"Il dottore ubertoso. Bartolomeo Mastri e la dimensione letteraria delle scritture filosofiche"

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MATTEO VERONESI Il Dottore Ubertoso: Mastri e la dimensione letteraria dei discorsi filosofici 1. «Vis verborum» Non è senza esitazioni che mi inoltro nell’impervio terreno di un’analisi stilistica e formale di alcuni significativi campioni della scrittura filosofica mastriana che tenga conto soprattutto delle modalità con cui, in tale scrittura, il movimento e le articolazioni del pensiero si traducono in scelte e soluzioni espressive, e le strutture ontologiche del reale si riflettono, in qualche modo, nella costruzione dell’enunciato, del periodo, della pagina; il tut- to, tra l’altro, in un modo, e secondo un atteggiamento ed un gu- sto, non estraneo ad alcuni orientamenti delle estetiche e delle poetiche che caratterizzano il barocco letterario. È forse opportuno chiarire fin d’ora, sul piano metodologico, che questa indagine, condotta più con gli strumenti dell’analisi letteraria che con quelli della critica e della storiografia filosofi- che, si muoverà al di fuori del presupposto, o del pregiudizio – sostanzialmente comune, mutatis mutandis, a vari orientamenti del pensiero novecentesco, dalla filosofia analitica al neopositivi- smo, dal neoempirismo all’atomismo logico –, secondo cui nell’e- nunciato filosofico, almeno in quello più efficace e rigoroso, si dovrebbe poter ravvisare un rispecchiamento esatto, preciso, quasi meccanico, delle strutture, delle articolazioni e delle dispo- sizioni della realtà e del pensiero; convinzione, questa, che ha spesso portato, in sede di critica filosofica, a esasperate sottigliez- “Rem in seipsa cernere”. Saggi sul pensiero filosofico di Bartolomeo Mastri (1602-1673). Atti del Convegno di studi sul pensiero filosofico di Bartolomeo Mastri da Meldola (1602-1673), Meldola - Bertinoro, 20-22 settembre 2002, ed. by M. Forlivesi, (Subsidia mediaevalia Patavina, 8), Padova: Il Poligrafo, 2006. – ISBN 88-7115-534-3

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MATTEO VERONESI

Il Dottore Ubertoso:Mastri e la dimensione letteraria

dei discorsi filosofici

1. «Vis verborum»

Non è senza esitazioni che mi inoltro nell’impervio terreno diun’analisi stilistica e formale di alcuni significativi campioni dellascrittura filosofica mastriana che tenga conto soprattutto dellemodalità con cui, in tale scrittura, il movimento e le articolazionidel pensiero si traducono in scelte e soluzioni espressive, e lestrutture ontologiche del reale si riflettono, in qualche modo,nella costruzione dell’enunciato, del periodo, della pagina; il tut-to, tra l’altro, in un modo, e secondo un atteggiamento ed un gu-sto, non estraneo ad alcuni orientamenti delle estetiche e dellepoetiche che caratterizzano il barocco letterario.

È forse opportuno chiarire fin d’ora, sul piano metodologico,che questa indagine, condotta più con gli strumenti dell’analisiletteraria che con quelli della critica e della storiografia filosofi-che, si muoverà al di fuori del presupposto, o del pregiudizio– sostanzialmente comune, mutatis mutandis, a vari orientamentidel pensiero novecentesco, dalla filosofia analitica al neopositivi-smo, dal neoempirismo all’atomismo logico –, secondo cui nell’e-nunciato filosofico, almeno in quello più efficace e rigoroso, sidovrebbe poter ravvisare un rispecchiamento esatto, preciso,quasi meccanico, delle strutture, delle articolazioni e delle dispo-sizioni della realtà e del pensiero; convinzione, questa, che haspesso portato, in sede di critica filosofica, a esasperate sottigliez-

“Rem in seipsa cernere”. Saggi sul pensiero filosofico di Bartolomeo Mastri (1602-1673). Atti del Convegno di studisul pensiero filosofico di Bartolomeo Mastri da Meldola (1602-1673), Meldola - Bertinoro, 20-22 settembre 2002,ed. by M. Forlivesi, (Subsidia mediaevalia Patavina, 8), Padova: Il Poligrafo, 2006. – ISBN 88-7115-534-3

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ze, a frenetiche parcellizzazioni degli enunciati e dei testi, ad in-volute e macchinose notomie della scrittura e dell’espressione, lequali hanno invece, anche nei loro usi filosofici, una specificitàletteraria, formale, stilistica, e non meramente semantica, denota-tiva, logico-argomentativa, che chiede all’esegeta di essere cometale riconosciuta e studiata.1

Il che non significa, beninteso, cedere alle lusinghe allettantidella “deriva” post-moderna e post-strutturalista, del mis-readingarbitrario e capriccioso, che riducono spesso il testo oggettod’analisi a mero gramma, a semplice “traccia” da cui muovereverso un’interpretazione del tutto autonoma, completamentesvincolata da qualunque contesto o riferimento storico-culturale;orientamenti, questi ultimi, che del resto ben difficilmente po-trebbero essere conciliati con l’austero rigore terminologico econ la severa sistematicità che contraddistinguono la secondascolastica. Nondimeno, nel caso specifico di Mastri, mi pare che– anche in accordo, almeno su di un piano generale, con le poeti-che dell’epoca – fra res e verba, thema e rhema, fissità impertur-babile delle auctoritates e dinamico fervore della controversia, frala sostanza speculativa e il suo variegato e a tratti tortuoso estrin-secarsi sulla pagina, corrano, ben al di là di un mero rispecchia-mento o di una meccanica denotazione, legami molteplici, sfac-cettati e strettamente intrecciati, simili, se si vuole, alle plurime eminute gradazioni intermedie che, proprio secondo il pensierodel Meldolese (si vedano, ad esempio, delle Disputationes in XIIlibros Metaphysicorum, la seconda, De natura entis, e l’ottava, Deentis finiti essentia), si sgranano, effuse lungo i sinuosi rivoli e leinnumerevoli vie del possibile, fra ente reale e nulla, pensiero edimpensabile, fra ciò che può essere detto, enunciato, e ciò che,

1. Per la definizione e lo studio del discorso filosofico come genere (ma sa-rebbe meglio dire come insieme di sottogeneri, senza ovviamente conferire aquesto termine alcuna valenza riduttiva) della letteratura, si possono vedere Ilpaesaggio dell’estetica. Teorie e percorsi, seconda sezione, Trauben, Torino 1997(in particolare gli scritti di Carlo Gentili e Annamaria Contini), La filosofia co-me genere letterario, a cura di C. Gentili, Pendragon, Bologna 2001 e lo studio,a mio avviso illuminante, di F. COSTA, Struttura e genesi dell’enunciato filosofico,ETS, Pisa 1996, che coglie sapientemente, da Platone a Kant, da Hegel ad Hei-degger, il modo in cui la dinamica, o viceversa la staticità, del pensiero si riflet-tono, a livello argomentativo e stilistico, sulle scritture dei filosofi.

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“ripugnando all’essere” o, viceversa, trincerandosi nell’assolutodel Pensiero che pensa se stesso e che è oggetto diretto ed im-mediato della beata visio,2 si sottrae alla parola del filosofo.

In linea generale, sembra che proprio nell’àmbito della se-conda scolastica la scrittura teologica, nelle due forme, del restoper certi aspetti interconnesse, del commento e della disputatio,tenda a divenire un vero e proprio genere della letteratura filoso-fica, contraddistinto da una propria autonomia e governato daleggi sue proprie. Nei Commentaria scholastica di Melchior Canosi incontra un passo che è, a questo riguardo, illuminante: «Sacratheologia non solum versatur directe circa ipsum Deum, et ea,quæ ad illum ordinantur, verum etiam et circa semetipsum reflec-titur, et de semetipsa considerat, qualis sit, et ad quæ se exten-dat».3 Come scriveva già il Valla, al crocevia fra tradizione me-dievale della disputa e purismo rinascimentale, nel proemio dellaRetractatio totius dialecticæ cum fundamentis universæ philologiæ,la filosofia è una disciplina «ubi de vi verborum agitur», ove cioèle scelte lessicali, le opzioni stilistiche, hanno riflessi essenziali sulpiano del pensiero.4 Lo “spazio” della metafisica e della teologia,tendenzialmente autoreferenziale ed autotelico (con il pericolo,legato a tali prerogative, che il pensiero resti isolato «entro unasfera che si qualifica (...) mediante il gioco delle analisi e dellesintesi di concetti, e di conseguenza mediante l’opposizione in-trasoggettiva di atto di pensiero (...) e di contenuto di pensiero»),a cui Hans Urs von Balthasar dedica il quarto volume di Gloria,la sua monumentale “estetica teologica”,5 non potrebbe esseredefinito con maggiore lucidità (sennonché, mentre per il pensa-tore tedesco tale spazio deve aprirsi alle subitanee manifestazionidella grazia, alle teofanie imponderabili e spesso irrazionali, nellaseconda scolastica esso tende invece a ripiegarsi su se stesso, as-

2. A proposito di questa visio Dei che, non potendo avvenire mediante spe-cie expressa, et verbo inter obiectum, et intellectum, trascende, alla maniera deimistici, il linguaggio mortale ed è prerogativa dei soli beati, si veda MASTRIUS,In I Sent., disp. 6 De visione beata, in particolare la quæstio nona.

3. M. CANUS, Comm. Schol., I, 7.4. L. VALLA, Retractatio, I, 9.5. H.U. VON BALTHASAR, Nello spazio della metafisica: l’epoca moderna, Ja-

ca Book, Milano 1978, p. 34.

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siduamente intento ad una meditata definizione di sé, avvolgen-dosi nelle mille spire concentriche del metadiscorso).

Ed è proprio all’interno di questo spazio sospeso fra ens everba, fra realitas e formalitas (Dio come infinitas formalitatumche si risolve nella molteplicità, virtualmente inesauribile, delledefinizioni e delle loro connessioni), materiato di autonomia eautocoscienza, che il discorso teologico può incontrare quello re-torico, o lato sensu letterario; proprio il De locis theologicis diCano applica alla materia e all’espressione della ricerca teologicaquei topoi, quei loci communes che, secondo una tradizione dipensiero che dalla logica e dalla retorica aristotelico-stoiche arri-va ai Topica ciceroniani, alimentano l’inventio che sta alla basedel discorso retoricamente costruito e atteggiato. Con un’opera-zione culturale non del tutto dissimile, Emanuele Tesauro, inquel vero e proprio monumento della cultura e della civiltà ba-rocche che è il Cannocchiale aristotelico, impiegava, in modo for-se un poco macchinoso e forzoso, le categorie aristoteliche (coin-cidenti in parte con i topoi della retorica classica) in un tentativodi classificazione e di tassonomia del mondo multiforme e de-bordante del metaforismo e dell’analogismo secenteschi.6

D’altra parte, era proprio fra l’autunno del Rinascimento e glialbori del Barocco (prima che la riflessione settecentesca, daBaumgarten a Kant, desse al concetto di autonomia dell’esteticofondamenti rigorosi e sistematicamente argomentati) che le for-me della letteratura iniziavano a riconoscere e a definire se stessesulla base di leggi intrinseche e finalità interne: se un teorico an-

6. Per le categorie aristoteliche in Tesauro, si vedano le pagine relative altrattatista in E. RAIMONDI, Letteratura barocca, Olschki, Firenze 1991, nonchélo studio, filologicamente accuratissimo, di P. FRARE, Il ‘Cannocchiale aristoteli-co’: da retorica della letteratura a letteratura della retorica, in «Studi secente-schi», 32 (1991), pp. 33-63; cf. anche, soprattutto per taluni aspetti strutturalidella massima espressione del barocco poetico, A. MARTINI, L’‘Adone’ di Gio-van Battista Marino, in Letteratura italiana. Le opere, II, Einaudi, Torino 1993,pp. 777ss (in particolare 792-793). Per la contestualizzazione della scolasticabarocca nel quadro generale del secentismo, utili le pagine di Elmar Klinger inStoria della teologia, IV, Piemme, Casale Monferrato 2001, pp. 239ss (in parti-colare 243ss e 260ss). Utile, infine, per focalizzare alcuni aspetti del vasto conte-sto culturale coevo (in particolare per ciò che concerne il rapporto fra ricercaintellettuale ed elaborazione retorica) la documentata indagine di G. BAFFETTI,Retorica e scienza: cultura gesuitica e seicento italiano, Clueb, Bologna 1997.

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cora in parte legato alla cultura del Rinascimento maturo come ilGiraldi Cinzio raccomandava, nel Discorso intorno al comporredei romanzi, che lo scrittore salvaguardasse, nella sua opera,un’organicità e una coerenza interne e a sé stanti, che rispettasseun “verisimile” inteso non nel comune senso morale o storico,ma nei limiti di «quanto s’appartiene alle finzioni poetiche»,7 nelNauagerius di Girolamo Fracastoro il fine della poesia era esplici-tamente additato più nel bene dicere, più negli “ornamenti del di-re”, che nell’esigenza rappresentativa della mimesis o in quellapedagogica della katharsis.8 Né queste ancora aurorali e larvalienunciazioni dell’autonomia e della specificità formale dell’e-spressione letteraria sono del tutto estranee all’orizzonte specula-tivo della scolastica cinque-seicentesca: come segnalava Anceschisulla scorta di un’indicazione del Menendez Pelayo, già JoãoPoinsot (Juan de santo Tomás) sottolineava come l’arte avesse at-tinenza più con l’opera “ben fatta” che con la bontà del-l’operante.9 Filosofia e letteratura, dunque (per quanto i rispettividomini restassero comunque per molti aspetti ben distinti, es-sendo demandata all’una, pur se non certo priva di tensione stili-stica e retorica, la funzione del probare e del docere, all’altraquella preponderante del delectare), conoscevano una presa dicoscienza per certi versi affine, rivolta, in ambo i casi, all’acquisi-zione e alla fissazione di reciproci spazi autonomi e autonoma-mente fondati secondo proprie, intrinseche regole.

2. «Omnigena eruditio»

2.1 «Disserendi copia ac ubertas»

Sulla base di queste premesse, è ora possibile accostarsi almodo in cui Mastri affronta il problema dello stile. Utili indica-zioni potranno giungere dai proemi e dagli avvertimenti ad lecto-rem, che del resto costituiscono, già a partire dall’antichità, una

7. G.B. GIRALDI CINZIO, Discorso intorno al comporre dei romanzi, in IDEM,Saggi critici, a cura di C. Guerrieri Crocetti, Marzorati, Milano 1973, p. 60.

8. G. FRACASTORO, Il Navagero ovvero dialogo sulla poetica, a cura di A. Gan-dolfo, Laterza, Bari 1947, passim (ma soprattutto pp. 50ss).

9. L. ANCESCHI, Le poetiche del barocco letterario in Europa, in Momenti eproblemi di storia dell’estetica, parte prima, Marzorati, Milano 1959, p. 502.

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“soglia” testuale tradizionalmente deputata alle enunciazioni teo-riche e alle riflessioni sulla natura e sui modi dello scrivere, e chenel caso specifico del Meldolese rispecchiano la particolare atti-tudine alla schermaglia, al duello di penna, alla costruzione dellacoscienza letteraria attraverso la polemica, che è tipica del Sei-cento (basti qui ricordare la disputa fra il Marino e GaspareMurtola), e che peraltro, in sede di controversia teologica, non silimita alla sfera strettamente linguistica e stilistica (pur conce-dendo ad essa un assoluto rilievo), ma coinvolge in modo pro-fondo questioni dottrinali di cui, del resto, i problemi terminolo-gici ed argomentativi sono parte essenziale.10

Importanti indicazioni vengono, ad esempio, dalla lettera pro-emiale delle Disputationes theologicæ in primum librum Senten-tiarum del Meldolese. Non è difficile scorgere, nelle enunciazionipolemiche indirizzate contro gli avversari, l’impiego abile e fan-tasioso della paronomasia e del bisticcio, che trovava un fonda-mento teorico nei trattati di retorica e di poetica secenteschi, dalcitato Tesauro al Graciàn (basti ricordare, di quest’ultimo, il tren-taduesimo capitolo del trattato De l’agudeza, dedicato appuntoalle arguzie ottenute tramite bisticci ed effetti di suono), e ampioriscontro nella prosa creativa dell’epoca (si pensi all’uso insistitodi questi artifici che troviamo, ad esempio, nel Cane di Diogenedi Francesco Fulvio Frugoni). Mastri, rispondendo a coloro chel’avevano accusato di utilizzare uno stile prolisso ed involuto, af-ferma – peraltro sottolineando argutamente che un vir gravis do-vrebbe «honorari potius, quam onerari» da accuse tanto garrulee fatue, da simili nugæ e dicteria, da attacchi e critiche non eli-denda, sed eludenda – che è meglio dicere fuse, quam confuse, e ci-ta, a conforto della sua tesi, un’espressione dell’Ars poetica di Ora-zio («Dum brevis esse volo, obscurus fio», vv. 25-26), che si tro-vava, del resto, in forma molto simile, già in Cicerone («Hoc vi-

10. Circa l’evoluzione – ovviamente carica di implicazioni speculative – delcommento aristotelico come vero e proprio “genere letterario”, e le polemichelegate alle modalità espositive e alle scelte stilistiche, rinvio a St. PERFETTI, Giu-lio Cesare Scaligero commentatore e filosofo naturale tra Padova e Francia, in Lapresenza dell’aristotelismo padovano nella filosofia della prima modernità, a curadi Gr. Piaia, Editrice Antenore, Roma – Padova 2002, pp. 3-31 e M. FORLIVESI,“Scotistarum princeps”. Bartolomeo Mastri (1602-1673) e il suo tempo, CentroStudi Antoniani, Padova 2002, pp. 114ss e 243ss.

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deo, dum breviter voluerim dicere, dictum a me esse paulo ob-scurius», si legge in De oratore, I, 41): proprio l’eccessiva conci-sione, la brachilogia e il laconismo esasperati, e non già l’ampiez-za e la ricchezza dell’argomentazione e della scrittura, ingeneranooscurità d’espressione.11

Si potrebbe obiettare che si tratta, qui, solo di artifici retoriciesteriori, limitati alla soglia proemiale; e, in effetti, la trattazionefilosofica sarà di indole ben diversa, più pacata e più tecnica (perquanto l’intento polemico riemerga a più riprese anche all’inter-no dell’argomentazione e della disputa). Sennonché, il proemiocontiene anche la chiara e letterariamente consapevole enuncia-zione di una concezione della scrittura filosofica che coinvolge ilmodo stesso di strutturare ed esporre il pensiero; né potrebbe es-sere altrimenti per un autore che, come ha osservato Forlivesi,“pensa scrivendo” e articola il suo pensiero in modo “spiralifor-me”, attraverso assidui e reiterati richiami tanto alle auctoritatesquanto al dibattito teologico contemporaneo, ed arricchendo eampliando a più riprese, con ulteriori agganci speculativi, i nucleiportanti della sua riflessione. Mastri tiene a precisare che la suanon è «prolixitudo, verbositas, aut farrago» (del resto, la “teòricaflamante” di Graciàn insegnava che «màs valent quintas essenciasque fàrragos»; che cioè, pur nel virtuosismo e nella sovrabbon-danza, non si deve oscurare la sostanza concettuale, la «visione(...) estremamente rivelatrice dell’essere» 12), ma piuttosto «disse-rendi copia, ac ubertas».13 Vi è, qui, un esplicito riferimento, an-che a livello letterale e sintagmatico, all’ideale stilistico dellaubertas et copia dicendi, largamente presente nella tradizionedella classicità più limpida e maestosa, da Cicerone a Plinio aQuintiliano; tale ideale veniva, per questa via, a coniugarsi con ilgusto tipicamente barocco del periodare ampio e tornito, dellaperiodo composita – per usare le espressioni del Tesauro – capacedi conciliare periodo concisa e periodo ritonda o “supina”, fon-dendo così l’“acutezza della concinnità”, della concinnitas di ci-ceroniana memoria, con il “numero della rotondità”, con le mae-

11. CICERO, De oratore, I, 41.12. Cf. ANCESCHI, Le poetiche... cit., p. 505.13. MASTRIUS, Ad lectorem, in IDEM, In I Sent.

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stose campate dell’oratio numerosa et apta – fermo restando, pe-raltro, che la prosa più tipicamente barocca turbava, con i suoitumores, le sue ridondanze, il suo horror vacui esorcizzato con unesasperato decorativismo, gli antichi equilibri. E proprio il ri-chiamo ad un passo ciceroniano può essere d’aiuto per coglierele valenze filosofiche sottese all’ubertas mastriana, la quale carat-terizzò tanto profondamente l’opera del Meldolese che il suoprimo biografo, il confratello Giovanni Franchini, propose perlui il titolo di Dottore Ubertoso,14 e la sua facultas scribendi – pro-prio quella inanis foliorum falanx che gli veniva rimproverata dalconfratello Alessandro Rossi da Lugo – era ricordata, a motivo disomma lode, nella lapide commemorativa a lui dedicata, dettataforse da Giuseppe Platina.15 Non c’è, scriveva Cicerone dopo unafolgorante rapsodia di fulminee caratterizzazioni degli stili filoso-fici, da Democrito a Platone ad Aristotele, nulla di tanto insensa-to quanto un «verborum vel optimorum atque ornatorum sonitusinanis» non sostenuto da sapienza e dottrina, «nulla subiecta sen-tentia nec scientia».16 Muovendo da una premessa non dissimile,nell’epistola Ad lectorem Mastri precisava, stizzito, che la sua ap-parente prolixitudo non era che il riflesso e la conseguenza dellamateriarum difficultas e dell’auctorum numerus, vel pondus, in-dotti anche dal suo intento di misurarsi non «cum uno, vel cumaltero adversario, sed cum præcipuis, et veteribus, et recentiori-bus».17 Le scelte stilistiche rispecchiavano l’indole stessa dell’og-getto speculativo, le esigenze argomentative che esso poneva. Co-me scriveva Frugoni nel racconto nono del Cane di Diogene, pe-raltro polarizzando la discordia concors, o concordia discors, più indirezione della concordia che della discordia, «tutte le sentenzevere son figlie dell’intelletto e della ragion naturale o divina:quindi s’abbracciano e s’intrecciano concordi. Nella cappellamusicale della filosofia cantano ad uno stesso tuono ed a normadella battuta, che dà il vero, come che sia di quella il maestro».18

14. Cf. FORLIVESI, “Scotistarum princeps”... cit., p. 258.15. Cf. Id., pp. 249, 258 e 312.16. CICERO, De oratore, I, 12, 51.17. MASTRIUS, Ad lectorem, op. cit.18. F.F. FRUGONI, Il Cane di Diogene, in Trattatisti e narratori del Seicento,

a cura di E. Raimondi, Ricciardi, Milano – Napoli 1960, p. 992.

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Questo “filosofico concento” non era molto dissimile dall’ecletti-smo professato da Mastri, il quale, ad esempio, in un passo delDe generatione et corruptione affermava che i principi asseritidalle quattro principali scuole che si dividevano il dominium phi-losophicum, cioè gli averroisti, i tomisti, gli scotisti e i nominalisti,potevano, sul terreno di singole problematiche di pensiero, esse-re in qualche modo contaminati e conciliati, convogliati, per cosìdire, sulla via maestra della ricerca della verità, senza dunque di-sperdersi in una prospettiva relativistica o frazionarsi negli inso-lubili dilemmi della “doppia verità”.19 E Daniello Bartoli, nel pa-ragrafo di Dell’uomo di lettere difeso ed emendato dedicato a Ri-partimento e ossatura di tutto il discorso, ascriveva a motivo di lo-de di ogni «componimento che per molte e diverse materies’aggiri» la presenza, in esso, di un’«unione di tutte le parti» taleche «sempre il tutto in ogni sua parte s’intende».20 Difficilmentesi potrebbe dare una definizione più efficace della sistematicitàsfaccettata e tortuosa della scolastica barocca. La cultura barocca– satura di passato fino alle soglie dell’implosione, e ancora alie-na dalle selettive tassonomie dell’enciclopedismo settecentesco –gettava sulla materia multiforme e ribollente di una plurisecolaretradizione di pensiero le maglie vigorose di una sistematicità e diuna confessionalità ereditate dalla prima scolastica. Non poteva-no sortirne che vaste ed imponenti sistematizzazioni, peraltropervase da un’intima vitalità, mosse da una sorta di intensa forzaautopropulsiva che può ricordare l’etimo strutturale, la spintaespansiva virtualmente inesauribile di certi monumenti della let-teratura barocca, dall’Adone del Marino al più volte citato Can-nocchiale aristotelico, o certi aspetti dell’arte dell’epoca, sedottadalla fascinazione delle “metafore di pietra”, come le chiamava ilTesauro – del trompe l’oeil, della mise en abîme, della linea ricor-siva, tortile, ossessivamente ritornante su se stessa, sulla propriaimpalpabile scia.

La forma della quæstio e dell’articulus scolastici – a un tempomodalità argomentativa e struttura letteraria –, definitasi almeno

19. MASTRIUS – BELLUTUS, In De gen., disp. 5, q. 3, a. 1.20. D. BARTOLI, Dell’uomo di lettere difeso ed emendato, in Trattatisti...

cit., p. 338.

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a partire da Anselmo d’Aosta nei suoi tratti ieratici di schematici-tà e limpidezza, e che ancora nel Gaetano e in Melchior Cano sisposava armonicamente con le simmetrie e le ponderazioni dellatino rinascimentale, in Mastri – e già, in parte, nella prosa tar-do-rinascimentale e manierista di un Suárez – si dilata, si seg-menta, si effonde nei mille rivoli delle opinioni distinte o con-trapposte, delle innumerevoli sfumature di pensiero, fermo re-stando l’insistito e quasi coatto ritorno sulle posizioni acquisitedell’ortodossia dottrinale.21 Analogamente, se mi si concede l’ardi-to accostamento, l’austero contrappunto dell’ars antiqua, con ilsuo procedere concorde e pacato e il suo placido interagire di can-tus firmus e vox organalis, con il Barocco si movimentava e si fra-stagliava nei giochi d’eco e nei virtuosismi imitativi – pur ricondot-ti entro una severa disciplina formale – della fuga bachiana.

2.2 «Admirabilis ratio»

Si tratta, ora, di compiere l’“alto passo” del riscontro diretto,sui testi del filosofo, di quanto si è venuto fino ad ora afferman-do; e si tratta, di conseguenza, di passare dal piano delle conce-zioni stilistiche ad un’ottica che contempli anche – pur se semprenel loro ripercuotersi sulla resa formale – alcuni essenziali nucleispeculativi.

2.2.1 «Corpus etherogeneum»

Può essere interessante in primo luogo (sfiorando appena levaste e complesse implicazioni che esso comporterebbe se estesodall’analisi dei modi e degli usi stilistici ad una più ampia otticadi storia della cultura) soffermarsi su alcuni passi delle operescritte da Mastri in collaborazione con Bonaventura Belluto, in-centrate direttamente su problemi scientifici ampiamente dibat-tuti nella cultura dell’epoca. Si legge, ad esempio, in una paginadello In De generatione et corruptione: «Duplex processus est in

21. Da vedere, riguardo a questa fusione di latino medievale e latino rina-scimentale illuminata a tratti da “splendori barocchi”, ciò che ne scrive, consquisita sensibilità letteraria, Piero Di Vona in La scolastica dell’età post-tridentina e del Seicento, in Storia della filosofia, a cura di M. Dal Pra, VII, Val-lardi, Milano 1976, p. 756.

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formis, unus ascendendo ab imperfecto ad perfectum, ut a formaseminis ad formam embrionis, a forma embrionis ad animam, al-ter processus est descendendo e converso a perfecto ad imperfec-tum, resolvendo se in cadaver, et in feces».22 Com’è evidente, gliautori non si discostano, sul piano concettuale, dall’ortodossiaaristotelica; il passo appare anzi come una variazione su alcuniconcetti e sintagmi dello Stagirita, con particolare riferimentoalla pagina del De generatione in cui sono posti in luce gli scam-bievoli rapporti tra generazione e corruzione, tra il passaggio e ilmutamento “verso l’essere in senso assoluto” e quelli “verso ilnon essere in senso assoluto”.23 Nondimeno, sul piano stilistico,quel glaphyros karakter, quell’“eleganza” di stile fatta di precisio-ne definitoria e limpido rigore d’esposizione e argomentazione chegià gli antichi trattatisti attribuivano alle pagine dello Stagirita, eche attraverso l’Aristoteles latinus si sarebbero trasfusi nella clari-tas e nella subtilitas delle scritture della prima scolastica, in passicome quello dello In De gen. appena citato sono turbati e movi-mentati in una secentesca periodo composita scandita dall’antitesichiastica (ascendendo ab imperfecto ad perfectum (...) descendendoa perfecto ad imperfectum) e dalla variatio fra cola corrispondenti.Soluzioni stilistiche volte, si direbbe, a rendere, nel moto internodella pagina, le ricorsive metamorfosi, le “veci eterne” (per ri-prendere, radicalmente decontestualizzata, una espressione fo-scoliana) che percorrono e agitano la materia vivente (e che sono,beninteso, tutte orientate e fatte convergere verso un’aristotelico-scolastica causa finalis, o ricondotte a quei logoi spermatikoi, aquelle rationes seminales che dal pensiero stoico arrivano, spo-gliate ormai di ogni connotazione in senso panteistico o ilozoisti-co, fino all’Agostino del De diversis quæstionibus). In pari tempo,certe precise e anche crude scelte lessicali (embrio, cadaver, feces)potrebbero suggerire un cauto accostamento alle pagine vivide evibranti in cui Francesco Redi trascriveva i risultati delle sue os-servazioni circa la generazione degli insetti da «fracidume di ca-davero corrotto» e da «sozzura di qualsiasi altra cosa putrefatta»ove possa trovare “luogo” e “nido” la «semenza reale e vera delle

22. MASTRIUS – BELLUTUS, In De gen., disp. 8, q. 2, a.1.23. Cf. ARISTOTELE, Sulla generazione e la corruzione, I (A), 3, 318a-b.

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piante e degli animali»24 (il che non toglie, è bene ripeterlo, che,sul piano concettuale, la fedeltà di Mastri e Belluto all’auctori-tas, sebbene non priva di intima vitalità speculativa, è lontanadalla spregiudicata e antidogmatica forma mentis della scienzagalileiana).

Ancor più interessante soffermarsi sull’operazione di riuso, esi potrebbe dire sull’abile falsificazione, quasi ai limiti della ma-nipolazione intertestuale, del sottile gioco letterario, che gli auto-ri compiono su alcuni passaggi del galileiano Sidereus nuncius,esplicitamente citato senza alcuna nota di condanna o di radicalerifiuto.25 Pare anzi che i due teologi, secondo una prospettiva dipensiero foriera di rilevanti implicazioni sul piano della costru-zione formale e stilistica della pagina, vogliano in certo modo“salvare i fenomeni”, accogliere le risultanze della “sensata espe-rienza”, conciliandole però con il precetto, sancito dall’auctoritas,della coelorum incorruptibilitas et integritas.

Vero è che delle macchie solari gli autori, rifacendosi alla teo-ria degli epicicli, cara all’astronomia tolemaica, danno proprio laspiegazione rigettata da Galileo, imputandone l’origine alle om-bre che non meglio precisati quædam opaca corpuscula e stellulævariæ, et irregularis figuræ proietterebbero sulla superficie dell’a-stro. Ciò non toglie che la vivezza e la precisione del passo ma-striano e bellutiano – denso di rapide antitesi, pullulante di mi-nutissimæ sententiæ – che descrive il manifestarsi delle macchiesolari («<Sol> quibusdam maculis respersus apparet tamquamnubeculis, sunt enim exiguæ magnitudinis, dissimilis omnino fi-guræ, et inæquales, augentur, et diminuuntur, modo paucioressunt, modo plures...») abbiano davvero in sé, letterariamente,qualcosa di galileiano; e basterà, per averne conferma, confronta-re il passo appena riportato con una pagina della prima lettera aMarco Welser sulle macchie solari, in cui si legge che esse «siproducono e si dissolvono in tempi più e men brevi; si conden-sano alcune di loro e si distruggono grandemente da un giorno

24. Fr. REDI, Esperienze sulla generazione degli insetti, in Scienziati del Sei-cento, a cura di M.L. Altieri Biagi e B. Basile, Ricciardi, Milano – Napoli 1980,pp. 591-592.

25. Farò riferimento a MASTRIUS – BELLUTUS, In De cœlo, disp. 2, q. 2, a. 3.

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all’altro; si mutano di figure, delle quali le più sono irregolarissi-me, e dove più e dove meno oscure».26

Discorso non dissimile per le macchie lunari. I due teologinon ignorano e non negano l’evidenza delle osservazioni riferitenel Sidereus nuncius. Anzi, le maculæ sono descritte, nel citato ar-ticolo dell’In De cœlo, con scelte lessicali non lontane da quelle,sapienti e incisive, del latino galileiano: come per l’astronomo lasuperficie lunare è aspera, inæqualis, «ingentibus tumoribus, pro-fundis lacunis atque anfractibus undiquaque conferta»,27 così, se-condo Mastri e Belluto, essa può essa può, se considerata sotto laspecie esteriore, materiale, meramente fenomenica, apparire se-gnata da asperitas, montuositas, anfractuosa, ac tortuosa inæquali-tas; espressione, quest’ultima, con la sua densità compendiosa ela sua nettezza concettualizzante e astrattiva, profondamente ba-rocca. Vero è che i due teologi sembrano, a un dato punto, ac-creditare proprio la spiegazione attribuita, nella prima giornatadel dialogo Dei massimi sistemi, all’ottuso aristotelico Simplicio:le macchie lunari, con la loro montium, vallium, et antrorum ap-parentia deriverebbero da una diversitas recipiendi lumen dovutaalla disomogenea distribuzione di opacitas e perspicuitas sulla su-perficie del satellite. Nondimeno, la realtà sensibile, la “sensataesperienza” delle macchie lunari non è ignorata o negata: «Possetconcedi asperitas ista in Luna, dummodo non admittatur va-cuum, vel corporum penetratio, sed solum corpus fluidum re-plens cavitates illas» (ipotesi, del resto, quest’ultima, che nel Si-dereus nuncius Galileo ancora non respingeva esplicitamente,come avrebbe invece fatto in séguito). La luna (si noti la sottileacrobazia concettuale) «dicitur corpus simplex substantialiter,non accidentaliter», sul piano cioè delle essenze, delle realtà in-trinseche e prime illuminate dalla ratio ratiocinans, non su quellodella superficie dei fenomeni, della loro “spoglia multicolore”,come la chiamerà Hegel. La luna potrà anche essere corpus quod-dam Etherogeneum, purché non ex elementis conflatum, salvecioè la natura integra e perfetta e la quintessenziale purezza che

26. G. GALILEI, Istoria e dimostrazione intorno alle macchie solari e ai loroaccidenti, in IDEM, Opere, V, Barbera, Firenze 1968, p. 108.

27. ID., Sidereus nuncius, in IDEM, Opere, I, a cura di F. Flora, Ricciardi,Milano – Napoli 1953, p. 10.

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devono contraddistinguere il mondo celeste. Ancora una volta,gli autori, pur nell’ossequio all’auctoritas, riescono a salvare i fe-nomeni e, con essi, la facoltà di rifletterne e ritrarne le manifesta-zioni molteplici e cangianti attraverso la sostanza letteraria dellascrittura filosofica. Questo aspetto è confermato dal passo sullaVia Lattea, che ricalca quasi alla lettera le vivide formulazioni delSidereus Nuncius: «Stellæ nebulosæ dictæ, ac via lactea aliud nonsunt, quam cumulus», detto altrove “congeries”, «minutissima-rum stellularum» (in modo analogo, Galileo parla di «innumera-rum Stellarum coacervatim consitarum congeries», di «Stellula-rum mirum in modum consitarum greges»).28

2.2.2 «Analoga univocatio»

Ci si imbatterà, poi, nella vasta nozione di analogia (conquelle, ad essa collegate, di arguzia, “concetto”, metafora), che sipuò dire costituisca la cifra essenziale, e quasi l’emblema, dellasensibilità e della Weltanschauung barocche, e che rappresentadel resto uno degli strumenti più versatili e più affascinanti di cuidispongano il pensiero e l’espressione umani.29 A quanto mi risul-ta, è ancora tutta da scrivere, e potrebbe riservare non pochesorprese, una storia delle duplici manifestazioni – in sede di ri-flessione filosofica da un lato, di concezione e prassi della scrittu-ra letteraria dall’altro – del principio d’analogia. Si potrebbe di-re, abbozzando una traccia interpretativa puramente congettu-rale, che, come nel medioevo la dottrina dell’analogia entis (chese in un’ottica trascendente poteva condurre, ex gradu, ad unaconcezione, per quanto parziale, mediata, metaforica, di Diosummum analogatum muovendo dagli esseri inferiori, sul pianognoseologico associava la visione corporale, la acies intuentis, aquella intellettuale, a quella ricevuta “con gli occhi della mente”e commisurata alla divina essentia30) trovava riscontro nella con-

28. Id., pp. 44 e 48.29. Rinvio a questo proposito al denso studio di E. MELANDRI, La linea e il

circolo. Studio logico-filosofico sull’analogia, Il Mulino, Bologna 1968, in cui, purall’interno di un’impostazione metodologica di stampo esplicitamente materia-listico-dialettico, sono toccate tanto la concezione del Tesauro quanto quelladeuteroscolastica (tra Gaetano e Suárez).

30. Cf. ad esempio THOMAS AQUINAS, De ver., q. 2, a. 3, ad 4-5.

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cezione stilnovistica della donna, e segnatamente del suo sguar-do e della sua visione, come medium fra la sfera dell’umano e ladimensione del Divino, così nel Barocco la scotistica analogiaunivocationis, che non solo superava l’abisso tra la trascendenzadivina e le forme della finitudine, ma tutto conciliava con la re-ciproca, universale coimplicazione degli enti in una Divinitàconcepita come infinita possibilità, si rifletteva, in sede lettera-ria, nella poetica della metafora, il cui fondamento filosofico ri-posava sulla convinzione che, come scriveva Tesauro, anche “laNatura” e “il grande Iddio” avessero «espresso con argutezze overbali o simboliche gli lor più astrusi e importanti secreti» (e sipensi, a questo riguardo, a pagine come il celeberrimo “elogiodella rosa” nell’Adone, a quella rosa che così è “sole in terra”come il sole è “rosa in cielo”, o all’impiego oratorio dei “con-cetti predicabili”, che rappresentano per così dire un ponte tralocus retorico e locus teologico, e che altro non sono se non sot-tili analogie che associano a un’immagine o ad un simbolo unanozione teologica o morale o una figura o un episodio della sto-ria sacra). Non a caso, allora, la tradizione poetica simbolista epost-simbolista tenterà proprio attraverso l’universelle analogie,la sinestesia, le correspondances di ricomporre una percezionedel reale lacerata e frammentata dallo scientismo, di ridare lucee senso ad una materia oscurata dall’eclissi della trascendenza.Qualcosa di simile avveniva, forse, anche nell’orizzonte cultu-rale deuteroscolastico: attraverso l’analogia, e in generale attra-verso il recupero e il ripensamento della filosofia scolastica, unacultura esplicitamente confessionale, non priva di dogmatismoma nemmeno di interna vitalità speculativa, reagiva alle fratturee ai sovvertimenti della rivoluzione scientifica, che – come scri-veva John Donne in An Anathomy of the World – aveva vistonel firmamento «tante parti eccentriche, / tante diverse linee ver-ticali, tante trasversali / da sproporzionare» la “pura forma” delcosmo tolemaico.

Tornando da questi accostamenti metastorici al terreno spe-cifico della scrittura di Mastri, può essere interessante analizza-re proprio un passaggio delle pagine dedicate al problema del-l’analogia, e di cui Di Vona ha offerto in più occasioni una cir-costanziata analisi a livello filosofico.

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Vi è, innanzitutto, un passaggio che, a livello concettuale,conferma ulteriormente il legame che può connettere il pensierodel Meldolese alla sensibilità letteraria del Barocco. Tra le meta-fore che esprimono (secondo una tradizione che rimonta all’Ari-stotele della Poetica e della Retorica) l’analogia proportionalitatis,Mastri contempla quella in virtù della quale «risus dicitur de pra-to florente per quandam comparationem, et proportionem adhominem letum».31 A quella stessa metafora naturalistica, del re-sto, faceva riferimento, en passant, già il Gaetano: «Ridere unamsecundum se rationem habet, analogum tamen metaphorice estvero risui, et prato virenti, aut fortunæ successui».32 Sennonché,il più volte citato Tesauro indugiava lungamente proprio sullepossibili, innumerevoli variazioni di quella metafora, “prata ri-dent”, la quale, pur non essendo, è vero, «argutezza intera (...),ma simplice metafora», si rivela però «feconda genitrice (...)d’innumerabili argutezze».33 Vero è, d’altro canto, che, come haosservato Di Vona, l’analogia proportionalitatis soddisfa, in pen-satori come il Gaetano, un’aspirazione rinascimentale ad un re-cupero dell’«originario senso ellenico e classico della dottrina»,34

il che si traduceva, stilisticamente, nel De nominum analogia epiù ancora nei Sermones, in un periodare classicamente armonio-so, bilanciato, innervato da corrispondenze, isocolie, clausoleritmiche (e basta leggere le prime, programmatiche righe del Denominum analogia per cogliere l’essenza di una cifra stilistica fat-ta di parallelismi, corrispondenze, inversioni sintattiche: «Invita-tus et ab ipsius rei obscuritate, et a nostri ævi flebili profunda-rum litterarum penuria, de nominum analogia in his vacationibustractatum edere intendo»35); non a caso, il Castelvetro, nella Poe-tica d’Aristotele vulgarizzata e sposta, allegando l’esempio empe-docleo della vecchiaia come “sera” o “tramonto” della vita, sen-tenziava – a margine del noto passo aristotelico, per l’esattezzaPoetica 1457b, dedicato ai diversi tipi di metafora, tra cui appun-to quello kata to analogon – che «la traslatione buona (...) ha la

31. MASTRIUS, In Met., q. 5, a. 1.32. Thomas DE VIO, De nominum analogia, cap. 3, n. 24.33. E. TESAURO, Il Cannocchiale aristotelico, in Trattatisti... cit., pp. 26ss e 73ss.34. DI VONA, La scolastica... cit., p. 755.35. DE VIO, De nominum... cit., Proemium, 1.

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comunità, nella quale concorrono ugualmente le due cose diver-se, ha la proportione ed è scambievole».36 Si può dire tuttavia cheMastri, pur contemplando anche la tomistica analogia proportio-nalitatis, inseguiva proprio le filiazioni, le sottili distinzioni, le“acutezze” che da essa potevano scaturire. L’analogia univocatio-nis, allargando le sue maglie fino ai confini estremi della latitudogradualis dell’ente,37 finiva, proprio come le “metafore di pietra”dell’architettura coeva, per popolare di sfaccettature e gradazioniinnumerevoli gli euritmici “vuoti” della proportio, turbandone idelicati equilibri. D’altra parte, già nel pensiero dei due doctores,remoti ma sempre vivi capiscuola, si profilavano due visioni delreale, e di conseguenza due concezioni estetiche e due implicitiideali stilistici, distinti, se non opposti: alla concezione tomistadella pulchritudo come sinergia di proportio, integritas e claritas,l’estetica scotista è indotta dalla teoria della pluralità delle forma-litates ad opporre una visione della bellezza come «aggregatioomnium convenientium» – visione “analitica”, “relazionale”,“meno unitaria”.38 In modo non dissimile, allo stile della prosadell’Aquinate, al suo latino perlopiù fluido, limpido, prevalente-mente paratattico, alla “sottigliezza d’espressione” e al “cantoben ritmato”, risultante dall’“armonia” di filosofia e teologia, dicui parlava Lorenzo Valla nel suo peraltro controverso e sottil-mente ambiguo Encomium,39 si contrapponeva, accentuato anchedalle vicissitudini filologiche, il carattere più teso, intricato, atratti quasi involuto ed oscuro del latino di Scoto, del maestro icui dicta, come voleva una certa tradizione che trae origine daglistessi primi discepoli del Sottile, «communem transcendunt fa-cultatem».40

Queste osservazioni possono essere corroborate, al livello mi-crostrutturale della proposizione e del periodo, dall’analisi di un

36. L. CASTELVETRO, La Poetica d’Aristotele vulgarizzata e sposta, II, a curadi W. Romani, Laterza, Roma – Bari 1978, p. 40.

37. MASTRIUS, In Met., q. 5, a. 2.38. Cf. U. ECO, Sviluppo dell’estetica medievale, in Momenti... cit., pp.

175 e 187.39. L’Encomium si può leggere, in traduzione italiana, in L. VALLA, Scritti

filosofici e religiosi, a cura di G. Radetti, Sansoni, Firenze 1953.40. Cf. C. BALIC, La scolastica postomistica: Giovanni Duns Scoto, in Gran-

de antologia filosofica, IV, Marzorati, Milano 1954, p. 1348.

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passaggio della seconda disputatio dello In Met., passaggio in cuiMastri sintetizza, meglio che altrove, il proprio pensiero in mate-ria di analogia: «Dicendum est (...) ens reale ad Deum, et creatu-ram, substantiam, et accidens non esse æquivocum, sed analo-gum univocum, analogum scilicet analogia atributionis, cum quaconsistit univocatio». Ove è evidente come lo stile, in uno deiluoghi di maggiore densità speculativa, fonda, per così dire, l’ele-mento della simmetria e del rigore argomentativo con quellodella molteplicità e della varietas, accostando parallelismi di cop-pie oppositive (Deum / creaturam – substantiam / accidens) all’an-titesi (non / sed), cui sottentra, proprio nel momento in cui affio-ra l’analogum univocum, la variatio con funzione esplicativa («sci-licet analogia attributionis»), cui si aggiunge, con funzione appa-rentemente tautologica o pleonastica, e in realtà rafforzativa,l’annominazione, che eleva, per così dire, il precedente attributoa sostantivo astratto (univocatio). A livello di strutture più ampie,sarà interessante soffermarsi sul passo con cui si apre la quæstioquinta della medesima disputatio; passo in cui Mastri, con unasorta di compendiosa dossografia erudita, passa in rassegna di-verse posizioni (tanto che si potrebbe quasi parlare, con metaforabarocca, di “teatro filosofico”, come è stato fatto per Suárez), eche, per ragioni di economia espositiva, può essere riportato soloper stralci, sufficienti però, a mio avviso, a rendere un’idea dellaricchezza e della varietà di questo stile: «Prima <sententia> asse-rit ens esse mere æquivocum tam respectu Dei, et creaturæ,quam substantiæ, et accidentis, itaut hæc omnia in nullo entisconceptu convenire dicantur, sed in solo entis nomine (...). Se-cunda docet contra ens esse mere univocum tam respectu sub-stantiæ, et accidentis, quam Dei, et creaturæ absq. ulla analogiapermixta (...). Tertia negat utrumque esse sive æquivocum, velunivocum, et asserit esse purum analogum tam respectu Dei, etcreaturæ, quam substantiæ et accidentis (...). Quarta tandem sen-tentia est Scoti, et Scotistarum asserentium ens quidem analogumesse respectu Dei, et creaturæ, substantiæ, et accidentis, sed talianalogiæ genere, quæ secum univocationem quoque compatiatur,saltim in grado quodam imperfecto».41 Le maschere del teatro

41. MASTRIUS, In Met., disp. 2, q. 5, a. 1.

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filosofico si succedono con varietà di forme e di colori, comepreparando l’avvento e il trionfo della scothica sophia. E il perio-dare di Mastri (pensatore non alieno, del resto, da forme di eclet-tismo, come già abbiamo visto, e come mostra la stessa genesidella dottrina dell’analogia univocationis) riflette, sul piano for-male, proprio questa varietà: anche a livello di macrostrutture, iparallelismi, le corrispondenze, le iterazioni di vocaboli e di co-strutti (si consideri, ad esempio, l’insistito ricorrere dello stessosintagma, già incontrato, «Dei, et creaturæ, substantiæ, et acci-dentis», e della subordinata infinitiva) si sposano ad elementi didifformità e di mutazione, come la netta antitesi, sia tra un pe-riodo e l’altro («Prima docet ens esse mere æquivocum (...) Se-cunda docet contra ens esse mere univocum») che all’interno diun singolo periodo («in nullo entis conceptu (...) sed in solo entisnomine», con ellissi del verbo nella coordinata), la variatio (allasubordinata di secondo grado del primo periodo corrisponde,nel secondo, un complemento), il sottile impiego epesegetico elimitativo di congiunzioni ed avverbi (mi riferisco all’ultimo pe-riodo, contraddistinto anche da un’ardita constructio ad senten-tiam, “tali analogiæ genere, quæ...”, che enfatizza proprio uno deitermini chiave di tutto il passo, “analogia”). Si può forse ripeterea proposito di Mastri ciò che Schopenhauer ebbe a dire di Suá-rez, cioè che dalle sue pagine parlava “l’intera scolastica”. Un si-mile auctorum pondus, come lo definiva lo stesso Meldolese, nonpoteva che tradursi nella ubertas di uno stile capace di accoglierela varietà e la complessità – pur incanalandole, infine, verso la re-ductio ad unum dell’ortodossia confessionale.

2.2.3 «Varia unitas»

Un altro aspetto del pensiero mastriano foriero di soluzionistilistiche di un certo rilievo è quello (si conceda anche a me unaagudeza analogica) della distinctio distinctionum, della divisionetra distinctio rationis ratiocinantis e distinctio rationis ratiocinatæ,cui poteva venire incontro, sul piano della scrittura, l’attitudinemanierista e barocca ad una retorica di forti antitesi. Retorica acui, del resto, i trattati dell’epoca (i quali, peraltro, perlopiù dis-suadevano il dialettico, lo scolastico, il magister da un impiegotroppo vistoso e meramente esteriore di artifici quali metafore o

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paronomasie, che avrebbe potuto compromettere e turbare l’in-segnamento della verità, rendendolo meno chiaro e meno rigoro-so) riconoscevano diritto di cittadinanza fra gli strumenti di cui ilfilosofo poteva avvalersi per variare e rendere più efficace il suodiscorso. Come scriveva Sforza Pallavicino nel diciannovesimocapitolo del suo Trattato dello stile e del dialogo, «usati con tem-peranza, i contrapposti di cose dilettano anche nelle scritturedella più seria filosofia»; “contrapposti” che, tra l’altro, possonoessere rafforzati da qualche «simiglianza di suono» che leghi «leparole significatrici del concetto».42

In un passo dello In Met., Mastri, discutendo «quot sint ge-nera identitatum, et disctinctionum», afferma «duo (...) esse pri-ma genera distinctionum, ac identitatum, nempe identitatem etdistinctionem ex natura rei seu præter opus intellectus; et ratio-nis, seu per opus intellectus, et hæc rursus subdividi in variasspecies iuxta variam rerum, vel realitatum, aut conceptuum uni-tatem, vel pluralitatem, in quibus fundantur».43 Alle opposizioni,rimarcate ora dall’omoioteleuto associato al chiasmo e al polipto-to (“distinctionum – identitatum – identitatem et distinctio-nem”), ora dall’ellissi e dalla variatio («ex natura rei seu præteropus intellectus; et rationis, seu per opus intellectus»), si affian-cano la varia unitas e la varia pluralitas di uno stile che coltivaimplicitamente l’aspirazione (comune già, nella cultura manieri-sta e pre-barocca, fatte tutte le debite e per certi versi radicali di-stinzioni dottrinarie e ideologiche, al Tasso dei Discorsi del poemaeroico come al Bruno del De la causa, principio et uno) ad unascrittura capace di salvaguardare e rispecchiare la molteplicitàdell’essere e del pensiero pur riconducendola, nel contempo, aduna qualche forma di unità, per quanto dinamica e proteiforme(si tratti di discordia concors, di coincidentia oppositorum o, piut-tosto, dell’ossimorica varia unitas di cui parla la pagina di Mastri,mirabilmente rispecchiata, nella parte finale dello stralcio ripor-tato, dal moltiplicarsi dei termini accostati per polisindeto ed en-fatizzati dall’ipèrbato, emblematico, che divide “variam” da “uni-tatem”). Si è autorevolmente parlato di uno “sguardo penetran-

42. S. PALLAVICINO, Trattato dello stile e del dialogo, in Trattatisti... cit., p. 213.43. MASTRIUS, In Met., disp. 6, q. 7, a. 2.

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te” che Mastri affonda «nelle pieghe più segrete degli enti».44 Èproprio attraverso il variopinto riflettersi delle immagini còlte daquesto sguardo sul tessuto stilistico della pagina che la ubertasmastriana trova il proprio fondamento ontologico.

Vi è un altro aspetto della teoria delle distinzioni che sortisceesiti stilistici di un qualche rilievo. In un altro passo dello InMet., Mastri, per chiarire la natura della ratio ratiocinata (insitanell’immanenza materiale e fenomenica degli oggetti, già presen-te, o almeno inchoata, in essi, ante opus intellectus), ricorre al-l’efficace similitudine, variamente articolata e sviluppata nei suoidettagli, del Sole, e degli effetti che le sue virtutes (luce, calore)sortiscono nella materia.45 Qui, la scrittura mastriana, pur senzanulla perdere della sua precisione astrattiva e definitoria e delsuo ostinato rigore argomentativo, tocca la superficie multiformee cangiante dei fenomeni con una versatilità e una duttilità chepossono trovare riscontro nella coeva prosa scientifica di un Redio di un Magalotti – fermo restando, ovviamente, che il metodoipotetico-sperimentale, di ascendenza galileiana, seguito da que-sti autori, è altra cosa dalla visione metafisica ed onto-teologicadel Meldolese.

La distinctio rationis ratiocinatæ, scrive Mastri (ferma alle so-glie dell’aisthesis, al di qua delle essenze, dei concetti puri, dellenozioni necessarie), non esige «a parte rei (...) extrema actualiterplura, et distincta, sed virtualiter solum, et æquivalenter»; essa,cioè, si arresta all’apparente molteplicità delle manifestazionisensoriali di un dato oggetto, «ut constat in exemplo allato devirtute calefactiva, et exsiccativa in Luce solari, quæ solum pluri-ficantur per opus intellectus Lucem solarem inadæquate conci-pientis nunc per modum calefacientis, nunc vero exsiccantis, er-go sunt genera distinctionum diversa, nec una coincidit cumalia».46 Nell’altro passo prima indicato, la sfera della percezionesensoriale è associata a quella della distinzione concettuale, senzaper questo perdere la sua concretezza e la sua evidenza: «Intel-

44. A. POPPI, Il contributo dei formalisti padovani al problema delle distin-zioni, in Problemi e figure della scuola scotista del Santo, Edizioni Messaggero,Padova 1966, p. 745.

45. MASTRIUS, In Met., disp. 6, q. 13, aa. 1 e 3.46. Id., q. 15, a. 1.

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lectus est eadem prorsus potentia, quatenus apprehensivus, iudi-cativus, ac discursivus, et tamen inquantum apprehensivus, nonest iudicativus, et contra; pariter eadem Lux solaris est desiccati-va luti, et liquativa ceræ; et tamen quatenus desiccativa non estliquativa; eadem albedo per eandem suam entitatem assimilaturalii albedini; et dissimilatur, vel non assimilatur nigredini, et qua-tenus est assimilativa, non est dissimilativa...». La prosa, innerva-ta anche qui da intrecci di parallelismi e di antitesi, riflette ladialettica di aisthesis e diairesis, di evidenza fenomenica e analisiintellettiva e concettuale. Ancora una volta, alla speculazione, edi conseguenza alla scrittura filosofica con la sua virtus abstracti-va, è demandata la funzione della reductio ad unum.

2.2.4 «Tamquam pelagus»

Prima di chiudere questo meramente esemplificativo e certoparziale specimen, ci si dovrà soffermare almeno su di un’altra,densa pagina: «Divina essentia (...) dicitur pelagus <omnium per-fectionum> (...) quia essentia divina spectata solum in sua for-mali, et quidditativa ratione, (...) habet infinitatem non solumformalem propriam, sed etiam primam, et radicalem»; tale essen-za «dicitur infinita (...) formaliter, et fundamentaliter, seu radica-liter, tamquam pelagus, a quo fluunt, et dimanant omnes perfec-tiones simpliciter» (e si notino, riguardo a quest’ultima espres-sione, anche la sensibilità stilistica e la sottigliezza con cui Mastriamplia e prosegue coerentemente la metafora, proiettando in es-sa i termini e i concetti della propria investigazione ontologica).47

Trovandosi di fronte all’esigenza di esprimere l’infinità di essenzee di attributi di cui si sustanzia l’ens realissimum, che conservanondimeno la propria divina unità (o meglio la propria inaltera-bile simplicitas, che Mastri distingue accuratamente dalla mera-mente potenziale unio generis), anche la scrittura teologica nonpuò più fare esclusivo affidamento sulle sottili distinzioni e sullesalde argomentazioni della ratio ratiocinans, ma deve far ricorsoall’analogia e alla metafora. Del resto, già l’orizzonte di pensierodella prima scolastica contemplava la consapevolezza che Dio, e isuoi attributi e i suoi modi, non potevano essere nominati se non

47. MASTRIUS, In I Sent., disp. 2, a. 3.

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La dimensione letteraria dei discorsi filosofici 187

per metafora: «omnia nomina dicta de Deo dicuntur metaphori-ce», tramite metafore plasmate a loro volta secundum analo-giam.48 Lo stesso Tommaso impiegava, traendola da GiovanniDamasceno, la grandiosa metafora dell’essere come «pelagussubstantiæ infinitum et indeterminatum»;49 metafora che, se certoveniva incontro al gusto barocco dell’imponente e dello smisura-to, dall’altro lato trovava conforto in Dante, che una concordetradizione, a partire almeno dal preumanesimo padovano, addi-tava come poeta theologus per antonomasia: tutte le “nature” «simuovono a diversi porti / per lo gran mar dell’essere, e ciascu-na / con istinto a lei dato che la porti»;50 la volontà di Dio è«quel mare al qual tutto si muove / ciò ch’ella crea e che naturaface».51 Si potrebbe dire che, al di là della metafora, c’è il silen-zio, o, per meglio dire, il dominio della beata visio, che non tolle-ra di essere mediata verbaliter. Ma non si deve credere che il ter-reno di questa visio coincida con il Mistico di Wittgenstein, conciò che non può essere detto chiaramente e su cui, dunque, sideve tacere. Come si è visto, il dominio della scrittura mastriana,con la sua ricchezza e la sua efficacia terminologiche e la suadensità e la sua tensione retoriche, si può dire venga quasi a co-incidere con la sfera della possibilità di essere, con l’ente assuntonella misura della sua rigorosa effabilità, sia esso inteso verbalitero nominaliter, formaliter o identice, con il regno di ciò che, es-sendo extra nihil, non essendo cioè pura chimæra, non rifuggen-do l’esistere, può essere concepito, pensato e dunque detto, scrit-to – detto e scritto anche al di sopra di un’oggettiva denotazionedi dati sensoriali meccanicamente tradotti in rappresentazionimentali.

Si ritorna, per questa via (e non sfioro nemmeno la questionedell’“essenzialismo” della scolastica), alle radici stesse della meta-fisica occidentale, a quel Parmeinide secondo cui «non potresticonoscere ciò che non è, né potresti esprimerlo» – ed è, sul pianolinguistico, proprio con l’Eleate che nasce quella sostantivizza-zione dell’infinito e del participio di “essere” (come a voler con-

48. THOMAS AQUINAS, Summa theologiæ, I, q. 13, a. 3.49. Id., a. 11.50. Par., I, 112-114.51. Par., III, 85-87.

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ferire all’essere una pensabilità e un’effabilità salde, oggettive, as-solute) che costituirà, almeno fino ad Heidegger, una delle risor-se espressive essenziali di gran parte delle scritture filosofiche.

A tutto ciò può forse essere ricondotta – almeno sul pianoletterario – la valenza fondamentale del pensiero di chi, comescriveva, all’indomani della morte di Mastri, Giovanni FrancescoVistoli in un sonetto celebrativo di fattura tutt’altro che sprege-vole, e che pare arieggiare certe movenze della maggiore poesiafilosofica dell’età della Controriforma, dai sonetti del Bruno allepoesie del Campanella, aveva osato «fissar nel divin sole il ci-glio, / e penetrar senza temer periglio / ne l’ampio abisso dell’e-tereo lume»52 – in quella “prima luce” che, come scriveva, avva-lendosi anch’egli di metafore dantesche, Torquato Accetto nelsecondo capitolo del trattato Della dissimulazione onesta, «tantosi leva da’ concetti mortali, internandosi nel suo profondo, connodo d’amore, tutto quello che si spande per l’universo».53

52. Il testo si legge in FORLIVESI, “Scotistarum princeps”... cit., p. 313, nota 11.53. T. ACCETTO, Della dissimulazione onesta, a cura di S.S. Nigro, Einaudi,

Torino 1997, p. 12.