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1 FRANCESCO GRANATIERO IL FRANCOPROVENZALE PUGLIESE E LA GRAFIA DEI DIALETTI ALTO-MERIDIONALI (DAM) 2016

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FRANCESCO GRANATIERO

IL FRANCOPROVENZALE PUGLIESE E LA GRAFIA DEI DIALETTI ALTO-MERIDIONALI (DAM)

2016

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1. Il francoprovenzale della Capitanata L’origine delle colonie linguistiche di Faeto e Celle di San Vito (Fg) sembra risalire al 1269, quando Carlo I d’Angiò inviò un distaccamento di soldati a presidiare il centro for-tificato di Crepacore, concedendo poi loro di insediarsi con le proprie famiglie nell’omonimo vicino Casale e nei din-torni. Verso il 1340, con la ripresa delle ostilità prima tra gli stessi Angioini e quindi contro gli Aragonesi, una grossa parte degli abitanti lasciò il Casale per trasferirsi nell’attuale sede di Faeto, mentre gli altri occuparono il ter-ritorio dell’odierna Celle. In accordo con l’editto del 1274 con cui Carlò I d’An-giò dispose che «usque ad centum focularia» (un centinaio di famiglie) scendessero in Capitanata dalla Provenza, si è sempre pensato che Faeto e Celle fossero provenzali. Così nel 1490 il guascone (occitano) Philippe de Voi-sins, tornando dalla Terra Santa, si stupiva che nella vicina Monteleone si parlasse la sua lingua. Allo stesso modo, nel 1556, Pio V in una bolla chiamò gli abitanti di Faeto e Celle «provenzali». E non diversamente lo storico valdese Pierre Gilles, nel 1641, parlò di valdesi provenzali che in successi-ve ondate tra l’inizio e la fine del XIV secolo, perseguitati dal papa, si rifugiarono nelle Valli valdesi cisalpine (occita-ne) per poi trasferirsi in Puglia e fondare «cinq villettes clo-ses: assavoir Monlione, Montavato, Faito, la Cella et la Motta». Provenzale, infine, viene definito dall’Avv. France-sco Alfonso Perrini il dialetto di Celle in cui traduce la No-vella IX della prima giornata del Decamerone 1. Sono riferimenti da cui non si può prescindere, anche se il Gilles parla – non sappiamo su che basi – di fatti acca-duti tre secoli prima; Philippe de Voisins nomina Montele-one – che potrebbe avere a che fare con i Valdesi – e non Celle o Faeto; e Carlo I d’Angiò, conte di Provenza e di For-calquier, anche volendo distinguere i futuri pugliesi dai 1 I parlari italiani in Certaldo alla festa del V centenario di Messer Giovanni Boccacci,

omaggio di Giovanni Papanti [bibliofilo], Livorno, Tipi di Francesco Vigo, 1875: 173-4.

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provenzali, sicuramente non avrebbe potuto chiamarli “francoprovenzali”, dal momento che la parola verrà conia-ta soltanto nel 1878 ed avrà un significato essenzialmente linguistico. Sarà infatti Graziadio Isaia Ascoli, fondatore della glottologia italiana, a riconoscere 2, nel 1878, l’esistenza di una terza lingua romanza, quella francoprovenzale, una lingua molto arcaica e primitiva, che si è divisa dalla lingua d’oïl tra la fine dell’epoca merovingia e l’inizio di quella ca-rolingia (800 d. C.), localizzandosi lungo l’asse Lione-Ginevra. In Italia il francoprovenzale è parlato in Val d’Aosta, in Piemonte e in Puglia, a Faeto e Celle. Esso, pur presen-tando – da noi come in Francia – una notevole frammenta-zione e differenziazione locale, ha almeno due tratti tipici: 1) la palatalizzazione di CA del latino CAMPUS ‘campo’ e simi-li: ciamp (bassa Valle d’osta), ciantə (Faeto e Celle); 2) il costrutto DIES VENERIS in luogo di VENERIS DIES: divèndru (Ceresole), dəvèndrə (Celle e Faeto). Un tratto regolare nel francoprovenzale d’Oltralpe, come il doppio esito della coniugazione latina in uscite tipo -TARE e -CARE, accomuna anche la Valle dell’Orco (ciantar ‘cantare’ e mingir ‘mangiare’) a Faeto e Celle (ciantà e məngìjə). A Michele Melillo va il merito, secondo Ernest Schüle, «d’avoir abordé ce problème du point de vue dialectologi-che et d’avoir délimité une zone francoprovençale qui serait le pays d’origine des gens de Faeto: elle se situe à l’Est de Lyon et comprend la partie occidentale du Dauphiné et du département de l’Ain» 3. A questi risultati il dialettologo pugliese è pervenuto studiando sincronicamente la riduzione della A tonica lati-na in i nelle forme verbali tipo məngíi ‘mangiare’ e ‘mangia-

2 Graziadio Isaia Ascoli, Schizzi franco-provenzali, in Archivio glottologico italiano, III,

1878: 61-120. 3 Ernest Schüle, Histoire et évolution des parlers francoprovençaux d’Italie (etat des tra-

vaux et perspectives de recherches nouvelles), in Atti del convegno internazionale di Tori-

no, 12-14 aprile 1976, a cura di G. P. Clivio & Gasca Queirazza, Torino, Centro Studi Pie-

montesi, 1978: 127-140.

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te’ e la conservazione dell’antica vocale nel participio mən-già ‘mangiato’, nell’imperfetto mingiava o anche nel condi-zionale mingiare, e analizzando quindi il comportamento degli esiti participiali in -CATUM e degli imperfetti in -CABAM nelle diverse aree francesi di lingua francoproven-zale 4. Ulteriori concordanze (fonetiche, morfologiche, lessi-cali, sintattiche), tra i dialetti francesi di Lione e quelli fae-taro-cellesi, saranno sostenute dalla ricerca storica in Don-de e quando vennero i francoprovenzali di Capitanata 5, ricerca peraltro già toccata in Lingua e società 6. Ernest Schüle, dal canto suo, studia diacronicamente dei tratti lessicali di Faeto, come léjə < lat. LACTE, arruttà ‘cullare’ < *CROTTARE e trérə ‘mungere’ (cfr. fr. traire), che permetteranno di confermare i risultati del Melillo e di re-stringere, con buona approssimazione, il luogo di origine delle isole alloglotte del foggiano. Luogo situato ad est di Lione, nella parte centro-occidentale dell’area francopro-venzale 7.

4 Michele Melillo, Intorno alle probabili sedi originarie delle colonie francoprovenzali di

Celle e Faeto, in “Revue de Linguistique romane”, XXIII, 1959: 1-34. 5 Michele Melillo, Donde e quando vennero i francoprovenzali di Capitanata, in “Lingua e

storia in Puglia”, 1, 1974: 79-100; a cui andrà aggiunto: M. Melillo, Briciole francoproven-

zali nell’Italia meridionale, in «Vox Romanica», XL, 1981: 127-30. Questo, con altro ma-

teriale, è ora in: Michele Melillo, Studi francoprovenzali, a cura di Armistizio Matteo Me-

lillo, Bari, Adriatica, 2006. 6 Michele Melillo, Lingua e società, Foggia 1966: 69-78.

7 Ernest Schüle, Histoire et évolution cit.

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2. Proposta grafica La lessicografia cellese e faetana con il dizionario di Vin-cenzo Minichelli 8 e più recentemente con quello dello Sportello Linguistico Francoprovenzale 9 si è notevolmente arricchita, anche se in massima parte di parole provenienti dal dialetto pugliese e dall’italiano. Se non è stato scongiu-rato il forte rischio di estinzione della parlata, almeno si è cercato di salvare tutto il salvabile per serbarne la memoria scritta. Il materiale messo ora a disposizione degli studiosi, unitamente a quello già disponibile o in corso di stampa 10, potrà favorire ulteriori, più approfonditi studi sul franco-provenzale pugliese e sulla lingua francoprovenzale nel suo insieme. Stabilito il valore storico fondante del Tesoro lessica-le raccolto da Michele Melillo negli anni cinquanta per “L’I-talia dialettale”, al Minichelli andrà il merito di aver fatto da apripista agli studiosi locali del dialetto cellese-faetaro e di essersi impegnato su più fronti (anche poetico e pare-miologico) per la sua valorizzazione. Merito tanto più gran-de se si considera che il suo Dizionario fu compilato in era pre-computer, lontano dai centri indagati, che alla sua mo-le di termini non mi sembra si sia aggiunto poi molto, che esso è ancora l’unico dizionario di entrambi i dialetti, e che spesso registri l’occorenza delle doppie iniziali, se non nel lemma, almeno nella fraseologia.

8 Vincenzo Minichelli, Dizionario francoprovenzale : Celle di San Vito e Faeto, presenta-

zione di Tullio Telmon, Alessandria, Ed. Dell’Orso, 1994 (seconda edizione ampliata, ivi,

2002). 9 Dizionario francoprovenzale-Italiano : italiano-francoprovenzale di Faeto, a cura dello

“Sportello Linguistico Francoprovenzale”, Foggia, L’Editrice, 2007. 10

AIS = K. JABERG-J. JUD, Sprach- und Sachatlas Italiens und der Sudschweiz, Zofingen

1928-1940, dove Faeto corrisponde al punto 715 (inchiesta svolta da G. Rohlfs nel 1925); Il

tesoro lessicale francoprovenzale odierno di Faeto e Celle in provincia di Foggia, in “L’I-

talia dialettale”, XXI, 1956: 49-128; ALI = MASSOBRIO L. et al., Atlante Linguistico Ita-

liano, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma, Libreria dello Stato, 1995-, nelle cui

carte Celle di San Vito costituisce il punto 818 (inchiesta svolta da M. Melillo nel 1962). A

questi titoli aggiungerei per un utile confronto, considerato l’apporto non indifferente del

dialetto pugliese al francoprovenzale, anche il lessico della vicina Castelluccio: Pasquale

Cacchio, Castelluccese, Castelluccio Valmaggiore 2014.

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La grafia dello Sportello Linguistico, sarebbe in buo-na parte condivisibile, se non trascurasse un fenomeno im-portante come, per l’appunto, le geminate iniziali – presen-ti solo nelle citazioni dall’AIS e da Michele Melillo –, gemi-nate assenti, mi pare, nel francoprovenzale d’Oltralpe, così come della Val d’Aosta e del Piemonte, e invece peculiari della fonetica francoprovenzale pugliese; e se non facesse uso di grafemi non spiegati, e perciò equivoci (éssche ‘e-sca’), e di accenti che, se per alcuni (evitabili) prestiti italia-ni sembrano ineludibili (éléméndare), non lo sono per altri (sóttóscàle) che si pronunciano esattamente come nella no-stra lingua tetto. La scrittura francese – in un testo italiano – del ce-gliaje raccolto da Arcangelo Martino 11, nell’incertezza di un preciso destinatario, più che una soluzione, mi sembra una compiaciuta curiosità, una licenza buona per un lessico di preziose e nostalgiche “reliquie”, per una scelta di parole, come egli dice, di «provata estrazione francoprovenzale». Detto questo, si noteranno, nel dialetto di Celle, le i-niziali doppie – scritte solo nella trascrizione fonetica – di quasi tutti i monosillabi tonici e di molti bisillabi con prima sillaba tonica e schwa finale: ccan ‘quanto’, ccére ‘cadere’, cchià ‘chiave’, ddaj ‘dito’, ddìe ‘duro’, ffam ‘fame’, gge ‘io’, llaj ‘legge’, llu ‘il, lo’, llivre ‘libro’, mman ‘mano’, nnétre ‘nascere’, ppan ‘pane’, ssaj ‘sete’, ttrére ‘mungere’. Spesso rafforzate risultano anche – come del resto normalmente nei DAM – la g e la b iniziali o intervocaliche, mentre non lo è mai la v- iniziale. Come attestato dalle novelle edite dal Melillo 12, le i-niziali doppie sono ben presenti nel francoprovenzale pu-gliese. La stessa Naomi Nagy 13 – ben nota ai membri dello Sportello Linguistico 14 – parla di questa peculiarità del fae-taro, distinguendola dal rafforzamento sintattico lessicale

11 Reliquie franco-provenzali nella parlata di Celle di San Vito, Brantford, 2008. 12

Michele Melillo (a cura di), La serpénhe dde sètte llénhe, cit.; Id. (a cura di), Una novella

nel francoprovenzale di Faeto : Lla mùseche dde llu Paravìe, in “Lingua e storia in Pu-

glia”, 3, 1976: 95-100. 13

Naomi Nagy, Double or Nothing: Romance Alignment Strategies, 1995. 14

Vedi sito web [http://individual.utoronto.ca/ngn/].

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(lexically-triggered), proprio dell’alto Meridione 15, e dal rafforzamento sintattico determinato dall’accento (stress-triggered), tipico del toscano e del romanesco. L’adozione della grafia proposta nel manuale Scrivere la lingua madre 16, scaricabile dal blog Poesia e dialetti 17, come si può vedere dagli esempi riportati in fondo al pre-sente saggio, può offrire soluzioni valide non solo per la po-esia e la letteratura, ma anche per pubblicazioni di tipo di-dattico. Essa infatti non è che il naturale sviluppo di un progetto intrapreso con un testo parascolastico 18. Il carattere didattico di una scrittura dialettale non può prescindere da un rapporto grafema/fonema «biunivo-co e perciò, di massima, inequivoco» 19. Anzi. Esistono in proposito sistemi di trascrizione normalizzata. Uno è quello del francoprovenzale giaglionese, che è stato elaborato con specialisti come Arturo Genre e Tullio Telmon 20. In accordo con il Minichelli e con lo Sportello Lingui-stico faetano e diversamente da Arcangelo Martino, eviterei la lettera j del giaglionese per indicare la gi di ‘ciliegia’, dando ad essa il valore della semivocale italiana, come nelle varietà linguistiche alto-meridionali e come nello stesso si-stema di trascrizione internazionale. Ciò rende superfluo l’uso di y semivocale, lettera che nell’atlante fonetico inter-nazionale (IPA) ha un diverso valore. Per il resto, si può adottare la grafia dei DAM.

15

Cfr. Jonathan Bucci, Incompatibilità fra riduzione vocalica e raddoppiamento sintattico

nell’italo-romanzo, in “Rivista italiana di dialettologia. Lingue dialetti società”, a.

XXXVII, 2013: 153-75. 16

I §§ 2-5 del presente saggio vengono aggiornati alla data del 25 gennaio 2020. 17

https://fgranatiero.wordpress.com 18

Francesco Granatiero, La memoria delle parole. Apulia: storia, lingua e poesia, Foggia,

Grenzi 2004. 19

Cfr. Corrado Grassi - Alberto A. Sobrero - Tullio Telmon, Fondamenti di dialettologia

italiana, Bari, Laterza, 1997, p. 300. 20

http://www.dizionariogiaglionese.it/index.php/come-leggere/elementi-di-ortografia/

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3. Ragioni storiche della grafia proposta

Il francoprovenzale di Faeto e di Celle di San Vito (FG) può essere trascritto secondo la grafia unitaria dei DAM, che ri-guarda tutte le parlate locali del vecchio Regno di Napoli, comprese nella cosiddetta «lingua napoletana» definita dall’Unesco «seconda lingua d’Italia».

Le origini e la storia del francoprovenzale pugliese sono infatti intimamente legate a quelle dell’area linguistica alto-meridionale. Esse risalgono agli anni 60-70 del XIII secolo, quando Carlo I d’Angiò fece venire dalla Francia un contingente di soldati prima (1269) e un centinaio di fami-glie poi (editto del 1274), che si stanziarono a Lucera per poi passare nel centro fortificato di Crepacore e infine a Faeto e Celle.

Il francoprovenzale è una lingua romanza molto pri-mitiva differenziatasi dalla lingua d’oïl intorno all’800 dopo Cristo e parlata in un’area situata sull’asse Lione-Ginevra. Il francoprovenzale di Celle (C) e di Faeto (F) è quello che si parla nella parte occidentale del Delfinato e del Diparti-mento dell’Ain.

Anche le lingue locali del vecchio Regno di Napoli so-no lingue neolatine e anch’esse hanno a che fare con Carlo I d’Angiò e l’influsso della dominazione francese, che ha for-temente influenzato i loro volgari per circa un secolo e mez-zo, e proprio durante il delicato periodo della loro forma-zione 21.

Non a caso l’area linguistica alto-meridionale (a parte le varietà gallo-celtiche che, come il piemontese, ne conser-vano qualche traccia) è l’unica area italiana che ha in co-mune con il francese e con il francoprovenzale la cosiddetta «e muet».

21

Cfr. F. Granatiero, Altro volgare. Per una grafia unitaria della poesia nei dialetti alto-

meridionali, Milano, La Vita Felice, 2015.

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A questo si aggiunga che il francoprovenzale pugliese, nel corso dei secoli, a Faeto più che a Celle, si è ampiamen-te arricchito di apporti fonetici e lessicali propri dell’area linguistica da cui è circondata.

Ma l’adozione della grafia unitaria dei DAM da parte del francoprovenzale pugliese è, oltre che una scelta stori-camente giustificata, un naturale sviluppo della grafia adot-tata sia nel Dizionario di Vincenzo Minichelli che in quello dello Sportello Linguistico Francoprovenzale di Faeto, do-ve ci sono già tutti i presupposti, dall’uso della e «semimu-ta» a quello della gran parte dei segni di Scrivere la lingua madre, che sono poi gli stessi della grafia italiana, con qualche accorgimento:

e atono, ha suono evanescente, e cioè breve e indistinto (fr. pauvre).

é, ó chiusi (it. sera, sole).

è, ò aperti (it. festa, notte).

e, o tonici, aperti in sillaba chiusa (cioè terminante in consonante: Cèlle o Celle, jòcche o jocche ‘neve’), chiusi in sillaba aperta (ossia terminante in vocale: pettóche o petto-che ‘perché’).

ï come in italiano, indica iato: tïà ‘uccidere’ (fr. tuer), sïà ‘sudore’.

cı sci del nap. busciardo (macıunije ‘mietitore’). (*)

j semicons. (it. noia).

ü come in italiano, indica iato: cüà ‘covare’.

u intervocalico, semicons. (it. uovo).

lı (arc.) come gli (it. figlio), ma di grado tenue: lı-éve ciòt-tele ‘era gravida’.

nh suono velare: ténh ‘tempo’, a Celle sempre più nasale e a Faeto ormai nasale lungo (ténne ‘tempo’).

s come nell’it. sordo (sétte ‘questo’).

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s- (usata solo davanti a r) come nell’it. sordo (s-ruuàje ‘so-le’, s-revije ‘servizio’, s-revelle ‘cervello’). È diversa dalla s iniziale di srasunà ‘sragionare’, che come nei nessi automa-tici (sb, sd, sg ecc.) è invece sonora (cfr. it. ‘sbavare’, ‘sden-tato’, ‘sgravare’).

·s come nell’it. rosa (n·sèn, jun·se).

s davanti a cons. doppia, come nel nap. scala (sccume ‘schiuma’, sffuglìje ‘sfogliare’, suspperà ‘sospirare’). Davan-ti a sonora (sgguarde) il digramma è automaticamente so-noro [žgua-].

sc(i) come nell’it. striscia (cascètte ‘cassetta’, casciafòrt).

z sordo (zullitte ‘cuccioli’, tazze ‘tazza’, pezzèn ‘pezzente’).

·z sonoro (it. verza / azzurro): me·z·zanine ‘mezzanino’.

La parola non accentata s’intende piana.

L’iniziale di suono forte va scritta doppia: la ccià ‘il caldo’, le ddén ‘i denti’, la ccuà ‘la coda’, le ffénne ‘le donne’.

(*) La ı senza puntino si scrive tenendo premuto il tasto Alt e digitando 213 sul tastierino numerico.

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4. Saggi di grafia della varietà di Celle La novella nona della prima giornata del Decamerone 22 con versione in “provenzale” di Francesco Alfonso Perrini,23 traduzione in lingua di quest’ultima e trascrizione DAM nel cellese odierno secondo la pronuncia di Silvano Tangi.

22

Giovanni Boccaccio, Il Decamerone, Edizione accurata con note del Prof. L. Giavardi,

Centro di Diffusione Cultura, Milano, s. d. [ma posteriore al 1985]. 23

Giovanni Papanti (a cura di), I parlari italiani in Certaldo, cit.

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Traduzione letterale in lingua dalla versione del Perrini

Io dico dunque che al tempo del primo Re di Cipro, dopo che fu presa la Terra Santa da Goffredo di Buglione, avven-ne che una gentil donna di Guascogna andò pellegrina al Sepolcro. Di qui tornando, arrivata che fu a Cipro, da così matti uomini fu molto malamente ingiuriata. Perciò lei ne prese tanto e tanto dolore, che pensò di andare a ricorrere dal Re; ma qualcuno le disse che era tempo perduto, perché lui era di cuore troppo piccolo e troppo cattivo, tanto che non solamente non prendeva con giustizia la vendetta dell’ingiuria degli altri, ma quelle che assai assai facevano a lui, se le prendeva con tanto vile vituperio; tanto è vero che tutti quelli che tenevano da dire qualcosa di lui, si sfogava-no per dargli dispiacere e per svergognarlo. Sentendo que-sta cosa quella donna si persuase che non poteva avere la vendetta. Per avere un po’ di consolazione al dispiacere suo, si mise in testa di mordere un po’ la miseria di questo Re; e piangendo se n’andò davanti a lui, e gli disse: «Signore mio, io non vengo davanti a te per la vendetta che io m’aspetto dell’ingiuria che mi è stata fatta, ma per avere un po’ di pia-cere da ciò, io ti prego di insegnarmi come tu tieni tanta pa-zienza da sopportare quelle ingiurie che io sento che loro fanno a te, perché io anche imparando da te, potessi pure con pazienza sopportare la mia; che lo sa Dio benedetto, se lo potessi fare, di buon amore io te la donerei, perché tu (la) sai tanto bene portare sul collo.» Il Re, che sino ad allora non si mosse e non fece nulla, come se fosse risvegliato dal sonno, cominciò primamente dall’ingiuria fatta a questa donna, che lui vendicò con rab-bia, poi si fece troppo duro persecutore di tutti quelli che facevano male dietro qualcosa contro l’onore della corona sua.

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Trascrizione unitaria della stessa novella secondo la pro-nuncia cellese odierna. Fonte orale: Silvano Tangi (nato a Celle ma residente a Torino). Celle de Sante Uite. Gge dicıe ddunche, che a lu tténhe de lu premmije Rai de Cipre, dappói che i fi pprai la Terra sante da Guttefrè de Buglione, avvenitte che na ggentile fénne de Guascogne jallatte pellerine a lu Subbùleche, d’icchì tur-nanne, arrevà che i fitte a Cipre, da un parai de mam-muén i fitte namurre tri bbrì ngerejà: pessù iglie ne pre-gnitte tan e tan delàu, che i pen·satte allà a reccurdre a lu Rrai; ma cacun le decıtte che ajéve ténhe perdì, pettóche ije gliéve de cuòre tri pettìj e tri pa bbúnhe, tan che nun su-lammén i pregnive pa dò ggiustizie la vendétte de le ngiu-rie de lò sate, ma sellé tri namurre che i faciavante a ij, se le pregnive dò ttan vie vetupèrie; tanluvai che ttutte sellóu che i tenavante da dire cache ciuo·se de ije, i sfugavante pe le denà despiacıje e pe lu svergugnà. Sentanne sta ciuo·se selà fénne, se persuadì che i putive pa avàire la vendétte, p’avàire un pue de cunsulazziun a lu despiacıj sin, se met-titte ntéte de mmùrdere un pue de le mesèrie de sti Rrai; e piaranne se n’allatte devan a ije, e le decıtte: «Segnaue min, ggi gge vínne pa devan a tti pe la vendétte che ggi m’attante de la ngiurie che m’é stà féi, ma p’avàire un pue de piacıje da sellé, gge te praje de me mparà come ti te ttinhe tanne de pasièn·se de pattì sèlle ngiurie, che ggi gge ssinte che i facıunte a tti, pettóche ggi avói mparanne da tti, gge putisse pure dò pasien·se suppurtà la mià; che i sa Diabbenai, se gge lu putisse fà, bbun anamurre gge te la dunare, pettóche ti te sa tanbunhe purtà u cóu.»

Lu Rrai, n·si addunche che se muuive pa e pa rrèn i

facive, come se i fisse ruviglià da lu suonne, abbiatte pri-

mammén de la ngiùria féi a sètta fénne, che i vennecà dò

rragge, pói se facitte tri ddij persecuttàu de ttutte sellóu

che i faciavante méi appréi ccache cciuó·se cuntre l’unnàu

de la curona sià.

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Trascrizione unitaria da Ethnopedia, YouTube. Fonte orale: Silvano Tangi.

Me sé nacı’ e ccracı’ a cCèlle de Sante Vite. Me reccorde decchire ggi e mun frare ne savanne senfanne, de prema-vére se saglive a giuccà do lo amiche tutte lu mattinne pe ppói turnà a cciannù a meceggiure. Mun paràn i turnave tuttuàje dall’òre do un sacche de patate, ceppulle, fa·sule e ddi fràule pe nnusse senfanne. Un dappói meceggiure ne sunne allà a giuccà nghiénne un bóue deccante a lu paìje, se stave tri pue bbunne che nanne pa manche sentì le mmare che se chiamavante: aéve addavére ttarde e sse n’allarunne a cchecìje sénz manghe mengìje. Sono nato e cresciuto a Celle di San Vito. Mi ricordo di quando io e mio fratello eravamo bambini, d’estate si usci-va a giocare con gli amici tutta la mattina per poi tornare a casa a mezzogiorno. Il nonno tornava sempre dall’orto con un sacco di patate, cipolle, fagioli e un paio di fragole per noi bambini. Un pomeriggio siamo andati a giocare in un bosco vicino al paese, si stava così bene che non abbiamo neanche sentito le madri che ci chiamavano: era veramente tardi e andammo a letto senza cenare.

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Trascrizione della versione de Il vento e il sole di Esopo. Fonte orale: Silvano Tangi. (Dal blog Poesia e dialetti)

Lu vénne e lu s-ruuaje

Un giure le vénne e lu s-ruuaje i abbiarunde a cciuppelije. Lu vénne i dicıve de étre lu mé férme e avói lu s-ruuàje i dicıve de étre la fòreza mé ró·se de lu mmunne. A u turnije i decedarunde de ffà na próue. I viarunde un pellerinne ché i stave cemmenanne p’un trattàue e decida-runde ché lu mé férme de i·se o sare stà sélle ché i sare re-saglì a luuà lo vestite a lu pellerinne. Lu vénne addunghe se mettitte a ffatevà e abbiatte a zzuf-fìje, e a zzuffìje do mé fòreze, ma lu ccunte che lu pellerinne se strignive tuttuuài mé férme nghié la mantèlle. Lu vénne addunghe i zuffiatte dó mé fòreze, e lu mmuénhe calanne la ttéte se mettitte la sciarpe avói atturne a la ttéte. O fitte addunghe lu tténnhe de lu s-ruuàje, ché, saglianne deffuóre da lé gnéule, i abbiatte a ngiatà tiépedamménne. Lu mmuénhe, ché gli éve arrevà deccante a un punte, i ab-biatte a sse luuà a ppùe a ppùe la mantèlle. Lu s-ruuài nemurre cunténne se facitte mé cià, nsine a lu ffà deventà nfucà. Lu mmuénhe rrusse pe la ccià i remeratte ll’éje de lu canà e sènze penzà ddi vaje se tuffatte. Lu s-ruuàje àute nghié lu siére i ricıve férme! Lu vénne delu·se e venchì se sccunnitte nghié un pòste ndarasse. (La llénhe franghepruuenzà de Cèlle de Sande Uite nghié la Puglie) Il vento e il sole. Un giorno il vento e il sole cominciarono a litigare. Il vento sosteneva di essere il più forte e a sua volta il sole diceva di essere la forza più grande della terra. Alla fine decisero di fare una prova. Videro un viandante che stava camminando lungo un sentiero e decisero che il

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più forte di loro sarebbe stato colui che sarebbe riuscito a togliergli i vestiti. Il vento, così, si mise all’opera: cominciò a soffiare, e soffia-re, ma il risultato fu che il viandante si avvolgeva sempre più nel mantello. Il vento allora soffiò con più forza, e l’uomo chinando la testa si avvolse un sciarpa intorno al collo. Fu quindi la volta del sole, che cacciando via le nubi, co-minciò a splendere tiepidamente. L’uomo che era arrivato nelle prossimità di un ponte, co-minciò piano piano a togliersi il mantello. Il sole molto soddisfatto intensificò il calore dei suoi raggi, fino a farli diventare incandescenti. L’uomo rosso per il gran caldo, guardò le acque del fiume e senza esitare si tuffò. Il sole alto nel cielo rideva e rideva. Il vento deluso e vinto si nascose in un luogo lontano.

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Trascrizione dall’audio del Laboratorio di Fonetica Speri-mentale ‘Arturo Genre’ dell’Università di Torino. Fonte: vo-ce femminile.

Lu uénn e lu s-ruaje Un giurn lu uénn e lu s-ruaje i abbiarunt a parlà i a dire chi a éve lu mé férme, decchire viarunt un pellerinne ché passave dó na pesante mantèlle ncùe e decidarunt addun-ghe ché lu premmije ché sare resaglì a ffà luuà la mantèlle ncùe a lu pellerinne sara stà lu méi férme. Lu uénn decıve de étre lu mé férme e avói lu s-ruaje decıve de étre la fòrese mé róse de lu munne. Lu vénn addunghe se mettitte a fatevà e abbiatte a suffije e méi suffiave e mé lu pellerinne se crevive dó la mantèlle a sià. Addunghe lu pòvere vénn lasciatte pèrdre. Addunghe u s-ruaje abbiatte a ngiatà e sùbbete lu pellerinne se luatte la mantèlle. E lu uénn i avitte a cappàire ché lu s-ruaje éve mé férme de ije. T’é piacı’ si ccunde? Tu vuó ché ggi t’u ddice n’ata vaje? Il vento e il sole. Un giorno il vento e il sole cominciarono a parlare e a dire chi era il più forte, quando videro un pelle-grino che passava con un pesante mantello addosso e deci-sero allora che il primo che sarebbe riuscito a far levare il mantello di dosso al pellegrino sarebbe stato il più forte. Il vento diceva di essere il più forte e anche il sole diceva di essere la forza più grande del mondo. Il vento allora se mise a faticare e incominciò a soffiare e più soffiava e più il pellegrino si copriva con il mantello a sudare. Allora il povero vento lasciò perdere. Poi il sole co-minciò a riscaldare e subito il pellegrino si levò il mantello. E il vento dovette capire che il sole era più forte di lui. Ti è piaciuto il racconto? Vuoi che io te lo dica un’altra vol-ta?

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5. Saggi di grafia della varietà di Faeto Da una novella registrata prima della II Guerra Mon-diale. La serpénhe dde sètte llénhe. Jore ggi ve vúoglie dire nu ccunte che fate avai na mmúorre de ppau. Na vai ll’ajave un muénh e nna ffénne. Ssi muénhe e ssa ffénne i sevante marì e mmeglìj. Su marì ajéve pesccattàu i allave tutte lò ggiúore a ppesccà. Un giúore i allatte a ppesccà e i pe-sccatte un béje pecıune. Lu purtatte a cciallau e i decıtte a ssa meglìj che lı ave fà a mmengìj pe i·se. E llu fecıtte a mmengìj. Lu mengerunde e le sppinne su marì s’allatte denghiénh a ll’òre. Jòre sa meglìj lı ève ciòttele cómme pu-re i tenevante la ggiuménte. Lı éve ciòttele e i tenevante pure la ccinhe che lı éve ciòttele. Dappói de trai ggiúore sa meglìj lı é accettatte ddò quattrà. La ggiumménte pure i facıtte ddò pulletriélle. Lu ccinhe i facıtte ddò zullitte. Sso ddò quattrà i facıvante roe a lla ggiurnà. Dappói dde ssèt-te t’anhe abbeirunte i allà a lla sccole... Il serpente con sette lingue. Ora vi voglio dire un racconto che fa molta paura. Una volta c’erano un uomo e una don-na. Quest’uomo e questa donna erano marito e moglie. Il marito era pescatore e andava tutti i giorni a pescare. Un giorno andò a pescare e pescò un bel pesce. Lo portò a casa sua e disse a sua moglie di farlo da mangiare per loro. E lo preparò. Lo mangiarono e le spine suo marito [le portò] nell’orto. Ora la moglie era gravida. E avevano una giumen-ta: era gravida e avevano anche la cagna che era gravida. Dopo tre giorni la moglie ha partorito due bambini. Anche la giumenta fece due puledrini. La cagna fece due cuccioli. Questi due bambini si facevano grandi a vista d’occhio. Do-po sette anni cominciarono ad andare a scuola...24

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Trascrizione parziale di una novella (fonte orale: Giuseppe Altieri di Faeto) registrata e

tradotta da Michele Melillo nel 1936-37 e pubblicata in “Lingua e storia in Puglia”, 5,

1978: 93-104.

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Novella nel francoprovenzale di Faeto, raccolta da Michele Melillo 25

Lla mù·seche dde llu paravìj

Na vai ajave unh muénh e na ffénne. I sevante marì e me-glìj. Un mattinhe sa meglìj i saglitte chi allave pechianhe ’n pue de pane. Demménteche i cemmenave i vai ntère na ffafe; la prénte e la pòrete a ciallaue, che s’arretire. Cum-me i arrive la fate vetai a ssu marì. La pprénte ssu marì e la piante devannhe la ppòrete de ciallaue; dappói vitte ggiúore lla ffafe gli-éve ggià nescì, e ssa ffénne e ssi muénh, chi sevante marì e meglìj e chi tenevante rréne l’assestevante tutte lò ggiúore, l’addaquevante, i mette-vante llu terine bbunh daccante pe la fà purtà lle ffafe sùbbete, dappói de n’ate pu de ggiúore lla ffafe i cacciatte lò fiure pe ppurtà lle ffafe. Sùbbete dappói lle ffafe s’imprunte, e marì e meglìj ttutte lò mattine i cheglievante lle ffafe e i mangevante panhe e ffafe. Dappói na múorre de ttenhe a cchitre ttutte lò ggiúore lle ffafe. Ma i cunghie-vante mai. Se mantenive tuttuai vérde. Dappói bbunaríelle de tténnhe lla ffafe se jauzave ttutte lò ggiúore, se cannele-jave ppa, e unh giúore ssa meglìj i dicıtte a ssu marì, demménteche i stevante mengianhe deccante a lla ffafe, ch’o sare sta bbunhe de vedai andoe i arrevave lla ffafe. Pe ttanhe che gli éve féi ciòttele i putive nchianà cumme o fis-se stà n’àrbele: e nchianatte e succeditte chi statte vitte ggiúore p’arrevà andoe i cunchjive. Come i arrevatte illé i truvatte llu síere, i tuzzelatte pe vedai tóch gli-ajéve illé,

25 Trascrizione in grafia DAM di una novella recitata (oltre una settantina di anni fa) da tal

G. A., un giovane di rara intelligenza (che da sarto diventò bibliotecario e poi impiegato di

banca), dalla scrittura fonetica del dialettologo prof. Michele Melillo, in “Lingua e storia in

Puglia”, n. 3, 1974: 97-101 e in Storia e cultura dei francoprovenzali di Celle e Faeto, a

cura di Armistizio Matteo Melillo, Atlantica, Manfredonia 1978: 104-8. Il nesso consonan-

tico nt ha una pronuncia che tende a nd. Per un confronto vedi il Dizionario francoproven-

zale-italiano, italiano-francoprovenzale di Faeto, edito a cura dello Sportello Linguistico

Francoprovenzale nel 2007.

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pecché gli-éve arrevà u ssíere. Tutten·sène i víette avrìj na ppòrete de n’àngele e intratte, e jaddummannatte tóch vu-live; i decıtte ché vulive parlà ddò Debbenai peché se jéve avvesà chillé ajave llu paravìj; l’àngele l’accumpagnatte andoe ajéve intrà e si allatte. Demménteche ssu marì gli-éve nchianà illé e i stave na múorre de tténhe, sa meglìj se sppantave pecché o sevante passà chién·se ggiúore e anco-re se veìve ppa; ssu marì, cumme n’àunhe ddì, chi glie éve allanhe a pparlà ddò Debbenai, decchire i fitte devanhe a ìj glie addummannatte tóch i vulive; i allatte ij e pechiatte chi jòre vulive na case, ’n pue de terrinh pe fatejà; e i decıt-te: «Vatténh che decchire ti a arrevà ntère te trove ttutte cciúo·se. E abbejatte a ddecıénne pe arrevà ntère. Jore i statte n’ate ssinche ggiúore. Decchire se truvatte ntère e i veìtte c’a llo poste c’ajave lla casarelle llàue i truvatte na casa rose, na ver·sire de terrinh e a ssa meglìj. Allatte ssa meglìj e addummannatte andoe glie éve arrevà, cumme jave féi, tóch jave truvà: addummannave, che vulive savai tóch jave vejaue; ssu marì i accuntatte ttutte lu cunte, cumme i allave, che glie éve arrevà u ssíere, jave tuzzelà, jave saglì n’àngele, jave avère lla ppòrete, jave addum-mannà tóch vulive, e ij jave pechià ché vulive parlà ddò Debbenai, e i decıtte avói che decchire se truvatte ddevan-he a dDebbenai glie jave addummannà tóch i vulive, e ij glie decıtte ch-jare vulì na case, llu terrinhe e sse putive al-là. Ssa meglìj i decıtte: «Pe ttóch t-anhe ppa pechià lò sol-de?». Allatte ij e decıtte c’abbastave ssu illé c’ajave avì. Ma ssa meglìj llu lecıatte ppa; i decıtte c’ajave inùtele, jave al-lanhe n’atarrìj a sse fà avai lò solde. Pe tenìj cunténhe a ssa meglìj, s’abbejatte n’atarrìj a se ngarpenà nfacce lla ffafe; i fecıtte lla stéssa vie, tale cquale cumme i a féi lla premmíere vai, e i arrevatte illé e i addummannatte tóch i vulive; ij i decıtte che jare vulì lò solde, pecché senza solde se putive ppa allanhe devanhe a ssa meglìj. E i fitte accun-tantà avoje de lò solde. Decchire decınnitte i truvatte a ssa meglìj ttutte cunténte pecché ssu marì jave avì na casse de càrete de mila llire, e i stevante bbunhe cunténe senza fate-jà. Mengevante e i bbjivante e fecıvante ttutte lò ggiúore

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fféte; i tenevante gginhe de fiaue. Dappói paricchie ssanhe a ssa meglìj le vinte pe ntéte e i decıtte a ssu marì: «Te ssa ppa tóch ngi pen·sà?». E i addummannatte ssu marì: «Tóch t’a pen·sà?» I decıtte: «Gg’é pen·sane che nusse ne stranhe ancore mmé bbunhe se ne teneram ’m pu de mù·seche dde llu paravìj. Pecché te la va ppa pechiane?» Ssu marì ca jéve bbabbiunh, i pen·satte ppa, e cumme un píezze de ciatéi i allatte n’atarrìj, e decchire i arrevatte illé u paravìj addummannatte n’atarrìj tóch i vulive. «T’abbaste ppa?» a ij decıtte Debbenai. «T’anhe vulì lla case e ggi l’é denà, t’anhe vulì llu terrinhe e ggi te l’é denà, t’anhe vulì lò solde e ggi te l’éi denà». I respunnitte: «Ma meglìj i vúote ’m pue dde lla mù·seche de lò ssàngele dde llu paravìj». Dappói ddì sta parole o tremejatte ttutte cciúo·se; i abbejatte a sentì remmàu, a sdellampìj, e ssi muénh se truatte ntère, e se truatte ppa cumme glie éve, ma se truatte trasffurmanhe ’n cıéi. Lla case che jave avì se truatte cchiù; lla ffafe che jave piantà manche se truat-te. A sélle pposte se truatte ttutte bboe, e un giúore dappói un munne de tténhe se truatte ij nghiocche a n’àrbele tra-sffurmane a ccucule e ssa meglìj nghiocche a n’ate àrbele trasffurmà da ffénne a ppiche de bboe, e ssu marì i cantat-te decchire i veìtte a sélle cıéi: «Piche de bboe derembette nghiocche a nn’ate àrbele, cucù, chi t’éi ti? cucù, cumme te troe icchì?». «Cucù», n’atarrìj. I resppunne ssa meglìj: «Tóch é succetì illé nghiocche?». Ddónch t’a vejaue tóch o succeditte: che ssi muénh e ssa fénne chi sevante marì e meglìj lla premmíera vai i tenevante rrénhe, poe i avrunte ssi piacıje che i truverunte lla ffafe e i mangevante ttutte lo ggiúore; poe lla ffafe glie éve fétte ttanhe rróse che glie éve arrevà u ssíere; ij ssi muénh i allatte nghiocche e vetai an-doe i cunghjive, poe i avitte lla raze che i avitte lla case, llu terrinhe; lla seconde vai i avitte lla casce de solde e manche glie éve cunténhe, i vulive sta quase cumme a Debbenai, e accussì Debbenai le punitte che le luatte tutte cciúo·se. De sélla maníere che le fecıtte addeventà a ssu marì cucule e a ssa meglìj piche de bboe e pe ssu se ditte: chi na mmúore i uótte, rrénhe i atte.

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La musica del Paradiso. Una volta, c’era un uomo e una donna. Essi erano marito e moglie. Un mattino la moglie uscì per andare a cercare un po’ di pane. Mentre cammina-va, vede per terra una fava. La prende e la porta a casa, giacché si ritirava. Appena arriva, la fa vedere a suo marito. Suo marito la prende e la pianta dinanzi alla porta di casa. Dopo otto giorni, la fava era già nata e questa donna e quest’uomo, che erano marito e moglie e non avevano nul-la, la assistevano ogni giorno. L’innaffiavano, mettevano il terreno buono vicino per farle produrre subito le fave. Do-po altri pochi giorni, la fava mise fuori i fiori per portare le fave. Subito dopo i baccelli si empirono e il marito e la mo-glie tutte le mattine raccoglievano le fave e mangiavano pa-ne e fave. Dopo parecchio tempo (ebbero da) raccogliere tutti i giorni le fave. Ma non finivano mai. (La fava) si man-teneva sempre verde. Dopo parecchio tempo la fava si alza-va di giorno in giorno, non si vedeva più, e un giorno la moglie disse al marito, mentre stavano mangiando accanto alla fava, che sarebbe stato bello vedere dove arrivasse la fava. Era diventata così grande che si poteva salire su come se fosse un albero. Vi salì e gli capitò di inpiegare otto gior-ni per arrivare là dove finiva. Appena vi arrivò, trovò il cie-lo, bussò per vedere cosa vi fosse lì, giacché oramai era ar-rivato al cielo. Tutto ad un tratto vide aprire una porta da un angelo ed entrò. E (l’angelo) domandò che cosa volesse. (Quell’uomo) disse che voleva parlare con il Padreterno, giacché si era accorto che lì si trovava il Paradiso. L’angelo l’accompagnò là dove sarebbe dovuto entrare e se ne andò. Mentre il marito era salito fin là e si era trattenuto parec-chio tempo, la moglie si disperava giacché erano passati quindici giorni e non si vedeva ancora. Il marito, come ab-biamo detto, era andato a parlare con il Padreterno (e) quando si fece dinanzi a Lui, (il Padreterno) gli domandò che cosa volesse. E quello domandò che per il momento a-vrebbe voluto una casa, (e) un po’ di terreno da lavorare. E (il Padreterno) gli disse: « Vattene (subito di qua) perché, appena sarai arrivato a terra, troverai ogni cosa ». E (quel-l’uomo) cominciò a scendere per arrivare a terra. (Ed) ora

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impiegò altri cinque giorni. Quando si è trovato a terra ha visto che, al posto dov’era la casetta loro, si trovava una grande casa, (e trovò) una versura di terreno e sua moglie. La moglie gli domandò dove fosse arrivato, come avesse fatto, che cosa avesse trovato. Domandava, perché voleva sapere che cosa avesse visto.Il marito le raccontò tutto il fatto, così come era andato, (e le disse) che era arrivato al cielo, che (aveva bussato ed) era uscito un angelo, (che) a-veva aperto la porta (e) gli aveva domandato che cosa vo-lesse. Ed egli aveva chiesto di voler parlare con Dio, e disse pure che quando si trovò dinanzi a Dio, (questi) gli doman-dò che cosa volesse, ed egli disse che avrebbe voluto una casa, del terreno e che se ne sarebbe potuto andare. La mo-glie gli disse: « Perché non hai chiesto i soldi? ». E quello disse che sarebbe bastato ciò che aveva avuto. Ma la moglie gli stava sempre dietro. Disse che (tutto) era inutile, (e che) sarebbe dovuto andare un’altra volta per farsi dare i soldi. Per accontentare la moglie, si arrampicò di nuovo per ar-rampicarsi sulla fava. Fece la stessa strada, la stessa che a-veva fatta la prima volta. Arrivò là (in cielo) e (il Padreter-no) gli domandò che cosa volesse. Disse che avrebbe voluto i soldi, giacché senza soldi non sarebbe potuto andare di-nanzi a sua moglie. E fu accontentato anche in quanto a soldi. Quando discese (a terra), trovò sua moglie tutta con-tenta, giacché il marito aveva ottenuto una cassa di biglietti da mille lire. E stavano molto contenti senza lavorare. Mangiavano e bevevano e facevano festa ogni giorno. Non avevano figli. Dopo parecchi anni alla moglie venne in te-sta (qualcosa) e disse al marito: « Sai che cosa ho pensato? ». E il marito disse: « Che cosa hai pensato? ». (E quella) disse: « Io ho pensato che noi staremmo ancora meglio, se tenessimo un po’ di musida del Paradiso. Perché non la vai a chiedere? ». Il marito, che era un babbeo, non vi pensò molto e come un pezzo di "castello" andò di nuovo (in cie-lo), e quando arrivò là in Paradiso, di nuovo il Padreterno gli domandò che cosa volesse. E il Padreterno gli disse: « Non ti basta? Hai voluto la casa e te l’ho data, hai voluto il terreno e te l’ho dato, hai voluto i soldi e te li ho dati ». E

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quegli rispose: « Mia moglie vuole un po’ di musica degli Angeli del Paradiso ». Appena (ebbe) pronunciato questa parola, tremò ogni cosa. Cominciò a sentir(si) un frastuono, a lampeggiare, e quest’uomo si trovò a terra. E non si trovò più com’era, ma si trovò trasformato in uccello. La casa che aveva avuto non si trovò più. Non si trovò più neppure la fava che era stata piantata. A quel posto si trovò tutto un bosco, e un giorno, dopo parecchio tempo, venne a trovarsi su di un albero, trasformato in un cuculo, la moglie (venne a trovarsi) sopra un altro albero trasformata da donna in gazza di bosco. E il marito appena vide quell’uccello cantò: « Gazza di bosco (che stai) dirimpetto sopra a un altro albe-ro, cucù, chi sei tu? Cucù, come ti trovi qui? ». E (cantò) ancora: « Cucù ». La moglie rispose: « Che cosa è successo lì sopra? ». Dunque hai visto che cosa è successo: che quest’uomo e questa donna, che erano marito e moglie, prima non avevano nulla, poi ebbero il piacere di trovare la fava e mangiavano ogni giorno. La fava era diventata tanto grande che era arrivata fino al cielo. L’uomo andò sopra a vedere dove finisse, ed ebbe la grazia di ricevere la casa, (e) il terreno. La volta successiva ottenne la cassa di soldi. E neanche era contento. Egli voleva stare quasi come Dio be-nedetto, e così Dio benedetto lo punì e gli tolse ogni cosa. Li punì in tal modo che fece diventare il marito cuculo e la moglie gazza di bosco. E perciò si dice che chi vuole assai non ottiene niente. (M. Melillo)