Il Cavaliere d'Africa

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Romance, Ilaria Goffredo

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ILARIA GOFFREDO

IL CAVALIERE

D’AFRICA Viaggio in fondo al cuore

   

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IL CAVALIERE D’AFRICA Copyright © 2012 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-444-4 In copertina: Immagine Shutterstock.com

Prima edizione Luglio 2012 Stampato da

Logo srl Borgoricco - Padova

I personaggi presenti in questo romanzo sono utilizzati in maniera fittizia secondo la libera immaginazione dell’autrice.

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A tutte le persone meravigliose che ho conosciuto in Kenya, a tutti coloro che dedicano la propria esistenza

a rendere migliore quella degli altri e all’Africa, terra di vita e immensità.

«E se i suoi occhi fossero nel cielo veramente e le stelle

nel suo viso? Lo splendore del suo volto farebbe pallide le stelle, come la luce del giorno

la fiamma d’una torcia.» William Shakespeare – Romeo e Giulietta

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PROLOGO Spesso ripenso a com’ero prima. Non avrei mai immaginato che la mia vita sarebbe cambiata così, che io sarei cambiata così. Mi ritrovo a guardarmi allo specchio vedendo dall’altra parte qualcuno che non credevo potessi essere io e di certo trovo una persona migliore. La mia vita è completamente diversa da come immaginavo che sarebbe stata prima di quel giorno di settembre del 2005, quando ero una spensierata adolescente come tutte le altre della mia età.

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PARTE PRIMA

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PRIMA DELLA LUCE Quando ero piccola ogni giorno mi veniva in mente una nuova professione che avrei voluto fare da grande. Verso gli otto anni volevo tanto diventare un’astronauta. Mi avevano sempre affascinato il cielo, le stelle, la vita su altri pianeti. Guardavo sempre in televisione i documentari e le trasmissioni di astrologia; mi ero così appassionata che implorai mio padre di comprarmi l’intera enciclopedia dell’universo, con fascicoli, raccoglitori e videocassette. E lui, da brav’uomo qual era e meraviglioso padre quale è sempre stato, acconsentì. Papà era un uomo magro e bassino, dal grande naso, ma io lo trovavo anche molto bello. Inoltre è sempre stato una persona calma e per stare con mia madre di pazienza ce ne voleva tanta. Mamma era alta un centimetro in più di papà, aveva i capelli scuri ed era una bella donna anche se non si truccava mai e si vestiva sempre sportiva: tutti mi dicevano sempre che io le assomigliavo tantissimo. Quando ero piccola però litigavamo spesso: io ero una peste e lei era molto suscettibile. Finiva regolarmente che io piangevo. E poi c’era sempre papà che veniva a consolarmi: sentivo che era lui l’unico che mi capiva. L’enciclopedia dell’universo arrivava a casa ogni mese con due videocassette e due fascicoli (che io divoravo in dieci minuti) e papà pagava i bollettini postali tranquillamente, solo per me, anche se il suo stipendio (all’epoca in lire) non arrivava neanche a due milioni al mese. Io coltivavo con gioia i miei sogni, disegnavo astronauti, tute spaziali, buchi neri e supernove e immaginavo di essere la prima donna a mettere piede su Marte. Un’altra passione che avevo erano gli animali, di tutti i tipi e di tutte le specie. Sognavo così di fare la veterinaria. Nella mia mente di bambina credevo che ciò significasse solo passare tanto tempo con gli animali e non fare ciò che realmente fa un dottore veterinario. Purtroppo non ebbi nessun animale domestico in casa perché mia madre era fissata per la pulizia assoluta e non voleva nemmeno un pesce rosso. Altre volte sognavo di diventare disegnatrice di manga, perché adoravo quei disegni e mi cimentavo sempre nel realizzarli (ero anche piuttosto brava). Anche in quel caso convinsi papà a farmi seguire un corso di disegno per corrispondenza. Mi arrivavano cartelline portafogli, fogli e album da disegno, matite di tutti i tipi e colori, manichini di legno snodabili, inchiostro di china, retini, nonché fascicoli e raccoglitori.

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Ancora, adoravo i misteri dell’antichità e volevo scoprire le origini della storia diventando un’archeologa… ma arrivata in terza media dovetti scegliere una scuola superiore. E cosa scelsi? Tecnico dei servizi turistici! Ora non ricordo neanche più il motivo. Fortunatamente non mi pentii della mia decisione, perché quella scuola mi permetteva di viaggiare tantissimo. Pensavo che una volta diplomata mi sarei iscritta all’università di Bologna per diventare manager d’albergo o qualcosa di simile. Devo dire però che la mia vita prese una piega decisamente inaspettata… La mia migliore amica era Fiorella, anche se in realtà eravamo molto diverse. Io ero semplice, introversa e determinata. E non provenivo da una famiglia benestante, anzi… eravamo in affitto in una casa di sessantacinque metri quadrati: camera mia e di mio fratello maggiore Giacomo era praticamente nel soggiorno, poi c’era la piccola camera da letto dei miei, un modesto bagno e una cucina dove entrava solo un tavolo da quattro. Non avevo la possibilità di fare spesso shopping ma in fondo non mi mancava nulla. Fiorella invece era estroversa e sofisticata, ma nel profondo era molto fragile. Aveva una bella casa e tanti soldi, indossava solo roba firmata Calvin Klein, Burberry, Hogan e altre marche che io neanche conoscevo. A scuola io ero fortissima, lei un po’ meno. Io ero alta, magra, occhi grandi, carina e con i capelli castano scuro; lei era bassina, dalle forme un po’ più piene delle mie, con i capelli rossi e lucenti e con delle simpatiche lentiggini sparse sul naso e sugli zigomi. Eravamo due mondi opposti, ma ciò che ci legava era una profonda amicizia nata nel momento del bisogno. In seconda superiore io fui lasciata dal mio fidanzato storico: Michele. Quella che allora credevo la mia migliore amica, invece di sostenermi, si allontanò da me e mi ritrovai sola. C’era solo Fiorella ad ascoltarmi e tirarmi su, mi telefonava per sapere come stavo e mi chiedeva di uscire insieme per farmi distrarre. Fu così che pian piano ci avvicinammo e diventammo inseparabili. Pranzavamo insieme, studiavamo insieme, lei mi aiutava in matematica (l’unica materia a cui io non riconoscevo il merito di disciplina scolastica) e io la aiutavo in geografia (nella quale lei aveva una forte rivalità con il professore). Quando lei prese la patente, il pomeriggio uscivamo spesso con la sua macchina che era una bellissima Nissan Micra grigia, uscita da pochi mesi sul mercato. Cantavamo a squarciagola con la radio accesa e facevamo gli occhi dolci ai bei ragazzi fermi ai semafori. Spesso giravamo a vuoto per Martina Franca, la mia città. A noi si avvicinarono anche Cinzia e Piera. La prima un po’ piagnucolona ma molto dolce, la seconda invece era la tipa dura della situazione, quella che se la

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chiamavi non rispondeva mai al cellulare: fu così che si creò un bel gruppo affiatato. Anche nella gite stavamo sempre insieme. Ricordo quando andammo in gita in Sicilia per quattro giorni. Alloggiavamo a Giardini Naxos, vicino a Messina, in un grazioso villaggio turistico con villette indipendenti a due piani. Dopo le escursioni della giornata era la sera che arrivava il vero divertimento. Facevamo tutto ciò che facevano dei giovani in gita: ballavamo musica rock sui letti, facevamo scherzi con il dentifricio ai nostri compagni (la vittima preferita era Viviana, grande ingenua) e bevevamo tutto ciò che di alcolico ci capitava tra le mani. Una sera Piera era seduta sul suo letto a gambe incrociate. Indossava scarpe da tennis verde militare, un jeans strappato, una magliettina con su scritto Viva l’America e una pashmina bianca sfilacciata, la sua preferita. I capelli biondi erano raccolti in uno chignon, era magra e molto minuta e quella sua aria da ribelle le attirava non pochi fans. Cinzia uscì dal bagno dopo quasi un’ora passata nella vasca. Indossava un pigiamone una taglia più grande e delle pantofole a forma di coniglietto. Era un po’ robusta, ma quei capelli ricci, corti e ribelli, la rendevano molto simpatica. Vide Piera che armeggiava con qualcosa tra le mani. «Ecco, ho finito!» esclamò Piera. «Che stai facendo?» chiese Cinzia sorpresa. «Zitta e fuma!» rispondemmo all’unisono io e Piera. Utilizzavamo quel tono autoritario ma scherzoso quando una di noi faceva troppe domande. Era superfluo spiegare a Cinzia che Piera aveva rollato una canna… Ci sedemmo tutte e tre per terra sul balcone a guardare le stelle e quel cielo infinito che mi aveva sempre affascinato. Come in una pellicola lessi in quelle stelle la storia di tutte le persone, di tutti i popoli che quel cielo aveva da sempre ammirato, alto su tutto e tutti, imperturbabile nella sua immensità. Fiorella ci raggiunse portando quattro bicchieri di plastica traballanti. Si divertiva a fare la shaker e aveva preparato i nostri cocktail preferiti: Long Island per Piera (con cola, rum e non sapevo che altro), Mojito per Cinzia, Caipiroska alla fragola per lei (si sentiva il gusto di fragola ma era ben più forte quello di alcol e mi disgustava) e vodka alla pesca con Redbull per me. Quello era il mio preferito e scendeva giù da solo perché aveva un gusto molto delicato. Fiorella si sedette vicino a noi e brindammo a quella sera. Piera accese la canna e a turno fumammo. Per me era poco più che una normale sigaretta, non mi faceva un grande effetto, ma la cosa bella era fumare in compagnia delle mie amiche. L’odore dell’hashish ci entrava bruciante nelle narici. Improvvisammo un mimo sui professori e ridemmo fino alle lacrime. Quando tornammo in camera ci buttammo tutte e quattro sul lettone e ci

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addormentammo così: chi con una scarpa, chi vestita, chi con il pigiama, ascoltando le migliori canzoni soft degli Aerosmith. Mi faceva impazzire la voce grave del cantante e il modo in cui accarezzava le corde della sua chitarra. La mia classe era divisa in sottogruppi. Il gruppo delle Papere, così chiamate perché ridevano sempre, composto da me, Fiorella, Cinzia e Piera, più Clarissa, Maristella e Angelica. Con loro tre non avevo un rapporto straordinario ma eravamo buone amiche. Poi c’era il gruppo delle Becchine, così chiamate perché stavano sempre zitte per conto loro, parlavano solo quando c’era da criticare qualcuno e ridevano degli insuccessi altrui. C’era anche il gruppo delle Ping Pong, la cui presidente era Rebecca: queste ragazze saltavano dal nostro gruppo a quello delle becchine familiarizzando con tutte. Infine c’era il mitico Trio, composto dagli unici tre maschi della classe: Luca, Francesco e Orlando. Erano diventati inseparabili da quando erano rimasti solo loro tre a rappresentare il genere maschile in classe, tutti gli altri si erano ritirati da scuola o erano stati bocciati. Fuori dalla vita scolastica però ognuno aveva il suo mondo, soprattutto Luca che era un gran fighettino e voleva sempre fare il duro. Ma anche lui aveva dei sentimenti e io ero la sua migliore amica: solo con me riusciva a parlare, solo io potevo contraddirlo senza che si offendesse, solo io riuscivo a fargli capire quando sbagliava. Francesco era alto, magro e buono. Lo chiamavamo lo zio perché era diventato zio a quattordici anni. Orlando invece era alto e robusto, praticamente un armadio. Era buono con tutte noi papere e ci proteggeva sempre, noi lo chiamavamo orsacchiotto. Il gruppo delle papere era il più in, eravamo noi a dettare legge in classe, anche se facevamo illudere il trio di avere un qualche potere decisionale. Sostenevamo il trio quando cantavano il loro inno e cioè L’amor del trio è meraviglioso! e prendevamo in giro le becchine: avevamo anche eretto il muro del pianto in onore di una becchina che piangeva se prendeva brutti voti, e cioè sempre... Sofia. Il muro del pianto era un pilastro vicino alla prima finestra della classe e noi lo usavamo come monumento provocatorio nei confronti di chi ci criticava: appendevamo cartelloni, disegni, caricature e frasi celebri (comiche) delle nostre rivali. E ogni mattina entrando in classe lo salutavamo come se fosse un tempio. Una mattina uggiosa di febbraio tutte le classi furono chiamate in palestra perché gli studenti dovevano conoscere la presidente di un'associazione no profit: la nostra scuola partecipava spesso a progetti umanitari per scuole, orfanotrofi e ospedali.

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«E vai! Saltiamo l’ora di geografia!», esclamò Fiorella prendendomi per un braccio. «Sei sempre la solita caprona!», ribattei io. «Non sono io, è lui che si fa odiare!» Si riferiva all’insegnante di geografia turistica, il professor Cantore. Io invece lo trovavo simpatico o per lo meno giusto, era lui l’unico che metteva i voti che ognuno si meritava, senza sconti per nessuno. A pensarci bene forse era per questo che alcune mie amiche non lo vedevano di buon occhio. Sospirai: non c’era proprio niente da fare, Fiorella non avrebbe mai studiato quella materia. Entrammo in palestra. Dai vetri sporchi e semiaperti entrava l’odore della pioggia. Le grandi lampade al neon sospese al soffitto da cavi poco rassicuranti erano accese e gli studenti delle altre classi erano seduti sul pavimento. Trovammo un posto tranquillo e ci accomodammo vicino a una parete. Nella nostra scuola non avevamo un’aula magna, infatti per fare le assemblee di istituto la scuola affittava la sala di un cinema dove, dopo l’assemblea (che durava in genere cinque minuti se non meno), veniva proiettato un film di qualche anno prima al modico prezzo di 3 euro. In questo modo eravamo noi stessi a pagare l’affitto della sala. Bella la scuola pubblica, vero? «Salve ragazzi!», esordì una signora bassina e magra dal fondo della palestra, vicino a una cattedra. Aveva i capelli cortissimi che davano sul biondo o forse sul grigio, indossava un pantalone rosso, una camicia gialla a righe arancioni e portava un ciondolo d’argento a forma del continente africano. Sembrava una donna frizzante. La platea, che fino a quel momento aveva chiacchierato con comodo, divenne più silenziosa. «Mi chiamo Filomena La Serra e sono la presidente dell’associazione ONLUS Compagni di Malindi. Sono qui per parlarvi del nostro progetto: con i fondi messi a disposizione dai soci abbiamo acquistato un terreno di proprietà del governo kenyota nella cittadina di Malindi, in Kenya appunto, e stiamo iniziando la costruzione di una scuola. Sarà una scuola professionale e sarà frequentata da giovani come voi. Purtroppo però i costi sono elevati e con quello che abbiamo non riusciremo a finire di costruirla, arredarla, portare acqua ed elettricità. Confido nel vostro buon cuore, ma non è assolutamente obbligatorio. La nostra scuola deve essere costruita con le donazioni di chi realmente ci crede.» Ecco appunto. Crederci. Io non ci credevo minimamente. “Chissà dove finiranno i soldi… e se il progetto davvero esiste, resterà a metà!” pensai.

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«Quando riusciremo a completare la scuola e avviare i corsi…» continuò Filomena «sceglieremo degli alunni della vostra scuola per portarli lì, in Africa!» Ci fu silenzio generale. Non so se per l’incredulità a quella notizia o perché più di qualcuno si era addormentato. Io in verità ero abbastanza scettica. «Ma va’, figurati se ci portano davvero in Kenya!» dissi a Clarissa che era affianco a me. «Lo sai che è solo una scusa per racimolare soldi!» rispose lei continuando a scrivere sms al suo ragazzo. Clarissa era una ragazza abbastanza alta e aveva forme generose. Era anche molto riservata e a chi non la conosceva poteva sembrare antipatica. Era fidanzata da anni con il suo Agostino, un carabiniere sempre in missione, non si vedevano quasi mai. Forse era per questo che stavano insieme da una vita. «Oggi sono a vostra disposizione per qualsiasi chiarimento. Nei prossimi mesi documenterò i progressi del nostro progetto e manderò foto ai vostri insegnanti. Se volete sapere qualcosa in più chiedete a loro. Grazie per la vostra attenzione, ragazzi» terminò Filomena. Detto questo tutti si alzarono immediatamente e si avviarono all’uscita della palestra. La nostra indifferenza poteva sembrare una brutta cosa, ma si sentivano talmente tante truffe a Striscia la notizia o Le iene che ormai nessuno credeva più in niente. Leggevo negli occhi dei miei compagni solo noia, nessun interesse reale o entusiasmo. Solo le becchine, dette anche lecchine, stavano già parlando con la coordinatrice di classe, la professoressa di tedesco Maria Grazia Nitti su come e quando raccogliere le donazioni della nostra classe. Il loro però non era vero interesse, le conoscevo bene, era solo un modo per farsi belle agli occhi degli insegnanti. La professoressa Nitti, che era una donna sempre entusiasta e carica al punto da riempirsi di una marea di impegni e iniziative, stava già prendendo la sua agendina per segnare anche questo nuovo progetto. Mentre uscivo dalla palestra mi voltai e vidi la signora Filomena parlare con il preside. Credevo che non l’avrei più rivista, come tutti gli altri che raccoglievano fondi, invece mi sbagliavo. La mia vita continuò tranquillamente: casa, scuola, pub, casa di Fiorella. In quel periodo non ero molto attratta dai ragazzi o meglio non volevo esserlo. Dopo quello che avevo passato con Michele, che dopo anni di fidanzamento mi aveva lasciata per un’altra, per me i ragazzi erano diventati solo un gioco: se conoscevo uno carino provavo a uscirci, ma poi al primo incontro già mi stancavo. Preferivo stare con i miei amici, divertirmi e non prendere niente sul serio.

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Arrivò l’estate e organizzammo delle feste in campagna da Maristella. Lei era sempre disponibile e ormai non pensavamo più a trovare un posto per i nostri party, il nostro posto era la sua campagna. Fu così anche per il 2 giugno, festa della Repubblica. Ricordavo benissimo il significato di quella ricorrenza perché alle medie avevo una professoressa di storia che era terribile: picchiettando i suoi enormi anelli dorati sulla cattedra ci ripeteva la stessa cosa fin quando non l’avevamo imparata. Però dovevo ammettere che il suo metodo aveva funzionato: il 2 giugno del 1946 in Italia ci fu il primo referendum a suffragio universale (fu la prima volta in cui votarono anche le donne) e il popolo italiano fu chiamato a scegliere tra monarchia e repubblica. Sappiamo benissimo che vinse la seconda alternativa. Per noi comunque ogni festa era un’occasione per festeggiare. Il giorno prima della festa io, Angelica, Cinzia e Fiorella andammo in campagna da Maristella per aiutarla a dare una pulita veloce e preparare il tutto per il giorno seguente. Il villino di Maristella si trovava nella bellissima Valle d’Itria, una valle ai piedi della nostra cittadina immersa nel verde e punteggiata da bianchi trulli, costruzioni in pietra a forma conica risalenti ai nostri avi. La maggior parte dei martinesi aveva una campagna, con trulli spesso ristrutturati, in genere ereditata dai genitori. In inverno tutti abitavano in città, mentre d’estate usavano villeggiare in campagna. Io non avevo mai vissuto quest’esperienza perché noi non avevamo una campagna, non avevamo neanche una casa di proprietà a Martina! Solo qualche volta ero rimasta a dormire in campagna da Fiorella, che aveva un’immensa villa con tavernetta e giardino con ulivi secolari. Per arrivare in campagna da Maristella bisognava imboccare un vecchio tratturo senza asfalto: la sua casa era la prima sulla sinistra. Il cancello rosso si apriva su un piccolo spiazzo cementato che veniva usato come parcheggio. Particolare era un albero cresciuto proprio vicino a un angolo dello spiazzo, le cui radici ne avevano provocato la rottura e il rigonfiamento. Quelle crepe erano da sempre nemiche dei pneumatici delle auto. C’era anche una piccola aiuola nella quale giaceva una vecchia altalena rossa e blu dove tutti gli anni la nostra classe si ammassava per fare la foto di rito. In un piccolo fabbricato si trovavano due piccole camere da letto, una cucina centrale con camino e un bagno rialzato. All’esterno un’altra piccola costruzione separata dalla prima costituiva il nostro salone per le feste, era lì che davamo sfogo al nostro divertimento. Mentre raggiungevamo la villetta, io e Fiorella fumavamo in macchina. La macchina di Cinzia era una vecchia Peugeot sgangherata, ma per noi giovani in cerca di libertà era il massimo. Inoltre Cinzia era stata la prima patentata e per il primo periodo faceva da autista per tutte le nostre escursioni.

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«Che dite, Maristella si sarà già svegliata?» chiese Angelica. «Bè, sono le undici, quindi…» stava rispondendo Cinzia. «…no!» finii la frase. Scoppiammo tutte a ridere. «Spero per lei che vi sbagliate, altrimenti un bel gavettone nel letto non glielo toglie nessuno!» esclamò Fiorella. «La solita bastarda!» convenni io. «Non credo proprio che la madre te lo permetterà!» continuò Cinzia. «E no, guardate che oggi è mercoledì e la madre di Maristella è andata a lavoro presto!» ci informò Angelica. «E vai!» esclamammo noi in coro. Teresa, la madre di Maristella, era una brava signora ma di sicuro era meglio stare da sole. Potevamo mettere i piedi sul divano e mangiare popcorn, e poi Maristella poteva fumare con noi. La signora Teresa lavorava al mercato del paese che si svolgeva ogni mercoledì vicino al foro boario, dove una volta si tenevano fiere di animali. Aveva una bancarella di strofinacci, asciugamani, tende e tappeti. Entrammo nel cancello e… incredibile! Maristella era già in piedi. I capelli biondo scuro raccolti in una coda e le cosce larghe al vento. Non era molto cicciottella ma essendo bassa sembrava un po’ più tonda. Stava trascinando delle sedie di plastica bianca nel grande salone. «Finalmente!» gracchiò con quella sua voce squillante vedendoci arrivare. «Peccato, missione gavettone fallita!» bofonchiò Fiorella tra sé. «Come mai sei già sveglia?» chiese Cinzia incredula, sbattendo la portiera difettosa della macchina. «E voi a che ora volevate venire? Per pranzo?» rispose Maristella ignorando la provocazione di Cinzia. «Dai, basta, al lavoro!» chiusi il discorso. Anche se ci punzecchiavamo sempre non litigavamo mai. Entrammo nel salone a lasciare le borse e subito ci armammo di scopa, paletta, secchio, pezze e soprattutto buona volontà. Sapevamo che se ci fossimo fermate non avremmo fatto più niente. Dopo le pulizie aprimmo il tavolo al massimo (saremmo stati ventidue il giorno dopo, cioè tutta la classe tranne le becchine), apparecchiammo e sistemammo le sedie di plastica. Mettemmo un telo sul divano in pelle bianca, anche se sapevamo già che il trio l’avrebbe gettato a terra nel giro di un minuto. Preparammo lo stereo con tutti i nostri cd preferiti che comprendevano balli di gruppo, canzoni di Aerosmith, Nickelback, Goo goo dolls, Black eyed peas e Greenday. Spargemmo posaceneri per la stanza e per il giardino, in modo che nessuno gettasse cicche nei fiori (sarebbe accaduto comunque). La madre di Maristella

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non tornava a pranzo così mangiammo panini e patatine, come facevamo a scuola dopo le lezioni. La mattina dopo, l’incontro era previsto per le 10.30 al Martina Caffè per la colazione: riempimmo il bar come una banda di affamati. Quel bar aveva un enorme parcheggio e l’interno del locale era tutto giallo a esclusione del bancone rosso acceso. Ovviamente non tutti arrivarono in orario e quando arrivammo in campagna erano le 11.20. La signora Teresa aveva deciso come sempre di darci fiducia e si era tolta dai piedi. Il trio si mise subito a giocare a pallone distruggendo quei pochi tulipani non ancora appassiti che si trovavano vicino al cancello. Noi ragazze invece preparammo tramezzini al tonno, patatine e crepes alla nutella da mettere in frigo e mangiare come dolce. Ovviamente c’era sempre qualche furba delle ping pong che non aveva voglia di lavorare e se ne stava fuori facendo finta di telefonare o prendere qualcosa in macchina. Mangiammo spaghetti al pomodoro dopo un mare di risate perché Angelica aveva buttato la pasta nell’acqua ancora fredda. Si vedeva che nelle nostre case non partecipavamo alle faccende domestiche! Ma era proprio quello il bello: arrangiarsi. Per secondo mangiammo insalata e cotolette fritte nella friggitrice formato famiglia di Maristella. Infine il dolce, tanto la frutta non la voleva nessuno. Il pomeriggio fu dedicato a una guerra di gavettoni, ai balli di gruppo, ai giochi con penitenze e, ovviamente per i maschi, al pallone. «Ma che ci trovano di tanto divertente nel correre dietro a una palla? Anche il mio cane si diverte così!», sbuffò Fiorella che aveva tanto sperato di stare un po’ vicino a Luca, ma lui aveva altro a cui pensare. Quella giornata si concluse in modo spensierato. Durante l’estate andavamo spesso al mare a Torre Canne, oltre i monti di Cisternino. Era il sito balneare più vicino: distava solo venticinque chilometri da Martina Franca. Il mare veramente non era un granché ma a noi bastava divertirci. Stendevamo i nostri teli sulla sabbia e, una volta appallottolati i vestiti negli zaini, correvamo in acqua. C’era sempre chi voleva entrare piano piano perché l’acqua era fredda ma alla fine veniva trascinato giù dagli altri. Meno volte invece andavamo a Pulsano, in provincia di Taranto, dove il mare era stupendo, ma come posto era molto più lontano. In quell’estate del 2004 non ci furono grossi cambiamenti nella mia vita, anzi a dir la verità non ci furono cambiamenti. Ogni tanto uscivo con mio fratello. Giacomo era alto e magro, con capelli castano scuro e occhi marroni: secondo me era un bel ragazzo. Era sei anni più grande di me e viveva ancora a casa con noi. Lavorava nel caseificio sotto casa da anni ormai, aiutava nella produzione di latticini come mozzarelle e

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scamorze e intanto era iscritto alla facoltà di biologia. Quando non lavorava frequentava le lezioni nel quartiere Paolo Sesto di Taranto, in una delle sedi tarantine dell’università degli studi di Bari. Quando andava in quel quartiere malfamato per le lezioni, mamma era sempre preoccupata per lui. «Mi raccomando, chiudi le sicure quando sei in macchina! E non fermarti con nessuno!» E lui: «Mamma, ricordati che non ho più quattro anni!», e poi usciva. Aveva tanta pazienza ed era un bravissimo ragazzo. E io ero anche gelosa di lui. Forse era una cosa stupida, però non volevo che avesse una ragazza perché non volevo che soffrisse e perché era mio fratello e nessuno me lo doveva toccare. La pecca che aveva era il fumo, come me del resto. «Selene non devi fumare!» mi rimproverava. Però io ovviamente continuavo imperterrita a fare di testa mia. Una volta andai con lui a Tropea in Calabria, a trovare dei suoi amici in villeggiatura. Tropea sorgeva su di un promontorio roccioso e lì il mare era stupendo. Gli amici di Giacomo avevano affittato una casa per un mese, erano in quattro: due ragazzi e due ragazze. Noi restammo lì per qualche giorno. C’era un suo amico, Cristian, che era davvero carino, alto, con occhi grandi leggermente a mandorla, capelli lunghi e ondulati. Gli piaceva farsi un codino alto e stava proprio bene. Sin da subito avevo il sospetto che mi guardasse un po’ troppo, infatti ogni volta che andavo in veranda a fumare lui mi raggiungeva. I miei sospetti ebbero conferma una sera quando andammo a una festa in spiaggia. C’erano così tante fiaccole accese a ogni angolo che bastavano a rischiarare quella notte d’agosto. Sotto un gazebo in legno c’era il piano bar con dei tavolini improvvisati e sotto un tendone la postazione del dj. Tutti ballavano e si scatenavano in pista. Giacomo invece parlava con il barista e io gironzolavo attorno alla pista. Non mi piaceva mettermi in mostra e men che meno ballare da sola. Sentii una mano sulla spalla e mi voltai… Cristian mi sorrideva. «Che fai qui da sola?» chiese. «Oh, niente, Giacomo si è allontanato un attimo…» risposi un po’ imbarazzata. «Dai, andiamo a fare una passeggiata», mi invitò. Sorrisi gentilmente ma rifiutai e mi allontanai verso non so dove. Anche se era carino, in quel momento mi resi conto che non volevo stare sola con lui in riva al mare e poi non volevo rovinare l’amicizia tra lui e mio fratello, nel caso le cose fossero andate per il verso sbagliato. Feci finta di avvicinarmi al dj e invece vagai da sola lì intorno per qualche minuto. A un certo punto vidi Giacomo con due bicchieri colorati in mano che camminava tra la gente guardandosi intorno.

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Andai alle sue spalle e gli diedi una pacca gridando: «Ciao fratello!» Purtroppo per colpa mia gli cadde uno dei due bicchieri, rovesciandosi sulla sabbia. «Complimenti!» rispose lui «Dov’eri finita? Ti avevo preso un cocktail!» «Ho fatto una passeggiata! Comunque grazie!» risposi prendendo il bicchiere pieno. Era un vodka alla pesca e Redbull. «Mi dispiace Già, ma è il tuo quello che è caduto!» ridacchiai. Lui si girò e si avviò verso il bar borbottando qualcosa di incomprensibile. L’estate finì e arrivò settembre. L’autunno era la mia stagione preferita. Mi piaceva l’aria fresca del tramonto e il paesaggio colorato dalle foglie non più verdi. Il leggero venticello con i suoi odori di natura... qualcosa che mi accarezzava il naso. Martina Franca era piena di palazzi grigi ma c’erano anche tanti alberi e giardinetti e il cambiamento di stagione era visibile per le strade. Mi piaceva il colore del cielo del pomeriggio, con un sole più gentile rispetto all’estate, e poi si respirava aria di scuola. Adoravo andare nei negozi per comprare quaderni, libri e penne, mi piaceva l’odore della carta nuova e il fruscio dei fogli immacolati. Questo forse perché adoravo disegnare, colorare, scrivere: insomma tutto ciò che era creazione con la carta, era quella la mia arte. La scuola cominciò il 20 settembre, era bello rivedere tutti i miei compagni dopo le vacanze. C’erano quelli abbronzati che erano stati in vacanza in Sardegna e quelli bianchi cadaverici come le becchine che sicuramente erano rimaste in casa tutta l’estate a studiare. «Vai, raga’ un altro anno strippante!» diedi il benvenuto al gruppo delle papere. Piera non c’era, tipico, Cinzia tirò fuori le carte da scala quaranta, Fiorella mi lanciò un sorriso, Clarissa continuò a messaggiare, Maristella e Angelica scoppiarono in una fragorosa risata interrotta però da una voce non familiare. «Buongiorno ragazzi!» Mi voltai. Era una donna sulla quarantina, magra e sorridente, con capelli mossi e rossi evidentemente tinti e abiti sportivi. «Angelini…» Iniziò a fare l’appello e tutti ci ricomponemmo. Al termine dell’appello ci spiegò che era la nuova insegnante di religione. Insegnante mi sembrò una parola grossa perché negli ultimi dodici anni di scuola l’ora di religione era equivalsa alla ricreazione. Avevo sempre avuto come insegnanti di religione dei sacerdoti che o ci lasciavano giocare a carte mentre loro leggevano il giornale oppure ci rifilavano un video su varie questioni teologiche mentre andavano a prendersi il caffè. Ma questa professoressa, Aminta Sardegna, ci insegnò davvero qualcosa. Giorno per

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giorno imparammo a conoscerla e a lasciarci guidare da lei. Era veramente l’unica che riusciva a catturare la nostra attenzione e farci stare attenti senza rimproveri e minacce ma con un sincero interesse. Tutto questo era davvero straordinario considerando gli elementi della mia classe. A ogni lezione sceglievamo un argomento su cui dibattere, per esempio il burqa, le mutilazioni genitali femminili, il traffico d’organi o la guerra in Iraq e dopo una sua brevissima introduzione metteva su una discussione e poi ognuno di noi diceva la sua… veniva tutto da sé. Direi che operava una sorta di brainstorming. Poco prima della fine dell’ora ci faceva riflettere su ciò che avevamo detto anche presentandoci articoli di giornale, documenti e libri sull’argomento trattato. Per me l’ora di religione era diventata un vero piacere. Fu grazie a lei che conobbi e lessi il libro Bruciata viva che racconta la storia vera di una donna musulmana (che non rivela né il suo nome né la sua provenienza per ragioni di sicurezza) che, ingannata da un uomo, rimane incinta senza essere sposata. Suo fratello e suo padre quando lo scoprono le rovesciano dell’acido su tutto il corpo. Lei, in gravissime condizioni, riesce a scappare e, aiutata da dei volontari, viene curata e allontanata dal suo Paese. In Occidente questa donna scopre come non sia peccato parlare con gli uomini o camminare per la strada senza doversi coprire dalla testa a piedi. Alla fine dà alla luce suo figlio e incontra un uomo che la ama nonostante il suo corpo sia interamente deturpato dalle cicatrici. Quando lessi questa storia mi fece rabbrividire e allo stesso tempo riflettere. Purtroppo esistono donne che nell’ignoranza accettano e legittimano tutto questo. L’anno scolastico proseguì senza problemi. Era ormai maggio 2005 e avevo da qualche giorno compiuto diciotto anni. Il mio compleanno era il 5 maggio e per quell’occasione papà decise di affittare una grande sala in campagna e assumere un dj. Acquistò anche bibite (aranciata, cola, birra, spumante) e stuzzichini (patitine, focacce, panini), nonché una bella torta con la mia foto di quando avevo un anno. Invitai tutta la classe, tranne le becchine, e pochi altri amici. Mi divertii un sacco, ovviamente con torta in faccia a fine serata. Non mi sentivo tanto cambiata in realtà anche se ero diventata maggiorenne. Era quasi finito il quarto anno di scuola superiore. Un caldo mattino di quel mese il preside riunì tutti gli alunni in palestra per una comunicazione. «Ehi, Fio’, ci saltiamo l’ora di matematica!» dissi a Fiorella mentre scendevamo le scale dipinte di un azzurro spento e un po’ rovinate. Anche se la mia scuola non era il massimo, ci ero molto affezionata. «Ti è andata bene!» «Una volta tanto un po’ di fortuna!»

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«Ma per caso sai di cosa deve parlarci il preside?» Scossi la testa. Non ne avevo proprio idea. «Ho sentito parlare le becchine», intervenne Rebecca, una ping pong «dicono che ci sono notizie importanti da quel posto… come si chiama… ah, Malinda!» «Rebecca, vuoi dire Malindi!» la corresse Clarissa. «Bè, sì, quello!» la liquidò lei. Per Rebecca l’importante era dare le notizie, che fossero giuste o sbagliate non era un problema suo. “Era ora!” pensai “Si sono presi i soldi e basta!” Credevo che ci avrebbero mostrato foto o video della scuola costruita in Kenya, invece fu veramente una sorpresa. Entrai in palestra. Era piena di ragazzi che chiacchieravano seduti sul pavimento pieno di graffi che forse un tempo era stato liscio. Il preside era in piedi vicino al canestro e aspettava impaziente che arrivassero tutte le classi. Era un uomo alto con i capelli brizzolati, molto distinto. Teneva un foglio tra le mani e lo rigirava nell’attesa di leggerlo agli studenti. «Buongiorno a tutti!», iniziò a parlare una volta che tutti furono arrivati «Ricordate l’associazione Compagni di Malindi?» «Ehi, le becchine avevano ragione!» sussurrai all’orecchio di Fiorella. Lei ridacchiò coprendosi la bocca con una mano. Quel giorno aveva uno smalto di un verde molto acceso, in tinta con la maglietta. Le piaceva un sacco cambiare smalto ogni giorno. “Quanto tempo libero!” pensai. «Le vostre donazioni, insieme a quelle degli studenti di altre scuole, sono giunte a destinazione. La costruzione della scuola in Kenya è terminata. Ci sono letti per gli studenti, banchi, lavagne, una cucina e acqua corrente!» “Bel lavoro!” dissi tra me. Era una delle poche volte che avevamo avuto un riscontro concreto sull’utilizzo delle nostre donazioni. «Vi porto inoltre i saluti e i ringraziamenti della signora La Serra. Lei ora si trova a Malindi per organizzare l’inizio dei corsi di studio per i ragazzi kenyoti, rientrerà a fine giugno. Intanto mi ha dato l’ok per scegliere quattro di voi che si recheranno in Kenya il prossimo settembre.» Fece una pausa. Io rimasi sorpresa, non avrei mai creduto che la signora Filomena avrebbe mantenuto la promessa. Anche gli altri ragazzi interruppero il loro chiacchiericcio e iniziarono ad interessarsi sul serio alle parole del preside. «Incredibile!» esclamò Cinzia guardando me e Fiorella. «Bene, io e i vostri insegnanti abbiamo indetto una riunione qualche giorno fa per scegliere i fortunati. In realtà non si tratta di fortuna: abbiamo selezionato gli studenti con il miglior rendimento scolastico fin dal primo anno.»

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Sentii Nicla (una delle becchine) parlare alla sua fedele amica Sofia: «Sicuramente mi chiamano, ma io non ci vado in quel postaccio!» “Che stupida!” pensai. “Fa tanto la sapientona!” «Crede di essere la più brava della scuola, ma la sua non è vera cultura se non apprezza la possibilità di conoscere altre terre e tradizioni!» dissi nervosa a Fiorella. «Sì, hai ragione!» rispose lei, poi continuò «Però mi fai paura quando parli così da secchiona!» Mi diede una pacca sulla spalla. «Oh, non si può mai parlare seriamente!» sbuffai. «Dai che scherzo!» Il preside proseguì: «Bene, ora chiamerò i prescelti che, dopo l’assemblea, verranno in presidenza dove spiegherò tutto ciò che serve e a cosa vanno incontro. Naturalmente non sono obbligati ad accettare. Se qualcuno rifiuterà, la possibilità verrà data a chi segue nella graduatoria. Nizzi Maria Scala, è presente?» Non la conoscevo. Si sentì un presente di risposta seguito da gridolini di felicità. «Semeraro Annalia!» «Presente!» rispose una voce alle mie spalle. Non ricordo cosa stessi pensando in quel momento, forse volevo essere scelta ma non credevo che avrei sentito il mio nome. «Lofredo Selene!» «Presente!» risposi d’istinto, come quando facevamo l’appello in classe. Poi mi resi conto. Davvero? Mi aveva chiamata! “Ehi, non credevo di essere così forte a scuola!” pensai. Certo i miei voti erano sempre stati otto e nove a fine anno, ma non pensavo… “Questo che vuol dire? Vado in Africa?” Vidi le mie amiche voltarsi verso di me e sentii i loro complimenti. Mentre mille pensieri mi turbinavano in testa, sentii anche un grugnito di Nicla e la voce del preside che diventava sempre più lontana. Aveva chiamato un ragazzo, ma la voce dei miei pensieri era così forte che non riuscii a capire chi era. Ero davvero contenta. «Brava!» esclamò Fiorella gettandomi le braccia al collo. «L’ho sempre detto che sei una secchiona!» convenne Piera. «Bè, una secchiona in, però!» pensai e dissi. Tutte risero. «Certo non come quella racchia di Nicla!» mi disse Luca. Sapevo che a modo suo quello era un complimento. Lo ricambiai con un occhiolino. Anche se eravamo una ragazza e un ragazzo ci volevamo bene davvero da amici: anche se ci abbracciavamo o mi sedevo in braccio a lui o viceversa tra di noi non era mai successo niente.

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Tutti rientrarono in classe per ciò che restava dell’ora di matematica, mentre io mi recai in presidenza. La porta in noce scuro era socchiusa. Che opportunità magnifica era quel viaggio… volevo vedere un continente nuovo e oltretutto era gratis! Bussai. «Avanti, avanti!» sentii la voce acuta del preside. Mi ritrovai nel suo ufficio, una stanza non molto grande ma ben illuminata. Sentii subito un forte odore di vaniglia. C’erano piantine grasse sul davanzale e tendine arancioni alla finestra. Un grosso archivio grigio si appoggiava al muro bianco e uno scaffale pieno di libri insieme a una cattedra si stagliavano dall’altra parte della stanza. C’era anche un computer di ultima generazione: vidi la spia verde del modem che lampeggiava, era sicuramente collegato a internet. Quella era una delle poche stanze dell’edificio veramente pulita e ordinata, un’altra era la sala professori ovviamente. Davanti a me c’erano due ragazze e un ragazzo. Li squadrai dalla testa ai piedi per capire con chi avrei avuto a che fare durante il mio viaggio. Una delle ragazze era alta, mora, capelli ricci raccolti in una coda alta, occhiali da vista. Vestiva in stile hippie. L’altra ragazza era robusta, capelli castani a caschetto un po’ spettinati. Indossava un maglia verde chiaro attillata. Il ragazzo era alto quanto me, capelli scuri e ondulati, una barba appena accennata. Vestiva un po’ da fighettino: camicia bianca a righe blu infilata dentro i jeans, scarpe da tennis bianche. Tutti mi guardavano. Io indossavo una maglietta bianca col cappuccio e senza maniche, jeans chiari e scarpe stile converse color argento. «Sei Lofredo?» mi chiese il preside. «Sì» risposi. Mi sentivo in imbarazzo perché ero al centro dell’attenzione. «Loro sono Nizzi Maria Scala…» indicò la ragazza alta, «Semeraro Annalia e Volpe Antonello.» «Piacere» dissi rivolta a tutti. Le ragazze risposero con un breve sorriso mentre Antonello mi salutò con un ciao entusiasta. «Bene, ragazzi. La possibilità che vi è stata offerta è molto importante. Il viaggio si svolgerà a settembre: partirete per il Kenya dove raggiungerete la scuola professionale di Filomena La Serra, a Malindi. Lì insegnerete l’italiano a giovani studenti kenyoti: a loro la lingua italiana serve per lavorare negli alberghi del luogo dove ci sono prevalentemente turisti italiani. Sarete affiancati dagli educatori già presenti: Edward Murthi Ching e Salome Masawe. Nel frattempo parteciperete a escursioni nei territori limitrofi. Le spese del viaggio ovviamente sono a carico della scuola.» “Fantastico!” pensai. Non vedevo l’ora. Sarebbe stata un’esperienza unica. «Il problema è un altro» continuò il preside guardandoci uno a uno. «Il Kenya in questo momento è un Paese tranquillo, non ci sono guerre. Ma è comunque

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molto lontano, mancano le strutture sanitarie e sono presenti diverse malattie endemiche. Siete pronti ad affrontare questi rischi? E i vostri genitori? Sarà inoltre necessario effettuare diverse vaccinazioni.» «Io sono sicura di accettare» risposi prontamente. Era un’opportunità che capitava una volta nella vita. Non mi facevo il problema dell’autorizzazione dei miei, perché fino a quel momento avevo sempre partecipato a tutte le gite. «Benissimo!» rispose il preside tra il sorpreso e lo scettico, data la mia risposta immediata. «Voialtri non siete obbligati a rispondere ora. Passate dalla segreteria e il vicepreside vi consegnerà il materiale informativo. Parlatene a casa e fatemi sapere.» «Grazie signor preside!» risposero quasi in coro le due ragazze… già non ricordavo i loro nomi. Si scambiavano occhiate e risatine, sembravano molto infantili. «Salve» salutai. Mentre il ragazzo si congedò con un saluto militare. “Cretino!” pensai. Forse all’epoca ero un po’ dura, ma odiavo i pagliacci. Mentre quei tre socializzavano fuori dalla presidenza, andai subito dal vicepreside. La segreteria era proprio accanto alla presidenza, nel piccolo atrio d’ingresso della scuola. Ero già pronta ad ascoltare le lodi del vicepreside, il professor Miccolis, che in realtà era anche il mio professore di italiano e stravedeva per me. Era un uomo di media altezza, oltre i sessant’anni, capelli completamente bianchi, baffi ingialliti dal fumo del sigaro, occhi azzurro cristallino. Sempre elegante, molto colto e amante della sua terra, adorava i miei temi e il mio modo di scrivere, la mia passione per la storia e la letteratura. «Salve, prof.!» esordii sorridente entrando in segreteria. La porta era già aperta. Il professore alzò lo sguardo dal suo registro. «Oh, Selene!» disse subito alzandosi e venendomi incontro raggiante. Mi strinse la mano. «Sono fiero di te!» Una ventata di acre odore di sigaro mi penetrò le narici. «Vieni, vieni!», mi trascinò verso la sua scrivania «Dentro questa cartellina c’è del materiale informativo sul posto, informazioni sulle vaccinazioni consigliate, la data del viaggio e l’autorizzazione da far firmare ai genitori.» Mi consegnò una cartellina di cartone verde con un elastico giallo. Ringraziai il professore e uscii in fretta dalla segreteria. Notai che gli altri tre ragazzi stavano arrivando, le ragazze mi rivolsero un quasi sorriso e ricambiai con un cenno del capo. Era quasi ora di uscire da scuola e volevo solo andare a casa per avvisare subito i miei. Ero eccitata all’idea del viaggio, mi sembrava incredibile. Davvero sarei andata così lontano? Addirittura a sud dell’equatore! Adoravo

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viaggiare e quello era il coronamento di un sogno. Non riuscivo a immaginarmi in terra kenyota, sarebbe stato fantastico! A pranzo trovai come sempre mia mamma e mio fratello. Papà lavorava a Taranto e tornava a casa all’ora di cena, mentre mio fratello era libero dal lavoro dalle 13.00 alle 16.00. Quel giorno mamma aveva preparato uno dei miei piatti preferiti: pasta con zucchine e prosciutto. E poi c’erano mozzarelle e caciocavallo per secondo. Io e Giacomo adoravamo sciogliere il caciocavallo in padella per poi mangiarlo sul pane. «Sapete che sono stata scelta per un viaggio gratis in Kenya?» dissi mentre infilzavo una penna con la forchetta. «Cosa?» Mamma era un po’ dubbiosa. «E perché hanno scelto te? Che hai di speciale?» mi punzecchiò invece Giacomo. «Ah ah, simpatico!» risposi in tono sarcastico. Lui sorrise. Spiegai a mamma tutto quanto e lei parve un po’ titubante. Giacomo in fondo era fiero di me, lo conoscevo, infatti mi appoggiò completamente. Papà telefonava sempre all’ora di pranzo, però mamma al telefono non gli disse nulla del viaggio perché avremmo parlato con calma la sera a cena. Il pomeriggio in camera aprii la cartellina che mi aveva dato il professor Miccolis. C’erano tre brochure sul Kenya che dicevano un po’ di tutto, dei fogli riguardanti le vaccinazioni da fare e i documenti necessari, un programma del viaggio e l’autorizzazione da firmare. Aprii un dépliant e lessi attentamente tutto ciò che riguardava la cultura e le diverse etnie (Maasai, Meru, Kikuyu, Samburu e Swahili erano le principali), la natura (cinquantanove riserve naturali), i panorami (tra cui la Great Rift Valley, il deserto del Chalbi, il monte Kenya e il lago Turkana), il mare (famosi Malindi, Watamu, Diani e Lamu)… ne restai estasiata. La sera papà mi fece i complimenti per essere stata scelta e poi valutò tutto con calma, parlò con mamma, lesse i dépliant, si informò su internet sulla situazione politica e alla fine mi diede il suo consenso. La partenza era prevista per settembre, quindi avevo tutta l’estate per prepararmi. Mi serviva il passaporto, però non andai a richiederlo dai carabinieri: mamma mi portò da una sua amica che aveva un’agenzia assicurativa e il mio passaporto fu pronto in un paio di settimane. Mi sentivo importante ad avere un passaporto perché voleva dire che viaggiavo fuori dall’Europa, che invece avevo già visitato con la scuola in lungo e in largo. Altro compito da svolgere in quell’estate fu la vaccinazione contro la febbre gialla.

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Una mattina io e mamma, armandoci di pazienza e della sua macchina (una Fiat 500, ma non quella d’epoca), andammo a Taranto perché a Martina Franca l’ASL non faceva quelle vaccinazioni. Guidava mamma perché io, presa dal viaggio che mi accingevo a compiere, avevo deciso di frequentare la scuola guida al mio ritorno e quindi non avevo ancora la patente. Da Martina a Taranto c’era una superstrada e tutti guidavano veloce: anche mamma. Era un po’ troppo spericolata e a volte temevo per la nostra incolumità. A Taranto vagammo per quattro uffici sanitari prima di giungere in quello giusto. In genere per andare in Kenya non erano richieste vaccinazioni obbligatorie, ma per chi si recava nell’entroterra per fare escursioni era consigliabile vaccinarsi contro la febbre gialla ed effettuare la profilassi antimalarica, quest’ultima da fare poco prima, durante e dopo il soggiorno. Dopo aver fatto una breve fila entrammo nell’ambulatorio: mi assegnarono un libretto internazionale di vaccinazione e mi fecero una punturina. Quel tipo di vaccino copriva per dieci anni e non c’era bisogno di richiamo. “Meglio così!” pensai. Anche quello era sistemato. Infine comprai un adattatore per la presa di corrente, in Kenya infatti c’era quella inglese e la forma era diversa da quella italiana. E finalmente riuscii un po’ a godermi l’estate. Andavo al mare in macchina con Fiorella, andavamo a ballare e il pomeriggio ci spostavamo di bar in bar tra merende e sigarette. «Tu mi lasci qua!» mi disse un pomeriggio mentre eravamo stese al sole in riva al mare. «Eh?» risposi senza capire, quasi mezza addormentata. «Ho detto: te ne vai in Kenya e mi lasci qua. Che farò senza di te?» si spiegò meglio. Mi scappò una risata. «Guarda che starò via solo qualche settimana, mica mi trasferisco!» «Eh, appunto: qualche settimana!» «E lo so, dai… se tu avessi studiato di più forse ora partiresti con me!» Fiorella si mise a sedere. Le sue lentiggini si moltiplicavano al sole. Indossava un bikini verde fosforescente che lasciava all’immaginazione ben poco delle sue forme prosperose. A volte la invidiavo: io ero asciutta e il mio bikini rosa non era così pieno come il suo. «Mi vuoi solo stuzzicare, ma io sto parlando seriamente!» «Lo so!» risposi schermandomi il viso con la mano, ma ancora la vedevo sfocata per la troppa luce. «Ci scherzo perché tanto non c’è niente da fare. Ti manderò un sms ogni giorno e ti porterò un bel regalo.»

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Il suo viso si rasserenò e io sorrisi, la conoscevo così bene! Comunque anche a me dispiaceva stare lontana da lei per un po’, mi sarebbe piaciuto condividere con la mia migliore amica quell’esperienza straordinaria. A fine agosto cominciai la profilassi antimalarica con il Malarone, una scatola di quel farmaco costava circa 60 euro. Bisognava prendere le compresse ogni giorno da una settimana prima della partenza, per tutto il soggiorno e per una settimana dopo il rientro, ma in realtà non era una protezione efficace al cento per cento, infatti mi avevano avvisata di usare anche la protezione spray speciale per zanzare tropicali. La valigia era pronta: vestiti leggeri, un paio di felpe e di costumi da bagno, crema solare con fattore di protezione cinquanta, qualche vestito più elegante per uscire la sera, cellulare, un po’ di soldi e tanti farmaci (fermenti lattici, pillole contro disidratazione e dissenteria, vitamine…). Il pomeriggio del 4 settembre 2005 avevo l’appuntamento con gli altri partecipanti a Taranto davanti alla Banca d’Italia, in Piazza Ebalia. Ero impaziente di partire. Ad attendermi trovai un pullman blu enorme per poche persone. C’erano i tre ragazzi della mia scuola e un’insegnante che non conoscevo. Aveva lunghi capelli ricci biondo scuro e andava per i cinquanta. «Agata Magli!» si presentò appena scesi dall’auto con la mia famiglia. Notai anche altra gente davanti al pullman: un uomo alto e magro, l’autista; un uomo robusto e con i baffi che aveva l’aria di un professore, accompagnato da una donna di mezza età, probabilmente sua moglie; un ragazzo alto, magro, con gli occhiali, con la tipica aria da secchione; vicino a lui fumava una ragazza bionda alta più o meno quanto me, indossava una tuta da ginnastica blu. Capii subito che partecipava anche un’altra scuola al viaggio e intuii anche che tutti aspettavano solo me. Giacomo portò la mia valigia all’autista che la caricò violentemente sul pullman. Mamma cominciò a piangere, al suo solito, e papà mi abbracciò dicendomi solo di stare attenta. Andai da Giacomo per salutarlo. «Sorellina, sei in gamba. Dimostralo anche in Africa!» Con quelle parole nel cuore salii sul pullman.

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PARTE SECONDA

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KARIBUNI KENYA! La professoressa Magli si presentò al resto del gruppo e conobbi anche gli altri viaggiatori. L’uomo con i baffi era il professor Gennarini, dell’alberghiero di Massafra, e viaggiava con sua moglie Stefania. Il ragazzo con gli occhiali si chiamava Marco e la ragazza Martina. Lei mi sembrava simpatica a differenza delle due ragazze della mia scuola, Maria e Annalia: stavano già sedute vicine facendo comunella. Mentre il ragazzo, Antonello, aveva preso posto vicino ai professori. “Che leccapiedi!” pensai. Mi sedetti vicino a un finestrino di metà pullman. Mi piaceva guardare fuori e poi mi aiutava a combattere il mio mal d’auto o in quel caso mal di pullman. Di sfuggita vidi l’auto di papà dietro l’angolo e mamma in macchina che si sbracciava per salutarmi. Era sempre la stessa: affrontava con enfasi ogni situazione e questo in un certo senso mi innervosiva. Da Bari prendemmo un aereo per Milano e durante il tragitto non parlai con nessuno. Con un pulmino interno da Milano Malpensa 1 raggiungemmo Milano Malpensa 2 da dove partivano i voli intercontinentali. Alle 22.00 ci imbarcammo per Mombasa. Durante il volo ebbi modo di notare il carattere esuberante ed eccentrico della professoressa Magli: faceva un sacco di battute per rendersi simpatica. Il volo fu una bella esperienza: mentre osservavamo Milano notturna dall’alto le hostess ci servirono la cena. Durante la notte però un po’ di turbolenze non mi permisero di dormire tranquilla.

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JUMATATU (LUNEDÌ), 05/09/2005 Era una sensazione strana essere ancora in aereo dopo tante ore di viaggio. Di mattina presto effettuammo uno scalo tecnico sull’isola di Zanzibar. Era un paradiso in mezzo al mare circondato da tante piccole isolette deserte: non riuscivo a credere ai miei occhi. Durante il viaggio parlai con Martina e scoprii che era una ragazza come me, a cui piaceva divertirsi e stare in compagnia. Meno male, non avrei dovuto sopportare quelle due della mia scuola. Quando atterrammo a Mombasa erano passate circa nove ore di volo e in Kenya dovetti regolare l’orologio del telefonino perché c’era un fuso orario di tre ore in avanti rispetto all’Italia. Appena uscii all’aperto un caldo opprimente mi schiacciò i polmoni. Che afa! Previdente mi ero vestita a cipolla quindi, tolta la felpa azzurra, rimasi con indosso una magliettina rosa dell’Hard Rock Café di Barcellona. Io e Fiorella ce l’eravamo comprata uguale quando eravamo andate in gita in Spagna. L’aeroporto era spoglio e ridotto all’essenziale. Un tizio in scrivania rilasciava i visti turistici, pagai cinquanta euro. Il personale era ovviamente tutta gente del posto e grazie alla divisa bianca la loro pelle scura risaltava ancora di più. Avvisai sia i miei sia la mia migliore amica che ero arrivata sana e salva. Salimmo su di un pulmino messo a disposizione apposta per noi da un sacerdote della Cattedrale di Malindi. Il tragitto durò circa due ore e la strada dissestata agì da massaggiatore per il mio fondoschiena. Rimasi a bocca aperta guardando il mondo fuori dal finestrino. Erano tutte strade sterrate fiancheggiate a volte da palme, a volte da capanne di fango e paglia, a volte da baracche in lamiera; queste ultime erano praticamente dei negozi. Vidi tante persone camminare sul ciglio della strada: uomini e donne, la maggior parte scalzi, e bambini che giocavano a rincorrere le auto. Più tardi avrei capito che quei bambini non stavano affatto giocando. «Hai visto che belle tipe ci sono qui?» Era Antonello, che si era girato dal sedile davanti al mio per parlarmi. Erano le prime parole che mi rivolgeva dal giorno prima. «Vedrai che anche i tizi del posto ammireranno la bellezza mediterranea delle nostre ragazze, come per esempio… te!» Avevo capito bene? Gli rivolsi uno sguardo a metà tra la sorpresa e il rimprovero. Mi fece un sorriso e tornò a guardare fuori dal finestrino. Quello era ovviamente un tentativo di flirt! Non credevo minimamente di potergli interessare!

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«Bene, siamo quasi arrivati!» annunciò in un italiano molto accentato Kafil, il nostro autista. Era un ragazzo minuto, con gli occhi svegli e la pelle scurissima. Quando sorrideva, i denti bianchi quasi brillavano. In una strada secondaria c’era un grande cancello in ferro. Entrammo e trovammo ad aspettarci una folla di ragazzi e ragazze sorridenti, erano circa una ventina. La loro accoglienza fu meravigliosa: cantavano e ballavano, regalandoci ghirlande di fiori e gettando coriandoli colorati sulle nostre teste. Davvero commuovente. Non avevo mai visto degli estranei così amichevoli! Eravamo in uno spiazzale non asfaltato, che una decina di metri più avanti lasciava spazio a un edificio bianco e grigio a staffa di cavallo con davanti un cartello: Saint Francis Xavier Catholic Institute. Gli studenti ci travolsero con la loro gioia e i loro abbracci, portandoci in un piccolo atrio dove ci fecero accomodare su delle panchine e ci offrirono delle bevande fresche. Il rituale dell’accoglienza continuò: ci mostrarono balli e canti in swahili e devo dire che non capii assolutamente cosa dicessero le loro canzoni, ma erano allegre e travolgenti. Si presentarono tutti: Mundu, Helen, Josephine, Jante, Leah, Sabya, Mapenzi, John, Jahleel, Francis, Anthony, Idah, Gabriel, Lauren, Dafina, Millicent, Vincent, Monica, Davis e Kevin. Ad accoglierci c’erano anche Sister Lucy e Sister Rosina, le due suore che gestivano la scuola. Erano entrambe bassine e robuste. Nonostante l’istituto fosse retto da suore cattoliche, notai subito ragazze con il velo sui capelli e capii che erano musulmane. Gli studenti erano di diverse religioni ma andavano perfettamente d’accordo tra loro: lì non c’era traccia dell’odio tra cristiani e musulmani con cui comunemente i mass media riempivano le nostre reti televisive. Era tutta un’esplosione di gioia e di vita allo stato puro. «Good morning italian sisters and brothers!» esordì Sister Rosina. Subito la professoressa Magli rispose con voce teatrale: «Good morning, sister!» Mi guardai intorno per cogliere lo sguardo dei miei compagni e trovai solo quello di Antonello che mi scoccò un occhiolino. Mi rigirai immediatamente, quasi infastidita. Non sapevo come interpretare quelle attenzioni… Lui non era decisamente il mio tipo: troppo esibizionista. «We all welcome you in our school» continuò Sister Rosina. Sentii passi alle spalle della suora. «Oh, here are our teachers: Salome Masawe and Edward Murthi Ching.» La suora si scostò leggermente e comparve una donna sui trent’anni. Era carina, i capelli crespi raccolti in uno chignon sulla nuca, la pelle scurissima e denti e occhi splendenti. Indossava una gonna beige lunga fin sotto il ginocchio e una maglietta rosa chiaro a maniche corte. «Salve a tutti!» ci salutò.

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Alle sue spalle apparve un ragazzo. Era molto alto, almeno un metro e novanta, con fisico scolpito e pelle d’ebano lucente. Guardai il viso: lineamenti eleganti, naso affusolato, occhi grandi, scuri e intelligenti. La bocca era carnosa e sorridente. I capelli scuri erano raccolti in due treccioline che partivano separate sulla fronte, si univano in una sola treccia dietro la testa e infine si dividevano ancora in due sotto la nuca, ricadendogli sulle spalle per pochi centimetri. Io ero semplicemente… senza fiato. Era il ragazzo più bello che avessi mai visto: uno splendore assoluto. «Salve ragazzi, benvenuti. Io mi chiamo Edward e, insieme a Salome, vi farò da guida nelle ore scolastiche.» La sua voce era calda e cordiale. Da Maria e Annalia si levò un gridolino. Martina e Marco erano quasi indifferenti, mentre Antonello aveva un’espressione da superiore, come al solito, ormai l’avevo inquadrato come persona. Riguardai Edward temendo che potesse cogliere l’ammirazione nei miei occhi, ma non mi guardava. Parlava con Salome in swahili mentre Sister Rosina ci indicava le scale per raggiungere le nostre stanze. La scuola era composta da un atrio centrale all’aperto (dove ci trovavamo in quel momento) e su tre lati si estendeva una costruzione a due piani. Al piano terra c’erano tutte le aule e sulla destra la mensa, mentre al primo piano si trovavano a sinistra le camere degli ospiti come noi, al centro quelle dei professori e delle suore e a destra quelle degli studenti. C’erano diverse scale interne ed esterne per accedere al piano superiore. Alle spalle dell’edificio invece c’era una piccola costruzione adibita a chiesa. Fui travolta dall’entusiasmo degli studenti che ci aiutarono a portare le valigie pesanti su per le scale. Gabriel aiutò me: era un ragazzo molto timido che mi rivolse appena un rapido sorriso quando lo ringraziai. Ci avevano detto che le camere erano da due letti. Passai un attimo in rassegna i miei compagni di viaggio e alla fine guardai Martina, che era l’unica scelta non traumatica per me. Con sollievo notai che anche lei mi stava fissando. «Andiamo?» le chiesi indicando la prima camera sulla destra di un lungo corridoio. «Ah, meno male! Temevo che i professori ci avrebbero assegnato i compagni di stanza!» Aprii la porta verde ed entrai in una camera luminosa, pulita e ospitale. C’erano due letti singoli coperti da ampie zanzariere, come quelle dei film de Le mille e una notte, un armadio marrone stile arte povera con scrivania e sedia abbinate. Niente televisione. Bè, certo, che mi aspettavo? Di fronte a me una grande finestra senza vetro, solo con la zanzariera. Sulla destra una porta verde come quella d’ingresso che sicuramente dava sul bagno. «Mi aspettavo di peggio!» esclamò Martina gettandosi sul primo letto.

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«Bè, anch’io, non è niente male! Meglio di qualche ostello italiano in cui sono stata in gita!» convenni. Mi piaceva la sua compagnia. Era una ragazza semplice e simpatica, ero certa che mi sarei divertita da morire e soprattutto avrei vissuto un’esperienza di vita veramente forte. Erano ancora le 10.30, così decidemmo di farci una doccia prima di pranzo. Il bagno aveva lavandino, water e un foro sul soffitto da cui usciva acqua, praticamente la doccia. Il pavimento era cementato con una pendenza in corrispondenza dello scolo della doccia. Effettivamente non era per niente male considerando la povertà che avevamo visto per le strade. Per lavarci i denti però dovevamo usare acqua imbottigliata, perché l’acqua corrente non era sicura. Mentre mi rivestivo sentii il breve trillo del mio telefonino, era un sms di Fiorella: Ciao tesoro, allora? Che combini? Com’è il posto? C’è qualcuno carino? Fammi sapere le novità! Ricorda che TVB! Sorrisi al pensiero della mia amica che era sempre la stessa, in qualsiasi situazione. «Allora, che ne pensi, ci divertiremo?» chiesi a Martina mentre usciva dal bagno. Indossai un paio di pantaloncini verde militare, una canotta a strisce bianche e beige e un paio di sandali infradito. «Sì, per forza! È un posto bellissimo! Comunque dobbiamo prima preoccuparci di insegnare tutto ciò che possiamo agli studenti» rispose indossando un pantajazz nero e una maglietta fucsia. «Sì, sono fantastici!» Volevo chiederle cosa ne pensava di Edward ma ancora non sapevo se potevo fidarmi totalmente di lei. A mezzogiorno qualcuno bussò alla porta. Mi stavo legando i capelli ondulati in una coda alta e andai ad aprire con la mano libera. «Salve bellezze!» Era Antonello. «Stiamo scendendo tutti giù in mensa perché fra poco si mangia! Venite perché altrimenti non possiamo iniziare!» «Certo, sto morendo di fame!» risposi subito. Lui mi lanciò un occhiolino come aveva fatto poche ore prima e scese le scale. Chiusi la porta, mi voltai un po’ seccata e Martina mi capì al volo. «Non ti piace quel tipo, eh?» «Eh? No… veramente non mi piacciono le sue attenzioni così sfacciate!» «Sinceramente anche a me darebbe un po’ fastidio. Vedila così: vuol dire che piaci ai ragazzi!» disse aprendo la porta. «Se vuoi te lo cedo volentieri!» risposi seguendola. «Ok, scherzavo!» Stava già scendendo le scale.

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All’interno la scuola era semplice e lineare. Il pavimento in ceramica era chiaro e il muro era dipinto di azzurro, qua e là qualche finestra con zanzariera. La mensa si trovava dall’altra parte dell’atrio. Mentre lo attraversavamo, qualche studente kenyota ci raggiunse e si unì a noi. «Jambo!» mi disse Jante camminando al mio fianco. «Jambo!» risposi io: ormai avevo capito che jambo significava ciao in swahili, la lingua del Kenya. Comunque tutti parlavano inglese e nella zona di Malindi anche l’italiano. Ed erano così cordiali! Entrai in mensa sperando di trovare un po’ di frescura ma i ventilatori accesi appesi al soffitto non facevano altro che rimandare a terra l’aria bollente che usciva dai pentoloni di cibo disposti su di un lato della grande sala. «Mi dici come facciamo a indossare vestiti lunghi per proteggerci dalle zanzare?» Martina mi rivolse uno sguardo preoccupato. «Ah, non lo so proprio!» Mi avvicinai a una pila di piatti puliti e ne presi uno. I ragazzi dello Saint Francis Xavier Catholic Institute studiavano per diventare receptionists, riordinatori di stanze d’albergo, camerieri ma anche cuochi. Proprio per questo facevano i turni a cucinare. Sorrisi quando vidi Gabriel e Davis in tenuta da chef vicino ai pentoloni. «Hi, miss!» mi salutò il primo «Would you like pasta?» Indicò la prima pentola. «Sì, grazie!» Mi versò un mestolo di pennette e dalla pentola accanto prese un po’ di sughetto. Salutai e mi affacciai verso i pentoloni dove c’era Davis. «Ciao amica!» Lui era molto più spigliato. «Qui ho carne e patate. Vuoi un po’?» mi chiese sforzando il suo italiano. «Certo!» Mi porse anche dell’insalata ma rifiutai. Benché io adorassi la verdura, i professori ci avevano detto di non mangiare cibi crudi perché l’acqua con cui venivano lavati poteva essere contaminata con qualche bacillo che a noi europei poteva causare problemi seri. Mi voltai verso i lunghi tavoli marroni e solo allora mi resi conto di avere due piatti stracolmi. Avevo molta fame e di regola non me ne sarei vergognata, ma in quel momento mi balenò in mente che potevo trovare Edward seduto da qualche parte… pazienza, ormai era fatta. Scrutai la grande sala. Lui non c’era. In realtà avevo voglia di rivedere le sue spalle larghe e i suoi occhi splendenti… «Vieni, di qua!» Martina mi stava chiamando. Indicò un tavolo a cui erano seduti i miei colleghi e una decina di ragazzi kenyoti. “Ottima scelta!” pensai. Dall’altro lato c’era un altro tavolo con i professori e le suore.

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Mi guardai intorno e salutai gli altri commensali facendo finta di non notare lo sguardo di Antonello. Per tutta risposta lui prese i suoi piatti e si spostò al posto vuoto accanto a me. «Finalmente sei arrivata!» cominciò. «Tutti abbiamo fame, no?» risposi in modo generico sforzandomi di non apparire irritata. «Bè, allora bon appetit!» Tintinnò con la forchetta sul suo bicchiere. «Chakula chema! Buon appetito!» ci augurò una ragazza kenyota dall’altro lato del tavolo. «Chakula chema!» risposi con una pronuncia storpiata. La pasta era un po’ scotta e il sugo sembrava semplicemente succo di pomodoro, però nel complesso era abbastanza buono: in fondo quei ragazzi stavano ancora studiando. La cucina italiana inoltre era profondamente diversa dalla loro. Quello che avevano mangiato per una vita non assomigliava minimamente alla pasta. La stessa cosa valeva per le ragazze che dovevano imparare a riordinare le stanze. Venivano tutte dalla povertà più assoluta, avevano vissuto nelle capanne di fango e lì certo non c’erano letti da rifare. Mi resi conto che mi trovavo davvero in un altro mondo. Tutte le certezze che avevo nella mia vita, nella mia quotidianità, lì erano un miraggio che solo pochi riuscivano a raggiungere. Tutti i nostri nuovi amici sembravano così felici di averci lì con loro: scherzavano, ridevano, ci facevano tante domande per conoscerci meglio. Avevo quasi finito di mangiare quando mi accorsi che non avevo preso la mia bottiglietta d’acqua. «Già che ti alzi, ci porti la brocca dell’aranciata?» «Sì, Martina.» Mi diressi verso il tavolo delle bevande, presi la brocca di aranciata. Mi voltai per prendere la bottiglietta d’acqua e… andai a sbattere contro qualcosa con il risultato che la brocca rovinò sul pavimento, finendo in mille pezzi e bagnandomi i piedi. L’aranciata ghiacciata sulla pelle mi fece trasalire. Misi a fuoco: all’altezza dei miei occhi c’era una maglia bianca di lino. Alzai lo sguardo e… credo proprio che diventai rossa. «Scusami, non volevo» mi disse Edward in un italiano perfetto. E poi sorrise. Era un sorriso appena accennato, ma dolce, sincero… e io ero lì imbambolata come una stupida. Si chinò per raccogliere i pezzi di vetro. «Oh, no, non preoccuparti!» risposi chinandomi anch’io. Avevo paura di raccogliere il vetro a mani nude ma lo feci lo stesso. C’era una scheggia appena vicino al mio alluce. Avvicinai la mano per prenderla ma lui ebbe la stessa idea. Un attimo… le sue dita calde e scure sfiorarono le mie e io mi sentii avvampare. Edward prese la scheggia e si ritrasse. Ero

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imbarazzatissima! Non avrei mai pensato che in quel viaggio mi sarebbe successa una cosa del genere… incontrare un bel ragazzo… non pensavo minimamente all’amore. «Allora, come ti chiami?» mi chiese lui raccogliendo l’ultimo coccio e alzandosi. «Mi chiamo Selene.» «Selene, la dea della luna!» «Conosci la mitologia greca?» chiesi abbastanza sorpresa. «Certo, l’ho studiata all’università di Nairobi.» Era così bello! «All’università? Posso chiederti quanti anni hai?» Subito dopo mi pentii per essere stata così diretta. «Ne ho venticinque.» Sorrise. “Pensavo di più, meno male!” mi balenò in mente questo pensiero; non mi accorsi che lui mi stava fissando. Posai velocemente i frammenti di vetro sul tavolo e al diavolo l’aranciata. «Scusa ma ora devo andare!» Indicai Martina che si stava alzando da tavola. Non so perché ma volevo andarmene, forse avevo già fatto troppe figure per i miei gusti. «Va bene, ci vediamo a lezione, Selene.» Che bello sentire il mio nome pronunciato da lui! Sorrisi e mi diressi verso Martina senza voltarmi. «Ehi, ma cosa…» riuscì a dire lei mentre la trascinavo fuori. Ci sedemmo sulle panchine in cemento dell’atrio e mi accesi una sigaretta. Era la prima volta che fumavo da quando ero in Kenya. In verità non era così piacevole fumare con il caldo del primo pomeriggio kenyota, ma in quel momento ne avevo proprio bisogno. La mia nuova amica mi guardava in modo interrogativo, quindi le raccontai dell’incontro con Edward. «Ah, mi sa che qui qualcuno sta cedendo al fascino di un bell’imbusto tropicale!» fu il suo commento a fine racconto. «Ehi, che vuoi dire?» domandai aspirando l’ultima boccata. Mi accorsi che non c’erano cestini nei dintorni perciò spensi la sigaretta sotto i sandali e la tenni in mano. Anche Martina finì di fumare e fece lo stesso. «Niente, voglio solo dire che devi aprire gli occhi. Anche se è carino, quel tipo non lo conosci per niente! E se facesse il cascamorto con tutte le ragazze?» Mi fece pensare. Ero verde d’invidia all’idea di Edward con altre ragazze. Però in fondo Martina aveva ragione… «Va bè, andiamo a riposarci che alle cinque abbiamo lezione!» terminai il discorso.

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«Sempre se si riesce a dormire con questo caldo!» A volte sembrava che Martina mi leggesse nel pensiero. In camera non si stava male però mi spogliai, stavo più fresca in intimo. Sollevai la zanzariera e mi buttai sul letto, c’erano solo le lenzuola. Prima di addormentarmi mandai un sms a Fiorella: Ciao tesoro, non so che ora è lì da te, io adesso faccio un riposino. Sai, ho conosciuto un tipo troppo figo, ma non voglio farmi illusioni. Bacioni, tvb «Selene non ti dispiace se fumo in bagno?» Martina si affacciò dalla porta del bagno con in mano il telefono. In genere mi dava fastidio il fumo in ambienti chiusi, ma avevo bisogno di un’amica laggiù e acconsentii con un cenno della mano. Ricordo che ebbi un sonno non molto tranquillo e poi suonò la sveglia. Era così piacevole svegliarsi con quella musica. Era la canzone Wherever you will go di uno dei miei gruppi preferiti, The Calling. Martina era già in piedi, mi vestii di corsa e scendemmo nell’atrio. Capii subito qual era la classe perché c’era un andirivieni di studenti kenyoti. Entrammo e ci ritrovammo in una stanza semplice, con quattro finestre, un tavolo che fungeva da cattedra e dei banchi simili a quelli universitari. Le sedie erano già tutte piene, c’erano anche i miei compagni di viaggio, i nostri professori, Salome e… poi lo vidi: Edward, in tutta la sua bellezza esotica. Sembrò non accorgersi della mia presenza. Mi appoggiai al muro vicino al banco di Jante. «Jambo!» mi salutò lei sottovoce, ormai erano tutti in silenzio. Le sorrisi, era così dolce quella ragazza! Portava un velo azzurro cielo a raccoglierle i capelli. «Bene, ragazzi. Buon pomeriggio a tutti», ci salutò Edward parlando alla classe. «Our italian friends are going to teach you Italian» continuò in inglese. Avevo paura di guardarlo, temevo si accorgesse del mio sguardo incantato. Ma lui non mi degnò di un’occhiata per tutto il tempo e all’improvviso mi ricordai ciò che mi aveva detto Martina. Mi promisi di non fare la quindicenne innamorata e di tenere un comportamento dignitoso. I professori divisero i ragazzi in due classi e assegnarono me, Martina e Antonello a una classe con la supervisione di Edward mentre Annalia, Maria e Marco con Salome nell’altra classe. Passai il resto della lezione a fare amicizia con i ragazzi kenyoti e scoprii che erano davvero forti. Non avevo mai visto gente estranea parlarmi con così tanto calore. Erano sempre pronti a donarmi un sorriso. C’era uno scambio culturale veramente formativo. In

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particolare strinsi amicizia con Jante, Helen e Davis. Jante aveva ventun anni e aveva tratti del viso gentili. I suoi genitori erano di origini indiane ma lei aveva sempre vissuto in un villaggio vicino a Malindi. Era musulmana, ma la sua migliore amica Helen era cristiana. Helen era alta, scura e dalle forme morbide, tipica bellezza africana. Prima di arrivare nella scuola viveva con sua madre e i suoi cinque fratelli in una capanna fuori Malindi. La cosa che adorava di più era andare a messa. E poi c’era Davis, davvero un gran simpaticone, era anche abbastanza carino. Non gli piaceva molto parlare della sua famiglia. “Probabilmente perché ha avuto un’infanzia infelice!” pensai. Poi venni a sapere dalla professoressa Magli che Davis era stato uno streetchild, cioè un ragazzino che viveva per strada, generalmente in bande. Gli streetchildren erano figli di prostituzione, non avevano famiglia, dormivano dove capitava e si dedicavano a piccole attività criminali come furti e rapine. Spesso erano costretti a sniffare una specie di colla per non sentire i morsi della fame. Davis fortunatamente aveva incontrato Salome, che aveva creduto in lui e l’aveva portato in quella scuola per insegnargli un mestiere onesto. A una prima occhiata sembravano tutti spensierati quei ragazzi, ma pian piano capii che il mondo in cui mi stavo tuffando non era affatto felice. Dopo la lezione avevamo la messa. Uscendo dall’aula cercai Edward con lo sguardo. Martina mi raggiunse. «Se n’è già andato!» Diventai bordeaux. «Cosa? Chi?» Mi guardò con uno sguardo che voleva dire Tanto ti ho scoperta!, così cambiai discorso. «Senti, vado a prendere un copri spalle altrimenti in chiesa non posso entrare. Come ci si arriva precisamente?» «Vedi quel corridoio?» Indicò un corridoio dall’altra parte dell’atrio. «Superalo e gira a destra. Subito dopo il giardino c’è la chiesetta. Io inizio ad andare così prendo i posti.» Le diedi l’ok con la mano e mi avviai a passo svelto verso le scale, arrivai davanti alla porta verde della mia stanza ed estrassi la chiave dai pantaloncini. Scelsi una pashmina rosa chiaro, la sistemai dispiegata sulle spalle e la fermai con un fiocco sulla clavicola. Mentre scendevo le scale sentii una voce dalla base della rampa. «Ehi, ciao!» Era Antonello. «Ah, ciao…» risposi stupita «non vai a messa?» «Sì, sono andato un attimo a sistemarmi i capelli», indicò un piccolo spazio nel sottoscala da cui era stato ricavato un mini bagno. «Andiamo insieme?» continuò.

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«Beh, sì…» risposi intimidita. In fondo non c’era nulla di male. Uscimmo nell’atrio e ci dirigemmo verso il corridoio che mi aveva indicato Martina. Mentre camminavamo, Antonello mi sfiorava le braccia con le sue; era una sensazione strana… era gentile nei modi e nelle parole e quasi mi pentii di averlo ritenuto irritante. Arrivammo in fondo al corridoio spoglio e io girai a destra. «Ehi, dove vai?» mi bloccò Antonello. «Scusa, non è di qua la chiesa?» domandai. «Ti sbagli, è a sinistra!» disse in tono canzonatorio. «No, Martina mi ha detto di girare a destra del corridoio!» replicai. Credevo di ricordare bene le parole della mia amica, ma la sua insistenza mi stava convincendo del contrario. «Dai, vieni che facciamo tardi.» «Sei sicuro?» «Sì, fidati dolcezza.» Riluttante mi incamminai dalla parte opposta. Dopo aver svoltato un altro angolo non vedevo nessun giardino, ma soltanto una porta, probabilmente un’aula. Mi guardai intorno. «Hai visto che era…» Non terminai la frase che lui mi posò un dito sulle labbra. Mi spinse piano verso la porta mentre si avvicinava sempre di più al mio viso. In quell’attimo non capii cosa stessa succedendo. «Sai…» mi sussurrò all’orecchio destro mentre con la mano mi cingeva la vita. «Dal primo istante che ti ho vista mi sono subito innamorato di te…» Rimasi stupita e cercai di allontanarlo, ma lui aprì la porta alle mie spalle. Mi ritrovai in una stanza luminosa e calda con pochi banchi. Antonello era ancora avvinghiato a me. «Senti, non mi piace stare qui, perché non ne parliamo in giardino?» Cercai di divincolarmi ma lui mi abbracciò più forte. Sentivo il suo respiro sul mio collo e il battito del suo cuore contro il mio. Avevo paura perché non sapevo che cosa avesse intenzione di fare. «Mi devi lasciare subito!», insistetti. Mi spinse contro una parete. Le sue mani si spostavano lungo la mia schiena, salì più su e mi slacciò lo scialle. «Voglio solo un bacio…» mormorò. Cercai inutilmente di liberarmi ma mi strinse i polsi. Ora faceva male. «Guarda che mi metto a strillare!», ringhiai. «Se stai buona ce ne andiamo tra poco… e poi non ti sentirebbe nessuno, sono tutti in chiesa. Sai che c’è il canto d’apertura?» Sembrava così tranquillo, come se fosse naturale ciò che stava facendo. Mi baciò il collo una volta e poi, come un predatore che assapora la preda, mi baciò ancora e

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ancora, più insistentemente. Sentivo le sue labbra umide fremere sulla mia pelle. «Lasciami bastardo!» strillai sferrandogli una ginocchiata nelle parti basse che però lui bloccò con la coscia. «Baciami e ti lascio andare.» Mi stringeva più forte, schiacciandomi contro la parete. Poi si avventò sulle mie labbra, baciandomi, mordendomi, non sapevo se sentivo realmente dolore oppure era l’agitazione a farmi provare quelle sensazioni. «Basta!» riuscii a urlare. «Dai… sei bellissima!» Mi infilò una mano sotto la maglietta. Ero terrorizzata, cercavo di urlare ma erano urla soffocate; volevo liberarmi ma se cercavo di farlo, sentivo i polsi stritolarsi. Chiusi gli occhi, non volevo vedere più quella faccia. Fino a che punto sarebbe arrivato? Io non volevo! Mi sollevò la maglia e mi baciò il petto e io mi sentivo indifesa, violata e stupida per essermi fidata di lui. «Stronzo!» dissi in un soffio. Continuò imperterrito, la sua mano scese giù, mi aprì i bottoni e le sue dita entrarono nei miei pantaloncini. Cercai ancora disperatamente di divincolarmi mentre lo sentivo muoversi sulla mia pelle. Volevo scappare ma mi schiacciava contro il muro con tutta la sua forza. Raccolsi tutto il fiato che avevo in gola e lanciai un grido acuto di cui non credevo fossi capace. «Zitta!» Mi batté violentemente la testa contro il muro e in quel momento il dolore fisico prevalse su tutto. La testa mi esplodeva e sentii qualcosa di caldo colarmi lentamente sulla nuca. All’improvviso mi sentivo debole e mi girava la testa. Sentii le gambe cedere e la mia forza con loro. Mentre mi accasciavo a terra, capii che Antonello mi stava sfilando la maglietta… Rumore di passi… Il mio aggressore cadde a terra… Dei piedi davanti a me… Il buio. Strizzai gli occhi, non c’era tanta luce. La prima cosa che sentii fu una fitta lancinante alla testa, nella parte posteriore. Gemetti per il dolore e richiusi gli occhi. Allungai la mano per raggiungere la parte dolorante e trovai una fasciatura sotto i capelli. «Ciao.» Una voce calda alla mia destra. Strizzai ancora gli occhi, non riuscivo a mettere a fuoco. Mi voltai verso la voce e vidi una sagoma scura: nella luce soffusa distinsi due occhi grandi e una bocca carnosa, Edward.

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Richiusi gli occhi per un’altra fitta fortissima e lo sentii dire: Mi hai fatto preoccupare davvero! Li riaprii. Edward era esattamente nella stessa posizione di prima. “L’ho sognato!” pensai. Poi mi resi conto di essere sdraiata in un letto con lenzuola fresche e profumate. La luce tiepida proveniva da una lampada su di un comodino accanto al letto, nell’aria profumo d’incenso. Tornai a guardare il suo viso e ragionai. Ero davvero in una stanza sola con Edward? «Come ti senti?» mi chiese. Era seduto su di una sedia accanto al letto. La mia risposta fu un lamento. «So che fa male. Salome ti darà un antidolorifico.» «Salome?» biascicai ancora intontita. Sorrise. «Salome è un medico. Purtroppo da queste parti non ci sono ospedali in cui lavorare, e così fa l’educatrice… lasciamo stare. Comunque ti ha medicata dopo che ti ho portata qui e ha detto che stai bene. Avrai solo un po’ di mal di testa.» Sorrise di nuovo, così teneramente che non credetti che quel sorriso fosse proprio per me. Chiusi gli occhi. “Sto sognando!” ripetei a me stessa. Ma quel dolore alla testa era reale. Aprii gli occhi: Edward era ancora lì. «Cos’è successo?» riuscii a chiedere. Il suo viso s’incupì. «Ho sentito delle urla mentre andavo in chiesa. Sono accorso e ti ho trovata in un’aula accasciata a terra con Antonello che…» s’interruppe. Ah, sì, ora ricordavo. Antonello. Come aveva potuto? Dopo che mi aveva fatto sbattere la testa contro il muro non ricordavo più nulla. «Che cosa…» sospirai. Era difficile fare quella domanda. «Niente», intervenne lui «non ti ha fatto niente. Sono arrivato quando ti stava togliendo la maglietta.» «Oh Dio!» dissi a bassa voce. Ero incredula, ferita… cominciai a piangere. Ogni singhiozzo era una fitta alla testa e questo mi faceva piangere ancora di più. Ero arrabbiata e mi vergognavo. All’improvviso mi resi conto che ero in intimo sotto le lenzuola. Mi tirai il lenzuolo fin sopra il naso, vi affondai il viso e piansi ancora più forte. «Ti prego…» sussurrò Edward. Non avevo la forza di guardarlo. Non avevo più i capelli legati, erano sciolti e mi ricadevano sul viso. Mi sentivo protetta dagli occhi di Edward, però poteva sentirmi. «Ehi, mahaba yangu…» La sua voce era dolce e intensa. Con la mano mi sfiorò il viso scostandomi i capelli ormai fradici. A quel tocco tremai e lo guardai. Avevo gli occhi gonfi e mi sentivo debole. Sicuramente non avevo un

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bell’aspetto… mi sentivo nuda davanti ai suoi occhi. E poi come poteva lui essere così gentile con me? In fondo non mi conosceva, eppure mi aveva salvata e ora mi stava vicino… non capivo più nulla. Lo osservai per un attimo: i suoi occhi erano tristi e mi fissavano in un modo che non seppi interpretare. Sentii ancora le lacrime rigarmi il viso. All’improvviso Edward mi tirò a sé e mi strinse al suo petto. Sentii il suo profumo inondarmi le narici e il suo calore scaldarmi il cuore. Le sue braccia forti erano come un nido in cui trovare riparo. Per un attimo smisi di piangere e forse anche di respirare. «Non devi avere paura. Ci sono io qui.» Una nuova ondata di lacrime esplose dai miei occhi. Era un pianto liberatore, stille amare contro quell’ingiustizia terribile da cui Edward mi aveva salvata. Sempre tenendomi stretta prese a dondolare avanti e indietro, lui sulla sedia, io seduta sul letto cullata da lui. «Tuingie, tuingie, kwa yawe bwana, furaha gani, siku ya leo…» lo sentii cantare sottovoce una melodia armoniosa. Non ne capivo il significato, ma lui continuò finché lentamente le mie lacrime cessarono e io iniziai a rilassarmi. D’improvviso sentii bussare alla porta. Si staccò e mi guardò per assicurarsi che stessi meglio, poi mi sorrise. Ero così vicina al suo viso… volevo tuffarmi nei suoi occhi stupendi e baciare quelle labbra piene. «Come in», rispose in inglese adagiandomi sul cuscino e accarezzandomi la mano. Mi sentivo strana, era come se mi trovassi in un altro mondo… invece era vero, ero proprio lì: era solo il primo giorno in Kenya e già erano successe così tante cose! Entrò Salome. «Ah, ti sei svegliata!» mi disse in italiano. «Come ti senti?» Edward mi guardò. «Mi fa male la testa» risposi. «È normale. Nient’altro?» continuò la donna. Scossi la testa. Pessima idea, che dolore! «Bene. A proposito, ho preferito farti riposare senza vestiti per stare più fresca, fa molto caldo. Ti ho portato un antidolorifico, se ne hai bisogno più tardi prendilo.» Anche lei, come Edward, parlava bene l’italiano. «Grazie Salome.» risposi tristemente. «È un piacere.» Sorrise. «Qui c’è qualcosa da mangiare» continuò indicando il vassoio che teneva in mano. «È già ora di cena?» chiesi allibita. Salome sorrise di nuovo. «Edward ti spiegherà tutto. Ora devo andare.» «Grazie» ripetei prima che uscisse. Guardai Edward e lui capì che volevo spiegazioni. «Sono le dieci. L’orario di cena è passato da un pezzo, però Salome ti ha tenuto in caldo qualcosa.»

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«In che stanza sono?» chiesi. Non era la mia, c’era solo un letto. «Bè… nella mia» rispose un po’ imbarazzato. «Era l’unico posto in cui potevi stare tranquilla e dove Salome può accedere facilmente.» «Nella tua?» ripetei incredula. La sua stanza? Quindi quello era il suo letto? «Non fare quella faccia!» scherzò. «Ascolta, devo scendere nell’atrio per parlare con i professori e sistemare la situazione. Cosa vuoi che dica loro?» Esitai. Da una parte non volevo che gli altri sapessero, però dall’altra volevo farla pagare a quel verme di Antonello. «Quando torno in Italia lo denuncio di sicuro!» risposi. «Va bene, ho capito. Torno più tardi per vedere come stai.» Annuii. Ancora una volta: pessima idea, una fitta alla testa. Si alzò, era così alto! E il suo corpo era così armonioso… come modellato dalle mani di un artista dell’antica Grecia. «Edward» lo chiamai prima che uscisse. Ma poi mi pentii subito: che cavolo volevo dirgli? «Senti, io… volevo sapere…» Inspirai. «…Perché fai tutto questo per me?» chiesi tutto d’un fiato. Lui mi guardò, si avvicinò al letto e si chinò verso di me. Ero così tesa che strinsi le lenzuola nelle mani. Avvicinò il suo viso al mio e mi inebriai del suo odore, sentivo il suo respiro. Mi guardò diritta negli occhi. Anch’io lo guardai. Li chiuse e posò le sue labbra sulla mia fronte per un istante che a me parve lunghissimo, ma anche troppo breve. Poi, senza una parola, uscì. Anch’io ero senza parole. Mi lasciai cadere sul cuscino, la testa mi faceva troppo male. Decisi di prendere la pillola che Salome mi aveva lasciato sul comodino, avevo bisogno di rilassarmi. Ancora non riuscivo a credere di essere nella stanza di Edward. Quella mattina, quando l’avevo visto per la prima volta, mi era parso così irraggiungibile… e invece ero lì. Non riuscivo neanche a credere a ciò che mi aveva fatto Antonello. Secondo lui nessuno lo avrebbe scoperto? Io non avrei parlato? Mah! Bussarono alla porta. «Avanti», risposi d’istinto. Poi pensai. “E se fosse Antonello?” Come potevo difendermi? Prima che la porta si aprisse del tutto, afferrai la lampada dal comodino, scombussolando le ombre della stanza: era l’unico oggetto che assomigliava di più a un’arma. «Ehi, ma che fai?» Una voce femminile. «Martina, sei tu!» Che gran sollievo! Bè, probabilmente Antonello non avrebbe bussato. «Che volevi fare con quella lampada?» «Niente, niente!», mi affrettai a rispondere mettendola a posto. Mi guardò e mi porse degli abiti puliti, li aveva presi dalla mia valigia. Mi infilai solo la maglietta. «Grazie.»

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Prese il vassoio dalla scrivania. «Tieni, mangia. Come ti senti?» Me lo posò sulle gambe. «Diciamo bene.» L’antidolorifico cominciava a fare effetto. «Mi spieghi cos’è successo? Sei sparita!» chiese accarezzandomi la testa fasciata. In fondo era una brava ragazza, se non ci fosse stata lei mi sarei sentita così sola! «Edward non ti ha raccontato niente?» «No. Gli ho chiesto spiegazioni, ma ha detto che dovevi essere tu a dirmelo.» “Che tenero!” pensai. «Va bene. Prima dimmi una cosa: Antonello dov’è?» chiesi. «Antonello? Non vedo nemmeno lui da un po’, ma ho sentito Sister Rosina parlare con Salome e diceva che era chiuso in un’aula con la professoressa Magli.» “Almeno lo tengono d’occhio!” pensai portando alla bocca una forchettata di spaghetti. Ora che ci pensavo avevo il vago ricordo di averlo visto per terra prima che svenissi. Era stato Edward? Martina mi guardava impaziente, così le raccontai tutto. Mi ascoltò a bocca aperta, non aveva parole. E alla fine la canzonai per aver giudicato Edward senza conoscerlo. Mi abbracciò senza dire niente. Avrei tanto voluto fumare, ma era meglio di no viste le mie condizioni. Martina mi avvisò che per quella sera era prevista una passeggiata in città, ma dato che io non stavo bene, era stata rimandata al giorno seguente. Le luci si sarebbero spente a mezzanotte, era quasi ora e la mia amica decise di avviarsi alla nostra stanza. Io invece dovevo aspettare Edward. Quando Martina aprì la porta, si trovò davanti Jante, Helen e Davis. «Jambo rafiki!» Si affacciò Jante. «Ciao!» Ero così felice di vederli. Le ragazze si fiondarono ad abbracciarmi, mentre Davis mi sorrise. Mi fece segno di avermi portato una bottiglietta d’acqua. «Grazie, thank you!» risposi. «Hasante sana!» mi corresse lui. Io però avevo uno sguardo interrogativo. «Hasante sana means grazie tante» chiarì Helen. «Oh, hasante sana Davis, Jante and Helen!» risposi allora. Rimasero un po’ con me senza chiedermi nulla, solo accarezzandomi e sorridendomi. Poi mi dissero che dovevano andare a dormire prima che Sister Rosina si accorgesse che erano ancora in giro: erano molto diligenti. Li salutai e mi rilassai in quelle lenzuola.

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Pensai a Edward… aveva detto che sarebbe tornato, ma ancora non si vedeva. Chiusi gli occhi cercando di scacciare tutti i brutti eventi della giornata. Cosa sarebbe successo ad Antonello? Stavo per addormentarmi quando sentii il rumore della maniglia e il lieve cigolio della porta. Aprii gli occhi di scatto e vidi Edward. «Ti ho spaventata?» mi chiese a bassa voce. «No.» Era così bello! «Non parliamo ad alta voce, perché qui accanto ci sono le stanze delle sorelle, dei tuoi professori e di Salome.» «Va bene», risposi abbozzando un sorriso. Si sedette accanto a me sul letto e gli chiesi di raccontarmi tutto di Antonello. Mi raccontò che per togliermelo di dosso gli aveva sferrato un pugno. Poi mi aveva portata in camera sua e aveva chiamato Salome che, dopo avermi medicata, era andata a visitare Antonello sia per vedere come stava che per tenerlo d’occhio. Per sua fortuna Edward era stato buono, infatti il mio aggressore aveva solo lividi. Edward aveva parlato con le suore e i professori nell’atrio raccontandogli la situazione e la mia volontà di sporgere denuncia contro Antonello che, sotto le domande pressanti dei professori, aveva confessato tutto: aveva detto che non voleva farmi del male, voleva solo che io lo baciassi. Siccome i professori non volevano rovinare il viaggio a tutti, il professor Gennarini e sua moglie si erano offerti di riportare in Italia Antonello in attesa del mio ritorno. Ero felicissima di non doverlo più vedere. Sarebbe partito la mattina seguente. Mentre Edward mi parlava, io sentivo sempre più che mi stavo innamorando di lui. Forse anche lui notò qualcosa di strano, perché a un certo punto si fermò e mi chiese se stessi bene. «Sì, sì… ti ringrazio di tutto.» Lo guardai con gratitudine. Anche lui mi guardò. Mi sentivo catturata da quegli occhi e per un attimo mi sembrò che si stesse avvicinando. Invece si alzò e andò a spostare una piccola tenda in cotone indiano che copriva parzialmente la finestra della stanza. Spense la lampada e la stanza si illuminò di una luce candida e delicata. Pensai che fosse la luce della luna. «Hai mai visto il cielo africano di notte?» mi chiese. «No» risposi incuriosita. «Allora non puoi perdertelo» continuò. Si voltò verso la finestra. «Dai, indossa i pantaloni che ti aiuto a venire qui. Non ti guardo.» Diventai di tutti i colori ma per fortuna lui non poteva vedermi. Ero tesa e felice al tempo stesso, non avevo mai conosciuto nessuno così dolce e premuroso. Mi accorsi d’un tratto che mi fidavo di lui incondizionatamente, ma decisi che non volevo rovinare quel momento con i miei dubbi.

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«Fatto» dissi a bassa voce. Non mi era costato tanta fatica vestirmi, però stando in piedi mi girava la testa. Edward si voltò e venne verso di me. «Mi permetti di aiutarti?» mi chiese. Annuii timidamente. «Ok. Metti un braccio qui.» Cinse la sua vita con il mio braccio sinistro. Indossava una camicia coreana in lino leggero, potevo sentire il calore della sua pelle attraverso il tessuto. Non volevo stringere, temevo di sembrare sfacciata. Gentilmente fece scivolare la sua mano destra intorno alla mia vita. Mi si bloccò il respiro. Mi teneva in modo deciso ma delicato, aveva le mani grandi e forti. «Bene. Salome ha detto che per oggi dovevi solo riposare, ma se ti aiuto io non credo che sarà un problema raggiungere la finestra.» Aveva ragione. La finestra distava circa tre metri dal letto e solo una volta dovetti fermarmi perché mi sembrava che la stanza si piegasse su se stessa. Approdai al davanzale: non era in marmo come in genere si usava in Italia, era di un legno scuro e sottile. «Reggiti, eh» Si allungò per avvicinarmi una sedia vicina alla porta del bagno, ma non lasciò mai la presa. Mi fece accomodare e mi disse di alzare lo sguardo. Ciò che vidi fu un mantello scuro incastonato da migliaia di diamanti. Non c’erano palazzi a ostruire la visuale, non c’era inquinamento da luce, era completamente buio fuori, e non c’era neanche quello strato di smog che opacizzava un po’ il firmamento dalle mie parti. Il cielo era nitido e appariva in tutta la sua immensità, profondità. La luce che prima avevo notato entrare dalla finestra non era la luce della luna, che si trovava solo in un angolo, era la luce delle stelle. Tantissime stelle, luminosissime stelle che io non conoscevo. Avevo sempre scrutato il cielo fin da piccola, mi affascinava, faceva diventare i miei problemi piccoli piccoli e respirare l’aria fresca della notte riempiva i miei polmoni di immensità, di notte, di mistero. Ma lì mi trovavo sotto l’equatore e quelle costellazioni non le conoscevo. Erano stelle nuove, un altro mondo da scoprire. Restai qualche minuto incantata a fissare quella meraviglia. «Wow», riuscii a dire poi. «Ti piace?» Mi voltai verso di lui. I suoi occhi brillavano di quel chiarore eterno che ci sovrastava. «Sì» risposi. Con fatica distolse lo sguardo dal mio e mi indicò un punto preciso del cielo. «Guarda. Quelle piccole stelle formano la Croce del Sud. È il nostro punto d’orientamento.»

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«Come per noi lo è la stella polare. È bellissima!» risposi guardando quel punto che ora diventava più familiare. «Sì, come te» mi disse con voce profonda. Mi voltai a guardarlo. Avevo sentito bene? Eravamo così vicini! Avrei tanto voluto baciarlo, ma non sapevo cosa avrebbe pensato… lo conoscevo da poco e non volevo rovinare tutto, però di certo non l’avrei respinto se fosse stato lui a fare la prima mossa. Anche lui mi guardava. Si avvicinò lentamente guardandomi prima gli occhi e poi le labbra. Si avvicinò ancora… si chinò da un lato e premette le labbra contro la mia guancia. Credetti di sciogliermi come un gelato al sole. Poi si allontanò lentamente e io lo fissai per un po’. Si alzò in piedi e mi tese la mano. «Che ne dici di andare a dormire?» «Dove dormirò?» chiesi mentre mi avvolgeva con il braccio sinistro. Era una sensazione meravigliosa, mi sentivo protetta. Eppure volevo sapere perché mi aveva baciata e poi all’improvviso voleva andare a dormire. La testa cominciava a farmi di nuovo male, ma non volevo altre medicine, mi sarei rilassata dormendo. «Qui» rispose Edward facendomi sedere sul letto. Spalancai gli occhi. «Qui? E tu? E i professori lo sanno che sono in camera tua?» «Primo: io dormirò qui.» Tirò fuori da dietro l’armadio una brandina piegata in due. «Secondo: i professori si fidano di me perché anch’io sono un insegnante, quindi non c’è problema.» Sorrise e mi si avvicinò. «Volevo chiederti scusa.» «E per cosa?» domandai esterrefatta. Era stato così gentile! «Per quello che è successo poco fa. Non avrei dovuto baciarti e non voglio sembrare maleducato o spaventarti. Non si ripeterà.» “Oh, no!” pensai “Perché pensa che sia stato uno sbaglio?” Forse si era accorto che non gli piacevo abbastanza. Abbassai lo sguardo. «Non preoccuparti» risposi mestamente. «Ok, lala salama. Buonanotte Selene.» «Buonanotte Edward.» Chiusi gli occhi. Volevo lasciarmi andare, ma pensai a lungo a tutto quello che mi era successo in un solo giorno. Finalmente mi addormentai ed ebbi un sonno senza sogni o meglio, come diceva la mia professoressa di psicologia: «Tutti sogniamo, tutte le notti. Solo che spesso non rimane neanche un minimo ricordo che ci faccia capire che abbiamo sognato.» Io di quella notte non rammentavo sogni e per me era insolito, perché mi ricordavo sempre tutti i sogni che facevo, ogni notte. Anzi, qualche volta mi svegliavo stanca tanto il sogno era stato intenso e reale, che mi sembrava di non aver dormito affatto.

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JUMANNE (MARTEDÌ), 06/09/2005 Bussarono alla porta diverse volte prima che potessi realizzare dove mi trovassi. La luce del mattino era penetrante e illuminava tutta la stanza. «Avanti…» dissi con la bocca ancora impastata dal sonno. Era la professoressa Magli. «Buongiorno Lofredo!» trillò con la sua voce squillante. Ascoltarla di prima mattina era davvero irritante. Entrò con al seguito Maria e Annalia, sempre appiccicate come due comari. «Come ti senti?» mi chiese. Non avevo ancora avuto tempo di pensarci, ma effettivamente la testa non mi faceva più male. «Bene, grazie.» «Il professor Gennarini è già partito» mi informò. Bene, non avrei rivisto più Antonello, era un sollievo. «Adesso Martina ti porterà la colazione e poi, se te la senti, raggiungi il professor Murthi Ching in classe per la lezione. Ragazze, salutate la vostra collega.» Già… Edward! Mi guardai attorno: la brandina era a posto e di lui non c’era traccia, era uscito senza svegliarmi. Intanto sentivo come in lontananza le voci delle due ragazze che si alternavano nel dirmi parole gentili, di circostanza. Rispondevo con sorrisi, ma in realtà pensavo ad altro, alla sera prima. A un certo punto se ne andarono ed entrò Martina con un vassoio in una mano e nell’altra il mio cellulare e una busta con dei miei vestiti. «Buongiorno amo’!» Poggiò tutto sul letto. «Sei un tesoro!» la ringraziai. «Allora? Dimmi tutto! Notte di fuoco?» «Ma che dici?» risposi in fretta «Abbiamo solo parlato e poi dormito! Ognuno al proprio posto!» sottolineai. Non volevo raccontarle subito la storia del bacio anche perché Edward era sembrato quasi pentito. Dovevo prima capire cosa c’era tra noi, se c’era qualcosa. «Se lo dici tu! Comunque se te la senti, vestiti che andiamo a lezione.» Annuii senza esitazione, avevo voglia di uscire. Ma prima presi il telefono e trovai un sms di Fiorella: Ingrata, mi farai morire! Che fine hai fatto? Anche papà mi aveva scritto un sms:

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Com’è stata la prima giornata in Kenya? Ti sei divertita? Già ci manchi! Papà Papà mio! Se solo avesse saputo cos’era successo alla sua adorata figlia. Però non volevo far preoccupare i miei genitori, avrei raccontato loro l’accaduto con più calma, perciò gli scrissi: Tutto bene qui, ho solo avuto un litigio con un compagno, non preoccupatevi. TVB un casino, baci a te, a mamma e a Giacomino mio! A Fiorella invece scrissi: Tesoro mio sapessi quante cose sono successe! Non basterebbero 100 € di sms per spiegarti! Ti dico solo che qualcuno è stato un bastardo e qualcuno un angelo! TVB Pagavo un sacco a ogni sms e il credito volevo farlo durare almeno per un po’. Mangiai in fretta un toast vuoto, parte della mia colazione. Non c’erano né marmellata né nutella ovviamente. Alzandomi per cambiarmi notai con piacere che non mi girava più la testa. Trovai un bigliettino sul comodino ma non era di Edward. Ti lascio questa pillola anti vertigini. Potresti averne bisogno oggi, riguardati, Salome “È un bravo medico”, pensai mettendo la pillola nella tasca posteriore della gonna di jeans che Martina mi aveva portato. Indossai una maglietta arancione a maniche corte e, per coprire la benda, lasciai i capelli sciolti e indossai una bandana giallo chiaro. Infine un filo di matita, giusto perché volevo essere più presentabile per Edward rispetto al giorno prima. Scendemmo le scale, io sottobraccio a Martina. La lezione era nella stessa aula dove il pomeriggio precedente avevamo fatto amicizia con gli studenti, ma la porta era chiusa, probabilmente eravamo in ritardo. Martina bussò e mi fece entrare. «Karibu, Selene! Welcome, Selene!» Sentii un coro generale e uno scroscio di mani. Tutti gli studenti mi accolsero e mentre mi sommergevano di abbracci per salutarmi vidi Edward con la coda dell’occhio. I suoi occhi si illuminarono e alzò la mano in gesto di saluto… sorrisi. Quando tutti tornarono a posto, io e Martina ci sedemmo accanto alla cattedra.

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Edward presentò l’argomento della giornata: indicativo presente dei verbi essere e avere. Quando lavorava non mi guardava minimamente. Scrisse le coniugazioni alla lavagna, poi le fece leggere a Martina e passò la parola a me per fare degli esempi. I ragazzi prendevano appunti, ma non tutti avevano un quaderno, alcuni di loro avevano solo dei fogli. Chi invece il quaderno ce l’aveva, cominciava a scrivere da sopra la copertina e non lasciava neanche un margine di spazio vuoto. Girai tra i banchi per vedere come se la cavavano: mi chiamavano da tutte le direzioni per chiedermi se avevano scritto bene o per mostrarmi i quaderni nuovi. Poi inventammo un dialogo e prima lo interpretammo io e Martina, successivamente a coppie anche loro. Ero veramente stupita dalla voglia di imparare che avevano i ragazzi: capivo in quel momento che bene prezioso era l’istruzione. Per noi era una cosa normale e non l’apprezzavamo abbastanza. Ma quei ragazzi si rendevano conto di quanto fossero fortunati rispetto a molti loro coetanei, per loro studiare era un privilegio che toccava a pochi. Quella situazione mi fece pensare a quanto invece era superficiale la mia società. C’era tantissima gente che stava davvero male, mentre noi che avevamo tutto ci soffermavamo sulle cose futili. Pensai che la scuola in cui mi trovavo era davvero un’idea grandiosa che serviva a creare nuove coscienze professionali in un ambiente in cui la povertà e l’ignoranza regnavano sovrane. Quei ragazzi erano davvero meravigliosi: quando arrivò l’ora di fare pausa, controvoglia posarono le penne e uscirono fuori con noi. Volevo parlare con Edward ma lui stava parlando con Salome. Lei si accorse che li fissavo e fece cenno a Edward verso di me. Lui la salutò e mi venne incontro. «Ciao» lo salutai. «Come stai?» mi chiese tranquillo. «Oggi abbastanza bene. Stamattina non ti ho sentito…» «Ho fatto piano perché non volevo svegliarti.» Abbozzò un sorriso. «Grazie di tutto. Sei stato veramente…», fui interrotta da un’ondata di visi sorridenti che mi chiedevano spiegazioni sulle frasi che avevamo studiato. Rimasi un po’ delusa perché volevo continuare a parlare con Edward ma non ne ebbi modo e alla fine lo persi di vista. Non riuscivo a rispondere a tutte le domande dei ragazzi, erano troppo euforici. Ritornammo in classe per riprendere la lezione e Edward riprese a non guardarmi. Finita la lezione era già ora di pranzo. Uscii fuori e tirai Martina all’ombra di un albero, avevo voglia di fumare. Dopo il trambusto del giorno prima non ne avevo ancora avuto la possibilità. «Se fumi prima di mangiare ti buchi lo stomaco!» mi rimproverò. «Proprio tu parli! Fammi accendere!» ribattei. Scrollò le spalle e mi porse l’accendino. Lei fumava molto più di me.

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In mensa ci sedemmo al tavolo di Jante, Helen e Davis. Edward era al tavolo dei professori e io non osavo né avvicinarmi né guardarlo. Quel giorno la messa era subito dopo pranzo. Non dovevo prendere niente dalla camera stavolta, restai con Martina e andammo in chiesa. In realtà non sembrava una chiesa: aveva lo stesso colore del resto dell’edificio, c’era solo una croce sulla porta d’ingresso. Entrai e trovai un ambiente modesto con una decina di panche di legno, un minuscolo leggio e un piccolo altare con tabernacolo. Niente sfarzi, niente oro come nelle nostre chiese, solo un’immagine della Madonna appesa a un chiodo. Vidi per la prima volta Father Joseph, sacerdote della Cattedrale di Malindi che veniva a celebrare la messa nella scuola. Indossava una camicia bianca a maniche corte e pantaloni neri. Era magro, alto e dall’aria austera, ma a sentirlo parlare s’intuiva che in realtà era un pezzo di pane. Ci diede il benvenuto come si salutano dei vecchi amici e annunciò il primo canto. Mi aspettavo di cantare canzoni antiche e noiose come facevo da diciotto anni, invece assistetti a una cosa meravigliosa. Le studentesse della scuola si tolsero i sandali e a gruppi di due o tre ballarono davanti all’altare, cantando una canzone allegra in swahili. Poi passarono nel corridoio tra le panche gettando petali su di noi e sui ragazzi che cantavano a strofe alterne, sorridevano e battevano le mani con energia. Era un ritmo travolgente, anch’io cominciai a ondeggiare a ritmo della musica. Era davvero un canto di gioia per il Signore, mi sentivo partecipe della messa come non mi era mai successo prima. Il sacerdote celebrò in inglese per dare anche a noi la possibilità di capire. Seguirono altri canti, tutti così energici e pieni di vita! A un certo punto le ragazze intonarono un canto armonioso e dolce: Tuingie tuingie, kwa yawe bwana, furaha gani, siku ya leo! Riconobbi subito la melodia: era la canzone che Edward mi aveva cantato per farmi tranquillizzare la sera precedente. Lo cercai con lo sguardo e lo trovai, finalmente mi stava guardando. Gli sorrisi e lui ricambiò il sorriso dirigendosi verso l’altare per ricevere l’ostia. Helen era accanto a Martina, mi sporsi e le chiesi il significato di quella canzone. Mi disse: «It means chiamate tutti per gioire insieme per il Signore, giorno dopo giorno!» Quella melodia aveva avuto il potere di calmarmi quando ne avevo più bisogno. Edward doveva essere molto credente. Vivendo la religione come facevano loro, era una gioia: venivi trasportato dalla fede stessa.

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Finita la messa, Mapenzi, una ragazza molto esuberante, disse a noi ospiti di aspettare perché doveva dirci qualcosa. Andò a parlare con Sister Lucy e dopo qualche istante tornò raggiante. Ci disse che aveva avuto il permesso di accompagnarci in spiaggia, però dovevamo tornare per le 18.30 in modo da essere puntali per la cena. Anch’io ero felice, volevo proprio andare al mare. Senza pensarci due volte io e Martina andammo in camera a cambiarci. Indossai il mio bikini rosa, maglietta azzurra aperta sulle spalle e pantaloncini bianchi. In uno zainetto misi la crema protettiva (protezione altissima perché avevo la pelle sensibile e il sole dell’equatore era molto più forte di quello a cui ero abituata), una bottiglietta d’acqua e un telo da mare. Era il mio preferito: bianco con fiori beige e blu, me lo aveva regalato Giacomo l’estate prima. Ero pronta. Ci avviammo verso il portone d’ingresso dove avevamo l’appuntamento con gli altri. Mapenzi era in compagnia di Davis e saltava euforica intorno ad Annalia e Maria. «Jambo Mapenzi!» la salutai. Per tutta risposta corse a prendermi sottobraccio. «Ok, andiamo!» annunciò in tono solenne. Il suo italiano era veramente molto accentato. Usciti dal portone ci trovammo in una strada larga e sterrata con palme sui lati; la terra era chiara, quasi rossa. Qua e la c’erano ville di ricconi stranieri. Dopo trecento metri in cui mi riempii i piedi di terreno, uscimmo in una strada asfaltata dove le vecchie macchine e i tuk tuk (veicoli a tre ruote usati per il trasporto di turisti) sfrecciavano a velocità folle. Per attraversare la strada bisognava correre al momento giusto. Dopo la corsa mi girò leggermente la testa ma mi passò subito. A sinistra su quella strada si vedevano solo palme a perdita d’occhio, mentre a destra a breve distanza c’erano edifici bassi e semplici, qualche bar e intravidi anche l’insegna Bank. Noi invece proseguimmo diritto imboccando un sentiero strettissimo che si inoltrava in una bassa boscaglia di cycas alternata a spazi sabbiosi. Le piante pungevano. Dopo aver percorso un centinaio di metri notai che Martina rideva. «Ma dove cavolo ci sta portando?» Non fece in tempo a dire altro che sbucammo in spiaggia. Era una spiaggia immensa e larghissima, dal mare ci separavano almeno duecentocinquanta metri. La sabbia era completamente appiattita e non c’era ombra di orme umane. Niente ombrelloni, né persone, era completamente deserta. Quando andavo al mare a Torre Canne, c’erano spiagge private con ombrelloni a pagamento, oppure sulla spiaggia libera dovevo destreggiarmi tra decine di

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bagnanti per trovare un posto in cui stendere il telo. Quella spiaggia invece era un sogno. «Ecco dove ci portava!» dissi a Martina che aveva già cominciato a correre per raggiungere l’acqua. Io continuai con calma, affiancata da Davis che diventava sempre più un buon amico. «Habari gani? Come stai?» mi chiese. «Ehm…» Cercai di ricordare come si diceva bene. «Mzuri sana!» risposi trionfante. Lo swahili era una lingua completamente diversa dalla mia, ma con degli insegnanti come loro era facile imparare. Lasciai le scarpe dov’erano quelle degli altri, a una decina di metri dalla riva, mi spogliai e mi riempii subito di crema altrimenti mi sarei ustionata. Edward non era venuto con noi. Dopo ciò che era successo la sera prima avevo tanta voglia di restare sola con lui visto che davanti ad altre persone non era lo stesso. Gli altri erano già in acqua. Io avevo ancora la fasciatura sulla testa, quindi non potevo bagnarla, anche se mi piaceva tuffarmi, nuotare sott’acqua e osservare il mondo sottomarino. Sapevo nuotare benissimo, sempre grazie al mio papà, che quand’ero piccola mi aveva iscritta a dei corsi nella piscina comunale. Quel giorno dovetti accontentarmi di fare il bagno come lo faceva mamma cioè senza bagnarmi i capelli (ma lei a parte il fatto di non saper nuotare, non voleva rovinarsi la messa in piega). Trovai l’acqua piacevolmente tiepida, invece a Torre Canne ero abituata a immergermi lentamente ed era sempre un evento traumatico perché l’acqua era gelida, vista la vicinanza di un fiumiciattolo. Mi divertii tanto quel pomeriggio e questo mi aiutò a liberare la mente dalla brutta esperienza del giorno prima. In effetti trovavo un po’ strano che nessuno dei miei nuovi amici mi avesse chiesto niente sull’argomento, forse erano solo molto educati. Mentre uscivo dall’acqua notai i nostri zaini e le nostre scarpe che… galleggiavano! Corsi fuori gridando in modo che anche gli altri accorressero. Era tutto fradicio: vestiti, sandali, telo, zaino. Per fortuna riuscii a recuperare tutto. Non riuscivo a spiegarmi come fosse possibile che fossero finiti in acqua. Davis ci spiegò che a volte la marea saliva nel giro di pochissimi minuti. La prossima volta dovevamo lasciare tutto molto più lontano. Mapenzi ci fece strada verso una cycas poco lontano sulla quale stendemmo i nostri abiti ad asciugare. Ci sedemmo all’ombra di una palma da dattero per ripararci dal sole che dopo un po’ era davvero difficile da tollerare. Mapenzi aveva fatto il bagno in pantaloncini e maglietta (probabilmente non aveva un costume) e rimase al sole per asciugarsi. Nel mentre vidi arrivare da lontano due piccole sagome scure: erano bambini. Potevano avere sette o otto anni ed erano completamente nudi. Vennero verso di noi canticchiando. «Hello, hallo, ciao, salut!» fece il primo.

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«Ciao!» rispose Annalia. «Oh, italiani!» esclamò il secondo bambino. «Come stai?» disse il primo rivolgendosi a tutti noi. «Bene. Habari?» chiesi io. «Mzuri!» sorrise l’altro. «Come ti chiami?» chiese Maria a uno di loro. «Gennaro!» rispose questo. «Io Antonio!» disse l’altro. Rimasi un po’ stupita. I bambini ci chiesero se avevamo delle caramelle. Non avevamo niente di commestibile con noi, così regalai loro la mia bottiglietta d’acqua. La bevvero con foga metà ciascuno e poi corsero via giocando a calcio con la bottiglietta, ringraziandoci a gran voce. “Wow!” pensai “Basta così poco per renderli felici!” Sulla strada del ritorno parlai con Mapenzi e le chiesi se lei credeva davvero che quei bambini si chiamassero Gennaro e Antonio. Fece un sorriso sorpreso e mi spiegò che ormai quella era una zona turistica: la gente cercava di avvicinare i viaggiatori sperando di ricevere qualcosa e perciò provava a parlarci in tutte le lingue. Se un turista era tedesco, le persone dicevano di chiamarsi con un nome tedesco, se uno era italiano avevano un nome italiano e così via. Insomma si sceglievano un nome per tutte le occasioni, ma i loro veri nomi probabilmente erano nomi swahili. Mi sembrava incredibile cambiare se stessi per compiacere un estraneo, ma lo scopo di quella gente era mangiare qualcosa in più, quindi tutto diventava accettabile. Chissà se Edward aveva un altro nome… non riuscivo proprio a immaginare quale, del resto conoscevo pochissimi nomi in swahili. Quella sera era in programma una passeggiata per Malindi, perciò indossai una gonna di jeans sfilacciata con pezzi di tulle e velo sulle punte. La fasciatura purtroppo non potevo ancora toglierla e così conciata sembravo una ninja. La coprii alla meglio con i capelli sciolti e resi ondulati dall’aria di mare. La cena fu servita fuori perché c’era il pesce spada in spiedi cotto sul fuoco vivo. I tavoli e le sedie erano disposti disordinatamente per sfruttare lo spazio pianeggiante disponibile nello spiazzale d’ingresso. In realtà era pieno di pietre sul terreno sconnesso, infatti la mia sedia era un po’ in pendenza. Era comunque splendido mangiare sotto le stelle con la sola luce del fuoco e di qualche candela sui tavoli. Mentre Mundu impiattava il pesce spada da lui arrostito, vidi Edward sempre al tavolo dei professori. Era molto bello e per la prima volta lo vedevo in jeans. I capelli divisi in due treccine lo rendevano davvero speciale, tutti gli altri ragazzi kenyoti che avevo conosciuto avevano i

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capelli rasati. Con questi pensieri nella mente assaggiai il pesce spada. Era veramente buono. A ciascuno di noi spettavano due fette enormi ed era così carnoso che sembrava carne anziché pesce. «Buono questo pesce spada!» gridò Martina a Mundu. Lui si avvicinò e disse qualcosa in swahili a Helen a tavola con noi che tradusse: «Non è pesce spada, è barracuda!» Barracuda? Non sapevo che si potesse mangiare. Il barracuda era più grande del pesce spada e più piccolo di uno squalo, ma molto più feroce e aggressivo di qualsiasi specie di squalo. Dopo cena la mia amica Jante purtroppo tornò in camera sua, mentre gli altri che dovevano uscire si radunarono davanti al cancello. C’era anche Edward. Che gioia! Non gli parlavo dalla mattina, ma a me sembrava un’eternità. Eravamo una decina. La professoressa Magli ci spiegò che uscendo di sera in sole donne probabilmente qualcuno ci avrebbe aggredito, mentre con la compagnia di qualche uomo del luogo nessuno si sarebbe avvicinato. Con noi c’erano Edward, Davis, Anthony e Gabriel. Inoltre non dovevamo allontanarci da soli ma restare in gruppo. Ci incamminammo verso gli edifici che avevo visto sulla strada principale mentre andavamo al mare. Durante il tragitto si avvicinarono a noi una decina di tuk tuk, ma rifiutammo di salire. Vidi anche un’altra specie di taxi: una bici con doppio sellino fatto in casa, portava un turista per volta. Costeggiammo un bar malandato con la scritta Coca cola sulla porta, sembrava che ci fossero solo uomini. Poi entrammo nella zona turistica di Malindi, un viale tutto illuminato: sul lato del mare c’erano villaggi turistici uno accanto all’altro, mentre dall’altro lato bar, discoteche e ristoranti tutti nuovi e dalle insegne scintillanti. Era un mondo d’illusione, una ricchezza finta ritagliata in uno spazio di infinita povertà. Durante il percorso restai accanto a Martina, fumammo e parlammo. Edward parlava con la professoressa. Non poteva piacermi uno studente? No, proprio l’insegnante dovevo scegliere! A volte mi sembrava così irraggiungibile! Ci fermammo davanti a un locale con l’insegna luminosa Putipu: aveva bar, ristorante e discoteca e quasi all’unanimità optammo per la disco. Le ragazze non pagavano l’ingresso, mentre i ragazzi pagavano pochi scellini. Con me avevo solo euro, non li avevo ancora cambiati in scellini kenyoti. Il locale comunque, come la maggior parte, accettava euro e dollari, ma le consumazioni pagate in euro erano molto più care delle stesse pagate in scellini. Oppure il barista cambiava una cifra in scellini in cambio di una piccola provvigione. In banca invece il tasso di cambio variava di giorno in giorno a causa dell’inflazione della moneta del luogo. Entrai in discoteca con Martina sottobraccio.

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«Ora ci divertiamo!» esclamò lei. Era un locale ampio con una grande pista centrale accanto al bancone del bar e tutt’intorno divani e divanetti su più livelli. La luce era intermittente e colorata, la musica assordante e l’aria puzzava di fumo. In Kenya non era vietato fumare nei locali. Raggiungemmo tutti dei divanetti e subito arrivò il cameriere. Edward era rimasto in piedi. Martina si accese una sigaretta. «Di nuovo?!» le urlai all’orecchio. «Sì, bisogna inaugurare questo posto!» «Che prendi da bere?» le urlai ancora. «Birra!» Buona idea. Dovevamo bere solo bevande imbottigliate, quindi cocktail purtroppo niente perché c’era il ghiaccio ovviamente fatto con acqua a rischio. Il cameriere mi stava guardando. «Two Tusker!» gli urlai. La Tusker era la birra kenyota per eccellenza, avevo visto un cartello davanti a un bar poco prima. «Ciao.» Era Edward. Si era seduto al posto libero vicino a me. Martina mi tirò una gomitata che mi fece sobbalzare. In quel momento la odiai. «Ciao» risposi. Si avvicinò al mio orecchio sinistro. «Ti piace qui?» Ringraziai quella musica a così alto volume. «Molto!» risposi. Per un attimo riuscii a riconoscere il suo profumo tra la puzza di fumo che impestava l’aria. Arrivarono le birre, anche lui ne aveva presa una e brindai con Edward e Martina. Intanto la professoressa aveva trascinato Annalia e Maria in pista ballando entusiasticamente. «Che ne pensi della tua professoressa?» mi chiese Edward osservando la scena. «È imprevedibile!» urlai. Rise… non l’avevo mai visto così, era ancora più bello. Martina mi diede un pizzicotto e mi face segno che andava a ballare con Davis. Le feci l'occhiolino. Ora, a parte Marco e alcuni studenti della scuola seduti sul divano di fronte e le decine di turisti che affollavano il locale, eravamo soli. Bevvi un sorso di birra e lo guardai. A gesti mi chiese se mi piaceva ballare e io scossi la testa immediatamente. Non ero una gran ballerina da discoteca, diciamo che me la cavavo, ma non volevo fare brutta figura con lui. Sorrise. «Era tutto il giorno che volevo parlarti!» gli urlai. «Non ho capito niente!» fu la risposta. Sospirai. Lui si alzò e mi fece segno di seguirlo. Mi alzai e scesi i gradini dopo di lui. Ci inoltrammo tra la folla, chi in fila al bar, chi in fila al bagno,

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chi ballava fuori pista. Notai anche delle ragazze kenyote vistosamente agghindate in atteggiamenti provocanti con uomini bianchi dall’aria benestante… prostitute. A volte qualcuno mi urtava o mi spingeva e per non perdermi Edward mi prese per mano. Intrecciò saldamente le dita alle mie e io strinsi le sue. Dopo il bacio sulla guancia della sera prima non temevo la sua reazione per la mia stretta innocente. Arrivammo davanti a una porta scura e uscimmo in un piccolo giardino. C’era solo una coppia in un angolo che si baciava. L’aria pulita era un vero toccasana. «Vieni» mi disse senza voltarsi e tenendomi ancora per mano. Avanzammo fino a metà cortile, mi lasciò la mano e si sedette a gambe leggermente divaricate sul bordo di una fioriera spoglia. «Qui è meglio, non credi?» mi disse ancora a voce un po’ alta. Avevo anch’io i timpani che ancora vibravano. «Sì» risposi sedendomi accanto a lui. Ero un po’ in imbarazzo… sembravamo una coppietta che si era appartata. Fine anteprima.CONTINUA...