ora che è salito sull’a-ereo a Termes ed è in viaggio verso l’Afghanistan. Fino a Kabul non c’è ancora pericolo. Ma da lì, viaggiando nell’auto blindata per la strada polverosa, ce ne sarà fin troppo. Ovunque zone vietate. Kunduz, Faizabad, Mazar. Avanti e indietro sulle mine anticarro

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e sotto i missili. So già cosa si prova quando chi ami è lontano e in pericolo. Conosco la sensazione non solo dal periodo in cui i miei genitori viaggiavano per il mondo. L’ho vissuta anche tre anni fa, quando Viktor è stato mandato in avamposto a Kabul la prima volta. Per tutta la notte ho pianto e tremato, comportandomi come una mocciosa incapace di controllarsi. Atterraggi di emergenza, missili, attentati suicidi. Rintanati ai bordi di un accampamento isaf. Questa volta non devo pensarci. Ci vorrà almeno un anno prima che Viktor torni. Alla fine di quest’anno vogliamo sposarci. Sempre che sia ancora vivo. Non devo dimenticare di occuparmi dei nostri documenti. Copie autenticate di ogni genere, che di-mostrano che si è nati e si è cittadini perbene di questo stato. La prima volta aveva pensato a tutto mia madre. Queste cose le aveva sempre sapute fare bene. Ordine e organizzazione. Io dovetti solo firmare. Poi chiuse tutto nella sua cassetta di sicurezza. Mi sollevò volentieri soprattutto dalle incombenze che riteneva importanti: non solo si recava nei vari uffici, ma gestiva anche i conti bancari e gli investimenti. Con il tempo aveva persino sviluppato un meto-do preciso in queste cose e una passione per cassette di sicurezza, casseforti e camere blindate. Tutto finiva lì dentro. Gioielli, eredi-tà, diplomi di laurea, azioni e atti di compravendita. Da un po’ di tempo la gestione di tutto ciò è passata a me.

Quando andai a Parigi, poco dopo il diploma, prima che i miei genitori si separassero, stavo per affittare una stanza ammobiliata nei pressi di Passy. Ma poi mi resi conto di essere troppo lontano dalle mie attività diurne e notturne. Più che altro, penso che mi facesse paura l’eccessiva, infinita tranquillità, e forse temevo l’i-solamento. Nessun bar, nessuno studente, solo nomi importanti di volti invisibili. Facendo la spesa al supermercato si incontrava solo gente che abitava lì e piccoli cani arroganti con il cappotti-no d’inverno, il fiocco sul ciuffo d’estate e in bocca «Le Figaro». Allora non sapevo nulla di più sul sedicesimo arrondissement, se

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non che era il quartiere dei ricchi e delle persone importanti. Le case bianche hanno giardini recintati da cancellate nere in ferro battuto. Davanti alle porte d’ingresso le siepi di bosso sono tosate come se Le Nôtre passasse a rifinirle ogni giorno. I campanelli d’ottone sono lustrati, sebbene le porte si aprano solo con il codice numerico. A Passy, nel diciannovesimo secolo, si insediarono le famiglie agiate. Le case e i palazzi della città si riempirono di pre-stigiose raccolte d’arte. Commercianti e banchieri ebrei cercarono di vivere qui senza dare troppo nell’occhio. A metà del cimitero passa rue Greuze. Poi, alla fine degli anni Trenta, giunsero a Passy intere orde di nazisti e collaboratori che depredarono gli abitanti di tutto ciò che avevano. Era quindi quello il luogo in cui sarebbe stato sepolto Alphonse Steiner.

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