Il club dell’1% nel potere delle lobbies 50 ABSTRACT · nostri tempi non hanno avuto un ruolo...

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MARIA VERONICA CAMERADA Researcher in Economic Geography, Department of Humanities and Social Sciences – University of Sassari. [email protected] Il club dell’1% nel potere delle lobbies ABSTRACT The report examines the system of socio-economic inequalities that characterizes industrialized societies, observed jointly with the lobbying carried out by large pressure groups. Starting from the issues related to the high instability and volatility in our markets, we analyze the results produced by the research conducted mainly by four authors (Stiglitz, 2013, Piketty 2014, Saez and Zucman 2014) to highlight the structural weaknesses of public governance, inside which, often, the major stakeholders operate in the absence of proper regulation. It explores the close relationship between the political and economic power of the elites, whose lobbies represent the highest point of view. Lobbies, in fact, define, through their activities, the link between the public and private spheres of governance. The State has a duty to define the line between individual interests and the collective and balance the roles and spheres of the influence of private stakeholders, in the social interest and overall. In the praxis, in the various areas in which the economy operates and manufactures their effects, especially in the financial sector, the level of power exercised by lobbyists exceeds the limit of the virtuous link between political and economic spheres, transforming the process of integration between the two worlds into a systemic dysfunction that generates socio-economic centers and peripheries that also evolve within the community, in which strong pluralistic realities legitimately coexist. The consequences are those of an irreversible fragmentation of society into two levels: on one hand there is a majority of taxpayers less exposed to the process of public governance, plagued by recession, the austerity and predatory behavior generated by this, and on the other there is the elite patron who lives at the apex of the social scale, within the major powers, which is a small part of the population. 50 August 2015 Author: Maria Veronica Camerada Language: Italian Keywords: Lobbies Inequality Governance ISSN: 2281-8553 © Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie

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MARIA VERONICA CAMERADA

Researcher in Economic Geography, Department of Humanities and Social Sciences – University of Sassari. [email protected]

Il club dell’1% nel potere delle lobbies

ABSTRACT

The report examines the system of socio-economic inequalities that characterizes industrialized societies, observed jointly with the lobbying carried out by large pressure groups. Starting from the issues related to the high instability and volatility in our markets, we analyze the results produced by the research conducted mainly by four authors (Stiglitz, 2013, Piketty 2014, Saez and Zucman 2014) to highlight the structural weaknesses of public governance, inside which, often, the major stakeholders operate in the absence of proper regulation. It explores the close relationship between the political and economic power of the elites, whose lobbies represent the highest point of view. Lobbies, in fact, define, through their activities, the link between the public and private spheres of governance. The State has a duty to define the line between individual interests and the collective and balance the roles and spheres of the influence of private stakeholders, in the social interest and overall. In the praxis, in the various areas in which the economy operates and manufactures their effects, especially in the financial sector, the level of power exercised by lobbyists exceeds the limit of the virtuous link between political and economic spheres, transforming the process of integration between the two worlds into a systemic dysfunction that generates socio-economic centers and peripheries that also evolve within the community, in which strong pluralistic realities legitimately coexist. The consequences are those of an irreversible fragmentation of society into two levels: on one hand there is a majority of taxpayers less exposed to the process of public governance, plagued by recession, the austerity and predatory behavior generated by this, and on the other there is the elite patron who lives at the apex of the social scale, within the major powers, which is a small part of the population.

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August 2015

Author:

Maria Veronica Camerada

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Italian

Keywords: Lobbies Inequality Governance

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1. I mercati: fallimenti, equità e pari opportunità

Ai teorici dell’economia liberista spetta l’arduo compito, dopo gli effetti della crisi finanziaria del 2007, di elaborare nuove tesi a sostegno delle riflessioni sull’equilibrio economico generale1 e sull’efficienza paretiana del mercato. I posteri deriveranno, infatti, che negli avvenimenti economici dei nostri tempi non hanno avuto un ruolo vincente né il libero gioco degli attori in campo, né la teorica capacità auto-regolativa del mercato, né la provvidenziale proprietà compensatrice della “mano invisibile” smithiana2. Nel mondo occidentale, la generazione che vive il XXI secolo, quella del Web 2.0, se pur digitalizzata, automatizzata e interattiva, patisce oggi, più che negli ultimi decenni trascorsi, gli effetti negativi di una società consumistica governata dalle leggi della democrazia “commerciale”, che produce leggi e regolamenti favorevoli ai “Big Players”, «detentori di un potere inossidabile e opaco» (Fabbri, 2015: 41). Si 1 Cfr. Stiglitz (2010: 348): «Il filone dominante da oltre un secolo a questa parte si ispira a quello che viene definito modello walrasiano o dell’equilibrio generale, dal nome del matematico ed economista francese Léon Walras, che per primo lo elaborò nel 1874. Egli descrisse l’economia come un equilibrio – simile a quello newtoniano nella fisica – con prezzi e quantità determinati dal bilanciamento fra domanda e offerta». 2 Nel modello dell’equilibrio generale di Walras i mercati rappresentano luoghi perfettamente concorrenziali dove gli agenti economici esprimono le proprie preferenze in condizione di uguaglianza e libertà. La combinazione delle variabili “prezzo” e “quantità” scambiate permettono di conseguire l’equilibrio generale in tutti i mercati, in quanto la funzione di domanda tenderà ad uguagliare quella dell’offerta. In quest’ottica: «Il mercato consiste semplicemente in una effettiva intercomunicazione fra compratori e venditori (attuali o petenziali) in virtù della quale sia gli uni che gli altri sono liberi di fare, di accettare o di rinunciare alle offerte di scambio». (Sabattini, 1999: 213). Tuttavia «l’interazione di mercato non esprime le preferenze individuali (come afferma l’apologetica liberista), bensì dipende dalle preferenze e dai vincoli esistenti» (Palermo, 2003: 55). Ne deriva che la libertà di ciascun soggetto di agire in un sistema di mercato per il conseguimento dei propri obiettivi sia, per cause di forza maggiore, estremamente

sgretolano, in questo modo, quegli ideali tanto agognati quali equità e pari opportunità, che dovrebbero rappresentare i pilastri dei progetti di pianificazione territoriale delle regioni più evolute del pianeta. Una contraddizione, se si pensa agli Stati Uniti e al modello di sviluppo che esportano nel resto del mondo, o ai valori che li caratterizzano, quali l’American Dream, che mosse i primi coloni d’oltreoceano3, o allo slogan “Yes We Can”, che accompagnò la campagna presidenziale di Obama. Osserva Stiglitz: «un aspetto dell’equità profondamente radicato nei valori americani è la presenza di opportunità» (2013: 16), infatti, proprio negli USA, sulle fondamenta di questa ideologia è stata costruita una middle class che ha occupato un ruolo cruciale nella crescita del Paese. Fortificata da questa immagine, nel corso degli anni «l’America ha esercitato una straordinaria influenza nella diffusione di idee come l’uguaglianza, i diritti umani, la democrazia, il mercato» (ivi, 229); nello stesso momento, all’interno delle proprie mura

limitata da vincoli (quali, ad esempio, la capacità di spesa individuale). 3 Si richiama a tal proposito, un elemento centrale contenuto nella dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America del 4 luglio 1776, nella quale viene esplicitato il concetto dell’uguglianza quale elemento fondante della neonata federazione: «When in the course of human Events, it becomes necessary for one People to dissolve the Political Bands which have connected them with another, and to assume among the Powers of the Earth, the separate and equal Station to which the Laws of Nature and of Nature’s God entitle them, a decent Respect to the Opinions of Mankind requires that they should declare the causes which impel them to the Separation. We hold these Truths to be self-evident, that all Men are created equal […]» Trad: «Quando, nel corso degli eventi umani, diviene necessario per un popolo rescindere i legami politici che lo legavano ad un altro, ed assumere tra le Potenze della Terra la posizione separata ed eguale alla quale le Leggi della Natura e del Dio della Natura gli danno titolo, un giusto rispetto delle opinioni dell’Umanità richiede che essi manifestino le cause che li costringono alla separazione. Noi teniamo per certo che queste verità siano di per se stesse evidenti: che tutti gli uomini sono creati eguali […]».

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nascevano nuovi privilegi generati “dall’azione economica mercatistica” (cfr: Atlante Geopolitico Treccani, 2014: 14) e, insieme ad essi, si consolidava una casta di favoriti, ossia una élite intorno alla quale si concentravano alti livelli di reddito, mentre la parte più ampia della popolazione tendeva all’impoverimento.

Il concetto di equità, da sempre il fulcro dello storico conflitto tra destra e sinistra, alimenta un dibattito internazionale mai interrotto, che si sviluppa intorno ai principi di distribuzione pura e distribuzione efficiente (Piketty, 2014). Si argomenta, a tale riguardo, il ruolo dello Stato e le soglie d’ingerenza ad esso concesse in termini di intervento politico programmatico, al fine di soddisfare un livello di uguaglianza sociale sostenibile che garantisca a tutti i cittadini pari opportunità, giustizia contributiva e uguaglianza di processo (Mozzoni, 2012). Questi elementi, che afferiscono, rispettivamente, alla posizione partecipativa iniziale, centrale e finale di ogni individuo appartenente ad una comunità organizzata, costituiscono il cardine di qualsiasi strategia politica orientata alla coesione e allo sviluppo armonioso ed inclusivo del territorio.

Nel 1984 Greenwald e Stiglitz, confutando le presunzioni di base del modello economico neoclassico eretto sul principio della spontanea e automatica realizzazione di ottimi livelli di efficienza allocativa delle risorse, evidenziano, attraverso il Teorema fondamentale della non decentrabilità, l’importanza del ruolo dello Stato quale elemento stabilizzante del sistema di mercato che, fisiologicamente, tende a fallire in maniera grave per ordini di fattori differenti (esternalità, monopoli e asimmetrie informative), non conseguendo in via

4 Dopo il crollo di Wall Street, conseguente alla bancarotta del colosso Lehman Brothers (15 settembre 2008) il Congresso degli USA avviò il Troubled Assets Relief Program (noto come Piano Paulson), un piano da 700 miliardi di dollari finalizzato al salvataggio (Merril Lynch, Citigroup) e alla fusione di alcuni Istituti di credito americani (Bank of America, la Goldman Sachs e la JP Morgan), cfr. G. Morzenti (2012).

automatica un equilibrio pareto-efficiente. L’azione pubblica auspicabile non è meramente legata all’assistenzialismo post-crisi (si pensi, ad esempio, all’operazione di salvataggio degli istituti di credito praticata dai governi e dalle banche centrali americane e europee in seguito al crollo di Wall Street, nel 2008)4, ma è riferibile a quel processo di regolamentazione ex ante finalizzato alla creazione di un’economia globale più equa (Stiglitz, 2013) e all’implementazione di sistemi orientati ad una corretta distribuzione delle risorse e alla perequazione fiscale e contributiva. Il Teorema fondamentale della non decentrabilità5 anticipa di oltre un ventennio l’attuale débâcle finanziaria globale, sulla quale si potrebbe disquisire a lungo non solo in riferimento ai contenuti e alle cause della stessa, ma entrando nel merito dell’inconfutabilità dei fatti che attraverso essa emergono. Le evidenze sono infatti quelle correlate all’alta instabilità e volatilità che caratterizza i mercati, alla carenza di strumenti di controllo di governance del capitalismo finanziario e alla crescente disomogeneità rinvenibile tra le popolazioni che vivono nelle società industrializzate. 2. Il club dell’1%

Sebbene alla globalizzazione si possano attribuire innumerevoli benefici effetti, della stessa si può affermare che abbia «lasciato indietro molta gente» (Stiglitz, 2013: 439). Per Stiglitz (ibidem), questi sono gli effetti insopprimibili di una globalizzazione asimmetrica, ossia di un fenomeno «gestito per lo più a proprio vantaggio dagli interessi dei grandi gruppi […]». Nel gioco finanziario globale «i Paesi hanno fatto a gara per ottenere il sistema finanziario meno regolato, nel timore

Contesualmente la Fannie Mae, la Freddie Mac e l’AIG venivano nazionalizzate. 5 Per Vasigliardi (2004: 51) il teorema «indica come un’allocazione efficiente vincolata delle risorse sia conseguibile dal mercato solo applicando un appropriato schema correttivo imposte-sussidi. In sostanza, dato un equilibrio privato esiste un vettore di tasse/sussidi che lascia inalterato il livello di utilità dei consumatori ed accresce le entrate dello Stato».

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che le imprese finanziarie potessero squagliarsela in altri mercati. […] Nell’arena finanziaria, questo si è rilevato particolarmente costoso e soprattutto cruciale per la crescita della disuguaglianza […]» (Stiglitz, 2012: 101). Sebbene la crisi del 2008 costituisca «la prima crisi del capitalismo patrimoniale mondializzato del XXI secolo […]» (Piketty, 2013: 732), i meccanismi connessi alle disuguaglianze non sono considerabili strettamente correlati con essa; le disparità sono, però, divenute più evidenti con la recessione, che registra un picco massimo nell’anno 2009.

Nei fatti, il processo di polarizzazione della ricchezza inizia ben prima del XXI secolo: nell’America ante crisi, nonostante il PIL registrasse saldi positivi, «la maggior parte dei cittadini assisteva all’erosione del proprio tenore di vita» (Stiglitz, 2013: 12), e per tale ragione ricorreva all’indebitamento talvolta divenendo vittima di comportamenti predatori, di contro una esigua parte del popolo vedeva crescere la propria ricchezza. In linea generale, però, affermano Saez e Zucman (2014), la concentrazione di ricchezza è cresciuta particolarmente durante la Grande Recessione del 2008-2009 e nel suo seguito. Mentre la crescita possiede, per via del progresso tecnico ad essa collegato, delle proprietà equilibratici capaci di portare ad una «riduzione spontanea delle disuguaglianze e un’armonica stabilizzazione dei beni» (Piketty, cit. Kuznets6, 2013: 11), la depressione economica tende ad accentuare le disparità. Tale meccanismo risulta pressoché automatico laddove l’attività di policy non intervenga con azioni ad hoc capaci di compensare le anomalie prodotte dalle degenerazioni del capitalismo finanziario incontrollato, che si propagano epidemiologicamente nelle varie economie del mondo, per effetto della globalizzazione.

L’azione politica, a tutela dell’architettura

6 L’autore fa riferimento alla curva di Simon Kuznets, che correla il tasso dello sviluppo alla variazione della variabile disuguaglianza. Kuznets nel 1955 ipotizzò una relazione a forma di U rovesciata tra disuguaglianza di reddito e crescita economica, sostenendo che nelle

democratica delle società occidentali, dovrebbe intervenire operando su diversi fronti. In prima istanza, ha l’onere di riequilibrare le disparità di trattamento salariale e ridurre la concentrazione del capitale (nonché di rendimento dello stesso); in secondo luogo deve operare sul fronte della redistribuzione, al fine di garantire da una parte una tassazione proporzionale al reddito conseguito, dall’altra pari opportunità in termini di accesso ai servizi pubblici fondamentali (sanitari, pensionistici, dell’istruzione, ecc.).

La questione dell’ineguaglianza nel trattamento salariale rispecchia un’evoluzione socio-economica che inizia negli anni ’70 e caratterizza il XXI secolo. Tale fenomeno è definito da Piketty (ivi, 462), «l’avvento dei superdirigenti». Le differenze retributive tra classi di lavoratori assumono valori mai raggiunti in passato: rispetto agli operai, i manager delle maggiori compagnie USA «nel corso del primo decennio del ventunesimo secolo hanno ricevuto salari 200 o 400 volte più alti. Tra le 100 aziende più grandi della Gran Bretagna (FTSE 100 companies), la media delle paghe dei manager è stata circa 300 volte più alta del salario minimo» (Pickett and Wilkinson, 2014: 11). Anche il sistema di remunerazione del capitale ha una storia che si perpetua nei secoli, e segue una dinamica sempre uguale e perversa: il tasso annuo di rendimento da capitale (r) è costantemente maggiore del tasso di crescita (g), da cui r > g, determinando forti diseguaglianze in termini di concentrazione e accumulazione della ricchezza (ivi, 554) (Fig. 1.2).

prime fasi di sviluppo, quando il reddito pro capite cresce, aumentano anche le disuguaglianza di reddito; le stesse tendono a ridursi nelle fasi successive dello sviluppo per effetto di una migliore distribuzione del reddito.

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Figura 1.2

Fonte: Piketty, 2013. Così i redditi più alti, di una piccola casta,

tenderanno a crescere in misura percentuale sempre maggiore rispetto ai redditi del resto della popolazione, innescando un moto perpetuo in tale direzione. «Il potere economico delle élite e la rivoluzione conservatrice della politica si sono rinforzati a vicenda, con un conseguente aumento dei sistemi fiscali meno progressivi e un rimpicciolimento del welfare state» (Fitoussi, Saraceno, 2014: 35). L’ampiezza di questa élite è stata definita da Stiglitz nel 2011, con la pubblicazione su Vanity Fair dell’articolo Of the 1%, by the 1%, for the 1%. L’autore, spiegando che in America circa l’1% della popolazione detiene circa ¼ del reddito nazionale e quindi del patrimonio esistente, offre al dibattito internazionale le seguenti considerazioni: «i mercati non funzionavano come avrebbero dovuto, perché non erano né efficienti né stabili; il sistema politico non

7 «The top 0.1% also matters from a macroeconomic perspective: it owns a sizableshare of aggregate wealth and accounts for a large fraction of its growth. Over the 1986-2012period, the average real growth rate of wealth per family has been 1.9%, but this average

aveva corretto i fallimenti del mercato; il sistema economico e quello politico erano fondamentalmente iniqui» (Stiglitz, 2012: 11). Nel 2014 gli studi di Saez e Zucman sono giunti ad una conclusione più estrema: negli Stati Uniti dal 1986 al 2012 il tasso medio di crescita reale della ricchezza per famiglia è stato dell’1,9%, ma questa media maschera in maniera considerevole l’eterogeneità: per il 90% della popolazione la ricchezza non è cresciuta affatto, mentre è aumentata in misura dello 5,3% all'anno per lo 0,1% della popolazione7. Pertanto, la disuguaglianza nella ricchezza non riguarda l’1 % verso il 99%, bensì lo 0,1 % (fig. 2.2) verso il 99,9%. Di contro, la ricchezza della classe media ha seguito un andamento rappresentabile graficamente come una U rovesciata (fig. 3.2): il picco massimo è riscontrabile negli anni ’80, si registra in seguito un trend costantemente negativo (ivi: 24).

masksconsiderable heterogeneity: for the bottom 90%, wealth has not grown at all, while it has risen 5.3% per year for the top 0.1%, so that almost half of aggregate wealth accumulation has beendue to the top 0.1% alone» (Saez e Zucman, 2014: 1).

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Figura 2.2

Fonte: Saez e Zucman, 201. Figura 3.2

Fonte: Saez e Zucman, 2014.

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In merito alla composizione dell’1% più ricco, l’aspetto sul quale convergono sia Piketty sia Saez e Zucman è che, attualmente, il 60-70% di questa casta è costituito da dirigenti. Ne deriva che la dinamica delle diseguaglianze inizia con un differenziale in termini di reddito da lavoro, permettendo, in un secondo momento, una polarizzazione di ricchezza capace di determinare la concentrazione dei redditi da capitale. Un aspetto non trascurabile della differenza di reddito riguarda la popolazione più giovane, in termini di opportunità e flessibilità al cambiamento. Per spiegare tale fenomeno il Prof. Alan Krueger8, nel discorso The Rise and Consequences of Inequality da questi tenuto al Center of American Progress il 12 gennaio 2012, fece riferimento alla curva del Grande Gatsby (GG) elaborata da Miles Corak (2012).

La curva GG pone in correlazione il coefficiente di Gini9 – l’indice della disuguaglianza calcolato sui redditi delle famiglie – e l’elasticità in termini di guadagni, rilevando il grado di mobilità sociale intergenerazionale che caratterizza i ventidue Paesi oggetto dello studio di Corak e spiegando l’attitudine esprimibile da un soggetto nel passare da una posizione iniziale (quella, ad esempio, della famiglia di origine) ad una successiva migliorativa, in relazione al contesto sociale nel quale vive.

Risulta evidente la correlazione diretta tra le variabili “mobilità” ed “equa distribuzione del reddito”, infatti nei Paesi dove il coefficiente di Gini registra valori elevati (Stati Uniti, Regno Unito, Francia e Giappone) (fig. 4.2) il grado di mobilità è inferiore.

Figura 4.2 GG – The Great Gatsby Curve.

8 Alan Krueger, Bendhein Professor di Economia e Affari Pubblici alla Princeton Univeristy, capo del Council of Economic Advisers dell’amministrazione Obama dal 2011 al 2013. 9 Il coefficiente di Gini «misura la mutabilità di un carattere qualitativo per una distribuzione di valori monocarattere o univariata, prendendo a riferimento le frequenze relative. È compreso fra 0 ed 1, estremi che evidenziano rispettivamente assenza o massima eterogeneità. L’indice assume un valore elevato quando

le frequenze relative abbinate alle modalità hanno numerosità simile o uguale. Al contrario, esso assume un valore basso nel caso di frequenze omogenee fra le modalità di carattere osservato […]. L’indice di eterogeneità di Gini è dato dalla differenza fra 1 e la sommatoria delle frequenze relative al quadrato […]. L’indice di eterogeneità di Gini è definito dalla seguente

notazione: G = 1 − ∑ f���� �

�» (Coccarda: 133).

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La fig. 5.2 riporta il coefficiente di Gini calcolato sul reddito disponibile equivalente (scala da 0 a 100) rilevato nei Paesi europei. Essa mostra il grado di trasversalità continentale delle disuguaglianze permettendo di derivare le regioni a rischio di bassa mobilità intergenerazionale.

Si evidenzia la migliore performance registrata nei Paesi del Nord Europa in riferimento ai quali il coefficiente assume valori minimi.

Figura 5.2 Coefficiente di Gini

Fonte: D∆T∆LaB.uniss.it. Nostra elaborazione su dati Eurostat 2013 e OECD*. 3. Rappresentanze e alleanze di classe

Sotto il profilo geopolitico il sistema delle disuguaglianze potrebbe essere osservato congiuntamente all’attività di lobby svolta dai grandi gruppi di pressione ed esercitata da questi per consolidare i propri interessi all’interno dell’ambiente politico. Le lobbies costituiscono, infatti, l’anello di congiunzione tra potere politico e potere economico, e per tale ragione definiscono, attraverso la loro attività, il legame tra la dimensione pubblica (statale) e privata (aziendale) della governance. Sebbene il dialogo tra il government e gli stakeholders sia necessario e funzionale all’implementazione di politiche condivise ed integrate, la logica dell’aggregazione dei gruppi d’interesse, e la

conseguente pressione da essi esercitata, trascende, talvolta, agendo nella ridefinizione della configurazione del mercato, e, di conseguenza, dei processi redistributivi ad esso collegati. Allo Stato, che costituisce il muro di confine sul quale insistono i gruppi di pressione, spetta il complicato compito di bilanciare i ruoli e le sfere d’influenza dei portatori d’interesse privati, riequilibrando quella struttura che lo vede colonna portante dell’interesse collettivo, nei vari ambiti in cui l’economia opera e produce i propri effetti. Innalzando il livello di potere esercitato dalle lobbies, si oltrepassa il limite della virtuosa connessione tra sfera politica ed economica, tramutando il processo di integrazione tra i due mondi in una disfunzione sistemica capace di generare centri e periferie socio-economiche

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anche all’interno di comunità evolute, nelle quali, legittimamente, convivono forti realtà pluralistiche. La stretta relazione rinvenibile tra l’attività di lobbying praticata dagli influenti esponenti delle grandi aziende e la costante ascesa economica dei soggetti ad esse collegate, componenti la casta dell’1% precedentemente citata, è quindi intendibile come il frutto della concreta evoluzione dell’economia e della politica contemporanea (Fotia, 1997: 129) Non a caso, il mondo delle lobbies occupa un ruolo centrale proprio all’interno delle odierne democrazie occidentali, ove le disparità sono più evidenti. Negli Stati Uniti, infatti, le lobbies rappresentano una realtà consolidata; l’attività di promozione dei legittimi interessi riferiti ai vari gruppi di pressione percorre, negli USA, una strada lastricata da imponenti finanziamenti delle campagne elettorali e consueti interventi nella programmazione politica del Paese. In America, i lobbisti «realizzano analisi e papers su cui deputati e senatori formano la loro opinione, redigono le proposte di legge, introducono i consiglieri elettorali a dossier esclusivi; guidano i congressisti neoeletti, provenienti dalla provincia e a digiuno di politica federale; realizzano incontri tra parlamentari di partiti diversi; segnalano l’apprezzamento e il malcontento delle grandi aziende; fungono da intermediari tra gli oligarchi e i candidati […] consigliano presidenti e ministri […]» (Fabbri, 2015: 41), ingenerando un circolo vizioso fondato su un capitalismo clientelare, che alimenta il sistema delle disuguaglianze.

10 Cfr Zagarella (2014: 17), «Negli Stati Uniti l’attività di lobbying trova formale riconoscimento costituzionale nel Primo emendamento, in base al quale chiunque può presentare petition al decisore pubblico. Un primo tentativo di disciplinare in maniera organica il lobbying risale al 1946, tentativo infruttuoso a causa dell’ambiguità del linguaggio utilizzato e della debolezza delle previsioni. La normativa attualmente in vigore è stata approvata nel 1995: negli anni, il Lobbying Disclosure Act è stato integrato e arricchito di nuove disposizioni, anche grazie alle recenti modifiche operate dal Presidente Barack Obama a partire dal 2009».

Mentre negli Stati Uniti l’attività di lobbying risulta ufficialmente regolamentata da apposite normative10, revisionate, anche nel corso dell’anno 2009, per rispondere ad una crescente domanda di disciplinamento del sistema a favore della trasparenza, in Europa il fenomeno delle lobbies vive ancora in una condizione di generale confusione giuridica, sebbene nel Vecchio Continente il numero dei lobbisti e degli investimenti in danaro effettuati dai gruppi di pressione ammonti a circa 120 milioni di dollari l’anno11 e registri un trend in costante crescita12. Allo stato attuale, a Bruxelles si stimano circa 1.500 soggetti che professionalmente operano nel settore delle lobbies, mentre presso la Commissione europea e il Parlamento sono presenti circa 5.000 lobbisti registrati13; i dati risultano, tuttavia, estremamente approssimativi, in quanto l’iscrizione all’apposito Registro per la Trasparenza dell’UE, varato nel 2008, ha carattere puramente facoltativo14. Ne consegue che la maggior parte dei gruppi di pressione operi in un contesto di discutibile trasparenza, regole confuse e assenza di controlli, nonostante l’accertata incisività del public affair da questi praticato sui processi decisionali di interesse collettivo. L’esempio più evidente è quello relativo alla potente lobby finanziaria europea, espressione degli interessi bancari e assicurativi collegabili ad una classe di potere che opera su scala transnazionale.

11 Corporate Europe Observatory, 2014. 12 Secondo il rapporto di Transparency International Lobbying in Europe. Hidden Influence, Privileged Access (2015: 56): «After Washington, D.C., Brussels has the highest density of lobbyists in the world. The three core EU institutions – the European Commission, European Parliament (EP) and the Council of the EU – are all major targets of lobbying». 13 Dati: (http://www.oecd.org/gov/ethics/lobbying.htm). 14(http://ec.europa.eu/transparencyregister/public/homehome.do).

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Figura 1.3 Istituzioni UE operanti nel settore finanziario e attività di lobby

Fonte: Corporation Europe Observatory, 2014.

Di questo gruppo di pressione si rileva la presenza massiccia, predominante rispetto a quella dei portatori d’interesse coinvolti in tematiche differenti, riscontrabile nel panorama generale del sistema lobbistico, nonché la forza con la quale lo stesso opera come contraltare sul fronte della tanto agognata regolamentazione creditizia a tutela del mercato, del risparmio e dei risparmiatori. Nell’UE della post crisi i portatori d’interesse in materia di finanza, per la maggioranza collegati a grandi multinazionali di provenienza britannica, tedesca, francese, e d’oltreoceano15, hanno presenziato ad una serie cospicua di consultazioni su tematiche di primo rilievo (“Fondo Salva Stati” – tassazione delle transazioni finanziarie, Private Equity Funds, ecc.) mediante la partecipazione ai vari gruppi informali di lavoro presenti all’interno delle varie istituzioni dell’UE (Corporation Europe Observatory, 2014), secondo la rete

15 La Corporate Europe Observatory rileva la presenza, tra gli altri, dei seguenti colossi della finanza: JP Morgan, Standard&Poor’s, Credit Suisse, Goldma, Mastercard, Morgan Stanley, Bank of America, Danske

relazionale rappresentata nella figura 1.3. Per citare un esempio dell’incidenza di tali portatori di interesse sul processo decisionale pubblico, si può assume come campione il tema dei fondi spazzatura e dei private equity funds: il numero degli emendamenti scritti dai lobbisti del settore finanziario ad una direttiva connessa alla suddetta tematica risulta di 900 su 1.700 (ibidem).

In linea generale, ampliando il discorso ai vari gruppi di pressione, la Transparency International, al fine di valutare le interazioni tra attività di lobbying e pubblico governo, ha condotto uno studio sul territorio UE che prende in considerazione tre variabili tra loro collegate: trasparenza – integrità – equità d’accesso. Nella valutazione integrata di tali elementi il punteggio medio conseguito dalle tre istituzioni centrali dell’Unione, Parlamento – Commissione – Consiglio, è del 19%. La modesta performance rilevata pone in rilievo

Bank, Deutschebank, American Express, UBS, Moody’s, ecc.

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l’alto rischio d’indebita influenza politica esercitabile dai gruppi di pressione che si assomma alla grave mancanza di adeguate misure regolamentative e sanzionatorie in materia. Lo studio disegna, infine, il complesso apparato lobbistico nelle varie nazioni europee, evidenziando come in alcuni stati (Irlanda, Portogallo e Ungheria) lo stesso esplichi i propri effetti sia all’interno dell’azione partecipativa formale, (intesa come rappresentanza ufficiale nelle pubbliche consultazioni), sia intorno ad essa, ossia nel reticolo relazionale costruito attraverso rapporti familiari, lavorativi e di ceto sociale. Tali legami, che si diramano su scale geografiche di vario livello gerarchico, permettono di stabilire alleanze transnazionali di classe capaci di polarizzare potere e ricchezza. In questo modo, si realizza un apparato fatto di pratiche opache capaci di dividere i cittadini in due categorie: da una parte vi è una maggioranza di contribuenti rassegnati, dall’altra una classe formata da leader autorevoli e influenti. I primi, sempre meno presenti nel processo di public governance, condividono le miserie della recessione e delle misure di estremo rigore adottate dai governi, per loro è l’Austerity; i secondi rappresentano l’élite patronale, quella che definisce i limiti del rigore, per sé e per gli altri, e che vive all’apice della scala sociale, all’interno dei grandi poteri. È l’effetto collaterale del sistema globalizzato/squilibrato, che coinvolge il destino di tutti, ma con esiti differenti. Ritorna il concetto della disuguaglianza, dei forti privilegi e dei rapporti obnubilati con il sistema della policy, gestito secondo un meccanismo fatto di “porte girevoli” che alimenta la disparità di trattamento e accesso alle risorse tra cittadini.

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