IL DISORDINE UMANO RACCONTATO A MIO NIPOTE

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La vicenda narrata ne Il disordine umano raccontato a mio nipote si svolge nella Germania dell’immigrazione più recente, ma potrebbe essere uno qualsiasi dei paesi d’Europa, compresa l’Italia. È l’ordinaria storia di un “respingimento”, priva di particolari raccapriccianti come quelli a cui ci hanno abituato le cronache di Lampedusa, o della Libia, che descrivono corpi senza nome e senza storia alla deriva nel Mediterraneo. Ma dalle pieghe di una storia semplice Aicha Bouabaci, alternando la narrazione degli avvenimenti all’evocazione e alla fervida denuncia, con la sua prosa soffusa di lirismo estrae interrogativi e temi di riflessione stringenti anche per noi. Dalla sua posizione di migrante del tutto particolare è in grado di penetrare i sentimenti dei suoi conterranei magrebini migrati in Europa e condividerne umiliazioni e speranze.

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Aicha Bouabaci

Il disordine umanoraccontato a mio nipote

Romanzo

Prefazione di Ada Donno

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Edizioni KurumunySede legaleVia Palermo 13 – 73021 Calimera (Le)Sede operativaVia San Pantaleo 12 – 73020 Martignano (Le)Tel e Fax 0832 801528

www.kurumuny.it • [email protected]

ISBN 978-88-95161-61-7

Stampato presso Martano Editrice Z.I. Lecce

Titolo originale: Le désordre humain conté à mon petit-fils© Casbah Editions, Alger – 2002

Traduzione dal francese di Viviana IngrossoRedazione di Ada DonnoIn copertina e all’interno disegni di Rita Goffredo

© Edizioni Kurumuny – 2011

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5 Prefazione Ada Donno

17 Il disordine umano raccontato a mio nipote

93 Postfazione Aicha Bouabaci

Indice

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PrefazioneAda Donno

Aicha Bouabaci è una donna dolce e assorta, con unsorriso gentile e un velo di malinconia che non l’abban-dona mai, come il ricordo di un dolore. è nata in Algeriain una famiglia – come lei scrive – “con le nonne felice-mente ingarbugliate” e vive da tempo in Germania. Hascritto romanzi, molti racconti e poesie, numerosi arti-coli e saggi, alcuni dei quali tradotti in diverse lingue.Frequentando con lei negli anni scorsi gli appuntamentiperiodici delle donne del Mediterraneo, dove non man-cava mai di portare piccoli saggi sapienti della sua pa-rola letteraria, mi lasciavano ogni volta sorpresa eammirata l’estro e il rigore con cui preparava le sue co-municazioni, che quasi sempre erano il racconto ispiratoe commosso, ricco di spunti e sentimenti, di esperienzeinteriormente rivissute.

Il disordine umano raccontato a mio nipote richiamanel titolo, penso volutamente, i fortunati libri-saggio diBen Jelloun, ma il testo di Aicha s’inscrive piuttostonella tradizione del romanzo-lettera: per la strategia nar-rativa adottata, inquieta e spezzata, che consente all’au-trice di alternare la narrazione degli avvenimenti allariflessione e all’evocazione, di modulare i toni della fer-vida denuncia a quelli della tenerezza; per la sua prosasoffusa di lirismo che estrae gli interrogativi e i temidalle pieghe più sofferte delle vite narrate; per la sua arteche cerca il senso profondo delle vicende umane anchenegli episodi tratti dall’attualità minima e misera, pro-ducendo un impatto di lettura forte e inaspettato.

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La vicenda qui narrata si svolge nella Germania del-l’immigrazione più recente, dopo il crollo del muro e l’An-schluss dell’Est tedesco realizzata a tamburo battentedall’Ovest rampante. è ambientata tra il 2000 e il 2001nel paese in cui Aicha vive la maggior parte dell’anno.Ma avrebbe potuto essere ieri e in un altro qualsiasi deipaesi d’Europa. Perfino in un altro qualsiasi paese delNord del mondo.

è la storia di un “respingimento”. Respingimento è una brutta parola coniata dal più

recente Ordine politico europeo, quello ossequioso degliinteressi economici forti, che ha aperto le frontiere a ca-pitali e merci ma non con pari generosità alle persone.Una brutta parola che si utilizza per definire l’atto delrifiuto opposto ai migranti che risultano in difetto deiprevisti Documenti d’ingresso o di soggiorno. Per il rila-scio di detti Documenti, l’Ordine europeo ha definito deicriteri il cui rigore si misura in difficoltà e tempo neces-sario per ottenerli, ma non solo. I criteri servono infattiall’Ordine per distanziare, gli uni dagli altri, quelli cheentrano e soggiornano nei diversi paesi europei: primagli Europei dentro Schengen, poi gli Europei di fuori, poigli extracomunitari. Fra questi ultimi ci sono ulterioridistanziamenti, più o meno dicibili, che complicano que-sta invisibile scala gerarchica. Ci possono anche esserealtre variazioni dell’ordine di scala, dovute a storiche cir-costanze o improvvise nuove urgenze sociali e politiche.

L’abbondanza di regole, tuttavia, non ha scoraggiatola multicolore umanità che preme su quella che Aichachiama la “frontiera dell’agiatezza e del progresso”, e chespesso riesce ad introdursi nelle sue maglie più o menostrette e sorvegliate in maniera “irregolare”. Ma a questopunto scatta il respingimento, che in certi casi contem-

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plati viene detto “espulsione con accompagnamento allafrontiera”. Recentemente sono state escogitate anchemodalità di respingimento che agiscono prima ancorache gli “irregolari” possano avvicinarsi alla frontiera espiegare le ragioni per cui chiedono di entrare.

Comunque sia, il respingimento è il solerte allonta-namento degli irregolari dagli occhi (e dalle coscienze) dicoloro che l’Ordine europeo si preoccupa di tutelare. Innome della loro Sicurezza.

Il fatto è che, da che mondo è mondo, l’Ordine si le-gittima in nome della Sicurezza di coloro sui quali vige,attraverso dispositivi più o meno brutali di esclusionedegli altri.

Nell’antica polis greca, dove con orgoglio si cercano leradici della Moderna Democrazia Universale, c’erano ipolìtai, i cittadini, e c’erano gli xènoi, gli stranieri. Glistranieri erano tutti quelli che dimoravano fuori dei con-fini delle poleis, oppure potevano stare dentro ed eranotollerati, ma in posizione subordinata. I cittadini immi-grati da un’altra polis erano chiamati meteci: a loro avolte veniva riconosciuta la cittadinanza, a seconda dellecircostanze e a discrezione delle autorità. Gli stranieri egli schiavi (che di solito erano prigionieri di guerra) eranonon-cittadini. Le donne erano non-cittadine di fatto, per-ché erano sotto tutela ed esercitavano i diritti di cittadi-nanza solo per interposto padre, marito o fratello.

Sul gioco dell’esclusione/inclusione – in base all’ap-partenenza sociale o etnica o di genere – si reggeva l’Or-dine nella comunità politica antica, codificato e di solitoindiscutibile.

La moderna polis globale non può però giustificarel’esclusione con l’appartenenza sociale né con quella digenere – non per niente ci sono state di mezzo le Grandi

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Rivoluzioni che hanno prodotto le moderne Costituzioni –ma ha bisogno di contemplare comunque dei “dispositividi distanziamento” (li ha chiamati così l’autorevole so-ciologo Norbert Elias) e si riserva ancora di marcare iconfini, anche quelli interni, sulla base dell’apparte-nenza etnica e del paese d’origine.

Un dispositivo davvero formidabile contro gli immi-grati è lasciarli vivere perennemente in precarietà e sottolo scacco dell’espulsione. Smisurato.

A ben guardare, i confini marcati sono sociali e diclasse anche quando vengono chiamati con altro nome,ma questo è un discorso che ci porta più lontano.

Nella moderna polis globale l’Ordine costruisce la sualegittimazione sull’esclusione dell’umanità multicoloreche brulica all’interno oppure intorno alle frontiere e checompone quelle “vite di scarto” (come le ha chiamate unaltro autorevole sociologo, Zygmunt Bauman) in pe-renne transito tra estraneità ed integrazione, discrezio-nalità e normazione, marginalità ed inclusione, chepossiamo incontrare ogni giorno.

Quella narrata da Aicha Bouabaci è una ordinariastoria di respingimento, dunque, neanche particolar-mente drammatica, se consideriamo che è priva di par-ticolari raccapriccianti come quelli contenuti nellecronache di Ceuta, o di Lampedusa, o della Libia, quelleche descrivono corpi senza nome e senza storia alla de-riva nel Mediterraneo.

Non sempre è necessario indugiare su dettagli or-rendi per ottenere attenzione e forse comprensione. Avolte basta dare un nome a quei corpi e farsi voce nar-rante delle loro piccole storie di dolore.

Come quella di Ibrahim, immigrato in Germania dadiversi anni, di sua moglie Ibtissam, e del loro piccolo

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Ilyès. Ibrahim, avendo una famiglia da sostenere, sop-porta con pazienza di vivere la condizione di tanti altriimmigrati, paria nella città globale, con un lavoro pre-cario e sottopagato, socialmente invisibile, facilmente ri-cattabile.

Sennonché Ibrahim, nel suo passato di immigrato, hacommesso un errore: un’infrazione, un’impazienza digioventù. Si trattasse di un cittadino legittimo, le Auto-rità sorvolerebbero, tanto più che Ibrahim è disposto apagare il suo piccolo debito pur di vivere libero. Ma l’Or-dine che è stato violato non dimentica ed è inflessibilenella punizione. La piccola famiglia deve andarsene,sconfitta, tornare là da dove era partita pensando inge-nuamente di avere il diritto di scegliere il paese nel qualecostruire il proprio futuro.

Ma non partiranno soli: alla cerimonia dell’espul-sione, su cui s’indugia con tenerezza minuziosa, li ac-compagneranno come in trionfo l’affetto e la solidarietàdegli amici che restano dentro la frontiera e rappresen-tano quella “Umanità dolce” che si dà la mano “pour tis-ser le voile de la Renaissence”.

Dalle pieghe di questa storia semplice Aicha estraeinterrogativi e temi di riflessione stringenti anche pernoi. A quale nazione appartiene il piccolo Ilyès nato dagenitori immigrati in terra germanica? Quali sono i suoidiritti? Su quale passaporto può essere iscritto per avereun titolo di viaggio che gli consenta di attraversare lefrontiere?

E poi: che ne sa il piccolo Ilyès dei dispositivi di esclu-sione in cui è incappato alla nascita? E che ne sa didotte disquisizioni, se sia meglio legare il riconoscimentodella cittadinanza all’ancestrale concezione dello jussanguinis oppure a quella territoriale dello jus soli, o se

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né l’una né l’altra siano più adeguate ai bisogni di unaumanità mobile e plurale, com’è quella odierna delle mi-grazioni e della multiculturalità?

Il gioco dell’inclusione/esclusione è davvero l’unicomodo in cui si può costruire la comunità umana mo-derna? E chi stabilisce cos’è Ordine e che cosa Disor-dine?

L’antica mitologia greca raccontava l’evoluzione dalChaos primigenio – un vuoto oscuro prima del tempo –al Kosmos, che era invece ordine e armonia. Dall’eter-nità al tempo, dal vuoto alla Terra, agli astri, alle genea-logie degli dei, degli eroi e degli uomini. Il passaggio èsegnato dall’intervento di Zeus olimpico, dio intelligentee portatore d’ordine, il quale ingaggia una dura guerracontro i Titani, divinità primordiali dell’oscurità e dellabrutalità, che incarnano il disordine: sottomesse infinee relegate nel Tartaro, sono però sempre in agguato, co-stante minaccia di regresso allo stato di Chaos.

Il mito greco è la metafora di una verità semplice:l’umanità ha bisogno di ordine. L’esistenza di regole lapercepiamo come ordine e ci dà sicurezza; ciò che per-cepiamo come non conforme alle regole, è disordine e ciappare una minaccia. Pertanto l’Ordine coincide con ilBene, il Disordine con il Male. Così discorrevano anchele Muse di Platone.

Ma la metafora mitologica ci racconta anche che pervincere le forze titaniche, Zeus dovette acquisire ed uti-lizzare una parte dei loro strumenti (il fulmine dei Ci-clopi, per esempio). Forse vuole dirci con ciò che l’ordinenon può imporsi se non accoglie al suo interno il semedel principio contrario.

Insomma, ordine e disordine sono condizioni relative,non assolute. Tanto è vero che l’una definisce l’altra.

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Non potrebbe essere che ciò che viene percepito comeordine in un contesto, possa essere considerato disor-dine in un altro?

Forse disordine è la condizione di un bambino chenasce in un paese nel quale i suoi genitori sono immi-grati, ma non ha diritto di considerarsi cittadino di quelpaese.

Disordine può essere anche la condizione della fami-glia di quel bambino, espulsa dal paese nel quale avevacominciato a costruire onestamente il proprio futuro. Eforse disordine sono i cittadini di quel paese che, davantial clandestino immigrato senza diritti e senza voce, invendita sul mercato nero di cose ed esseri umani, si ri-traggono indifferenti o infastiditi perché non possonosoffermarsi troppo a considerare il valore di persone chepagano quattro soldi per un servizio che loro non vo-gliono più fare.

Disordine è la guerra permanente e preventiva dell’Oc-cidente in nome della propria Sicurezza. Disordine è lafame causata dal mostruoso meccanismo di spreco, dila-pidazione, distruzione di risorse sottratte al resto dell’uma-nità, su cui è cresciuto per secoli quest’ordine vertiginosoche è il modello occidentale che seduce e abbandona.

E forse l’ordine plausibile per i prossimi secoli nonpotrà che essere la restituzione di una parte, almeno,della refurtiva.

La percezione di ordine e disordine è determinata cul-turalmente, dunque. E chissà che, mentre l’ordine den-tro la frontiera precipita vertiginosamente, ciò che èstato percepito precedentemente come disordine non ap-paia “benevolo”, alla fine.

Alla fine, le cose potrebbero andare meglio, se alla de-finizione di un nuovo ordine potessero partecipare quelli

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che sono stati esclusi e si potesse proclamare la “sovra-nità di questa umanità variegata”, suggerisce Aicha.

Ma ancora così non è. Anzi, dentro la frontiera si faun gran polemizzare e se qualcuno propone per gli im-migrati alcuni diritti di cittadinanza, come votare, rice-vere assistenza sanitaria, costruire un edificio destinatoal proprio culto religioso, è tutto un vociare sgangheratoe arrogante.

E allora Aicha con la sua scrittura naviga sopra iflutti del disordine mondiale tenendo la direzione capar-biamente contraria ai luoghi dell’indifferenza, doveregna l’ordine insensato, e “fissa sulla carta le immaginidell’insensatezza”, alla ricerca di un altro ordine possi-bile da narrare.

Dalla sua posizione di migrante del tutto particolare(lasciare l’Algeria è stata per lei una “scelta impostadall’urgenza”, in un momento tragico per il suo paese,ma non è un’emigrante né una rifugiata, nessuno le im-pedisce di tornare in patria e niente la obbliga a restarnelontana), può penetrare i sentimenti dei suoi conterraneimagrebini e condividerne speranze e umiliazioni. Ma saanche condividere i sentimenti dei fratelli e sorelle afri-cani, medio-orientali, latino-americani, e di tutti coloronei quali riconosce “la naturale gioia di vivere spessosmorzata da una nostalgia insidiosa”. E sa riconoscerel’Umanità dolce in ogni persona – il poliziotto che ha unattimo di resipiscenza al momento di eseguire il respin-gimento, le amiche di Ibtissam che facendo ala accom-pagnano all’aeroporto i “respinti”, la hostess che assumela sua quota di compassione prendendosi cura del lorobagaglio – ogni persona “che non è cieca, che è intelli-gente, gioiosa e premurosa e che può trovarsi davanti aqualsiasi porta”.

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“Sono sempre a disagio – ha scritto Aicha Bouabaciin un altro suo racconto – davanti alle frontiere: quelleche chiudono, maltrattano, sminuiscono. Come un ip-notizzatore, mi piacerebbe mettermi di fronte ad esse eabbassarle con uno sguardo. Uno solo. Potente”.

Costruire lo sguardo che può. è ciò che ha comin-ciato a fare quella “Umanità dolce e perseverante” chescende nelle strade e con la sua arte implacabilmentesmaschera il fallace ordine imperiale, con la sua musicasvergogna il decrepito ordine patriarcale e canta il suodisprezzo verso i “cacciatori della libertà”. E caparbia-mente li assedia con la narrazione delle sue storie di-

verse.

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A mio nipote YazidA tutti coloro che amo

A tutti gli esclusi del pianeta.

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La tenerezza è più forte della durezza,l’acqua è più forte della roccia,

l’amore è più forte della violenza.

Die Zärtlichkeit ist stärter als die Härte,das Wasser ist starker als der Fils,die Liebe ist starker als die Gewalt.

Hermann Hesse, 1877-1962

L’Ordine non ama essere scrutato, frugato, messoa soqquadro, scosso… Semplicemente non ama es-sere disturbato; esso è come l’albero centenario cheteme di essere abbattuto dal taglialegna ignorante;non sa il misero profano che la ricrescita è disperata-mente lenta e attraversa più generazioni di umani?Chi rivedrà l’albero antico se non sfogliando i ricordi?Immagini fruscianti nei riflessi di luci illividite, quelladell’alba vivificante e quella del crepuscolo rigenera-tore…

L’Ordine non ama che s’insinuino le dita curioseattraverso le crepe delle sue giunture, cementate daanni, secoli, millenni… Da parte di uomini preoccu-pati di mantenere il loro potere e di trasmetterlo aglieredi meritevoli.

L’Ordine non ha volto, territorio, altra nazionalitàche la fredda rigidità delle cifre e delle lettere dallastessa finalità: dissuadere gli eventuali parassiti, gliimportuni ed ogni sorta di agitatori. Per apparire:l’Ordine sereno, l’Ordine onnisciente, l’Ordine so-vrano. Chi potrebbe scuotere senza rischi l’edificio sa-

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pientemente concepito? Sul frontone: L’Interesse Pub-blico dagli ingranaggi dorati rivolge il suo sguardod’acciaio sulla sua corte attenta…

Kàn ya ma kàn fi qadim el zaman… C’era unavolta... Yazid, piccolo mio, permettimi di raccontartila storia triste di un bambino come te... All’inizio dellasua storia, una vita serena e inondata d’amore.

* * *

28 Aprile 2000. Ilyès, un bambino, mediterraneoe due volte africano, vede la luce sul suolo tedesco,accolto dapprima dalla gioia commossa dei suoi con-cittadini tedeschi. Questa terra è anche la sua. Que-sta destinazione per lui è naturale e spontanea.Nessun decreto gliela ha imposta. Nel suo passato difeto, non conosceva altre frontiere che quella delMondo che si stava aprendo per lui senza un visto,senza dover fare la fila davanti ad una cancelleria esenza diritti da pagare. Un’uscita ed un’entrata intutta complicità con sua madre e la Natura. Nascitanon è una parola vana. Né una brutta parola. è untrionfo. Una Festa. Ma chi oserebbe guastare questafesta?

Si è pensato fosse necessario che questo piccino po-tesse fare la conoscenza della sua famiglia dispersaoltre le frontiere; gli occorreva quindi rapidamente untitolo di viaggio; un passaggio naturale consistevadunque nel chiedere se Ilyès avesse diritto ad un pas-saporto tedesco. Nel nome dello jus soli e di tutti i santidei tre Imperi ai quali apparteneva questo piccolo es-sere! Ma non eravamo in Francia qui: Ilyès non sa-

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1 Ufficio di stato civile in Germania (nda).

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rebbe stato riconosciuto cittadino tedesco per il solofatto di essere nato al Bürgerhospital di Francofortesul Meno. Peccato, perché quella sembrava la solu-zione più naturale, la più vicina. Ma non importava.Per l’altro legame naturale e più potente, quello che loannodava al ventre di sua madre, i suoi genitori si ri-volsero alla patria materna affinché il nome di questoneo-nato potesse essere aggiunto al nome della madresul passaporto di quest’ultima. Senza tener contodella forza di un altro argomento: il bambino è certa-mente il figlio di sua madre ma è soprattutto il figliodi suo padre in virtù di quella legge inflessibile per cuidue persone di nazionalità differente non possono coa-bitare nello stesso documento ufficiale, fossero anchela madre e il bambino appena nato! Restava da bus-sare alla porta del terzo Impero il cui battaglio era cer-tamente il più pesante; ma occorreva prima far valerequesta nascita in terra straniera e far riconoscerel’atto di nascita rilasciato dallo Standesamt.1

Il viaggio di questo leggero documento e la sua so-stituzione con un altro, locale e sigillato stranamentecon lo stesso emblematico timbro, durò a lungo, così alungo che non poté terminare prima del terribile avve-nimento che venne a declassare questa preoccupa-zione che si considerava meramente “amministrativa”.

25 ottobre 2000. Primo “accidente” nella vita diquesto bebè le cui uniche manifestazioni si traducono

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2 Treno interurbano di periferia (nda).3 Metro (nda).

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in pianti, in strilli e in balbettii per esprimere il suofastidio, la sua gioia, o la sua insoddisfazione. Nell’in-timità. In tutta discrezione. Mai, egli ha disturbatol’ordine pubblico. Nessuno, d’altronde, l’accusa diquesto delitto: il colpevole è suo padre, Ibrahim, gio-vane uomo di una trentina d’anni il cui solo crimineè di essersi “dimenticato” su un suolo che non era ilsuo, di esservisi acclimatato e di averci anche fondatoun embrione di famiglia.

«I vostri documenti!». Quest’ingiunzione non vienepronunciata per la prima volta: ritornello conosciutoda tutti quelli che hanno la pelle “colorata”, poco omolto; da tutti quelli il cui portamento non è ortodosso,purché non abbiano la nazionalità locale, d’origine; aquesti la mano è tesa: essi hanno “peccato”, hanno“scroccato”, per esempio, ma suvvia, non li si umiliadavanti ai passeggeri del S-Bahn2 o del U-Bahn,3 ci simostra piuttosto indulgenti; ci si limita a riempire ilformulario d’uso con un sorriso in omaggio!

«I vostri documenti!». Glieli avevano già chiesti unaprima volta dopo un controllo dei biglietti nella metro.

Documenti trattenuti. Passaporto confiscato treanni dopo. Per essere stato onesto… O ingenuo:spesso è la stessa cosa. Aveva incontrato la compagnatanto attesa che, lei, era in regola. E per creare unafamiglia, bisogna essere in regola; di ciò ne era con-vinto. Allora? Da avvocato consigliato ad avvocato so-

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stituito – con il portafoglio ogni volta alleggerito eduna delusione in più – avevano fatto il loro giro legale.L’uomo di diritto del momento gli aveva tracciato unprogramma che doveva essere scrupolosamente se-guito allo scopo di raggiungere il fine supremo: quelvisto per una vita del tutto regolare per questo candi-dato senza macchia e irreprensibile. Prima tappa: laloro unione da registrare allo Standesamt. Secondatappa: chiedere asilo politico, anche se ciò ripugna atutto il suo essere, anche se la politica l’irrita al piùalto grado, anche se l’interessato non ha alcun pro-blema, né politico né giudiziario; non ha alcun pro-blema con la morale; neppure con l’economia, il suoambiente d’origine non è del tutto miserabile!

Era partito su una barca…è così che cominciano i sogni! Lavorava: era ricco!

Andando e venendo sui flutti familiari del Mediterra-neo e più lontano ancora; amando teneramente suamadre e sua sorella che colmava di regali ad ognunodei suoi scali. Ma era soprattutto ricco di sogni edebbro di libertà e di spazio. Un giorno, la barca è ar-rivata all’approdo; o sono i suoi sogni stanchi infinedi aver rimestato tante parole e tanti slanci, tante im-petuose visioni? Anche la terraferma ha le sue attrat-tive: la terra straniera da scoprire; quella che riposa,quella che meraviglia, quella che costringe gli occhi alrisveglio; ma anche quella che scuote le coscienze ver-gini o assopite. Da quale mondo egli veniva? In qualemondo stava dunque per sbarcare?

Questa terra germanica… Il popolo tedesco… Lalingua tedesca… Tutto da vedere; tutto da conoscere!Non sentirsi più stretti su un solo pezzetto di terra!

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4 Filosofo, poeta e scrittore arabo dell’XI sec. (ndr).5 Guillaume Apollinaire, Zones in “Alcools”, Gallimard (nda).6 Allusione all’aquila che simboleggia lo Stato tedesco (ndr).

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Come non ricordare le parole dei grandi poeti arabi,fieri Signori dell’amore e della libertà!

Abu al ’Ala al Ma’ari4 esprimeva il suo stupore da-vanti a colui che viveva nella casa dell’umiliazionementre la terra di Allah è di un’immensità infinita.

Dopo la prima euforia per il transito di una primafrontiera troppo conosciuta, e il superamento di quellaimmaginata dell’agiatezza e del progresso, l’incontrocon i suoi compatrioti per farsi coraggio, per riconosceree ritrovare, insieme, i sogni forgiati separatamente!

Guardi con occhi pieni di lacrime i poveri emigrantiCredono in Dio, pregano, le donne allattano i bambini Riempiono del loro odore l’atrio della Gare Saint-LazareHanno fede nella loro stella come i re-magiSperano di guadagnare denaro in ArgentinaE ritornare nei loro paesi dopo aver fatto fortunaUna famiglia trasporta un piumino rossoCome voi trasportate il vostro cuoreQuesto piumino e anche i nostri sogni sono irreali.5

Ma bisogna vivere; bisogna mangiare; e i sognatoridiventano degli indifesi! Come lavorare, infatti, se nonsi ha il riconoscimento alato?6

Da luogo di fratellanza a luogo di condivisione diuna corvé scandalosamente remunerata, lui ed i suoi

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simili si fanno strada nell’illegalità. L’illegalità del sog-giorno; ma è troppo tardi per tirarsi indietro! I legamisono intrecciati e il ritorno al paese delle vite spente,senza aver acchiappato neanche uno dei sogni, nonincanta più nessuno. I giorni si susseguono nellafretta e nell’inattesa cupezza. Gesti concitati per so-pravvivere. E questa nostalgia che rode, presa tra ilsorriso tremolante del dolce viso della madre. Imma-gine-forza che frena l’uomo dall’onda del pianto. Il te-lefono, questo caro e oneroso complice di tutti gliesuli, rompe per un po’ tutte le frontiere. La voceamata e le sue formule ripetute d’affetto inquieto.

«Come stai piccolo mio? Quando tornerai danoi?»… Spazi di silenzi annodati e parole volubili pernascondere le parole vere di una vita, che nonavrebbe dovuto essere la sua, e i mali di tutti i giorni.Giorni striati d’angosciante incertezza. E notti di gla-ciale solitudine, a casa di uno o dell’altro amico di mi-glior fortuna. Dimenticherà mai questi lunghi emiserabili giorni occupati a trasportare i grossi bloc-chi di pietra sulle sue fragili – ma tuttavia resistenti –spalle, in quei cantieri occasionali comandati da uo-mini senza fede che, forti della loro nazionalità e dellaregolarità del loro status, prendono in ostaggio i salaridi tutti questi uomini che l’urgenza trasforma inparia? Ma il lavoro forsennato non è più un attributodella virilità?... Quante volte il salario, “poggiato” sulconto bancario di un compagno “regolare”, era statorosicchiato dei due terzi, della metà? La rabbia, ognivolta era troppo forte per non reagire! Ma come? Chia-mare subito quell’imprenditore disonesto al telefono –gli aveva pur dato il numero per raggiungerlo – ma

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per questo tipo di questioni non c’era mai, o meglio sisottraeva con delle promesse e degli appuntamentiimprobabili per il saldo della paga. Non aveva com-messo l’errore di farsi “intrappolare” un giorno recan-dosi ad uno di quegli appuntamenti che pensava diaver ottenuto con troppa facilità! Gli era venuto unpresentimento: si era allora nascosto dietro un pila-stro, davanti ad un negozio, per spiare la persona inquestione. Ma in vece sua c’era proprio un poliziottoin uniforme, venuto su denuncia! Non bisognava piùcontare su questi crediti; i passati e quelli a venire.Non rimaneva da fare altro che mettersi a cercare unnuovo impiego. Dall’edilizia alla pulizia degli uffici,passando per la ristorazione, la sua naturale profes-sione, appresa con diploma nel suo paese. Ma qui,non era il caso di rivendicare il suo autentico status:doveva accontentarsi di ruoli d’aiutante, addiritturadi sotto-aiutante cuoco, mentre ricette di sua crea-zione cantavano nella sua testa! Ma doveva accettaretutto: una paga di dieci marchi l’ora, essere pagatoregolarmente in ritardo e lasciare ogni volta, su richie-sta, la tangente al capo. Eccola la pretesa supremadell’ultimo in ordine di tempo: eppure era lui stessoun “anziano” che aveva avuto l’intelligenza di unirsiad una autoctona. Uno della sua stessa regione, dellastessa cultura! Ma senza dubbio era stato colpito daamnesia! E allora si comportava come voleva, comepoteva, poiché nessuna “frontiera Schengen” vi si op-poneva (come se il numero delle frontiere non fossesufficiente, era necessario crearne un’altra, forte dellaforza di tutte le altre). Tutte le sue mansioni, in effettivenivano “dal basso”, in quei territori dove si giocava

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spietatamente con la vita degli uomini; dove la famelo contendeva alla corruzione; dove la violenza rifiu-tava di cedere il passo alla ragione; dove, per quantogiovane, non faceva una buona vita.

Li vedevo ogni giorno, i miei giovani compatrioti, sol-care con spensieratezza e senza discrezione la Zeil, l’im-mensa via pedonale del centro di Francoforte sul Meno,ed ero divisa tra la tenerezza che mi ispiravano quei gio-vani sacrificati e il disagio che suscitava in me il com-portamento deviante di alcuni di loro. L’esilio economicoera cominciato per loro; centinaia di giovani algerini at-tirati dalla forza del marco tedesco e dalla vita conforte-vole e tranquilla dell’Europa, si sono riversati qui. Cheillusione! Li vediamo spesso, jeans e giubbotti di cuoio,sempre elegantemente agghindati, in due, tre o quattro,conversare rumorosamente spavaldi; come se volesseroconvincersi – e convincere gli altri – che qui sono a casa.Autodifesa comprensibile: fa così freddo qui!

Alcune volte ho assistito a delle transazioni nellestazioni della metro (Hautbanhof, Hauptwache, Kon-stabelwache e Galluswarte): due mani che si tendonoper passarsi qualche cosa, con un movimento che sivorrebbe discreto; parole a volte slegate, a volte vee-menti; il denaro; contrattazioni; qualche volta l’ac-cordo vince: dieci marchi, in arabo algerino. Hoseguito altre scene in cui si distingueva l’arabo ma-rocchino, scene nelle quali si mischiava la violenza.

Spesso avevo voglia di prendere questi giovani fra-telli, questi ragazzi per le spalle e chiedere loro: «Per-ché?» Ma che diritto avevo di dirgli: «Tornate a casa!»Che cosa si offriva loro a casa? Erano giovani e la gio-vinezza è sinonimo di vita; e laggiù, nel nostro paese,

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