Il granello di senape 165 n.2/2015- Aprile 2015

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165 n. 2 / 2015 i i l l g g r r a a n n e e l l l l o o d d i i s s e e n n a a p p e e "è il più piccolo di tutti i semi, ma, una volta cresciuto, è il più grande dei legumi e diventa un albero, t anto che vengono gli uccelli del cielo e fanno i nidi fra i suoi rami” (Mt 13,32 ) REDAZIONE: COMUNITÀ DI MAMBRE Str. S. Martino, 144 12022 BUSCA (CN) tel. 0171 943407 e-mail: [email protected] - c.c.p. n. 17678129 intestato a IL GRANELLO DI SENAPE - Registrazione del Tribunale di Cuneo n. 433 del 30/1/1990 - Spedizione in abbonamento postale comma 20/C art. 2 Legge 662/’96 art. n. 819/DC/DCI/CN del 6/4/2001 Filiale di Cuneo Editore: Associazione La Cascina Direttore Responsabile: Gianluigi Martini Ciclostilato in proprio: Associazione La Cascina, via S. Maurizio 72, S. Rocco Castagnaretta (CN). La nuova Costituzione di destra della repubblica italiana IL MODO - Il modo in cui la nuova Costituzione sta venendo alla luce. La nuova Costituzione di destra della Repubblica italiana è stata provvisoriamente approvata dalla Camera dei Deputati il 10 marzo scorso, e ancora non si sa perché. Dicesi “la nuova Costituzione” perché al di là dell’alto numero degli articoli modificati (più di 50), è l’intera figura della Repubblica che viene cambiata. È ciò che sostengono Bersani, Rosi Bindi e gli esponenti della minoranza del PD, che pure l’hanno votata; ed è ciò che risulta dal passaggio, per nulla secondario, dal bicameralismo al monocameralismo e dal cambiamento di verso del circuito della fiducia, che non correrà più in senso orario dal Parlamento al governo, ma in senso inverso fluirà dal capo del governo al Parlamento, ovvero ai parlamentari che, grazie alla legge elettorale in gestazione, saranno scelti da lui. Dicesi “di destra” perché nella tradizione linguistica e storica ciò che profitta alla discrezionalità e alla perpetuazione del potere è chiamato di destra, e ciò che profitta alla sovranità popolare e all’equilibrio e sindacabilità dei poteri è chiamato democratico, se non « di sinistra ». E dicesi “di destra” perché la nuova Costituzione è stata scritta di concerto dal governo e dalla destra parlamentare, anche se il 10 marzo per una ripicca politica questa non l’ha votata. Dicesi “provvisoriamente” perché se i suoi fautori considerano di averla messa per “il 90 per cento in cassaforte” (Ceccanti su Avvenire dell’11 marzo), non è affatto detto che il processo trasformatore continui il suo corso fino alla fine (legato com’è alle sorti del governo: simul stabunt et simul cadent) e non è detto che in ultima istanza esso non sia bloccato dal voto popolare nel referendum, come già avvenne nel 2006 con il rifiuto popolare della Costituzione di Berlusconi. Dicesi “non si sa perché” in quanto, a parte Renzi, di cui è evidente l’interesse politico immediato e che del resto non ha votato non facendo parte del Parlamento, non è chiara la logica degli altri, essendo le ragioni per cui hanno votato a favore o contro la riforma molto diverse dalle ragioni che dovrebbero presiedere a un voto sulla Costituzione. Doveva essere infatti una riforma nella quale si celebrasse l’unità recuperata sui grandi temi della Repubblica tra maggioranza e minoranza parlamentare (quasi a ripetere il miracolo unitario della Costituente) e invece mai nel voto il Parlamento è stato così frammentato e diviso: la nuova Costituzione è stata votata da un solo Notiziario di comunità e gruppi aprile 2015

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REDAZIONE: COMUNITÀ DI MAMBRE – Str. S. Martino, 144 – 12022 BUSCA (CN) – tel. 0171 943407 – e-mail: [email protected] - c.c.p. n. 17678129 intestato a IL GRANELLO DI SENAPE - Registrazione del Tribunale di Cuneo n. 433 del 30/1/1990 - Spedizione in abbonamento postale comma 20/C art. 2 Legge 662/’96 art. n. 819/DC/DCI/CN del 6/4/2001 Filiale di Cuneo – Editore: Associazione La Cascina – Direttore Responsabile: Gianluigi Martini – Ciclostilato in proprio: Associazione La Cascina, via S. Maurizio 72, S. Rocco Castagnaretta (CN).

La nuova Costituzione di destra della repubblica italiana IL MODO - Il modo in cui la nuova Costituzione sta venendo alla luce.

La nuova Costituzione di destra della Repubblica italiana è stata provvisoriamente approvata dalla Camera dei Deputati il 10 marzo scorso, e ancora non si sa perché. Dicesi “la nuova Costituzione” perché al di là dell’alto numero degli articoli modificati (più di 50), è l’intera figura della Repubblica che viene cambiata. È ciò che sostengono Bersani, Rosi Bindi e gli esponenti della minoranza del PD, che pure l’hanno votata; ed è ciò che risulta dal passaggio, per nulla secondario, dal bicameralismo al monocameralismo e dal cambiamento di verso del circuito della fiducia, che non correrà più in senso orario dal Parlamento al governo, ma in senso inverso fluirà dal capo del governo al Parlamento, ovvero ai parlamentari che, grazie alla legge elettorale in gestazione, saranno scelti da lui. Dicesi “di destra” perché nella tradizione linguistica e storica ciò che profitta alla discrezionalità e alla perpetuazione del potere è chiamato di destra, e ciò che profitta alla sovranità popolare e all’equilibrio e sindacabilità dei poteri è chiamato democratico, se non « di sinistra ». E dicesi “di destra” perché la nuova Costituzione è stata scritta di concerto dal governo e dalla destra parlamentare, anche se il 10 marzo per una ripicca politica questa non l’ha votata. Dicesi “provvisoriamente” perché se i suoi fautori considerano di averla messa per “il 90 per cento in cassaforte” (Ceccanti su Avvenire dell’11 marzo), non è affatto detto che il processo trasformatore continui il suo corso fino alla fine (legato com’è alle sorti del governo: simul stabunt et simul cadent) e non è detto che in ultima istanza esso non sia bloccato dal voto popolare nel referendum, come già avvenne nel 2006 con il rifiuto popolare della Costituzione di Berlusconi. Dicesi “non si sa perché” in quanto, a parte Renzi, di cui è evidente l’interesse politico immediato e che del resto non ha votato non facendo parte del Parlamento, non è chiara la logica degli altri, essendo le ragioni per cui hanno votato a favore o contro la riforma molto diverse dalle ragioni che dovrebbero presiedere a un voto sulla Costituzione. Doveva essere infatti una riforma nella quale si celebrasse l’unità recuperata sui grandi temi della Repubblica tra maggioranza e minoranza parlamentare (quasi a ripetere il miracolo unitario della Costituente) e invece mai nel voto il Parlamento è stato così frammentato e diviso: la nuova Costituzione è stata votata da un solo

Notiziario di comunità e gruppi – aprile 2015

n. 2 (165) – aprile 2015 il granello di senape pag. 2

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Bottega Passaparola, ecc.). Ci sono graditi e utili suggerimenti, critiche,

proposte (e magari anche apprezzamenti!).

“Il Granello di senape” è un notiziario di comunità e di gruppi. In partico-

lare vi collaborano stabilmente: Comunità di Mambre, Ass. Ariaperta, La Cascina,

Cooperativa Colibrì, Gruppo Oltre di Vernante, Libera, Orizzonti di pace,

Tavolo delle Associazioni. A questo numero hanno contribuito anche: “i Casci-notteri”, Alberto Bosi, Michele Brondino, Claudio Califano, Camilla, Anna

Cattaneo, Franco Chittolina, Gianfranco Conforti, Sergio Dalmasso, Cecilia

Dematteis, Beatrice Di Tullio, Renzo Dutto, Gianni Fabris, Claudia Filippi,

Yvonne Fracassetti, Angelo Fracchia, Katia Gabbi, Gigi Garelli, Costanza

Lerda, Leonardo Lucarini, Flavio Luciano, Carlo Masoero, Claudio Mondino,

Sergio Parola, Piera Peano, Grazia Quagliaroli, Paolo Romeo, Ugo Sturlese,

Mario Tretola,

Questo numero è stato chiuso in redazione il 10 aprile 2015.

INDICE DEL GRANELLO N. 165

La nuova Costituzione di destra, RANIERO LA VALLE pag. 1-3 Grecia, un utile guastafeste…, FRANCO CHITTOLINA 4 Je suis Bardo…, YVONNE FRACASSETTI E MICHELE

BRONDINO

5-7

Dal Tavolo delle Associazioni, SERGIO DALMASSO 7,9,14,36,38 Una profonda trasformazione culturale, C. MONDINO 8-9 Non cede il ponte…, CLAUDIA FILIPPI 10 Campagna Stop Ttip Italia, a c. di UGO STURLESE 11-12 La guerra del debito…, FLAVIO LUCIANO 13-14 Una bugiarda aureola di gloria; GIGI GARELLI 15-19 Un’altra difesa è possibile 19 Vite, ANGELO FRACCHIA 20-21 … perché niente passa e basta, CECILIA DEMATTEIS 22-23 Mc 16, ANGELO FRACCHIA 24-25 In ricordo di p. Ortensio da Spinetoli 25 Dietrich Bonhoeffer (1), ALBERTO BOSI 26-29 Incontro con Aleida Guevara, COSTANZA LERDA 30 La vita segreta dei semi, BEATRICE DI TULLIO 31 Centro Sociale Cuneo news, a c. di CARLO MASOERO 32 Acqua pubblica: mettiamoci la faccia, COMITATO

CUNEESE ACQUA BENE COMUNE 33

Il Grillo Parlante, C. C 33 Il metodo del fare assieme, GIANFRANCO CONFORTI 34 Ultimi giorni alla Meru Herbs, CAMILLA 35-36 Lo sfizio, KATIA DI ARIAPERTA 37-38 Un olio buono anche socialmente, COOP. COLIBRÌ 3-40 Le pagine della Cascina, I CASCINOTTERI 41-44

partito (nemmeno tutto) con le sue appendici al governo, un terzo dei deputati sono usciti fuori dell’aula, i membri di una delle minoranze sono stati invitati dalla presidenza ad “abbassare la Costituzione” (cioè il libro che quelli agitavano), invito perentorio che diventava così involontario simbolo di ciò che in effetti si stava facendo con quel voto. E dicesi “non si sa perché”, in quan-to a favore della nuova Costituzione votavano i parlamentari del PD che mai, senza il patto del Nazareno, l’avrebbero scritta in quel modo, e che erano stati nominati dal precedente segretario del PD che di quella stessa riforma diceva che era sbagliata e tale da portare l’Italia fuori della democrazia. A favore votava anche la minoranza del PD, che aveva promesso invece mille battaglie e diceva che comunque quello era l’ulti-mo “sì”. Contro votavano i deputati di Forza Italia, tranne l’ex democristiano Rotondi; che denunciava l’innaturalità di quel “no”, e d’accordo con lui erano altri 17 dissenzienti del gruppo presie-duto da Brunetta che pur votando contro la riforma per disciplina di partito, dicevano di farlo non per affetto alla Costituzione ma per affetto a Berlusconi, rivendicando con orgoglio che in realtà quella nuova Costituzione era stata scritta da loro. Tutto ciò riguarda IL MODO in cui la nuova Costituzione sta venendo alla luce. È un modo così sguaiato che equivale a decostituzionalizzare l’Italia, perché fa scendere la Costituzione da quel trono di nobiltà e di prestigio onde il popolo l’aveva riconosciuta come suprema regola di etica civile. La riduce a una pandetta di regole minute. Figlia, come le altre leggi, del potere. Voluta per forza. Passata attraverso un conflitto durissimo tra le diverse parti del popolo che ne avrebbero dovuto fare invece il patto sacrosanto tra loro. NEL MERITO - Dalla rappresentanza all’investitura “NEL MERITO” la nuova forma di gover-no o di Stato, al di là del modo in cui la si voglia definire – monocameralismo imperfetto, premierato assoluto, sistema parapresidenziale – configura il passaggio da una democrazia rappresentativa a una democrazia dell’investitura.

n. 2 (165) – aprile 2015 il granello di senape pag. 3

Cooperativa Sociale Colibrì

numero di codice fiscale

03452000049

Associazione Ariaperta

numero di codice fiscale

96040220046

Associazione Comunità di Mambre

numero di codice fiscale

96069190047

Cooperativa Sociale

La Cascina

numero di codice fiscale

02289480044

Le immagini di questo n. del Granello sono tutte di Derambakhsh KAMBIZ, disegnatore iraniano, nato a Shiraz nel 1942, considerato uno dei più grandi vignettisti del mondo. Kambiz ha iniziato la sua carriera all’età di 15 anni; collabora con numerosi giornali e riviste, svizzeri, tedeschi, francesi, italiani e statunitensi; ha insegnato l’arte della caricatura in vari centri artistici e all’università di Teheran; ha esposto in moltissime mostre in tanti paesi del mondo e ha vinto numerosissimi premi. La sua attività si esplica in disegni, graphic design, caricature, vignette, fumetti, illustrazioni, principalmente con opere in bianco e nero, a matita, su carta, senza didascalie e senza battute. Pur con uno stile minimalista, il suo lavoro è semplice e delizioso ad un tempo, profondo e poetico, senza ostentazioni e senza esasperazioni. I temi preferiti: la libertà, la tristezza, l’ironia, lo sport, la musica, la politica e l’antimilitarismo.

La rappresentanza viene meno con la legge elettorale renziana e con il Senato corporativo espresso dai consigli regionali; l’investitura è bene espressa dallo slogan vincente secondo il quale bisogna sapere la sera stessa delle elezioni chi avrà il potere per i successivi cinque anni, che è appunto il rovescio del sistema parlamentare. Il problema è che la democrazia dell’investitura non è solo diversa, ma alternativa alla democrazia parlamentare, e addirittura è incompatibile con la democrazia quale è intesa nella Costituzione del ‘47. Per i costituenti repubblicani instaurare la democrazia non voleva dire solo stabilire le forme per un accesso democratico al potere, ma voleva dire giocare la sovranità popolare in un potere esercitato nelle forme costituzionali per realizzare una democrazia sostanziale conforme ai diritti e ai principi fondamentali sanciti nella Carta. Dunque in gioco nel quadro costituzionale non è il modo in cui viene investito il sovrano – se per grazia di Dio o volontà della nazione – né il passaggio da una monarchia a una “poliarchia”, ma è in gioco il modernissimo problema di una vera realizzazione della sovranità popolare (quando perfino la Chiesa si definisce non più come gerarchia ma come popolo).

Raniero La Valle

L’articolo di R. La Valle, pubblicato sulla rivista “Coscienza” del MEIC (Movimento Ecclesiale di Impegno Culturale), nel corrente mese (e leggibile anche sul blog dell’autore: http://ranierolavalle. blogspot.com), prosegue riflettendo sul ruolo, ineludibile e identitario, che la Costituzione ha avuto nella storia civile dei cattolici italiani, prima e dopo la nascita della Repubblica e fin dopo il Concilio. In particolare passa in rassegna le contrastanti attuali posizioni del cattolicesimo democratico, e si schiera nella difesa della via dossettiana, che pone al centro della Costituzione del ’47 l’art. 3, quello che definisce il “compito della Repubblica”: rimuovere gli impedimenti di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, sono di ostacolo al pieno sviluppo delle persone, alla libertà e alla giustizia. L’art. 3, infatti, per R. La Valle, rappresenta “la vera posta in gioco della riforma costituzionale, la

vera posta in gioco della legge elettorale, del partito della nazione, del passaggio dalla rappresentanza all’investitura, dell’abolizione del Senato, del cambiare verso al circuito della fiducia, non più dal Parlamento al governo ma dal capo del governo al Parlamento”. “Sarebbe il colmo se, proprio quando c’è un papa che invita alla lotta contro la “dittatura” di un’economia “senza volto e senza uno scopo veramente umano”, i cattolici tradissero una Costituzione che sancisce invece “il diritto di controllo degli Stati, incaricati di vigilare per la tutela del bene comune”, come chiede, al n. 55, l’Esortazione Evangelii Gaudium”

DESTINAZIONE DEL

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Grecia: un utile guastafeste in Europa

Mettete insieme la legge di Murphy e quella, meno nota, di Johnson, scuotetele bene, lasciatele amalga-mare il tempo necessario, vanno bene anche quattro anni, e alla fine capite qualcosa del pasticcio greco nell'UE o viceversa. Dice la legge di Murphy che "se qualcosa può andare male, andrà male", completatela con quella di Johnson ("per ottenere un prestito bisogna provare di non averne bisogno") e avete la "soluzione finale", fortuna-tamente meno tragica di quella che ha "suicidato l'Europa" settant'anni fa, a partire dalla Germania. Breve riepilogo delle puntate precedenti. 1980, la Grecia ottiene il visto d'ingresso nella Comunità europea anche se le condizioni non sono tutte riunite ma, si dice, bisogna consolidare la fragile neonata democrazia - oltre che allargare il mercato co-munitario - e si chiude un occhio. Negli anni seguenti di occhi se ne chiudono almeno due per far entrare la Grecia nell'euro senza vedere quale sia la correttezza dei conti pubblici esibiti e l'anarchia fiscale. Nel 2011, ormai in piena crisi, suona per tutti il "redde rationem": Banca centrale europea (BCE) e Commis-sione aprono occhi e bocca e chiedono ai Paesi in infrazione agli accordi comunitari di rientrare in riga e mettere ordine nei conti pubblici. Un'operazione che in Italia manda a casa il governo Berlusconi, in Grecia la

maggioranza resiste impegnandosi a mettere ordine nei propri conti e a ridurre il suo colossale debito pub-blico. Le condizioni le detta la "Troika", composta da Banca centrale europea (BCE), Commissione europea e Fondo monetario internazionale (FMI), non proprio una sezione della S. Vincenzo, anche perché dietro s'intravede l'ombra lunga della Germania che fa venire in mente quanto scrisse Karl Kraus, austriaco non per caso: "Dove arrivano i tedeschi mettono in ordine le cose. Anche se non sono sempre le loro, ma quelle degli altri". A inizio 2014, il popolo greco, ormai stremato dalla Troika e dal proprio docile governo, manda a casa i responsabili in gran parte del dramma greco e punta dritto all'alternanza, ed è un plebiscito per Alexis Tsipras che forma un governo sostenuto sorprendentemente anche da una destra non proprio raccomandabile. Il resto è cronaca di questi giorni: Tsipras a Bruxelles e in giro per l'Europa - ultimamente anche a Mosca - a far valere la volontà "sovrana" del popolo che lo ha eletto e a esigere la solidarietà europea. Da quel-l'orecchio la Germania non ci sente molto, in particolare il ministro delle finanze che sembra voler ingaggiare un duello all'ultimo sangue con il suo collega greco, quel Varoufakis che sembra divertirsi nel ruolo di "provocatore". A mettere pace ci provano i Presidenti del Parlamento europeo e della Commissione; con loro ci prova la Francia, più perché anch'essa coi conti in dissesto che per vicinanza politica. E che fa il governo di Renzi? Da una parte simpatizza per il vicino che ci salva dall'essere gli ultimi della lista nera dei grandi debitori, ma dall'altra si guarda bene dall'ir-ritare Angela Merkel dalla quale si aspetta comprensione. E che fa la Grecia, sull'orlo del fallimento e con le casse vuote, impossibilitata fra pochi giorni a pagare stipendi e pensioni? Per ora sembra muoversi in due direzioni: con l'Unione Europea cerca un'intesa, propo-nendo misure per la riduzione del debito ma senza tagliare sulla spesa sociale; con il resto del mondo cerca intese alternative poco praticabili, come con la Russia e con la Cina. Verso la Germania evoca lo spettro dei risarcimenti per i danni di guerra subiti. Meglio per tutti, Grecia compresa, la prima opzione, a condizione che Bruxelles prenda la strada di una soluzione politica. Ne ha interesse, per non accendere una miccia che non si sa dove potrebbe esplodere, non solo per la sopravvivenza dell'euro, ma anche per la tenuta delle alleanze politiche e militari nell'area mediterranea, già abbastanza sconvolta da inarrestabili conflitti e incursioni terroristiche. Conviene sicuramente alla Grecia restare nell'euro e conviene all'Unione Europea non perdere la Grecia, anche per riparare ai molti errori che ha fatto in questi anni di crisi.

Franco Chittolina

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Je suis Bardo, je suis Charlie Il terrorismo islamico tra rifiuto della modernità e globalizzazione

Nel nostro mondo ormai globalizzato, la civiltà arabo-musulmana è ovunque in piena crisi a tutti i livelli, in particolare nella regione del Mediterraneo. Direttamente o indirettamente tutti ne siamo coinvolti. Oggi in particolare la piccola Tunisia. Nella Tunisia del giovane Bouzid, immolatosi ‘in nome della dignità e della democrazia’ contro la dittatura di Ben Ali, nessuno avrebbe immaginato che l’evoluzione della primavera araba avrebbe portato allo scoperchiamento del vaso di Pandora del terrorismo islamico proprio nel cuore della capitale, nonostante attacchi precedenti come la strage di turisti avvenuta nell’isola di Gerba nel 2002, né che fossero giovani tunisini, disillusi in patria ed attratti dalle folli promesse del sedicente stato islamico di Al-Baghdadi, a commettere l’eccidio del museo del Bardo e mettere in crisi le istituzioni e l’eco-nomia del paese. Dopo l’efferato attentato al museo del Bardo, rivendicato dallo ‘Stato Islamico’, i Tuni-sini continuano a radunarsi davanti al luogo del massacro per gridare il loro rifiuto di cadere nella rete del terro-rismo islamico che sta insanguinando tutto il Medi-terraneo e oltre. Ergono cartelli e gridano slogan contro l’oscurantismo e la violenza, slogan che purtrop-po ci stanno diventando familiari. Fra tanti, ci ha colpiti questo Je suis Bardo

che si riallaccia tristemente all’imponente Je suis Charlie, il moto di solidarietà contro l’intolleranza, che ha invaso le piazze di Parigi e del mondo dopo il criminale attacco al giornale satirico Charlie Hebdo, appena due mesi fa. Mentre il fanatismo dello Stato Islamico si allarga a macchia di leopardo, nei paesi politicamente e socialmente più deboli e nei luoghi più simbolici, si fa sempre più chiara la convinzione - come avevamo già notato per l’attentato a Charlie Hebdo - che questi episodi di violenza non vanno trattati come fatti di cronaca ma come fatti sociali sui quali, dopo l’emozione e la condanna, occorre riflettere per risalire alle radici di un fenomeno che va capito per essere arginato con decisione. Occorre non semplificare, perché non si tratta di sporadici episodi di fanatismo

religioso, limitati ad alcuni paesi musulmani destabilizzati, nemmeno di uno scontro di civiltà tra buoni e cattivi, ma di un terrorismo che si vuole globale. Basta osservare la forza simbolica dell’attentato di Tunisi che ha preso di mira tre simboli fondamentali della Tunisia, unico paese che, dopo aver dato avvio alle rivoluzioni della primavera araba, si è dato un governo laico deciso a portare avanti un processo democratico e repubblicano. Il primo simbolo è la sua apertura alla cultura plurale, di cui il museo del Bardo è viva testimonianza. Lo abbiamo rivisto di recente nella sua

nuova veste, perfettamente studiato e organizzato per valorizzare la storia del paese; giustamente, esso attrae migliaia di turisti che possono in un solo colpo d’occhio abbracciare la ricchezza di una storia in cui si sovrappongono e si susseguono molte culture: i periodi punico, romano, cristiano fin all’arte delle grandi dinastie arabe. Visitare il museo del Bardo significa capire che la Tunisia (come buona parte del Nordafrica) non è soltanto araba come la vorrebbero i fondamentalisti islamici ma mediterranea, cioè multiculturale, non unica bensì plurale, ricca di una impressionante stratificazione di culture e civiltà che hanno dato a questo paese il suo carattere aperto all’alterità, al confronto, all’accoglienza dell’altro. Attaccare il Bardo

vuol dire voler cancellare i segni di questa pluralità culturale, cancellare il diritto di ogni popolo ad appropriarsi dei vari segni che compongono la cultura del proprio paese, cancellare lo spirito critico di chi vuole riflettere sulla storia e può scoprire, nei musei che ne custodiscono i reperti, altre testimonianze, magari diverse dalla interpretazione storica ufficiale divulgata da regimi oscurantisti. Infatti, ci eravamo chiesti, nel corso della nostra ultima visita al Bardo ancora sotto il governo dei Fratelli Musulmani per i quali la storia è iniziata solo nel VII secolo con la conquista araba, che cosa potesse frullare nella testa dei bambini delle tante scolaresche tunisine in visita,

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fermi davanti ai magnifici mosaici romani rappresentanti Virgilio o le scene di vita romane, parti integranti della loro storia. I terroristi dello Stato islamico hanno risposto ai nostri interrogativi: i musei vanno chiusi e le opere d’arte distrutte perché fanno pensare. Il secondo simbolo da colpire era il turismo, da un duplice punto di vista. Innanzi tutto la negazione dell’apertura all’altro da parte di qualsiasi regime totalitario. Promuovere il turismo vuol dire accettare il confronto con altri modelli, con altri modi di pensare, di vestirsi, di comunicare, vuol dire accettare che esistono altre culture e che con esse ci si può, anzi, ci si deve relazionare. Coerentemente con la sua storia, la Tunisia è sempre stata un paese aperto al turismo, un piccolo paese fiero di valorizzare il suo patrimonio artistico e naturale dai molteplici volti. Ma colpendo il turismo tunisino, lo Stato islamico ha pure voluto colpire una fonte di reddito essenziale per l’economia tunisina già in gravissime condizioni dopo il periodo di insicurezza succeduto alla rivoluzione del 2011, ha voluto mettere in difficoltà un governo laico che potrà reggere soltanto se riesce a colmare enormi scompensi sociali ed economici, ha voluto mettere in ginocchio la giovane democrazia tunisina che tenta di dimostrare a tutto il mondo arabo che si può crescere meglio se si entra nella modernità, cioè nella libertà di pensiero e nell’accettazione dell’altro. Il terzo simbolo preso di mira è il Parlamento, la sede dell’Assemblea dei Rappresentanti del Popolo, che si affaccia sullo stesso spazio museale e in cui i terroristi hanno tentato di entrare prima di dirigersi verso il Museo e di abbattere i turisti appena scesi dai pullman. E’ il cuore pulsante del regime repubblicano, dove i parlamentari stavano appunto varando la legge anti-terrorismo, dove lo scorso 24 gennaio 2014 fu approvata la nuova Costitu-zione che conferma la natura laica dello Stato, che riba-disce il rifiuto di governare con la Sharia contrariamente a tutti gli altri governi musul-mani sorti dalla primavera araba, che conferma una tra-dizione profondamente radi-cata nella storia della Tunisia indipendente, primo paese del mondo arabo ad aver adottato una costituzione già nel 1861. Il fatto di colpire simboli - oltre dieci anni fa le Torri Gemelle di New York simbolo dell’unica grande potenza mondiale, la sinagoga

di Gerba, i giganteschi Buddha di Bamiyan; ieri il museo ebraico di Bruxelles, i vignettisti di Copenhagen o di Charlie Hebdo; oggi i tesori del museo di Mossul, i reperti archeologici degli Assiri di Nimrud e di Hatra in Iraq, i sepolcri sufi di Sirte in Libia; domani forse le piramidi egiziane o il Vaticano - dimostra che ormai lo sguardo è globale, supera gli Stati, le nazioni, le alleanze strategiche, le etnie, le appartenenze geografiche o storiche. L’obbiettivo folle del Califfato è fare regnare ovunque la legge islamica nella sua più retrograda e ottusa interpretazione, non la Umma (comunità) musulmana del Corano che contempla la diversità e la libertà in materia di religione, ma l’osservanza cieca di antichi precetti imposti da generazioni di teologi conservatori superati. Per questo si parla di una “guerra totale”, perché si vuole cancellare tutte le differenze, ovunque, ad ogni costo. E come può una tale follia rimanere localizzata in un mondo globalizzato? Come possiamo guardare a questi fenomeni globali con lenti limitate alle nostre letture locali? Come possiamo pensare che, chiudendoci dietro le nostre frontiere, potremo arginare un male che sviluppa le sue radici su due fronti: la grande crisi che sta attraversando la religione musulmana ma anche le derive della globalizzazione? Il primo fronte, certo, riguarda essenzialmente i musulmani e le loro difficoltà ad entrare nella modernità, cioè la mancata riforma dell’islam per liberare l’agire umano dalla tutela dei dogmi religiosi o ideologici, un processo storico, una rivoluzione spirituale la cui conquista è durata secoli in Occidente

con le sue guerre di religione e i crimini dell’Inquisizione, ma ha finalmente aperto alla libertà di pensiero e all’esercizio dello spirito critico. Da molto tempo le élite intellettuali arabe progressiste, sostenute dalle società civili in crescita, hanno cercato di promuovere una riforma dell’islam e di tornare ad una reale esegesi del Corano per liberarsi dalle catene di interpretazioni tradizionali e ottuse che irri-gidiscono la religione e favoriscono forme di fanatismo anacronistiche. Il livello di sviluppo, la capacità critica delle masse arabo-musulmane e le conti-nue frustrazioni del mondo arabo schiacciato dalla geopolitica internazionale hanno finora impedito che lo spirito riformatore avesse la meglio. Oggi però l’esplo-sione del fanatismo sta

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ISDS e TTIP

L'ISDS (Investor-State Dispute Settlement)

nacque nel 1950, quando la Germania firmò con

il Pakistan il primo trattato bilaterale contenente

la clausola di risoluzione delle controversie

investitore-Stato. Il governo tedesco intendeva

tutelare i propri gruppi privati da eventuali

nazionalizzazioni del governo pakistano.

Da allora i trattati bilaterali che prevedono il

ricorso all'ISDS si sono moltiplicati. Si tratta di

un tribunale terzo, il cui giudizio è insindacabile

e le modalità operative poco trasparenti. Il

verdetto spetta a tre avvocati scelti volta per

volta. Le udienze non sono pubbliche.

Lo strumento consente alle aziende di adottare

misure legali contro il potere pubblico se

ritengono di aver ricevuto un trattamento

ingiusto o se considerano una nuova legge

d'inciampo per il loro business.

Quando la Germania ha deciso di abbandonare

la produzione di energia nucleare nel 2022 è

stata citata in giudizio dal gigante energetico

svedese Vattenfall, con una richiesta di

indennizzo di 4,7 miliardi. L'azienda americana

è ricorsa all'ISDS nei confronti del Quebec,

“colpevole” di aver adottato una moratoria sul fracking.

Il tribunale è uno dei nodi della trattativa sul

TTIP, il trattato commerciale tra Europa e Stati

Uniti.

La mobilitazione dei cittadini (1,5 milioni hanno

già firmato la petizione) sta incrinando il fronte

favorevole al trattato.

Una consultazione promossa dalla Commis-

sione Europea nell'estate scorsa ha rivelato che,

su 150.000 persone ed enti vari, ben 145.000

soggetti sono contrari non solo all'ISDS, ma più

in generale a tutto il trattato.

Sergio Dalmasso

Tavolo delle Associazioni - Cuneo

mobilitando le società civili e dando credito alle molte voci progressiste che da tempo cercano di aprire un varco per un accesso decisivo alla modernità del pensiero e al libero arbitrio. Lo dimostrano sia eminenti intellettuali tunisini come Mohamed Talbi, Abdelmajid Charfi, sia la partecipazione in massa dei Tunisini alle manifestazioni di piazza contro il terrorismo in tutto il paese, sia l’imponente azione di informazione e di ribellione culturale che invadono i media con interventi, articoli, dichiarazioni, prese di posizioni contrarie all’oscurantismo, come non si è mai visto. Il secondo fronte è la globalizzazione, che ha posto l’economia e il profitto alla guida del mondo con ricadute catastrofiche a livello sociale e le cui fratture costituiscono un terreno fertile per l’islamismo radicale che promette una rivoluzione totale contro l’invadente cultura occidentale, cioè degli infedeli, che fa presa sui giovani europei di seconda o terza generazione, i così detti foreign fighters. Non è una novità ricordare le sacche di povertà aperte dal liberalismo selvaggio né l’acuirsi degli squilibri sociali; non è una novità ricordare che a gestire il mondo sono gli interessi economici di multinazionali senza scrupolo, che non devono nemmeno più rendere conto a stati o nazioni; non è una novità puntare il dito sul vuoto etico e spirituale creato dal profitto mondializzato. Se a questo si aggiungono le incoerenze delle alleanze dei paesi occidentali con i peggiori regimi repressivi del Golfo (in primis Arabia Saudita e Qatar), foraggiatori del fondamentalismo, i repentini cambiamenti che fanno degli amici di ieri i nemici di domani (il caso Bin Laden insegna), se si denuncia lo sfruttamento delle differenze religiose o etniche al fine di accendere conflitti che servono solo alla geopolitica globale per dividere e raggiungere obiettivi economici, si capisce come sia facile alimentare la diffidenza e l’odio e come sarebbe ipocrita pensare che queste incoerenze e ambiguità non abbiano ricadute sulle tensioni tra il mondo occidentale e il mondo arabo. Ecco allora che la globalizzazione può rivelarsi un veicolo privilegiato della rivoluzione totale promessa dai folli di Allah e che, come scrive Domenico Quirico, “il mondo si richiude sugli inventori della globalizzazione”. Ecco perché è da suicida guardare ai mali del mondo con lenti locali, mentre il terrorismo islamico ha mire globali tramite la riproposizione del Califfato islamico. La Tunisie restera debout (la Tunisia starà in piedi), diceva un altro dei cartelli innalzati da questo popolo mite, da questo piccolo paese stretto tra giganti africani allo sbaraglio (per prima la Libia, dove sono stati addestrati gli attentatori) e la riva nord del Mediterraneo, che si chiede come difendere le sue coste dalle ondate migratorie, mentre a monte la geopolitica e il fanatismo accendono i fuochi che fanno fuggire i disperati verso l’Europa della speranza, a rischio della loro vita nella perigliosa traversata del Mare nostrum, che sovente si trasforma in un cimitero

liquido, come attesta il drammatico numero di circa 4000 morti nel 2014. E gli inizi del 2015 non sono da meno… Fino a quando continuerà il Mediterraneo ad essere teatro delle atrocità degli uomini, incoscienti che questo mare non è altro che il risultato delle loro azioni, proprio come ha affermato il suo grande storico Fernand Braudel: “Il Mediterraneo è così come lo fanno gli uomini”?

Yvonne Fracassetti e Michele Brondino [Questo intervento riprende sostanzialmente l’omonimo

articolo pubblicato su “La Fedeltà” del 25.03.2015.]

n. 2 (165) – aprile il granello di senape pag. 8

Una profonda trasformazione culturale Note in margine al Foro Internazionale per l’Emancipazione e l’Uguaglianza

Il Ministero della Cultura Argentino ha organizzato, nello scorso mese di marzo, il Foro Internazionale per

l’Emancipazione e l’Uguaglianza, in cui ventinove intellettuali latinoamericani, nordamericani ed europei (politici, pensatori, scrittori, filosofi, critici, attivisti) hanno riflettuto e dibattuto attorno ai processi politici che si stanno vivendo in America Latina e sulla crisi economica e sociale che attraversa l’Europa. Noam Chomsky (Stati Uniti), Jean Luc Melenchon (Francia), Cuauhtémoc Cárdenas (Messico), Constanza Moreira (Uruguay), Emir Sader (Brasile), Piedad Córdoba (Colombia), Iñigo Errejón (Spagna), Jorge Alemán (Argentina), Ignacio Ramonet (Spagna), Álvaro García Linera (Bolivia), Leonardo Boff (Brasile), Gianni Vattimo (Italia), Paco Taibo (Messico), René Ramírez (Ecuador), Horacio González (Argentina), Camila Vallejo (Chile), sono alcuni dei nomi di politici e intellettuali che hanno partecipato all’incontro. L’America Latina di questo inizio di secolo è andata ritagliandosi uno scenario nuovo e molto diverso rispetto agli ultimi decenni del secolo scorso. Per alcuni si è trattato di un cambiamento economico, per altri di un cambiamento in primo luogo politico e sociale. La certezza, che si fa strada e che accomuna le diverse teorie, è data dall’autocoscienza del fatto che dietro l’economia, la politica e il sociale, il cambiamento profondo è stato culturale. Tale cambiamento, che si è venuto realizzando, rappresenta un progetto che, pur con matrici e cammini politici diversi nei vari paesi del Continente, ha cominciato a dar forma ad una ‘passione’: dopo molti anni – secoli – la società si trasforma in un soggetto storico sociale. In questi quindici anni l’America Latina è stata attraversata da una battaglia culturale: una lotta contro il neoliberismo e un ritorno alla politica, in cui – in controtendenza rispetto alla politica occidentale che continua a distruggere lo Stato Sociale – lo Stato si è andato convertendo in uno strumento di emancipazione, rafforzando il suo potere nei confronti del capitale economico e finanziario, ponendo limiti all’espansione senza limiti né leggi delle multinazionali, iniziando un processo di redistribuzione delle ricchezze, con un’attenzione privilegiata alle classi meno abbienti. Si tratta di una trasformazione culturale impressionante. Come ha affermato Noam Chomsky nel Foro, “per la prima volta, in 500 anni, l’America Latina ha fatto passi significativi verso la liberazione dal dominio imperiale (…). L’America Latina è all’avanguardia nella lotta contro l’attacco neoliberale. Ciò è dimostrato dai nuovi movimenti che sorgono anche

nell’Europa del sud, in Grecia o in Spagna. Il sistema capitalista statale globale fa fronte a uno dei suoi peggiori periodi di crisi. I risultati, come sempre, dipenderanno da come risponderà il pubblico”. E gli faceva eco Emir Sader, segnalando come “molti paesi hanno dato priorità, anziché all’aggiustamento fiscale, alla centralità delle politiche sociali, ai processi d’integrazione regionale, alle relazioni Sud-Sud, e non ai trattati di libero commercio con gli Stati Uniti. Oggi abbiamo la capacità di resistere al capitalismo mondiale. La lotta ideologica è determinante per i destini della nostra società e del mondo contemporaneo”. Questa trasformazione culturale in atto nel Continente è arrivata in Europa, come in una specie di ‘restituzione’ che i popoli colonizzati fanno nei confronti dei popoli colonizzatori: quella ‘vecchia’ Europa sempre più in crisi, una crisi che non è in primo luogo economica, bensì culturale e di identità. Il segretario politico del movimento spagnolo ‘Podemos’ ha messo in evidenza come “per la prima volta veniamo a testa alta a dire che anche noi non vogliamo rassegnarci e che è possibile. Vi è una crisi di regime, ma non dello Stato. È in crisi un modello di sviluppo che espelle i suoi migliori giovani, in cui si accetta di essere la periferia dell’Unione Europea. La situazione politica attuale è una possibilità di cambiamento storico. Dopo un lungo ciclo di protesta, di rabbia, oggi siamo in condizione di dire che vi è un lavoro in corso, che esiste una volontà popolare nuova”. Molto interessante la riflessione fatta dal Vicepresidente della Bolivia Álvaro García Linera rispetto a ciò che stanno vivendo i popoli del Mediterraneo in questi anni, molto simile a quanto l’America Latina ha vissuto e patito negli ultimi due decenni del secolo scorso, i ‘decenni persi’ grazie alle terrificanti e assurde misure di aggiustamento strutturale imposte ai governi latinoamericani dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale. “In America Latina abbiamo ormai trascorso quasi 15 anni di questo processo straordinario, mai prima raggiunto quanto alla sua irradiazione. È un obbligo per i governi progressisti e rivoluzionari avere la capacità di creare un regime economico sostenibile, redistributivo, generatore di ricchezza e di uguaglianza. Non si tratta di un tema di minore importanza. Vogliamo dire ai nostri fratelli europei che stiamo guardando a quanto avviene in Europa come se stessimo vedendo un film ‘retrò’. Ciò che vi succede oggi lo abbiamo già visto, è successo a noi. Quanto succede oggi in Europa è quello che è avvenuto in America Latina vent’anni fa, e il risultato fu una notte terribile”.

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L’impero del cibo Un ristretto numero di multinazionali forma “l’impero del cibo”, secondo la definizione di Olivier de Schutter, ex relatore speciale per il diritto al cibo per l'Onu, nella prefazione del rapporto “Who’s got the power? Tackling imbalances in agricultural supply chains” (Chi ha il potere? Affrontare gli squilibri nelle filiere agricole) del Bureau d'Analyse Sociétale pour une Information Citoyenne, pubblicato a novembre. Lo studio evidenzia una filiera composta da 2,5 miliardi di produttori collegata da uno strettissimo condotto formato dalle società di trasformazione e vendita ai 7 miliardi di consumatori. Una situazione accentuata dalla globalizza-zione. Nel 1980 il 90% del mercato dell'agro-chimica era in mano a venti società. Nel 2002 quegli stessi protagonisti si erano ridotti a sette. I produttori del caffè sono 25 milioni e i consumatori mezzo miliardo. Il 45% della tostatura è riservato a cinque marchi (Nestlè, Kraft-Mondelez, Sara Lee, Procter & Gamble e Tchibo). Il commercio a 3 soggetti (Neumann Gruppe, Ecom e Ed&F Man). Oltre cinque milioni di contadini coltivano il cacao. I loro primi interlocutori sono i trader. Due di essi (Cargill e Olam) controllano il 35% del mercato. Altri tre soggetti controllano metà della macinazione e produzione di cioccolato (Barry Callebaut, Cargille Blommer Chocolate Company). Ma chi si aggiudica il 40% del valore del prodotto sono le quattro aziende che vendono il 50% del prodotto finale (Nestlè, Mars, Mondelez International e Ferrero). Una concentrazione di potere che accresce l'impoverimento dei contadini.

S. D.

Apocalisse Il Doomsday Clock è l’orologio che ogni anno dà l’allarme sull’avvicinarsi della mezzanotte dell’apocalisse spostando le lancette avanti o indietro. È stato ideato nel 1947 da alcuni scienziati dell'Università di Chicago che avevano aiutato a sviluppare le prime armi atomiche nel Progetto Manhattan. Mancavano 5 minuti a mezzanotte nel 2010, ora ne mancano solo più tre. Solo nel 1984, in piena guerra fredda si arrivò così vicini all'ora fatale. A spaventare gli studiosi la nuova proliferazione delle armi nucleari. Il Presidente Usa, Barak Obama, Premio Nobel per la Pace per “la sua visione di un mondo libero dalle armi nucleari, che ha potentemente stimolato il disarmo” ha presentato un program-ma di aggiornamento degli impianti nucleari, che, unito a nuovi acquisti, si stima possa costare circa mille miliardi di dollari. I dibattiti sulle armi nucleari sono stati portati avanti dai pochi paesi che le possiedono (insieme ne detengono più di 16mila testate). Più autorevolezza avrebbero di certo i 33 Paesi della Comunità di Stati Latinoamericani e dei Caraibi (Celac). In occasione del recente terzo Vertice annuale i loro capi di stato si sono espressi a favore di un trattato sul divieto delle armi nucleari. Già nel 1967, attraverso l'adozione del trattato di Tlatelolco, le nazioni del Celac sancirono il rifiuto, da parte di tutta una regione geografica, del concetto delle armi nucleari quali elementi garanti della sicurezza. Il trattato è stato di riferimento e ispirazione per la creazione di altre quattro aree denu-clearizzate nel mondo, per un totale di 110 paesi.

Sergio Dalmasso Tavolo delle Associazioni - Cuneo

Durante le giornate di studio e di dibattito non poteva mancare un denuncia nei confronti delle recenti assurde minacce degli Stati Uniti contro il governo del Venezuela: “Al governo nordamericano diciamo: voi siete una minaccia per la sovranità latinoamericana, noi non siamo un pericolo per nessuno”. Il Foro Internazionale si è concluso con la firma di un documento comune: Manifesto di Buenos Aires per

l’Emancipazione e l’Uguaglianza, in cui i partecipanti hanno voluto esprimere il loro impegno pubblico e mondiale “con le lotte sociali e politiche che in questo momento sono in gestazione nell’umanità, in vista della costruzione di un destino migliore per i nostri popoli. Stiamo vivendo un’epoca storica in cui s’incrociano esperienze politiche che negli ultimi anni hanno dato vita a una profonda revisione critica dell’egemonia neoliberista. (…) La polarizzazione fra

una concezione mercantile della società, che ammette unicamente consumatori disuguali, e una concezione democratica, che suppone dei cittadini soggetti di diritti, è stata ed è una disputa nell’ambito teorico e nel campo della politica, è stata ed è una lotta civilizzatrice. Costruire un’alternativa al modello neoliberale presuppone la ricostruzione dello Stato e del suo carattere imprescindibile quale sostegno dei diritti sociali, della promozione di forme autogestite di produzione, della funzione sociale delle banche pubbliche, delle politiche inclusive nell’ambito della salute, dell’educazione e dell’abitazione. Lo Stato e le comunità devono tornare ad essere strumenti di universalizzazione dei diritti, di costruzione della cittadinanza, di egemonia degli interessi pubblici al di sopra di quelli del mercato”.

Claudio Mondino

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Non cede il ponte che unisce le due sponde del Mediterraneo La sfida al terrorismo vinta dal Forum Sociale Mondiale e dal popolo tunisino

Il 18 marzo, alla fine, si è trasformato in una clamorosa sconfitta per gli “uomini in nero” che hanno massacrato gli innocenti visitatori del Museo del Bardo, ospiti di una splendida città e di uno splendido popolo. Il fiume di persone che hanno partecipato alla Marcia contro il terrorismo è stata la risposta al tentativo di piegare la volontà e la forza di un popolo che ha scelto un rinnovamento democratico, tra mille difficoltà, incertezze e fatiche, che non si è arreso alla paura, che ha portato famiglie e bambini a sfilare per le strade di Tunisi, sotto un unico simbolo: migliaia di bandiere nazionali. Poi i cartelli e le scritte, che hanno ripreso quelli di Parigi: “Je suis tunisien” (sono tunisino) – “Je suis Bardo” (sono il museo del Bardo) - Je suis … seguito dal nome delle vittime dell’attentato. Più di 100.000 persone hanno marciato fino al Bardo, dando una testimonianza imprevedibile per un Paese islamico, con tante donne, con o senza velo, famiglie d’italiani residenti a Tunisi, che non pensano minimamente ad andarsene. Un evento formidabile! Tutti insieme per difendere la libertà e la democrazia, non solo in Tunisia, ma nel Mediterraneo e in Europa. Tunisi non è Parigi, non ha certo le tradizioni laiche e libertarie della nazione che ha espresso la Rivoluzione francese, ma ha dato una dimostrazione rara di dignità e di coraggio, che dovrebbe farci molto riflettere sulla nostra tiepidezza, sulla nostra prudenza, che è risuonata quasi come un’omissione, sul piano della solidarietà e dei valori di cui ci riteniamo portatori privilegiati. Tiepidezza che si è manifestata molto chiaramente nella diminuita partecipazione al Forum Sociale Mondiale, il secondo in terra tunisina, da parte della società civile occidentale. Il Forum si apriva il 24 marzo, e l’effetto terrore ha funzionato. Forse c’era anche quest’obiettivo nel mirino dei terroristi: mettere in campo un deterrente che scoraggiasse i partecipanti, che li convincesse che Tunisi non era una città sicura, e che fosse meglio starne alla larga. Contemporaneamente sabotare il turismo, una delle fonti di reddito più importanti per l’economia del Paese. Si è detto: un Forum Sociale in tono minore. Ma non è stato così, se non nei numeri. Il Forum si è svolto regolarmente in tutte le sue forme e le sue attività. Novità più che rilevante: il partito politico al-Nhada, considerato “moderato”, ma dichiaratamente religioso e islamista, non solo ha parteci-pato ufficialmente alla Marcia contro il terrorismo, ma ha aderito, sempre in via ufficiale, al Forum Sociale! Un conto sono i giovani nordafricani, protagonisti delle cosiddette primavere arabe, o i giovani tunisini animatori della rivoluzione del 2010-2011, conosciuta come la Rivoluzione dei Gelsomini, che portò alla caduta di Ben Alì, presidente/dittatore della Tunisia; altro conto è un partito politico islamico strutturato, con responsabilità di governo.

Un passo sicuramente carico di significato, all’interno e verso l’esterno del Paese. A conclusione di questa breve incursione virtuale in una manifestazione che merita un approfondimento, soprattutto nella sostanza della sua evoluzione, tra pregi e difetti, errori e progressi, sconfitte e vittorie, riportiamo uno stralcio del diario tunisino di Vittorio Agnoletto, membro del Consiglio Internazionale del Forum Sociale Mondiale, artefice e testimone affidabile del cammino dell’altro mondo possibile, in cui molti di noi credono, con il cuore e con la mente. Ci racconta la prima giornata del Forum. Dopo la manifestazione di apertura, che si è svolta sotto una pioggia torrenziale, si è aperto il Forum. Decine di migliaia i partecipanti da tutto il mondo, moltissimi giovani tunisini, molte le delegazioni dai Paesi del Maghreb, ampia la presenza di giovani dal resto del continente africano e, come consueto, varie centinaia sono i brasiliani. Tantissimi sono i temi in discussione nelle decine di seminari che si svolgono nel Campus dell’Università di El Manar. Ampio spazio hanno sia i temi legati alla sovranità alimentare e alla lotta contro l’accaparramento delle terre, con la denuncia da parte di Via Campesina del ruolo che giocano in questo fenomeno, oltre alle grandi compagnie internazionali, anche alcuni Paesi europei; sia la lotta al traffico degli esseri umani, che è stata al centro di un seminario organizzato da Libera e da alcune associazioni tunisine, al quale hanno partecipato i Comboniani e la Federazione delle Chiese Evangeliche. In assenza di una collaborazione umanitaria tra gli Stati, il tentativo è quello di rafforzare la collaborazione tra la società civile dalle due sponde del Mediterraneo. Se si eccettua il discreto controllo da parte della polizia, al quale devono sottoporsi tutti coloro che entrano al Forum, la presenza di alcune camionette militari davanti ai punti sensibili situati nel centro della città e i rotoli di filo spinato in alcune traverse della centrale Avenue Burghiba, non è facile per i partecipanti al Forum rintracciare i segni della strage del 18 marzo. Ho incontrato un gruppo di ragazzi tunisini che partecipano al Forum e ho chiesto loro come è cambiata la loro vita dopo l’attentato. “In nulla, tutto prosegue come prima – mi hanno risposto – non deve cambiare nulla, altrimenti diamo ragione ai terroristi. Certo che abbiamo paura, è vero che alcune migliaia di nostri connazionali combattono in Siria a fianco dell’ISIS, ed è anche vero che qui ci sono delle cellule dormienti, ma la nostra vita non deve cambiare. Noi dobbiamo difendere la democrazia che abbiamo conquistato con la nostra rivoluzione cinque anni fa, e se sarà necessario, sapremo resistere”. Anche noi sapremo resistere?

Claudia Filippi

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Campagna “STOP TTIP ITALIA” Il negoziato TTIP e la campagna per bloccarlo La Campagna Stop TTIP Italia è nata nel febbraio 2014 per coordinare organizzazioni, reti, realtà e territori che si oppongono all’approvazione del Trattato di Partenariato Transatlantico su commercio e Investimenti (TTIP). Ad essa hanno aderito decine di associazioni sindacali, degli agricoltori, civiche, culturali, sociali, ambienta-liste ed è sostenuta dal Movimento 5 Stelle, da l’Altra Europa per Tsipras, da Rifondazione Comunista, SEL, Partito Pirati Italiani e da Primalepersone. La Campagna è cresciuta notevolmente nell’ultimo anno e vivrà un importante appuntamento il 18 Aprile 2015, “Giornata di azione globale contro il TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership)”, il trattato di libero scambio tra Unione Europea e Stati Uniti d’America attualmente oggetto di negoziati volutamente segreti, che rappresenta qualcosa di più di una semplice trattativa di liberalizzazione commerciale. È l’ennesimo attacco frontale che vede lobby economiche, governi e poteri forti accanirsi su quello che rimane dei diritti del lavoro, della persona,

dell’ambiente e di cittadinanza dopo anni di crisi economica e finanziaria, in un più ampio tentativo di disarticolare le conquiste di anni di lotte sociali con le politiche di austerity e di redistribuzione del reddito verso l’alto. Il negoziato TTIP, lanciato ufficialmente nel luglio 2013 e condotto in modo opaco e segreto dalla Commissione europea e dall’Amministrazione statunitense in vista di una sua possibile conclusione a fine 2014, disegna un quadro di pesante deregolamentazione, dove obiettivo principale non saranno tanto le barriere tariffarie, già abbastanza basse, ma quelle non tariffarie, che riguardano gli standard di sicurezza e di qualità di aspetti sostanziali della vita di tutti i cittadini: l’alimentazione, l'istruzione e la cultura, i servizi sanitari, i servizi sociali, le tutele e la sicurezza sul lavoro. Con l’alibi di un’omogeneizzazione delle normative e la falsa illusione di risollevare l’economia dell’Europa, si assisterà ad una progressiva corsa verso il basso, in cui saranno i cittadini e l’ambiente a farne principalmente le spese, in un processo che porterà alla progressiva mercificazione di servizi pubblici e di beni comuni. Un rischio che viene tenuto sotto traccia a causa di trattative svolte a porte chiuse, sotto la forte pressione delle lobby delle industrie private senza un coinvolgimento efficace dei Parlamenti e del Congresso e senza che i cittadini vengano adeguatamente informati. Tra i principali obiettivi del negoziato c’è la tutela dell’investitore e della proprietà privata, grazie alla costituzione di un organismo di risoluzione delle controversie, un vero e proprio arbitrato internazionale, a cui le aziende potranno appellarsi per rivalersi su governi colpevoli, a loro dire, di aver ostacolato la loro corsa al profitto. Qualsiasi regolamentazione pubblica che tuteli i diritti sociali, economici ed ambientali, con la scusa della tutela della competizione e degli investimenti, rischierà di soccombere dinanzi alle esigenze delle aziende e dei mercati, tutelate da sentenze che saranno a tutti gli effetti inappellabili. Scenari peraltro già avverati nell'ambito di altri trattati di libero scambio come il Nafta, o che hanno permesso a una multinazionale energetica come la Vattenfall di citare in giudizio il Governo tedesco per la decisione della Germania di chiudere le proprie centrali nucleari. Per questo, come movimenti e organizzazioni sociali italiane, abbiamo deciso di mobilitarci per opporci a un disegno politico che ha nella mercificazione dei diritti e nella tutela dei mercati il suo obiettivo principale. Ci appelliamo a tutte le forze sociali, sindacali e politiche del nostro Paese perché convergano su una mobilitazione comune per fermare il negoziato TTIP, esattamente come successe alla fine degli anni ’90 con

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l’Accordo Multilaterale sugli Investimenti, nel decen-nio scorso con la Direttiva Bolkestein, o più recen-temente con il negoziato Anti-Counterfeiting Trade Agreement (ACTA), il trattato che, con la scusa della lotta alla “pirateria” informatica e della salvaguardia del diritto d’autore, avrebbe attentato al diritto alla privacy e al libero accesso alla rete dei cittadini. Alcuni buoni motivi per fermare il TTIP

Sicurezza alimentare: le norme europee su pesticidi, Ogm, carne agli ormoni e più in generale sulla qualità degli alimenti, più restrittive di quelle americane e internazionali, potrebbero essere condannate come “barriere commerciali illegali”; Acqua ed energia: sono settori a rischio privatizzazione. Tutte le comunità che si dovessero opporre potrebbero essere accusate di distorsione del mercato; Servizi pubblici: il TTIP limiterebbe il potere degli Stati nell’organizzare i servizi pubblici come la sanità, i trasporti, l'istruzione, i servizi idrici, educativi e metterebbe a rischio l’accesso per tutti a tali servizi a vantaggio di una privatizzazione che rischia di escludere i meno privilegiati; Diritti del lavoro: la legislazione sul lavoro, già drasticamente deregolamentata dalle politiche di austerity dell’Unione Europea, verrebbe ulteriormente attaccata in quanto potrebbe essere considerata “barriera non tariffaria” da rimuovere; Finanza: il trattato comporterebbe l’impossibilità di qualsivoglia controllo sui movimenti di capitali e sulla speculazione bancaria e finanziaria; Brevetti e proprietà intellettuale: la difesa dei diritti di proprietà delle imprese sui brevetti metterebbe a rischio la disponibilità di beni essenziali, quali ad esempio i medicinali generici. Così come la difesa dei diritti di proprietà intellettuale possono limitare la diffusione della conoscenza e delle espressioni artistiche; Gas di scisto: il fracking, già bandito in Francia per rischi ambientali, potrebbe diventare una pratica tutelata dal diritto. Le compagnie estrattive interessate ad operare in questo settore potrebbero chiedere risarcimenti agli Stati che ne impediscono l’utilizzo. In questo modo si violerebbe il principio di precauzione sancito dall’Unione Europea, incentivando iniziative economiche che mettono in pericolo la salute umana, animale e vegetale, nonché la protezione dell’ambiente; Libertà e internet: i giganti della rete cercherebbero di indebolire le normative europee di protezione dei dati personali per ridurli al livello quasi inesistente degli Stati Uniti, autorizzando in questo modo un accesso incontrastato alla privacy dei cittadini da parte delle imprese private; Democrazia: il trattato impedirebbe qualsiasi possibilità di scelta autonoma degli Stati in campo

economico, sociale, ambientale, provocando la più completa esautorazione di ogni intervento da parte degli enti locali; Biocombustibili: il TTIP, attraverso l’armoniz-zazione delle normative europee in ambito energetico, incentiverebbe l’importazione di biomasse americane che non rispettano i limiti minimi di emissione di gas a effetto serra e altri criteri di sostenibilità ambientale. Insomma: ribellarsi ad un trattato che antepone la logica del profitto illimitato alla tutela dei diritti inalienabili, sanciti formalmente nelle convenzioni europee e internazionali, vuol dire assumersi la responsabilità di determinare un cambiamento che sia a beneficio di tutti e non ad appannaggio dei soliti noti.

Pagina curata da Ugo Sturlese attingendo dai

materiali della Piattaforma di “Stop TTIP Italia” e dall’appello per la mobilitazione del 18 Aprile 2015, Giornata di azione globale contro il TTIP

che ha visto associazioni, movimenti, partiti

firmatari della Campagna della città di Cuneo e

Provincia impegnati per la buona riuscita del

presidio nel pomeriggio del 18 aprile in Via Roma.

Per proseguire nella campagna tutti sono invitati a

firmare la petizione on line “Stop TTIP” al link https://stop-ttip.org/firma/.

Per informazioni e approfondimenti si segnala il

sito: http://stop-ttip-italia.net/

n. 2 (165) – aprile il granello di senape pag. 13

La guerra del debito e il giubileo della pace

“E’ vero che l’Italia ha vissuto al di sopra delle sue possibilità?”. Questa è la prima di tante domande con

le quali Antonio de Lellis ha stimolato e provocato i

presenti nell’ultima serata del corso sulla nonviolenza

promossa dagli organismi e dalle associazioni che

fanno parte del comitato Campagna per la Difesa

Civile Non Armata e Nonviolenta (cell. 3939865809 -

[email protected]). Molisano, consi-

gliere nazionale di Pax Christi Italia, uno dei promotori

dei movimenti per l’acqua pubblica, per la tutela dell’ambiente e del territorio, per il “no alle trivellazioni” e di tante altre lotte, Antonio ha curato il

libro La vita prima del debito – Perché mai dovremo

pagare? (Roma, Bordeaux editore, p. 136, € 9,00),

scritto a più mani e frutto di un percorso personale e

collettivo.

Non è certo facile spiegare la questione “debito pubblico” - genesi e legittimità - a chi non è molto

esperto di finanza, titoli di Stato, tasso di interessi ed

altro, ma Antonio ha saputo coinvolgerci con

semplicità di linguaggio e chiarezza di esposizione.

La domanda iniziale ha subito rivelato quanto siamo

prigionieri di ‘dogmi’ che ormai sono impliciti, li crediamo veri e ci condizio-

nano non facendoci alzare la

testa, reagire. Antonio è cate-

gorico: non è vero che

abbiamo vissuto al di sopra

delle nostre possibilità. Dal

1980 al 2014 l’Italia ha risparmiato più di 700 miliardi

di euro. Una cifra enorme,

nonostante i nostri problemi

terribili di corruzione, malaf-

fare e stili di vita sbagliati.

Dov’è finita quella somma? E’ stata utilizzata per pagare gli interessi passivi. Proprio

così: questo risparmio è stato

assorbito dal debito di

partenza, di soli 114 miliardi,

e soprattutto dagli interessi

pagati sul debito, pari a ben

più di 2.000 miliardi!

All’inizio degli anni ‘80 il debito del nostro paese, cre-

sciuto per una gestione poli-

tica e amministrativa dissen-

nata, era quindi ancora basso.

Poi il divorzio datato 1981 tra

Banca d’Italia e Ministero del Tesoro ha permesso alla

speculazione di prendere il

sopravvento e di vendere i

titoli di stato italiano a un

tasso di interesse anche a due cifre, molto più elevato

rispetto all’inflazione dell’epoca. Da calcoli fatti, se si fosse applicato un tasso di interesse anche solo del 2%

sull’inflazione, con un guadagno quindi reale, oggi il debito italiano sarebbe pari alla metà! Fa pensare che

l’Italia abbia un debito pubblico di poco superiore a quello della Germania – sottolinea – ma quest’ultima paga all’anno 27 miliardi di interessi, mentre noi ne

paghiamo 82!

Ci toccherà ciò che sta vivendo la Grecia? Certamente

c’è chi lo vuole! Anche quel paese, come tutti gli altri considerati molto negligenti, pur con tutti gli sperperi

del mondo politico e dei cittadini, non ha vissuto al di

sopra delle sue possibilità. Anche la Grecia, secondo

gli esperti, in presenza di un sistema finanziario con

regole precise, avrebbe un debito metà dell’attuale. Pochi di noi presenti conoscevamo la parola

‘anatocismo’, termine tecnico per riferirsi a quel meccanismo illecito di far maturare gli interessi sugli

interessi precedenti. Ma questo è avvenuto con i debiti

del nostro Paese e di tanti altri, e per questo si può

tranquillamente dire che in relazione ai debiti pubblici

si è applicata una gravissima usura internazionale.

Comunemente chi pratica

l’usura lo si chiama strozzino o cravattaro, termini che

sottolineano una situazione di

schiavitù in cui si trovano gli

indebitati. Ebbene, noi siamo

entrati come popolo in questo

sistema di usura internazio-

nale. Il debito, da strumento

utilizzato per poter comprare

attrezzature e creare lavoro, è

diventato un’arma con la quale tenere legate le nazioni

e succhiare le loro risorse.

Un’arma che mette i popoli in una situazione di asservi-

mento, schiavitù, e colloca le

generazioni una contro l’al-tra. Veramente si può parlare

di ‘guerra del debito’ osser-vando ciò che sta succedendo

in Grecia e ormai anche in

alcune nostre periferie, dove

la gente arriva a immergersi

nei bidoni della spazzatura

alla ricerca di alimenti.

Antonio de Lellis è un

cristiano che prende sul serio

la parola di Dio e la interroga

in relazione ai gravi problemi

dell’attualità. Così condivide con noi la sua e altrui ricerca

n. 2 (165) – aprile il granello di senape pag. 14

Ricchi e poveri in Italia L'1% della popolazione mondiale possiede oggi il 48% della ricchezza. Ma nel 2016, secondo un rapporto di Oxfam, la ricchezza dell'1% supererà quella del 99%. La crisi non è per tutti: gli 80 personaggi più ricchi del mondo assommavano nel 2010 un patrimonio pari a 1.300 miliardi di dollari. Ora possiedono 1.900 miliardi. Basandosi sui dati della Banca d'Italia e della classifica della rivista Forbes, Repubblica ha dimostrato quanto la disuguaglianza stia crescendo anche in Italia. Nel 2008 la ricchezza netta accumulata dal 30% più povero degli italiani, poco più di 18 milioni di persone, era pari al doppio del patrimonio complessivo delle dieci famiglie più ricche del Paese. Nel 2013 le dieci famiglie con i maggiori patrimoni sono diventate più ricche di quanto lo sia nel complesso il 30% degli italiani (e residenti stranieri) più poveri. Per loro un balzo in avanti patrimoniale di quasi il 70%, compiuto mentre l'economia italiana balzava all'indietro di circa il 12%. L'Unicef denuncia che il 16% delle famiglie con bambini, una volta ogni due giorni, non è in grado di garantire ai figli un pasto sostanzioso. Michele Ferrero, e la sua famiglia, era il primo italiano, al 31° posto nel mondo, con un patrimonio di 23,2 miliardi di dollari, pari alla somma del Prodotto interno lordo di Gambia, Somalia, Liberia, Repubblica Centrafricana, Lesotho, Burundi, Eritrea, Swaziland, Sierra Leone, Togo (nazioni abitate da 53 milioni di persone). Michele Ferrero era italiano, ma Ferrero International, società di cui era proprietario, ha sede in Lussemburgo.

Sergio Dalmasso

Tavolo delle associazioni - Cuneo

in relazione al debito e alla bibbia.

Il debito non esiste da oggi. Economisti di fama

internazionale, anche non credenti, affermano che

nella situazione attuale “ci vorrebbe un giubileo in chiave biblica”. Il giubileo biblico, in parole semplici, è un’applicazione concreta del principio della distribuzione universale dei beni della terra, che Dio ha

creato per tutti! Per questo, nel libro del Levitico, Dio

parla a Mosè comandando che ogni 50 anni si

restituiscano le proprietà e i beni sottratti. Si riducano

le disuguaglianze tra ricchi e poveri. Quando si parla

di una società con pochissimi molto ricchi e tantissimi

molto poveri, occorre riportarla all’uguaglianza! La Bibbia poi sottolinea che il lavoro non è per

arricchirsi, ma è legato al comandamento del

‘custodire’ la vita, cioè tutto ciò che è vivente, persone, animali e terra! Occorre riprendere e

sviluppare questo concetto di ‘economia della custodia’. I vangeli ci presentano un Gesù che non ha una

relazione molto buona con il ‘tempio’ di Gerusalemme, all’epoca la banca più grande del medio oriente. Il suo gesto di cacciare i mercanti e

scaraventare i tavoli in terra lo possiamo certo

interpretare come un rifiuto netto di un sistema

economico-finanziario (così lo definiremmo oggi)

oppressivo! Così, inquadrato in questo contesto,

nell’atto della povera donna che dà tutto ciò che ha in

offerta al tempio possiamo non solo sottolineare la sua

generosità eroica, ma soprattutto la denuncia di Gesù

verso una religione che sottraeva addirittura il

necessario vitale per vivere! Non è forse questa

denuncia chiara di Gesù verso la disumanità di un

sistema oppressivo che ha fatto sì che si scatenasse il

desiderio di ucciderlo?

Queste considerazioni bibliche a che cosa portano in

relazione al nostro tema? Questa è la domanda finale a

cui ci invita Antonio De Lellis: “Se il debito è una

convenzione umana e se il giubileo è una prescrizione

biblica, quando pagare il debito mette a rischio la vita,

cosa viene prima?” Questa è la domanda vera del libro, domanda che la società umana si è fatta lungo la sua

lunga storia, alla quale il titolo risponde: la vita prima

del debito!

Non è questione di non pagare i debiti, perché il debito

giusto è da onorare. Ma il debito illegittimo e già

pagato, no.

Le proposte del libro sono varie, come la moratoria per

il pagamento del debito pubblico, l’indagine popolare

(audit) sulla formazione di questo debito per

annullarne la parte illegittima, il divieto di transazioni

finanziarie per i paradisi fiscali, le azioni contro le

politiche di privatizzazioni dietro le quali ci sono

trasferimenti enormi di denaro dal pubblico al privato

senza reali benefici per la collettività, come tante

esperienze purtroppo attestano. Certo gli autori

invitano ognuno di noi a mettersi in gioco, perché tutti

siamo responsabili della situazione attuale di difficoltà,

anche solo per il nostro silenzio e la nostra apatia.

Davanti alle tante domande che abbiamo

sull’argomento e a quelle che sicuramente queste poche righe, per forza incomplete, hanno suscitato,

invito caldamente a leggere il libro, veramente

illuminante e arricchente.

Antonio termina sottolineando la ricchezza di un

cammino fatto da movimenti popolari di estrazione

diversa. Ricorda la novità rivoluzionaria delle parole di

papa Francesco ai movimenti popolari, quando invita a

lottare per casa, lavoro, terra: è una lotta benedetta!

“Il cristianesimo che non si vuole sporcare le mani è un’altra cosa” è la sua ultima affermazione prima delle domande. Veramente Antonio mi ha aiutato a iniziare

bene la settimana santa 2015!

Flavio Luciano

n. 2 (165) – aprile il granello di senape pag. 15

Una bugiarda aureola di gloria Cent’anni fa l’Italia entrava nella Grande guerra sospinta da un’ondata di retorica e falsi miti. Ma fin da subito si alzarono voci di denuncia contro le menzogne della propaganda interventista,

in particolare dal mondo femminile.

È in arrivo il centenario della Grande Guerra, con il suo fardello di celebrazioni cariche di enfasi e di retorica. Come già accaduto in passato ad ogni decennale, ci sarà chi sceglierà di sottolineare lo spirito risorgimentale del conflitto, chi il richiamo profondo delle terre irredente e chi ancora il coraggio e l’abnegazione delle truppe al grido eroico di “Savoia!”. Ma questa volta qualcosa è cambiato, e forse si sentiranno anche musiche diverse, un po’ per lo spirito corrosivo della post-modernità che guarda con sospetto all’epica delle grandi narrazioni, un po’ per la possibilità di accedere in modo sistematico alla mole di documenti sedimentati nel corso del tempo che ridimensionano la solidità storica di certa vulgata, un po’ anche perché la distanza dai fatti consente di guardarli con occhio disincantato. Le voci del dissenso circa il patriottico ardore dell’entrata in guerra, costrette fino a qualche anno fa nei circoli degli antimilitaristi con l’accusa di disfattismo, oggi hanno ricevuto legittimità acquistando un più ampio diritto di cittadinanza. Da qualche tempo non è più così raro sentir dire che se l’Italia arrivò alla guerra non fu per prendersi Trento o Trieste, ma perché nel primo decennio del secolo era cresciuta una decisa volontà di guerra e si era espansa in modo incontrollabile. Non è più scandaloso sentir parlare di una vera e propria cultura della guerra che finì per alimentare un gran fervore di spinte a vantaggio dell’intervento nelle élite capaci di orientare l’opinioni pubblica, come testimoniano centinaia di scritti condivisi non soltanto dai lettori minori o dalle personalità più eccentriche della cultura del primo ‘900, ma anche da coloro che hanno fatto la storia italiana del primo quarto di secolo.

Non fu un secondo Risorgimento

A essere contestate sono in particolare le radici risorgimentali della Grande Guerra, quelle che la vorrebbero collegata al desiderio di pienezza di un’identità nazionale incompiuta. Il concetto di nazione e di nazionalità che viene sbandierato come motore dell’ingresso in guerra dell’Italia nel 1915 non può essere ricondotto al Risorgimento, movimento che vedeva nella “nazione” un’idea a servizio della libertà e uno strumento per inverare la libertà dei popoli. Non fu certo inseguendo questo ideale che l’Italia entrò in trincea: quel che prevalse fu la nazione come strumento per selezionare i popoli più forti, in un’ottica che esprimeva volontà di potenza e che doveva permettere di stabilire ranghi e graduatorie nella gerarchia delle potenze del mondo, un ideale

costruito non in vista della libertà dei popoli, ma come strumento di aggressione e come criterio di selezione gerarchica. Un’idea ben chiara di questa trasformazione è offerta dalle pagine delle riviste che costruivano e alimentavano il clima culturale dei primi anni del Novecento, quando ancora non c’erano televisione e radio a fare opinione. Erano gli anni dei quotidiani e delle “Riviste” firmate da intellettuali di grido, tirate già in alcune migliaia di copie a numero, e si chiamavano La Voce e Lacerba, Il Regno e Il

Leonardo. Fu sulle loro pagine che si accese il dibattito sull’opportunità dell’intervento, e fu nei loro corsivi d’assalto che venne tirata in ballo l’idea di nazione come bene da difendere con orgoglio, indicando nella guerra la strada giusta “per combattere i soprusi altrui e per tutelare il diritto nostro”. Ci furono anni di fervente lavoro nelle retrovie, insomma, per portare legna al fuoco di un conflitto che fu enormemente più che la risposta piccata all’attentato localista che causò la morte dell’arciduca d’Austria per mano dell’attivista serbo Gavrilo Princip.

La “Grande” Guerra

La Prima Guerra Mondiale ha dimensioni e caratteristiche tali da non avere paragoni con nessuno dei conflitti che l’hanno preceduta. È innanzitutto una guerra dal valore costituente e periodizzante, capace di inaugurare una nuova epoca, il “secolo breve” di cui parla Hobsbawm, e di generare un assetto geo-politico radicalmente nuovo. Se è stata capace di far cadere il II Reich guglielmino, all’apparenza solido e prospero, di far intervenire gli USA, ponendo le condizioni per farli diventare i nuovi padroni del mondo, di demolire potenze imperiali secolari, non può essere imputata a un fatto circoscritto e puntuale, per quanto importante, come l’assassinio dell’Arciduca d’Austria. Nasce dai rancori covati per anni nel cuore delle vecchie potenze europee, come ben evidenzia Freud là dove parla di una guerra “voluta” descrivendo l’ “entusiasmo verso la morte” che attraversa l’Europa nei primi anni del Novecento, per contagiare poi altre potenze anche lontanissime, dal Brasile all’Australia, che addirittura farà proprio di questa guerra l’evento fondativo della propria autonoma identità. Ma è anche una guerra ideologica, in cui si scontrano blocchi culturali separati da profonde fratture. In primo luogo è sfida della kultur tedesca alla civilisation anglo-francese, laica, liberale, democratica, tecnolo-gica, come recita un documento degli accademici tedeschi a sostegno dell’entrata in guerra della

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Germania: “Non è guerra per l’Alsazia o la Lorena, ma all’Illuminismo e alla sua eredità…”. Ma è anche scontro aperto tra il pacifismo e il militarismo interventista di cui è espressione di punta il Futurismo, che dipinge la trincea come alcova, le pallottole come petali, la mitraglia come dama. Nello scontro con l’interventismo militante il pacifismo arriva in ritardo, colto alla sprovvista dall’esplosione di un conflitto che, per quanto voluto, stordisce per la sua violenza sproporzionata. Seppur covato da tempo, esplode come imprevisto dopo un lungo periodo di pace, o meglio, di non-guerra. Gli ultimi conflitti che avevano toccato il mondo occidentale nell’800 erano stati in Crimea, in America tra Nordisti e Sudisti, o a Sedan (in Francia, nella guerra franco-prussiana): in questo scenario i pacifisti italiani, forti e determinati contro il colonialismo, si trovano impreparati. E tuttavia il loro pensiero matura rapidamente e si consolida come dottrina consapevole e autonoma, affinando le proprie ragioni col progredire della guerra cogliendone tutta la modernità e le differenze rispetto ai conflitti del passato.

Una guerra “moderna”…

Bastarono pochi mesi per capire che ci si trovava di fronte a un evento senza precedenti, innanzitutto perché si trattava di una guerra di massa. Il nuovo secolo si era avviato verso la società di massa in mille ambiti, dallo sport al cinema, dai partiti alla scuola, dalle manifestazioni ai divertimenti. Ora l’Europa si trovava costretta a fare i conti con la tragedia di massa e la morte di massa: dalla battaglia della Marna a quella di Verdun i bollettini di guerra andarono assumendo dimensioni inusitate, nonostante la Guerra di Secessione americana del 1861 e il conflitto Russo-Giapponese del 1904 avessero lasciato intravedere il potenziale distruttivo delle nuove armi, in particolare delle mitragliatrici. Alla fine della guerra i numeri furono impressionanti: la Francia contò 1.300.000 morti, la Gran Bretagna 1.000.000, la Russia quasi due milioni, come la Germania; l’Austria 1.100.000, l’Italia 670.000. Quella che si era combattuta era una guerra tecnologica, in cui il Positivismo aveva perso la propria verginità: era caduta la maschera buona e

ottimista della scienza, quella che avrebbe dovuto condurre l’umanità al progresso, migliorando le condizioni di vita, e si era scoperto in modo esplicito che di tecnologia e di scienza si poteva morire, e per di più ferocemente! Spesso si guarda a Hiroshima come luogo dove la tecnica ha svelato il proprio volto crudele, dimenticando che prima di Hiroshima c’è stato Ypres, il laboratorio a cielo aperto per la messa a punto delle bombe a gas, e che la tecnologia ha dato il proprio massiccio contributo al corso della I Guerra mondiale, con la costruzione di aerei, mitragliatrici, carri armati, obici, sottomarini… Un simile impegno di risorse aveva chiesto alla guerra di essere una guerra totale, in cui tutto - stampa, economia, strutture - doveva essere mobilitato per la guerra. L’intera produzione industriale europea era stata orientata, direttamente o indirettamente, a sostenere lo sforzo bellico, e ne aveva ricevuto un incremento, a partire dai casi più eclatanti di Ansaldo, Ilva o Fiat, fino ad arrivare alle piccole aziende di provincia come la Way Assauto, fabbrica astigiana che vide decuplicare i propri operai da 400 a 4.000 nel corso dei 3 anni di guerra.

… che viene da lontano

Per comprendere le ragioni di un conflitto di tali proporzioni è necessario andare al di là delle scintille “prossime” e delle cause immediate che tutti conosco-no, dalle tensioni nell’Impero austro-ungarico all’as-sassinio dell’arciduca Ferdinando d’Asburgo, guardan-do ad altri fattori “remoti” di portata continentale. C’è innanzitutto da riandare alla crisi economica del 1873-1895, considerata la prima crisi del Capitalismo per sovrapproduzione, figlia di un periodo di stagnazione con profonde ripercussioni in termini di tensioni sociali. Il rimedio escogitato fu la creazione dei grandi trusts, ovvero di legami e intrecci sempre più stretti tra banche e imprese che portarono l’espansione del capitale a superare i confini nazionali in cerca di nuovi mercati. La nuova frontiera diventò quella dell’imperialismo, consacrato nel 1884 dalla Conferenza di Berlino, che aveva bisogno dell’esercito e dello Stato per affermarsi e consolidarsi. Poi c’è da considerare il nazionalismo, figlio esaspe-rato del patriottismo ottocentesco, nelle sue diverse forme: il Pangermanesimo che affondava le radici nella storia del pensiero tedesco, da Fichte a Hegel, solo per citare i classici; il revanscismo francese, il nazionalismo russo-serbo-slavo-ungherese, ceco…, il Sionismo, il Nazionalismo italiano nella sua versione militare e in quella irredentista. In tutte queste variegate forme e variazioni, il nazionalismo fu benzina sul fuoco dell’Imperialismo. Per quanto paradossale possa sembrare, un’altra fonte di tensione internazionale che condusse l’Europa in guerra fu rappresentata dalle alleanze. Già Kant, ne La

pace perpetua, aveva intuito che le alleanze sono nemiche della pace, in quanto mutevoli, fragili e figlie

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di opportunismi. Triplice alleanza e Triplice intesa ne sono state la dimostrazione più lampante: dietro le maschere delle finalità difensive si nascondevano mire bellicose pronte ad esplodere al momento opportuno. Circolava poi da tempo il timore di un movimento operaio capace di organizzarsi orizzontalmente per opporsi in modo compatto allo strapotere del Capitale, e proprio per scongiurare questa minaccia il capitalismo operò per far diventare orizzontale un conflitto verticale come quello di classe. Infine non può essere dimenticata la corsa agli armamenti che vide coinvolte un po’ tutte le nazioni europee fin dall’alba del Novecento, in particolare Inghilterra e Germania, prigioniere del circolo vizioso che ancora oggi attanaglia l’economia: la crisi economica vede nelle spese militari una valvola di sfogo, ma le armi prodotte poi vanno usate, confermando il detto secondo cui “non si fanno armi per la guerra, ma si fanno guerre per le armi”.

L’altro sguardo sulla guerra

Ma non ci fu soltanto chi soffiò sulla brace per attizzare le fiamme del conflitto. Già nel 1919, ad armi ancora calde, esce il film J’accuse del regista francese Abel Gance, prima di una serie di pellicole di chiara impronta antimilitarista. È particolarmente espressiva la scena in cui un uomo cammina seminudo tra due trincee, e tutti i soldati che lo vedono passare, da entrambi i fronti, restano incerti sul da farsi: non sanno se fare fuoco su quell’intruso, perché non vedendone l'uniforme non sanno se sia un camerata o un nemico. Solo se è in divisa l'uomo uccide e viene ucciso senza remore, e forse proprio per questo i monumenti di guerra raffigurano uomini in uniforme, per mettere al riparo delle mostrine l’umanità di chi ha perso la vita al fronte. È in fondo lo stesso messaggio lanciato da Emilio Lussu nel romanzo Un anno sull'altipiano, nel celebre episodio ripreso anche da molte antologie scolastiche in cui racconta di avere sotto tiro un ufficiale austriaco e di rinunciare a sparare perché lo vede prendere un caffè e accendersi una sigaretta. Gesti quotidiani che frenano il soldato e lo dissuadono dal premere il grilletto: “La mia coscienza di uomo e di cittadino non erano in conflitto con i miei doveri militari”, commenta Lussu. “La guerra era per me una dura necessità, terribile certo, ma alla quale ubbidivo”; e tuttavia “fare la guerra è una cosa, uccidere un uomo è un'altra cosa. Uccidere un uomo, così, è assassinare un uomo”. Ci fu però anche chi fece un passo oltre, pensando che bisognasse scegliere tra la coscienza di uomo e quella di cittadino, che non fosse giusto obbedire ad ogni costo e che far la guerra e uccidere fossero sinonimi. Mi piace ricordare in particolare tre donne che ebbero il coraggio di palesare questi loro pensieri, pagando a caro prezzo la loro scelta: Rosa Genoni, Fanny dal Ry e Rosa Luxemburg.

Rosa Genoni, una passerella lunga fino all’Aja

La prima, nota più come stilista di avanguardia che come militante pacifista, nel ’14 partecipò a Milano a una conferenza su donne e guerra, prendendo chiaramente posizione circa il conflitto che aveva da poco incendiato l’Europa: “Alle donne spetta il compito di battersi per la pace e la neutralità”, disse dal palco, e immediatamente iniziò a raccogliere firme per dissuadere il governo italiano dall’entrata in guerra, convincendolo a cercare soluzioni pacifiche per i conflitti internazionali. Erano i giorni in cui a Milano iniziavano ad arrivare i primi militari profughi da Belgio e Francia in cerca di aiuto, e la Genoni allestì, nei padiglioni Bonomelli con la fondazione “Pro Humanitate”, spazi per offrir loro un primo soccorso. Nella speranza di scongiurare l’ingresso dell’Italia in guerra, partì nell’aprile dell’anno seguente alla volta dell’Olanda per partecipare come unica rappresentante italiana al Congresso internazionale femminile dell’Aja, in cui si discuteva del ruolo delle donne nella costruzione di una cultura della pace. Ma di lì a un mese la sua speranza andò delusa, e al suo rientro in Italia fu segnalata alla polizia come disfattista.

La propaganda instancabile di Fanny Dal Ry

Anche Fanny Dal Ry, esponente del socialismo antimilitarista italiano dei primi decenni del Novecento, fu perseguitata duramente per la sua coraggiosa opera di propaganda, e i suoi scritti precedenti la Grande guerra hanno un sapore di profezia se letti alla luce della tragica conferma degli anni seguenti. Nata a Verona nel 1877 da famiglia di origine trentina, Fanny aveva trascorso l’infanzia con i suoi in Eritrea ed era arrivata a Genova a vent’anni per fare la maestra. Iscritta al partito socialista rivoluzionario, cominciò ben presto a frequentare il gruppo che aveva fondato il giornale antimilitarista La pace, su cui pubblicò il suo primo articolo nel 1905. Due erano in quel momento le posizioni dei socialisti europei nei confronti del militarismo: la maggioranza riformista riteneva che questo sarebbe stato superato con la fine

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del capitalismo, mentre la corrente rivoluzionaria condivideva con gli anarchici l’idea secondo cui l’esercito è lo strumento attraverso il quale il capitalismo mantiene il proprio dominio, educando al patriottismo e all’obbedienza. La rivista La pace e Fanny Dal Ry seguivano questa seconda posizione, sostenendo la necessità di una propaganda tra i soldati e l’impegno a opporsi alla guerra con uno sciopero generale. È del 1908 il primo congresso antimilitarista italiano, organizzato a Siena da La pace. Vi parteciparono sindacalisti, socialisti rivoluzionari e anarchici che si fecero immortalare in una storica foto di gruppo: attorniata da una ventina di uomini, compare, come unica donna, Fanny, seduta in prima fila. Pagò cara la partecipazione al congresso, condannata a cinque anni di carcere e duemila lire di multa per il suo intervento, raccolto di lì a poco in un articolo. Non era la prima punizione che subiva: due anni prima aveva ricevuto una pena di un mese, sempre per un articolo in cui aveva scritto: “Intensificare la propaganda antimilitarista è attualmente un’imperiosa necessità. Chi asserisce il contrario, chi tenta ostacolare l’antimilitarismo in qualsiasi modo, cova nell’animo, cosciente o no, istinti criminali”. Allo scoppio della guerra, La pace ribadì le proprie posizioni, e Fanny rilanciò il tradizionale appello dell’Internazionale: “Vinti di tutto il mondo, alla riscossa! Al mostruoso grido: Lavoratori di tutto il

mondo, sgozzatevi! l’Internazionale operaia contrapponga con fierezza nuova: Lavoratori di tutto il

mondo uniamoci!”. Dalle colonne del giornale continuò a battersi contro l’ingresso in guerra rimanendo punto di riferimento per il pensiero pacifista, costretta al silenzio solo nel maggio 1915, quando con un colpo di mano il governo italiano decise per l’intervento. Qualche riga dall’articolo Gloria scritto per l’opuscolo Abbasso la guerra lascia intuire il tono appassionato dello stile di Fanny: “Chi può compiutamente rievocare col pensiero l’orrore supremo delle infinite battaglie, che non un lembo di terra hanno lasciato

terso di sangue? Chi può dire il numero di vite umane,

violentemente spazzate dal mondo nelle imprese folli,

che la gloria sublima?

Un morboso ragionar da mentecatto chiamò

grandezza patria l’imposizione di un dominio violento esteso a città rase al suolo, ridotte a cimitero; una

fatale aberrazione di pensiero giudicò valore

l’obbrobrio umano di colossali raccapriccianti macelli

d’eserciti; una deplorevole psicosi collettiva decretò ammirazione illimitata ed innalzò obelischi a chi,

avido d’imperio, passò nel mondo con la violenza distruttrice della folgore; a chi, assetato di potenza,

inesorabile precipitò sulle nazioni con la terrificante

impetuosità della valanga, che tutto travolge.

[…]Colonne infami appariranno al pensiero e al sentimento progredito delle generazioni venture, le

superbe colonne innalzate con somma impudenza a

memoria glorificata degli atroci maciullamenti di

carne umana, compiuti per il conteso possesso d’un pezzo di terra, per sete di supremazia e di potere. Esse

le abbatteranno, forse, per dimenticare la vergogna

dei barbari antenati, come il figlio dell’assassino, pur incolpevole, tenta d’indurre l’oblio sulle proprie origini: oppure, documento storico d’un’era ormai sorpassata e abusivamente detta civile, le conser-

veranno nei musei della scienza per misurare con

senso d’orgoglio il cammino compiuto. Come presen-

temente si giudica delinquente la spavalderia del

camorrista napoletano, che si batte a colpi di coltello

unicamente per provare il proprio coraggio e la

propria bravura, così una mentalità collettiva più

evoluta vedrà nella sua vera luce delittuosa i

vicendevoli sterminii fra popoli e rileverà con infinito

stupore come gli uomini si vantassero di combattere da leoni, frase con la quale non potevano meglio

significare la bestialità delle loro zuffe selvagge.

Non più, non più sarà chiamato eroe l’uccisore dei suoi simili; non più sarà esaltato il valore, il coraggio

guerriero, coraggio da fiere.

E se lauri verran tributati e ghirlande ancor saranno

intessute, non di grandi assassini, circonfusi d’una bugiarda aureola di gloria, orneranno la fronte, ma di

pensatori, di scienziati, di martiri dell’idea, coraggiosi autentici, che – si chiamino Giordano Bruno od Emilio

Zola – serenamente affrontano l’ira d’una ignoranza cieca, la prepotenza d’un pregiudizio volgare, l’universalità cocciuta d’una opinione contraria e si

lasciano bruciare sul rogo o malmenare da una folla

bestiale senza ritrattare una menoma affermazione,

sorridenti all’interiore bellezza di una idea luminosa di verità e di giustizia.

Coraggio civile assai più fecondo di bene, che la più

lontana posterità non cesserà d’ammirare!Spogliata dal suo manto ingannatore, la gloria bellica apparirà

in tutto il suo orribile aspetto di falciatrice crudele,

d’ossuta megera ingorda di giovani vite; e, perduto ormai ogni fascino, più non le sarà possibile trarre le

masse laboriose nell’orrendo baratro in cui precipitarono i miliardi d’illusi, che ne seguiron le orme.

E allora davvero l’umanità potrà chiamarsi civile”.

n. 2 (165) – aprile il granello di senape pag. 19

Un’altra difesa è possibile A maggio si concluderà la campagna per la difesa civile non armata e nonviolenta

L'iniziativa - promossa da oltre 200 associazioni della società civile italiana, del mondo del pacifismo, della nonviolenza, del disarmo, del servizio civile, della cultura, dell'assistenza, dell'ambientalismo, del sindacalismo, e fatta propria anche da 30 associazioni nella nostra provincia - sostiene una proposta di legge d’iniziativa popolare per l’istituzione e il finanziamento di un Dipartimento per la difesa civile, non armata e nonviolenta. Questo Dipartimento comprenderà i Corpi civili di pace (di cui sono già in corso diverse sperimentazioni) e l’Istituto di Ricerche sulla Pace e il Disarmo, e collaborerà con i Dipartimenti della Protezione Civile, dei Vigili del Fuoco, del Servizio Civile Nazionale. Si vuole dare finalmente concretezza all’art. 11 della Costituzione (“l’Italia ripudia la guerra”), realizzando una Difesa Civile, non armata nonviolenta alternativa alla Difesa armata, e permettere a tutti i cittadini di assolvere al “dovere della difesa della Patria” (art. 52) con pari dignità ed efficacia, nei modi e nelle forme coerenti ai loro valori e alle scelte ideali. I fondi per il finanziamento della nuova difesa civile dovranno essere in parte trasferiti dalla riduzione di spese della difesa militare e in parte incrementati dalla scelta dei cittadini di destinare il 6 per 1000 dell’imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF) a beneficio della difesa civile. Non si tratta di spendere di più, ma di spendere meglio. Si vuole in questo modo aprire nel paese una dibattito sul concetto stesso di “difesa”: un’idea che abbiamo lasciato per troppi anni in esclusiva ai militari, e di cui oggi ci dobbiamo riappropriare. La difesa, nella sua accezione più piena, significa attenzione alla vita quotidiana: siamo più difesi se abbiamo una buona protezione del territorio, se c’è qualcuno che rafforza il welfare, se ci sono prospettive di lavoro, buono e dignitoso, per tutti, se si opera nelle periferie, se abbiamo più Canadair piuttosto che più F35. Sotto questa luce, la campagna ‘Un’altra difesa è possibile’ è quanto mai concreta e vicina ai bisogni di chi sta soffrendo la crisi. Questa campagna vuole quindi essere innanzitutto una propo-sta culturale forte, un modo per informare e formare le perso-ne e creare una coscienza sul tema della difesa civile. Ecco perché lo strumento scelto è stato quello di una Proposta di Legge di Iniziativa Popolare, una delle due forme di “demo-crazia diretta” previste dal nostro ordinamento (l’altro è il refe-rendum), che per arrivare al Parlamento dovrà raccogliere almeno 50.000 firme autenticate, entro la fine di maggio. Il comitato di Cuneo, oltre a promuovere la raccolta delle firme, ha organizzato presso il CDT di Cuneo un corso di formazione alla nonviolenza, con ottimo successo di partecipazione, che ha visto, tra gli altri qualificati relatori, la presenza di Aleida Guevara, figlia del ‘Che’. Comitato Promotore di Cuneo “Un’altra difesa è possibile”

(c/o ACLI, P.za Virginio, 13 Cuneo – tel: 0171-452.611 cell: 393-98 65 809 - [email protected])

Rosa Luxemburg:

“O il socialismo, o la barbarie”. Forse meno enfatico, ma non per questo meno efficace, è il tono degli scritti di Rosa Luxemburg, impegnata senza sosta nella lotta per la pace, contro la guerra imperialista e il colonialismo. Nella sua opera del 1900, intitolata Riforma o

Rivoluzione, Rosa afferma che la guerra svolge un ruolo decisivo per lo sviluppo del capitalismo, dal momento che il militarismo è sempre stato l’arma di cui si è servita la borghesia per difendere i propri interessi contro i concorrenti di altri paesi. Nel 1913, Rosa pubblica una delle sue opere più importanti, L’accumulazione

del capitale, in cui sostiene che l’imperialismo è sorto per risolvere il problema dell’eccesso di capitale dei paesi capitalistici sviluppati, conside-rando determinante per il capitale appropriarsi di spazi naturali e sociali precapitalistici attraverso la coloniz-zazione. Letta a posteriori in questa prospettiva, la Prima guerra mondiale era dunque il risultato di una guerra inter-imperialista, che poteva condurre a due esiti diversi: o la fine del capitalismo o la regressione della civiltà umana. Di qui la sua famosa frase: “O il socialismo, o la barbarie”. Fedele alle sue posizioni a favore della pace, Rosa le mantenne anche allo scoppio della guerra finendo in carcere nel 1914 con l’accusa di incitamento alla disobbedienza civile per aver invitato i soldati ad abbandonare la guerra e a ritornare nei loro paesi per iniziare la rivoluzione socialista. Dietro la retorica nazionalista della guerra, Rosa individuava negli interessi della borghesia nazionale le reali moti-vazioni del conflitto, denunciando che le guerre, oltre a causare la distruzione di paesi e popoli indeboliscono l’organiz-zazione dei lavoratori e accendono l’odio tra di loro. Rosa Luxemburg fu rilasciata dal carcere solo nel 1918, e si pose alla guida del movimento rivoluzionario insieme a Karl Liebknecht. La loro istanza antimilitarista da quel momento venne repressa brutalmente, senza più limiti: entrambi furono assassinati l’anno successivo.

Gigi Garelli

n. 2 (165) – aprile 2015 il granello di senape pag. 20

Vite Racconto

TALITÀ LAZAR ELOÌ

Non riesco più a mangiare, anche se avrei tanta fame. Sono a letto da tre giorni e il mio corpo non sopporta più nulla. Sento le ossa sotto la mia pelle calda e bagnata... E le sento doloranti, non mi ero mai accorta di avere delle ossa fino ad oggi. Vorrei spostare la schiena, cambiare posizione, ma non riesco. Sono debole, tanto debole come non mai.

Lo sento, non è una malattia come le altre. Lo scorgo dalla preoccupazione di Marta, di Miriam. Ma lo sento anche dal mio corpo, che mi sta dicendo della sua lotta intensa. Sono a letto ormai da una settimana, ma soprattutto non riesco più a muovermi. Per la prima volta sento che potrei non vedere più la luce del sole.

Immaginavo che il dolore più grande sarebbe stato quello dei chiodi. Ma è peggio, adesso, la fatica del respiro. Mi sollevo sui piedi, finché le gambe iniziano a tremare, il dolore a farsi lancinante. Mi lascio cadere, ma non riesco più a respirare. Mi tiro su aiutandomi con le braccia, ma il male è ancora peggiore e mi costringe a lasciarmi cadere. Non resisterò a lungo, lo sento.

Fa tanto caldo. Non sopporto più nulla addosso... La stanza mi pare piccola, opprimente. Chiedo aria, anche se la mia voce non giunge alle labbra. Ho paura, tanta paura. Perché non riesco più a respirare, non riesco a chiedere acqua. Vorrei tanto bere! Ma mi costa sempre più fatica ogni mio respiro. Sento le labbra di mia madre che si accostano alla mia fronte bagnata, le sento gelide. Sento che mi abbandona, la sento sfuggire... Vorrei gridare: "Immà!"... ma nessun suono esce dalla mia bocca.

Mi sento svuotare. Percepisco tutte le energie che poco per volta escono da me, mi sento consumare come una fiaccola senza olio, che poco alla volta si spegne. Ho paura per le mie sorelle: chi si occuperà di loro adesso? Ma per me non temo più, so di aver vissuto una vita più breve di tanti, ma sento che non ne sarei più capace. Mi sento svuotato di tutto. Ho gli occhi chiusi, ma avverto la mano morbida di mia sorella che mi chiama. Non riesco più a rispondere, non voglio più parlare... Mi sento solo come non mai.

Non riesco più a guardare la gente sotto di me, non sento più le loro voci... I miei occhi sono aperti, ma lo sguardo si restringe, non guardo più nulla e non vedo quasi nulla. Mi concentro solo sul mio respiro, faticosissimo... I polsi e i piedi mi bruciano, ma peggio è la schiena, il torace... insieme alla pelle mi hanno strappato la forza di vivere. Ogni respiro mi costa fatica, mi lascio andare sulle braccia, mi ritiro su con fatica. Non ce la faccio più. Ho sete. Mi sento solo. "Eloì, lemà sabactàni?".

Scende improvvisa la quiete su di me. Forse mi addormento. Ma è un sonno diverso, lo sento... si placa il calore. Ho le palpebre già chiuse. Chiudo anche gli occhi. Per sempre.

Un brivido di freddo. E so che l'aria è rovente. Vorrei chiamarle un'ultima volta, ma non riesco. Mi abbandono, mi distendo. In pace, finalmente.

Mi tiro su un'ultima volta, sento come lacerarsi qualcosa dentro me, un ultimo squarcio, mi strappa un urlo. E poi mi abbandono. Basta. Non respirerò più.

«Talità, qum!» Non mi aspetto questa frase, mi stupisco a cercare di comprenderla. Come quando mia madre mi svegliava al mattino, e impiegavo tempo a comprendere che cosa mi chiedeva, a mettere insieme i suoni con i significati. "Talità": sì, molti mi chiamano così,

«Lazzaro, vieni fuori!». Non capisco dove sono. Non è un letto, è duro come pietra. Forse è pietra. E c'è puzza di umido. Apro gli occhi, ma non vedo nulla. Alzo le mani a liberarmi, ma sono legate in bende. Riesco comunque a togliermi il velo dalla faccia, a tirarmi su a sedere. Sono in una

Come un brivido, un fremito, come il tocco di ambra strofinata su lana che un mercante di Sefforis ci lasciava toccare, a noi bambini, nei giorni di mercato. Muovo i piedi, le dita... riesco a scostare le gambe. Non percepisco alcun dolore. Sento un tessuto ruvido ma pregiato su

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coloro che non mi conoscono, che non sanno o non vogliono imparare come mi chiamo. Solitamente è un appello fastidioso, esteriore, lontano. Stavolta la parola è la stessa, ma è detta con un calore che non conosco. "Qum": me lo dice spesso anche mia madre, al mattino... me lo urla dal piano di sotto, ma non è un urlo che disturbi, che sembri sgraziato. Il tono è a volte irritato, ma tradisce il suo affetto. So che mi vuole bene. E so che non si dovrebbe dire così, ma preferisco il "qum" di mia madre al "qumi" («Non è un ragazzo!») di mio padre, che ha studiato a Tarichea ed è un uomo rispettato e onorato e quindi parla in modo più corretto. Ma anche lui, penso, mi vuole bene. "Talità, qum". Che cosa vuole? Sento il fresco sulla mia pelle. Non sono più sudata, ho ancora tanta sete (e fame!) ma mi sento pulita, lavata, profumata. Provo a muovere un braccio: si muove! Apro gli occhi, ma la prima cosa che percepisco è l'urlo e il pianto di mia madre. Piange, ma non è un pianto di tristezza, lo capisco. E poi vedo gli occhi di un uomo alto, che mi guarda. E sono occhi buoni; intensi, vivi, intelligenti, ma buoni. Sorrido: riesco a sorridere! Mi viene da ridere, mentre tutti urlano e piangono e si mettono le mani in testa. Sulla mia testa, invece, si posano le labbra dello sconosciuto, sono labbra calde e morbide. Mi alzo, prima di affogare nelle vesti di mia madre, che mi salta addosso piangendo e urlando. È il caos, finché l'uomo che non conosco non urla di smetterla: «Datele da mangiare!». Oh sì, ho proprio tanta fame!

tomba. Ma vedo la luce, fuori, e gente accalcata. Adesso riconosco la voce, è quella di Jeshù. Quando è arrivato? E come io sono arrivato qui? Mi alzo. Non ho più dolore. O meglio, sento ancora quella vecchia ferita alla gamba che mi ha sempre fatto male quando cambia il tempo o dormo nei campi. Ma è quasi un'amica, ormai, ci conosciamo. Provo a camminare. Ho i passi impacciati. Ora capisco che mi hanno legato i piedi. Ma non li hanno legati stretti, riesco a muovermi. Male, ma ci riesco. Vedo la luce del sole, mi attira, voglio essere scaldato, qui ho freddo, un freddo che mi prende allo stomaco. Se prendo tanto freddo, lo so, poi non digerirò. Ho voglia di sole, di caldo. E Marta? E Miriam? Poco alla volta torno in me, mi ricordo del letto di morte, penso a quanto devo averle afflitte, devo tornare da loro, mostrarmi. Esco al sole... finalmente caldo! Sento urlare, vedo agitazione, mi rendo conto di quanto ciò debba essere sconcertante per tutti loro. È però come se guardassi la scena dall'esterno, mi rendo conto di quanto stupore dia un uomo che esce da un sepolcro in cui è stato sepolto... quanti giorni prima? Non ne ho idea. Ma allo stesso tempo è come se non fossi io. Mi dico solo che sono contento che Jeshù sia qui, che sono felice di vederlo, che lo voglio abbracciare. E sono invece sepolto dall'abbraccio di Marta e Miriam. Ma non mi dispiace, anche loro voglio rivedere. Che mi sleghino dalle bende, però, o mi romperò la testa cadendo sulle pietre: «Liberàtelo e lasciàtelo andare», ordina Jeshù.

di me, lo scosto lentamente. Tolgo le monete sopra i miei occhi, li apro. È notte; sono in un sepolcro, bello e vuoto. Ma l'entrata è aperta, vedo due stelle nel buio, anzi un lieve chiarore che inizia a impallidire il cielo. Mi alzo a sedere. Tolgo da intorno al collo una fascia di lino che mi rende meno agevoli i movimenti, la piego, la poso in un angolo. Mi alzo in piedi. Esco. Respiro, respiro bene, l'aria mi entra nei polmoni e mi riempie di gioia. «Gioisce il mio cuore, perché non abbandoni nel sepolcro la mia vita», sussurro, e improvvisamente capisco ciò che ho detto, mi si riempiono gli occhi di lacrime di commozione, cado inginocchiato sulle rocce appuntite, e queste non mi feriscono, non mi danno dolore. Tocco i palmi delle mie mani, sfioro la ferita sul costato, ricordo e mi prende un altro brivido, più intenso. Capisco tutto, vedo tutto con occhi nuovi, colgo che la mia fiducia nel mio Padre era ben riposta, che non mi ha abbandonato, che non mi ero ingannato, che in ogni mio passo avevo testimoniato ciò che intuivo come nella nebbia, ma che avevo intuito bene. Non so che cosa sarà di me, ora, ma mi sento forte, so che nulla mai più mi potrà toccare. Capisco adesso, fino in fondo, l'incertezza dubbiosa di Pilato, i timori anche legittimi di Anna, la paura dei miei amici, i loro progetti, le loro delusioni; colgo adesso che cosa ha spinto Juda a tradirmi, e ne ho compassione. Devo subito far loro sapere che sono vivo. Li incontrerò subito, a sole alto, nella sala al piano superiore dove abbiamo cenato. E nessuno ci separerà più.

P e r s a p e r n e d i p i ù s i p u ò l e g g e r e :

Mc 5,22-43 Gv 11,1-45 Mc 16; Mt 28; Lc 24; Gv 20-21

Angelo Fracchia

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a Marta che già ha raggiunto la sua Pasqua

... perché niente passa e basta. Non muore con te, che ancora e ancora muori e vivi, la Speranza di rincontrarti. La tua vita, breve o meno, con la tua fatica nel sorridere malgrado il male, la tua vita, breve o meno, con il limite invalicabile della tua fragilità fisica. La tua vita è la meteora che ha attraversato la notte. Scia che ha acceso l'ammirazione per questo passaggio. Scia che accende l'impegno a non tradire quello che senza parole hai insegnato, quello in cui hai creduto, quello per cui hai combattuto. Scia che sollecita l'urgenza di riscattare al posto tuo i crediti che hai accumulato nei confronti della normalità, nei confronti della giovinezza, nei confronti del banale e della sua vuotezza. Se fossi io arbitro di giustizia bandirei dagli obblighi inflitti ai discendenti di Eva la pena crudele che l'esistenza ti ha imposto: l'essere immobile, in un letto, a dipendere dagli altri. S'è vista, negli ultimi tuoi giorni, la paura, con prevaricazione, occuparti gli occhi. S'è visto il suo atroce sopruso di farti comparire solo più attraverso il filtro dello smarrimento, quando ti scappavano al controllo stentati rantoli di dolore, altrimenti sopportato in silenzio, con rassegnazione, da sempre. S'è visto pure il tuo coraggio nel fronteggiare lo sconforto, la consapevolezza dignitosa nel sostenere una lotta impari. Da dove, per tutto quel tempo, ti era venuta la forza, la pace, la voglia di vivere? Dallo stoicismo degli eroi dell'Olimpo? E la tua nota saggezza, da dove? Dalla pazienza, virtù celeste che appartiene agli angeli? Forse. Forse, fin dall'inizio, proprio dall'alto avevi guardato in giù, a noi, e pietosamente con noi eri venuta a stare, per gli attimi che ci hai concesso. Poi, hai sciolto gli ormeggi, nel momento in cui hai eluso la nostra stretta vigilanza. Così, libera di nuovo, hai dispiegato le ali da serafino che ci avevi tenute nascoste. E con un battito lieve, hai attraversato il confine, la frontiera del tangibile, la gravità inadeguata del corpo. In un niente sei tornata sull'altra riva, dove non c'è peso né ingombro, nell'infinito da cui eri venuta, nell'assoluto della perfezione

. Eppure ha seminato e semina lutto la tua partenza prematura. Ovunque, e più che altrove, dentro le lacrime

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che per pudore trattengo. Infatti non è il mio cuore il cuore più ferito. Chi non avrebbe voluto lasciarti, disfatto dalla tua ineluttabile assenza, ora piange il volo che troppo presto hai spiccato. L'anzitempo pone domande prive di risposte. Quale il senso del soffrire se poi tutto svanisce? S'incontrerà mai l'Eterno?, e se sì, quando?, dove? Ed allora, sarà davvero pienezza di vita? Crea una demarcazione netta tra un prima e il vago dopo lo spazio dove la luce vitale si spegne. E' buio intorno, sebbene, a poco a poco e tuttavia inesorabilmente, si ricominci ad intravedere, lontano e non nitido, un timido raggio tra le fitte nuvole di una nuova alba. Oggi la tua presenza è nell'esistere nonostante, nell'andare avanti, nell'andare oltre, nell'immortale nostro rinascere. E' nel respiro ritmato che s'ascolta col rifiorire delle stagioni su di un calvario deserto che attende il ritorno di getti d'erba tra le rocce. E' nel ciclico profumo del divenire che, divenendo, trasforma e abbellisce. Una leggerezza c'è nell'aria di primavera che cerca di spiegare, anche con questo nevischio, il tuo tribolato vissuto. Cerca di spiegare il perché di una malattia che ha stroncato, che ha vinto, che ha rubato gli anni a venire, ma non la gioia ed il ricordo di quelli passati. Cerca di spiegare l'inganno della morte e l'apparente tua sconfitta. Tutto è confuso e le immagini si sovrappongono per offrire un risultato che forse potrebbe mettere ordine ai pensieri. Chissà però se il risultato è vero.

Il Dio-Uomo, che ha sperimentato l'abbandono, l'umiliazione, il sacrificio è lì, accanto a te, che hai sperimentato lo stesso abbandono, la stessa umiliazione, lo stesso sacrificio. Certezza del miracolo, per chi crede, è la Pasqua. Quanto vorrei fosse ferma la mia fede nel Risorto, di cui il volto crocifisso è l'unico riconoscibile riflesso impresso nel patire del mondo. Quanto vorrei diventasse spinta al mio esitare la convinzione che l'Uomo-Dio ha già risolto l'angoscia della terra, il grido straziato dei reietti, l'amarezza dei dimenticati. Quanto vorrei che non fosse, per me, emotivo e finto l'incontro col Divino, breve o meno, durante il triste dramma di questo nostro arrivederci, su cui s'affacciano insieme e numerosi i dubbi, spazzando via dalla mente tutto il resto. Ma niente passa e basta. Infatti nessuno vive e basta. Questo custodisco in tua memoria E m'inginocchio.

Cecilia Dematteis

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bibblando

Mc 16

In questo 2015 chi ha partecipato alla veglia pasquale ha sentito narrare la versione di Marco della tomba vuota... sia pure una versione un po' aggiustata e "censurata". La conclusione del vangelo di Marco, infatti, è decisamente strana, da più punti di vista, come non mancano di dirci le note di praticamente tutte le nostre bibbie. Si può tuttavia essere incuriositi di andare ad indagare un poco meglio come si arriva a capirci qualcosa di più. La situazione

L'ultimo capitolo del vangelo di Marco procede più o meno tranquillo fino al versetto 8: questo vuol dire che tra tutti i testi antichi, scritti a mano, che ci sono arrivati, non mancano le differenze (non esistono due testi biblici antichi di una certa lunghezza che siano assolutamente identici... troviamo ovunque errori involontari e correzioni intenzionali... anche se poi magari sbagliate...), ma sono del tutto secondarie. Dal versetto 9 in poi, però, è il caos totale. La maggior parte dei manoscritti antichi riporta la conclusione (detta "lunga") che troviamo sulle nostre bibbie (i versetti dal 9 al 20). Ma, se vogliamo stabilire la realtà, le testimonianze non vanno contate, bensì "pesate": può darsi che a riferirmi la verità sia un testimone solo, ma particolarmente affidabile e ben informato. Coloro che ricostruiscono la forma verosimilmente più originale dei testi biblici (che si impegnano nella critica testuale) sono arrivati a stabilire che tra i criteri preferibili per valutare l'affidabilità di un manoscritto ci sono l'antichità ma anche il controllo e le verifiche che certi testi mostrano di aver subìto. Vuol dire che indubbiamente sono molto interessanti i frammenti di papiro del II o del III secolo, anche se sono pochi e molto piccoli e malridotti, ma può essere particolar-mente interessante dare un'occhiata ai testi liturgici, scritti in lettere maiuscole (i manoscritti detti unciali, molto facili da leggere, anche per chi ha fatto "solo" il liceo classico) e riletti e corretti più volte prima di essere mandati a chi li aveva commissionati. È vero che questi unciali sono più recenti di una buona parte dei frammenti di papiro, ma chi li ha scritti ci aveva messo particolare attenzione. Tra questi unciali a essere importantissimi sono soprattutto due: uno che è conservato nella biblioteca vaticana e un altro che, dopo essere stato avventuro-samente recuperato (o, chiamiamo le cose con il loro nome, trafugato) sul Sinai, ha raggiunto il British Museum di Londra. Sono due versioni che riportano tutta la Bibbia in greco, Antico e Nuovo Testamento, tranne qualche pagina perduta all'inizio e alla fine.

Ebbene, questi due unciali fanno finire il vangelo di Marco al versetto 8. Il che significa che il vangelo si conclude con una frase decisamente strana: «E non dissero niente a nessuno. Avevano paura, infatti...». Che questo ultimo versetto sia strano è confermato dal fatto che anche nella veglia pasquale i liturgisti hanno ritenuto meglio non leggerlo... Insomma: se non hanno detto niente a nessuno, noi come facciamo a saperlo? E poi, come si fa a far finire un vangelo con la paura? E ancora: la parola che noi traduciamo con "infatti" serviva in greco a introdurre una spiegazione lunga di quello che viene prima (per questo nella mia traduzione seguono i tre puntini), come può essere l'ultima parola di un intero vangelo (in effetti, non poteva neppure finire una frase)? Certo, Marco magari non scriveva bene in greco, ma questo sembra in realtà un po' troppo... Come se ciò non bastasse, altri manoscritti o traduzioni antiche riportano una conclusione diversa del vangelo di Marco (la cosiddetta "finale corta"), o anche una qualche mescolanza di diverse conclusioni. Come orientarci in questo caos? Scelta di una versione

Da un primo punto di vista, è evidente che se decidiamo di fare una traduzione per le nostre versioni liturgiche, quelle che vanno lette in chiesa, dobbiamo decidere di utilizzare una tra le conclusioni, eliminando le altre. E da un certo punto di vista, bisogna ammettere che la migliore ricostruzione di quello che probabilmente ha scritto Marco è una conclusione del vangelo al versetto 8: è anche la scelta più strana, ossia più difficile, e di solito si preferisce la soluzione più difficile, proprio perché si pensa che è più facile che qualcuno abbia deciso di "aggiustarla". Come spiegare questa stranez-za lo vedremo tra poco. È tuttavia anche chiaro che già nell'antichità qualcuno ha pensato che quella conclusione fosse bizzarra e ha deciso di "comple-tarla". Ma siccome Marco si era fermato al versetto 8, le conclusioni che gli hanno aggiunto sono state diverse, e in concorrenza tra di loro. Noi dunque che cosa dobbiamo fare? Buttiamo via le conclusioni alternative? Le teniamo tutte? Si può nota-re che nella traduzione CEI il vangelo di Marco non finisce al versetto 8, ma termina con la "finale lunga". Ci troviamo di fronte alla scelta su come utilizzare versioni bibliche che si contraddicono a vicenda, scelta di fronte alla quale la Bibbia ci pone più volte. Da una parte è chiaro che aggiungere una conclusione a un autore significa tradirne l'intenzione. Dall'altra, quelle

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In ricordo di

P. Ortensio da Spinetoli

Nonostante avesse ormai compiuto 90 anni, p. Ortensio da Spinetoli, al secolo Nazzareno Urbanelli, teologo, biblista, frate minore cappuccino, si può dire se ne sia andato improvvisamente il 31 marzo scorso, perché ancora il 28 marzo aveva partecipato a S. Benedetto del Tronto ad uno dei tanti incontri organizzati per raccontare l’ultimo libro che aveva scritto, Io credo. Dire la fede adulta (La Meridiana, 2012, p.344), nel quale il religioso cappuccino, riprendendo un discorso avviato sin dal suo volume Bibbia e catechismo (Paideia Editrice, 1999), ripercorre i nodi della fede cristiana per evidenziare la storicità e la relatività dei linguaggi. Affer-mando che una fede adulta deve mettere al centro la prassi di Gesù e non un elenco di dottrine cui dare un assenso intellettuale. Nato nel 1925 a Spinetoli, piccolo comune in provincia di Ascoli Piceno, prete e frate cappuccino dal 1949, p. Orten-sio è stato uno dei più autorevoli esponenti della teologia postconciliare in Italia. Esperto del Nuovo e Vecchio Testa-mento, ha dedicato gran parte della sua vita allo studio della Parola di Dio attraverso la mediazione della parola umana e all’approfondimento del Gesù storico. La sua ricerca ed il suo contributo innovativo all’esegesi delle Scritture gli provocarono diversi problemi con l’autorità ecclesiastica: la Congregazione per la Dottrina della Fede nel 1974 cominciò ad indagare su di lui; non venne condannato, ma fu comunque sollevato dall'insegnamento e limitato nei suoi interventi pubblici. Negli ultimi decenni ha vissuto un’esistenza appartata, lontana da riflettori e non certo per timore dell’autorità ecclesiastica. […] E’ stato estraneo ad ogni forma di protago-nismo anche nell’ambito dell’area della sinistra cristiana, della teologia progressista e del cattolicesimo più aperta-mente conciliare che pure lo ha molto letto, considerandolo un punto di riferimento intellettuale oltre che etico. Ciò non significa che Ortensio non abbia parlato e scritto, con una radicalità ed un’essenzialità che con il tempo si sono acuite, piuttosto che stemperarsi o “accomodarsi” alle esigenze dei tempi. Ha parlato soprattutto nei tanti piccoli incontri che lo hanno visto costantemente presente, anche per testimoniare la sua vicinanza a tutte quelle realtà ecclesiali di base emarginate o represse negli anni del postconcilio. Ed ha continuato a scrivere saggi e libri che hanno scandito le diverse tappe della sua riflessione biblica e teologica, sempre in maniera da fornire un contributo originale al dibattito intra ed extra ecclesiale. […] Collegata a questa attenzione per la figura storica di Gesù, Ortensio da Spinetoli è andato raffinando nel tempo una critica radicale all’istituzione ecclesiastica. […] Le caratteristiche fondamentali di Ortensio da Spinetoli sono sempre state la sua riservatezza, il rigore e la serietà dello studioso, unite all’assoluta modestia, che lo ha portato ad evitare qualsiasi forma di autocelebrazione, alla costante curiosità ed attenzione per ciò che lo circondava e all’ascolto di chi gli era accanto.

Passi tratti da un art. di Valerio Gigante

su Adista n. 14 (11 aprile 2015)

conclusioni ci arrivano dall'antichità, da molto vicino ai testi biblici. Come ha scritto un importante biblista del XIX secolo, «Mc 16,9-20 è una reliquia della prima generazione cristiana». Dobbiamo probabilmente accettare che queste versioni alternative sono state tutti modi di leggere e inter-pretare il vangelo di Marco, quando non se ne è capito l'intento originario. Da una parte sono semplificazioni ed "errori", dall'altra sono testimonianze di una fede vissuta autenticamente. Anche i testi biblici, insomma, ci ricordano che la varietà, nella Chiesa, è normale e da accogliere serenamente. Si potrà anche dire che qualcuno è stato più acuto e proficuo, non che qualcuno abbia avuto una fede sbagliata o inutile. Spiegazione della conclusione di Marco

Ciò non toglie, comunque, che tutto ciò che è stato aggiunto al vangelo di Marco dopo 16,8 sia un fraintendimento del messaggio dell'evangelista, che voleva che il vangelo finisse lì. Perché? Proprio per stupire e scomodare il lettore, come Marco fa spesso. Chi arriva qui si aspetta il lieto fine, e non lo trova. Di più, trova una conclusione che sconcerta e pare illogica. "Come è possibile?", si chiede il fedele. E mentre si pone domande, si lascia coinvolgere dal messaggio della risurrezione, se ne lascia tirare dentro, non è più uno spettatore ma un investigatore. Rilegge l'ultimo capitolo, e può accorgersi che mai, nel vangelo di Marco, si dice che il risorto appaia ai suoi discepoli. Legge però che Gesù "precede" i discepoli in Galilea. Se continua a riflettere, si ricorderà che la Galilea era lo sfondo di tutta la prima metà del vangelo, e potrà andare a rileggerla sapendo però che tutti quei gesti di un profeta galileo che potevano anche sembrare di un pazzo, sono in realtà stati confermati dalla sua risurrezione. Gesù era già presente in Galilea, nella prima parte del vangelo, ma potevamo anche non notarlo o interpretarlo male. Ora, sapendo che è risuscitato, che la sua tomba è vuota, possiamo capirlo e credergli fino in fondo. Ritornando a leggere quell'ultimo capitolo, poi, il lettore potrebbe capire che quell' "infatti" inizia davvero un lungo discorso, una lunga serie di conseguenze che dovrà però essere il lettore a scrivere, perché se il vangelo è la presentazione dell'incontro e della comunione tra Dio e l'uomo, spiegare che cosa ha fatto Dio dice solo metà della questione, e lascia aperta la risposta dell'uomo. A quel punto, il lettore capirà anche meglio cosa si legge proprio nella prima riga dello scritto di Marco: «Inizio del vangelo di Gesù». Non si trattava di un'informazione ingenua e superflua, ma invece era un indizio precisissimo: la vita storica di Gesù è solo l'inizio del vangelo, della bella notizia che Dio vuole incontrarsi con gli uomini. Come tutto ciò finirà, dipenderà anche dall'uomo, che è invitato a proseguire il racconto, senza lasciarsi possedere dalla paura ma annunciando il risorto...

Angelo Fracchia

n. 2 (165) – aprile il granello di senape pag. 26

Appunti sulla vita ed il pensiero di

Dietrich Bonhoeffer (1906-1945) (1)

Due dimensioni dello spirito

A proposito di Lanza del Vasto, dicevo (in un

precedente n. del Granello) della difficoltà di tenere

insieme, nel mondo dello spirito, la dimensione

dell’ampiezza con quella della profondità. Esistono molte persone ardenti e a modo loro profonde, ma di

mentalità ristretta e tendenzialmente fanatica; e

d’altra parte molte persone “ampie” e tolleranti non sono ardenti e profonde, ma piuttosto tiepide e

superficiali. Ora, i personaggi di cui ci occupiamo,

seppur molto diversi tra di loro, hanno in comune la

caratteristica di abitare entrambe le dimensioni, e

questo è vero anche per Dietrich Bonhoeffer.

Con Bonhoeffer, rispetto ai personaggi dei quali

abbiamo parlato sinora, possiamo avere l’impressione di muoverci in una prospettiva meno universale, in

fondo “intraecclesiale” piuttosto che interconfessio-

nale, piuttosto eurocentrica che veramente intercul-

turale. Quelli che abbiamo passati in rassegna (Weil,

Krishnamurti, Panikkar, Lanza, ecc.) sono stati

personaggi che si muovevano con disinvoltura tra

Oriente ed Occidente, cercando in vario modo e con

vario successo di realizzare una sintesi tra le diverse

culture. Certo, Bonhoeffer ha una cultura vastissima e

un’apertura universale. A partire dallo scontato sfondo di patriottismo tedesco proprio del suo tempo e

ambiente, si orienta progressivamente verso un

pacifismo radicale, tanto che, nonostante la sua

partecipazione al complotto per eliminare Hitler,

possiamo vedere in lui uno dei massimi interpreti del

pensiero nonviolento; in vari momenti della sua vita

progetta di andare in India da Gandhi, ma le

circostanze lo risucchiano per così dire nella tragedia

del suo paese, e il suo cosmopolitismo si deve limitare

all’Occidente, in particolare ai paesi anglosassoni. Quanto poi all’orientamento religioso, fin dalla prima

adolescenza esso ha assunto una direzione definita nel

senso dell’adesione al cristianesimo evangelico (che in quel contesto equivale a “luterano”), direzione che poi ha mantenuto con grande coerenza sia pure

approfondendola con sviluppi straordinariamente

creativi, anche sotto l’impulso delle circostanze estreme e drammatiche nelle quali si svolgeva la sua

vita di teologo e di pastore. In sostanza, in Bonhoeffer

possiamo vedere un esempio non troppo frequente di

cristiano che, pur collocandosi fin dall’inizio all’interno di una comunità di fede, è assolutamente rigoroso nel non voler rinunciare a nulla della propria

onestà intellettuale e della propria autonoma libertà di

parola e di azione (è cioè l’esatto opposto di un fondamentalista).

Inoltre, rispetto ai personaggi che abbiamo conosciuti,

con Bonhoeffer entriamo in un contesto storico estre-

mamente drammatico, caratterizzato dalla presenza

continua dell’oppressione, della violenza e della morte: una vita sul filo del rasoio, continuamente

confrontata con scelte radicali. Le nostre riflessioni

presupponevano un contesto esterno sostanzialmente

pacifico (il discorso è parzialmente diverso per la

Weil), nel quale il problema principale era la

conquista di un equilibrio interiore. Bonhoeffer questo

equilibrio sembra averlo raggiunto fin da giovanis-

simo, certamente anche per l’ambiente familiare e sociale eccezionalmente favorevole nel quale si è

formato, una famiglia berlinese dell’alta borghesia, consapevole dei propri privilegi ma anche del propri

doveri nei confronti della società, al tempo stesso

caratterizzata da caldi affetti e da rispetto reciproco,

nella quale Dietrich fa dialogare entro sé la cultura

laica del padre psichiatra con il cristianesimo

protestante della madre.

Il problema è stato piuttosto per lui quello di

conservare tale equilibrio attraverso le prove

durissime che la vita gli avrebbe riservato, fino alla

testimonianza finale del martirio (si deve parlare di

martirio in senso proprio perché più di una volta

Bonhoeffer avrebbe potuto sottrarsi al suo destino,

prima non tornando in Germania, poi fuggendo dal

carcere).

Gli sviluppi dell’ultima fase del suo pensiero desteranno una vasta eco internazionale negli anni del

dopoguerra con la pubblicazione di un’ampia biografia e degli scritti del carcere con il titolo

Resistenza e resa (1951), entrambi a cura del suo

amico Bethge. Gli scritti del carcere non costituiscono

un’opera sistematica, ma sono ricchi di anticipazioni

geniali, che Bonhoeffer non ha avuto la possibilità di

articolare, lampi di luce nelle tenebre di una

situazione terribile ma retta con grande fermezza e

dignità. Anche per questo le interpretazioni sono state

diverse e spesso discordanti.

Come al solito, le pagine che seguono hanno carattere

introduttivo e taglio biografico. Oltre che agli scritti di

Bonhoeffer, ho fatto riferimento alla recente, molto

leggibile, biografia di Eric Metaxas: Bonhoeffer. La

vita del teologo che sfidò Hitler, Fazi 2012).

Grandi esperienze spirituali (4)

n. 2 (165) – aprile il granello di senape pag. 27

A mo’ di premessa: la Germania, questa sconosciuta

Due stereotipi occupano di solito il nostro immaginario

riguardo alla Germania: gli orrori del nazismo negli

anni Trenta-Quaranta del secolo scorso e il successo

economico (e anche politico) della Germania

contemporanea (due stereotipi cui corrispondono le

icone di Hitler e della Merkel). Al di là di questi

stereotipi, non molti si avventurano: solo un ristretto

manipolo di studiosi (filosofi, letterati, teologi,

scienziati) e di professionisti, che per ragioni di lavoro

hanno a che fare con la Germania. Ci sono poi i

numerosi italiani che sono emigrati in Germania specie

negli anni Cinquanta-Sessanta, molti dei quali vi sono

rimasti: ma non è detto che siano i più adatti a mediare

tra le due culture, talora

purtroppo ne hanno lasciata

una senza conquistarne a

fondo un’altra. A livello di storia mondiale,

bisogna anzitutto ricordare

un fatto che non tutti hanno

presente oggi, quando la

cultura angloamericana è

diventata ormai la base di

una cultura globale

largamente aperta alle più

varie ibridazioni: per più di

un secolo e mezzo, dalla

metà del Settecento alla

prima guerra mondiale (anzi fino all’avvento di Hitler, quando il fior fiore dell’intellettualità tedesca - di

origine ebraica o no - ha cominciato ad emigrare,

soprattutto oltreoceano), parlare di cultura e civiltà

europea significava largamente parlare della

Germania. Non c’è nessun confronto tra ciò che in questo periodo ha prodotto la Germania (o più

esattamente i Paesi di lingua tedesca: Freud abitava a

Vienna, Kafka a Praga) e ciò che hanno prodotto gli

altri Paesi europei: non solo nel campo della filosofia,

della musica, delle scienze fisiche e matematiche, ma

anche nella filologia, nella storia, nella teologia. Se la

cultura angloamericana alla fine ha vinto alla grande,

finendo per colonizzare anche l’Europa e la stessa Germania, questo è dovuto non tanto e non solo ai suoi

intrinseci meriti, ma soprattutto al fatto che si è trovata

dalla parte dei vincitori di due guerre mondiali. Per

molti versi, sempre dal punto di vista della storia

mondiale, questa è stata la vittoria delle potenze

marittime su quelle continentali, la vittoria della

globalizzazione rispetto al principio nazionale, la

vittoria della liberalizzazione economica sull’econo-

mia chiusa, la vittoria della democrazia parlamentare o

presidenziale sul principio d’autorità, la vittoria del capitalismo sui suoi concorrenti di destra e di sinistra,

ma anche la vittoria del caos – talora fecondo, talora

prevalentemente distruttivo – rispetto ai tentativi di

dare al mondo un assetto più o meno stabile. Anche se

siamo lontani dal rimpiangere le tendenze militariste

ed autoritarie della Germania guglielmina, non

possiamo fare a meno di ricordare con nostalgia la

centralità che in essa avevano l’arte e la cultura rispetto a certi tratti del nostro tempo, come

l’esibizione della volgarità e dell’ignoranza e l’adorazione della ricchezza. La contrapposizione tra la Zivilisation (progresso materiale, dominio della tecnica

e dell’economia, razionalità strumentale) e la Kultur

(cioè la cultura che si alimenta di valori spirituali, di

arte e di filosofia) è il tema di fondo di molte opere di

autori tedeschi dei primi decenni del Novecento. Tra

tutte, Considerazioni di un impolitico di Thomas

Mann, opera scritta negli anni della prima guerra

mondiale da un punto di vista nazionalista, militarista e

conservatore, in polemica con i valori ideali della

Francia rivoluzionaria e

quelli mercantili del mondo

anglosassone, in seguito

ripudiata nella sostanza dal

grande scrittore tedesco che

tuttavia la vedeva come

testimonianza di un travaglio

che l’avrebbe portato al superamento del nichilismo e

al recupero dell’umanesimo, del liberalismo e della

democrazia con la Montagna

incantata.

Rimane comunque più che

mai centrale la domanda:

com’è stato possibile che il paese che per tanto tempo è stato all’avanguardia della civiltà europea e mondiale sia caduto nella più abietta barbarie, abbia accettato di

farsi guidare da una banda di criminali? E com’è possibile che questa banda di criminali si sia accanita –

col consenso implicito od esplicito della maggioranza

– proprio contro la minoranza che di quella cultura

costituiva la punta più avanzata? Certamente un

contributo l’ha dato il carattere non solo “impolitico” ma anche tendenzialmente irrazionalistico della Kultur

cui si è accennato sopra (e qui non si può evitare di

fare il nome di Nietzsche, pur sottolineando come non

lo si possa ritenere responsabile dei crimini perpetrati

dai suoi pretesi seguaci).

Altra questione è fin dove arrivasse la complicità del

tedesco medio. Negli ultimi anni ci sono stati molti

studi su fino a che punto ci fosse consenso, fino a che

punto i tedeschi sapessero ciò che succedeva nei campi

di concentramento, ecc. Sicuramente sono utili e

importanti gli studi storici, ma alla fine mi pare che le

domande si situino piuttosto sul piano filosofico,

antropologico e psicologico. Ad esempio, che cosa

s’intende per consenso? Il recente volume di uno storico americano mette in luce, sulla base di una vasta

analisi di diari, lettere ed altri documenti privati, come

il consenso fosse più vasto e profondo di quanto si è

soliti ammettere.

Certo, alla base dell’ascesa del nazismo vi sono state

n. 2 (165) – aprile il granello di senape pag. 28

circostanze storiche eccezionali: l’onta della sconfitta della prima guerra mondiale, il disastro dell’inflazione galoppante degli anni Venti, la depressione economica

e i milioni di disoccupati dopo la crisi mondiale del

1929. Una gigantesca frustrazione collettiva alla quale

Hitler veniva incontro promettendo la rivincita, un

completo rovesciamento in un ritrovato orgoglio di

essere tedeschi. La colpa non era stata dei “veri” tedeschi ma della “pugnalata nella schiena”, della congiura bolscevica, giudaica e alleata; quindi

bisognava cominciare dal fronte interno, dalla

purificazione della razza, inquinata da elementi

estranei.

Su un piano più generale, conviene ricordare che

l’intera storia umana è costellata di stragi di intere popolazioni (il Novecento ha visto, prima della Shoah,

il genocidio del popolo armeno e in seguito genocidi in

Cambogia e in Ruanda). In generale tendiamo a

ricordare bene le stragi di cui siamo stati vittime e

male quelle di cui siamo stati responsabili (ad

esempio: per noi italiani quelle del nostro colonialismo

in Africa). Ma, prendendo in esame la storia passata

della Germania, possiamo identificare varie linee di

tendenza che preparavano la catastrofe.

In primo luogo, dovremmo accennare al famoso senso

del dovere tradizionalmente attribuito ai tedeschi (oggi

forse un po’ meno, la globalizzazione ha colpito anche la Germania). Il senso del dovere è cosa in sé lodevole,

magari ne avessimo un po’ di più noi italiani: ma diventa una cosa molto pericolosa quando

deresponsabilizza, impedendo di valutare criticamente

i governanti e gli ordini da loro emanati. Sicuramente

questo ha a che fare con l’eredità di Lutero, grande rivoluzionario religioso ma anche sostenitore

dell’obbedienza passiva nei confronti del potere costituito. Si veda la sua posizione sulla guerra contro i

contadini del 1525. I contadini hanno ragione a

protestare, ma guai se prendono le armi contro la

legittima autorità: i ribelli vanno sterminati senza

pietà, perché attentano alle fondamenta del vivere

civile.

In secondo luogo, dopo un Seicento disastroso e un

Settecento rischiarato dalla ripresa economica e dalle

brillanti vittorie di Federico II, nella seconda metà

dell’Ottocento Bismarck ha realizzato l’unificazione della Germania “col ferro e col sangue”: ha cioè compiuto con la forza delle armi ciò che non era

riuscito ai deboli movimenti liberali e democratici del

1848. Con questo non si vuole aderire al luogo comune

della successione genealogica Federico II – Bismarck -

Guglielmo II - Hitler, ma certo il successo di questa

unificazione “dall’alto” ha rafforzato in Germania il culto dell’autorità e la divisione tra cultura e politica. Gli studiosi tedeschi dopo il 1870 si convincono che il

loro dovere è occuparsi degli studi lasciando la politica

ai politici e la guerra ai guerrieri (il che è esattamente

all’opposto della figura tipica della Francia e dell’Italia del cosiddetto “intellettuale impegnato” sull’esempio di Emile Zola). Ora, questo principio apparentemente

di buon senso si trasforma in una trappola mortale

quando il potere viene occupato da personaggi

perlomeno avventurosi come Guglielmo II, al potere

dopo il 1890, o da veri e propri criminali come Hitler.

Il rispetto incondizionato nei confronti del potere è uno

dei fattori che rendono molto difficile l’organizzazione

di una vera opposizione al nazismo.

Formazione familiare ed accademica,

vocazione pastorale

La scelta degli studi teologici porta Bonhoeffer a

laurearsi a soli 21 anni con una tesi (Sanctorum

Communio) che cerca di saldare i suoi diversi e

divergenti alberi genealogici: da un lato la teologia

liberale di Troeltsch e von Harnack, attenta alla ricerca

storico-critica, ma tendente a ridurre il Vangelo

all’etica e, al limite, al buon senso borghese; dall’altro Karl Barth, l’astro nascente della nuova teologia

“dialettica” che contrappone la “religione” -

espressione dello sforzo dell’uomo verso Dio (in cui però l’uomo si configura Dio a sua immagine, come aveva dimostrato Feuerbach), con tutto l’apparato filosofico e devozionale delle varie manifestazioni

mondiali della religione - alla “fede”, come inizio radicale, rapporto paradossale con l’infinitamente Altro, che nasce dall’ascolto della Parola, che fa a meno dei preamboli filosofici e degli itinerari morali

ed ascetici. In questa prima fase del pensiero di

Bonhoeffer domina il problema ecclesiale, quello della

concreta realizzazione della comunità dei credenti.

Intellettuale raffinato, Bonhoeffer ha chiara

consapevolezza della distanza che lo separa dal

popolo, alla cui cura pastorale vuole dedicarsi: una

distanza che s’impegnerà a colmare sviluppando le narrazioni della Bibbia nel linguaggio più adatto per

farsi capire dall’uditorio, a cominciare dalla sua prima esperienza pastorale in Spagna, con la comunità

tedesca di Barcellona, e in seguito, dopo il suo ritorno

a Berlino, con i giovani degli ambienti operai della

capitale, accanto al suo lavoro di studio ed

insegnamento nell’università. Un momento importante della sua formazione è il

primo lungo soggiorno negli USA nel 1930-1931, in

un’America nel pieno della depressione, con la

questione razziale che cova sotto la cenere.

E’significativo il suo severo giudizio sulla teologia liberale della Union Theological, presso la quale

avrebbe dovuto addottorarsi ma che sentiva troppo al

di sotto del livello da lui già raggiunto. E’ invece positivamente colpito dalla frequentazione

dell’Abyssinian Baptist Church, dove sicuramente non trova molta raffinatezza intellettuale, ma sente pulsare

il vero spirito cristiano: gente che soffre

discriminazioni di ogni genere e che in Cristo trova

consolazione e speranza. Al suo ritorno, gli amici lo

trovano molto cambiato, molto più pastore che dottore

e teologo, con una vita spirituale più rigorosa ed

intensa.

n. 2 (165) – aprile il granello di senape pag. 29

La lotta per la Chiesa contro il nazismo

A partire dalla nomina di Hitler a cancelliere (30

gennaio 1933), gli eventi precipitano. Già in febbraio

Hitler afferra l’occasione dell’incendio del Reichstag per assumere i pieni poteri e iniziare la liquidazione di

tutti gli oppositori. Comincia la politica antisemita e i

tentativi di imporla alla Chiesa luterana. Bonhoeffer

scrive La Chiesa di fronte alla questione ebraica. Sulle

orme di san Paolo e di Lutero, Bonhoeffer accetta

l’autorità dello Stato. Lo Stato faccia lo Stato, ma proprio per questo la Chiesa ha diritto e dovere di

richiamare lo Stato quando questo si allontana dalla

sua funzione: responsabilizzandolo, mettendosi al

servizio delle sue vittime, o in casi estremi “arrestando i congegni stessi” della macchina statale quando questa devia gravemente dalla sua funzione. Quanto al

rapporto tra Stato e Chiesa, egli è sempre stato contro

un’interpretazione “forte” della separazione: il messaggio di Cristo non si limita all’orizzonte intraecclesiale, investe tutto l’uomo, quindi la mondanità, quindi anche lo Stato (ed è proprio per

questo che Bonhoeffer può impegnarsi contro i

provvedimenti antiumani e anticristiani del potere

politico).

Nel maggio ‘34: la dichiarazione di Barmen (dovuta principalmente al grande teologo Karl Barth, in cui si

accusa la Chiesa del Reich di avere deviato dal solco

del cristianesimo) segna l’inizio ufficiale della Chiesa

Confessante, il cui personaggio più noto è il pastore ed

eroe della prima guerra mondiale Martin Niemöller.

Nell’estate del 1934, altro passo cruciale per l’affermazione del regime: la “notte dei lunghi

coltelli”, con cui Hitler liquida i nemici interni (Rohm e le sue SA) con il pretesto che abbiano ordito un

complotto contro di lui (un passaggio essenziale per

rendersi accettabile all’establishment economico). Hindenburg muore, Hitler viene eletto presidente per

plebiscito, pur continuando a restare cancelliere.

Nel 1935, con le leggi di Norimberga, il nazismo ha

ormai rivelato la sua vera natura, ma molti, anche nella

Chiesa Confessante, non sono ancora convinti

dell’impossibilità di un compromesso. E’ l’idea che Bonhoeffer esprimerà in Sequela: ancora una volta il

problema è di capire che cosa significhi seguire Cristo,

vale a dire il problema della Chiesa: se essa sia

qualcosa di staccato dal mondo (magari appoggiandosi

volta per volta ai poteri esistenti) o viceversa qualcosa

di totalmente “mondano”, e di come nel momento storico presente debba rapportarsi al potere dello Stato.

Nella primavera Bonhoeffer dà vita ad un’iniziativa quasi inedita in campo luterano: un seminario per

giovani pastori, una vera comunità educativa, simile ai

seminari cattolici o anglicani (e in effetti alcuni vi

sentono odore di “papismo”). Dopo un paio d’anni verrà chiuso dalla Gestapo, ma continuerà ancora fino

alla guerra in forma diffusa e mimetizzata.

In generale in questi anni la ricerca di Bonhoeffer

ruota ancora attorno all’ecclesiologia: che cosa significa la comunione dei santi, che cosa significa la

sequela di Cristo, che cos’è la vita comune. Certo, partendo dall’idea luterana del sacerdozio universale,

ma con una forte accentuazione dell’elemento comuni-tario che non è nella tradizione luterana o protestante,

salvo alcune importanti eccezioni come il pietismo (i

protestanti per lo più riducono al minimo le strutture

ecclesiastiche e puntano piuttosto sulla famiglia, sulla

società civile e sullo stato come luogo di realizzazione

del “Beruf”, della “vocazione” del singolo). I nazisti sono piuttosto abili nella loro politica

ecclesiastica. Conoscono i loro polli: sanno di poter

contare sul senso del dovere dei funzionari statali,

militari o pastori che siano. Inoltre non cercano lo

scontro diretto. La Chiesa tedesca si divide, la Chiesa

Confessante non viene proibita come tale ma viene

“lavorata ai fianchi”, attraverso provvedimenti amministrativi che proibiscono questo o quello, poi

attraverso l’arresto dei più audaci come Niemöller (ma gli arresti di pastori sono centinaia). Bonhoeffer

comunque è ben dotato per questa guerra di posizione,

oltre che ben assistito dai suoi parenti avvocati e dalle

sue relazioni. Infine la guerra, con la leva generale,

“risolverà” largamente il problema perché i giovani seminaristi, insieme a milioni di coetanei, finiscono

nell’esercito e molti muoiono. Alberto Bosi

(continua sul prossimo n. con i paragrafi:

Chi resiste?

I dilemmi della congiura contro Hitler

Una vita complicata

Il carcere e gli ultimi scritti)

n. 2 (165) – aprile il granello di senape pag. 30

“Come potete permettere che vi tolgano diritti fondamentali?”

Incontro con Aleida Guevara, figlia del Che

Parla di cose grandi ed importanti, ma si commuove

rievocando suo padre, il Che, di cui conserva pochi

ricordi dal vivo, lei nata nel 1960 con un padre che ha

vissuto tanto in clandestinità ed assassinato nel 1967.

E’ militante attiva del Partito Comunista Cubano, medico pediatra a L’Avana, impegnata nel Centro studi che cura la memoria di suo padre, segue

professionalmente centri che si occupano di bambini

con handicap o in difficoltà, invita a leggere quello che

ha scritto il Che perché “per conoscere Che Guevara

bisogna leggerlo”. Aleida ha fatto tappa a Cuneo nel corso del suo

viaggio in Italia per incontrare tante realtà e gruppi,

per il tramite della Rete Radié Resch, associazione di

solidarietà internazionale fondata nel 1964 dal

giornalista Ettore Masina, su ispirazione del prete

operaio francese Paul Gauthier. Radié (Radia) Resch

era il nome di una bambina palestinese, morta di

polmonite mentre era in attesa di una vera casa; con la

famiglia infatti viveva in una grotta a Betlemme.

Finanziare la costruzione di case per alcune famiglie

palestinesi è stato il primo progetto dell’associazione. Aleida ha spaziato dai ricordi della sua vita familiare

alla vita del padre, dal pensiero ed impegno politico di

quest’ultimo alla situazione del mondo attuale ed alla condizione economica/sociale della sua patria,

“costretta” dal giogo delle potenze, ma non vinta. E’ arrivata stanca per la cena alla comunità di

Mambre, a Busca, la sera del 21 marzo; a qualcuno ha

confidato l’affaticamento dovuto ai tanti incontri in Italia in questo soggiorno primaverile, in uno

spostamento frenetico organizzato dagli amici italiani

della Rete Radié Resch.

Ha accettato che le si potessero rivolgere domande

personali, a cui ha risposto lasciando anche trasparire

commozione sincera, come quando ha detto che poteva

cantare soltanto la prima strofa del canto Hasta

siempre, Comandante e lo ha fatto.

Si emoziona altresì ricordando il suo papà, in un

momento in cui non era in clandestinità, mentre

accarezza il capo del fratellino in braccio alla madre.

Si dichiara orgogliosa di essere vissuta in un posto che

l’ha fatta crescere in umanità. Mentre tutti erano rivolti al ricordo del Che, lei ci ha

parlato della sua eccezionale mamma, forte, che ha

amato molto il padre e che non ha permesso che i suoi

figli godessero di privilegi in quanto figli di ...: “Sono

orgogliosa di essere figlia dell’amore tra mio padre e mia madre” .

E del padre, uomo di grande cultura, sempre in ricerca,

laureato, ma che ascoltava la gente e se ne arricchiva,

uno che sapeva rispettare, ascoltare, dice: “Era un

giovane medico che vedeva nel futuro il suo nome

legato a qualche scoperta in ambito scientifico… il suo

lavoro gli ha fatto scoprire una malattia: fame,

miseria, incultura, e per cambiare questo ci vuole una

rivoluzione”. Parla di Cuba, del fatto che gli altri non possono

commerciare con il suo Paese, che è difficile avere il

latte per i bambini, che i medicinali arrivano dopo un

viaggio lunghissimo di 3 - 4 intermediazioni.

Ma emergono altresì la lotta e la speranza, nella ricerca

convinta di un futuro interessante davanti, istruzione

gratuita per tutti, sanità gratuita per tutti, ”abbiamo

tante cose da risolvere, però è nostro diritto risolvere

il nostro problema e non permetteremo che qualcuno

intervenga sulla nostra indipendenza”. E’ sua profonda convinzione che un popolo libero deve essere acculturato: “nessuno ti inganna, nessuno ti manipola, nessuno ti usa”; Cuba non ha molto, ma

c’è la solidarietà (non dare in abbondanza, ma dare ciò di cui hai bisogno).

Ogni popolo vive la sua realtà, il Che diceva che

bisognava lottare per la pace, ma una pace dignitosa, e

non c’è pace se un bambino muore di fame, o un uomo

è senza lavoro e senza casa.

Aleida aggiunge che non è sufficiente trascorrere del

tempo in un luogo - riferendosi alla sua personale espe-

rienza di giovane medico in Angola: “Ho imparato da

lì a rifiutare colonialismo, sfruttamento, razzismo, ho

imparato a rispettare il popolo che non conoscevo...”. Un accenno viene posto all’informazione che deve essere adeguata “per poterci svegliare”. Ed emerge altresì la preoccupazione per noi, nel nostro

mondo ricco, perché perdiamo i diritti di istruzione,

salute: “Come potete permettere che ve li tolgano?”

E’ tardi quando l’incontro si conclude, con Aleida che intona la strofa di una famosa canzone, prima di posare

in foto con chi vuole immortalare questo momento.

Coltivo una rosa bianca, / a luglio come a gennaio, /

per l'amico sincero / che mi dà la sua mano franca.

E per il crudele che mi strappa / il cuore con cui vivo,

/ né cardo né ortica coltivo: / coltivo la rosa bianca.

(Cultivo una rosa blanca, / En Julio como en Enero, /

Para el amigo sincero / Que me da su mano franca.

Y para el cruel que me arranca / El corazón con que

vivo, / Cardo ni urtiga cultivo: / Cultivo la rosa blanca.).

Di fronte a questa donna – che mi pareva impossibile

fosse la figlia del Che – mi sono chiesta se sarei

capace, se verrebbe in mente a noi del nord del mondo,

anche tra i militanti, concludere la narrazione delle

difficoltà in cui si è costretti a vivere intonando una

canzone. L’ho interpretato come l’invito, non soltanto all’impegno ed alla condivisone politica, ma alla vita

in generale, alla coltivazione del sogno che ritroviamo

nello spirito latino americano che ci contagia ad ogni

incontro con qualche suo rappresentante!

Costanza Lerda

n. 2 (165) – aprile il granello di senape pag. 31

cercatori/viaggiatori

JONATHAN SILVERTOWN, La vita segreta dei semi, Torino, Bollati Bolinghieri, p. 256, 19 euro (disponibile in e-book)

Expo Milano 2015 è alle porte. Per sei mesi, dal 1

maggio al 31 ottobre, il mondo intero avrà gli occhi

puntati sull’Esposizione Universale e sull’Italia. Un’area espositiva gigantesca (1,1 milioni di metri

quadri), più di 140 tra Paesi e Organizzazioni

internazionali coinvolti, e 20 milioni di (presunti)

visitatori che si aspettano qualcosa di speciale da

questo evento. Riuscirà l’Expo a dire qualcosa di

nuovo, utile o definitivo su un tema tanto complesso e

abusato come “Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita”? Vedremo... Nell’attesa, complice la primavera, ho deciso di approfondire le mie conoscenze su

alimentazione/nutrizione con un saggio solo

apparentemente lontano da questi argomenti: La vita

segreta dei semi. L’autore, Jonathan Silvertown, professore di ecologia alla Milton Keynes Open

University, è anche un brillante divulgatore scientifico

che si occupa di analisi delle variazioni biologiche

della vegetazione, di storia dei processi evolutivi e di

ecologia (con particolare attenzione ai nessi tra flora

ed evoluzione in senso più ampio). Con grande

chiarezza, un pizzico di ironia e una generosa dose di

cultura, Silvertown accompagna il lettore in un regno

vegetale minuscolo affascinante e curioso. Il suo libro

si basa sulla tesi che i semi hanno due vite, una vera,

nella natura, e una mitica, riflessa nello specchio

dell’immaginario e della letteratura. Come recita un antico proverbio gallese “un seme nascosto nel cuore di una mela è un frutteto invisibile”. Così in ogni seme ci sono un potenziale biologico e

uno metaforico. Entrambi sono

talmente forti da destare

meraviglia (e da meritarsi una

storia!). Noi non ci stupiamo,

perché conosciamo bene il

“frutteto invisibile” che fiorisce e matura sul più piccolo tra i semi,

il nostro caro granello di senape.

Perdoniamo però Silvertown se

traduce tale meraviglia con gli

esempi della sequoia gigante

(Sequoiadendron giganteum),

pesante quanto una flotta di sei

Boeing 747, nata più di duemila

anni fa da un semino di appena 6

milligrammi, e con il seme/idea

che l’ha portato a scrivere qual-cosa che indagasse la scienza

dietro agli aspetti più comuni del

mondo dei semi (quelli che ogni

giardiniere o cuoco conosce già).

Le sue pagine raccontano il

perché i semi hanno la

straordinaria capacità di nutrirci, insaporire i nostri

piatti, idratare e proteggere la nostra pelle, trasformarsi

in piante che danno frutti, fibre, farmaci, veleni,

profumo, protezione, piacere. Leggere queste “storie di semi” è un modo ulteriore per conoscerli meglio, e goderseli. E, naturalmente, si scoprono meraviglie:

personaggi illustri (Shakespeare e Sherlock Holmes,

Kruscev e Nixon, Darwin e Linneo) a spasso in un

mondo vegetale che ha una nutrita pagina di “cronaca nera, omicidi e veleni”, conflitti parentali tra alberi orchidee approfittatrici fichi affaristi piante volanti, il

caffè nel pensiero politico, la genetica, nata

dall’unione di piselli e illusionismo, e ancora, i pericoli

letali di una dieta vegana esportata in un altro paese, e

le bizzarre proprietà dell’olio dei semi di zucca (che produce un’illusione ottica)... E si scoprono anche connessioni inaspettate tra i semi e gli argomenti più

disparati: i processi per stregoneria nella Salem del

Seicento, la malattia di Lyme, la visione dei colori,

l’evoluzione del lievito. In qualunque modo decidiate di leggere i diciassette

capitoli del libro (a zig zag, o con ordine) vi renderete

conto che questi racconti sono un percorso evolutivo

costellato di domande. Il fil rouge che unisce le

vicende di questi semini è una sorta di strategica “arte dell’arrangiarsi”. L’evoluzione inventa sempre nuovi usi per vecchi strumenti. Questo accade in virtù del

meccanismo che regola l’evoluzione stessa per far fronte a una necessità di sopravvivere che procede

gradualmente e senza direzione

da una soluzione all’altra. I risultati di questo processo sono

incredibili (e raccontati da

Silvertown sono anche perfetti

soggetti da romanzo), ma non

bisogna mai dimenticare il

tempo e la lentezza necessari a

raggiungere questi esiti. Come

scrive l’autore: i due millenni che ci vogliono perché un seme

produca un albero delle dimen-

sioni della sequoia non sono che

un battito di ciglia nei trecen-

tosessanta milioni di anni della

storia delle piante da seme. Lao-

Tzu, vissuto più o meno quando

la sequoia non era che un

granello di sei milligrammi,

colse nel segno quando scrisse

“saper vedere le cose racchiuse nel seme, ecco dove sta il

genio”. Beatrice Di Tullio

n. 2 (165) – aprile il granello di senape pag. 32

Centro Sociale Cuneo news Le attività, e le novità, di febbraio/marzo

Sportello casa

Il 7 marzo, incontro con l'assessore regionale Ferrari

a Torino nella sede della Regione. Vi hanno

partecipato alcuni volontari dello sportello e delegati

degli assegnatari di Alba, Mondovì, Saluzzo, Cuneo.

L'incontro, nel quale sono state presentate le 1.600

firme raccolte dagli assegnatari contro la vendita delle

case popolari, ha visto il completo accordo sul no alla

vendita all'asta delle case popolari e per la

riqualificazione e l'espansione dell'edilizia pubblica e

l'impegno dell'Assessore affinché questa diventi la

posizione ufficiale della Regione Piemonte.

Il 27 marzo, incontro nella sala di via Schiaparelli a

Cuneo degli assegnatari con Gino Garzino,

vicepresidente dell'Atc-Agenzia Territoriale per la

casa. Si è discusso di un po' di tutto (gli assegnatari

hanno un lungo contenzioso con l'Atc), in particolare

di manutenzione e di come creare un dialogo continuo

istituto-assegnatari.

Lo psicoterapeuta sociale

Riportiamo il volantino che dà il via al nuovo

servizio offerto da psicologhe di lunga

esperienza e di assoluta fiducia.

La crisi economica non solo colpisce le nostre

tasche, ma anche la nostra vita emotiva e

quella delle nostre famiglie. Sconvolge tutti i

legami, i ruoli… Prevale la sensazione che siamo soli e isolati e gli spazi per parlarci si

riducono.

Nessuno resti solo.

Proponiamo incontri psicoterapeutici,

individuali e di gruppo, dove poter spezzare la

solitudine e l’isolamento. Le spese saranno minime e garantiamo la

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meno delle tariffe della sanità pubblica.

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nei materiali, a prezzi decisamente competitivi

anche con quelli offerti al di fuori d'Italia.

Non è una novità: funziona già in altre regioni

e, vicino a noi, a Nichelino e a Torino.

Se volete una prima informazione andate su

Google e cliccate “Dentista sociale”: vi troverete tutti resoconti positivi. Alcuni di noi

l'hanno sperimentato di persona; una prima

riunione informativa si è svolta a fine febbraio;

la prima decina di interessati si è incontrata

con il medico che fornisce il servizio il 24

marzo; la prossima (gli incontri sono a cadenza

mensile) è fissata per il 21 aprile.

Per info più dettagliate: Giancarlo 3891393534

Italia - Grecia Nella consapevolezza che il destino della Grecia è

fondamentale per il destino dell'Europa che vorremmo

e che la solidarietà con questo popolo e con il governo

che si è scelto è fondamentale anche per coloro che in

Italia si battono contro il neoliberismo, alcuni di noi

hanno cominciato a dare vita anche a Cuneo

all'associazione Italia-Grecia.

Prime iniziative: incontro (probabilmente il 1° maggio)

con Argyris Panagopoulos, impegnato ne L'Altra

Europa e dall'inizio in pratica rappresentante di Syriza

in Italia; alcuni filmati e discussioni da tenere nella

sede del Centro; il tentativo di organizzare per questa

estate (luglio o forse settembre, visti i prezzi dei voli)

un viaggio politico-balneare in Grecia.

(a cura di Carlo Masoero)

n. 2 (165) – aprile il granello di senape pag. 33

Fuori Fuori ferve la vita io solitario resto straniero

Eternità Niente comincia Tutto continua Il giorno lentamente cambia Nessun anno comincia è solo: Eternità

Il giardino dei sensi Sullo stelo dell’emozione prima che il tempo scada ferma un attimo il mio sguardo e si posa su un petalo di fiore e mi ritrovo nel giardino dei sensi

Vorrei dire

Vorrei dire non quello che penso

Vorrei dire solo quello che sono

Vorrei dire non con parole ma con sorrisi e sguardi

Vorrei dire con l’anima in sordina

Vorrei dire con gesto ed espressione

Lentamente Nel vivere lentamente il cuore si infrange come vetro agli insulti della vita c.c.

Acqua pubblica: mettiamoci la faccia I cittadini ci hanno la messo faccia nel 2011 con i referendum. Nella provincia di Cuneo lo hanno rifatto in occasione della campagna “Annulla la delibera” che ottenne la cancellazione dal provvedimento dell'Autorità d'Ambito della gara d'appalto internazionale prevista per il 2017. Ora tocca agli amministratori sventare questo pericolo. Il Governo Renzi ha deciso con il decreto “Sblocca Italia” di imporre per ogni ambito (nel caso di Cuneo coincide con l'intero territorio della Provincia) un unico gestore. Una scelta che va chiaramente nella direzione di favorire le quattro grandi multiutilities (Iren, Hera, Acea e A2a). Entro il 30 settembre ogni Autorità d'ambito deve decidere quale forma avrà il gestore del servizio idrico: pubblico, privato o misto. Tocca quindi agli amministratori “metterci la faccia” chiedendo alla Presidente dell'Ente di Governo degli Ambiti Territoriali Ottimali, Bruna Sibille, di convocare l'assemblea generale di tutti gli enti partecipanti all'Ato4 Cuneese (i 250 sindaci, il Presidente della Provincia e i Presidenti delle Unioni dei Comuni), e impegnandosi perché questa si esprima in direzione della formazione di una società pubblica con la partecipazione di tutti i comuni a cui affidare il servizio idrico. Altrimenti la decisione verrebbe assunta dalla Conferenza dell'Ato, composta dal Presidente della Provincia e da 15 rappresentanti delle varie aree, con un esito che prevediamo possa essere quello di una società mista pubblico-privata, all'interno della quale,

come l'esperienza ampiamente dimostra, a comandare è sempre il socio privato. A tutti i comuni è stata inviata una bozza di ordine del giorno. Già i primi enti hanno aderito alla campagna approvandolo all'unanimità: Vernante, Valdieri, Vignolo, Moiola, Unione dei Comuni Valle Stura... Se in questa campagna è chiesto a Sindaci e consiglieri di essere in prima linea, non mancano le occasioni di partecipazione per i cittadini. Nei comuni in cui tale provvedimento non è ancora stato approvato i residenti possono firmare la petizione, presso i vari banchetti organizzati o presso le botteghe del commercio equo e solidale oppure attivandosi in prima persona chiedendo al comitato i moduli. È stata attivata anche una petizione on-line rivolta ai componenti della Conferenza dell'Ato che può essere firmata anche da chi ha sottoscritto l'appello ai propri amministratori: http://firmiamo.it/acqua-pubblica--mettiamoci-la-faccia E' molto importante contattare singoli amministratori per chiedere loro di mettersi in contatto con il comitato o di presentare l'ordine del giorno al proprio consiglio comunale. Il comitato invita coloro che volessero collaborare con la campagna a mettersi in contatto (389 3455739 - [email protected]) e a tenersi liberi per il 17 maggio, data in cui a Valdieri si svolgerà la quinta edizione della Primavera dell'Acqua.

Comitato Cuneese Acqua Bene Comune

n. 2 (165) – aprile il granello di senape pag. 34

Il metodo del fareassieme per rafforzare la collaborazione fra il volontariato ed i servizi psichiatrici

Il mese di marzo è stato molto ricco per quanto riguarda le relazioni fra le Associazioni di volontariato nel campo della salute mentale e il Dipartimento di Salute Mentale dell’ASL CN1. È iniziato con la consueta riunione del Tavolo del

Fareassieme, il 3 marzo (una sintesi della riunione è consultabile sul sito www.menteinpace.it), presso il Centro Diurno di Cuneo. Questo Tavolo, che vede la partecipazione di Associazioni come la DiAPsi (Difesa Ammalati Psichici) di Cuneo, Saluzzo-Savigliano-Fossano e Mondovì-Ceva, MenteInPace di Cuneo, l’AVO di Mondovì e Cuneo, Ipazia di Cuneo, si riuni-sce da oltre due anni insieme agli operatori dei vari distretti del Dipartimento di Salute Mentale (DSM) per discutere tematiche inerenti gli utenti ed i familiari dei servizi psichiatrici cercando soluzioni concrete. Inoltre, nelle tre giornate dal 18 al 20 marzo, si è svolto un corso di aggiornamento (ripetuto in tre moduli per i distretti di Cuneo, Savigliano e Mondovì) sulla metodologia del Fareassieme, ideata dal Centro di Salute Mentale (CSM) di Trento e già attuata in diversi Dipartimenti di Salute Mentale in Italia. Tale metodologia vuole riconoscere il sapere esperien-

ziale, utilizzando il contributo di utenti o ex utenti e familiari (che ricoprirebbero il ruolo di UFE o Utente e

Familiare Esperto) in collaborazione con gli operatori psichiatrici. Al corso hanno partecipato, come relatori, il dr. Renzo De Stefani, responsabile del CSM di Trento, Roberto Cuni (UFE), Maurizio Capitanio (UFE) anch’essi di Trento, oltre ad un’infermiera ed un’altra UFE provenienti dalla stessa realtà, che rappresenta da anni un punto di riferimento per le buone pratiche in psichiatria. Gli iscritti al corso erano sia operatori che utenti, familiari o volontari di Associazioni per la salute mentale. A fine mese si sono svolti due incontri, promossi dal Direttore del DSM dell’ASL CN1, per un confronto con il volontariato. Il primo, svoltosi il 25 marzo, voleva fare il punto della situazione per impostare un programma di collaborazione per l’anno in corso. In tale incontro, a cui erano presenti rappresentanti di AVO, Caritas, DiAPsi e MenteInpace oltre a Dirigenti e Coordinatori del DSM, si è evidenziata la necessità di attuare la collaborazione con utenti e familiari, sulla base del loro sapere esperienziale nell’intento di sperimentare queste nuove figure di UFE. Il secondo, del 31 marzo, aveva l’obiettivo di iniziare ad organizzare il Convegno sulla salute mentale che si svolgerà a Vicoforte Mondovì il prossimo autunno (la data è stata fissata per il 17 ottobre). Questo convegno, promosso dalla Caritas, sarà incentrato, come afferma Cristina Bresciano della Caritas di Mondovì “sul coin-

volgimento della comunità nel farsi carico del crescen-

te disagio psichico, conseguente all’attuale momento di crisi, nella prospettiva di una maggior conoscenza

della malattia mentale e di una consapevolezza della

dimensione comunitaria della costruzione della salute,

come anche della malattia”. Come relatori partecipe-ranno amministratori regionali e locali, psichiatri, rappresentanti del volontariato. L’intento dovrebbe essere quello di evidenziare le principali criticità di chi ha una malattia mentale e dei loro familiari (in principal modo rappresentate da casa, lavoro e socializzazione), aggravate dal perdurare del pregiu-dizio su tali patologie, per chiedere risposte concrete agli amministratori (assessori regionali e sindaci), ai professionisti, alle associazioni di volontariato ma anche ai cittadini in quanto facenti parte della comunità e pertanto co-responsabili della convivenza. Piccoli gesti di solidarietà ed apertura all’altro possono essere utili ed a volte strategici, specie se integrati armonicamente in un progetto comune.

Gianfranco Conforti Volontario MenteInPace, Cuneo

(MENTEINPACE – Forum per il ben-essere psichico Via Busca 6, 12100 Cuneo - tel. 0171.66303 - [email protected] www.menteinpace.it)

n. 2 (165) – aprile il granello di senape pag. 35

Ultimi giorni alla Meru Herbs Riportiamo qui l’articolo per il blog sul Servizio Civile dell’ong IPSIA Acli scritto da Camilla, la

giovane di Roma appena rientrata,

insieme a Daniela di Savigliano,

dopo un anno di volontariato

trascorso alla Meru Herbs, la

cooperativa agricola fondata dal

cuneese Andrea Botta, oggi unica

realtà di produzione alimentare in

Africa per il commercio equo e

solidale.

Questo articolo è stato scritto

prima del rientro delle due ragazze

che il 28 marzo a Cuneo hanno

incontrato alcune classi degli

Istituti “Bonelli” e “Grandis” per raccontare la loro esperienza.

Guidare di notte lungo una strada secondaria dell’entroterra keniota è un’esperienza inebriante. La sonora e monotona musica Swahili nello stereo, finestrino abbassato e aria tra i capelli, fari che mi vengono incontro, fendendo il buio totale, accecandomi ma illuminando anche le persone che, imperterrite, camminano sul ciglio della strada, e una distesa di stelle, perfettamente visibili nonostante gli abbaglianti. Il buio completo che mi circonda, testimone di una vegetazione selvaggia ancora intatta, e questo cielo, così luminoso e vicino, mi trasmettono una sensazione di pace e di stupore allo stesso tempo: mi sento piccola, un puntino che si muove all’interno di un mondo e di un universo inconcepibilmente vasti. E i miei occhi e il mio cuore attingono da questo momento e si riempiono di felicità. Siamo state invitate alla celebrazione di una circoncisione: in Kenya è un momento molto importante nella vita di un ragazzo, segna il passaggio all’età adulta e l’ingresso in società come un individuo autonomo, ed è festeggiato seguendo uno schema preciso. Dopo aver effettivamente “eseguito la pratica”, il ragazzo deve rimanere per due settimane all’interno della casa a lui destinata, assistito nella convalescenza da un padrino, scelto dalla famiglia, che lo istruirà anche sui doveri e sulla condotta adeguata di un uomo nella comunità. Al termine di questa clausura, arriva il momento di organizzare una grande festa: viene invitato tutto il villaggio, si chiamano le donne all’alba per cucinare un pranzo faraonico e a tutte le personalità più rispettate è richiesto di tenere un discorso. Si mangia, si canta e si balla… per un

giorno il ragazzo è il re e tutto il circondario è chiamato a corte a festeggiarlo. E non importa che la corte sia, in realtà, un minuscolo cortile di terra circondato da due o tre misere casette di fango. Questa terra selvaggia e questo Kenya ricco di contrasti e di vita fervente mi sono entrati dentro e mi mancheranno immensamente: ormai è passato un anno, sto per rientrare in Italia e la mia mente non riesce a comprenderlo fino in fondo. Ho imparato tante di quelle cose, ho vissuto tante di quelle avventure, ho conosciuto tante di quelle persone – tutte diverse e tutte con qualcosa da insegnarmi – che sento in modo tangibile di essere una persona diversa rispetto a quando sono partita. Qui ho trovato una routine, una famiglia e una comunità accogliente e premurosa. Ho vissuto l’affetto, l’amicizia, il rispetto, la curiosità mia verso gli altri e degli altri verso di me. Sono passata attraverso dure prove e al tempo stesso ho capito cosa significa vivere con semplicità. Ho riscoperto il contatto con la natura, l’emozione nel lasciarsi sorprendere da un paesaggio, da un fiume, una montagna, una cascata. Ho convissuto con gli animali più disparati – capre, galline, uccelli, ragni, serpenti – e, come mai prima d’ora, capisco il mio posto nel mondo: un animale come gli altri, che vive a fianco agli altri, in armonia. Mi sono arrampicata sugli alberi, ho camminato scalza sulla terra rossa, per chilometri, ho raccolto frutti dai rami e me li sono mangiati, semplicemente così, come Madre Natura ha disposto nella notte dei tempi, come dovrebbe essere. Mi mancherà questo villaggio, mi mancherà terribilmente. Mi mancheranno Mungai e John Mark, quei due dolcissimi monelli con i quali, all’inizio, scambiavo timidi sorrisi e qualche disegno e che adesso mi prendono sfacciatamente in giro per indurmi a giocare alla lotta con loro. Mi mancheranno tutti i bambini che mi chiamano “Makena”, mi salutano per ore con la manina oppure mi fissano con occhi strabuzzati, rifugiandosi tra le braccia della madre a ogni espressione buffa che faccio per cercare di conquistarmeli (senza successo, apparentemente). Mi mancheranno le chiacchiere profonde al bar con Murumbi, interrotte da tutti gli strambi personaggi che ogni volta girano intorno al nostro tavolo, regalandoci perle di saggezza – in lingua Kimeru, ovviamente –

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che si confondono con gli sproloqui annebbiati di una mente stanca e un po’ ubriaca. Mi mancheranno le risate cristalline delle donne della Meru Herbs, sempre pronte a regalarmi un sorriso, a invitarmi a pranzo a casa loro, a promettermi di presentarmi il figlio “che non si sa mai”, a divertirsi con poco e semplicemente a essere felici di condividere il loro tempo e il loro lavoro con me. E mi mancheranno le raccomandazioni degli uomini della Meru Herbs, così premurosi da consigliarmi nella scelta di un marito, l’importante è che sia keniota e che mi rispetti e non mi faccia rimpiangere la casa dei miei genitori. Mi mancheranno tutti gli amici che ho incontrato lungo la strada, sparsi ai quattro angoli del Kenya e del pianeta intero, ognuno dei quali ha lasciato qualcosa in me e ha contribuito a farmi vedere il mondo in modo diverso. Mi mancheranno Vale e Tim, la mia famiglia di

Nairobi, quei due personaggi così incasinati e teneri, che mi hanno accolto come una figlia trovando un posto per me in ognuna delle case che hanno cambiato in un anno! Mi mancherà Jacaranda – Jackie –, la gattina più dolce e più viziata del villaggio, con cui ho scambiato tanto amore nonostante gli starnuti e che ancora si lancia sul mio letto senza capire che c’è la zanzariera e che sarà sempre, inevitabilmente, rimbalzata via. E mi mancherà Daniela, l’intimità che solo la convi-venza in una situazione come la nostra può creare, le chiacchiere che ci hanno salvato durante le lunghe sera-te uggiose e il sostegno che ci siamo date a vicenda. È stato un anno incredibile, che mi porterò nel cuore per sempre perché ha contribuito a formare la persona che sono e che sarò. Sono triste all’idea di andare via, felice dell’esperienza fatta, ho l’anima piena di emozioni e mi sento in pace.

Camilla

Sul n. precedente del Granello abbiamo

pubblicato un racconto di Leonardo Lucarini, sul quale, per esigenze di spazio, abbiamo operato alcuni minimi tagli e una trasposizione di frase. L’autore, che di frequente collabora al Granello

raccontandoci le sue esperienze di chirurgo volontario in Africa, ci ha mosso il seguente appunto, che senza problemi pubblichiamo:

“Non entrando nel merito delle scelte redazionali, desidero esprimere il mio rammarico per il modo in cui è apparso sul numero di febbraio 2015 de “Il Granello” il mio breve racconto con il titolo “Cosa fai qui Elia?”. Con il suo acuto “TI HANNO CUCCATO!” l’innocente piccolo Elia aveva fatto pienamente centro… La casualità del suo nome mi aveva rimandato impropriamente e senza alcun riferimento oggettivo, all’episodio biblico o meglio semplicemente alla frase “Cosa fai qui Elia? e all'atmosfera in cui era stata pronunciata. La citazione completa del passo di 1 RE 19, 12-13 (che avevo per una svista distrattamente riferito a Elia) come da me proposta e la costruzione originale ed integrale del racconto intendevano in qualche modo evocare proprio questa atmosfera nel cui contesto era nata la semplice associazione mentale. Le pur piccole mutilazioni e le trasposizioni ne hanno, a mio parere di autore, snaturato il significato facendolo apparire come un’inutile autocitazione, laddove il suo intento era quello di offrire una testimonianza di tipo “vocazionale”.

Leonardo Lucarini”

E Benetton paga

Benetton contribuirà al fondo istituito presso l’Organizzazione Internazionale del Lavoro per il risarcimento delle vittime del Rana Plaza, il palazzo che crollò nell’aprile 2013 a Dacca provocando la morte di 1.138 persone e il ferimento di altre 2500. In un breve comunicato l'azienda non ha comunicato la cifra, il cui ammontare verrà stabilito da una terza parte “indipendente” e reso pubblico non prima del secondo anniversario della tragedia. Al Rana Plaza si lavorava per i marchi occidentali, tra cui Benetton, che in un primo tempo negò il coinvolgimento, ma fu costretta ad ammetterlo quando dalle macerie emersero prove inconfutabili. La società italiana si era finora rifiutata di con-tribuire al fondo, contrariamente a tutti i grandi marchi interessati, con la giustificazione di preferi-re la collaborazione con un'istituzione privata. Scelta contestata dalla coalizione Clean Clothes Campaign (Ccc) perché “un conto è la carità, un altro è il diritto delle vittime a un indennizzo”. Le tanti manifestazioni e il milione di firme raccolte in collaborazione con Avaaz hanno convinto la società a cedere, ma Ccc invita ad accogliere l'apertura con prudenza. Secondo una valutazione che tiene conto delle capacità economiche e dell'entità delle relazioni, Benetton sarebbe tenuta a versare cinque milioni di dollari. “Non c’è nulla di indipendente in una terza parte incaricata e pagata da Benetton stessa. I fatti sono chiari: mancano nove milioni di dollari al totale previsto del Fondo. Cinque di questi devono essere versati da Benetton.” accusa Ilona Kelly di Ccc.

Sergio Dalmasso Tavolo delle Associazioni . Cuneo

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Lo sfizio Quel giorno spiegavo e spiegavo, ma la classe sembrava impermeabile: tutti educati mi ascoltavano, sì, ma vedevo che il pensiero era altrove. Mi sforzavo di incontrare i loro occhi, di comunicare con le mani e il sorriso: Ulisse il marinaio, Dante che lo mette nell’inferno ma gli fa dire ai compagni “Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti…”, le isole del Mediterraneo, il mare che sta in mezzo, in mezzo fra cosa?, e le rane intorno allo stagno, Ciclopi e Lotofagi, Circe e Calipso… Niente. Strano! perché di solito con l’Odissea riuscivo, quando ero una insegnante giovane e poco rispettata, ad addomesticare anche le classi più turbolente, ma qui il problema non è la turbolenza. È questo giorno di quasi primavera, questa arietta un po’ profumata, fuori ci deve essere quel leggero venticello Favonius che ci stordisce sempre dopo l’inverno, quel primo pallido sole che però scalda bene le ossa piene di umidità. Attraverso le grate, guarda fuori della piccola finestra, Ahmed. Si è seduto in fondo all’aula e chiaramente non sa di cosa io stia parlando. Allora perdo un po’ la pazienza per quest’uomo che di solito è attento e gli chiedo dove stia navigando con la mente. “Oggi non è giornata, prof, mi scusi”. “Ma Ahmed, il Mediterraneo è il nostro mare comune, stanno lì le nostre origini comuni, gli stessi valori tutt’intorno… Per esempio, Sinbad il marinaio…” “Lasci stare prof, è inutile studiare e darsi da fare, qui in carcere non serve a niente…” Blerim, il giovane albanese che sa sempre tutto, mi ragguaglia: “Ieri gli è arrivata la sentenza…” A questo punto vedo che Ulisse va rimpatriato con tutto il suo libro e guardo interrogativamente Ahmed. “So di avere sbagliato, lo riconosco, e mi aspettavo i tre anni che sto già quasi finendo di scontare, fra poche settimane avrei finito, anche prima che ci fosse il processo. Ma prof, qui c’è un’ingiustizia, mi hanno dato sei mesi in più perché ero latitante”. “No, prof, non latitante, corregge Meho il macedone. Lui non si è presentato al processo e quindi era contumace”. Io, che capisco poco o niente delle loro cose, resto un po’ frastornata: “Ma come faceva lei ad essere contumace se il processo lo hanno fatto adesso? Lei era qui in carcere, non si stava mica nascondendo…” “Già, ribatte Ahmed, io ero qui e loro a Verona hanno fatto il processo senza di me. E poi mi condannano in contumacia. È il mio avvocato che si è dimenticato di dirlo, al giudice, che io ero a Cuneo e che mi doveva far arrivare a Verona. Come facevo io ad arrivare a Verona… mica mi fanno uscire così per andare a Verona. Vada, signor Ahmed, esca pure ché ha un

processo e deve presentarsi a Verona. Loro se ne sono infischiati, a loro basta condannare e finire il lavoro. È tutta colpa dell’avvocato che si è dimenticato, e il giudice poteva magari chiedergli se sapeva dove fossi io, e perché non mi fossi

presentato”. La vecchia rabbia mi scatta dentro e, incredula, gli faccio ripetere tutto. Omero a quel punto diventa un argomento di lusso, adatto alla vecchia insegnante che sono, ma qui i problemi sono quelli della vecchia distinzione di classe: chi ha i soldi per l’avvocato si arrangia bene, agli altri lo Stato garantisce l’avvocato d’ufficio, una bella ipocrisia perché chi è pagato dallo Stato non si impegnerà per niente nella difesa: “Mi affido alla clemenza della Corte”. Così è andata ad Ahmed, il suo avvocato non ha fatto presente che lui era in carcere a Cuneo e che bisognava convocarlo ufficialmente, la polizia penitenziaria lo avrebbe portato a Verona e lui avrebbe avuto i suoi tre anni, quelli che si aspettava, e non quei sei mesi in più. Rabbia rabbia, e sdegno. “Si può fare qualcosa?” chiedo. Gli occhi neri degli africani di pelle nera si fanno più neri della notte. E sono pieni di commiserazione per me che mi sdegno, e di rassegnazione per Ahmed. Povera don Chisciotte, sembra che mi dicano, cosa credi, tu con la tua vita tranquilla, garantita, tu che vivi di un Mediterraneo dove corrono gli eroi, li hai mai visti i cadaveri del Mediterraneo, i nostri fratelli che affogano? Ma Ahmed è un tunisino testardo: “Prof, non mi potrebbe trovare il nome di un altro avvocato del foro di Verona? Guardi su internet. C’è l’elenco degli avvocati, basta sceglierne uno, un avvocato d’ufficio che faccia ricorso contro la sentenza. Lei gli può spiegare come è andata…” “No no, io non conosco nessuno, questo è un problema che non sono capace di affrontare. Magari scelgo un altro sfaticato…” Ma il giorno dopo arrivo in classe con una stampata di sei pagine, tutti avvocati del foro di Verona: “Scelga lei, Ahmed, per me sono solo nomi, non ne conosco uno”. Il tunisino mi sorprende: “Io sceglierei una donna, sono più laboriose” e tutti, albanesi, ghanesi, marocchini, macedoni e rumeni, sono d’accordo: le donne sono più laboriose. Evvai con questa parità – o disparità – dei sessi! Con il nome e il numero di telefono della Avvocata-Donna torno a casa e chiamo. Spiego: così e così, lui è in carcere, non poteva essere al processo, condannato in contumacia, che fare?

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Pedonalizzazione

“Sto seduto sulle spalle di un uomo, togliendogli il respiro e costringendolo a portarmi e tuttavia assicuro a me stesso e agli altri che mi dispiace per lui e che desidero alleggerire il suo fardello in tutti i modi possibili, tranne quello di scendere dalle sue spalle”. Lo diceva Tolstoi ed è un'immagine che si adatta benissimo al culto dell'automobile. Come evidenziato dal sito www.bikeitalia.it, 12 studi realizzati in diversi paesi (Usa, Nuova Zelanda, Austria, Germania, Canada, Inghil-terra, Australia e Irlanda) dimostrano come la sostituzione di parcheggi con piste ciclabili, contrariamente a molte previsioni dei commercianti, abbia ricadute benefiche sulle vendite. Dopo la costruzione (abusiva) di una pista ciclabile in una strada di Seattle e la conseguente cancellazione di 12 posti auto, l’indice di vendite sulla strada interessata si è impennato, soprattutto se paragonato con gli altri negozi del circondario. A Toronto solamente il 10 % dei clienti utilizzano l’auto per fare acquisti e coloro che arrivano a piedi e in bicicletta spendono più denaro su base mensile. Diversi studi, tra cui quello di un gruppo di ricercatori britannici, confermano quanto sia eccessiva la fiducia nella ricaduta benefica derivante dalla vicinanza di parcheggi sulle vendite. Dalla loro indagine emerge che i venditori tendono a sopravvalutare l’uso fatto dell’automobile: i negozianti di Bristol pensavano che il 41% dei loro clienti arrivasse in auto, mentre questo era vero solamente per il 22%. Ritenevano, inoltre, che solamente il 6% si spostasse in bici contro un dato reale del 10%.

Sergio Dalmasso Tavolo delle Associazioni - Cuneo

Non solo l’avvocata è una donna laboriosa, ma è anche una che capisce subito: l’avvocato d’ufficio ha sbagliato. Si può fare ricorso subito. È una cosa da niente. Ma… ma Ahmed ha i soldi per pagare? No, mi imbarazzo io, Ahmed ha bisogno di un avvocato d’ufficio, qualcuno che presenti il ricorso per lui. Potrebbe la donna laboriosa e avvocata farlo lei? “Professoressa, - mi chiarisce le idee lei - senza soldi non si va da nessuna parte. Lui si faccia quei sei mesi in più che male non gli fanno. Se invece trova i soldi, diciamo 600 euro, secondo me ci sono tutti gli estremi per vincere il ricorso. In fondo si tratta di un mero errore procedurale. Ma bisogna andare dal giudice e fargli correggere l’errore formale”. Per spiegare che cosa successe poi, bisognerebbe sapere prima che cos’è lo sfizio. È un desiderio, una soddisfazione, una piccola cosa. Insolita. È quel capriccio che una volta tanto ci vogliamo permettere. La primavera che ci offusca un po’ la mente è la stagione ideale per desiderare quel non-so-che. D’estate fa troppo caldo per uno sfizio, autunno ed inverno ci rendono più risparmiosi. Invece in primavera quel venticello, il fohn, ci rende un po’ più spericolati. Quella torta senza nessuna festa particolare? Un caffè da Arione? Un grazioso paio di scarpe non necessarie? È l’insania primaverile come ce la spiega Lucrezio nel De Rerum Natura. Tutti gli esseri viventi sono presi da una smania senza senso, vanno e vengono, saltano e cantano, attraversano fiumi rapinosi. Quello è lo sfizio, che si manifesta e ci trascina, ce lo diceva già Lucrezio! Era primavera in quei giorni, e lo sfizio mi travolse. Avevo in quei giorni ricevuto la liquidazione, un’enormità di soldi dopo una vita da formichina. Perché non potrei assumere io un avvocato? E senza che me ne accorgessi mi sentii dire: “Come faccio, avvocato, ad avviare la pratica?” Lo sfizio ha le sue traversie, i suoi aspetti pratici; e così, con un numero IBAN lunghissimo in mano, andai alla posta per il bonifico.

Pochissimi giorni e la donna laboriosa mi telefona: “Sì, ci siamo, il giudice si è raccolto per deliberare”. Come è andata a finire? La settimana dopo Ahmed non era più in classe: “liberante”, si dice. Il participio presente dovrebbe indicare un’azione contemporanea al tempo della reggente, ed avere una valenza attiva. Invece nel linguaggio penitenziario indica un’azione passata e passiva: Ahmed era già stato liberato. Mi telefonò mesi dopo: stava raccogliendo pomodori dalle parti di Salerno, in nero, naturalmente: “Prof, non lo sapevo che il Mediterraneo ci fosse comune. Però, quell’Ulisse, che forza lui e la sua barca… Alla sera racconto la sua storia qui, ai miei fratelli africani…”

Katia

volontaria di Ariaperta

n. 2 (165) – aprile 2015 il granello di senape pag. 39

COLIBRÌ società cooperativa sociale ONLUS

Via Monsignor Peano, 8 - 12100 CUNEO

tel. e fax : 0171/64589

www.coopcolibri.it

Le botteghe della Colibrì si trovano a :

CUNEO Corso Dante 33

BORGO SAN DALMAZZO Via Garibaldi 19

FOSSANO Via Garibaldi 8

MONDOVI Via “. A olfo

SALUZZO Via A. Volta 10

UN OLIO BUONO ANCHE SOCIALMENTE È DAVVE‘O IN C‘ISI L ITALIA DELL OLIO D OLIVA?

Il a olto dell olio è stato des itto dai edia o titoli che hanno parlato de L a o e o dell olio

italia o o I iziata la o sa alle s o te come ha denunciato la Coldiretti.

Un allarmismo eccessivo, sebbene nel 2014 la produzione nazionale di olio da olive avesse già registrato un

calo, con una cifra inferiore alle ila to ellate, di ui l ext ave gi e ( ioè l olio o u a idità i fe io e allo 0,8%) aveva registrato cifre sotto le 100mila tonnellate, come confermato da ASSITOL, l Associazione

Italiana dell’Industria Olearia. Eppu e l Italia o ha ai p odotto olio a sufficienza a coprire la domanda

i te a: o u a p oduzio e azio ale he o supe a le ila to ellate all a o, il nostro Paese copre appena il 40% del fabbisogno medio, che è di circa un milione di tonnellate.

Queste considerazioni però non devono minimizzare la forte diminuzione della produzione registrata fra il

2014 e il 2015 che, fra le cause principali, annovera il cambiamento climatico con temperature troppo alte

el pe iodo di fio itu a degli ulivi e u au e to del tasso d u idità i estate, oltre alle grandinate

devasta ti. Questa i sta ilità ha eato g ossi p o le i all i te o setto e olea io, o u a fo te di i uzio e della p oduzio e e o su ato i alle p ese o p ezzi più alti e t uffe diet o l a golo.

NUOVE SFIDE DA COGLIERE

Eppure secondo Alessandro Zucchi, presidente di ASSITOL, intervistato da Altreconomia nel marzo 2015,

proprio uesta isi dell olio può off i e u oppo tu ità al o pa to, come ad esempio ripensare

i te a e te l o ga izzazio e della filie a e le odalità di p oduzio e. Oggi l Italia o se te l utilizzo di alcuni antiparassitari che non sono però accettati in alcuni dei più interessanti mercati, come Stati Uniti

d A e i a, Ca ada, B asile, e . . Po ta do poi l ese pio della “pag a he, odifi a do la sua legislazione

i ate ia di a tipa assita i adottati dai oltivato i, i po hi a i è passata dal al % di uota ve di ile .

E IL BIOLOGICO?

A he i uesto aso, l Italia o se a ave olto appie o le oppo tu ità offe te da u setto e he continua a registrare forti segnali di crescita. Per i prodotti a marchio, nella grande distribuzione

organizzata, in un anno, so o io u a pe e tuale idi ola, appe a supe io e all % ha sottoli eato Gianluca Gariglio in un suo recente articolo su Slowine.it.

Nei supe e ati, ella st ag a de aggio a za dei asi, sia o di f o te a p odotti i dust iali ealizzati da ulti azio ali st a ie e he ulla ha o a he fa e o l Italia. Dal pu to di vista o ga oletti o so o olii

neutri, senza sapore e senza profu o.

QUANDO L OLIO È ANCHE SOLIDALE

Se ella g a de dist i uzio e l olio italia o iologi o o ha a o a t ovato olto spazio, so o i ve e parecchie le produzioni nostrane che si sono inserite in circuiti specifici come il commercio equosolidale

n. 2 (165) – aprile 2015 il granello di senape pag. 40

LA COOPERATIVA COLIBRÌ (www.coopcolibri.it)

Nata nel luglio 2012, la Cooperativa sociale Colibrì riunisce in un unico progetto l'esperienza di cinque Botteghe del Mondo nella provincia di Cuneo che alla promozione del commercio equo e solidale affiancano un'intensa

attività di sensibilizzazione attraverso percorsi info-educativi nelle scuole, eventi e campagne.

Ai ittadi i è offe ta l oppo tu ità di pa te ipa e alle s elte e alle attività della oope ativa in qualità di Soci

Ordinari, Soci Volontari o Soci Risparmiatori: www.coopcolibri.it/diventasocio

Coli ì s s O lus è u O ga izzazio e di Co e io E uo e “olidale is itta al ‘egist o AGICES (www.agices.org) ed

è socia del consorzio Altromercato (www.altromercato.it), la maggiore organizzazione italiana di Commercio Equo

e Solidale.

in cui, al valore della produzione biologica, si aggiunge quello di progetti interessanti per le ricadute sociali sulle persone e sui territori coinvolti.

Parliamo ad esempio delle cooperative del Consorzio Liberaterra, come Valle del Marro che produce un

olio extravergine da piante secolari di ulivi che si trovano nella Piana di Gioia Tauro, in provincia di Reggio

Calabria. Questa cooperativa nasce nel 2004, accomunando nel lavoro cooperativo idee, passioni e

competenze, spese per mettere a frutto i terreni agricoli confiscati alla 'ndrangheta in base alla legge 109

del 99 , otte uta g azie alla a olta fi e dell asso iazio e Libera contro le mafie.

Nel suo cammino, segnato da difficoltà ed ostacoli, la cooperativa ha trovato però il supporto di istituzioni,

enti ed associazioni, che aiutano la buona economia e la speranza in un territorio difficile. Sfidando le

ritorsioni della mafia, che in più di un'occasione hanno colpito mezzi agricoli e coltivazioni, la cooperativa

Valle del Marro è riuscita a segnare in pochi anni importanti traguardi nel settore agro-biologico.

Altra produzione proviene dai terreni della Cooperativa sociale Pietra di Scarto di Cerignola (FG), l'olio in

lattina proviene dalla Cooperativa Giovani in vita della Calabria, mentre l'olio bio monocultivar geracese è

frutto del lavoro della Cooperativa sociale Goel bio, nella Locride che si contrappone da anni alla

'ndrangheta e alle massonerie deviate con lo scopo di aggregare, tutelare e promuovere gli agricoltori

calabresi che si oppongono alla 'ndrangheta.

I prodotti si caratterizzano per essere tipici e biologici: per essi viene corrisposto un prezzo equo ai

produttori soci, in modo che possano consentire il più rigoroso rispetto dei diritti dei lavoratori e la più

radicale estraneità ai circuiti malavitosi.

L uso so iale dei e i o fis ati, la p oduzio e iologica, il riscatto del territorio e le opportunità di lavoro create soprattutto per i giovani so o aspetti he va o e olt e l eti hetta e il sapo e di p odotti o e uesti oli he di ost a o o e da situazio i iti he a he l Italia possa us i e ea do realtà

produttive competitive, capaci di alimentare circuiti di consumo critico e consapevole.

n. 2(165) – aprile 2015 il granello di senape pag. 41

Luogo: scuola Media di San Rocco Castagnaretta

Orario: 9 - 12 * 14.00 - 17.00 (possibilità di orario continuato 9 - 17.00)

Iscrizione: dal 08 al 19 giugno e dal 29 giugno al 03 luglio presso la

Cartolibreria “La Cascina”

Costo: € 100 (€ 160 per 2, € 200 per 3 o più fratelli)

Possibilità di iscrizione per singole settimane: € 40 (per 2 fratelli € 60, per 3 fratelli € 80) L’iscrizione comprende: assicurazione, materiale d’uso per i laboratori, ingressi in

piscina e trasporto in circolare urbana.

Non comprende: le gite ed i pasti.

Gite: un giorno alla settimana ci sarà una gita di una giornata intera, che

sarà pagata a parte.

Attività: laboratori, gite, piscina, grandi giochi...

Pranzo: consumato presso la Cascina (trasporto in pullman) € 5

N.B.: È obbligatorio iscriversi entro le date indicate sia per poter organizzare al meglio le attività, sia soprattutto per motivi assicurativi. L’assicurazione infatti è nominativa ed occorre fornire l’elenco dei partecipanti prima dell’inizio dell’attività. Le riunioni per i volontari saranno comunicate successivamente. Informarsi eventualmente in cascina nel mese di maggio.

n. 2(165) – aprile 2015 il granello di senape pag. 42

Domenica 14 Giugno

Ore 13.00 : Pranzo

Ore 15.00 : Animazione con i clown di Côni Vip

Ore 17.30 : Fragole e poi… a casa

Prenotarsi in cartoleria al numero 0171492441

entro giovedì 11 giugno

In occasione della denuncia dei redditi è nuovamente

possibile devolvere il 5 ‰ ad associazioni ed enti di volontariato o no profit.

Chi desidera destinarlo alla Cascina deve

semplicemente scrivere il nostro numero di Codice

Fiscale che è: 02289480044

Grazie a chi lo farà e a quelli che l’hanno fatto gli anni scorsi.

La Cooperativa Sociale “La Cascina” onlus, con sede a San Rocco Castagnaretta in via San Maurizio n. 72, gestisce un Centro Diurno con persone diversamente abili, cercando di valorizzarne al massimo le capacità offrendo loro la possibilità di lavorare (lavori agricoli - raccolta e divisione della carta da macero – gestione di un piccolo negozio di cartolibreria – laboratorio di ricamo e stampa articoli promozionali).

Un bel gruppo di volontari/e fornisce un prezioso aiuto, anche solo per qualche ora la settimana, e permette attività sempre più diversificate oltre ad una bellissima ed indispensabile integrazione sociale.

Noi ci impegniamo:

a rendere pubblico il contributo che arriverà

ad non utilizzarlo per l’ordinaria amministrazione del Centro (la gestione corrente de “La Cascina” deve funzionare con il proprio lavoro e con le convenzioni in essere con il C.S.A.C. ) ma per interventi di carattere straordinario o per creare nuove opportunità di lavoro e di inserimento.

Il 5 ‰ degli anni scorsi In tutti questi ultimi anni il Vostro contributo del 5 per mille (€ 66.002,00) è stato destinato alla costruzione di un capannone per il ricovero dei mezzi agricoli e della carta, costato € 96.211,91. La differenza è stata coperta con fondi della Cooperativa.

Quest' anno abbiamo deciso di effettuare alcuni lavori di manutenzione straordinaria e di risistemazione della struttura, che compie tredici anni.

L'intenzione è di sostituire parecchie piastrelle rotte nel capannone dove lavoriamo la carta e ricoveriamo

i mezzi, far costruire tre rampe di accesso al capannone stesso e due piccoli scivoli per eliminare la barriera architettonica di 2 cm. della soglia di accesso al Centro, sistemare alcune spaccature

o distacchi dell'intonaco esterno. Il contributo di quest' anno verrà destinato a queste opere di manutenzione straordinaria.

La Cascina

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Martedì pomeriggio verso le 14,30 abbiamo

iniziato una nuova attività di Yoga. Tutti i ragazzi

hanno partecipato alla attività, Alberto e Paolo

Caste non volendo partecipare sono rimasti ad

osservare. L’insegnante ci ha spiegato alcune posizioni di Yoga e delle tecniche di rilassamento.

A me è piaciuta tanto questa attività perché

somigliava molto allo Shiatsu e perché mi

rilassava molto. Questa attività continuerà per 5

volte e non vedo l’ora di rifarlo anche se a qualcuno non è piaciuto molto.

Enrico

Mercoledì 14 Gennaio siamo partiti a

piedi dalla Cascina percorrendo il parco

fluviale lato Stura fino all’Ipercoop. Di lì siamo scesi per una scalinata

arrivando al deposito dei treni.

Pensavamo di percorrere una certa

strada e sbucare al parco Monviso, come

avevamo già fatto un’altra volta, però ci siamo trovati una sorpresa: era stato

messo un cancello, che ci impediva di

proseguire e così siamo ritornati

indietro. Abbiamo incontrato una

signora, che ci ha detto: “Qui è privato; da dove siete passati? “ . Noi le abbiamo

risposto che eravamo scesi per una

scalinata, di cui lei non conosceva

nemmeno l’esistenza; così abbiamo ripreso il cammino per tornare indietro.

L’altra volta in cui avevamo fato lo stesso percorso non c’era il cancello che, a detta della signora, è stato messo il

primo gennaio di quest’anno. Fulvio

Tutti i mercoledì andiamo a Festiona, perché ci

aspettano i maestri di sci.

Partiamo verso le 9,30 o 10, quando arriviamo ci

prepariamo per andare sugli sci o sulle ciastre.

All’una si mangia il pranzo, poi alle 14,30 partiamo per tornare a casa. A me piace molto il

sole soprattutto perché mi abbronzo; chi non vuole

andare sulla neve va a fare una passeggiata. Io

preferisco camminare sulla neve con le ciastre,

anziché camminare come piace a Fulvio e Clara.

Spero di tornarci anche il prossimo mercoledì.

Enrico

n. 2(165) – aprile 2015 il granello di senape pag. 44

La mia mamma in ospedale

Giovedì 12 febbraio mia mamma è stata operata in ospedale e io sono stato molto preoccupato per lei, ma anche lei era preoccupata di lasciarmi da solo a casa. Per fortuna io ho due fratelli che non mi hanno lasciato da solo, mio fratello Luciano è arrivato da Londra il giorno prima dell’intervento ed è stato a casa con me che cosi non sono andato in Cascina e appena finita l’operazione sono andato subito a trovarla, ero un po’ triste perché mi sembrava un po’ sofferta ma lei mi ha tranquillizzato e mi ha detto che non aveva sentito dolore. Gli altri giorni è stato con me Ivan, mio fratello minore, che continua a venire tutte le sere perché mamma sta bene ma non è ancora in piena forma. Sandro

Mio nipote Lorenzo Mio nipote Lorenzo,figlio di mia sorella, fa le elementari ed è molto

bravo: gioca a calcio, gli piace guardare la televisione e ogni tanto ci

divertiamo a guardare i cartoni

assieme!!! Ci piace anche giocare a dama, adora

la pizza e le patatine!!! Spero che continui a crescere sempre

così bravo!! Gli voglio tanto bene !!!

Ciao Lorenzo !!!!

Zio Claudio

SOGNO LE VACANZE

ESTIVE…

VORREI TORNARE IN TOSCANA CON

TUTTI GLI AMICI DELLA CASCINA.

VORREI FARE IL BAGNO E

PRENDERE IL SOLE IN SPIAGGIA.

VORREI DORMIRE NEI BOUNGALOW

INSIEME A DAVIDE, IO, ENRICO,

LUCIANO PERCHE’ MI DIVERTO MOLTO INSIEME A LORO.

L’ANNO SCORSO MI SONO DIVERTITO MOLTISSIMO E

SOPRATTUTTO ABBIAMO MANGIATO

MOLTO BENE LI’. MI PIACEREBBE MANGIARE DI

NUOVO IL PESCE PER FARE FESTA!

MATTEO

Io quest’estate vorrei andare in un posto bello al mare per

fare il bagno e le passeggiate

sulla spiaggia.

Le vacanze al mare mi

rilassano molto ma finiscono

sempre troppo in fretta!!!!

Paolo O.