Il giro di basso di My Sharona

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di Marco Pasquini - Narrativa

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Marco Pasquini

IL GIRO DI BASSO DI MY SHARONA

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IL GIRO DI BASSO DI MY SHARONA Copyright © 2010 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2010 Marco Pasquini ISBN: 978-88-6307-311-9

In copertina: immagine di Elena Albergo

Finito di stampare nel mese di Settembre 2010 da Digital Print

Segrate – Milano

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1 «Dai fammi dare un sorso alla birra e un tiro alla canna!» urlava Marco avvicinandosi il più possibile all'orecchio di Luchino per poter andare con la voce sopra al ritmo elettronico dei Chemical Brothers sparato altissimo dagli altoparlanti anche lì a bordo pista. «Quando la finirai di scroccare? Guarda Marcello là in coda alla cas-sa...», gli rispose Luchino indicando un capanno di legno e paglia con luci colorate. Dentro c'erano un barman acrobata che faceva volteggiare bottiglie di superalcolici ed una biondina occhiazzurri che si sporgeva da dietro alla cassa per cercare di capire le ordinazioni dei ragazzi già piuttosto stonati a quell'ora. Marco e Luchino la vedevano sorridere ogni tanto, forse per le battute dei ragazzi che le chiedevano il numero di telefono o per quelle di coloro che la invitavano per un fine serata. Ma tutto questo non lo potevano certo sentire. Anche se erano a pochi metri di distanza i decibel delle casse coprivano ogni altro suono ed aiutavano ad amplificare la percezione delle sensazioni. Forse la bion-dina non sarebbe risultata così carina incontrandola il giorno seguente, appena alzati per preparare il prossimo esame universitario o per andare a lavorare in negozio a far provare a signore sovrappeso abiti di misure troppo grandi per non risultare offensive. Però in quel momento le luci, l'alcool & i decibel avvolgevano tutto e davano alla situazione un aspetto estasiante, almeno agli occhi entusia-sti di due ragazzi di vent'anni. «Dai, non fare l'asino. Lo sai benissimo che conosce la tipa del bar e va a scroccare una birra da lei.» Quello di Luchino non era un vero no alla richiesta dell'amico, era solo il suo modo di rispondere per fargli pesare quella birra e quella canna che gli stava passando. Marco mandò giù un sorso di birra, poi diede un tiro guardandosi intor-no. Sapeva che nessuno nel grande parco all'aperto gli avrebbe detto qualcosa per via dello spinello e poi tra i tavoli, le panche e i gazebo impagliati chissà quanti altri ragazzi stavano scaldando il fumo rom-pendo sigarette che poi sarebbero state ricostruite avvolgendo fumo & tabacco in cartine Rizla con il filtro fatto da un biglietto dell'autobus usato. Sapeva che qualcuno stava potenziando la dose di decibel & al-lucinazioni elettroniche con la chimica di qualche pastiglia. Sapeva an-che che qualcuno, per dimostrare di essere un gradino sopra agli altri,

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poteva farsi pure una riga di coca, magari in bagno, non lì tra i tavoli, non lì davanti a tutti. Ma non era per nessuno di questi motivi che Marco si guardava intorno. «Hai visto Daniele?» chiese a Luchino ripassandogli il bicchiere. «Prima era con una sbarba, mora piccolina, neanche troppo carina, ma era andato. Non so quante birre si fosse già bevuto!» «Dai non penserai adesso che Daniele non riesca a reggere qualche bir-ra? Allora all'Oktoberfest cosa ci andiamo a fare? A mangiare i wur-stel?» i due ragazzi risero, ma poi Marco si mise alla ricerca di Daniele. Erano le tre e ormai era ora di andare. Magari non a casa, ma era tempo di muoversi da lì. C'erano rimaste poche persone, quasi tutti troppo fat-te. Si rischiava solo di litigare per un motivo banale come una spinta sulla pista e le ragazze che erano ancora lì erano già tutte abbracciate a qualcuno, con le lingue attorcigliate e le mani alla ricerca del piacere. Marco girò tra i tavoli con un'aria un po' stonata e un po' stanca. Aveva una espressione poco rassicurante e dopo qualche occhiata di sfida ri-cevuta dai ragazzi che pensavano che stesse puntando la loro donna o le borsette, decise che lo avrebbe atteso in una zona più illuminata. Dopo un po' di chiacchiere sulle ultime uscite discografiche e le mode di Londra con un disk jockey che aveva lasciato la consolle ad un altro, dopo un giro di acqua naturale per smaltire un po' di alcol con una pi-sciata prima di mettersi al volante e dopo un'altra chiacchierata con uno dei gestori del locale, nella speranza di scroccare una bevuta, Marco radunò Luchino e Marcello per andare a cercare Daniele. Cazzo, erano le quattro e ormai erano andati tutti via e se la morettina non gliel'aveva ancora data, il tempo a disposizione era scaduto. Dato che non si era fatto ancora vivo si sarebbe arrangiato andando a casa con lei! La musica era ormai solo un sottofondo per le ultime coppiette, i molto scoppiati e i camerieri che cercavano di dare una parvenza d'ordine al macello che ogni sera lasciava quell'orda di barbari. In una zona appar-tata dietro agli alberi, nella quale venivano portati i sacchi neri dei rifiu-ti, si creò un po' di movimento, con un viavai di persone piuttosto con-citate. Marcello pensò che probabilmente avevano trovato Daniele che scopa-va con la morettina, ma poi, raccogliendo un po' di lucidità, si rese con-to che i gesti delle mani portate alla testa esprimevano inequivocabil-mente altre sensazioni. Qualcuno era stato male? Proprio Daniele? Tutti e tre gli amici pensarono che se era lui, allora era il caso di andare a recuperarlo e di aiutarlo a smaltire la cassa...

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2 L'ispettore Gandolfi era seduto davanti ad un piatto di spaghetti al po-modoro e niente più. Quella mattina si era dovuto allacciare la cintura facendo passare la fibbia nel buco precedente rispetto a quello solito. Il segno che era rimasto sulla striscia di pelle nera che gli serviva a soste-nere i pantaloni gli fece pensare che la buona cucina del capoluogo emiliano doveva essere apprezzata con moderazione da un uomo di quarantacinque anni, se non voleva rischiare di non riuscire più a entra-re neppure dentro ad una taglia cinquanta. Seduto nella trattoria in cui andava a pranzo quando voleva rimanere da solo a pensare al suo lavo-ro, invece dei soliti tortellini in brodo o con la panna, invece delle lasa-gne, invece della cotoletta alla bolognese, aveva ordinato spaghetti al pomodoro. E quando poi, per secondo chiese solo un'insalata il came-riere quasi non credette alle proprie orecchie. L'ispettore Gandolfi ave-va spiegato in passato, proprio a lui, che fare la scarpetta nel ragù rima-sto nel piatto dopo aver mangiato le tagliatelle, lo aiutava a pensare, quindi quando se lo vide riconsegnare con ancora abbondante sugo di pomodoro sul fondo, si trattenne a stento dal chiedere se qualcosa non andava. Non lo fece solo perchè si accorse che il poliziotto seguiva con molta attenzione le notizie trasmesse dal telegiornale regionale della rete nazionale. "Questa notte verso le ore quattro è stato rinvenuto nel parco di Villa dei Mandorli, dove aveva trascorso la serata con gli amici, il corpo ormai senza vita di Daniele Massari, studente universitario di ventuno anni, residente a Bologna. Il malore ed il conseguente decesso è stato dovuto a collasso cardiocircolatorio, quasi sicuramente dovuto ad un eccesso di uso di droghe che il ragazzo avrebbe assunto durante la se-rata, anche se gli amici che erano con lui affermano che avrebbe bevu-to solo qualche birra e a loro non risulta che facesse uso di stupefacen-ti. Il locale è stato posto sotto sequestro dagli uomini del commissaria-to che stanno svolgendo le indagini. Si attende l'esito dell'autopsia che dovrà confermare se la prima versione dei fatti sia quella ipotizzata dagli inquirenti" L'ispettore Gandolfi abbassò lo sguardo sulla terrina di insalata mista che aveva sostituito il piatto degli spaghetti. La condì con olio, sale,

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pepe e un sospiro, mescolò un poco, poi ne portò alla bocca una for-chettata. Sentì il sapore dolciastro del mais sotto i denti e si ricordò di quando prendeva in giro un collega vegetariano dicendogli che quella roba andava bene per andare a pescare. Nel frattempo era terminato il servizio del telegiornale che aveva riassunto il motivo per cui in quella domenica di settembre si trovava dalle parti della questura invece che al mare a sfruttare quello che probabilmente sarebbe stato l'ultimo fine settimana utile della stagione. Erano circa le tre del pomeriggio di domenica undici settembre, quando rientrò in questura per sentire i ragazzi che avevano trascorso la serata con Daniele Massari. Mentre entrava in ufficio li vide che lo stavano aspettando per essere ascoltati. Giusto il tempo per andare a casa, una doccia e qualche ora di sonno, poi si erano dovuti preparare per rispon-dere a quella richiesta di presentarsi per essere sentiti che avevano rice-vuto al momento dell'arrivo dell'ispettore al Parco di Villa dei Mandor-li. Erano considerate persone informate dei fatti, questa era la formula tecnica con cui era stato loro richiesto di essere presenti in questura quel pomeriggio, presumibilmente per spiegare la loro versione di quanto accaduto, per raccontare all'ispettore Gandolfi che cosa fosse successo al loro amico. L'ispettore scorse velocemente gli appunti raccolti la notte precedente, quando i tre ragazzi erano stati identificati insieme agli altri presenti al momento del ritrovamento del corpo per poter poi essere ricontattati. Marco Marabini, anni venti, studente universitario, Luca Morotti anni ventidue operaio, Marcello Zolli anni venti, impiegato. Decise che li avrebbe sentiti tutti e tre insieme. Forse il codice di procedura penale non prevedeva una soluzione di questo tipo, ma voleva evitare di dar loro l'impressione di essere accusati di qualcosa e anche di aggiungere disagio e rancore nei confronti della polizia, viste le condizioni psicolo-giche in cui si dovevano trovare. E per chiudere la questione il prima possibile. Per il mare era tardi, ma magari era ancora in tempo per andare in piscina. I tre ragazzi vennero fatti accomodare davanti alla scrivania a cui sede-va l’ispettore, su tre sedie che un poliziotto aveva sistemato prima di mettersi dietro al computer a scrivere il verbale di quell'interrogatorio. Furono salutati con una delle solite frasi di circostanza che da anni or-mai usava in casi come questo: «Ragazzi scusate per il disturbo, volevo rinnovarvi le condoglianze da parte mia, sia quelle personali che come rappresentante del corpo di polizia e vi ringrazio per essere stati così cortesi e disponibili ad accet-

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tare di venire qui subito a parlare di quello che è successo la notte scor-sa.» Alle parole del poliziotto i ragazzi non palesarono, almeno esternamen-te nessuna reazione. Gandolfi pensò che forse erano stanchi o forse an-cora sconvolti per l'accaduto e sembravano avere lo sguardo un po' per-so. «Chi mi vuole raccontare cosa è accaduto ieri sera?» chiese il poliziot-to. I tre si guardarono in faccia, poi Marco prese la parola. «Non lo sappiamo. Abbiamo visto Daniele ad inizio serata, saranno state più meno le undici, undici e mezza. Abbiamo bevuto una birra insieme e chiacchierato un po', poi si è messo a parlare con una ragaz-za...» Raccontò del resto della serata, almeno per quanto ne sapevano lui e gli altri due amici. Dal momento in cui si era allontanato con la ragazza, non lo avevano più visto e pensavano se la stessero spassando. «La ragazza la conoscevate? Potreste descriverla?» Marcello rispose che l'avevano vista in quel posto altre volte, ma che non le avevano mai parlato. Al massimo l'avevano salutata come si fa con gli abituali frequentatori che si conoscono un po' tutti di vista. «Ragazzi capisco la situazione ed il vostro dolore, ma io questa doman-da ve la devo fare...» L'ispettore Gandolfi lasciò queste parole in sospeso, ancora una volta per sondare le reazioni dei ragazzi ed ancora una volta non ne riscontrò sui loro volti. «Il vostro amico faceva uso di droghe?» «Cosa vuol dire, se ha preso qualcosa ieri sera?» chiese nervosamente Luchino. «Se pensa che Daniele fosse un tossico, si sbaglia di grosso» aggiunse alzando la voce «lui non si faceva neanche uno spinello!» un attimo dopo aver pronunciato quelle parole il viso del ragazzo divenne improvvisamente rosso. Si rendeva conto che la frase, per come gli era uscita, lasciava facilmente intuire che invece gli altri componenti del gruppo gli spinelli se li facevano. Gandolfi colse sia la reazione emotiva che la sfumatura del discorso che aveva fatto il ragazzo, ma non era una questione importante in quel momento. Quello che gli interessava scoprire era se Daniele Massari avesse assunto droghe quella sera. «Non ti preoccupare» disse l'ispettore rivolgendosi a Luchino «non vo-levo accusare nessuno e poi semmai il tuo amico sarebbe la vittima, non certo il colpevole, in questa situazione. Comunque se ha fatto uso di droghe o meno lo scopriremo con l'autopsia. Per quello che mi riguarda

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credo alle vostre parole e alla vostra ricostruzione dei fatti. Ora potete andare ragazzi, avete bisogno di riposo e di stare un po' tranquilli dopo quello che è successo stanotte.» Il poliziotto in divisa che stava dietro al computer si alzò, aprì la porta ai ragazzi e salutò cortesemente richiudendo la porta alle loro spalle. «Stampa il verbale che voglio firmarlo prima di andare» gli disse l'i-spettore. Poi, guardando l'orologio, pensò che in fondo era ancora in tempo per andare in piscina.

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3 Marco guardava il soffitto della sua camera dal punto di osservazione del suo letto. Era come osservare uno schermo cinematografico su cui veniva proiettato il film della sua adolescenza. C'erano le partite di pal-lone, con Daniele in porta e Luchino a dribblare tutti i difensori, c'era un tentativo di suonare con la chitarra Starway to heaven insieme a Da-niele per far colpo su Michela, c'era una vacanza in Grecia insieme a Marcello, Luchino e Daniele da cui erano appena tornati, la loro ultima vacanza insieme. Aveva raccolto tutte le fotografie che aveva trovato in cui era con l'a-mico scomparso e le aveva sparse sul letto per cercare di far passare il nodo alla gola che gli impediva di parlare con chiunque, ma era risulta-to tutto inutile. Anzi forse la situazione era peggiorata. Ne aveva trovate alcune che non ricordava nemmeno di avere. Gli avevano fatto tornare alla memoria i momenti felici con gli amici, ma allo stesso tempo si era reso conto che li avrebbe potuti avere ancora con Luchino, con Marcel-lo, ma non più con Daniele. E questo pensiero lo rattristava profondamente e lo faceva sentire impo-tente. Non riusciva a togliersi dalla testa il pensiero che probabilmente sarebbe bastato poco per salvare la vita all'amico. Non riusciva più a rimanere in quella camera, le immagini dei momenti trascorsi con il suo amico Daniele prendevano vita sulle pareti appena vi fissava lo sguardo e nemmeno chiudere gli occhi lo aiutava a cancel-larle del tutto. Continuavano a ricomporsi scene di partite di calcio, di corse in macchina o in Vespa, di serate in discoteca. Doveva uscire, provare a fare qualcosa, distrarsi, passeggiare se non voleva impazzire, se non voleva cominciare a piangere. Non telefonò nemmeno a Luchino e Marcello, tanto probabilmente stavano proprio come lui e a piedi prese verso il centro. Erano circa le sette. Non ci fu bisogno di spiegare niente ai suoi genito-ri. Infilò le mani in tasca, incassò la testa tra le spalle e si avviò lungo una strada che lo avrebbe portato fin sotto alle due torri, con l'ultimo sole della giornata che rendeva quasi biondi i corti capelli castani e gli illuminava gli occhi verdi. Ora che camminava si sentiva un po' meglio. Tutti i fastidi del traffico evitavano che le immagini tristi si prendessero forma e si animassero. Decise di andare avanti anche quando dalla periferia si trovò davanti

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allo stadio di calcio, nel quale andava, anche con Daniele, a veder gio-care il Bologna. Decise di andare avanti anche quando arrivò in via An-drea Costa, buttando uno sguardo all'interno della pasticceria nella qua-le ogni tanto, di notte, si fermava anche con Daniele, al ritorno da una serata passata a vagabondare per locali. Si rese conto che ovunque an-dasse, quella città, la sua città, gli rivelava degli scorci della sua vita con gli amici. Tra cui Daniele. A Porta Sant'Isaia il sole era ormai tramontato e mandava una luce ros-so sangue da dietro i palazzi che abbracciavano la piazza. Si sentiva un nodo alla gola che lo avrebbe fatto piangere da un mo-mento all'altro. Bevendoci sopra qualcosa l'avrebbe sciolto. Nemmeno arrivare in via del Pratello gli servì più di tanto, perchè an-che quella era una delle mete del suo girovagare con Daniele e gli altri amici, ma, come un animale ferito l'istinto lo portava lì. Entrò da Sante e si fece dare una birra. Alzandola brindò idealmente a Daniele. «Ciao vecchio, sei veramente a pezzi, che cosa ti è successo?» Sapeva che prima o poi sarebbe successo e anche se non si sentiva pronto a parlare con qualcuno, fu obbligato a voltarsi verso la persona che gli aveva rivolto la parola. Provò a parlare, ma prima ancora di riuscirci una lacrima gli era già scesa e gli rigava la guancia. Era Mauro, uno che una quindicina di anni prima era stato un ragazzo come lui e che aveva conosciuto mesi addietro ad un corso di teatro. Era molto più grande di lui, ma erano entrati in sintonia parlando di politica, anche se non si poteva dire che fossero diventati proprio amici. Si salutavano quando si incontravano allo stadio e scambiavano quattro parole sulle attività del teatro, ma nulla di più. Se aveva pronunciato quelle parole voleva dire solo una cosa: si vedeva davvero che era a pezzi. «Dai vieni a sedere e racconta cosa ti è successo.» gli disse Mauro. Marco non ne aveva nessuna voglia, ma seguì quell'invito meccanica-mente come se, al momento, non fosse in grado di controllare la propria volontà. Ci volle circa metà della birra che aveva davanti per trovare la forza di cominciare a raccontare ed un'altra, che Mauro si fece portare da Sante con un urlo, per completare la storia. «Brutta storia...» fu l'unico commento che fu in grado di fare di Mauro, poi dopo aver mandato giù anche lui la seconda birra e prima di ordi-narne una terza, aggiunse: «Se hai bisogno di una mano...» quindi gli allungò un biglietto da visita che diceva: Mauro Caldiroli, avvocato.

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4 Alle nove del mattino una macchina della polizia con l'agente Minardi seduto al posto di guida, attendeva l'ispettore sotto l'ufficio. Se l'era presa comoda. Aveva fatto colazione in pasticceria e poi era passato alla lettura dei giornali sportivi, particolarmente interessanti il lunedì mattina. Era stato o no per buona parte della domenica a lavorare in ufficio e prima ancora ad eseguire i rilievi mattutini dopo il ritrovamento del cadavere? E allora quell'inizio di giornata tranquillo se lo meritava. Il procuratore però non era stato della stessa opinione. Si era fatto senti-re e aveva preteso che l'indagine fosse avviata e chiusa nel più breve tempo possibile: «L'amministrazione della giustizia di questa città deve mostrare una svolta rispetto a quanto è accaduto in passato!» Ordini tassativi erano già stati trasmessi ai suoi uomini e lui stesso era stato invitato a dare l'esempio, con una telefonata dai toni che non am-mettevano nessuna discussione e nessuna scusa. L'auto si diresse verso la periferia est della città, poi ancora più avanti lasciandosi alle spalle cartelli che indicavano la direzione “Rimini” e oltre ancora fino a raggiungere il parco di Villa dei Mandorli, che si trovava a ridosso dell'abitato di San Lazzaro di Savena. L'area era ancora recintata con una fettuccia bianca e rossa su cui erano appesi fogli con il timbro della questura. Una macchina della polizia era stata lasciata di guardia sul vialetto di accesso. L'agente Minardi rallen-tò quanto serviva per farsi riconoscere e salutare i colleghi poi riprese verso la costruzione che stava alla fine del viale alberato, circondata da gazebo impagliati, dalla consolle del disk jockey, dalla pista da ballo e da un paio di capanni prefabbricati all’interno dei quali erano allestiti i bar. I due poliziotti scesero dall'auto e si aggirarono per il parco. Era la prima volta che lo vedevano alla luce del giorno ed indubbia-mente aveva molto meno fascino rispetto a quando lo avevano visto di notte, tra sabato e domenica, illuminato dalle luci colorate. Qua e là tra l'erba spuntavano mozziconi di sigaretta che avevano il fil-tro fatto a mano. Gandolfi sapeva bene che cosa voleva dire, ma fece finta di non vederli. Non era credibile che fosse quella la ragione del

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decesso del ragazzo, anche se sarebbe piaciuto sia al procuratore che a una certa parte della stampa cittadina. E comunque l'autopsia avrebbe fugato ogni dubbio. Non c'era proprio nessuno in giro. L'ispettore fece un giro più largo di quello che aveva fatto la notte del ritrovamento del corpo. Ispezionò anche le zone che non aveva controllato perchè non illuminate dalle luci artificiali. Anche alla luce del giorno non riusciva a trovare nulla di interessante per le indagini. Qualche preservativo usato gli strappò un sorriso, forse fuori luogo, ma gli fece tornare in mente qualcosa successo molti anni prima. Nemmeno dietro al bar trovò qualcosa che attirasse la sua attenzione. Qualche fusto di birra e diverse bottiglie di superalcolici. Entrando nell'edificio trovarono un altro bar e un piccolo magazzino di bibite, fusti di birra e superalcolici. Niente di più. Tornò all'esterno e si portò nella zona in cui il corpo era stato ritrovato. Nei pressi non c'era nem-meno un mozzicone di quelle sigarette con il filtro fatto a mano che aveva visto tra i tavoli. Era già passata la scientifica a rilevare quanto potesse essere utile alle indagini e non si aspettava di trovare nulla d'al-tro. Rimase per qualche istante ad osservare la zona del ritrovamento del corpo: un pioppo era stato probabilmente l'unico testimone di quella tragedia, ma non poteva essere certo interrogato. E se anche avesse po-tuto rispondere, che cosa avrebbe detto? Si poteva ipotizzare che il ragazzo fosse arrivato in quella zona un po' stordito dalla birra e che improvvisamente avesse avuto un malore. Il rapporto della scientifica non aveva riscontrato nei pressi della zona del ritrovamento siringhe, pastiglie, fiale, un cucchiaino o qualche altra cosa che potesse far pensare ad una overdose. Ma che cosa poteva esse-re stato se non un eccesso di alcol e droga? Di più. Era stata passata al setaccio tutta la zona. Si erano stancati di raccogliere mozziconi di spinelli. E poi per farne che cosa? Il test del DNA su tutti quanti per vedere se uno di questi era stato fumato dal ragazzo? Nessuno era stato ritrovato lì vicino al corpo. «E poi, francamente» pensava Gandolfi «se anche avessimo trovato qualche mozzicone di spinello, ci faremmo ridere dietro sostenendo che sia questo il motivo della sua morte.» Speriamo che dall'autopsia emerga qualche cosa...

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5 Mauro Caldiroli aveva uno studio in zona Tribunale, se così si potevano chiamare quelle tre stanze più bagno che divideva con due neo avvocati come lui, con i quali aveva in comune solo l'affitto, le bollette e la targa sulla porta. Gli piaceva pensare di avere tutto a portata di mano. L'uffi-cio vicino a dove svolgeva l'altra parte della sua attività. Così finiva per aggirarsi sempre per i corridoi, le cancellerie e le aule delle udienze, anche quando non ne aveva bisogno, per poi ritrovarsi alle nove di sera con una gran confusione in testa e sulla scrivania, che cercava di man-dare via con una birra al Pratello. La sua vita era diventata così da cinque anni a questa parte, da quando, laureato, messosi alle spalle il praticantato e l'esame di stato, aveva as-sunto quel ruolo di rilievo nella società a cui non avrebbe mai pensato di riuscire ad arrivare. In particolar modo quando attraversava uno dei suoi periodi di calo di vocazione, in cui faceva tutto tranne che studiare. Mauro Caldiroli era stato attore di teatro, comparsa in un paio di film, musicista, calciatore e ultras del Bologna e adesso sconclusionato pro-fessionista, avvocato di un mezzo armadio di cause già perse in parten-za, difensore di clienti che non sapeva se e come gli avrebbero pagato una parcella, che già era più bassa di quelle che chiedevano i suoi col-leghi, anche di quelli con cui divideva l'ufficio. In questi cinque anni aveva dimenticato cosa fosse un rapporto serio con una donna, di quelli che ti danno una prospettiva per il futuro. Per lui il futuro era scandito dal calendario delle udienze, dalle telefonate dei clienti che rompevano le scatole in modo inversamente proporzionale a quanto erano solerti nel pagarlo, dalle pratiche da evadere che erano sempre di più di quelle evase, perchè gli riusciva proprio difficile dire di no, specie quando il cliente si presentava con un fardello di sfighe. Non era strano, entrando nello studio, trovarlo sprofondato nella poltro-na da lavoro, con il posacenere poco lontano dalle pratiche e dal com-puter e una nuvola di fumo di sigaretta che lo circondava e che sembra-va provenire dal cervello piuttosto che dal naso o dalla bocca. Erano le sette e mezza di sera, quindi relativamente presto, quando suo-narono alla porta dello studio. Strano, non aspettava nessuno. Nessuno lo aveva chiamato sullo strumento che sostituiva egregiamente una se-

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gretaria, più per lo stipendio risparmiato che per la presenza e nemme-no si ricordava di aver fissato appuntamenti. A quell'ora però c'era solo lui e così andò ad aprire la porta. Si trovò di fronte a tre se stesso di una quindicina d'anni prima. Indos-savano quei jeans che aveva indossato lui, quelle stesse magliette con-sumate, quelle stesse felpe messe per troppi giorni e scarpe che sem-bravano avere la necessità di andare in pensione. Dei tre riconobbe Marco. L'aveva incontrato tre sere prima all'osteria di Sante. Avevano bevuto qualche birra insieme e poi gli aveva raccontato la storia che successivamente aveva anche letto sul giornale. Mauro aveva la sigaretta in bocca, la camicia fuori dai jeans ed una an-datura molto poco professionale, mentre si grattava la schiena dicendo: «Entrate ragazzi» pensando che stava per arrivargli addosso un altro casino.

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6 L'ispettore Gandolfi camminava con le mani infilate nelle tasche di una giacca beige pensando a quanto avrebbe voluto essere una donna, in giornate come quella, tanto calde da far appiccicare la camicia alla schiena. Invece dei bermuda e delle ciabatte che avrebbe indossato vo-lentieri, quel venerdì mattina era dovuto uscire in giacca e cravatta per andare a trovare il dottor Cavicchi, che, come gli avevano comunicato prima ancora di uscire di casa, aveva già pronta la relazione sull’autopsia eseguita sul corpo di Daniele Massari. «Come sarebbe a dire già pronta? Ti sembra che ci sia voluta una setti-mana di lavoro?» esordì l'ispettore quando si trovò di fronte al buffo ometto con i baffi grigi e ciuffi di capelli da clown dello stesso colore che gli stava parlando da dietro una scrivania alla Medicina Legale. «Innanzi tutto non è colpa mia se subito prima di quel ragazzo mi han-no portato un marocchino che era ridotto in modo che non ti dico e poi anche due ventenni che hanno avuto un incidente in moto, che ti assicu-ro non erano un bello spettacolo... e poi ci sono delle sorprese...» Il viso del dottor Cavicchi si era illuminato come quello di un appassio-nato di enigmistica che ha scoperto la chiave di un rebus di difficile soluzione. «Ti sei messo a fare gli indovinelli?» rispose irritato l'ispettore Gandol-fi. Il dottore tornò ad assumere un’aria professionale, smettendo di gesti-colare in modo un po' convulso e riprendendo a parlare in modo pacato, anche se si vedeva che faticava a trattenersi: «Vuoi che te lo spieghi in maniera scientifica o che usi parole compren-sibili anche ad un poliziotto?» era la sua piccola vendetta. «Ok, lo sai che ti stimo come medico, ma l’ultima cosa che vorrei, in un caso così semplice, è che saltassero fuori delle complicazioni. Il ragaz-zo, aveva assunto droghe vero?» Gli occhi del dottor Cavicchi cominciarono a muoversi come le palle di un flipper e anche le mani erano ora tra i capelli, arruffandoli, se possi-bile, ancora di più, ora in tasca, poi sul mento, in un movimento conti-nuo piuttosto nevrotico. «Sul referto dell’autopsia dovrò scrivere che è morto per soffocamento» disse il medico con l’aria di chi sta svelando un mistero.

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«E allora?» chiese l'ispettore che non capiva dove andasse a parare il discorso del dottore. «Be' vedi, il ragazzo è morto per soffocamento a causa di un rigonfia-mento delle vie respiratorie interne. È come se avesse subito uno shock anafilattico. Come se un calabrone lo avesse punto sulla lingua...» «Ma non c’è nessun segno di puntura di insetto, giusto?» concluse il poliziotto. «Lo so a cosa stai pensando. Non risulta che avesse allergie particolari, almeno non tali da motivare una reazione del genere, così rapida e non ci sono droghe che abbiano effetti di questo genere. – poi prendendo fuori un tabulato aggiunse – comunque abbiamo fatto una serie di prove tossicologiche. Marijuana, cocaina, eroina ed altri oppiacei, anfetamina, ecstasy e qualche altra droga sintetica, ma niente, tutto negativo. Nello stomaco abbiamo trovato solo birra.» «E l’avete fatta analizzare?» «Sì – poi con un sospiro ed un'alzata di spalle, aggiunse – è birra...» Gandolfi passò mentalmente al setaccio tutte le possibilità che aveva per uscire da quella situazione, poi chiese: «Quanto tempo abbiamo prima di rendere pubblico il rapporto?» «Non molto. La famiglia vuole il corpo per fare il funerale, poveretti, e non ci sono motivi per tenerlo qui. Potrei darti un altro giorno, al mas-simo...» L'ispettore ragionò velocemente. Non era quella la via da seguire, non sarebbe servito ritardare il momento in cui il rapporto dell’autopsia sa-rebbe stato reso pubblico. Se le cose stavano come diceva il dottor Ca-vicchi, bisognava andare a cercare i motivi di quella morte da qualche altra parte, così disse: «Non importa. Lunedì puoi dire alla famiglia che possono fare il fune-rale.»

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7 Nelle ultime luci di un tardo pomeriggio che stava lentamente diven-tando sera, il sole salutava ormai da dietro le colline che separano l'E-milia dalla Toscana. L'ispettore di polizia Gandolfi spense il motore della sua auto quando arrivò nel parcheggio del Parco di Villa dei Man-dorli. C'era già stato qualche giorno prima e non vi aveva trovato nessuno. L'area era stata dissequestrata, ma ancora non era stata concessa la ria-pertura del locale, però il gestore stava predisponendo tutto per l'immi-nente evento. Aveva pensato che sarebbe potuto essere utile fare quattro chiacchiere con lui. Scorrendo il taccuino degli appunti aveva trovato tra i nominativi di coloro che aveva sommariamente interrogato, quello di Osvaldo Bo, legale rappresentante della società che aveva inventato quel divertimentificio e anche quelli di qualche altro barista che era al lavoro la sera della morte di Daniele Massari. Aveva trascritto in modo distratto i nomi e le loro risposte, ma senza ritenerle particolarmente importanti, convinto com'era che l'autopsia gli avrebbe tolto le castagne dal fuoco. Invece l'autopsia non aveva tolto un bel niente e ora le casta-gne bruciacchiate se le ritrovava lì in mano che scottavano. "La polizia brancola nel buio" avrebbero scritto negli anni sessanta, ma i tempi erano cambiati, la stampa veramente libera non esisteva più e questo evitava figure di merda in situazioni del genere. Uscivano artico-li edulcorati in cui si esaltavano le capacità della scientifica nel trovare gli indizi più nascosti, utilizzando preparati quasi magici che facevano risplendere tracce di sangue infinitesimali come se fossero pepite d'oro, ma questo non toglieva che non erano stati in grado di spiegare che co-sa aveva ucciso Daniele Massari. Ora che sapeva come era morto, era necessario scoprire che cosa l'aves-se ucciso e magari anche in che modo. E se per questa morte ci fossero dei colpevoli. L'ispettore Gandolfi estrasse dalla tasca il distintivo di polizia e chiese dove poteva trovare il signor Osvaldo a un gruppo di ragazzi, che stava caricando su un camion fusti di birra e di bibite, casse di alcolici e bot-tiglie di vino. Gli risposero di girare intorno alla costruzione. Probabilmente lo avreb-be trovato con una persona, ma che poteva essere tranquillamente di-sturbato.

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Gandolfi seguì le indicazioni e percorse il parco nella direzione che gli era stata indicata. Si ricordava il signor Bo. Un ometto rotondo con po-chi capelli ricci e uno sguardo perso come se fosse sotto l'effetto di uno spinello. La prima volta che lo aveva visto, si era dapprima fatto questa idea, ma poi aveva attribuito la parlata strascicata e gli occhi gonfi e rossi alla nottataccia. Ora però che lo ritrovava con la stessa espressione anche a metà pome-riggio, pensò che fosse qualcosa di più di una impressione. Stava in piedi in mezzo ad un prato. Sull'erba e sulla terra bagnata vi erano i segni dei pneumatici, ad indicare che nelle serate più affollate veniva utilizzato come parcheggio. Stava parlando con un uomo piutto-sto alto che indossava jeans col culo un po' basso e la camicia fuori dai pantaloni, in bocca una sigaretta e in mano un taccuino per appunti. Sicuramente un giornalista, si disse l'ispettore. «Signor Bo, buona sera» disse Gandolfi avvicinandosi con la mano tesa come per stringere quella di Osvaldo. «Buonasera» rispose l'ometto salutando da lontano con un'alzata di ma-no, fingendo di non aver capito le intenzioni del poliziotto. La mano tesa non andò comunque sprecata. Venne intercettata dall'altro uomo, che la strinse con vigore, salutando a sua volta: «Buona sera ispettore Gandolfi, sono l'avvocato Caldiroli» poi, dopo avere dato l'ultimo tiro alla sigaretta e aver gettato in una piccola pozza la cicca, aggiunse «sono il legale dei tre ragazzi amici di Daniele Mas-sari.» L'ispettore Gandolfi squadrò l'avvocato dimenticandosi per un attimo il reale motivo per cui era venuto fin lì. Sembrava seccato per il fatto che qualcuno l'avesse preceduto, ne faceva più una questione personale che professionale. Solo più tardi, risalendo in macchina, si sarebbe chiesto come mai quei tre ragazzi si erano affidati ad un avvocato, dandosi una botta in testa per il disappunto di non averci pensato prima. Ma in quel momento no, non gli venne in mente nulla del genere. La lucidità del freddo poliziotto che analizza tutti gli elementi, venne sosti-tuita dal rancore nei confronti di quell'uomo alto e un po' sgraziato che lo aveva anticipato nelle indagini e che per ripicca avrebbe volentieri multato, magari perchè stava fumando in un locale pubblico. Peccato solo che il locale fosse all'aperto. «Signor Bo» disse Gandolfi parlando col gestore, ma con lo sguardo rivolto all'avvocato «avrei bisogno di farle qualche domanda...» Nella sua mente quel lasciare la frase in sospeso avrebbe dovuto far capire ad Osvaldo che il poliziotto riteneva che quel colloquio sarebbe

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dovuto svolgersi in assenza dell'ingombrante figura di Caldiroli, ma sembrava non fosse riuscito a far intuire le proprie intenzioni, perchè gli rispose: «Sì, dica pure.» Gandolfi riprese spazientito alzando un po' la voce: «Se non le dispiace le vorrei parlare da solo o devo pensare che l'avvo-cato qui presente sia anche il suo legale?» Osvaldo non aveva mai avuto un buon rapporto con la polizia, ma non era nè un delinquente, nè uno spacciatore nè tanto meno un teppista. Era solo un gestore di locali pubblici e legale rappresentante di una co-operativa. Sulla polizia aveva le sue idee, ma aveva imparato a non e-sternarle. Aveva scoperto che era più semplice dar loro ragione, magari farli entrare e farli bere a scrocco, piuttosto che irrigidirsi nei loro con-fronti. «No, mi scusi, l'avvocato è arrivato prima, non sapevo che anche lei, se avessi saputo, allora avrei provveduto...» Caldiroli andò a recuperare la borsa di pelle che aveva lasciato poco lontano su una sedia, tornò a salutare Osvaldo e rivolto all'ispettore dis-se: «Non si preoccupi, io tolgo il disturbo. E poi non si affanni troppo che il signor Osvaldo non le può dare una grossa mano. Glielo chieda, dirà anche a lei che aveva bevuto e fumato un po' troppo» pronunciando queste parole strizzò l'occhio «e che se ne stava da qualche parte qui dietro a dormire su di una seggiolina. Glielo dica che poi quando ha sentito il trambusto si è svegliato con un gran mal di schiena perchè aveva dormito per due ore in una posizione strana, al freddo e all'umidi-tà. Secondo me qui c'è qualcosa che non quadra, ma ancora non ho ca-pito cosa sia, intanto lunedì chiederò di acquisire i risultati dell'autopsi-a, così ne saprò quanto lei. Per il momento tutto quello che posso limi-tarmi a dire è che un paio di birre e al più uno spinello non possono a-ver ucciso Daniele Massari. Lo chieda, lo chieda anche lei a quel ragaz-zo laggiù. Lo vede quello che carica le casse di vino sul furgone? Glielo chieda come ho fatto io, scoprirà che si ricorda una per una le cinque birre che Daniele ha bevuto quella sera, perchè la morettina.... va be', glielo chieda lei, non può sbagliare è quello laggiù con i capelli rasta, si chiama Riccardo, Rock per gli amici, ma quando saprà che è un poli-ziotto si farà chiamare Riccardo da lei. Io adesso devo andare, la saluto Ispettore e buon lavoro.»

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8 Una macchina si fermò inchiodando a mezzo metro da un uomo. Il conducente aprì lo sportello e scese urlando: «Avvocato Caldiroli, devo arrestarla per intralcio alle indagini? Lo sa-peva benissimo che la morettina con cui tutti hanno visto Daniele Mas-sari la sera della sua morte si chiama Silvia e guarda caso è la sorella di Rock e sempre guarda caso abita in via Aglebert qui alla Bolognina, dove per caso lei è venuto non appena si è allontanato dal Parco di Villa dei Mandorli!» L'ispettore Gandolfi trattenne a fatica l'istinto di prendere l'avvocato per la camicia e sbatterlo contro al muro per vomitargli a muso duro quello che gli stava dicendo. Alle fine decise di non farlo e gli aveva parlato da quel metro di distanza di sicurezza, puntandogli contro un dito inti-midatore. Almeno nelle sue intenzioni. Non aveva seguito l'istinto un po' per la mole dell'avvocato, che co-munque aveva un bel quindici centimetri di altezza e venti chili di peso più di lui, e un po' perchè la notizia di un poliziotto che aggredisce un avvocato non riusciva mica ad essere imbavagliata. Un avvocato, caz-zo, mica un magrebino qualsiasi, uno di quelli che ogni tanto arrivano in questura con un occhio gonfio perchè sono caduti cercando di scap-pare e hanno sbattuto sul selciato, qui si trattava di un avvocato, la stampa gli avrebbe fatto un gran culo, ma non sarebbe stato niente a confronto di quello che gli avrebbero fatto i superiori per essersi fatto beccare! E allora frenò l'istinto e si limitò ad inveire mantenendo le distanze. «Non faccia così ispettore, volevo solo fare qualche domanda a Silvia prima di lei, ma non ci sono riuscito, non è in casa...» L'ispettore stringeva forte il pugno, le nocche erano diventate bianche, i muscoli del collo erano tesi, ma dalla testa non partiva il comando per sferrare quel cazzotto che avrebbe volentieri assestato allo stomaco dell'avvocato Caldiroli. Solo quando gli disse che non aveva trovato a casa la ragazza, sul volto del poliziotto si dipinse un ghigno, mentre nella mente venivano pronunciate parole che la bocca non poteva per-mettersi di dire: «Allora bastardo l'hai preso nel culo!»

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Mentre quello che disse in realtà, dopo aver cavato fuori un sorriso di circostanza, facendo ricorso a doti di autocontrollo che nemmeno pen-sava di avere, fu: «Avvocato Caldiroli, se dovesse avere notizie o informazioni che pos-sono aiutare la polizia nello svolgimento delle indagini, la invito cal-damente a contattarmi. Questo è il mio biglietto da visita» disse, infi-landogli un cartoncino nella tasca sul petto della camicia e dando poi un paio di colpetti in modo quasi amichevole «mi chiami non appena viene a conoscenza di qualche informazione, non vorrei dovesse avere qual-che problema poi in futuro per aver intralciato le indagini.» L'ispettore salutando si allontanò, dirigendosi verso il civico di Via A-glebert in cui risultava risiedere Silvia per verificare di persona se fosse in casa e dove avrebbe potuto trovarla. Caldiroli sapeva che non l'avrebbe trovata. D'altra parte gliel'aveva con-sigliato lui stesso di non farsi trovare, dopo averle spiegato per quale motivo era andato da lei e che erano stati gli amici di Daniele a chie-dergli di dar loro una mano a scoprire cosa fosse successo. L'avvocato ricordava una frase di un vecchio film in cui il protagonista diceva "con la polizia è meglio non avere niente a che fare, anche quando hai ragione" e sapeva che era un pensiero condiviso da quei ragazzi che stavano crescendo nello stesso ambiente in cui lui era cre-sciuto quindici o venti anni prima. Per anni aveva usato questa frase, ed ora che era avvocato non l'aveva certo dimenticata, così dopo una chiacchierata con Silvia per farsi spiegare cosa fosse successo quella sera, l'aveva pronunciata dicendole che sarebbe stato meglio per tutti e due se l'ispettore Gandolfi non l'avesse trovata in casa. Tra la polizia e l'avvocato, Silvia decise di fidarsi di quest'ultimo e così erano usciti di casa insieme prendendo due strade diverse. Se Gandolfi fosse stato un poliziotto migliore, avrebbe pensato subito, e non la sera davanti alla televisione, che forse l'avvocato poteva essere riuscito a parlare con la ragazza e che poi si fosse messo d'accordo con lei per non farsi trovare in casa. In fondo era il legale degli amici del ragazzo con cui aveva passato la serata. Ma questi pensieri vennero ve-locemente diluiti da un dribbling, un cross al centro e un colpo di testa di un qualche miliardario che tirava calci al pallone indossando una maglia a righe rosse e nere. In fondo Silvia l'avrebbe trovata, prima o poi, e interrogata... Non aveva comunque tutti i torti. L'avvocato Caldiroli con Silvia ci a-veva parlato e le aveva chiesto cosa fosse successo quella sera. Non aveva preso appunti, sapeva che il poliziotto sarebbe potuto arrivare da un momento all'altro e così aveva memorizzato tutto.

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«Gliel'ho detto...» «Dammi del tu. Se ci incontrassimo al parco di Villa dei Mandorli, non mi daresti del lei» «Allora, te l'ho detto quella sera non è successo niente.» mentre lo di-ceva diventò rossa in viso. Silvia era carina, anche se non era per niente una top model da copertina patinata. Si era presentata indossando dei pantaloni neri a sacco, un maglione sformato e con i capelli raccolti da un fermaglio «Almeno niente di strano, sì, niente droghe, niente roba pesa, neanche uno spinello e abbiamo bevuto solo qualche birra.» «Solo qualche birra? Sicura?» «Sì, come te lo devo dire? Quando Daniele si è allontanato stavamo parlando e mi ha detto che gli scappava e andava a farla. Poi non l'ho più visto tornare. L'ho cercato in bagno, ma non c'era, ho girato un po', però era già tardi e allora sono tornata a casa con gli amici con cui ero arrivata.» Mauro Caldiroli non era poliziotto, non doveva arrivare ad una verità a tutti i costi, doveva solo cercare di capire che cosa fosse successo e per ora l'unica cosa che aveva capito era che Silvia non gli sarebbe stata più d'aiuto di quanto non lo era stata fino ad ora. Le aveva detto la frase del film e le aveva spiegato che era meglio non farsi trovare lì e così entrambi erano usciti. Non aveva insistito oltre per sapere se avessero preso qualche pastiglia o qualche altra schifezza, tanto sapeva che se l'avevano fatto sarebbe risultato dal referto dell'autopsia e quindi non valeva la pena di stare ad insistere ulteriormente. Se invece era successo a loro insaputa, magari per lo scherzo di qualcuno o per sbaglio, anche questo glielo avrebbe detto la polizia.

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9 Mauro, smessi i panni dell'avvocato Caldiroli, aveva preso la direzione del Pratello, era entrato nell'osteria di Sante e si era seduto ad un tavolo. Da solo e con un birra media. Era in anticipo di una mezz'ora sull'orario previsto, ma mandare giù quella prima pinta l'avrebbe aiutato ad affron-tare i discorsi. La porta si aprì più o meno mezzo litro di birra più tardi e i tre ragazzi che l'avevano ingaggiato per scoprire cosa fosse successo al loro amico Daniele entrarono nel locale. Ordinarono quattro birre e si misero a se-dere allo stesso tavolo in cui Mauro stava faticosamente tentando di ritornare l'avvocato Caldiroli. Attaccando la seconda birra si rese conto che non ci sarebbe riuscito. Più guardava i ragazzi e più gli ricordavano un se stesso più giovane e più magro. «Ragazzi, vi avevo promesso che questa sera vi avrei dato una risposta, dopo aver cercato di capire se potevo darvi una mano. Voglio aspettare fino a domani...» «Perchè fino a domani?» chiese Luchino. «Perchè domani dovrebbe essere pronto il referto dell'autopsia o co-munque dovrei riuscire a trovare un modo per scoprire cosa hanno tro-vato nel corpo... sì, insomma, che cosa è risultato dalle analisi, quello, in qualche modo lo faccio saltare fuori.» I ragazzi lo ascoltavano in silenzio obbligandolo ad un comportamento professionale che avrebbe voluto togliersi di dosso con le birre: «I casi sono due» breve sorso di birra «il primo: trovano tracce di una droga qualsiasi nel corpo di Daniele, anche se oggi ho parlato con Sil-via che mi ha assicurato che in tutta la serata non si erano fumati nean-che uno spinello, e chiudono lì la storia dando la colpa agli stupefacen-ti, mettendoci una pietra sopra, senza creare polveroni e senza dare il caso in pasto alla stampa. In questo caso non avete bisogno di me. Ba-date che ho detto se trovano tracce di droga, che potrebbe voler dire che l'hanno aggiunta quando facevano le analisi per togliersi dai casini e non pensarci più, ma se anche così fosse, cosa possiamo farci io e voi?» Sorso di birra più lungo. «Il secondo?» chiese ancora Luchino.

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«Il secondo: non trovano niente. Nessuna droga e nessun motivo con-creto per la morte di Daniele. In questo caso sono io che ci devo pensa-re bene se mi voglio occupare di questa storia...» «Ma perchè?» chiese Marco con un'espressione stupita dipinta sul vol-to. «Perchè i casi come questo, se non vengono chiusi in modo banale, è perchè dietro c'è un gran casino e quando dietro c'è un gran casino non sai mai dove puoi andare a finire e a chi puoi andare a pestare i piedi. Non voglio che voi ed io finiamo in un gioco più grande di noi cercan-do di scoprire che cazzo è successo quella notte.» «Ti fai spaventare da queste cose? E noi che ci fidavamo di te! Quando Marco ci ha detto che sei stato a Genova e che hai collaborato con il gruppo di legali che sostiene i ragazzi arrestati e picchiati, pensavamo... » «Senti Marcello, forse non ci siamo capiti. A Genova ci siamo difesi con le telecamere. Tante, troppe telecamere perchè potessero fare quel-lo che volevano. Si sono dovuti rintanare a Bolzaneto per fare... per fare quello che hanno fatto. Per noi Bolzaneto potrebbe essere dietro ogni angolo se le cose stanno come temo...» «Cosa vuoi dire?» chiese Marco. «Non voglio dire niente, almeno per il momento, vediamo se domani riesco a recuperare il referto e poi ci sentiamo per telefono.» Mauro fece per alzarsi, ma lo fermò la voce di Marcello che chiedeva: «Ma davvero anche tu sei stato a Genova?» Mauro non rispose, adesso non era più l'avvocato, ma piuttosto il fratel-lo maggiore, si fece dare un'altra birra da Sante e poi: «Sì a Genova ci sono stato e ho avuto paura, come tutti gli altri che c'e-rano» non aspettò la risposta, gli bastava l'aria perplessa dei ragazzi. «Sentite ragazzi, voi siete giovani, forse di certe storie non ne avete mai sentito parlare e quando vi raccontano che sessanta anni fa qui c'era la guerra a voi sembra una cosa lontanissima. Provatelo a chiedere a chi ha più di sessanta anni che cosa vuol dire nascere durante i bombarda-menti e crescere sulle loro macerie.» Altro sorso di birra. «Di questa guerra ne potete trovare ancora traccia nei libri di storia, mi riferisco a quella che si è conclusa il 25 aprile 1945, quella che festeg-giamo ogni anno per la "liberazione". Quello che non c'è scritto nei libri di storia, però, è che i fascisti furono praticamente tutti amnistiati per poi ricominciare con nuove regole democratiche, in un nuovo paese. Guardate che molti di questi erano fascisti per comodità, però fascisti

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sul serio. Per viltà o convinzione lo sono rimasti anche dopo e la guerra è proseguita.» Sorso lungo per finire la pinta. «Usciamo.» Fuori dall'osteria Mauro si accese una sigaretta. «C'è stata e continua ad esserci una guerra di resistenza contro il fasci-smo che dura dal 1945, è la guerra che i nostalgici hanno combattuto con le bombe degli attentati ieri, con gli assalti ai centri sociali oggi. In mezzo c'è tutta la storia d'Italia, c'è la bomba di piazza Fontana, la stra-ge di Portella della Ginestra, la bomba alla stazione di Bologna, l'ucci-sione di Francesco Lorusso e quella di Giorgiana Masi e anche i fatti Genova. Sta tutto dentro la stessa lotta di resistenza che dura ormai da sessant'anni. Potrei raccontarvi tante di quelle storie che neanche vi immaginate. Avete mai sentito parlare dei morti di Reggio Emilia?» Facce stupite, sguardi incerti. «Quelli della canzone?» chiese Luchino. «Si quelli della canzone, certo. Pensate che ci fosse veramente differen-za tra loro e voi? Ragazzi che lavoravano o studiavano, ragazzi che ma-nifestavano, uccisi dagli spari delle forze dell'ordine. Vedete differenza tra la vostra esperienza a Genova e quella di allora?» Improvvisamente Mauro smise di parlare. Lo sguardo si fissò sulle im-magini di un incendio che un televisore trasmetteva oltre la vetrata di una pizzeria d'asporto, ma non riusciva a sentire il commento. Il locale era vuoto. Le buone maniere gli impedirono di entrare per capire cosa fosse successo. Pensò che se si trattava di qualcosa di grosso, l’avrebbe scoperto il giorno seguente. «Noi andiamo» disse Marco «ci sentiamo appena hai qualche novità, appena hai preso una decisione.» Poi salutarono Mauro con una stretta di mano, che in fondo era sempre un avvocato, anche se grande e gros-so, un po' sgraziato e sempre in disordine, capelli spettinati, camicia fuori da jeans troppo consumati. L'avvocato accusò un po' quel saluto, perchè si rese conto in quel mo-mento di come lo consideravano ed il fossato di quindici anni e più che li separava si vide tutto. Anche se avrebbe dovuto essere professionale e distaccato, Mauro non riuscì a fare a meno di pensare ai suoi vent'anni e improvvisamente le birre che aveva mandato giù diventarono poche e ne servirono delle altre. Forse anche qualcosa di più forte, qualcosa che stordisse più in fretta. Guardò l'orologio. Erano le undici, un buon orario per fare un salto a Villa Serena.

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10 C'era qualcosa che non andava in quella storia, qualcosa di stonato. Ai tempi del liceo Mauro suonava il basso in una cover band di musica rock e gli era rimasto il ritmo dentro alla testa. Quando seguiva un caso, preparava i documenti per un processo o li metteva in ordine per una causa civile, era come se seguisse l'andamento di un pezzo rock. Intro musicale. Spiegazione di tutto quello che aveva dovuto fare per recupe-rare la documentazione che sarebbe andato a presentare. Attacco della voce. Presentazione di una prima parte della documentazione. Ritornel-lo. Sostenere che il cliente aveva ragione per i motivi esposti. Seconda parte del cantato. Presentazione di altra documentazione a supporto. Ritornello. Ribadire che il cliente ha sempre più ragione. Chiusura. Ri-chiesta che vengano accolte le istanze del cliente. Ma in questo caso no, neanche dopo diverse birre Mauro riusciva a tro-vare il ritmo giusto del pezzo. Mancava qualcosa. Mancava il ritornello. Mancavano le richieste del cliente. Eh già, perchè capire quale fosse il ritornello di quel pezzo lo avrebbe aiutato anche a trovare il ritmo. Di solito era la situazione della causa che gli suggeriva il tema musica-le, chissà se avrebbe funzionato al contrario? Villa Serena era un parco del tutto simile a quello in cui era stato ritro-vato privo di vita Daniele Massari. Gli ingredienti erano sempre gli stessi, miscelati in modo da assicurare lo stesso sapore. Uno spazio ver-de all'aperto, un po' di musica che a suo tempo era stata di rottura, ma che oramai era entrata tanto nelle orecchie da poter essere quasi consi-derata commerciale, una buona dose di belle ragazze con la voglia di mettersi in mostra e long drink e birre non proprio a buon mercato. Nella confusione della serata di inizio fine settimana Mauro contava di trovare la solitudine necessaria a ragionare sul caso a cui gli era stato chiesto di lavorare. Prima ancora che sugli indizi doveva decidere se accettare o meno quell'incarico. Qualcosa nella testa gli diceva di non farlo, ma quando si trovava davanti i ragazzi non riusciva a dirglielo. Non vi posso aiutare, non sono la persona di cui avete bisogno, vedrete che chiuderanno la faccenda e non vi daranno la possibilità di capire veramente cosa è successo al vostro amico, erano parole che richiede-vano un cinismo che non riusciva ad avere in questo caso.

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Gli era capitato di riscuotere del denaro per conto di società di recupero crediti e non si era mai messo problemi nell'alzare la voce e nel formu-lare minacce, sempre di carattere legale, facendo pesare la parola avvo-cato e la parola tribunale, come se fossero fatte di quella pietra nella quale si ricordava di averle viste scolpite ai tempi in cui era studente. Serviva un'altra birra, anche se ormai aveva perso il conto di quante fossero. Si piazzò non lontano dal disk jockey, il bicchiere su una men-sola, la sigaretta accesa, gli occhi apparentemente a guardare in giro, ma in realtà a cercare nella musica il ritmo su cui far scorrere il filo del ragionamento. Sorso di birra. «Le prime note sono inconfondibili, è da venticinque anni che ascolto questa canzone.» Video killed the radio star, dei Buggles. «Serve qualcosa di nuovo, qualcosa che mi dia un nuovo ritmo, una canzone che conosco mi porta su un ritmo che conosco, che ho già usa-to in passato chissà quante volte e non è quella che mi serve.» Sorso di birra. Una ragazzina che non era neanche nata quando Mauro già ascoltava quella canzone ondeggiava il culo costretto dentro jeans ultimamoda facendo alzare la maglietta ben al di sopra del piercing all'ombelico. Sorso di birra. Le note finali della canzone sfumarono mentre la ragazzina era ormai stanca di saltare. Meglio così. Sorso di birra. «Tastiere a raffica, la conosco è Enola Gay degli O.M.D.» La ragazzina parve essere stata colpita da un fulmine, che l'aveva rica-ricata. Si prese per mano con una amica e ricominciò a saltare entusia-sta. «Chissà se ero così anch'io?» pensava Mauro che in realtà ricordava come quei pezzi fossero in origine qualcosa di molto ruvido per le o-recchie dei ragazzini con i jeans alla moda, quando li ascoltava venti-cinque anni addietro. Quelli che allora ascoltavano quella musica non erano per niente alla moda, ma il tempo passato ha cancellato tutto que-sto. Sorso di birra.

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Quando un giro di basso introdusse My Sharona dei Knack Mauro pen-sò: «Va a cagare.» Ultimo sorso di una birra che era costata sei euro anche se non li vale-va, servita in un bicchiere di plastica che subito dopo volava in un bi-done insieme ai buoni propositi per colpa di musica ascoltata già troppe volte. «Non si salutano i vecchi amici?» disse un cespuglio di capelli sostenu-to da una mano, gomito appoggiato sul tavolino. «Jack! Anche tu qui a bere questa birra da schifo?» disse Mauro addi-tando il bicchiere mezzo vuoto poggiato sul tavolino. «Hai ragione, vecchio, ma mi sono reso conto che anche la birra mi-gliore bevuta a casa, da solo, ha un saporaccio...» Mauro sorrise. In fondo Jack non aveva tutti i torti. «Come ti va?» «Non male, mi faccio qualche settimana di vacanza forzata...» rispose il cespuglio di capelli. «Come mai?» «Non hai sentito cosa è successo oggi? La fabbrica che è bruciata? Beh, io lavoro lì, mi sa che per qualche tempo me ne starò a casa. Vorrà dire che avrò più tempo da dedicare al sindacato... e alle birre!» sorrise iro-nico tirandosi su e facendo emergere il viso dal cespuglio. «E che cosa producete in quella fabbrica? Forse dovrei dire produceva-te...» chiese Mauro alzandosi per andare a buttare in un grosso bidone grigio il bicchiere di plastica ormai vuoto. «Ma no, i reparti produttivi sono rimasti praticamente intoccati dal fuo-co, quello che è bruciato è il magazzino con tutto dello che c'era dentro. I ragazzi che lavorano in quel reparto staranno fermi per almeno un me-se, tra una cosa e l'altra, prima di poter riutilizzare quei locali.» aggiun-se il cespuglio parlante ipnotizzato da due jeansglutei di passaggio. Svuotò anche il suo bicchiere lanciandolo da lontano nel bidone con un tiro da giocatore di pallacanestro e poi aggiunse: «Anche i laboratori sono andati in fumo, erano proprio sopra al magaz-zino. Può darsi addirittura che l'incendio sia partito da lì.» poi si alzò, mise mano al portafoglio e chiese: «Vodka anche per te?» Mauro sentiva in lontananza un giro di basso, che assomigliava a quello di My Sharona, ma non capiva se fosse nelle sua testa o se gli arrivasse attutito dall'alcol che aveva mandato giù fino a quel punto della serata. Era convinto che con una pisciata gli sarebbe passato tutto, così disse

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all'amico Giacomo che andava a cercare un bagno mentre lui si recava al bar. «Un bagno? Senti vecchio, siamo in mezzo ad un parco, c'è un fottio di alberi contro cui pisciare, che ti succede? Una volta eri avvocato solo fuori, lo stai diventando anche dentro?» « Te Giacomo mi sa che invece sei sempre stronzo uguale! » disse Mauro, a fatica con la lingua felpata, mentre si allontanava. Tornò in un quarto d'ora, quella che era servita a Giacomo per fare la fila al bar e quella che era servita a lui per scavalcare un tale piegato in due che rimetteva l'anima e per aspettare che una sbarbina consolasse l'amica in preda ad una crisi isterica. «Che cazzo, proprio dentro all'unico cesso devono mettersi a fare della filosofia?» pensò Mauro. Ritornato al tavolo di prima ci trovò Jack con due vodke lisce ed un sorriso tutto nuovo. «Chi è la biondina che è passata?» chiese Giacomo, probabilmente strizzando un occhio. «Porca puttana!» «Dici? Non mi sembrava, anzi era così carina, non aveva proprio quell'aria...» «Ma no, dai, smettila, è che doveva lasciarmi una busta. Dov'è andata?» «É andata via.» «No, cazzo!» «Sì, invece. Mi ha detto della busta che ti doveva lasciare. Le ho detto che la lasciasse a me...» «Grande Jack, sapevo di poter contare su dite, coraggio, dammi la bu-sta!» «Quale busta?» Mauro sbuffò: «Quella che ti ha lasciato!» «Non mi ha lasciato nessuna busta. Ha detto che era una cosa personale e che sarebbe passata da casa tua per portartela...» Mauro sentì quelle parole sfumare mentre partiva di corsa verso il par-cheggio. Si guardò intorno, girò un po' tra le macchine per cercare Lu-ciana, ma non la trovò. In compenso prese prima degli insulti da un tipo che trovò appartato in un angolo buio con una testa bionda che si muo-veva sopra di lui e poi un "che cazzo cerchi drogato" da un altro che lo aveva scambiato per un ladro di autoradio, così decise di tornare da Giacomo. La corsa gli aveva messo sete così svuotò in un sorso il bicchiere che aveva davanti, ma la gola gli ricordò che la vodka non era proprio la

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bevanda più dissetante. Un bruciore fortissimo e colpi di tosse fu quello che seguì con Jack che disse: «Tranquillo vecchio ce ne vuole un'altra, poi vedrai che passa tutto...» FINE ANTEPRIMACONTINUA...