il coyote liberò le stelle (anticipazione)

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Il coyote – povera bestia – gode di cattiva fama. Chissà perché.Anche i politici godono di cattiva fama. Chissà perché.

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RIMMEL

narrativa italiana

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Laurana Editore è un marchio Novecento media s.r.l.Copyright © 2013 Novecento media s.r.l.via Carlo Tenca, 7 - 20124 Milanowww.laurana.it - [email protected]

ISBN 978-88-96999-45-5

direzione editoriale: Calogero Garlisi

redazione e comunicazione: Gabriele Dadati

grafica e interni:Daniele Ceccherini

utili consigli:Giulio Mozzi

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Daniela Brancati

il coyote liberò le stelle

Le passioni di una donna nel labirinto della politica italiana

EDITORELAURANA

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Ogni riferimento a fatti o persone è puramente casuale. La storiae i personaggi sono inventati. Se qualcuno si riconosce... è unproblema suo.

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Dedico questo libro a mio padre

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Elenco dei personaggi principali

Luisa Alunni: giovane dirigente di Sinistra UnitaMarco Segranti: amico del cuore di Luisa AlunniLorenzo Pippoli: concorrente di Luisa AlunniEugenio Rispoli: segretario della Sinistra Unita Giuseppina Sforzi: segretaria di Eugenio RispoliMara Bonamici: moglie di Eugenio RispoliAlfonso Corradi: dirigente di Sinistra UnitaGiustina Simoni: responsabile femminile di Sinistra UnitaAdelmo Pieri: sindaco di PratoAnna Laura Proietti: giornalistaGiovanni Mustacchi: giornalista

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Il coyote – povera bestia – gode di cattiva fama. Chissà perché.

Anche i politici godono di cattiva fama. Chissà perché.

Luisa

Lei è bellissima. Biondissima. Giovanissima. Ma ha unapiega amara all’angolo sinistro della bocca.

Tende una mano. Con l’altra regge il solito cartello:VENGO DALA MOLDAVIA. O 4 FRATELI. O FAME. AIUTATEMI

50 CENT. Evidentemente è il suo minimo sindacale. Le do un euro tondo tondo. Mi guarda stupita e conten-

ta. Sorride e fa una smorfia: ha una lacerazione all’angolodella bocca. Non è una piega amara, è vera sofferenza.

“Come ti chiami?” Mi sembra spaventata mentre sussurra un nome incom-

prensibile guardandosi intorno. Qualcuno la sorveglia. Nonvoglio nuocerle, ma sono attratta dalle storie personali.

“Non ho tempo per parla”, e fa cenno a un omone che sista avvicinando.

“Neanche se ti do due euro, se ti aiuto”.“Nessuno può aiutare me”.Inutile insistere. Proseguo. Passa la coppia dei poliziotti

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di quartiere. Camminano su e giù a guardia della nostrafelicità. L’infelicità di quella povera ragazza non li riguar-da. Le passano davanti come se fosse trasparente.

Fino a quando non ruba non è un problema loro.Per me invece è un problema. Mi sento in colpa per tutta

la società occidentale. Per non aver fatto niente per lei equelle come lei. Per avere tutti i vestiti che voglio. Tutti idischi e i libri e i biglietti del teatro e dei concerti. Per poterscegliere gli uomini con cui andare. Per poter dire dei no.

Per non dover portare in giro un cartello bugiardo eun’infinita paura.

Ho cominciato a fare politica che avevo più o meno l’età diquella poveretta. Quindici anni? Avrei accarezzato uno auno tutti i poveri e i derelitti della terra. Volevo cambiare ilmondo.

Sono passati meno di vent’anni, vorrei ancora accarez-zare tutti i poveracci. Però ora il mio sentimento più forte èla nausea.

Mi dà nausea camminare in mezzo allo smog del centrodi Roma e a torme di stranieri coi vestiti estivi anche adicembre, perché tanto qui fa caldo per definizione, siamoin Italia. Fra piccoli uomini vestiti di grisaglia che oscilla-no da un ufficio a un bar e da questo a un ristorante, nellasperanza di chiudere un affare vantaggioso con uno deipalazzi del potere di questa cinica città. Fra signore checamminano a piedi tenendo i cagnolini in braccio: nonsia-mai si sporchino le zampe. Fra ragazzoni che vengono dallaborgata vestiti come i protagonisti di Arancia meccanica oBeautiful, per sentirsi parte della Roma che conta. E ragaz-zette che masticano chewing gum a bocca aperta vestitecome in un cinepanettone. Fra impiegati in pausa caffè e

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commessi che la pausa se la prendono solo quando li licen-ziano. Fra deputati che tramano e trìgano da case da scapo-li a ristoranti, flash di fotografi e tv, in un eterno scadentefilmetto, tanto per tutta la legislatura la pacchia è garantita.Fra giornalisti pettegoli che amano inciuciare con i deputa-ti per il gusto di sentirsi importanti, per avere la loro partenel filmetto, e qualche vantaggio pratico: la casa di un ente,l’anelata promozione. Il consenso di uno che conta.

Più di tutto mi dà la nausea il mio partito. Indigeribilecomplicato e kitsch come una torta nuziale. Sopra, il presi-dente e il segretario, soli uno affianco all’altro come ipupazzetti che raffigurano gli sposi. Subito sotto, in un cer-chio poco più grande, i massimi dirigenti. Sotto ancora,quelli che sgomitano per salire al livello superiore. Infine,alla base, quelli che continuano a credere nell’ideale – maquale? – solo perché le illusioni aiutano a vivere e tutti dob-biamo campare. Tutt’intorno, una massa di ingordi che nonvedono l’ora di agguantare il loro pezzo di torta.

Io sto al terzo strato, i palazzi romani sono il mio regno,vado dall’uno all’altro ogni giorno non so quante volte.

A piedi, perché difficilmente un taxi accetterebbe diaccendere il motore per quel breve tratto: a signo’ magarime fa perde’ ’na corsa all’aeroporto pe’ sei euro!

Di fretta, perché la gente pensa che i politici non fannonulla, ma è pur sempre un nulla accelerato e la nostra vitaè convulsa. Un giorno senza un’assemblea, un’intervista aradio o tv, e ti senti come se ti mancasse qualcosa, come untossico in crisi d’astinenza, come un cane senza padrone,come un occhiale senza gli occhi. Perciò il miglior amicodi un politico spesso è un compiacente giornalista al qualeaffidare almeno una volta al giorno una frase sciocca, chealimenterà polemiche a manovella e lo terrà a galla.

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Non è il mio caso: sono nella direzione di Sinistra Unita,ma nessuno mi conosce.

Oggi è un giorno no. Oggi la mia pigrizia vorrebbe avere ilsopravvento e mi parla in un orecchio dicendomi: Luisalascia perdere tutto. Riposati. Fatti un massaggio ayurvedi-co. Brucia delle erbe aromatiche. Comprati una gonna.Gonna e non pantaloni, perché ho solo quelli nell’armadio.Da anni indosso pantaloni, sportivi, eleganti, a tailleur, maquasi sempre pantaloni. La gonna è un indumento davacanza. Così frivola e poco agevole per alti palchi e sedi-li improvvisati che lascerebbero le mutande a vista.

Sono una pigra mancata. La mia aspirazione profonda èalla pigrizia. All’ozio romano. Quello degli avi che se nestavano sotto un olivo a meditare ed erano filosofi, mentrese lo facciamo noi siamo sfaticati. Penso: faccio tutto ora,mi sbrigo, e domani mi riposo. Magari non sotto all’olivo,ma sulla poltrona che è più comoda, o davanti alla finestrase piove. O a un quadro che mi piace. O al cinema. Cheimporta dove. Ma quel domani non viene mai.

Poi arriva il giorno talmente pieno di impegni che mistanco solo all’idea. In quel momento sento di essere utilealla società. Mi viene anche una fitta allo stomaco, il medi-co dice che dovrei ascoltare di più il mio corpo... e arriva ildown. Avanza il cedimento, cerco il senso della vita, miinterrogo sulla mia. Finalmente prendo il sacrosanto ripo-so, con una tecnica graduale che tiene lontani i sensi dicolpa. Annullo il primo impegno, perché provo dieci diver-si abiti e mi sembra che non sopporterei di tenerne addos-so nessuno più di un minuto. Questo mi stringe in vita.L’altro sul seno. Cambio camicetta e ne metto una larga, madi conseguenza devo cambiare i pantaloni che non stanno

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con quel colore. Non parliamo delle scarpe: quelle sono trop-po accollate, le altre troppo a punta... oggi non se ne parlanemmeno, ma in pantofole non posso uscire. Pensando, pro-vando e tergiversando ho fatto tardi. Annullo anche il secon-do impegno, perché non è giornata, e per parlare con queltale mi ci vuole tutt’altra energia. E via così fino a sera. Dopoaver fatto il vuoto dentro e intorno a me, sono in pace. Maquesto succede al massimo una volta ogni sei mesi.

Oggi sarebbe uno di quei giorni, ma non me lo possopermettere. Così stamattina di malavoglia mi sono vestitacon quello che ho di più comodo, meno femminile e piùpunitivo per il mio fisico.

Io, i miei orribili vestiti e il mio malumore arriviamo allasede di Sinistra Unita.

Marco Segranti è il secchio dei miei pensieri spazzatura,il troppopieno dei miei sentimenti. È paziente, ironico eaffettuoso. Quello che mi ci vuole per sfogarmi: “Vedi que-sto marciapiede? Lo odio. E questo portone: lo detesto. E ilportiere? Che palle”.

“Povero Dino, è sempre gentile... di’ che ti gira storto”.“Molto storto. Non ne posso più. Mi sento in un frulla-

tore sempre più veloce che mi riduce in poltiglia”.“Proprio vero, le donne non sono adatte a fare le dirigen-

ti politiche”. Marco mi stuzzica, ma non reagisco e lui con-tinua: “Se hai da fare ti lamenti. Se non hai incarichi tilamenti lo stesso. Insomma sei una grandissima rottura dicoglioni. Va’ dal parrucchiere e falla finita”.

“Il parrucchiere, come ti viene in mente? Se c’è un postoche non frequento...”

“E fai male. Impacco alle erbe, maschera all’olio balsa-mico, massaggio profondo alla cute, torni tranquilla, sven-

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tagliando i capelli come quella di LiberaeBella, e con unsacco di magnifici pettegolezzi da raccontarmi”.

“Questo pensi di me? Che sono...”, non mi viene laparola. Ma a lui sì: “Un’insoddisfatta cronica. La gente tiinvidia: sei giovane e già ai vertici del principale partito algoverno. Ti lamenti per il gusto di farlo”.

“Capirai. Sono in direzione, un’assemblea di cinquecen-to persone molte delle quali non riusciranno mai a prende-re la parola”.

Marco continua imperterrito senza considerare la mia inter-ruzione: “E senza doverla dare a qualche vecchio babbione”.

“Sarà per questo che il partito di babbioni non si fida di me”.“Fai finta di non disprezzarli. Magari sono più contenti”. “Non giudico nessuno, ma quello che vedo non mi

piace: narcisi vivi solo davanti a una telecamera e a unpubblico anche esiguo. Alla continua ricerca di donneche smuovano i loro genitali altrimenti privi di entusia-smo, mentre predicano il culto della famiglia”.

“Lo dici a ogni incazzatura e poi stai sempre qua”.“E dove vuoi che vada: ho investito anni in questo par-

tito di affaristi nel nome di un interesse superiore, ipocri-ti, conformisti, incapaci di un pensiero che si elevi sopralo stomaco... non li sopporto, però mi sembra di nascon-derlo abbastanza bene, no?”

“Come no. In certi momenti hai nello sguardo purodisgusto”.

“Sei ingiusto”, lo dico ridendo, ma torno subito seria:“Non sono io che li respingo, sono loro, anche se a paro-le: come è brava Luisa, come è seria Luisa, come è affi-dabile Luisa... troppi complimenti per una a cui voglionostroncare la carriera”.

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La politica è una rappresentazione. A volte geniale, altrevolte scadente. Dipende dagli attori e dal copione. I mieigenitori erano protagonisti e pubblico contemporanea-mente.

Ne discutevano in continuo, apparentemente litigan-do. La lettura del giornale era fonte d’eccitazione e dicompetizione. Non ricordo una sola questione su cui fos-sero d’accordo, tranne l’etica. Erano due politici puri, lapolitica produceva in loro adrenalina. Sono quasi certache dopo ogni discussione avessero voglia di fare l’amo-re: lui era su di giri, sembrava più alto. Lei aveva gliocchi lucidi e brillanti e un sorriso intrigante. Da bambi-na non lo capivo e mi spaventavo moltissimo a sentire leloro voci alterate, pensavo che litigassero. Pensavo che sisarebbero separati e avrebbero lasciato sole me e miasorella.

La politica per me, piccola, era come una nube cheincombe e minaccia pioggia anche se poi non piove. Eracome lo strappo di una tenda dal quale puoi guardare fuorie quello che vedi ti attrae e ti spaventa. Oggi per me, adul-ta, la politica è il mare in cui nuoto. Le ragioni della politi-ca sono imperscrutabili, come quelle divine. E come quel-le alle volte è davvero difficile accettarle.

Guardo i magnifici occhi verdi di Marco. Vivaci e placi-di. Tristi e allegri. Sereni. Mi tranquillizzano. Ed è contono meno duro che continuo: “Ogni volta Rispoli miliquida come una petulante ingrata: che problema hai, tioccupi di cose importanti, come se fossi una ragazzettaegocentrica, una che pretende che il mondo ruoti intornoa lei”.

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“Infatti. Devi dare tempo alle persone. La tua carriera èimportante per te. Quello che fa il segretario è importanteper tutti. Lascialo in pace”.

“Se mi desse un incarico lo lascerei definitivamente inpace”.

“Gradi e distintivi non farebbero di te una personamigliore e più stimata”.

“Se la stima si spendesse al supermercato sarei ricca.Così devo aspettare e aspettare. Senza un incarico edovendo inventare il lavoro ogni giorno, se non vogliostare senza fare niente”.

“Stavolta però hai strappato un impegno a Eugenio: lanomina a portavoce della segreteria. Ne parlano tutti, l’hosentito anche in ascensore...”

“I nomi si fanno circolare per bruciarli”.“Ricominci! Ti ha detto di sì, che lo trova un posto

adatto a te. Preferivi che dicesse no o prendesse tempo?” “Hai ragione, ma dopo tanto attendere questa sua

arrendevolezza mi sembra strana”.“Sei paranoica. Si è impegnato. Basta. Falla finita”.Cambio registro: “Secondo te sarò all’altezza di una

responsabilità così grande?” “Tu insicura? Da quando?”“Ho una sensazione... c’è come un’energia negativa

intorno a me. Ci scommetto: non succederà. E io resteròal palo”.

“Butta Riza psicosomatica e le altre robe alternativeche leggi. Non fare la vittima, piuttosto datti un po’ dafare... mettiti in vista. Fai parlare di te. Fai sentire il biso-gno di una come te. Anche per il segretario: non potràessere solo a sostenere la tua candidatura”.

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“Quando vuole non ha bisogno di sostegni... Cosadovrei fare secondo te?”

“Che so, parla con qualche giornalista amico, fa’ uscireun bell’articolo a tuo favore, un’intervista...”

“E come si fa ad avere un giornalista amico, gli regalo icioccolatini a Natale?”

“Regalagli piuttosto una notizia. Magari una succulenta,gustosa, pettegola notizia su un tuo avversario politico, o...concorrente. Su una riunione riservata, su qualcosa che haisentito in corridoio”.

“Gli potrei raccontare del segretario che tiene la manosotto il tavolo a Cecilia Marini durante le riunioni ristret-te. Che tenerezza, se lui non avesse Mara, l’implacabilemoglie”.

“E se questo non fosse l’unico motivo per cui la Marinipartecipa a delle riunioni in cui non ha nulla da dire”.

Marco ride della piega che sta prendendo la conversa-zione: adora i pettegolezzi e le battute sarcastiche, e conLuisa si passa in un istante dal tono serissimo a quello iro-nico. Ci mette il carico da undici: “Lascia perdere, ilpovero Eugenio ha già i suoi guai. Piuttosto il vicesegre-tario: ti ricordi la scorsa settimana che casino! Gli uominidella vigilanza, richiamati dai lamenti, sono entrati dicorsa nella sua stanza, l’hanno trovato piegato in due sullascrivania... si sono avvicinati per soccorrerlo credendoche stesse male, invece stava benissimo e sotto di lui lasegretaria mugolava soddisfatta!”

“I vigilanti, mortificati, balbettavano: credevamo avessebisogno di aiuto. E lui furibondo, e memorabile: in questiaffari non ho mai bisogno di aiuto. Marco, sei terribile, rac-contale tu a un giornalista queste cose, se ci riesci”.

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“Sono le cose che i lettori adorano, e noi pure. Ma segliele dico io, favori a te non ne faranno. La vita, cara mia,è uno scambio”.

“Hai una visione cinica e mercantile”.“Semplicemente realistica. E tu lo sai. Non fare la mam-

mola e non negare a te stessa la possibilità di essere norma-le, oppure non lamentarti mai più”.

“Per una buona causa faccio tutto. Ma per una causa cosìpersonale...”

“La politica cammina sulle gambe degli uomini – edonne, naturalmente – perciò non si può prescindere dalleloro ambizioni. In questo caso dalle tue. Solo che tu non haiil coraggio di ammetterlo e di metterti in gioco”.

“Balle. Se ci sono le condizioni lo faccio eccome”.“Cioè se hai la pappa pronta, il piatto pulito e la tavola

apparecchiata... Dove vivi? Ti regalo un disco e poi neriparleremo”.

“Che c’entra un disco?”“Vedrai”.Ci salutiamo uscendo dal palazzo dove entrambi lavo-

riamo. Marco va a un appuntamento, io alla riunione. Ciabbracciamo e io esito a lasciarlo andare.

Ha la solita espressione irridente. Fa il cinico pernascondere la sua amarezza. La sua difficoltà di vivere. È ilmio unico vero amico, di lui mi fido davvero, ne sento lasensibilità nascosta dietro le frasi al vetriolo, dietro il sorri-setto sarcastico. Lo invidio per la sua capacità di farsi unaragione di tutto ciò che gli capita, e di scherzarci su. Locompatisco per lo stesso motivo: dietro al sarcasmo, dietroall’ironia, si nasconde una rinuncia, quasi una mancanza divolontà di affermarsi davvero. La nostra comune irrequie-

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tezza ci fa sentire un po’ estranei a ogni situazione.Autonomi e critici, non c’è spazio per quelli come noi, nénel mio partito né in nessun partito. Marco ha ragione: miè sempre più difficile nascondere il mio disgusto. A giornialterni mollerei tutto. Ma quando incontro Irina o la sfigadel mondo penso che devo stare lì dove ho la possibilità dibattermi per cambiare le cose: la politica. Avevo la sua età– ma che età avrà sotto quell’espressione sofferente? –quando cominciai a capire che per i politici come per i pretivale il detto “fate quello che dico e non quello che faccio”.

La politica è l’incoerenza di quelli che dai loro scranni– che occupano saldamente a sessanta o ottant’anni – dico-no: largo ai giovani. È lo schiaffo di mio padre quella voltache, nel piccolo salotto di casa, parlava con un amico diattenzione verso i giovani, della necessità di tenere apertoil dialogo perché loro sono il futuro. E io, quindicenneimpertinente, intervenni non richiesta: io e Lalla (mia sorel-la) siamo giovani, perché con noi non parli mai? Un ceffo-ne sulla guancia destra: ancora me lo ricordo. L’unico cef-fone della sua vita. Me ne andai offesa. Ma era offesoanche lui. Con la logica rigorosa dei giovani avevo messoin forse la sua credibilità politica, la sua autorità paterna.Lui si sentiva con la coscienza a posto. Le sue idee eranogiuste. Che poi fossero diverse dai suoi comportamenti,questo non contava.

Vorrei poter pensare alla politica come a una grandemadre. Invece per me è come mia zia Elvira: mi ha nutrito,cullato, accarezzato, anche sgridato, come una madre. E iol’ho amata molto, ma non sono riuscita a odiarla comeun’adolescente odia la madre. Non sono riuscita a entrarein quella profonda intimità, a sentirla veramente mia. Col

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tempo mi ha dato uno stile di vita e un posto nella società,in cambio di tanta solitudine.

Mamma... in certi giorni mi è difficile parlarne. Di papà posso dire che i pochi frammenti di intimità con

lui erano sempre turbati dal dubbio che da un momentoall’altro lo chiamassero per la riunione con i compagni.Che questo me lo portasse via ancora un’altra sera, l’enne-sima sera.

Col tempo però ho smesso di detestare la politica e le hoconsentito di colmare i vuoti della mia vita. Non è stataproprio una scelta, quanto la naturale prosecuzione dellaroutine familiare. Si è insinuata poco alla volta, l’ho assun-ta a dosi. E mi sono mitridatizzata. Il fatto che fosse per mecosa naturale mi doveva far riflettere. Invece solo quandomi ha lasciata all’improvviso ho sentito un vuoto incolma-bile. Dietro ogni situazione, dietro ogni questione piccola ogrande vedevo allungarsi l’ombra della politica. È durosentirsi respinta da un uomo. Molto più duro sentirsi aimargini della politica. Marco è l’unico che mi capisce e mista vicino e condivide i miei pensieri. Vorrei trattenerlo,spiegargli quello che provo, ma anch’io devo andare.

Mi avvio senza voglia verso Montecitorio. Attraverso alcu-ne fra le zone più belle della città, cioè del mondo. Fin dallanascita, quando Romolo uccise Remo, e Bruto ucciseCesare, questa città è fatta per i forti. È una città brutaledentro un’apparenza regale e placida. Qui sono ancora visi-bili i simboli del potere di ogni epoca. I palazzi portano leinsegne di lusso e arroganza, glorie antiche e antiche pre-potenze. Attraverso il selciato dove milioni di personehanno posato i piedi, ma non i nobili, che andavano sulle

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spalle dei poveracci. Guardo le finestre, il segno delle dif-ferenze è anche lì. Al secondo, il piano dei nobili, finestregrandi e balconi. All’ultimo, sotto i tetti, finestre piccoleper la servitù: neanche del sole, che non costava niente aipadroni, i servi potevano avere la stessa quantità. Posol’occhio sui sampietrini, rincalcati lì da poveracci sudati eaffaticati. E poi lo alzo sui passanti, sempre con un librici-no in mano, che senza guida non riescono a trovare nean-che se stessi. Ma anche con la mappa chiedono spiegazio-ni: perché i percorsi di Roma sono contorti come le suestrade, contorti come il potere. Questa città ruffiana – chetutti chiama, a tutti risponde con lusinghe, perché ne haviste e sopportate tante – a tratti è troppo confusa. Ancheper me, che pure il potere lo voglio.

Non me la godo più questa passeggiata. Sarei tentata viafacendo di fermarmi a comprare la gonna e le scarpe di GiosiRomualdi, ma non posso. Alla riunione presenza obbligato-ria. E la puntualità è un favore che faccio al mio stomaco:ogni minuto di ritardo è ansia, dannoso acido gastrico. Primao poi un’ulcera vera e propria. Pazienza, gli abiti aspetteran-no. Ma non molto. Ho bisogno di qualcosa di elegante daindossare quando sarò nominata portavoce. Li avrei volutigià nell’armadio, pronti per l’annuncio ufficiale. Invece,sempre che accada domani, l’affronterò con quel che ho enella pausa pranzo correrò a comprare scarpe e vestito.

In fondo è meglio: mai festeggiare prima, brindareprima, vendere prima la pelle dell’orso e dare per avvenu-ta una nomina che ancora non c’è.

L’umore negativo mi condiziona. Camminando ripensoallo sciagurato giorno di un anno fa quando è iniziata la mia

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disgrazia e la politica mi ha mostrato la sua faccia cinica eopportunista. Io che l’avevo idealizzata non potevo immagi-narla come una puttana. Il colpo è stato violento. Il doloreimmenso, anche se ormai i dettagli perdono nitidezza.Ricordo di sicuro che ero in ufficio, preparavo una riunionecon i segretari di federazione quando è arrivata la notizia.

Al congresso c’era stata gran battaglia sul mio nome.Giovane, laureata bene e in fretta, avevo fatto politica consuccesso all’università, alle spalle una famiglia artigianadalla fede comprovata. Avevo tutte le carte in regola perpiacere ai compagni che contano. Tutte tranne una: pensa-vo che la politica richiedesse autonomia, dedizione e since-rità. Per questo ero stata considerata immatura, inadatta aincarichi nazionali. Ma il segretario di federazione credevain me e nel rinnovamento. Era riuscito a piazzare il miointervento al congresso, tacendomi che ero l’ottantunesima,a rischio di essere cassata per mancanza di tempo. Ricordoancora la cocente umiliazione. Era la fine della seconda epenultima giornata. La noia era l’unica presenza in una salapraticamente vuota. La presidente di turno (una donna peruna sessione che non contava nulla) chiamava al podio unoper uno gli iscritti dicendo: non tutti potranno interveniredomani davanti al segretario, prego compagni presentateviora. Sembrava l’elenco dei caduti dell’ultima guerra: tuttiassenti. Nessuno con un minimo di dignità riteneva giustoparlare in quelle condizioni: un congresso è una vetrina, senessuno ti vede che vetrina è? La compagna aveva un tonomesto e cantilenante, eppure era tenuta a continuare.Arrivata al mio nome, non immaginava che dal fondo dellasala deserta mi alzassi io, avviandomi al podio. Non so per-ché l’ho fatto, forse per spirito di contraddizione, o forse

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perché era la mia prima volta. Lei quasi non credeva ai suoiocchi. Il suo sorriso era più di stupore che di incoraggia-mento nel darmi la parola. Avevo scritto un intervento contutti i crismi. L’ho buttato. Ho parlato a braccio con aggres-sività, con rancore quasi: “Non stupitevi se il partito nonpiace ai giovani: a noi giovani destinate solo sedie vuote”.

Fra quelle sedie vuote si aggirava Tonino Majani cercan-do gli occhiali che aveva dimenticato. Sentendomi accora-ta – incazzata, diciamo pure – è emerso da sotto un sedile.Ha alzato gli occhi miopi, buoni e saggi, e mi ha guardato.Si è seduto, lui solo in tutto il settore destinato ai dirigenti,e mi ha ascoltato fino in fondo. Quando ho finito di parla-re ha applaudito a lungo, convinto. Mentre scendevo dalpodio si è avvicinato e mi ha detto con semplicità: “Noivecchi abbiamo bisogno di un po’ d’indulgenza, di tempoper capire il nuovo. Il compagno Giuliani della federazionel’ha sempre detto che sei in gamba. Ma prima d’ora no, nonti avevo davvero messo a fuoco. Hai ragione sulle sedievuote. È un errore. Mi impegnerò, vedrai”. E si è impegna-to davvero. Grazie a lui sono entrata in direzione e ho ini-ziato a lavorare al partito. Mi ha appoggiato fino in fondo.Al punto da far dire a qualche stupido che si era innamora-to di me. Povero Tonino: un uomo più fedele di lui allamoglie e al partito non esisteva.

Ero stata assegnata alla sezione Organizzazione, unagrande responsabilità in epoca di riflusso. Ho avuto quelledue o tre idee che hanno dato impulso alle tessere. Toninonon perdeva occasione per vantarsi di me come di una suascoperta. Ma il mio capo mi detestava: con il mio lavoroavevo reso evidenti tutti i difetti del suo. Me l’aveva giura-ta e non perdeva occasione per sottolineare le mie stupidag-gini da neofita. Fu la prima amara lezione: in politica se fai

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bene dai molto, molto più fastidio che se non fai proprionulla. Il compagno Genova, il capo, non vedeva l’ora diuccidermi – politicamente, s’intende – e me l’aveva dichia-rato: fa’ che Tonino levi gli occhi da te e sei finita.

Non poteva immaginare, credo, che Tonino ben prestoavrebbe levato gli occhi dal mondo. Una curva maledetta.Un guidatore distratto. Un pranzo pesante con qualchebuon bicchiere. Un viaggio fatale. Gli occhi, i suoi occhibuoni, non si sono più aperti sul mondo che amava tanto,sulla moglie che amava tanto, sul partito che amava tanto.E su di me. La figlia che non aveva avuto.

Con lui è morta una parte di me. Lui era la barriera fra ilmio idealismo e il cinismo degli altri. Era la mia possibili-tà di arrabbiarmi e restare nell’alveo del grande fiume. Eraanche la mia possibilità di fare una veloce carriera.

Distratta dai ricordi ho fatto la strada come i muli, senzarendermene conto. Sono arrivata. Chiedo il passi: che fasti-dio, l’usciere di via degli Uffici del Vicario mi vede moltevolte a settimana, tanto che mi saluta cordialmente, eppureè sempre la stessa solfa: metal detector, documento, nomedel referente interno. Ligio alle procedure che con il rischioterrorismo sono più stupide che mai. Non sopporto che luisorrida mentre chiede: è qui per una riunione? Sono tenta-ta di rispondere: no, per una visita medica. Sarebbe un erro-re: l’ironia è estranea alle burocrazie, la mia battuta si tra-sformerebbe in un’ulteriore perdita di tempo. Sento lapazienza sfuggirmi mentre passo la porta blindata, maattacco il badge VISITATORE alla borsa dove è ben visibile efaccio un gran sorriso. Per le scale mormoro fra me, comeun mantra: fa’ che sia breve, fa’ che sia breve, fa’ che sia

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breve... spero di trovare l’energia per affrontare tre ore dinoia sicura. Tutti diranno che sono d’accordo con la rela-zione. Ma lo faranno con dispendio di leccate di culo tipo:“bene ha detto”, “giustissime le osservazioni del segreta-rio”. Frasi vuote di senso e piene di consenso, immerse inun brodo di parole inutili. Queste riunioni plenarie non ser-vono a decidere, ma solamente a comunicare decisioni aidirigenti di grado intermedio. Alle riunioni in cui si decidepartecipano non più di sei persone, e a quelle di solito ionon vengo invitata.

In corridoio davanti alla sala c’è Lorenzo Pippoli.Belloccio, quarant’anni da poco, gran raccomandato. Ildetto “non importa cadere, l’importante è rialzarsi” l’hannoinventato per lui. Dopo ogni scivolone c’è sempre qualcu-no che lo aiuta a rimettersi in piedi.

“Come sta la più bella della politica italiana?”, chiedecol tono supponente di chi pensa che io non sia minima-mente alla sua altezza. Nel dirlo mi cinge le spalle e poila vita con nonchalance. Mi scanso brusca e lo fulminocon lo sguardo: detesto queste forme di confidenza, quan-to mai inopportune in una sede istituzionale. Se passassequalcuno che non conosce bene Lorenzo e la sua monda-nità da puttaniere, penserebbe chissacché. Ma lui è il tipi-co esemplare del maschio in carriera. Allunga la mano eprende qualunque cosa sia alla portata: potere, denaro,donne.

Io preferisco essere considerata una stronza misantropa,come si dice alle mie spalle, piuttosto che una con cui spen-dere un po’ di tempo in allegria nelle pause. Intendiamoci,l’allegria piace anche a me, però non sopporto i tipi per cuiio o un’altra non fa differenza, purché respiri.

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Lorenzo non si scoraggia, mi segue mentre mi allontanodal gruppo che sosta in ingresso. Entriamo nella sala riu-nioni ancora semivuota. Mi si siede accanto: “Cena con mestasera, voglio parlarti”.

“Ma no, sono stanca e devo prepararmi per domani. C’èuna riunione importante...”, lascio le parole sospese, perprudenza o per scaramanzia.

“Domani, domani, che succederà mai domani...”“Ma le nomine... sai, si parla di me come...”Lui non mi lascia finire: “Sì, come portavoce della

segreteria, ma chi te lo tocca quel posto. Sono solo rogne.Quanti si sono bruciati... se parli troppo e appari troppo,partono i siluri. Se parli poco ti accusano di non sapercomunicare. In caso di smottamento elettorale invece,quando nessun dirigente importante vuol dare il lietoannuncio della catastrofe, ti scaraventano in prima linea. Ilprimo incidente di percorso lo fanno pagare a te.Comunque, se davvero ci tieni, il posto è già tuo. Non risul-tano altri concorrenti. E poi non è l’ultima spiaggia”.

“Per me sì. Non pretendo che tu capisca, tu trovi tutte leporte aperte, ma io non mi chiamo Pippoli e mio padre nonha finanziato il partito, ha lavorato cinquant’anni comeidraulico. Per me quel posto è importante”.

“Quello che fai non è già abbastanza importante?”“Cioè cosa? Mi occupo di tutta la sfiga del mondo. Ma

l’ultima parola spetta a Corradi. Lui è in segreteria e nean-che sa che esisto. Oddio, prima o poi avrò un’altra grandechance: la sezione femminile, ma solo quando Giustinasarà stufa e io alle soglie della pensione. Già me ne fregapoco e alle volte odio le donne, i loro problemi e il loromodo di fare e di atteggiarsi”.

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Lorenzo sospira e con gli occhi che ridono dice: “Ah, ioinvece no. Adoro le donne e le loro complicazioni, senti-mentali e su ogni cosa. I meandri della vostra contortaintelligenza mi affascinano. Vieni a cena con me stasera eparleremo male di tutte le donne che conosciamo”.

“Sei proprio stronzo. Va bene, mi prendi per sfinimento,solo cena, ricordatelo”.

“Ma certo, sono un ragazzo per bene, non farti illusioni”.Lo scambio di battute è interrotto dall’ingresso del

segretario con l’abituale codazzo di gente che fa a gomita-te per salutarlo ed essere salutata. Lo blandiscono, salvodirne peste e corna appena gira la testa. Ma come può sen-tirsi a proprio agio in mezzo a loro? Lorenzo naturalmenteè il primo a scattare.

Rispoli si siede al centro della nomenklatura: di qua ilpresidente del gruppo parlamentare alla Camera. Di làquello del Senato. Al lato, volutamente eccentrico rispettoalla rappresentazione del potere, ecco Corradi. Lui non habisogno di essere al centro per sentirsi importante. Non habisogno neanche di essere visibile. Lui è il potere e tutti losanno. Non riesco a ricordare il suo nome, per forza (migiustifico): nessuno osa chiamarlo per nome. Nessuno hatanta familiarità con lui, a parte la moglie, il segretario epochi altri. Secondo i punti di vista è l’ultimo esemplare diuna razza in via di estinzione. Un pezzo di quello che fu eora non è più il glorioso partito da cui discende l’attualeSinistra Unita. Una sorta di anomalia difficile da inquadra-re. Per altri è un mito: conosce a perfezione e ricorda a per-fezione fatti e protagonisti degli ultimi sessant’anni di sto-ria patria, di storia politica e di storia del partito. Un archi-vio vivente, una memoria di ferro che spesso usa per sbara-

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gliare gli avversari. Un uomo da temere e rispettare, chenessuno può dire di conoscere veramente: parla poco e maidel suo privato. Nessuno pensa che sia amabile, e non cercadi essere simpatico. Ha legato il suo nome a tante leggi e atanti accordi noti, segreti o semplicemente riservati. Per lui lapolitica sembra una sfera totale, la misura di tutte le cose.Dicono che non valuti tanto la morale quanto la capacità,eppure passa per uomo integerrimo e parco, che quasi non habisogno di denaro per vivere. Ministro nella passata legislatu-ra, ha dato il suo nome a una legge che io detesto. Come d’al-tronde detesto Corradi, simbolo del vecchio che non demor-de, che non lascia mai spazio ai giovani, del passato cheincombe. Sta dritto sulla sedia eppure ha un atteggiamentototalmente rilassato: misteriosa postura imparata in anni diallenamento. La leggenda dice che può dormire a occhi aper-ti durante un convegno o una conferenza stampa che lo anno-iano e, se interpellato, rispondere come fosse sempre statosveglio e vigile.

La riunione comincia. Ordine del giorno: una nuova leggesull’immigrazione. D’improvviso è urgente. Il partito ne habisogno e il governo ne ha bisogno, la destra strumentaliz-za i clandestini per fomentare il razzismo nel paese. E noi,spiega il relatore, perdiamo almeno sei punti nei sondaggi.Secondo alcuni siamo troppo tolleranti. Secondo altri trop-po reazionari. Che rabbia, per mesi ho bussato cento porteper ottenere attenzione. E ora riconoscono che ci vuole uncolpo d’ala. Questo chiede il segretario. Se lo aspetta daipresenti, cade male. Già so cosa diranno, saranno le soliteparole, luoghi comuni tipici di chi da un bel po’ ha perso ilcontatto con la realtà. D’altronde lo stesso Rispoli, un

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uomo capace, va in giro con due portaborse, l’autista-guar-dia del corpo e forse da domani anche con me come porta-voce. Quando non è in viaggio o in riunione, la moglie nongli permette di parlare con nessuno, esercita su di lui unapressione terrificante, lo condiziona in ogni scelta privata epubblica e poi... le sfuggono le amanti. O meglio lui sfug-ge al suo controllo per andare con l’amante di turno, maviene sempre scoperto da qualche fotografo, da qualchegiornalista. Qualcuno dice li chiami lui stesso per incre-mentare la fama di sciupafemmine. Tanto lei lo perdonasempre, in cambio dell’ultima parola su nomine e incarichiche coinvolgano donne. Chissà cosa avrà da dire su di me.Non molto, credo: nella complicata geografia del partito,da tempo sono schierata con il marito. Anche se qualcosa inlui mi mette in allarme ogni volta che lo avvicino. Eugenioresta sempre alla superficie delle cose, perfino quandoparla a tu per tu con qualcuno, quasi tema di doversi impe-gnare troppo. Il suo tono è costantemente comiziante,anche nelle riunioni riservate. I suoi occhi guardano manon vedono: galleggiano. Quanto agli altri dirigenti, diffi-cile capire cosa interessi loro veramente. A parte il potere,s’intende.

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II

Il coyote è un canide di media dimensione, con il musostretto e allungato, grandi orecchie e lunghe zampe,

una folta pelliccia grigia e rossa e una macchia sulla punta della coda.

I politici il pelo ce l’hanno prevalentemente sullo stomaco.

Luisa

Mi annoio da morire. Da domani se Dio vuole sarò portavo-ce e farò un falò di tutte le carte accumulate in questi anni.Sto alla riunione con metà cervello e un solo orecchio. Quelche basta per sentire che i miei compagni si accapigliano suinomi. La metà vuole che si parli di chiusura dei famigeraticentri di identificazione ed espulsione. L’altra metà di supe-ramento. Sai che differenza. Spesso penso che per gli uomi-ni la Guerra mondiale o il RisiKo, fa lo stesso. Ci mettonouguale impegno, hanno bisogno di competere per sentirsiqualcuno. Io non partecipo. Non mi va di giocare.

“Luisa, tu non hai niente da dire?”Il segretario mi chiama direttamente in causa. Mi sento

come uno scolaro che non ha seguito la lezione. Come setutti potessero leggermi in faccia i pensieri che Eugenio hainterrotto. Farei bene a dire anch’io, come tutti: sono d’ac-

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cordo con chi mi ha preceduto, ma vorrei precisare che...oggi però davvero non mi va. Sarà il caldo, sarà la stan-chezza. Sarà la tensione della vigilia.

“La mia posizione la conoscete. La conosci tu, segreta-rio, e la conoscono tutti quelli che sono qui. Non si posso-no tenere segregate in un campo di concentramento perso-ne che sono venute illegalmente nel nostro paese ma nonhanno compiuto reati. Questi centri sono solo superlavoroper la polizia, le organizzazioni umanitarie e una vergognaper noi tutti. Quando vedo quelle immagini in tv io mi ver-gogno. Sì, mi vergogno proprio”.

È la prima volta che mi esprimo così in una riunioneufficiale. Che mi è preso? Gli sguardi dei presenti sono tuttirivolti a Corradi – sua è la legge istitutiva dei centri – percapire se si è offeso. Vergogna è una parola davvero fuoridal comune. Una parola che si può usare per gli avversariin un comizio, ma è troppo forte se riferita a un guru dellapolitica del proprio partito. A un’icona come Corradi.Odiato, da criticare ferocemente in privato, ma da rispetta-re in pubblico.

Da lui, come sempre, nulla traspare. Gli altri si guardano interdetti, si scambiano battute sot-

tovoce: pazza o kamikaze? Visto che la frittata è fatta, con-tinuo: “Guardate qua. È estate, e come sempre la situazio-ne si aggrava. Ecco il giornale di oggi: Mohammed, 33anni. Venuto dalla Tunisia per sfuggire alla fame, provve-dere alla famiglia lontana. Carcerato senza che nessunmagistrato abbia emesso sentenza di condanna. Non harubato, non ha rapinato né violentato. Né ucciso. Mentrenoi abbiamo ucciso lui. Quando era entrato nel centroaveva detto di soffrire di cuore. È scritto sulla sua cartella.

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Da quel momento, una settimana senza notizie del medico.Ieri mattina Mohammed si lamentava, i suoi compagnihanno chiesto aiuto agli infermieri. Invano. È morto senzache nessuno gli prestasse soccorso. Fra le braccia impoten-ti dei suoi compagni di sventura, che piangevano e gridava-no Allah akbar, Allah è grande, mentre davano fuoco aimaterassi. E noi? Abbiamo promesso la visita di una dele-gazione di parlamentari. Io sento la responsabilità di questasituazione che disapprovo profondamente. Per discutereseriamente partiamo da qui. I centri vanno chiusi. E poi?”

Un unico, singolo applauso accoglie il mio discorsoaccorato – sicuramente diranno che è poco politico e trop-po viscerale. Alzo la testa e guardo con la coda dell’occhiochi ne ha avuto il coraggio. Resto esterrefatta: è Corradi.Come se non avesse capito che l’attacco era a lui e a quel-la sua terribile legge. Forse mi prende in giro? O forsevuole sottolineare la propria superiorità? È ironico?

Nel dubbio quegli opportunisti dei miei colleghi non miguardano neanche, e restano immobili con gli occhi fissialla presidenza. La riunione va avanti stancamente, tutti sicomportano come chi cammina sulle uova. Molti rinuncia-no a parlare: il mio intervento li costringerebbe a schierar-si e questo per gli opportunisti è quanto di peggio.

A riunione conclusa mi si avvicina Corradi in persona:“Complimenti per la passione, ti pensavo un funzionario,un impiegato di partito come gli altri. È vero, il futuro èdelle donne”.

Il gesto distensivo di Corradi si rivela liberatorio, a quelpunto e solo a quel punto sono in molti a complimentarsicon me. Mi danno la mano, qualcuno mi bacia due voltesulle guance come se non ci vedessimo ogni giorno molte

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volte al giorno. Solo il segretario se ne va palesemente per-plesso. Lo seguo a distanza e quando il solito codazzo si èdisperso mi avvicino: “Ti vedo contrariato Eugenio, cel’hai con me?”

Lui è insolitamente garbato e tranquillo nel rispondere:“Ti pensavo pronta a un incarico più alto, ma vedo che leemozioni dominano te e non viceversa. Come potrai fare ilportavoce se non sai mantenere la freddezza?”

“Vuoi dire che un discorsetto sincero mi ha fatto perde-re il posto?”

“Voglio dire che Corradi ha gran seguito. Forse non erail caso di attaccarlo alla vigilia di una nomina per la qualeil suo parere è determinante”.

Sorrido sollevata: “Ma come, non hai visto? Per laprima volta mi ha notato ed è venuto personalmente acongratularsi”.

“Allora preoccupati davvero. Ora lasciami andare. Maraha organizzato una cena e non posso tardare”.

“Sempre schiavo delle donne!” La battuta m’è uscita così, spontanea e stupida, viste le

circostanze. Ovvero l’eloquente servizio fotografico di unsettimanale: Tutte le donne del segretario, sottotitolo:L’Eugenio conteso non sa decidere fra le amanti e lamoglie tiranna. Venti foto con pose molto intime fra bion-de rosse o brune – il segretario, un vero collezionista, nondiscrimina –, chissà che terremoto in famiglia. Lui peròsembra non farci caso e sorride mentre si allontana.

Non sono bacchettona, ma... come può fare politica seha sempre quella fissazione in testa?

La cattiveria che ho appena pensato non mi procura lasoddisfazione sperata, la mia testa è piena di nulla, confu-sa. Torno indietro a piedi come sempre.

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Al solito angolo spero di incontrare Irina. Ma non c’è.La sua giornata dev’essere finita. Poveretta. Un’altra gior-nata senza speranza.

Alla morte di Tonino sono seguite settimane e mesi senzache nessuno si ricordasse che esistevo. O mi chiedesse dilavorare. Esattamente come i padroni che tanto criticava-mo. Ero un’epurata. All’inizio non pensavo che fosse cosìdura.

Non fare niente ti consuma. Prima dici a te stessa: ho tantotempo, mi occuperò del mio fisico, leggerò, scriverò. Poitrascorri le ore nel vuoto, aspettando che il telefono suoni,che qualcuno si affacci alla tua porta. Dopo un po’ prendiatto che non esisti e non ti buttano fuori perché sarebbe unospreco di fatica. A fronte dello stipendio ti chiedono solo dinon uscire dalla tua stanza.

Un anno è lungo se, mentre cerchi di dimenticare unaperdita tanto grave, galleggi nel nulla. Un anno è troppolungo se passi il tempo a misurare le meschinità dei tuoicompagni. Gli stessi che mi avevano blandita, corteggiata,mi avevano chiesto ogni giorno “ti prego, vieni a lavorarecon me”; morto Tonino non mi rispondevano più al telefo-no. Se possibile non mi avrebbero neanche salutato inascensore. Tonino era il mio nume tutelare: finché era vivoservivo per arrivare a lui. Morto lui, non servivo più a nien-te. Parlavo con la donna delle pulizie, con Dino il portiere.E con Marco, che non mi ha mai tradita. Quando lui erafuori sede ammazzavo il tempo cercando di ammazzareanche il senso di inutilità e la solitudine.

Sì, un anno è lungo se tutto ti crolla intorno e non sai dache parte ricominciare. Nelle mani ti passa solo acqua e

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non stringi nulla. Leggi un giornale. Ne leggi due. La fru-strazione aumenta: i quotidiani riportano mille cose chenon vanno. Sono le mille cose che potresti fare e non te loconsentono. Sono le mille cose che nessuno fa, ma se provia metterci un dito...

L’immigrazione era un tema odioso a tutti. Ho iniziato aoccuparmene per disperazione. Sono diventata un po’ com-petente e non davo fastidio a nessuno. Hanno cominciato aconsultarmi e poi a invitarmi alle riunioni. Non mi appas-sionava, ma mi teneva occupata. Riempiva il vuoto in me eil vuoto politico.

In questo anno ho fatto molto e realizzato poco. Ma hoanalizzato a fondo la mia situazione. Ho imparato a nuota-re senza salvagente. Ho imparato che lavorare per un parti-to non vuol dire lavorare per la stessa causa. Mi sono fattaun po’ più furba. Fino a oggi. Un quarto d’ora di sinceritàpuò mandare tutto all’aria? Non posso credere che Corradivoglia vendicarsi. E se fosse, di sicuro Eugenio glieloimpedirà.

Ho una casa piccola: un salotto con angolo cottura, unacamera da letto e un bagno. Una casa da zitella, parola anti-quata, ma sempre meglio di single. Per me e i miei quattroabiti è sufficiente, ma per tutte le mie carte no davvero.Perciò ogni volta, anche se è tardi, torno al partito e lascioi dossier in ufficio.

Saluto il solito Dino, che a quest’ora forse è l’unica pre-senza nel palazzo. Salgo ed entro nella mia stanza.

Mi guardo intorno per la prima volta con una lucidità daestranea. Spartana è dir poco, non ho mai avuto il coraggiodi personalizzarla. Dall’abbigliamento al comportamento,

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ho sempre fatto di tutto per mimetizzarmi, confondermi inquel club per soli uomini che è la politica.

Anche l’arredo è asettico, quasi non ci vivessi più tempoche a casa. Il resto è un tributo al gusto dell’amministrato-re del partito e alla mia posizione nella scala gerarchica. Lasedia per esempio è imbottita e girevole, lo schienale dimedia altezza. Non basso come quello di una segretaria,non alto come quello di un vero dirigente. I poster dellecampagne pubblicitarie del partito ai muri. Il disordinedelle carte è consentito, perché indica che il lavoro ferve.Qualcosa di personale – a parte le foto dei figli, per chi neha – è tacitamente sconsigliato, quasi che l’effetto volutosia di precarietà: oggi sei qui, bella mia, ma domani se miva ti mando altrove. Il partito non si discute. Neppure ven-t’anni dopo la caduta del muro di Berlino.

Oggi però d’improvviso sento il bisogno di un vaso condei fiori, per rendere quei dieci metri quadri un po’ menoangoscianti.

Abbandono sulla scrivania la cartellina di plastica congli appunti della riunione, nella speranza di archiviarli nellaspazzatura da domani.

Nomina o non nomina, porterò una stampa di quellecoloratissime dell’avanguardia grafica degli anni ’20,ricordo di una vacanza, e l’appenderò. E porterò dei fiori.Critichino pure se vogliono. Non ce la faccio più a viveresenza colori, soffocando le sensazioni per non dare nell’oc-chio: rischio lo sdoppiamento della personalità.

Sfioro con le dita il piano dell’armadietto basso su cuisono ammonticchiate tonnellate di carte. È un gesto quasiaffettuoso verso questi mobili che detesto, grigi di ferro,con la targhetta oramai sbiadita dell’economato.

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Sono soprappensiero. Non mi accorgo che qualcunoentra. D’improvviso la sagoma di Corradi si materializza, egirandomi resto a bocca aperta. Sono sbalordita, non è maisuccesso che mi abbia degnata di attenzione prima d’oggi eadesso è addirittura nella mia stanza, davanti a me, e miguarda con un sorrisetto enigmatico.

“Lo so, sei stupita. Qualcuno ti avrà detto che ti sonoostile, che mi opporrò alla tua nomina. Ma non è da me chedevi guardarti”.

“Veramente io non so...” Sorride solo con gli occhi mentre dice: “Sei confusa?

Giusto. Non è da tutti avere Corradi in visita”.“Forse dovrei scusarmi con te”.“Non farlo. Oggi hai avuto palle, e io apprezzo chi le

dimostra. Sei contro di me, non importa, hai argomentidalla tua. Per me il semaforo è verde, l’ho detto al segreta-rio, spero che te l’abbia riferito. Personalmente detesto itipi demagogici e sinistrorsi come te, e non capivo perchéuna persona come Tonino Majani, sempre così intelligente-mente moderato, ti avesse scelta. Oggi, ascoltandoti, hopensato che fosse per quel fuoco, quella passione che siintuisce sotto la tua scorza barricadera. Questo partitorischia la crescita zero: zero cervelli, zero carattere, zeropersonalità. Punto su di te, se ti aiuto forse un giorno capi-rai che la politica è ben più complicata...”

Lo interrompo: “Guarda che io rispetto molto le tueposizioni. È che oggi è stata una giornata strana, non vole-vo intervenire, il segretario mi ci ha praticamente costretta,non ero preparata e vedi... la solidarietà... i poveri dellaterra... mi hanno preso la mano”.

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“Per carità, i poveri resteranno poveri e sfruttati anche seli leviamo dai Cie e li facciamo sciamare per la penisola incerca di riparo sotto un cavalcavia, con un fazzoletto di cartada vendere o un grammo di roba per alzare qualche euro.Ma non sono qui per discutere di questo. Quando arriveraialla mia età capirai che il tempo è il bene più prezioso, ededicarlo a convincere te che sei molto giovane, e di tempone hai molto, anche per sbagliare... be’, quello è tempo spre-cato. Sono venuto a verificare se il lampo d’intelligenza eautonomia che ho visto oggi è stato un’eccezione”.

Io non rispondo, ma i miei occhi sì. Allora lui prosegue:“Un dirigente deve saper gestire se stesso a prescinderedagli umori”.

“Quando sei entrato stavo pensando il contrario: fin quimi sono sforzata di reprimere le mie emozioni, di adeguar-mi al conformismo imperante. Ora voglio fare politica dapersona intera: carne e sangue, oltre al cervello. Non so”,guardo timidamente Corradi, “se sono disponibile a repri-mermi ancora. Non credi che la politica abbia bisognoanche di emozioni?”

“A patto di tenerle a bada, sì. Questa politica emofiliacaha bisogno di sangue nuovo. Allora d’accordo, fai la porta-voce e guardati bene le spalle”.

“Da chi?”“Dovresti capirlo da sola”.Non fa in tempo a finire che alla porta si affaccia

Lorenzo.“Disturbo? Sono venuto a esigere il mio credito: andia-

mo a cena? O è troppo presto... devi finire con Corradi?”Sfacciato come sempre. Avvampo: come si permette, un

mito come Corradi e lui irrompe con quella vocina insolen-

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te. Ci pensa l’anziano dirigente a rompere l’imbarazzo. “Ma figurati, stavo appunto spiegando a Luisa che i vec-

chi hanno bioritmi totalmente diversi, e per me l’ora ètarda. Divertitevi voi che potete. Addio”. Esce silenziosa-mente come era entrato.

Mi volto come una furia: “Ma che ti è preso, sei impaz-zito, farmi fare una figura così con Corradi. Lo sai che luiè rigoroso, moralista, stessa moglie da cinquant’anni: orache penserà di me?”

“Quello che pensano tutti, che sei troppo carina per pas-sare le tue serate da sola tra queste orride mura o in casacon una tisana e le pantofole. Dai, andiamo”, e così dicen-do mi prende la mano e mi trascina fuori dall’ufficio.

“Ma aspetta, devo prendere la borsa. Le chiavi dicasa...”

“Se dai retta a me le chiavi di casa non ti servono. Nonperdiamo altro tempo”.

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