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1 Il Credo apostolico Il Symbolum apostolicum si sviluppò fra il II e il IX secolo d.C. E’ il credo più popolare usato dai cristiani dell’Occidente nel culto. Le sue dottrine centrali sono quelle della Trinità e di Dio il Creatore. Una leggenda racconta come, a scrivere questo credo, fossero stati gli stessi apostoli il decimo giorno dopo l’ascensione di Cristo al cielo. Non si tratta, però, del caso. Ciascuna delle dottrine che si trovano in questo documento, però, possono essere ritrovate in affermazioni correnti del periodo apostolico. Questo credo fu apparentemente usato come sommario della dottrina cristiana per candidati al battesimo nelle chiese di Roma. Per questo esso viene pure chiamato il Simbolo romano. La versione più antica è forse il Credo di Ippolito (215 d.C.) che si presenta nel formato di domande e risposte: i candidati al battesimo rispondevano affermativamente che essi credevano ad ogni sua affermazione. Generalmente il credo mette in rilievo quelle credenze che si contrappongono agli errori che i suoi compilatori ritengono nel proprio tempo i più pericolosi. Il credo apostolico mette in rilievo la vera umanità di Gesù (inclusa la materialità del suo corpo, perché questi erano i punti negati dagli eretici del suo tempo). IO CREDO Gli apostoli dissero al Signore “Aumenta la nostra fede!”. Il Signore rispose: “Se aveste fede quanto un granellino di senapa, potreste dire a questo gelso: Sii sradicato e trapiantato nel mare, ed esso vi ascolterebbe” (Lc 17,5 ss.). “In verità vi dico: se avrete fede pari a un granellino di senapa, potrete dire a questo monte: spostati da qui a là, ed esso si sposterà, e niente vi sarà impossibile” (Mt 17,20). Nessun gelso ci ha ascoltato. Nessuna montagna si è spostata. Dov’è la fede sulla terra? E’ forse nel dolore straziante degli indifesi che muoiono invocando Dio, sconfitti nella dura lotta contro il male che ha devastato le loro membra? O è nel grido inarticolato di chi resta schiacciato dall’ingiustizia e dalla crudeltà dei suoi simili? Perché il silenzio di Dio davanti al dolore del mondo? Debolezza della fede o indifferenza divina? Durezza del cuore umano o durezza del cuore di Dio? Perché questa intollerabile assenza di segni? Perché questa dolorosa parsimonia di miracoli? Le domande potrebbero continuare, facendosi eco della fatica di credere che pesa su tanti cuori, sfidati e sfibrati dalle tante repliche della storia del mondo all’audacia della fede. Sono queste domande, però, a consentirci di dire che cosa è la fede e che cosa essa non è. Credere non è anzitutto assentire a una dimostrazione chiara ed evidente o a un progetto privo di incognite e di conflitti: non si crede a qualcosa, che si possa possedere e gestire a propria sicurezza e a proprio piacimento. Credere è fidarsi di

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Il Credo apostolico

Il Symbolum apostolicum si sviluppò fra il II e il IX secolo d.C. E’ il credo più popolare

usato dai cristiani dell’Occidente nel culto. Le sue dottrine centrali sono quelle della

Trinità e di Dio il Creatore.

Una leggenda racconta come, a scrivere questo credo, fossero stati gli stessi apostoli il

decimo giorno dopo l’ascensione di Cristo al cielo. Non si tratta, però, del caso.

Ciascuna delle dottrine che si trovano in questo documento, però, possono essere

ritrovate in affermazioni correnti del periodo apostolico. Questo credo fu

apparentemente usato come sommario della dottrina cristiana per candidati al

battesimo nelle chiese di Roma. Per questo esso viene pure chiamato il Simbolo

romano. La versione più antica è forse il Credo di Ippolito (215 d.C.) che si presenta nel

formato di domande e risposte: i candidati al battesimo rispondevano

affermativamente che essi credevano ad ogni sua affermazione.

Generalmente il credo mette in rilievo quelle credenze che si contrappongono agli

errori che i suoi compilatori ritengono nel proprio tempo i più pericolosi. Il credo

apostolico mette in rilievo la vera umanità di Gesù (inclusa la materialità del suo corpo,

perché questi erano i punti negati dagli eretici del suo tempo).

IO CREDO

Gli apostoli dissero al Signore “Aumenta la nostra fede!”. Il Signore rispose: “Se aveste

fede quanto un granellino di senapa, potreste dire a questo gelso: Sii sradicato e

trapiantato nel mare, ed esso vi ascolterebbe” (Lc 17,5 ss.). “In verità vi dico: se avrete

fede pari a un granellino di senapa, potrete dire a questo monte: spostati da qui a là,

ed esso si sposterà, e niente vi sarà impossibile” (Mt 17,20).

Nessun gelso ci ha ascoltato. Nessuna montagna si è spostata. Dov’è la fede sulla

terra? E’ forse nel dolore straziante degli indifesi che muoiono invocando Dio, sconfitti

nella dura lotta contro il male che ha devastato le loro membra? O è nel grido

inarticolato di chi resta schiacciato dall’ingiustizia e dalla crudeltà dei suoi simili?

Perché il silenzio di Dio davanti al dolore del mondo? Debolezza della fede o

indifferenza divina? Durezza del cuore umano o durezza del cuore di Dio? Perché

questa intollerabile assenza di segni? Perché questa dolorosa parsimonia di miracoli?

Le domande potrebbero continuare, facendosi eco della fatica di credere che pesa su

tanti cuori, sfidati e sfibrati dalle tante repliche della storia del mondo all’audacia della

fede.

Sono queste domande, però, a consentirci di dire che cosa è la fede e che cosa essa

non è. Credere non è anzitutto assentire a una dimostrazione chiara ed evidente o a un

progetto privo di incognite e di conflitti: non si crede a qualcosa, che si possa

possedere e gestire a propria sicurezza e a proprio piacimento. Credere è fidarsi di

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Qualcuno, assentire alla chiamata dello Straniero che invita, rimettere la propria vita

nelle mani di un Altro, perché sia Lui ad esserne l’unico, vero Signore.

Secondo una suggestiva etimologia medioevale “credere” significherebbe “cor dare”,

dare il cuore, rimetterlo incondizionatamente nelle mani di un Altro: crede chi si lascia

fare prigioniero dall’invisibile Dio, chi accetta di essere posseduto da Lui nell’ascolto

obbediente e nella docilità del più profondo del cuore. Fede è resa, consegna,

abbandono, non possesso, garanzia, sicurezza. Credere, perciò, non è evitare lo

scandalo, fuggire il rischio, avanzare nella serena luminosità del giorno: si crede non

nonostante lo scandalo e il rischio, ma proprio sfidati da essi ed in essi; chi crede

cammina nella notte, pellegrino verso la luce. La sua è una conoscenza nella penombra

della sera, una “cognitio vespertina”, non ancora una “cognitio mattutina”, un

conoscere nello splendore della visione, secondo la bella terminologia di Sant’Agostino

e di San Tommaso.

“Credere significa stare sull’orlo dell’abisso oscuro, e udire una voce che grida: Gettati,

ti prenderò fra le mie braccia!” (S. Kierkegaard). Ed è sull’orlo di quell’abisso che si

affacciano le domande inquietanti: se invece di braccia accoglienti ci fossero soltanto

rocce laceranti? E se oltre il buio ci fosse ancora nient’altro che il buio del nulla?

Credere è resistere e sopportare sotto il peso di queste domande: non pretendere

segni, ma offrire segni d’amore all’invisibile Amante che chiama.

Credere è abbracciare la Croce della sequela, non quella comoda e gratificante che

avremmo voluto, ma quella umile e oscura che ci viene donata, per completare in noi

“ciò che manca alla passione di Cristo, a vantaggio del Suo Corpo, la Chiesa” (Col 1,24).

Crede chi confessa l’amore di Dio nonostante l’inevidenza dell’amore; crede chi spera

contro ogni speranza; crede chi accetta di crocifiggere le proprie attese sulla Croce di

Cristo, e non il Cristo sulla croce delle proprie attese. Alla fede ci si avvicina con timore

e tremore, togliendosi i calzari, disposti a riconoscere un Dio che non parla nel vento,

nel fuoco o nel terremoto, ma nell’umile brezza leggera, come fu per Elia sulla santa

montagna, ed è stato, è e sarà per tutti i santi e i profeti (cfr. 1Re 19, 11-13).

E allora credere è un perdere tutto? È non avere più sicurezza? È un rinunciare a ogni

segno e ad ogni sogno di miracolo? A tal punto è geloso il Dio dei credenti? Così buia la

sua notte? Così assoluto il suo silenzio?

Dir di sì a queste domande sarebbe cadere nella seduzione opposta a quella di chi

cerca segni ad ogni costo; sarebbe un dimenticare la tenerezza e la misericordia di Dio.

C’è sempre un Tabor per rischiare il cammino: un grande segno ci è stato dato, il Cristo

Risorto, che vive nei segni della grazia e dell’amore confidati alla Sua Chiesa. In essi è

offerto un viatico ai pellegrini per sostenere il cammino, un conforto agli incerti, una

strada agli smarriti: e se questi doni non vanno mai confusi con possessi gelosi, è pur

vero che essi sono là per nutrirci; non per esimerci dalla lotta, ma per darci forza in

essa; non per addormentare le coscienze, ma per svegliarle e stimolarle a opere e

giorni d’amore, in cui l’Amore invisibile si faccia presenza e segno per chi non vuole o

non sa credere alla forza dell’amore.

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Testimoniare la fede non è dare risposte già pronte, ma è contagiare la pace; accettare

l’invito non è risolvere tutte le oscure domande, ma portarle ad un Altro e insieme con

Lui.

IN DIO PADRE ONNIPOTENTE

La nostra professione di fede incomincia con Dio, perché Dio è “il primo e l’ultimo” (Is

44,6), il Principio e la Fine di tutto.

Il Credo incomincia con Dio Padre, perché il Padre è la prima Persona divina della

Santissima Trinità; il nostro Simbolo incomincia con la creazione del cielo e della terra,

perché la creazione è l’inizio e il fondamento di tutte le opere di Dio.

La prima affermazione della professione di fede è anche la più importante, quella

fondamentale. Tutto il Simbolo parla di Dio, e, se parla anche dell’uomo e del mondo,

lo fa in rapporto a Dio. Gli articoli del Credo dipendono tutti dal primo, così come i

Comandamenti sono l’esplicitazione del primo. Gli altri articoli ci fanno meglio

conoscere Dio, quale si è rivelato progressivamente agli uomini.

A Israele, suo eletto, Dio si è rivelato come l’Unico: “Ascolta, Israele: il Signore è il

nostro Dio, il Signore è Uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con

tutta l’anima e con tutte le forze” (Dt 6, 4-5). Per mezzo dei profeti, Dio invita Israele e

tutte le nazioni a volgersi a lui, l’unico. Gesù stesso conferma che Dio è “l’unico

Signore” e che lo si deve amare con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la

mente, con tutte le forze (cfr. Mc 12, 29-30). Nello stesso tempo lascia capire che egli

pure è “il Signore”. Confessare che Gesù è il Signore è lo specifico della fede cristiana.

Ciò non contrasta con la fede nel Dio unico. Credere nello Spirito Santo “che è Signore

e da la vita” non introduce alcuna divisione nel Dio unico.

Lungo i secoli, la fede d’Israele ha potuto sviluppare ed approfondire le ricchezze

contenute nella rivelazione del Nome divino. La fede di Israele attraversa vari

momenti: POLITEISMO delle origini (si credeva nelle divinità) – ENOTEISMO (Tra le

divinità Uno solo è il più potente) – MONOTEISMO (Dio è unico, fuori di lui non ci sono

dei). Dio trascende il mondo e la storia. E’ lui che ha fatto il cielo e la terra. Egli è “colui

che è” da sempre e per sempre, e perciò resta sempre fedele a se stesso ed alle sue

promesse.

Nell’episodio del roveto ardente (Es 3:1 – 4:17) Dio rivela a Mosè il Suo nome: “Io sono

Colui che sono”. Questa affermazione contiene dunque la verità che Dio solo E’. In

questo senso già la traduzione della Bibbia greca dei Settanta e la Tradizione della

Chiesa hanno inteso il Nome divino: Dio è la pienezza dell’Essere e di ogni perfezione,

senza origine e senza fine. Mentre tutte le creature hanno ricevuto da lui tutto ciò che

sono (per cui: ESISTONO da EX- SISTERE = stare fuori, essere da) poiché subordinate ad

un Essere Superiore e hanno ricevuto tutto ciò che hanno, Egli solo è il suo stesso

essere ed è da se stesso tutto ciò che è.

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CREATORE DEL CIELO E DELLA TERRA

Chi siamo? Da dove veniamo?

Il testo biblico è la base per rispondere a queste domande. E’ il testo della nostra fede,

il fondamento sul quale si costruisce l’architettura della fede cristiana. Di lì possiamo

trarre come una grande parabola, un racconto interamente costruito sulla Bibbia.

Questa parabola ha per protagonista uno che l’Antico Testamento ha chiamato con un

termine ebraico, e cioè: Ha’ adam che letteralmente traduce “polvere rossa” ma che

intende “l’uomo”. Già per la Bibbia quindi il personaggio fondamentale del nostro

racconto non ha un nome proprio, specifico: “Adamo”, come è stato tradotto un po’

abusivamente; ma si chiama “l’Uomo”, ovvero “l’Umanità”.

La storia, allora, comincia proprio nella prima pagina della Bibbia con uno che non

porta un nome sepolto nelle origini stesse, ma un nome, invece, che appartiene un po’

a tutti gli uomini. Vi è in questo nome tutta la catena genealogica. Per cui questa

parabola, questa storia, riguarda tutti.

Nel nostro racconto l’uomo adam è il primo uomo che appare sulla terra ed è anche

l’ultimo, quando si spegnerà questo pianeta. Quindi la Bibbia vuole incominciare a

narrarci da dove veniamo e dove andiamo. In questo senso intendiamo la parabola,

come quelle che usava Gesù per coinvolgere ogni ascoltatore. La parabola incomincia

con una nascita. Questo inizio però la Bibbia non vuole descriverlo come se fosse un

resoconto, quasi come se fosse la descrizione delle origini in senso scientifico o in

senso storico. Non bisogna rivolgere domande scientifiche o tecniche alla Scrittura; il

suo scopo è quello piuttosto di descrivere che senso ha questo uomo che appare, che

continua la sua esistenza e la conclude. Quindi la domanda è di tipo filosofico,

sapienziale; riguarda cioè il significato dell’esistenza.

Il Libro della Genesi (dal greco ghenésos= generazione, in ebraico bereshit= in

principio) è un’opera composta da vari racconti.

Al primo capitolo troviamo il racconto della creazione, di fonte sacerdotale; al secondo

capitolo, il racconto della creazione di fonte jahvista; al terzo capitolo, il peccato e la

caduta, di fonte jahvista; al quarto capitolo, Caino e Abele, di fonte jahvista; al quinto

capitolo, la genealogia, di fonte sacerdotale; al sesto capitolo, il racconto del

matrimonio tra i figli di Dio e le figlie degli uomini, di fonte jahvista. Si arriva fino al

capitolo 11, con l’episodio del diluvio universale, in cui è descritta la preistoria

dell’umanità, debitrice al mito, cioè vi è il tentativo di spiegare la realtà attraverso la

fantasia. L’autore viveva in un’età in cui la mitologia era importante, per cui usava

delle categorie mitologiche per esprimere dei pensieri, ad es. nell’episodio dei Giganti

al cap. 6 di Genesi, si vuole esprimere attraverso questa immagine la potenza di Dio.

Tra il cap. 11 e il cap. 12 vi è un salto di milioni di anni. Il cap. 12 incomincia con la

chiamata di Abramo e da lì inizia la fase della preistoria di Israele.

Il primo racconto della creazione è di fonte sacerdotale, presenta grande sistematicità

e precisione di linguaggio e pone al centro il termine “BARAH” = “CREO’” riferito a Dio,

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per indicare che Dio non si compromette nell’opera che realizza. Vi è grande

organizzazione, nulla è lasciato al caso: la creazione viene fatta in 7 giorni, numero che

per gli Ebrei indica la perfezione. La creazione non è in ordine casuale ma obbedisce ad

una gerarchia. Si parte da ciò che è più lontano: il cielo, la terra, gli astri, le piante, gli

animali…ed infine l’uomo. Vi è, quindi, una forma piramidale con l’uomo al vertice. Ha

dei formulari precisi scanditi in 4 momenti: 1. La parola di Dio; 2. La realizzazione

dell’opera; 3. L’opera di separazione che corrisponde a un bisogno di catalogazione e di

disordine, elemento che appartiene alla meticolosità e precisione tipiche del

sacerdote, e di finalizzazione = perché è stato creato ciò; 4. Il giudizio di Dio: Dio vide

che era cosa buona = è un giudizio positivo, infatti la visione di tutto il capitolo è

ottimista e alla fine di ogni opera creata da Dio c’è il concetto di buono e bello.

In riferimento al contenuto teologico, i racconti della Creazione affermano: la fede in

Dio Creatore, trascendente, l’uomo creato a sua immagine e somiglianza, la grandezza,

la trascendenza dell’uomo che partecipa ad alcuni attributi divini quali: l’immortalità,

la spiritualità, la libertà, l’amore. Inoltre, attraverso il simbolo della costola si vuole

esprimere la pari dignità tra uomo e donna. La missione dell’uomo è quella di

collaborare con Dio nella creazione, attraverso il suo crescere e moltiplicarsi e

custodendo la bellezza del creato. Il futuro dell’uomo è quello di riunirsi al Suo

Creatore, verso cui sente il richiamo interiore. La grandezza dell’uomo è espressa nel

racconto di Genesi così come nel Salmo 8 che afferma “…Che cos’è l’uomo perché te

ne ricordi? Il Figlio dell’Uomo perché te ne dia pensiero? Eppure lo hai fatto poco

meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato…tutto hai posto sotto i suoi

piedi”. Adamo, in questo Salmo, appare come l’espressione più bella, il pezzo prezioso

di tutta la Creazione. La creazione di Adamo appare come il capolavoro, l’emblema, il

punto più alto di tutta la Creazione. Tutto ciò che esce dalle mani di Dio è opera buona

e appartiene a Lui in modo personalissimo. Tutto ciò che Dio fa con le sue mani

appartiene a Dio stesso. E come le stelle che Egli ha incastonato nel cielo, così Adamo

ed Eva sono il frutto della potenza divina, il risultato dell’Amore di Dio.

Secondo la tradizione rabbinica, la dignità dell’uomo non consiste solamente

nell’essere a immagine di Dio, ma nella consapevolezza di essere stato creato ad

immagine e somiglianza di Dio. Nell’esperienza del peccato viene meno questa

coscienza dell’uomo che vuole andare oltre la categoria dell’immagine e mettersi al

posto di Dio. Adamo, il figlio dell’Uomo, è “Imago Dei”; la sua bellezza è la bellezza di

Dio; egli è vicino a Dio nella sua corporeità e nella sua personalità. Non c’è nulla nella

vita di Adamo che non riguardi Dio. Adamo, pur non essendo immortale, ma fatto di

polvere, resta Immagine di Dio. Adamo non ha un corpo e un’anima, Adamo è un

corpo spirituale o uno spirito incarnato. La Bibbia non accetta dicotomie, vi è sempre

una visione unitaria della persona. Adamo è sempre alla presenza di Dio, è il pensiero

di Dio. Dire che Dio pensa all’uomo equivale a dire che stabilisce con l’uomo una

relazione personale e dinamica che va oltre la vita. Il vero dramma è che spesso è

l’uomo a dimenticarsi di Dio, ma Dio non si dimentica mai dell’uomo. Anche nella

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morte vi è un io spirituale che è immortale e intrattiene sempre una relazione con Dio,

per questo noi crediamo che ogni defunto continua a vivere davanti a Dio.

Il teologo Romano Guardini, in un suo brano, scrive: “Dio sa anche senza confessione.

Egli penetra in fondo all’anima dell’uomo anche se questi non vuole essere

riconosciuto e resiste. Perché Dio è Creatore e il suo conoscere è l’atto con il quale

stabilisce l’essenza della Sua Creatura. Con la conoscenza creatrice di Dio la verità è

vera. Di fronte a Dio il non aprirsi è impossibile”.

Il dramma dell’uomo di oggi è proprio il chiudersi in se stesso, negandosi a se stesso,

compiendo quasi una sorta di alienazione da sé. Ma Dio ci conosce. Chi è, allora,

l’uomo? E’ una creatura di Dio che resta perennemente sotto il Suo sguardo e sotto il

Suo controllo di Creatore, nel suo agire e nel suo pensare, nelle sue emozioni e nei suoi

sentimenti, nel suo inconscio perché Dio si prende sempre cura dell’Uomo. Essere

conosciuti da Dio non significa subire un’ispezione, ma significa avere la possibilità di

riconoscere Dio come Colui che ci conosce. Dio è garanzia della nostra libertà e non c’è

competizione tra Dio e l’uomo. La libertà dell’uomo non è mai assoluta, ma è relativa,

in duplice senso: sia perché è una libertà creaturale, e quindi limitata, e sia perché è

relazionale, cioè è libertà piena se vissuta in relazione. La libertà intesa in senso

cristiano è vivere agendo secondo il bene e l’ordine del nostro essere. Se noi siamo

“Immagine e somiglianza di Dio”, allora le nostre scelte saranno piene e libere

veramente se corrispondono alla relazione con Dio, nostro Creatore. Siamo veramente

liberi nella misura in cui ci consegniamo al progetto di Dio. Gesù era veramente libero,

perché la libertà consiste proprio nel donarsi totalmente e consegnarsi nelle mani del

Padre, e l’Amore è il frutto di questa libertà. Il mondo post-moderno intende invece la

libertà come libertinaggio, cioè il fare ciò che si vuole.

L’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio è l’unico essere vivente che è in grado

di agire sul mondo e richiama un principio comune sia a Dio sia ad ogni essere umano:

il principio persona.

Il concetto di persona e l’intero orizzonte personale costituiscono un momento di

grande rilevanza nella storia del pensiero umano e mai come nell’ambito di questa

concettualizzazione l’apporto del cristianesimo è determinante.

La parola persona non ha un’origine filosofica. È un termine latino con cui si indicava la

maschera teatrale. Gli attori nell’antichità classica indossavano una maschera, anzi più

maschere a seconda dei sentimenti che dovevano esprimere, e attraverso di esse la

voce per-sonat, risuona e si amplifica. Il termine greco è prósopon, anch’esso designa

un atteggiamento: lo sguardo rivolto in avanti. Un’altra espressione greca che indica la

persona è ipòstasis, il substrato, ciò che sta sotto. Quest’ultimo significato avrà uno

sviluppo anche sul piano filosofico: ciò che sta sotto è sub-stantia, sostanza. In ogni

modo, ciò che prevale è il significato di proiezione verso l’esterno, un modo di

presentarsi, di esprimersi.

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Lo stoicismo, per primo, diede un significato etico al termine persona, indicando con

questo termine l’uguaglianza di tutti gli esseri umani i quali condividevano gli stessi

doveri morali e, inoltre, erano sottoposti a un destino da cui non ci si poteva liberare.

Il termine persona acquistò un significato più profondo, interiore, nel contesto

teologico che si andava elaborando nei Concili dei primi secoli cristiani. I Vangeli

raccontano una vita, quella di Cristo, e annunciano un messaggio di salvezza, occorreva

tradurre in termini concettuali i contenuti della fede attraverso una formulazione

precisa, definendo le verità rivelate. Si rese necessario il ricorso alla terminologia

filosofica greca e alle sottigliezze concettuali della cultura ellenistica. Ciò avvenne

soprattutto a proposito del chiarimento della realtà di Cristo: un’unica persone e due

nature, e della ancora più ardua questione relativa alla Trinità: tre persone uguali e

distinte.

Da qui ne deriva che il cristianesimo affermò una nuova nozione di persona che non

coincideva nè con quella di maschera, né con quella di natura, né con quella di

individuo. Tuttavia, si mantenne il concetto di manifestazione esteriore, per avvicinarsi

al nucleo genetico della personalità, ossia alla genesi interiore di ciò che è umano in

ognuno di noi.

San Giovanni Damasceno, durante i primi secoli del cristianesimo, affermò che:

“persona è chi, esprimendo se stesso per mezzo delle sue operazioni, porge di sé una

manifestazione che lo distingue dagli altri della sua stessa natura”; ma fu Severino

Boezio a dare una definizione più precisa, affermando che: “persona è una sostanza

individuale di natura razionale”.

La definizione di Boezio è passata alla storia ed è certamente indicata per definire la

persona umana, ma appare estremamente precaria per essere applicata a Dio in

quanto persona.

La ragione si riconduce ad una conoscenza di carattere discorsivo, il che esprime

imperfezione: la ragione e l’intero impianto discorsivo, infatti, esprime il passaggio

dalle premesse alle conclusioni, dalla potenza all’atto, ed è quindi imperfetta e non

applicabile a Dio, al quale può essere attribuita sola conoscenza intuitiva.

San Tommaso rivedrà la definizione in termini tali da superare l’ostacolo di Boezio. Egli

definisce persona come “ciò che è il più perfetto nell’intera natura, cioè la sostanza in

una natura razionale”. Successivamente la definizione si precisò ulteriormente: “Tutto

ciò che di razionale ed intellettuale esiste in una natura è persona”.

In questa definizione scompare la necessità di rapportarsi ad ogni tipo di conoscenza

discorsiva, in quanto l’intellettualità può essere ricondotta sia ad un ente che ragiona,

come la persona umana, che ad uno che intuisce, come la persona divina.

In definitiva possiamo affermare che ciò che caratterizza ogni essere umano è il fatto di

essere, fin dal suo concepimento, immagine e somiglianza di Dio e quindi è PERSONA.

Ciò che lo caratterizza è : una identità unica e irripetibile, l’intelletto, la volontà e la

libertà. Egli è sempre alla presenza di Dio e la sua vocazione di PERSONA è quella di

aprirsi ad una relazione con il suo Creatore e con il creato.

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- Alcuni accenni sull’AT

La storia biblica dell’AT, non tanto i fatti ma la comprensione soteriologica degli

avvenimenti, può essere collocata in blocchi di tempo:

1. PREISTORIA DELL’UMANITA’: Non vi è traccia di questi avvenimanti; questa

preistoria è debitrice al mito, cioè il tentativo di spiegare la realtà con la

fantasia.

2. PREISTORIA BIBLICA DI ISRAELE: i Patriarchi (Abramo, Isacco, Giacobbe).

3. STORIA DI ISRAELE: Con l’arrivo degli Ebrei nella terra di Canaan, inizia la storia.

L’origine, il centro e il fine della storia di Israele è nell’Esodo, come idea doi

fondo. Israele diventa popolo con l’Esodo tra il 1250 e il 1225 a.C.

4. EPOCA DEI GIUDICI: Inizialmente ci sono tribù senza vincoli e capo, ogni tribù è

autonoma e senza vincoli con le altre; ogni tanto si riuniscono per celebrazioni

o in caso di invasioni. E’ l’epoca in cui si incontrano per ravvivare e

commemorare i grandi avvenimenti dell’Esodo/Pasqua e l’alleanza. Tutto

questo dura fono al 1000 a.C. Nasce poi il bisogno di avere un potere centrale,

un Re e una capitale.

5. EPOCA DEI RE: Saoul è il primo Re su Israele del Nord che combatte i Filistei.

Successore di Saoul è Davide, Re nel sud, che riesce ad unire il regno allargando

i confini del suo piccolo dominio. Si parla quindi di Impero Davidico. Segue

Salomone, di cui la Bibbia dice che dilapidò tutto il regno, impose tasse e alla

sua morte il regno fu nuovamente diviso in Nord e Sud.

6. EPOCA DEI PROFETI: A partire dal 940- 930 a.C., abbiamo l’esistenza di due Stati

ebraici: Nord con capitale Samaria, che subisce l’influenza mesopotamica e nel

721 viene conquistata dagli Assiri, che importano popolazioni di altre culture

creando problemi religiosi; Sud, con capitale Gerusalemme che è sotto

l’influenza egiziana. Si mantiene indipendente fino al 587, quando

Nabucodonosor distrugge il tempio e deporta la popolazione in Babilonia,

ponendo fine alla dinastia davidica.

Nel 539 a.C. l’editto di Ciro consente il rientro degli Ebrei nelle loro terre.

Nel 333 a.C. Alessandro Magno conquista Israele e, alla sua morte, in Regno

viene diviso.

Inizia lo scontro tra la civiltà di Israele e quella ellenistica. Nasce

l’antisemitismo.

7. EPOCA DEI MACCABEI: I Maccabei riescono a conquistare e liberare

Gerusalemme, ma i problemi continuano anche dopo l’arrivo dei Romani,

chiamati per risanare il conflitto tra i discendenti dei Maccabei.

8. EPOCA ROMANA dal 70 c.a a.C.

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Le fonti letterarie

Nella Bibbia confluiscono i diversi modi di vivere e narrare la propria fede. Per tale

motivo, nella Bibbia, troviamo varie fonti o tradizioni letterarie, cioè varie forme o

maniere di scrivere usate comunemente tra gli uomini di una data epoca o regione,

e poste in relazione costante con determinati contenuti.

Nei libri dell’AT troviamo:

FONTE JAHVISTA: Dio è chiamato JHWH (Iahvè), ma più che alla forma bisogna

essere attenti al contenuto, alla visione politica, culturale, religiosa. Per quanto

riguarda l’ambientazione storico/geografica, il gruppo che ha elaborato questa

tradizione va collocato nella Giudea del Sud. L’epoca in cui ha preso forma è quella

davidica. Con Davide abbiamo la nascita di un Regno, una capitale, un esercito, una

burocrazia, un tempio. In questo contesto storico positivo di grandezza, si sviluppa

la teologia jahvista, che è una teologia positiva. Il periodo di Davide viene visto

come una benedizione di Dio e il popolo deve mantenersi fedele e custodire

l’alleanza così da assicurarsi la vita eterna.

FONTE ELOHISTA: Dio è chiamato Elohim. La tradizione Elohista si sviluppa al Nord.

Il Nord non aveva una città importante come Gerusalemme, anche se il Re aveva

tentato di costruire un tempio, ma questo non era paragonabile a quello di

Gerusalemme dove era custodita l’Arca. Al Nord non vi era alcun elemento

istituzionale su cui fare affidamento e non vi era la sacralità del Sud. In questo

ambiente si sviluppò il profetismo. I profeti narrano la storia dell’Alleanza. C’è una

visione meno ottimista. La teologia elohista è sotto il segno di una catastrofe

imminente. L’unica forza e difesa è la sopravvivenza delle clausole dell’Alleanza: i

Comandamenti e l’impegno di JHWH ad aiutare il suo popolo fino a quando i suoi

comandamenti saranno osservati.

FONTE DEUTERONOMISTA: E’ la tradizione più documentabile poiché si ritrova nel

Libro del Deuteronomio e in tutti i Libri storici (Giosuè, Giudici, 1 e 2 Samuele, 1 e 2

Re). Il valore centrale del Deuteronomio è la centralizzazione del culto a

Gerusalemme. I deuteronomisti si svilupparono all’inizio al Nord, dove facevano

catechesi e cercavano di mantenere la religione di JHWH, poiché al Nord la

religione dei Cananei era più seguita perché più affascinante, con i suoi riti della

fecondità, la prostituzione sacra, mentre la religione di JHWH era più trascendente,

poco concreta. Successivamente, con l’arrivo degli Assiri, i deuteronomisti furono

costretti a scappare al Sud. Il genere deuteronomista rappresenta una riflessione

teologica sul valore del culto a Gerusalemme.

FONTE SACERDOTALE: E’ l’ultima tradizione a prendere forma in ordine di tempo,

ma è quella che ha recuperato testi antichissimi. I sacerdoti erano studiosi delle

norme, i testi legislativi erano quasi sempre di carattere sacerdotale. Riportavano

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le leggi, il culto, al genealogia. Il punto centrale del genere sacerdotale è la santità

di Dio. L’uomo deve rispondere alla santità di Dio cercando di essere puro: non

uccidendo, non commettendo adulterio, etc. Il principio fondamentale della Legge

è la santità di Dio e se una legge risponde alla santità di Dio, allora è giusta. Questa

santità si esprime anche nel culto, per cui, ad es.: gli oggetti del culto dovevano

essere puliti, puri. Si arriva però a degli eccessi, come ad es. : al fatto che i farisei, in

nome della purezza, allontanano dal culto i lebbrosi o chi svolgeva lavori servili. Da

questo si arriverà all’inevitabile scontro con Gesù.

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…E IN GESU’ CRISTO, SUO UNICO FIGLIO, NOSTRO SIGNORE

“ Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna,

nato sotto la Legge, per riscattare coloro che erano sotto la Legge, perché

ricevessero l’adozione a figli” (Gal 4, 4-5).

Noi crediamo e professiamo che Gesù di Nazaret, nato ebreo da una famiglia di

Israele, a Betlemme, al tempo di Erode il Grande e dell’imperatore Cesare Augusto,

di mestiere carpentiere, morto crocifisso a Gerusalemme, sotto il procuratore

Ponzio Pilato, mentre regnava l’imperatore Tiberio, è il Figlio eterno di Dio fatto

uomo, il quale è “venuto da Dio” (Gv 13,3), “disceso dal cielo” (Gv 3, 13; 6, 33),

“venuto nella carne” (1Gv 4,2).

La trasmissione della fede cristiana è innanzitutto l’annunzio di Gesù Cristo, allo

scopo di condurre alla fede in lui. Fin dall’inizio, i primi discepoli sono stati presi dal

desiderio ardente di annunziare Cristo: “Noi non possiamo tacere quello che

abbiamo visto e ascoltato” (At 4,20). In essi vi era il desiderio di annunziare, di

“evangelizzare”, e di condurre altri al “sì” della fede in Gesù Cristo. Ogni catechista

deve seguire le orme dei primi discepoli e sentire lo stesso desiderio di annunziare

Cristo agli uomini, affinchè questi scelgano di vivere in comunione con Lui.

Gesù in ebraico significa “Dio salva”. Al momento dell’annunciazione, l’Angelo

Gabriele dice che il suo nome sarà Gesù, nome che esprime la sua identità e la sua

missione. In Gesù, Dio ricapitola tutta la storia della salvezza a vantaggio di tutti gli

uomini.

Il nome di Gesù significa che il Nome stesso di Dio è presente nella persona del

Figlio Suo fatto uomo per la Redenzione dei peccati. Il nome di Gesù è al centro

della preghiera cristiana. Tutte le orazioni liturgiche terminano con la formula “ per

Cristo, Nostro Signore”.

Cristo viene dalla traduzione greca del termine ebraico “Messia” che significa

“unto”. Non diventa il nome proprio di Gesù se non perché egli compie

perfettamente la missione divina da esso significata. Infatti in Israele erano unti nel

Nome di Dio coloro che erano a lui consacrati per una missione che egli aveva loro

affidato. Era il caso dei re, come Saul e Davide che vengono unti da Samuele.

L’unzione aveva un carattere sacro, significava benessere. Nella concezione di

Israele, l’unico vero Re era solo Dio, pertanto i re erano considerati degli unti,

consacrati da Dio stesso, per cui il loro governo doveva ispirarsi a Dio ed essere

guidato da Lui. Era il caso dei profeti, il profeta è il messaggero di Dio, la cui

funzione era di annuncio e di denuncia. La sua parola vuole convincere il re, il

sacerdote, il popolo a vivere in pienezza l’alleanza con Dio. Durante il periodo

dell’esilio in Babilonia, il popolo non aveva un re, un capo, un tempio, un

sacerdote, perciò l’unico punto di riferimento era il profeta. Il profeta indica anche

al popolo il senso della sofferenza, poiché colui che è fedele all’alleanza con JHWH

è soggetto alla sofferenza.

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Perché il giusto soffre? Questa è la domanda che trova risposta nei carmi del servo

sofferente di Isaia, in cui il Messia non ha i tratti regali del messanismo politico, né

porta i colori del potere e dell’autorità. In questi carmi non c’è alcuna maestosità,

essi sono radicati nella storia dell’esilio e nella speranza di Israele che si prepara

all’attesa futura e al suo compimento.

Il servo sofferente è il Messia inviato da Dio a vantaggio di tutte le genti, e nella sua

persona avverrà l’alleanza tra Dio e il suo popolo. Questo servo dovrà molto

soffrire, morire di morte violenta come conseguenza non del proprio peccato, ma

del peccato del suo popolo e, soffrendo per tutti, porterà la salvezza al suo popolo.

Nel servo sofferente è chiara la figura di Gesù, che muore per il peccato del mondo.

In questo poema il servo è presentato come un profeta oggetto di una missione e

di una predestinazione divina, animato dallo Spirito per insegnare a tutta la terra

con discrezione e fermezza. Ma la sua missione supera quella degli altri profeti,

perché egli stesso è alleanza e luce e compie un’opera di liberazione e di salvezza.

La sofferenza che traspare negli ultimi versi è la strada obbligata per l’espiazione

dei peccati. Essa però non è una sofferenza subita, ma una logica conseguenza

dell’amore. E’ l’amore portato alle estreme conseguenze. Questa sofferenza non è

dovuta al proprio peccato, ma è conseguenza del peccato degli altri.

I carmi del servo sofferente sono anche espressione del messianismo sacerdotale.

Nella figura del servo vi è una vittima ma anche un sacerdote. Nel culto ebraico, il

sacerdote offriva un animale come vittima in sacrificio a Dio, mentre nel carme del

servo sofferente, il sacerdote diventa egli stesso vittima che si offre. Non c’è più

differenza tra vittima e sacerdote. Così, il Nuovo Testamento proclamerà il valore

non più del sacrificio esterno, ma di quello interiore: il sacrificio del cuore, la

circoncisione del cuore. Il sacerdote in Israele apparteneva ad una tribù particolare,

quella di Levi. Quando Israele giunse nella terra di Canaan, le varie tribù presero un

pezzo di terra. La tribù di Levi non prese terra, perché doveva offrire sacrifici e

presiedere alle feste, custodire la Torah che teneva unito il popolo. L’offerta del

sacrificio avveniva tutti i giorni. Il sacerdote doveva offrire sacrifici nel ricordo del

sacrificio di Isacco e veniva offerto un animale invece di un uomo. Attraverso il

sacrificio, Dio ristabiliva la sua alleanza con l’uomo. Gesù, invece, è l’Agnello di Dio

che si sacrifica per restaurare la nuova ed eterna alleanza tra Dio e l’uomo. Il

messianismo sacerdotale di Gesù si presenta proprio attraverso la sua persona che

non appartiene alla tribù di Levi e che non chiede sacrifici cruenti, ma la

conversione del cuore. Egli è lo stesso sacerdote che si fa sacrificio.

E’ certo che è con la Pasqua che Gesù si è manifestato definitivamente per quello

che era, ed è alla luce della Pasqua che gli apostoli hanno capito pienamente il

senso di quello che Lui aveva fatto e detto: il Nuovo Testamento è scritto alla luce

dell’esperienza pasquale, e anche quando narra episodi della vita del Signore non

lo fa primariamente per raccontare che cosa è successo di preciso, ma per suscitare

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e approfondire la fede in Lui come manifestazione escatologica di Dio, del Dio della

nostra salvezza. “Cristo è morto per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto

ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture”, così recita l’originario kerygma

apostolico (1Cor 15, 3-4). E’ però altrettanto vero che la Pasqua non annulla tutta

la vita precedente di Gesù, anzi la suppone e a essa positivamente rimanda. Per

comprendere correttamente la Pasqua, bisogna rifarsi ai mysteria carnis Christi,

alla concretezza della sua esistenza storica, dei suoi comportamenti: non esiste un

“Cristo della fede” separato e indipendente dal “Gesù della storia”. Il Dio cui la

nostra fede si rivolge non è un’idea o un’astrazione: si è rivelato in un uomo

preciso, concreto, che è vissuto in un determinato periodo storico, che si è

comportato in un certo modo. La salvezza cristiana è legata a una precisa vicenda

storica, quella di Gesù di Nazaret nostro Salvatore: della quale la Pasqua costituisce

il culmine, ma proprio per questo ad essa profondamente legata. Sono tutti i

mysteria Christi che hanno valore salvifico: non solo la sua morte-resurrezione.

Bisogna sottolineare che una considerazione espressamente dedicata ai misteri

della vita di Cristo rappresenta una novità nei confronti della riflessione teologica

tradizionale, in particolare manualistica; appare qui una caratteristica tipica della

riflessione teologica recente, indirizzata appunto a recuperare, tra l’altro, tutta la

vicenda del Gesù storico e i diversi avvenimenti della sua vita terrena come luogo

di manifestazione del mistero della sua persona, e come facenti tutt’uno col

mistero di salvezza compiutosi nella Pasqua.

Per quanto riguarda il discorso biblico, non si può non sottolineare la centralità dei

misteri della vita di Cristo nell’annuncio e nella riflessione neotestamentaria. Nei

Vangeli, infatti, il “mistero del Regno di Dio” ha la sua rivelazione e la sua

attuazione nei diversi “misteri di Cristo”, cioè nelle sue parole e nelle sue opere, nei

suoi miracoli e il tutto il suo comportamento, nella sua passione-morte e nella sua

risurrezione: è tutta la sua figura e la sua vita, nella complessità dei suoi elementi e

avvenimenti, che porta a compimento “il mistero” dell’azione escatologica di Dio a

favore del suo popolo. In San Paolo, i “misteri di Cristo” tendono invece a

concentrarsi riassuntivamente nel “mistero” della sua Pasqua, che è al centro di

quel grande mysterium che è tutto il piano di salvezza di Dio.

E’ comunque certa una cosa: per il NT è tutta la vicenda storica di Cristo, culminata

nella Pasqua, che rivela il mistero di Dio e della sua volontà di salvezza, ed è questo

mistero, compiutosi pienamente nella vita del Verbo incarnato morto e risorto, che

la Chiesa annuncia con la sua predicazione e celebra con la sua liturgia.

Alla luce di quanto delineato, bisogna concretamente esaminare alcuni

avvenimenti principali della vita di Gesù:

INFANZIA: Nella Bibbia si trovano diverse narrazioni di nascite di personaggi

importanti: Isacco, Giacobbe, Mosè. E’ possibile parlare di un genere letterario, il

cui senso fondamentale comunque non è quello documentaristico, e neppure può

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essere imparentato con i racconti propri delle mitologie greche e latine: ma è

quello di mettere in luce come anche questi avvenimenti si inseriscano nella storia

della salvezza, e quale funzione avranno in essa i personaggi in questione.

A proposito di Gesù il NT afferma che la sua nascita avviene nella pienezza dei

tempi (Gal 4,4; Ef 1,10), cioè come inizio del tempo escatologico, del tempo della

realizzazione piena della volontà salvifica di Dio: è il tempo del “compimento”.

Le genealogie che Matteo e Luca inseriscono nei loro vangeli aprono da questo

punto di vista una serie di prospettive: non dimenticando che, nel mondo semitico,

non solo la comunanza di sangue, ma anche quella semplicemente “genealogica”

(giuridica) indica comunanza di destino, di passato, di presente e di futuro. Per Mt

Gesù è l’erede di tutte le promesse fatte da Dio al suo popolo, da Abramo a Davide;

e rinnovate dopo l’esilio: queste promesse si adempiono in Lui. La parola di

salvezza di Iahvè, rivolta al popolo di Israele e che si inserisce nella storia

dell’umanità attraverso le traversie storiche di questo popolo, non viene smentita:

trova la sua realizzazione in questo “Figlio di Davide, figlio di Avramo” (Mt 1,1). E la

storia di questo popolo è una storia anche di infedeltà, di debolezze, di persone la

cui condotta non fu irreprensibile davanti a Dio: è in questa storia che Gesù entra,

poe portarvi la salvezza promessa da Dio.

Ma il popolo di Dio è solo lo strumento concreto perché “la grazia” di Iahvè si

manifesti e arrivi a tutti gli uomini: il destinatario delle promesse di Dio non è

l’ebreo, ma l’uomo. Per cui si deve risalire non solo fino ad Abramo, ma fino ad

Adamo: è tutta la storia dell’umanità, con tutto il suo carico di peccato, di

debolezze, di infedeltà che trova in Cristo il suo giudice e salvatore.

E’ quanto Giovanni esprime con il termine “carne” (1,14): per sua libera iniziativa

questa “Parola” di Dio, cioè parola di salvezza, assume la storia dell’uomanità per

“salvarla”. La nascita di Gesù è l’inizio di questo “mistero” he non ha origine “dal

sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio” (Gv 13,1). E’ già il

comportamento degli uomini davanti a questa nascita fa presagire quale sarà il

destino di questo bambino, quali saranno le opposizioni che dovrà superare; anche

in questo senso la sua venuta nel mondo è un “compimento” perché chiarisce la

vera “natura” dell’uomo e quello che c’è nel cuore di ciascuno. Matteo,

coerentemente con la sua prospettiva giudaica, anticipa quello che succederà poi

nella vita di questo bambino, quando il popolo di Dio non lo vorrà riconoscere e lo

perseguiterà: Egli è venuto per tutti, ma proprio a Gerusalemme incontrerà le

ostilità più profonde. E’ ol tema ricorrente dell’episodio dei Magi, della fuga in

Egitto, della strage degli innocenti: ol popolo di Dio è un popolo peccatore, infedele

alle promesse, che non sa scorgere l’azione di Dio nella storia, e vi si oppone. Per

questo il vero popolo di Dio non è più caratterizzato dalla discendenza secondo il

sangue da Abramo: ma dalla capacità di muoversi ad adorare il re dei Giudei (cf Mt

8,11). Per Luca questa disponibilità è tipica dei “poveri” (Lc 2,8-20): per loro è

l’annuncio del Vangelo, e loro saranno i primi “annunciatori” di questo

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avvenimento. Questa è l’umanità della quale Gesù è entrato a far parte: il suo

mistero rivela quello dell’uomo, abolendo le false apparenza, le false sicurezze (la

legge, la discendenza da Abramo, il potere, le ricchezze).

LE TENTAZIONI NEL DESERTO: Fin dall’antichità cristiana, il racconto della

tentazione, comune ai sinottici, ha fatto difficoltà: sembrava inconciliabile con la

dignità del Figlio di Dio. La soluzione più radicale, ricorrente, era quella di negare

che Cristo fosse stato veramente tentato: è un racconto esemplare, per noi, per

indicare a noi come comportarci nelle tentazioni. Nelle tentazioni, in particolare in

Mt, è tutta la storia di Israele che viene rivissuta, ma nella piena fedeltà a Dio e al

suo modo di intervenire nella storia. Satana interpella Gesù con il titolo di “Figlio di

Dio”, nome ricevuto nel battesimo: ma simile qualifica non significa onore,

ricchezza, potenza, bensì esige piena confidenza nella parola di Dio e nella sua

volontà, che concretamente significa intraprendere la strada del Servo che prende

su di sé i peccati del mondo. E’ esclusa quindi la strada dell’abbondanza, della

sicurezza basata su beni materiali: non questa, ma la fede nella parola e la

disponibilità alle sue esigenze è la strada che Gesù percorrerà nella sua vita.

E’ preclusa la via di un messianismo costruito sui miracoli strepitosi: la fiducia in Dio

non è basata sui suoi atti di prestigio, ma è una speranza contro ogni speranza. Per

questo la croce non sarà il segno del fallimento, ma sarà il segno della suprema

dedizione al Padre: nonostante le apparenze questa è la via che porta alla vita. Ed è

infine impraticabile anche la via del messianismo politico: la strada per giungere

alla “vittoria” è quella del servizio, e non quella del potere.

Per ambizione di dominio, Israele si era spesso dato all’adorazione di dei stranieri,

all’idolatria: ma solo Dio è vero “dominatore” di questo mondo e non c’è che da

seguire, nella fede, la direzione da lui indicata.

In conclusione, le tentazioni di Gesù mostrano ancora una volta la solidarietà di

Cristo con l’umanità: egli entra veramente a far parte della nostra storia con tutte

le sue illusorietà, le sue difficoltà, con tutto il suo carico di peccato. Non è che in Lui

ci sia connivenza con il peccato: ma proprio la sua innocenza, e quindi la sua piena

disponibilità alla volontà del Padre, lo porterà sulla croce, cioè alla situazione di

massima “lontananza” da Dio. La via del “Servo” è la via della sofferenza, della

morte: e la morte non è voluta da Dio, ma è la conseguenza del peccato. In questo

senso, è l’interrogativo radicale posto alla vita, e alla fede nel Dio della vita: è la

tentazione radicale, quella che anche Cristo ha incontrato esattamente per il suo

“essere senza peccato”, cioè per la sua apertura completa ai disegni di salvezza del

Padre. Precisamente il suo “essere Figlio”, cioè manifestazione del Padre, lo ha

portato a questo incontro con Satana (“Se tu sei il Figlio di Dio”), a sperimentare

personalmente la tentazione: come il popolo eletto, come ogni uomo. Ma appunto

la fiducia incondizionata in Dio è la strada per la vittoria: è questa fiducia che

Satana cerca di intaccare, ed è questa fiducia che Cristo riafferma. Per Lui e per noi.

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LA PREDICAZIONE DI GESU’: La signoria di Dio la si attendeva come una liberazione

da un dominio ingiusto e come un affermarsi della giustizia divina nel mondo: la

sua realizzazione coincideva, in definitiva, con la venuta dello shalom escatologico,

della pace tra gli uomini, nell’uomo e nel cosmo intero. Si deve però subito

precisare che, mentre la speranza ebraica parlava di futuro, Gesù dice che l’ora

messianica è arrivata: con la sua persona e la sua azione inseparabilmente unite, il

Regno di Dio è presente, le promesse fatte ai profeti si compiono, la salvezza per gli

uomini è arrivata. Egli infatti parla con autorità: non si limita, come gli antichi

profeti, a riferire quello che Jahvè ha detto loro, ma si propone in prima persona

come interprete autentico della parola di Dio e delle sue esigenze, mettendosi

quindi al di sopra dello stesso Mosè.

In questo modo Egli relativizza l’istruzione più sacra per un ebreo praticante, la

legge di Mosè con tutte le sue prescrizioni: proponendosi come ultimo punto di

riferimento per la sua interpretazione. Non solo, Egli lega la salvezza definitiva

all’accoglimento o meno del suo invito a seguirlo: la scelta pro e contro di Lui, la

sua predicazione e la sua opera. Inoltre Egli rivendica a sé il potere di rimettere i

peccati: il potere più “tipico” di Dio. In altre parole, il suo annunzio è talmente

legato alla sua persona che si comprende come e perché, nel NT la parola

“vangelo” subirà un decisivo spostamento di significato, per cui il vangelo di Gesù

diventerà il vangelo che è Gesù: Egli cioè non è solo “soggetto” dell’annuncio

evangelico, ma è anche “l’oggetto”, colui di cui parla quel messaggio salvifico che

gli apostoli diffondono.

La predicazione di Gesù è destinata, come Egli afferma (cf Mt 15,24), alle pecore

perdute della casa di Israele; e inviando per la prima volta gli apostoli a predicare,

proibisce loro di recarsi dai pagani e dai Samaritani (Mt 10, 5-6). Ma per

comprendere come questa affermazione non sia in contrasto con il suo

universalismo, si deve ricordare che tutta la parola e l’azione di Gesù sono

esattamente rivolte a chiarire quello che è il vero Israele e chi sono i veri pagani: il

vero popolo di Dio non è quello che discende da Abramo, ma quello che sa vedere

in Lui, Gesù, il Messia promesso, la realizzazione dei tempi escatologici; Israele è

veramente il popolo eletto, ma di Israele si entra a far parte mediante la fede in

Cristo. Ciò non significa svuotare il significato di Israele per la storia della salvezza o

dimenticare la concretezza storica di Gesù che è entrato a far parte di un popolo

determinato e ha predicato a questo popolo: significa solo riconoscere, come già

nel messaggio profetico, che il Dio di Israele è luce e salvezza per tutti i popoli. Per

questo Gesù respinge l’odio nei confronti dei pagani, anzi afferma che essi

giudicheranno Israele: il giudizio finale infatti riguarderà tutti i popoli senza

eccezioni, e sarà fatto in base alla capacità, anche inconsapevole, di vedere e di

accogliere Cristo (Mt 25). Probabilmente è in questo senso che si deve intendere la

decisa condanna che Gesù fa del proselitismo giudaico (Mt 23,15): non perché non

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condivida lo sforzo missionario rivolto ai pagani, ma perché è fatto appunto su basi

legalistiche, che sono la negazione della fede in Lui.

I MIRACOLI DI GESU’:

I miracoli di Gesù sono strettamente collegati alla figura, alla vicenda e all’azione

salvifica di Gesù su questa terra. Si deve innanzi tutto affermare che Gesù rifiuta di

essere visto come un “facitore” di azioni che suscitano meraviglia, come un

“mago”: se l’attesa è di questo tipo, rifiuta di fare miracoli (Mc 6, 4-6; Lc 23, 6-8).

Rifiuta anche di comportarsi in modo che la sua azione sia prevalentemente

destinata a sfoggio di potenza, o ad attirare le folle dalla sua parte: Egli ha

rinunciato al messianismo miracolistico (Mt 26,53). I miracoli sono operati dalla

parola potente di Gesù: non si parla mai, nel Vangelo, di formule magiche o

deprecatorie. D’altra parte è prerequisita la fede come condizione perché Gesù

operi il miracolo (Mt 8,10; Mc 5,34; Lc 17,19): anche se questa fede iniziale può

essere introdotta, dal compimento del miracolo, a una più profonda comprensione

della persona e delle opere di Gesù (Mc 8,17-21; Gv 9, 35-38). Gli elementi ricordati

orientano a capire il senso più vero dei miracoli: essi manifestano la missione

salvifica di Gesù. Evidenziano che è iniziato il tempo della salvezza messianica (Mt

11, 2-6): il regno di Satana è messo in crisi (questa è soprattutto la prospettiva di

Mc), e si instaura il regno di Dio. E questo regno è una novità sconvolgente, che

cambia la faccia del vecchio mondo: il peccato con tutte le sue conseguenze

(malattie, dolori, soprattutto la morte) è veramente vinto, perché la salvezza di Dio

è già all’opera nel mondo. Non siamo in presenza soltanto, o principalmente, di

una interpretazione del mondo e della storia: ma di un principio di trasformazione

di questo mondo e di questa storia. La salvezza di Dio riguarda tutto l’uomo: non

solo la sua anima, ma anche il suo corpo, la sua concretezza storica segnata dalla

malattia e dalla sofferenza (Gv 7,23). La salvezza di Dio, poi, riguarda tutti gli

uomini: è rivolta in modo particolare a coloro cui nessuno si rivolge, i deboli, i

malati, gli esclusi dalla società (lebbrosi, indemoniati…). In questo senso i miracoli

sono manifestazioni della potenza di Dio: proprio perché non manifestano se non

la sua concreta volontà salvifica esigono, come unico atteggiamento esatto di

risposta da parte dell’uomo, non la meraviglia ma la fede. Ma l’opera e la parola di

Gesù non vanno mai separate dalla sua persona: è a questa, in definitiva, che i

miracoli rimandano.

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LA PASSIONE-MORTE DI CROCE:

Morte e risurrezione costituiscono l’unico mistero pasquale, nel quale si opera la

nostra salvezza. Il Cristo risorto e glorioso non è altri che il Gesù storico: quel Gesù

che “si è incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo. Fu crocifisso per

noi sotto Ponzio Pilato, morì e fu sepolto. Il terzo giono…”. Ma la croce non è un

avvenimento facile da capire: a prima vista sembra contraddire radicalmente molte

delle affermazioni fatte a partire dal mistero della risurrezione. Se è con la sua

croce che Gesù ci ha redenti dal peccato, per cui il suo sangue ha cancellato la

nostra colpa, e ci ha riaperto la via dell’alleanza con Dio, questi è davvero un Dio

che per placarsi ha bisogno della morte di croce? Perché il Padre celeste ha voluto

concedere la salvezza agli uomini mediante prestazioni così dolorose da parte del

Figlio Suo? Se le sofferenze di Gesù servono per riparare l’offesa inferta dal peccato

alla giustizia divina, quella di Dio è una giustizia così esigente, così inflessibile? Il

nostro Dio è in Dio vendicativo, quasi assetato di sangue? E’ questa la corretta

lettura della morte di croce e del suo valore salvifico?

Come si può immediatamente constatare, si tratta di interrogativi non secondari,

che toccano elementi fondamentali della fede cristiana: non possono essere elusi

in alcun modo.

Sant’Anselmo è universalmente noto in teologia per aver elaborato la categoria

teologica della “soddisfazione” come categoria di lettura della morte di croce e dei

suoi effetti salvifici. Il discorso prende le mosse dal peccato dell’uomo e dalla

conseguente necessità della redenzione: il peccato ha colpevolmente turbato

l’ordine dell’universo creato da Dio. Con la sua azione peccaminosa l’uomo sottrae

la sua volontà alla volontà divina e in questo modo egli non rende a Dio quell’onore

che invece gli dovrebbe come creatura. Questa offesa recata a Dio deve essere

riparata: di qui il concetto di “soddisfazione”. Ma un elemento deve essere

precisato: non è possibile che questa soddisfazione venga accordata per pura

misericordia da Dio stesso, perché ciò contrasterebbe con la sua infinita giustizia e,

inoltre, l’uomo peccatore non può offrire a Dio una soddisfazione adeguata poiché

il peccato è rivolto contro il Dio infinito. Quanto più è grande la persona offesa,

tanto maggiore è anche l’offesa che le viene arrecata; ora, l’onore di Dio è senza

confini, e quindi infinita è anche la colpa dell’uomo. Questa dunque non può essere

riparata dall’uomo finito; solo Dio potrebbe produrre un’adeguata soddisfazione.

Allora una soddisfazione che ripristini realmente l’onore di Dio compromesso e che

ristabilisca l’ordine turbato dal peccato può essere presentata veramente solo da

uno che sia contemporaneamente uomo e Dio: ecco allora il perché

dell’incarnazione di Gesù, secondo Sant’Anselmo. Nella sua visione, la categoria

della “soddisfazione” spiega anche perché la redenzione dell’uomo, la liberazione

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dell’umanità dal peccato è avvenuta mediante la morte di croce e non mediante

altri gesti dell’Uomo-Dio.

San Tommaso d’Aquino è preoccupato di salvaguardare la piena libertà di Dio nel

suo agire salvifico, libertà che non può e non deve essere in alcun modo limitata:

questa preoccupazione di San Tommaso si esprime a diversi livelli e in diversi modi.

In primo luogo egli sottolinea la libertà del Figlio di Dio nell’incarnarsi, infatti nega

che si possa parlare di necessità assoluta dell’incarnazione per la redenzione del

genere umano. Ma oltre alla libertà che Dio ha circa il fatto di incarnarsi, San

Tommaso sottolinea l’esistenza di una libertà di Dio anche quanto al modo

dell’incarnazione: da un lato non solo il Verbo, bensì qualsiasi altra persona divina

poteva per sé rivestire la natura umana; dall’altro non solo l’uomo, bensì qualsiasi

altra natura creata poteva per sé essere assunta da Dio. Si può certo, anzi si deve

parlare, secondo Tommaso, di una particolare convenienza a che sia precisamente

il Verbo, e non il Padre o lo Spirito, a incarnarsi, e a che sia precisamente la natura

umana, e non altro, a essere assunta: ma, appunto, di convenienza si tratta, e non

di necessità. Ciò che si dice per l’incarnazione, per quanto attiene alla sua libertà e

gratuità, vale anche per la pasqua, in particolare per la passione-morte di croce:

anche quest’ultima è frutto di libera e gratuita decisione divina. All’obiezione di S.

Anselmo, secondo la quale la morte di Cristo era esigita dalla giustizia divina,

infinitamente offesa dal peccato dell’uomo, San Tommaso risponde che la giustizia

di Dio dipende comunque dalla sua volontà e se avesse disposto diversamente,

cioè di liberare l’uomo dal peccato senza nessuna soddisfazione, Dio non avrebbe

agito contro giustizia. Dio non è obbligato a esigere una soddisfazione per il

peccato; se effettivamente invia un riparatore capace di rendere soddisfazione, in

maniera peraltro sovrabbondante, Egli non obbedisce a un dovere impostogli

dall’esterno, dalla natura delle cose o da un ordine giuridico esteriore, bensì

dimostra di realizzare, con piena giustizia, una sovrabbondanza di gratuita

misericordia. San Tommaso, inoltre, sottolinea il valore dell’incarnazione del Verbo

come già di per sé significativo della salvezza offerta all’uomo e la croce

rappresenta un momento “conveniente” per manifestare, appunto, la gratuita

misericordia di Dio verso l’uomo.

La discesa agli inferi

Dopo la menzione della morte di Cristo e prima di proclamare la sua risurrezione, il

Credo o Simbolo apostolico afferma la sua discesa agli inferi. L’inserimento di

questa affermazione nel Credo sembra abbastanza tardivo: pare debba essere

collocato intorno al IV secolo. Il discorso non è privo di antecedenti biblici: si

vedano in proposito i brani di At 2,24-31; Rm 10,7; Ef 4,9 e 1Pt 3,18 ss. Per una

corretta interpretazione, si deve tener presente che è nel Medioevo che infera o

inferi viene ad indicare il regno dei non-beati; nel suo significato originario il

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termine indica di per sé il “regno dei morti” (l’ebraico Sheòl). Il contenuto

del’affermazione della discesa agli inferi sembra dover essere letto soprattutto in

due direzioni:

Innanzitutto vuole sottolineare la realtà della morte di Cristo: Egli è

veramente morto, ha fatto fino in fondo l’esperienza della morte.

In secondo luogo si vogliono evidenziare le dimensioni salvifiche della

morte di croce: la Pasqua di Cristo è il principio di salvezza per tutte le

generazioni umane che si sono succedute dall’inizio della storia. Non ci sono

zone o realtà del cosmo che siano state sottratte a questo influsso: tutta

l’umanità nella sua interezza e tutto l’universo fin nelle sue profondità più

recondite, vengono toccati da questa salvezza.

La croce e il dolore umano

La croce di Cristo, letta in profondità, ci offre delle prospettive per allargare lo sguardo

a considerare la massa sterminata ed enorme della sofferenza umana, la realtà diffusa

e inoppugnabile di eventi dolorosi che segnano la vicenda del singolo uomo e

dell’umanità intera, e prestare attenzione agli interrogativi che ne emergono: perché il

dolore? Che senso ha? Dove appare e si dimostra la volontà di salvezza di Dio, il suo

sconfinato amore per gli uomini, se ci confrontiamo con la “penosità” dell’esistenza

terrena, con la misura a volte sconfinata di dolore che la intride, e con la morte che la

conclude? E’ sempre risuonante la domanda degli scettici: perché Dio non ha impedito

il male? O Dio non può: e allora è davvero onnipotente? O è onnipotente ma malevolo

al tempo stesso?

E’ necessario innanzitutto affermare che, effettivamente, un discorso su Dio, una

eventuale prova della sua esistenza e una riflessione sulla sua realtà costruite

facilmente a partire dall’ordine dell’universo, dalla bellezza del creato, dalla maestosa

grandiosità della natura e dalla quasi perfezione di questa, sono un discorso e una

prova appunto troppo facili: perché si attribuisce a Dio l’ordine, la bellezza e la

perfezione, e non anche il disordine, il non-senso, il dolore?

Perché se in una frana alcuni si salvano allora viene letta come un miracolo e non si

legge come miracolo il fatto che la stessa frana ha provocato decine di morti? Per

quale motivo si attribuiscono a Dio solo i casi fortunati e non gli si addebitano anche le

disgrazie?

A volte la protesta, sul versante ateo, nei confronti della sofferenza umana, protesta

che giunge appunto sino alla negazione atea, è anche, per un certo verso, l’altra faccia,

speculare, di una visione, sul versante della fede, troppo “ottimistica” di Dio, troppo

“positiva”, troppo estranea alla negatività e alla problematicità dell’esistenza

dell’uomo. E’ urgente, quindi, una rilettura cristologica e pasquale del volto e della

realtà divina.

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Il Dio cristiano è Colui che, nel Figlio Suo, in particolare nella passione, morte di croce,

ha fatto in prima persona l’esperienza del dolore, della sofferenza, condividendo fini in

fondo la nostra situazione umana, con tutto il suo carico di male, di penosità, di morte:

il Dio di Gesù Cristo non è Colui che se ne è stato beato e immutabile nella sua infinita

trascendenza, nell’alto dei cieli da lui creati, e al quale gli interrogativi degli uomini

concernenti il dolore si rivolgono come dall’esterno, da lontano; bensì è quel “Dio

crocifisso” che proprio sulla croce ha mostrato supremamente fino a che punto

giungesse la sua solidarietà con noi. Sulla base di simili coordinate si deve dire che

l’interrogativo sul dolore riguarda da vicino, “dall’interno” Dio stesso, non è a Lui

estraneo o indifferente: Egli non si colloca come dall’altra parte, su un’altra sponda, la

sponda di chi infligge dolore e sofferenza, bensì si colloca dalla medesima parte di chi

soffre, e oppresso e quasi schiacciato dai dolori chiede: “Dio mio, Dio mio, perché mi

hai abbandonato?”

Ma proprio perché la croce di Cristo non è l’ultima parola, bensì è la croce del Risorto,

sfocia nella risurrezione e nella vita, può aprire prospettive di senso, per quanto

misteriose e non esaustivamente sondabili, anche di fronte alla sofferenza più atroce e

al dolore più insopportabile: il Dio di Gesù Cristo, il Dio della croce, il Dio della Pasqua è

sì radicalmente “interrogato” dal dolore umano, ma non sconfitto: è anzi precisamente

il fondamento, la condizione perché la croce dell’uomo, degli uomini, dell’umanità,

non sia irrimediabilmente un non-senso, un assurdo insuperabile.

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La risurrezione di Cristo

La testimonianza biblica

1Cor 15,3 ss. è il testo che rimanda agli elementi fondamentali del primitivo annuncio

della risurrezione: la proclamazione che il Crocifisso è risuscitato, l’affermazione che

questa morte-risurrezione è “secondo le Scritture”, le testimonianze oculari dei

discepoli che Colui che era morto vive. E’ chiaro che questo avvenimento costituisce la

base, il fulcro del messaggio neotestamentario: “Se Cristo non è stato risuscitato, allora

è vana la nostra predicazione ed è vana anche la nostra fede” (1Cor 15,14). Si deve

sottolineare che siamo di fronte non a descrizioni dell’evento pasquale, ma a

professioni di fede: si tratta di una “buona notizia” che Paolo stesso ha ricevuto, e che

egli fedelmente trasmette. Il richiamo alle Scritture permette di vedere la risurrezione

coma la risposta di Dio alla morte in croce ed, in particolare, permette di comprendere

questa morte non come un segno di abbandono di Gesù da parte di Dio, ma come una

manifestazione della divina volontà di salvezza. Le narrazioni della risurrezione

contenute nei Vangeli sinottici sono difficilmente accordabili nei particolari (numero e

destinatari del Risorto, giorno dell’ascensione, apparizioni in Galilea o a

Gerusalemme): ciascun evangelista rielabora il materiale comune secondo le

prospettive proprie del rispettivo Vangelo. Matteo per esempio dà un particolare

rilievo alle discussioni sul sepolcro vuoto e la cosa si spiega benissimo tenendo conto

delle esigenze apologetiche di un Vangelo scritto soprattutto per i Giudei. Luca insiste

sulla realtà corporea del Risorto e in un ambiente di pensiero greco come quello al

quale si dirige in particolare il suo Vangelo, questa sottolineatura ha la sua importanza

e il suo significato. Ma, al di là delle differenze, l’accordo sostanziale da parte di tutti e

tre i Vangeli sinottici è indiscutibile: per tutti la resurrezione è un fatto che riguarda

quel Gesù di Nazaret, del quale hanno precedentemente narrato le parole e le opere,

un fatto che lo rivela definitivamente per quello che è.

Questo avvenimento è senza spiegazioni e si impone alla fede dei discepoli: non è

qualcosa che loro si aspettassero, o che scaturisce dalle loro attese (Mc 16, 1-14).

Quel Gesù che i Giudei hanno messo a morte, da una parte è entrato in una nuova

maniera di essere, possiede pieni poteri universali; dall’altra parte non si è allontanato

dai suoi, perché è di nuovo in mezzo a loro “con ogni potere in cielo e in terra”, e

rimarrà in mezzo a loro “fino alla fine del mondo” (Mt 28). Incomincia allora il tempo

della predicazione e della testimonianza, il tempo della Chiesa: il Risorto è Colui cui è

donato lo Spirito, ed Egli lo dona ai discepoli perché possano capire sempre più

profondamente la testimonianza delle Scritture e annunciarla a tutte le genti (Lc 24).

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GESU’ E’ VERAMENTE RISORTO

Riprendendo il discorso a partire dalla centralità della risurrezione nel NT, si deve

innanzi tutto notare che il binomio morte-risurrezione è inscindibile, e concretamente

dà luogo alla Pasqua di Cristo: la risurrezione non è comprensibile senza la morte, e la

morte è per la risurrezione. E’ certo che senza la morte e senza la risurrezione di Cristo

noi non saremmo salvi. Si deve però accordare un rilievo tutto particolare alla

risurrezione, a partire da considerazioni diverse, che possono costituire anche i

principali punti di riferimento per sviluppare le fondamentali coordinate teologiche

riguardanti il mistero del Risorto.

La risurrezione rappresenta la definitiva vittoria sul peccato

Per sé, la morte è collegata con il peccato (Rm 5,12); in questo senso la morte di Cristo

rappresenta la sua partecipazione suprema alla nostra carne di peccato, è una morte

perpetrata dalla ingiustizia del mondo e quindi segno della suprema opposizione a Dio

da parte degli uomini. Se Cristo fosse rimasto nella morte, la croce sarebbe stata il

segno più evidente della sua sconfitta: le “potenze del peccato” avrebbero avuto

l’ultima parola, la luce sarebbe stata sconfitta delle tenebre. Ma alla morte di Cristo fa

seguito la risurrezione; e questa dice chiaramente e inequivocabilmente che lo

sconfitto non è Cristo, ma il peccato. La morte, per Gesù, non è la fine di tutto: sfocia

nella vita nuova, definitiva. E’ solo a partire da qui che allora si può capire anche il

significato della croce: già la morte, in quanto non subita, ma accettata per amore, è

principio di vita, perché per Cristo morire significa aderire fino in fondo alla volontà del

Padre, che è volontà di salvezza nei confronti degli uomini. E questa salvezza non viene

quasi magicamente , dall’esterno: l’amore di Dio non resta estraneo alla nostra storia

di peccato, ma anzi si fa solidale fino alle estreme conseguenze, fino alla morte,

appunto. Per ciò da questa morte può scaturire quella vita che è principio del nostro

rinnovamento, della nostra vita nuova: ma è precisamente nella vita, e non nella

morte, che risiede la nostra salvezza. E’ la risurrezione che proclama definitivamente e

inequivocabilmente la valenza di vita, di salvezza, che è insita nel gesto della morte di

croce: questa non è un progetto di morte, ma di vita. L’onnipotenza misericordiosa di

Dio opera la sua vittoria esattamente là dove sembra celebrarsi la sua sconfitta.

E’ nella risurrezione di Cristo che Dio ha definitivamente rivelato se stesso e definito il

suo essere Dio: Egli è un Dio “amante della vita” (Sap 11,26), che vuole la vita, non la

sofferenza, il dolore, la morte. Quel Dio che è all’origine della vita non può essere

sconfitto dalla morte: Colui che chiama all’essere le cose che non esistono, può far

scaturire anche dalla morte la vita. Il Dio di Gesù Cristo non è un Dio dei morti, ma dei

vivi. La risurrezione di Cristo è “secondo le Scritture” (1Cor 15,4), cioè manifesta

definitivamente quel volto di Dio del quale tutte le Scritture parlano, lungo tutta la

storia della salvezza. La risurrezione ci mostra che quel Gesù che era morto in croce,

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non va più cercato tra i morti, perché è vivo, così in chiesa non dobbiamo pensare che

ci sia un Cristo morto, ma vivo e presente.

La storicità della risurrezione

Alla luce di tutto il racconto neotestamentario, possiamo affermare che la risurrezione

non è un’allucinazione dei discepoli o una loro invenzione, ma è un fatto reale.

L’importanza, il significato della sua persona e della sua azione sono attuali ancora

oggi, non semplicemente perché ancora oggi la nostra, la mia esistenza si sente

interpellata da questa risurrezione annunciata, bensì perché questo annuncio si

realizza sulla base della realtà di ciò che è annunciato: Gesù è testimoniato dai

discepoli come vivente, e sperimentato come operatore nel presente. E vivente è il

Cristo in tutta la sua realtà personale, non solo la sua anima: è in questo senso che nel

NT si parla di resurrezione corporea. Gesù risorge in tutta la sua persona

(anima/corpo), sia pure trasformata. La risurrezione non significa diminuzione, ma

pienezza di vita: da questo punto di vista il Risorto non è liberato dalla sua corporeità,

ma risorge con e nella sua corporeità. Inoltre, bisogna sottolineare che, per quanto

riguarda il Risorto, il suo vincere la morte, il suo risorgere non è un liberarsi, un fuggire

dal mondo e dalla storia, ma un esservi presente in maniera diversa. La corporeità

della sua risurrezione dice anche questo: l’intera persona del Signore si trova

definitivamente presso Dio, ma mantiene un suo riferimento al mondo e a noi.

I titoli cristologici

Nella storia della teologia, sia cattolica che protestante, hanno avuto un particolare

ruolo, tra gli altri, tre titoli riferiti a Gesù: “profeta, re e sacerdote”. Soprattutto nella

Riforma protestante, questi tre titoli hanno assunto un valore sistematico, cioè sono

diventati praticamente uno schema fisso con il quale si presenta l’opera salvifica di

Gesù Cristo. Dal XVIII sec. questo schema è stato accolto anche dalla teologia cattolica.

I tre titoli di “profeta, re e sacerdote” non sono i soli che si incontrano nel NT riferiti a

Gesù Cristo.

Nel Vangelo di Marco, fin dall’intestazione, Gesù è presentato come il Cristo e il Figlio

di Dio. Marco insiste sull’insegnamento di Gesù, che però subordina alle sue gesta,

soprattutto ai miracoli, che svelano progressivamente il mistero della sua persona.

Marco attribuisce anche i titoli di: Figlio di Maria (l’unica volta in tutto il NT), Figlio di

David, Signore, Rabbì, Profeta, Figlio dell’Uomo e, al culmine della fede: Figlio di Dio,

detto dal centurione ai piedi della croce.

Matteo, oltre che raccogliere con ordine gli insegnamenti di Gesù, lo presenta vivente

in mezzo alla comunità dei fratelli riuniti nel suo nome, che lo riconoscono e lo

adorano come Signore e Salvatore. Gesù è il Messia che porta a compimento le

Scritture. E’ questa la componente di fondo che sta alla base della cristologia di

Matteo. Gesù è il Messia preannunziato dai profeti. Il compimento da parte di Gesù

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dell’AT è l’idea madre del vangelo di Matteo. Mt si riferisce di frequente alla identità

soprannaturale di Gesù: egli viene adorato dai Magi, è il Figlio che Dio chiama

dall’Egitto, è proclamato Figlio diletto nel battesimo. Anche i discepoli si prostrano

dinanzi a Lui e lo riconoscono come il Figlio di Dio, Pietro lo confessa come il Cristo, il

Figlio del Dio vivente.

Nel Vangelo di Luca, Gesù appare come l’incarnazione della bontà misericordiosa di

Dio. Egli è al centro della storia della salvezza. L’evangelista presenta Gesù come

l’uomo ideale e perfetto. A questo scopo omette, oppure sfuma, alcuni tratti ed

episodi elle sue fonti che potevamo offuscare questa immagine umana del Cristo. Egli

ritocca pure il racconto della passione, per salvaguardare la dignità sovrumana di Gesù:

nell’orto degli ulivi, questi non è presentato in preda allo spavento e all’angoscia, bensì

in atteggiamento di preghiera intensa e fiduciosa al Padre. Vengono tralasciate le

scene troppo avvilenti della flagellazione e della coronazione di spine. Luca attribuisce

vari titoli a Gesù, che riflettono una dottrina più tardiva di Cristo glorificato alla destra

del Padre, in pieno possesso delle prerogative che gli spettano come suo Figlio. Gesù è

il salvatore, titolo usato nei sinottici solo da Luca; Signore, Lc attribuisce questo titolo

sin dalla nascita; Figlio di Dio, Figlio di David, Figlio dell’Uomo, Cristo, Profeta.

In Gv, Gesù è il rivelatore dl Padre, il testimone fedele, la guida sicura verso il Padre.

Egli manifesta al mondo la verità, che consiste nella conoscenza del Padre e del suo

progetto di salvezza. Pure Gv attribuisce a Gesù i titoli di Cristo, Messia, Figlio di Dio,

Figlio dell’Uomo. Il Battista lo indica come l’Agnello di Dio che toglie i peccati del

mondo. Gesù deve affrontare il principe del mondo, Satana, per liberare l’umanità

dalla sua tirannia. Egli sarà innalzato sulla croce per rivelare l’amore del Padre e per

donare la vita eterna a chi accoglie il suo messaggio. Nella 1Gv troviamo: “Dio è

Amore” e questa formula è davvero riassuntiva di tutto il vangelo di Gv. Dire che Dio è

Amore, significa che tutta l’attività di Dio a nostro riguardo è ispirata all’amore: Gesù

Cristo è l’atto supremo di Dio Amore. Per Gv, Gesù non è un Dio accanto a Dio, ma

colui nel quale Dio si fa conoscere. Gv approfondisce progressivamente i rapporti tra

Gesù e il Padre. La relazione con il Padre è così intima e profonda che può affermare la

sua unità con Lui: “Io e il Padre siamo uno.”

LA SS. TRINITA’

Il Mistero della Santissima Trinità è il Mistero centrale della fede e della vita cristiana.

Soltanto Dio può darcene la conoscenza rivelandosi come Padre, Figlio e Spirito Santo.

La verità rivelata della Santa Trinità è stata, fin dalle origini, alla radice della fede

vivente della Chiesa, principalmente per mezzo del Battesimo. Trova la sua espressione

nella regola della fede battesimale, formulata nella predicazione, nella catechesi e

nella preghiera della Chiesa. Simili formulazioni già compaiono negli scritti apostolici,

soprattutto nelle lettere di Paolo. Nel corso dei primi secoli, la Chiesa ha cercato di

formulare in maniera più esplicita la sua fede trinitaria, sia per approfondire la propria

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intelligenza della fede, sia per difenderla contro errori che la alteravano. Fu questa

l’opera degli antichi Concili, aiutato dalla ricerca teologica dei Padri della Chiesa e

sostenuti dal senso della fede del popolo cristiano. Per la formulazione del dogma della

Trinità, la Chiesa ha dovuto sviluppare una terminologia propria ricorrendo a nozioni

di origine filosofica: “sostanza”, “persona” o “ipostasi”, “relazione”. Così facendo, non

ha sottoposto la fede ad una sapienza umana, ma ha dato un significato nuovo, insolito

questi termini assunti ora a significare anche un Mistero inesprimibile, “infinitamente

al di là di ciò che possiamo concepire a misura d’uomo” (Paolo VI, Credo del popolo di

Dio, 2).

La Chiesa adopera il termine “sostanza”, reso talvolta anche con “essenza” o “natura”,

per designare l’Essere divino nella sua unità, il termine “persona” o “ipostasi” per

designare il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo nella loro reale distinzione reciproca, il

termine “relazione” per designare il fatto che la distinzione tra le Persone divine sta nel

riferimento delle une alle altre.

Il dogma della Santa Trinità

La Trinità è Una. Noi non confessiamo tre dei, ma un Dio solo in tre Persone, la Trinità

consustanziale. Le Persone divine non si dividono l’unica divinità, ma ciascuna di esse è

Dio tutto intero. Le Persone divine sono realmente distinte tra loro. Padre, Figlio e

Spirito Santo non sono semplicemente nomi che indicano modalità dell’Essere divino,

essi infatti sono realmente distinti tra loro: il Figlio non è il Padre, il Padre non è il

Figlio, e lo Spirito Santo non è il Padre o il Figlio. Sono distinti tra loro per le loro

relazioni di origine: è il Padre che genera, il Figlio che è generato, lo Spirito Santo che

procede. Tutta l’economia divina è l’opera comune delle tre Persone divine. Infatti, la

Trinità, come ha una sola e medesima natura, così ha una sola e medesima operazione.

Tuttavia, ogni Persona divina compie l’operazione comune secondo la sua personale

proprietà. Tutta l’economia divina, opera comune e insieme personale, fa conoscere

tanto le proprietà delle Persone divine, quanto la loro unica natura. Allo stesso modo,

tutta la vita cristiana è comunione con ognuna delle tre Persone divine, senza in alcun

modo separarle. Chi rende gloria al Padre lo fa per il Figlio nello Spirito Santo; chi segue

Cristo, lo fa perché il Padre lo attira e perché lo Spirito lo guida. Il fine ultimo dell’intera

economia divina è che tutte le creature entrino nell’unità perfetta della Beata Trinità.

Ma fin d’ora siamo chiamati ad essere abitati dalla Santissima Trinità: “Se uno mi ama”,

dice il Signore, “osserverà la mia Parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e

prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23).

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Fu concepito di Spirito Santo, nacque da Maria Vergine

IL FONDAMENTO BIBLICO DELLA DOTTRINA MARIANA

Che cosa possiamo trovare nella Bibbia on riferimento a Maria? Quali sono i testi?

Il testo più antico lo troviamo nella lettera di San Paolo ai Galati 4,4:

“Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato

sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessero

l’adozione a figli”. E’ l’unico accenno che Paolo fa alla figura di Maria. Marco parla di

Maria nei testi 3,25. 31-35 e 6,3.

Nel testo 6,3 c’è il riferimento a Gesù come figlio di Maria; nei testi sacri Gesù è

indicato sempre come il figlio di Maria e non come il figlio di Giuseppe, elemento

importante visto che veniva sempre citata la paternità e non la maternità. Per Matteo

è necessario citare i capitoli 1 e 2, i vangeli dell’infanzia. Anche Luca parla di Maria ai

capitoli 1-2, però Luca il suo racconto lo fa dal punto di vista di Maria.

Luca riporta l’episodio di Gesù al tempio; in occasione della visita dei pastori presenta

Maria come colei che osserva attentamente, come colei che si chiede il significato

delle cose che vede, come la vergine madre. Questo significa che Maria è una donna di

fede, una donna che cammina nella fede.

Per quanto riguarda Giovanni facciamo riferimento a due testi: alle nozze di Cana in

cui Maria, donna e madre, è intraprendente a tal punto da prendere una iniziativa

presso il figlio.

Il termine donna che Gesù utilizza non è dispregiativo, questo termine è utilizzato

anche nella Genesi e al Calvario. Giovanni presenta Maria all’inizio della vita pubblica

di Gesù e nel momento della croce, momento di grande dolore e sofferenza.

L’Apocalisse 12 parla di una donna vestita di sole, con in testa una corona di 12 stelle, è

una donna che sta per partorire ed è minacciata dal Drago. In Apocalisse 12 si parla

della Chiesa ,la donna è la Chiesa. Dal punto di vista letterale si parla della Chiesa, dal

punto di vista tipico in quella donna è stata vista la figura di Maria.

Ci sono testi dell’Antico Testamento che letti alla luce del Nuovo possono essere

considerati come precursori della figura di Maria:

-Genesi 3,15: io porrò inimicizia;

-Isaia 7,14 : ecco la vergine concepirà;

-Michea 5 : quando colei che deve partorire partorirà;

-Sofonia 3,14: rallegrati Figlia di Sion.

Dall’Antico Testamento si potrebbero anche prendere in considerazione le figure di

alcune donne bibliche che in qualche modo potrebbero essere considerate figure di

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Maria, partendo dalla donna di cui si parla in Genesi 3,15 , Giuditta. Si potrebbero

prendere in considerazione anche dei simboli che in qualche modo alludono a misteri

propri di Maria ,per esempio il giardino di cui si parla nel Cantico dei Cantici, giardino

chiuso in cui qualcuno vede la verginità di Maria, un altro simbolo potrebbe essere il

roveto ardente che brucia e non si consuma, anche questo simbolo della verginità.

I dogmi mariani

MATERNITA’ DIVINA DI MARIA

Il mistero chiave riguardante Maria è la maternità divina.

Questo mistero viene celebrato dalla Chiesa come solennità all’inizio di ogni anno

civile, il I° Gennaio; è anche la giornata della pace, ma è prima di tutto e soprattutto la

solennità di Maria madre di Dio.

A proposito di questo importantissimo mistero nei Vangeli ci sono due riferimenti:

1) l’annuncio dell’angelo a Giuseppe Mt.1,18ss;

2) l’annuncio dell’angelo a Maria Lc.1,26ss.

L’ANNUNCIO A GIUSEPPE Mt.1,18ss.

Tale annuncio si sviluppa attraverso alcuni elementi:

1) SITUAZIONE DEI PERSONAGGI.

I personaggi sono Maria e Giuseppe, essi sono promessi sposi.

Presso gli ebrei il fidanzamento equivale ad un contratto di matrimonio vero e proprio,

sono marito e moglie, sono sposi ma non coabitano. Maria si trova incinta tra il

fidanzamento matrimonio e la coabitazione. Solitamente da una fase all’altra passa un

anno. Maria si trova in questo periodo intermedio.

2) L’APPARIZIONE DELL’ANGELO

Giuseppe è un uomo giusto, questo titolo lo qualifica, ma non sa come comportarsi

con Maria la quale aspetta un figlio che non è il suo. La deve esporre al pubblico, la

deve considerare adultera? In questo contesto l’angelo appare in sogno a Giuseppe.

3) MESSAGGIO

Il messaggio dato dall’angelo è: ”Non temere di prendere con te Maria tua sposa

perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo.” L’elemento centrale è

costituito dal messaggio che contiene delle espressioni importanti:

“Non temere”, è una frase che ritorna più volte nella Sacra Scrittura: Geremia,

Zaccaria, Maria, Giuseppe, gli Apostoli.

L’angelo invita Giuseppe a fidarsi di Dio, ad avere fiducia, ad abbandonarsi alla volontà

di Dio, a scommettere sulla sua Parola.

E’ come se Dio dicesse: ”non preoccuparti Giuseppe, ci penso io, quello che tu non

riesci a capire, o quello che a te sembra impossibile è chiaro ai miei occhi”.

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Giuseppe Figlio di Davide è importante perché grazie alla paternità legale di Giuseppe

che Gesù appartiene alla stirpe di Davide, grazie a Giuseppe che gli dà la paternità.

Per questo motivo Matteo comincia il suo Vangelo con la ”Genealogia di Gesù Cristo

Figlio di Davide, erede di Davide, discendente di Davide”, e poi: ”Non temere,

Giuseppe, figlio di Davide”.

“Quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo.”

Questa espressione ci aiuta a comprendere sostanzialmente due cose:

a) Maria concepisce per opera dello Spirito Santo ; quindi Maria è la vergine ante-

partum, il suo concepimento avviene per la potenza dello Spirito Santo, è un

concepimento verginale. In termini molto semplici possiamo dire che il concepimento

di Gesù non avviene come solitamente avvengono i concepimenti di questo mondo.

b) Seconda grande verità: appunto perché Maria concepisce per opera dello Spirito

Santo e il Figlio è colui che salva, Maria può essere detta la madre di Dio.

In questo Matteo vede la realizzazione di un’antica profezia: Isaia 7,12: “Ecco la

vergine concepirà e partorirà un figlio che sarà chiamato Emmanuele”.

Matteo ci fa capire che la vergine di cui parla Isaia è Maria e che quel figlio di cui parla

Isaia è Gesù nella realtà messianica. Il concepimento di cui parla Matteo è un miracolo.

Maria è madre di Dio, perché genera Dio.

4) ECCOMI DI GIUSEPPE

Giuseppe è grande davanti a Dio e davanti agli uomini, perché è un uomo giusto e si

fida di DIO, si abbandona a DIO, perché accetta pur capendo fino ad un certo punto il

suo disegno nei suoi confronti e nei confronti di Maria. Più volte si parla dell’ECCOMI di

Maria, ma è necessario anche considerare l’ECCOMI di Giuseppe.

L’ANNUNCIO A MARIA (Lc.1,26 ss.)

Dal punto di vista letterario può essere considerato anche questo un racconto di

annunciazione.

Gli elementi sono:

1)SITUAZIONE DEI PERSONAGGI

Anche qui i personaggi sono Maria e Giuseppe, sono fidanzati, cioè promessi sposi,

cioè sposati dal punto di vista giuridico, ma non abitano insieme.

2)APPARIZIONE E SALUTO DELL’ANGELO

L’angelo saluta Maria con questa espressione: kairè kecharitomene, che vuol dire

rallegrati, non è un semplice saluto. E’ un invito alla gioia perché Maria è la KECHARI-

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TOMENE, quindi rallegrati tu che sei la favorita di Dio, potremmo tradurlo anche con la

privilegiata di Dio, tu che sei oggetto di compiacenza da parte di Dio.

E’ più di un semplice saluto. Questo KAIRE’ ricorda quanto Sofonia scrive nel cap.3

versetto 14 del suo libro a proposito della Figla di Sion.

Questo rallegrati kecharitomenetu in qualche modo richiama alla nostra attenzione il

gioisci che Dio attraverso il profeta rivolge alla Figlia di Sion, che è il popolo di Israele.

3)TURBAMENTO DI MARIA

Il turbamento di Maria sta ad indicare sostanzialmente due cose:

a)Maria non capisce fino in fondo il significato delle parole dell’angelo.

Di fronte a queste parole kaire Kecharitomene si interroga, capisce fino ad un certo

punto e da questo nasce un senso di turbamento.

Ma possiamo dare anche un’altra spiegazione del turbamento di Maria.

b)Il turbamento di Maria da una parte evidenzia la fragilità, la piccolezza, la caducità

dell’ora..

Maria capisce di trovarsi in qualche modo davanti a Dio perché si trova davanti al suo

messaggio e davanti al mistero di Dio non può non sentire la grandezza di Dio e non

può non avvertire la sua fragilità e la sua piccolezza. Da questo nasce un senso di

turbamento.

4)MESSAGGIO

Il messaggio contiene delle espressioni:

1° NON TEMERE Maria ,l’angelo esorta Maria a fidarsi di Dio;

2°TU HAI TROVATO GRAZIA PRESSO DIO

Questa espressione riprende quanto l’angelo aveva detto poco prima, cioè kaire

kecharitomene, in pratica l’angelo riprende l’espressione detta al suo saluto non

temere perché tu hai trovato grazia presso Dio, tu sei la privilegiata.

3°”TU AVRAI UN FIGLIO “”SARA’ IL FIGLIO DELL’ALTISSIMO””SARA’ IL MESSIA.

Questa espressione costituisce il cuore del messaggio che può essere tradotto come:

“Ti dò una bella notizia :Dio ti ha chiamata ad essere madre, tu avrai un figlio, sarà il

figlio dell’Altissimo, gli darà il trono di Davide”.

Con questo riferimento Luca rimanda la nostra attenzione al II libro di Samuele 7,1ss,

che fonde il messianismo regale, nella quale si parla di un progetto di Davide che vuole

fare una casa al suo Signore, un tempio, ma il progetto di Dio è diverso, sarà Dio a dare

una cosa a Davide, sarà Dio a dargli una discendenza di stirpe regale, il suo regno non

avrà mai fine.

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Quindi Luca dice che questo figlio è il Messia atteso. Questo è il messaggio in forza del

quale Maria è chiamata ad essere madre, la madre del Figlio dell’Altissimo, la madre

del Messia.

4° INTERROGAZIONE DI MARIA

Maria si interroga e interroga: ”com’è possibile dal momento che io non conosco

uomo?”

Qual è il significato di questa espressione? questa espressione può avere due

spiegazioni:

-Maria è già promessa sposa, è già, dal punto di vista giuridico, sposata; però non vive

ancora con Giuseppe, si trova nella fase intermedia tra il fidanzamento –matrimonio e

la coabitazione. Trovandosi in questa fase Maria dice: Come è possibile dal momento

che io non vivo con Giuseppe?

Se questa spiegazione è vera, Maria capisce che deve essere madre, ma si muove su un

piano umano.

-La seconda spiegazione risale ai Padri della Chiesa ed è stata ripresa continuamente

da molti teologi. E’ come se Maria dicesse all’angelo: ”io ho capito quello che tu mi

dici, ma come è possibile dal momento che io ho già fatto voto di verginità? Come

conciliare verginità e maternità?”

Quindi Maria non riesce a comprendere come sia possibile essere vergine e madre.

La chiave di lettura è questa: non ragionate secondo gli uomini perché umanamente è

impossibile ma a Dio nulla è impossibile.

La domanda di Maria è legittima, diversa da quella di Zaccaria.

Zaccaria apparentemente davanti all’angelo che gli comunica la bella notizia fa la

stessa domanda; ma Zaccaria esprime la sua incredulità. Maria non dice non ci credo,

ma chiede di comprendere meglio.

Maria non ha capito tutto e subito, perché se così fosse non avrebbe avuto bisogno di

camminare nella fede, invece lei ha camminato nella fede, ed è nostra sorella anche in

questo, ed è nostra madre anche in questo.

Maria non è una dea, né una divinità, non le si può affidare lo schema del più perfetto,

non si può dire la più grande, perché significa distruggere questa creatura umanissima,

senza macchia di peccato alcuno, tutta casta ma donna e creatura.

5° RISPOSTA DELL’ANGELO

Nella risposta dell’angelo le cose da evidenziare sono:

-Ci penserà lo Spirito Santo, scenderà su di te, quindi Maria concepisce per opera dello

Spirito Santo.

-“su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo”; con questo particolare Lc

presenta Maria come l’Arca della Nuova Alleanza.

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Maria è la nuova arca perché grazie allo Spirito Santo concepisce Gesù, colui che farà la

Nuova ed Eterna Alleanza.

Perché Maria possa dire con senso di responsabilità il suo Eccomi, l’angelo le da un

segno: la maternità insperata di Elisabetta. Maria non ragiona secondo gli uomini ma

secondo Dio, a Lui tutto è possibile.

Maria davanti a queste spiegazioni dice:

6° ECCOMI

Quando Dio chiede qualcosa dà anche la grazia necessaria perché si possa capire,

magari fino ad un certo punto, e dire “Eccomi”!

LA VERGINITA’ DI MARIA

La verginità di Maria è una verità insegnata dai padri della Chiesa. Quando parliamo di

Padri della Chiesa facciamo riferimento a coloro i quali nei primi otto secoli della vita

della Chiesa ,si sono particolarmente distinti per la loro santità e ortodossia. Tra i padri

ricordiamo Ignazio di Antiochia, autore di alcune celeberrime lettere da lui scritte ad

alcune Chiese Cristiane, lungo il viaggio che dal Medio Oriente lo ha portato in catene a

Roma, in vista del martirio. Ignazio nella lettera agli smiruesi afferma che: Gesù è nato

veramente da una vergine.

Poi c’è un brano della lettera ai Cristiani di Efeso: al principe di questo mondo rimase

nascosta la verginità di Maria e anche il suo parto e così pure la morte del Signore;

sono questi i tre misteri strepitosi che si compirono nel silenzio di Dio.

Alle testimonianze di Ignazio ne possiamo aggiungere altre.

Ignazio vive tra il I e l’inizio del II secolo, quindi è contemporaneo degli apostoli ed è

probabilmente il padre più antico che noi abbiamo.

Quindi queste testimonianze hanno un valore particolare sia per il contenuto ma anche

per l’antichità.

3.La verginità di Maria è una verità confessata, proclamata dalla Chiesa, anche

attraverso simboli, definizioni conciliari e documenti del magistero.

-Per i simboli basta citare il simbolo Niceno-costantipolitano; è il simbolo che attinge

letteralmente alla definizione conciliare del concilio di Costantinopoli I del 381 che

troviamo in un’ espressione che noi diciamo ogni domenica:

“per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della vergine Maria e si è fatto

uomo.”

- Delle definizioni conciliari è necessario ricordare in modo particolare quella del

Concilio di Calcedonia del 451.

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“generato dal Padre prima dei secoli secondo la divinità, ma nato in questi ultimi giorni

per noi e per la nostra salvezza da Maria la vergine madre di Dio secondo l’umanità.”

-Degli interventi del magistero citiamo la costituzione di Paolo IV del 1556.

Questa costituzione è importante perché è proprio questa che fa la distinzione tra

verginità prima, durante e dopo il parto.

LA VERGINITA’ PRIMA DEL PARTO

In che cosa consiste la verginità prima del parto?

Maria concepisce Gesù per opera dello Spirito Santo, a dirlo con estrema chiarezza è il

Vangelo di Mt 1,18ss e Lc 1,26ss.

Questa grande verità di fede è stata oggetto di contestazione da parte di qualche

esegeta e da parte di qualche teologo.

Secondo loro Mt e Lc, nel dire le cose che hanno detto, si sono lasciati influenzare sia

dalla mitologia pagana sia da profezie vetero-testamentarie.

Secondo questi miti pagani, gli dei si sarebbero uniti a donne per dare vita a semidei.

Lasciandosi influenzare da questo Mt e Lc avrebbero raccontato del concepimento di

Gesù da parte di Maria in maniera verginale.

Ecco la logica:

Spirito Santo-Maria-Gesù

Dei-Donne-Semidio

La divinità si univa alla donna e nasceva un semidio ma il caso di Gesù è

completamente diverso.

Gesù non è Dio in forza del suo concepimento verginale nel grembo di Maria, perché

egli è il Figlio di Dio che incarnandosi si fa uomo. Il concepimento verginale non è il

fondamento della divinità di Gesù. Per cui non c’è stata influenza alcuna da parte di

miti pagani nel racconto del concepimento verginale da parte di Maria.

La seconda obiezione: Mt e Lc avrebbero attinto a testi dell’Antico Testamento per

raccontare il concepimento verginale da parte di Maria.

Mt riprende il testo di Isaia “la vergine concepirà e partorirà un figlio sarà chiamato

Emmanuele.”

Nel testo originale c’è Almà, vuol dire alla lettera: giovane donna in grado di maritarsi,

quindi che sia vergine o che non sia vergine non ha importanza alcuna.

La conferma l’abbiamo da un testo della Sacra Scrittura in cui viene utilizzato il termine

Almà ma della quale sappiamo con estrema certezza che vergine non è.

Quanto al testo, nella Bibbia dei LXX, il termine Almà è stato tradotto in greco con

parthenos, che vuol dire vergine.

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Comunque Mt parte dalla fede della civiltà cristiana secondo la quale Maria è vergine e

trova in Isaia un riferimento. Quindi non è Isaia che influenza Mt ma è la Chiesa che

professa la verginità di Maria. Il percorso è al contrario.

Ci poniamo una domanda ancora : ma al tempo di Gesù la verginità era ritenuta un

valore ampiamente condiviso? O era condiviso e praticato da piccole cerchie?

Al tempo di Gesù la donna tendeva a sposarsi anche per motivi religiosi, in vista del

Messia, quindi la verginità non era un valore ampiamente condiviso ma era vissuto in

alcuni ambienti, come presso gli Esseni: in esso, infatti, c’erano coloro che sceglievano

la verginità e altri che si sposavano.

VERGINITA’ DURANTE IL PARTO

Maria è vergine durante il parto. Questa espressione veniva spiegata fino a qualche

tempo fa dando una motivazione di tipo ginecologico, secondo la quale Maria durante

il parto non avrebbe sofferto dolore alcuno. In Maria non sarebbe avvenuto ciò che

avviene alle altre donne quando danno alla luce un bambino.

Da alcuni anni a questa parte la Chiesa ha abbandonato questa spiegazione,

avvicinandosi invece alla spiegazione nella prospettiva della fede: è un mistero, resta

un mistero che non può essere spiegato in chiave medica. Da credenti affermiamo il

fatto senza spiegarlo. E’ preferibile comunque pensare ad una Maria che soffre dando

alla luce Gesù, piuttosto che ad una Maria dove Gesù passa senza che Lei se ne

accorga, senza travaglio, senza dolore.

Sarebbe una mamma per certi aspetti deprivata di quegli elementi che sono propri del

processo naturale e che non sono necessariamente legati al peccato.

VERGINITA’ DOPO IL PARTO

La verginità dopo il parto vuol dire che Maria al di là di Gesù non ha avuto altri figli. Ma

se questo fosse vero come spiegare le espressioni più ricorrenti nei Vangeli che fanno

riferimento ai fratelli e sorelle di Gesù?

A questa domanda possiamo dare alcune spiegazioni:

1. Innanzitutto l’ebraico o aramaico è una lingua povera di vocaboli e quindi con un

solo termine si vogliono dire più cose. Nel caso specifico il termine usato nel Vangelo

può significare: fratello, sorella, fratellastro, cugino , familiare, parente più o meno

lontano, e anche compagno.

2. Gesù sul Calvario, prima di morire consegna sua madre a Giovanni, il discepolo che

lui amava. Se Gesù avesse avuto fratelli e sorelle l’avrebbe consegnata a loro e non a

Giovanni!

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3. Gesù è Figlio primogenito, come possiamo parlare di verginità perpetua se Gesù è

detto Figlio primogenito? Questo termine implicherebbe altre figure di fratelli e

sorelle.

Nella Sacra Scrittura il termine primogenito sta ad indicare colui che nasce per primo a

prescindere dal fatto che dopo siano nati altri, l’erede, colui il quale ha diritto ai beni.

Quindi l’unigenito è il primogenito. Questo è confermato da una scoperta

archeologica. In Egitto è stata trovata una pietra tombale, risalente al tempo di

Augusto, quindi al tempo di Gesù; questa pietra riporta questa espressione:

“qui giace…morta dopo aver dato alla luce il suo primogenito”.

Se la donna è morta non ha potuto dare alla luce altri figli, quindi è una conferma del

significato di primogenito come unigenito.

5. La spiegazione principale che possiamo e dobbiamo portare è che la verginità

perpetua di Maria è stata sempre professata, confessata dalla Chiesa.

Quando la Chiesa nell’universalità dei suoi membri confessa una verità di fede gode

dell’infallibilità.

L’IMMACOLATA CONCEZIONE

Questa solennità viene celebrata dalla Chiesa ogni anno, nel tempo di avvento, l’8

dicembre.

Parlare di questo mistero significa rispondere a quattro domande :

1.Cosa significa Immacolata concezione? A questa domanda si potrebbe rispondere

con la definizione dogmatica proposta dalla bolla Ineffabilis Deus di Papa Pio IX, che l’8

dicembre 1854 definì solennemente Maria Immacolata Concezione.

In che cosa consiste questo mistero? Maria, per un dono, per un privilegio che Dio le

ha concesso e in virtù dei meriti che Cristo avrebbe acquisito con la Pasqua, è stata

preservata da ogni macchia di peccato originale fin dal primo istante del suo

concepimento. Ogni cristiano viene concepito e nasce portando dentro i segni del

peccato originale; ogni cristiano ha bisogno di essere battezzato; ogni cristiano ha

avuto bisogno di essere, cioè, liberato dal peccato originale in forza della Pasqua di

Gesù che è stata partecipata attraverso il Sacramento del Battesimo. Maria è stata

redenta non nel senso che è stata liberata, ma nel senso che è stata preservata.

Questa è la verità che Pio IX definì solennemente quattro anni prima che Maria

apparisse a Santa Bernadetta a Lourdes, presentandosi come l’immacolata concezione.

La definizione canonica contiene tre verbi: dichiariamo, pronunciamo, definiamo; sono

i verbi con i quali il papa procede alla solenne definizione di una verità da credere.

Il soggetto di questa solenne definizione è la Beata Vergine Maria.

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2.Perché è stata preservata dal peccato?

Maria non è stata preservata per meriti particolari, ma per singolare grazia e privilegio

da parte di Dio. Dio ha semplicemente voluto così, le ha fatto questa grazia, le ha dato

questo privilegio.

LA GLORIOSA ASSUNZIONE IN CIELO

Il primo novembre 1950 Papa Pio XII definì solennemente il mistero dell’assunzione di

Maria in anima e corpo nella gloria del cielo. Il testo della definizione lo troviamo nella

bolla Muneficentissum Deus. Anche per questa definizione dobbiamo fare delle

sottolineature:

Nel testo vengono citati alcuni dogmi di Maria che costituiscono altrettanti misteri:

maternità divina, immacolata concezione e verginità perpetua. Questi dogmi sono il

fondamento teologico dell’assunzione di Maria in cielo, perché per questo mistero non

abbiamo indicazioni di carattere biblico.

Perché Maria è stata assunta in cielo? Perché lei è la Madre, perché lei è l’Immacolata

Concezione, perché è la sempre Vergine, perché la sua vita l’ha vissuta con Gesù e per

Gesù ed era opportuno che con Gesù condividesse anche la gloria.

“Terminato il corso della sua vita terrena”. Con questa espressione Pio XII non intese

sposare nessuna delle tesi riguardanti la fine di Maria. Per alcuni Maria non è morta,

ma non si sa cosa le è successo, è transitata, il suo corpo è stato trasformato; per altri è

morta al termine della sua vita terrena, ma non sappiamo come.

Il papa, nella solenne definizione non intese prendere posizione né per gli uni né per gli

altri, si espresse così : “al termine della sua vita terrena” ma senza dire come Maria

abbia chiuso la sua esistenza terrena. Comunque ,una ragione per cui possiamo dire

che Maria è morta consiste nel fatto che la morte appartiene alla natura umana, è la

conclusione di un ciclo biologico che comincia, si sviluppa e finisce. La morte come tale

non è necessariamente conseguenza del peccato, al peccato dobbiamo la

drammaticità della morte, la tragicità della morte ma non la morte in quanto tale.

Se Maria è morta, l’assunzione per lei significa : resurrezione e glorificazione del

corpo.

In che cosa consiste il mistero dell’assunzione di Maria? Consiste nella resurrezione,

nella glorificazione del corpo di Maria.

Maria fa l’esperienza fatta precedentemente da Gesù. Maria ha fatto l’esperienza che

ogni uomo al termine della storia farà, quando ci sarà la resurrezione dalla morte per

tutti.

Il termine assuntio è un termine occidentale, in Grecia o altrove si parla della festa

della Dormitio Mariae.

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Su questo mistero oriente e occidente la pensano allo stesso modo, solo che in

occidente abbiamo avuto una definizione solenne, in oriente non ne hanno avuto il

bisogno o non hanno sentito di procedere ad una definizione solenne.

La differenza tra occidente e oriente è nell’intervento ministeriale, per l’occidente è

una definizione dogmatica , per l’oriente è una verità di fede.

COOPERAZIONE DI MARIA CON GESU’ PER LA REDENZIONE DEL GENERE UMANO

Maria è colei che collabora, coopera con Dio, al quale dice di ‘’si’’ per la salvezza di

tutti gli uomini. Maria collabora, coopera con Gesù, e la sua collaborazione comincia

con l’eccomi dell’annunciazione. Maria ha collaborato con Gesù fino alla fine per la

salvezza del genere umano. Ora nel silenzio, ora nella sofferenza, ora nella gioia.

Tuttora Maria coopera, tuttora Maria intercede presso il Padre, presso il Figlio. E’ la

Madre che intercede in favore dei figli che sono ancora pellegrini sulla terra.

Parliamo di cooperazione, non di corredenzione e né di mediazione perché il termine

collaborazione o cooperazione è meno equivoco. Maria quindi è cooperatrice, non

mediatrice né corredentrice. Anche il Vaticano II ha evitato questa terminologia. Le

espressioni sono legittime però utilizzandole è necessario dare qualche spiegazione.

Perché creare problemi di dialogo, quando la verità può essere detta con termini facili,

accessibili e comprensibili da tutti?

La collaborazione di Maria all’opera redentrice di Gesù non aggiunge e non toglie

niente; Gesù non ha bisogno di nessuno per salvare il genere umano, non ha bisogno

neanche di Maria.

Lui è l’unico Salvatore e Signore; un solo Signore, un solo Cristo, un solo salvatore,

Gesù Cristo ieri, oggi, sempre.

Quindi nessun mediatore e nessuna mediatrice oltre Lui. Gesù sulla croce affida Maria

a noi, Gesù sulla croce affida noi a Maria. Sul Calvario ai piedi della croce Maria diventa

la nostra madre.

LA SANTA CHIESA CATTOLICA

La parola “Chiesa”, “ekklèsia” dal greco “ek-kalein”, cioè “chiamare fuori”, significa

“convocazione”. Indica assembleee del popolo, generalmente di carattere religioso. E’

il termine frequentemente usato nell’AT greco per indicare l’assemblea del popolo

eletto riunita davanti a Dio. Definendosi Chiesa, la prima comunità di coloro che

credevano in Cristo si riconosce erede di quell’assemblea. In essa, Dio convoca il suo

Popolo da tutti i confini della terra. Il termine “Kyriakè”, da cui sono derivati “Church”,

“Kirche” significa “colei che appartiene al Signore”. Nel linguaggio cristiano, il termine

“Chiesa” designa l’assemblea liturgica, ma anche la comunità locale o tutta la comunità

universale dei credenti. Di fatto questi tre significati sono inseparabili. La “Chiesa” è il

popolo che Dio raduna nel mondo intero. Essa esiste nelle comunità locali e si realizza

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come assemblea liturgica, soprattutto eucaristica. Essa vive della Parola e del Corpo di

Cristo, divenendo così essa stessa Corpo di Cristo.

Per comprendere il mistero della Chiesa, è bene considerare innanzitutto la sua origine

nel disegno della Santissima Trinità e la sua progressiva realizzazione nella storia.

Quando parliamo di mistero, non dobbiamo intendere qualcosa di misterioso, ma

dobbiamo riferirci ad un progetto di Dio. E’ un progetto nascosto nella mente del

Padre, svelato attraverso i Profeto e attuato in Cristo. La Chiesa, quindi, proviene da un

piano che è nella mente di Dio da sempre, è una realtà che viene dall’alto e in

particolare San paolo, nei capp. I e II della Lettera agli Efesini, rende chiaro il concetto

di Misteryon, inteso come progetto. La Chiesa è dunque una realtà teandrica, cioè

divina e umana allo stesso tempo. La Chiesa viene dalla SS. Trinità: fin dall’eternità c’è

nella mente del Padre un piano, un progetto che consiste nel ricapitolare in Cristo tutte

le cose, cioè unificare, fare degli uomini un’unica grande famiglia di figli di Dio. La

Chiesa che viene dalla Trinità, coinvolge tutte e tre le Persone della Trinità

Il Padre è Colui che ha pensato da sempre la Chiesa e ha realizzato il suo progetto

attraverso parole (i profeti) e segni (il popolo di Israele). Il Figlio è il primo grande

missionario, Colui che è venuto non per svelare ma per dare inizio. Nel Vangelo di

Matteo, al cap. 10, 5-7, troviamo: “Questi dodici Gesù li inviò dopo averli così istruiti:

“Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani; rivolgetevi piuttosto

alle pecore perdute della casa d'Israele. E strada facendo, predicate che il regno dei

cieli è vicino”. Per realizzare il progetto, Gesù non può fare a meno del segno posto dal

Padre: il popolo di Israele. Egli parte quindi proprio da Israele, ma Israele da quel

momento richiamerà tutto il popolo dei credenti. La Chiesa agisce insieme allo Spirito

che attualizza nel tempo l’opera di Cristo. Lo Spirito santifica la Chiesa, attraverso

Cristo ci da accesso al Padre, ci dona la vita dopo il peccato, dimora nella Chiesa e nei

cuori dei fedeli come in un tempio; introduce la Chiesa nella pienezza della Verità;

edifica la Chiesa e la istruisce con diversi doni carismatici e ministeri. Lo Spirito agisce

come koinonìa, cioè Comunione, esso si serve della Chiesa come strumento per

arrivare al progetto finale di Unità.

La Chiesa è stata istituita da Gesù Cristo che ha convocato il piccolo gregge attorno a sé

e di cui Egli stesso è pastore. A coloro che ha radunati, ha insegnato un modo nuovo di

comportarsi, ma anche una preghiera loro propria. Il Signore Gesù ha dotato la sua

comunità di una struttura che rimarrà fino al pieno compimento del Regno.

Innanzitutto vi è la scelta dei Dodici con Pietro come loro capo. Rappresentano le

dodici tribù di Israele, essi sono i basamenti della nuova Gerusalemme, I Dodici e gli

altri discepoli partecipano alla missione di Cristo, al suo potere, ma anche alla sua

sorte. Attraverso tutte queste azioni Cristo prepara ed edifica la sua Chiesa.

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IL POPOLO DI DIO

Il Codice di Diritto Canonico ai cann. 207 – 209 definisce: “Per istituzione divina vi sono

nella Chiesa tra i fedeli i ministri sacri, che nel diritto sono chiamati anche chierici; gli

altri fedeli poi sono chiamati anche laici. Dagli uni e dagli altri provengono fedeli i quali,

con la professione dei consigli evangelici mediante voti o altri vincoli sacri, riconosciuti

e sanciti dalla Chiesa, sono consacrati in modo speciale a Dio e danno incremento alla

missione salvifica della Chiesa.”; “Fra tutti i fedeli, in forza della loro rigenerazione in

Cristo, sussiste una vera uguaglianza nella dignità e nell’agire, e per tale uguaglianza

tutti cooperano all’edificazione del Corpo di Cristo, secondo la condizione e i compiti

propri di ciascuno.”; “I fedeli sono tenuti all’obbligo di conservare sempre, anche nel

loro modo di agire, la comunione con la Chiesa.”.

Il Popolo di Dio presenta caratteristiche che lo distinguono nettamente da tutti i

raggruppamenti religiosi, etnici, politici o culturali della storia.

E’ il popolo di Dio: Dion non appartiene in proprio ad alcun popolo. Ma Egli da coloro

che un tempo erano un non-popolo ha acquistato un popolo: “la stirpe eletta, il

sacerdozio regale, la nazione santa” (1Pt 2,9).

Si diviene membri di questo popolo non per la nascita fisica, ma per la “nascita

dall’alto”, “dall’Acqua e dallo Spirito” (Gv 3, 3-5), cioè mediante la fede in Cristo e il

Battesimo.

Questo Popolo ha per Capo (Testa) Gesù Cristo (Unto, Messia): poiché la medesima

Unzione, lo Spirito Santo scorre dal Capo al Corpo, esso è il “Popolo messianico”.

Questo Popolo ha per condizione la dignità e la libertà dei figli di Dio, nel cuore dei

quali dimora lo Spirito Santo come nel suo tempio.

Ha per legge il nuovo precetto di amare come lo stesso Cristo ci ha amati. E’ la legge

nuova dello Spirito Santo.

Ha per missione di essere il sale della terra e la luce del mondo. E da ultimo, ha per fine

il Regno di Dio, incominciato in terra dallo stesso Dio, e che deve essere ulteriormente

dilatato, finchè alla fine dei tempi sia da lui portato a compimento.

Gesù Cristo è colui che il Padre ha unto con lo Spirito Santo e ha costituito « Sacerdote,

Profeta e Re ». L’intero popolo di Dio partecipa a queste tre funzioni di Cristo e porta le

responsabilità di missione e di servizio che ne derivano. Entrando nel popolo di Dio

mediante la fede e il Battesimo, si è resi partecipi della vocazione unica di questo

popolo, la vocazione sacerdotale. Infatti, “per la rigenerazione e l’unzione dello Spirito

Santo i battezzati vengono consacrati a formare una dimora spirituale e un sacerdozio

santo”. Il sacerdozio comune dei fedeli è una caratteristica ben evidenziata dal Concilio

Vaticano II; prima, il Concilio di Trento non aveva negato il sacerdozio comune, ma

dovette far fronte ai problemi della Riforma protestante che proclamava solo il

sacerdozio battesimale e negava quello ministeriale. Il sacerdozio ministeriale è in

funzione di quello comune, cioè esiste per far emergere nella Chiesa il sacerdozio

comune dei fedeli. Il sacerdozio ministeriale e quello comune differiscono

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essenzialmente e non di grado; sono ordinati l’uno all’altro, poiché entrambi

partecipano all’unico Sacerdozio di Cristo.

Il popolo santo di Dio partecipa pure alla funzione profetica di Cristo. Ciò soprattutto

per il senso soprannaturale della fede che è di tutto il popolo, laici e gerarchia, quando

« aderisce indefettibilmente alla fede una volta per tutte trasmessa ai santi » e ne

approfondisce la comprensione e diventa testimone di Cristo in mezzo a questo

mondo. Il popolo di Dio partecipa infine alla funzione regale di Cristo.

Cristo esercita la sua regalità attirando a sé tutti gli uomini mediante la sua morte e la

sua risurrezione. Cristo, Re e Signore dell’universo, si è fatto il servo di tutti, non

essendo « venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per

molti » (Mt 20,28). Per il cristiano « regnare » è « servire » Cristo, soprattutto « nei

poveri e nei sofferenti », nei quali la Chiesa riconosce « l’immagine del suo Fondatore,

povero e sofferente ». Il popolo di Dio realizza la sua « dignità regale» vivendo

conformemente a questa vocazione di servire con Cristo.

I FEDELI LAICI

Can. 225: I laici, dal momento che, come tutti i fedeli, sono deputati da Dio

all’apostolato mediante il battesimo e la confermazione, sono tenuti all’obbligo

generale e hanno il diritto di impegnarsi, sia come singoli sia riuniti in associazioni,

perché l’annuncio della salvezza venga riconosciuto e accolto da ogni uomo, in ogni

luogo, tale obbligo li vincola ancora maggiormente in quelle situazioni in cui gli uomini

non possono ascoltare il Vangelo e conoscere Cristo se non per mezzo di loro. Sono

tenuti anche al dovere specifico, ciascuno secondo la propria condizione, di animare e

perfezionare l’ordine delle realtà temporali con lo spirito evangelico e in tal modo di

rendere testimonianza a Cristo, particolarmente nel trattare tali realtà e nell’esercizio

dei compiti secolari.

Can 226: I laici che vivono nello stato coniugale, secondo la propria vocazione, sono

tenuti al dovere specifico di impegnarsi, mediante il matrimonio e la famiglia,

nell’edificazione del popolo di Dio. I genitori, poiché hanno dato ai figli la vita, hanno

l’obbligo gravissimo e il diritto di educarli; perciò spetta primariamente ai genitori

cristiani curare l’educazione cristiana dei figli secondo la Dottrina insegnata dalla

Chiesa.

Can. 228: I laici che risultano idonei, sono giuridicamente abili ad essere assunti dai

Sacri Pastori, in quegli uffici ecclesiastici e in quegli incarichi che sono in grado di

esercitare secondo le disposizioni del diritto. I laici che si distinguono per scienza

adeguata, per prudenza e per onestà, sono idonei a prestare aiuto ai Pastori della

Chiesa come esperti o consiglieri, anche nei consigli a norma del diritto.

Can 229: I laici, per essere in grado di vivere la dottrina cristiana, per poterla

annunciare essi stessi e, se necessario, difenderla, e per potere inoltre partecipare

all’esercizio dell’apostolato, sono tenuti all’obbligo e hanno il diritto di acquisire la

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conoscenza di tale dottrina, in modo adeguato alla capacità e alla condizione di

ciascuno. Hanno anche il diritto di acquisire quella conoscenza più piena delle scienze

sacre che viene data nelle università e facoltà ecclesiastiche o nelle scuole di scienze

religiose, frequentandovi le lezioni e conseguendovi i gradi accademici. Così pure,

osservate le disposizioni stabilite in ordine alla idoneità richiesta, hanno la capacità di

ricevere dalla legittima autorità ecclesiastica il mandato si insegnare le scienze sacre.

Can. 230 - I laici di sesso maschile che abbiano l'età e le doti determinate con decreto

dalla Conferenza Episcopale, possono essere assunti stabilmente, mediante il rito

liturgico stabilito, ai ministeri di lettori e di accoliti; tuttavia tale conferimento non

attribuisce loro il diritto al sostentamento o alla rimunerazione da parte della Chiesa.

I laici possono assolvere per incarico temporaneo la funzione di lettore nelle azioni

liturgiche; così pure tutti i laici godono della facoltà di esercitare le funzioni di

commentatore, cantore o altre ancora a norma del diritto.

Ove le necessità della Chiesa lo suggeriscano, in mancanza di ministri, anche i laici, pur

senza essere lettori o accoliti, possono supplire alcuni dei loro uffici, cioè esercitare il

ministero della parola, presiedere alle preghiere liturgiche, amministrare il battesimo e

distribuire la sacra Comunione, secondo le disposizioni del diritto.

Can. 231: I laici, designati in modo permanente o temporaneo ad un particolare

servizio della Chiesa, sono tenuti all'obbligo di acquisire una adeguata formazione,

richiesta per adempiere nel modo dovuto il proprio incarico e per esercitarlo

consapevolmente, assiduamente e diligentemente.

L'ISTRUZIONE CATECHETICA

Can. 773 - È dovere proprio e grave soprattutto dei pastori delle anime curare la

catechesi del popolo cristiano, affinché la fede dei fedeli, per mezzo dell'insegnamento

della dottrina e dell'esperienza della vita cristiana, diventi viva, esplicita e operosa.

Can. 774 - La sollecitudine della catechesi, sotto la guida della legittima autorità

ecclesiastica, riguarda tutti i membri della Chiesa, ciascuno per la sua parte.

I genitori sono tenuti prima di tutti gli altri all'obbligo di formare con la parola e

l'esempio i figli nella fede e nella pratica della vita cristiana; sono vincolati da una pari

obbligazione, coloro che ne fanno le veci e i padrini.

Can. 775 - Osservate le disposizioni date dalla Sede Apostolica, spetta al Vescovo

diocesano emanare norme circa la materia catechetica e parimenti provvedere che

siano disponibili gli strumenti adatti per la catechesi, preparando anche un catechismo,

se ciò sembrasse opportuno, e altresì favorire e coordinare le iniziative catechistiche.

Spetta alla Conferenza Episcopale, se pare utile, curare che vengano pubblicati

catechismi per il proprio territorio, previa approvazione della Sede Apostolica.

Presso la Conferenza Episcopale può essere istituito l'ufficio catechistico, con la

precipua funzione di offrire aiuto alle singole diocesi in materia catechetica.

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Can. 776 - Il parroco, in forza del suo ufficio, è tenuto a curare la formazione

catechetica degli adulti, dei giovani e dei fanciulli; a tal fine adoperi la collaborazione

dei chierici addetti alla parrocchia, dei membri degli istituti di vita consacrata come

pure delle società di vita apostolica, tenuto conto dell'indole di ciascun istituto, e

altresì dei fedeli laici, soprattutto dei catechisti; tutti questi, se non sono

legittimamente impediti, non ricusino di prestare volentieri la loro opera. Nella

catechesi familiare, promuova e sostenga il compito dei genitori, di cui al ⇒ can. 774.

Can. 777 - In modo peculiare il parroco, tenute presenti le norme stabilite dal Vescovo

diocesano, curi: 1) che si impartisca una catechesi adatta in vista della celebrazione dei

sacramenti; 2) che i fanciulli, mediante l'istruzione catechetica impartita per un

congruo tempo, siano debitamente preparati alla prima ricezione dei sacramenti della

penitenza e della santissima Eucaristia, come pure al sacramento della confermazione;

3) che i medesimi, ricevuta la prima comunione, abbiano una più abbondante e più

profonda formazione catechetica; 4) che l'istruzione catechetica sia trasmessa anche a

quelli che sono impediti nella mente o nel corpo, per quanto lo permette la loro

condizione; 5) che la fede dei giovani e degli adulti, con svariate forme e iniziative, sia

difesa, illuminata e fatta progredire.

Can. 779 - L'istruzione catechetica sia trasmessa con l'uso di tutti gli aiuti, sussidi

didattici e strumenti di comunicazione sociale, che sembrano più efficaci perché i

fedeli, in modo adatto alla loro indole, alle loro capacità ed età come pure alle

condizioni di vita, siano capaci di apprendere più pienamente la dottrina cattolica e di

tradurla in pratica in modo più conveniente.

Can. 780 - Gli Ordinari dei luoghi curino che i catechisti siano debitamente preparati a

svolgere bene il loro incarico, che cioè venga loro offerta una formazione continua, e

che conoscano in modo appropriato la dottrina della Chiesa e imparino

teoreticamente e praticamente i principi delle discipline pedagogiche.

RAPPORTO TRA LA CHIESA CATTOLICA E LE ALTRE RELIGIONI

Chi appartiene alla Chiesa cattolica?

« Tutti gli uomini sono chiamati a questa cattolica unità del popolo di Dio, alla quale in

vario modo appartengono o sono ordinati sia i fedeli cattolici, sia gli altri credenti in

Cristo, sia, infine, tutti gli uomini, che dalla grazia di Dio sono chiamati alla salvezza ».

« Sono pienamente incorporati nella società della Chiesa quelli che, avendo lo Spirito

di Cristo, accettano integra la sua struttura e tutti i mezzi di salvezza in essa istituiti, e

nel suo organismo visibile sono uniti con Cristo – che la dirige mediante il Sommo

Pontefice e i Vescovi – dai vincoli della professione di fede, dei sacramenti, del governo

ecclesiastico e della comunione. Non si salva, però, anche se incorporato alla Chiesa,

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colui che, non perseverando nella carità, rimane, sì, in seno alla Chiesa col “corpo” ma

non col “cuore” ».

« Quelli che non hanno ancora ricevuto il Vangelo, in vari modi sono ordinati al popolo

di Dio ».

Il rapporto della Chiesa con il popolo ebraico.

La Chiesa, popolo di Dio nella Nuova Alleanza, scrutando il suo proprio mistero, scopre

ilproprio legame con il popolo ebraico, che Dio « scelse primi fra tutti gli uomini ad

accogliere la sua parola ». A differenza delle altre religioni non cristiane, la fede ebraica

è già risposta alla rivelazione di Dio nell’Antica Alleanza. È al popolo ebraico che

appartengono « l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le

promesse, i patriarchi; da essi proviene Cristo secondo la carne » (Rm 9,4-5) perché

« i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili! » (Rm 11,29).

Le relazioni della Chiesa con i musulmani.

« Il disegno della salvezza abbraccia anche coloro che riconoscono il Creatore, e tra

questi in primo luogo i musulmani, i quali, professando di tenere la fede di Abramo,

adorano con noi un Dio unico, misericordioso, che giudicherà gli uomini nel giorno

finale ».

Il legame della Chiesa con le religioni non cristiane

E’ anzitutto quello della comune origine e del comune fine del genere umano:

« Infatti tutti i popoli costituiscono una sola comunità. Essi hanno una sola origine

poiché Dio ha fatto abitare l’intero genere umano su tutta la faccia della terra; essi

hanno anche un solo fine ultimo, Dio, del quale la provvidenza, la testimonianza di

bontà e il disegno di salvezza si estendono a tutti, finché gli eletti si riuniscano nella

città santa ». La Chiesa riconosce nelle altre religioni la ricerca, ancora « nelle ombre e

nelle immagini », di un Dio ignoto ma vicino, poiché è lui che dà a tutti vita, respiro e

ogni cosa, e vuole che tutti gli uomini siano salvi. Pertanto la Chiesa considera tutto ciò

che di buono e di vero si trova nelle religioni come una preparazione al Vangelo, « e

come dato da colui che illumina ogni uomo, affinché abbia finalmente la vita ».

Ma nel loro comportamento religioso, gli uomini mostrano anche limiti ed errori che

sfigurano in loro l’immagine di Dio: « Molto spesso gli uomini, ingannati dal maligno,

hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e hanno scambiato la verità divina con la

menzogna, servendo la creatura piuttosto che il Creatore, oppure vivendo e morendo

senza Dio in questo mondo, sono esposti alla disperazione finale ». Proprio per riunire

di nuovo tutti i suoi figli, dispersi e sviati dal peccato, il Padre ha voluto convocare

l’intera umanità nella Chiesa del Figlio suo. La Chiesa è il luogo in cui l’umanità deve

ritrovare l’unità e la salvezza. È il « mondo riconciliato ».

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LA COMUNIONE DEI SANTI

La Chiesa è « comunione dei santi »: questa espressione designa primariamente

le « cose sante » (sancta), e innanzi tutto l’Eucaristia con la quale « viene

rappresentata e prodotta l’unità dei fedeli, che costituiscono un solo corpo in Cristo ».

Questo termine designa anche la comunione delle « persone sante » (sancti) nel Cristo

che è « morto per tutti », in modo che quanto ognuno fa o soffre in e per Cristo porta

frutto per tutti.

« Noi crediamo alla comunione di tutti i fedeli di Cristo, di coloro che sono pellegrini su

questa terra, dei defunti che compiono la loro purificazione e dei beati del cielo; tutti

insieme formano una sola Chiesa; noi crediamo che in questa comunione l’amore

misericordioso di Dio e dei suoi santi ascolta costantemente le nostre preghiere ».

LA REMISSIONE DEI PECCATI

Il Credo mette in relazione « la remissione dei peccati » con la professione di fede nello

Spirito Santo. Infatti, Cristo risorto ha affidato agli Apostoli il potere di perdonare i

peccati quando ha loro donato lo Spirito Santo.

Il Battesimo è il primo e principale sacramento per il perdono dei peccati: ci unisce a

Cristo morto e risorto e ci dona lo Spirito Santo.

Secondo la volontà di Cristo, la Chiesa possiede il potere di perdonare i peccati dei

battezzati e lo esercita per mezzo dei Vescovi e dei sacerdoti normalmente nel

sacramento della Penitenza.

« I sacerdoti e i sacramenti sono gli strumenti per il perdono dei peccati; strumenti per

mezzo dei quali Gesù Cristo, autore e dispensatore della salvezza, opera in noi la

remissione dei peccati e genera la grazia ».

LA VITA ETERNA E LE REALTA’ ULTIME

Per il cristiano, che unisce la propria morte a quella di Gesù, la morte è come un

andare verso di lui ed entrare nella vita eterna. Quando la Chiesa ha pronunciato, per

l’ultima volta, le parole di perdono dell’assoluzione di Cristo sul cristiano morente, l’ha

segnato, per l’ultima volta, con una unzione fortificante e gli ha dato Cristo nel viatico

come nutrimento per il viaggio, a lui si rivolge con queste dolci e rassicuranti parole:

« Parti, anima cristiana, da questo mondo, nel nome di Dio Padre onnipotente che ti ha

creato, nel nome di Gesù Cristo, Figlio del Dio vivo, che è morto per te sulla croce, nel

nome dello Spirito Santo, che ti è stato dato in dono; la tua dimora sia oggi nella pace

della santa Gerusalemme, con la Vergine Maria, Madre di Dio, con san Giuseppe, con

tutti gli angeli e i santi. Tu possa tornare al tuo Creatore, che ti ha formato dalla

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polvere della terra. Quando lascerai questa vita, ti venga incontro la Vergine Maria con

gli angeli e i santi. Mite e festoso ti appaia il volto di Cristo e possa tu contemplarlo per

tutti i secoli in eterno ».

Il giudizio particolare

La morte pone fine alla vita dell’uomo come tempo aperto all’accoglienza o al rifiuto

della grazia divina apparsa in Cristo. Il Nuovo Testamento parla del giudizio

principalmente nella prospettiva dell’incontro finale con Cristo alla sua seconda

venuta, ma afferma anche, a più riprese, l’immediata retribuzione che, dopo la morte,

sarà data a ciascuno in rapporto alle sue opere e alla sua fede. La parabola del povero

Lazzaro e la parola detta da Cristo in croce al buon ladrone così come altri testi del

Nuovo Testamento parlano di una sorte ultima dell’anima che può essere diversa per

le une e per le altre.

Ogni uomo fin dal momento della sua morte riceve nella sua anima immortale la

retribuzione eterna, in un giudizio particolare che mette la sua vita in rapporto a Cristo,

per cui o passerà attraverso una purificazione, o entrerà immediatamente nella

beatitudine del cielo, oppure si dannerà immediatamente per sempre.

Il Paradiso

Coloro che muoiono nella grazia e nell’amicizia di Dio e che sono perfettamente

purificati, vivono per sempre con Cristo. Sono per sempre simili a Dio, perché lo

vedono « così come egli è » (1 Gv 3,2),« a faccia a faccia » (1 Cor 13,12).

Questa vita perfetta, questa comunione di vita e di amore con la Santissima Trinità,

con la Vergine Maria, gli angeli e tutti i beati è chiamata “Paradiso” o ”il cielo “. Il cielo

è il fine ultimo dell’uomo e la realizzazione, delle sue aspirazioni più profonde, lo stato

di felicità suprema e definitiva.

Vivere in cielo è « essere con Cristo ». Gli eletti vivono « in lui », ma conservando, anzi,

trovando la loro vera identità, il loro proprio nome.

Con la sua morte e la sua risurrezione Gesù Cristo ci ha « aperto » il cielo. La vita dei

beati consiste nel pieno possesso dei frutti della redenzione compiuta da Cristo, il

quale associa alla sua glorificazione celeste coloro che hanno creduto in lui e che sono

rimasti fedeli alla sua volontà. Il cielo è la beata comunità di tutti coloro che sono 793

perfettamente incorporati in lui.

Questo mistero di comunione beata con Dio e con tutti coloro che sono in Cristo

supera ogni possibilità di comprensione e di descrizione. La Scrittura ce ne parla con

immagini: vita, luce, pace, banchetto di nozze, vino del Regno, casa del Padre,

Gerusalemme celeste, paradiso:

« Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo,

queste ha preparato Dio per coloro che lo amano» (1 Cor 2,9).

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Il Purgatorio

Coloro che muoiono nella grazia e nell’amicizia di Dio, ma sono imperfettamente

purificati, sebbene siano certi della loro salvezza eterna, vengono però sottoposti,

dopo la loro morte, ad una purificazione, al fine di ottenere la santità necessaria per

entrare nella gioia del cielo. La Chiesa chiama purgatorio questa purificazione finale

degli eletti, che è tutt’altra cosa dal castigo dei dannati. La Chiesa ha formulato la

dottrina della fede relativa al purgatorio soprattutto nei Concili di Firenze e di Trento.

La Tradizione della Chiesa, rifacendosi a certi passi della Scrittura, parla di un fuoco

purificatore:

« Per quanto riguarda alcune colpe leggere, si deve credere che c’è, prima del giudizio,

un fuoco purificatore; infatti colui che è la Verità afferma che, se qualcuno pronuncia

una bestemmia contro lo Spirito Santo, non gli sarà perdonata né in questo secolo, né

in quello futuro (Mt 12,32).

Da questa affermazione si deduce che certe colpe possono essere rimesse in questo

secolo, ma certe altre nel secolo futuro ». Questo insegnamento poggia anche sulla

pratica della preghiera per i defunti di cui la Sacra Scrittura già parla: « Perciò [Giuda

Maccabeo] fece offrire il sacrificio espiatorio per i morti, perché fossero assolti dal

peccato » (2 Mac 12,45).

Fin dai primi tempi, la Chiesa ha onorato la memoria dei defunti e ha offerto per loro

suffragi, in particolare il sacrificio eucaristico, affinché, purificati, possano giungere

alla visione beatifica di Dio. La Chiesa raccomanda anche le elemosine, le indulgenze e

le opere di penitenza a favore dei defunti:

« Rechiamo loro soccorso e commemoriamoli. Se i figli di Giobbe sono stati purificati

dal sacrificio del loro padre, perché dovremmo dubitare che le nostre offerte per i

morti portino loro qualche consolazione? Non esitiamo a soccorrere coloro che sono

morti e ad offrire per loro le nostre preghiere » (San Giovanni Crisostomo, In epistulam

I ad Corinthios, homilia 41, 5: PG 61, 361).

L’inferno

Non possiamo essere uniti a Dio se non scegliamo liberamente di amarlo. Ma non

possiamo amare Dio se pecchiamo gravemente contro di lui, contro il nostro prossimo

o contro noi stessi: « Chi non ama rimane nella morte. Chiunque odia il proprio fratello

è omicida, e voi sapete che nessun omicida possiede in se stesso la vita eterna » (1 Gv

3,14-15). Nostro Signore ci avverte che saremo separati da lui se non soccorriamo nei

loro gravi bisogni i poveri e i piccoli che sono suoi fratelli. Morire in peccato mortale

senza essersene pentiti e senza accogliere l’amore misericordioso di Dio, significa

rimanere separati per sempre da lui per una nostra libera scelta. Ed è questo stato di

definitiva auto-esclusione dalla comunione con Dio e con i beati che viene designato

con la parola « inferno ». Gesù parla ripetutamente della « geenna », del « fuoco

inestinguibile», che è riservato a chi sino alla fine della vita rifiuta di credere e di

convertirsi, e dove possono perire sia l’anima che il corpo. Gesù annunzia con parole

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severe: « Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno [...] tutti gli

operatori di iniquità e li getteranno nella fornace ardente » (Mt 13,41-42), ed egli

pronunzierà la condanna: « Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno! » (Mt

25,41). La Chiesa nel suo insegnamento afferma l’esistenza dell’inferno e la sua

eternità. Le anime di coloro che muoiono in stato di peccato mortale, dopo la morte

discendono immediatamente negli inferi, dove subiscono le pene dell’inferno, « il

fuoco eterno ». La pena principale dell’inferno consiste nella separazione eterna da

Dio, nel quale soltanto l’uomo può avere la vita e la felicità per le quali è stato creato e

alle quali aspira.

Il giudizio finale

La risurrezione di tutti i morti, « dei giusti e degli ingiusti » (At 24,15), precederà il

giudizio finale. Sarà « l’ora in cui tutti coloro che sono nei sepolcri udranno la sua voce

[del Figlio dell’uomo] e ne usciranno: quanti fecero il bene per una risurrezione di vita

e quanti fecero il male per una risurrezione di condanna » (Gv 5,28-29). Allora Cristo

« verrà nella sua gloria, con tutti i suoi angeli [...]. E saranno riunite davanti a lui tutte

le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri, e

porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra. [...] E se ne andranno, questi al

supplizio eterno, e i giusti alla vita eterna » (Mt 25,31-33.46). Davanti a Cristo che è la

verità sarà definitivamente messa a nudo la verità sul rapporto di ogni uomo con Dio. Il

giudizio finale manifesterà, fino alle sue ultime conseguenze, il bene che ognuno avrà

compiuto o avrà omesso di compiere durante la sua vita terrena. Il giudizio finale

avverrà al momento del ritorno glorioso di Cristo. Soltanto il Padre ne conosce l’ora e il

giorno, egli solo decide circa la sua venuta. Per mezzo del suo Figlio Gesù pronunzierà

allora la sua parola definitiva su tutta la storia. Conosceremo il senso ultimo di tutta

l’opera della creazione e di tutta l’Economia della salvezza, e comprenderemo le

mirabili vie attraverso le quali la provvidenza divina avrà condotto ogni cosa verso il

suo fine ultimo. Il giudizio finale manifesterà che la giustizia di Dio trionfa su tutte le

ingiustizie commesse dalle sue creature e che il suo amore è più forte della morte.