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Il Massacro di Nanchino Un Olocausto dimenticato

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Il Massacro di Nanchino Un Olocausto dimenticato

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Tredici dicembre 1937. Dopo giorni di assedio da parte delle divisioni giapponesi agli ordini del principe Yasuhiko Asaka, la capitale della Repubblica della Cin,a Nanchino è caduta. La popolazione, già allo stremo delle forze, dopo settimane di continui bombardamenti dei cannoni da campagna, e dei raid aerei notturni condotti dall’aeronautica che porta le insegne del Sol Levante, conta già migliaia di morti. Ma la caduta, inesorabile, porterà a quello che viene tristemente ricordato come l’olocausto d’Oriente. Una delle pagine più oscure, ignobili e indicibili della storia del Giappone e dei crimini di guerra perpetrati nel XX’ secolo: il “Massacro di Nanchino“.

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Alla fine degli anni ’30 il continente asiatico è soggetto all’espansionismo dell’impero Giapponese, e nel 1937 la seconda guerra sino-giapponese sono la conseguenza diretta dell’occupazione della Manciura da parte dell’esercito del Giappone. La Repubblica di Cina, intenta a frenare l’avanzata dell’Impero del Sol Levante, alleata dell’Asse, perde terreno a causa di una minore preparazione tecnologico-militare, e la perdita della propria capitale, Nanchino, è la prova definitiva della travolgente ascesa giapponese nell’Asia continentale e della graduale sconfitta dell’esercito nazionalista cinese agli ordini del generale Chiang Kai-shek. Ciò che si consumerà nella città occupata però, sotto gli ordini del Principe Asaka e dei suoi ufficiali di più alto rango, sarà un massacro senza precedenti contro la popolazione civile cinese.

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Le forze d’invasioni giapponesi, mediante l ’ approvaz ione dell ’ imperatore Hirohito, ricevettero l’ordine di ignorare le convenzioni internazionali rat i f icate a Ginevra che proteggevano lo status dei prigionieri di guerra, e di fare strage dei soldati cinesi e dei civili, comprese donne, anziani e bambini per tutta la durata dell’occupazione della città. Nanchino si era rivelata rifugio per la popolazione rurale che aveva già assistito alle atrocità p e r p e t r a r e d a l l ’ e s e r c i t o giapponese in avanzata da Shanghai e Pechino.

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Alla capitolazione del Giappone nel 1945, le stime degli emissari degli Stati Uniti e del Tribunale Militare Internazionale per l’Estremo Oriente, considerarono che nella sola resa e occupazione di Nanchino, i giapponesi provocarono la morte di complessiva di 300mila tra civili e prigionieri di guerra (500mila secondo le ultime informazioni desecretate). Commettendo stupri di massa su oltre 20mila donne. Che vennero abusate, secondo le rare test imonianze dell’epoca, spesso pubblicamente e alla presenza dei loro familiari per poi essere uccise attraverso la feroce pratica dell’impalazione. Gli uomini, sospettati di essere soldati cinesi disertori, venivano evirati prima di essere uccisi. Le teste invece venivano impalate come trofei.

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Nel corso delle razzie della città, gli atroci rastrellamenti riscontrarono migliaia di casi in cui le donne incinte venivo metodicamente trafitte con le baionette. Neanche i bambini di giovane età venivano risparmiati: sottoposti a mutilazioni e violenze che culminavano nella morte. L’intera guarigione dell’Esercito nazionalista cinese che presidiava la città, e i superstiti dei battaglioni inviati per difenderla travolti dalla guerra lampo condotta dalle forze giapponesi, una volta arresisi vennero fucilati e sepolti in fosse comuni.

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Molti cadaveri, dei militari come dei civili, furono spesso decapitati a filo di katana dagli ufficiali nipponici – a mo di “sfida sportiva” – per poi essere occultati nelle Fiume Azzurro (Yangtze) o bruciati, per mascherare le dimensioni del terribile eccidio subito da una popolazione che veniva considerata “inferiore”. Il ritrovamento delle fosse comuni, e dei migliaia di resti umani negli anni che seguirono, dimostrò la portata indicibile del massacro, lasciando attonito chiunque ne fosse stato messo a conoscenza.

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Ecco la testimonianza di un cittadino straniero presente a Nanchino: “Hanno trafitto a colpi di baionetta un ragazzetto, uccidendolo, e io questa mattina ho passato un'ora e mezza ricucendo un altro bambino di otto anni che aveva cinque ferite da baionetta, una delle quali aveva raggiunto lo stomaco, che gli fuoriusciva dall'addome. Penso che sopravviverà” In un giornale giapponese dell'epoca si parla anche di una competizione tra due ufficiali su chi avrebbe decapitato prima 100 tra prigionieri e civili, si è scritto molto a riguardo e la veridicità dell'episodio non è provata, gli stessi presunti responsabili Mukai e Noda dissero di aver inventato tutto per acquistare notorietà. Alla fine i due ufficiali insieme al loro comandante furono condannati a morte da un tribunale cinese.

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Lo “Schindler d’Oriente” I pochi superstiti di nazionalità cinese furono quelli che trovarono asilo nella cosiddetta “Area di protezione Occidentale”: una zona demilitarizzata di 4 chilometri quadrati creata dall’ex funzionario della fabbrica Siemens John Rabe, che, in quanto cittadino tedesco aderente al Partito Nazionalsocialista della Germania alleata dell’Impero Giapponese, riuscì a rendere salva al vita ad oltre 200mila cinesi.

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Secondo i resoconti dell’epoca, la fabbrica della Siemens Chi Co fu il primo rifugio dai raid dei bombardieri giapponesi, e non venne bombardata per merito della bandiera con la svastica che venne sventolata per segnalare agli aerei la presenza degli “alleati”. Rabe, che teneva un diario durante la sua permanenza in Oriente, scrisse durante l’occupazione: “Un uomo non può tacere di fronte a tanta crudeltà. Mi imbatto in cumuli di cadaveri, i corpi dei civili hanno fori di pallottole nella schiena, è il segno che gli hanno sparato da dietro mentre cercavano di scappare. I giapponesi scorrazzano per la città a gruppi di dieci-venti soldati, e saccheggiano tutto. Se non lo avessi visto di persona non ci crederei: sfondano porte e finestre, rubano tutto ciò che vogliono”.

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La denuncia dell’eccidio di Nanchino Le crudeltà perpetrate a Nanchino sotto le forze di occupazione durarono oltre 6 settimane e vennero descritte dalle testimonianze di civili occidentali come il sopracitato John Rabe, dalla missionari americani Minnie Vautrin e John Magee, e da inviati all’estero di giornali come il New York Times. Al termine del conflitto, gli ufficiali ai comandi del principe Asaka, e lo stesso principe furono imputati di aver commesso crimini di guerra dal Tribunale speciale di Tokyo. In quando membro della famiglia reale il principe Asaka non venne considerato il “mandante” del massacro e ottenne l’immunità. I generali Iwane Matsui, divenuto al termine della conflitto ministro degli Esteri, e il generale Koki Hirota furono condannati a morte, insieme ad altri cinque ufficiali di grado inferiore. I generali Hisao Tani e Rensuke Isogai vennero condannati a morte dal Tribunale di Nanchino per i crimini di guerra.

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Il negazionismo giapponese Nonostante le numerose testimonianze orali e fotografiche, accumulate dagli stessi aguzzini che durante l’occupazione si si ritrovarono spesso a immortalare in lettere e foto le atrocità commesse, molte personalità di spicco delle élite nipponica declassarono questo terrificante eccidio ad un “incidente”, catalogandolo come un evento su scala limitata che era stato enfatizzato dalla stampa occidentale. Al termine del conflitto molte associazioni di veterani continuarono a lungo a negare l’evidenza dei crimini di guerra, come altri, efferatissimi, condotti durante il secondo conflitto mondiale. Solo nel dopo gli anni ’80, le prime testimonianze aprirono la strada all’ammissione di colpa. E nel 1995 il Giappone si scusò formalmente con la Cina per i crimini condotti dell’Esercito giapponese, ammettendo davanti al mondo intero di aver preso parte all’Olocausto dimenticato.