IL CALENDARIO DI REBSTEIN

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IL CALENDARIO DI REBSTEIN 2016 A CURA DI FRATE SANTIAGO GENNAIO

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IL CALENDARIO DI REBSTEIN

2016 A CURA DI FRATE SANTIAGO

GENNAIO

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PAVEL FRIEDMAN PAUL CELAN NADIA AGUSTONI LUIGI DI RUSCIO PAOLO FICHERA GIANMARIO LUCINI

PHILIPPE JACCOTTET FRANCESCO MAROTTA FERNANDA ROMAGNOLI CRISTINA BOVE REB STEIN

GIORGIO BONACINI CRISTINA ANNINO GIULIANO MESA MARINA PIZZI LISA SAMMARCO MARILENA RENDA

FERNANDA FERRARESSO RENE’ CHAR FERRUCCIO MASINI DARIO CAPELLO LORENZO PITTALUGA FEDERICO ZULIANI

MASSIMO BOTTURI DANIELE POLETTI NINO IACOVELLA SPYROS ARAVANIS ANTONIO BUX ADRIANO PADUA

ANTONELLA BUKOVAZ LUCETTA FRISA

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La farfalla L’ultima, proprio l’ultima, di un giallo così intenso, così assolutamente giallo, come una lacrima di sole quando cade sopra una roccia bianca così gialla, così gialla! l’ultima, volava in alto leggera, aleggiava sicura per baciare il suo ultimo mondo. Tra qualche giorno sarà già la mia settima settimana di ghetto: i miei mi hanno ritrovato qui e qui mi chiamano i fiori di ruta e il bianco candeliere di castagno nel cortile. Ma qui non ho rivisto nessuna farfalla. Quella dell’altra volta fu l’ultima: le farfalle non vivono nel ghetto.

Pavel Friedman (1921 – 1944)

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Fuga di morte Nero latte dell’alba noi lo beviamo la sera lo beviamo a mezzogiorno e al mattino lo beviamo la notte beviamo e beviamo scaviamo una tomba nell’aria lì non si sta stretti Nella casa vive un uomo che gioca con i serpenti e scrive scrive all’imbrunire in Germania i tuoi capelli d’oro Margarete lo scrive s’affaccia sulla soglia e vi brillano le stelle aduna con un fischio i suoi cani con un fischio chiama fuori i suoi ebrei fa scavare una tomba nella terra ci comanda di suonare ora per la danza Nero latte dell’alba noi ti beviamo la notte ti beviamo al mattino e a mezzogiorno ti beviamo la sera beviamo e beviamo Nella casa vive un uomo che gioca con i serpenti e scrive scrive all’imbrunire in Germania i tuoi capelli d’oro Margarete i tuoi capelli di cenere Sulamith noi scaviamo una tomba nell’aria lì non si sta stretti Egli grida scavate più a fondo voi là e voialtri cantate e suonate prende il ferro alla cintura lo brandisce i suoi occhi sono azzurri scavate più fondo con le vanghe voi là e voialtri suonate ancora per la danza Nero latte dell’alba noi ti beviamo la notte ti beviamo a mezzogiorno e al mattino ti beviamo la sera beviamo e beviamo nella casa vive un uomo i tuoi capelli d’oro Margarete i tuoi capelli di cenere Sulamith egli gioca con i serpenti E grida suonate più dolce la morte la morte è un mastro tedesco grida strappate ai violini suoni più cupi poi salirete come fumo nell’aria così avrete una tomba nelle nuvole lì non si sta stretti

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Nero latte dell’alba noi ti beviamo la notte ti beviamo a mezzogiorno la morte è un maestro tedesco ti beviamo la sera e al mattino noi beviamo e beviamo la morte è un maestro tedesco il suo occhio è azzurro ti colpisce con una palla di piombo colpisce proprio te nella casa vive un uomo i tuoi capelli d’oro Margarete aizza i suoi cani contro di noi ci regala una tomba nell’aria gioca con i serpenti e sogna la morte è un maestro tedesco i tuoi capelli d’oro Margarete i tuoi capelli di cenere Sulamith

Paul Celan, Mohn und Gedächtnis, 1952 Traduzione di Francesco Marotta

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i diari dell’olocausto i diari dell’olocausto mi fan venire in mente edipo a colono con la giovane antigone che dà la mano a un cieco e nient’altro. non una parola li segue, solo un vecchio e sua figlia e i segni del vuoto intorno a loro, lo spavento delle genti che in segreto vedono la ragazza come un toro e la corsa nella polvere con un dio che le urla dietro di fermarsi: “è una ragazza, non può raspare la terra fino alle tombe”. ma non capiva la sua risposta: “va via! la polvere cosa vuoi che dica la polvere, qui viviamo, qui moriamo, un dio non ci ha salvato”.

Nadia Agustoni, Dai libri di lettura, 2009

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Raccolgono la neve con le mani coperte di sangue guasto la mettono sulla bocca per tutti i gelati che quest’estate non hanno avuto montano su pezzi di legno e scivolano per tutti i sogni che non hanno fatto e sarà giorno di festa anche per loro fuori dalle case con le vesti bucate le scarpe sfondate mentre la neve fascia di gelo le case in questa vostra terra dove dio ci ha fatti bastardi

Luigi Di Ruscio, Non possiamo abituarci a morire, 1953

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la luce dimentica la carne e il sapore che si dà spesi in svilimento di preghiere; il bambino: “stammi vicino ora che viene sera e la luce sfrontata immacola il pensiero”. Ha bruciato le rose per fare della vita un lembo che bastasse, una tana da uccello, una piazza civile; sai è altro, puoi altro: nulla è innocente, mano stringe mano ed è privilegio, caduta in colpa: la rosa che baci era morta, alito antico, la rosa che baci moriva in palpebre e carezze spese in ultimi sogni; vittima e sorella, le vene danzano in aspre sentenze? Sii il limite esausto, pelle cupa, e cenere di rosa che ancora brucia.

Paolo Fichera, Lo speziale, 2007

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Nessun libro contiene la parola ma la parola contiene tutti i libri solo così può avere vita e carne sarà il suo libro impeto e vento. Nessuna parola contiene il silenzio ma il silenzio le contiene tutte l’uomo che sta in silenzio è un magnifico oratore. Lascia il mio silenzio giacere nella terra come il chicco d’inverno lascia che rimbombi nell’abisso prima d’ogni giudizio. Ma non sarà il silenzio a ridarmi la vita che ho perduto né il lamento a fermare la sventura l’innocenza a proteggermi. Io sono Giobbe e ho lottato col Silenzio l’ho chiamato in giudizio per farmi giudicare per questo parlo dal passato come il mare che lambisce la terra e non la può possedere.

Gianmario Lucini (2008)

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Il dono inatteso di un albero illuminato dal sole basso di fine autunno, come quando una candela viene accesa in una stanza che s’imbruna. Pagine, parole al vento, anche loro dorate dalla luce serale. Benché scritte da una mano chiazzata dagli anni. Viole raso terra: «non era che questo», «non era nulla di più», un’elemosina ma senza degnazione, un’offerta ma senza sentimentalismo, fuori da ogni rituale. Mi sono inginocchiato quel giorno, non in gesto di rispetto o di preghiera; ma semplicemente per diserbare. Allora, ho trovato quella macchia di acqua viola, e senza neppure riceverne il profumo che altre volte mi aveva fatto varcare tanti anni. Come se, in un istante di quella primavera io fossi stato trasformato: trattenuto dal morire. Dovremmo dissipare ogni nebbia svuotare ogni spazio, per pura amicizia, meglio: per amore. Qualche volta si può ancora. Pur non capendo nulla, pur non potendo nulla di più. Alla luce di novembre, quella che non fa quasi ombra e si oltrepassa senza esitare, con un balzo dell’occhio.

Philippe Jaccottet (2003) Traduzione di Antonella Anedda

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il segno dice della parola quello che non è più, il non ancora – come una palpebra abbassata sull’orizzonte del foglio, sotto cieli grondanti della stessa attesa, fa corpo da sempre col vuoto che si lascia alle spalle, col vuoto che annuncia: – tacere in ascolto è il suo volto segreto, un candelabro semprevivo sulla spuma d’astro della parola ritrovata, perduta, abitata in passi d’esilio

Francesco Marotta, Da un’eternità passeggera (1998-2003)

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Falsa identità Prima o dopo qualcuno lo scopre: io sono già morta da viva. E’ di donna straniera la faccia fra i capelli in giù sporta che sùbito si ritira, l’ombra che dietro le tende s’aggira di sera, il passo che viene alla porta e non apre. Suo il canto che intriga i vicini coprendo i miei gridi sepolti. Qualcuno prima o dopo lo scopre. Ma intanto… Lei a proclamarsi non esita, lei mostra il mio biglietto da visita. Io nel buio, in catene, a un palmo da voi di distanza, sul muro graffio questa riga contorta: testimonianza che mio era il nome alla porta, ma il corpo non ero io.

Fernanda Romagnoli, Il tredicesimo invitato, 1980

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Inferni provvisori Sono strada di tutti in vista come tralcio di croce percorrermi si può se lo consente una lingua tagliente, una lumaca d’acqua di mezzanotte o uno sparviero in abito da tè mi vive dentro una malinconia che non è della sera né della botte vuota ma tracimare di sconsolazione nel tempo della resa ho una bisaccia che pareva audace c’erano dentro quattro virgole una manciata di parole perfino un asterisco e messi insieme potevano passare per poesia ma non posso mentirvi, io sono stata cresciuta dalle suore mi hanno detto che se dico bugie vado all’inferno appena muoio. Perciò vedete non mi resta scelta: essere rea confessa d’ogni verso ed aspettare di morirmi addosso

Cristina Bove, La colpa di essere poeta, 2011.

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Matura nella polvere la barca che aspira l’oceano degli occhi Ma l’acqua è l’alba di nessuno – l’ora di nessun luogo Solo una volta nell’aprile ferito rosseggia trascina il giorno fuori dalla pelle dei suoi silenzi In un tempo di soli recintati che cede l’oro alle labbra del sonno e si fa soglia agli astri dell’immenso – ebbri custodi del passo dei viandanti

Reb Stein, L’oblio dell’evento (1998)

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Stelle di parole irriducibili convincono la notte come niente

Sono stelle componibili di fosforo e di carta: stelle al muro illuminate disponibili a indicare nell’immane sodalizio di un tumulto il genio in lotta con il vento o in mezzo al sonno a congelare.

Ma la luce, che indirizza giù nell’intimo il suo punto di cattura, non ricorda non fa male: è una scheggia tra la pelle qualche linea, colpi sordi recidivi che raggiungono la vista e forse il cuore.

Così il cielo, inimitabile, portandole le uccide: con l’ardore di chi sa tutto di nuvole e di mare, di boati disadorni suoni scuri come quelli che riducono nel niente anche la terra e l’irreale.

Sono stelle bianche e nane, stelle rosse desolate, divorate dalla luce e ritornate stelle nuove, senza mani: stelle gialle azzurre e nude dentro sguardi incontrollati nebulosi, zigzaganti come sciami.

Giorgio Bonacini, Stelle inseguitrici (2010)

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Una donnina tutta lepre Una donnina tutta lepre, sveglia, s’accontenta della giornata e beve acqua com’una spugna. Ehi, non ho mica cent’anni per aspettare che te ne vada. Sembri Lazzaro! Più tardi sfoneremo i capelli alla sera. Rivede tante case crollare per un capello, saranno persone, cose, non sa, ma non meraviglia che resti il sughero ancora sulla bottiglia del fumo. Ce la passiamo a vicenda. Anche la città s’incendia ai suoi piedi ora ch’è buio e lei evapora sulla pira, entrando in me con gas letale. Siringa. Chiudo in tempo col tappo il foro e niente è più bello qui: lo sguardo di lei sull’anello al dito, su me, poi qualcosa di buono, la stufa, quel caldo oramai più fratello d’un uomo.

Cristina Annino, Ottetto per madre, 2005

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chissà dove, arriverà del vento, con una pioggia fitta, le folate. anche, per fare prima, scrosci, fole di meraviglia, come a vigilia, a fare impacchi, bende, beveroni. nessuna banda a fare chiasso, o sì, anche, facendo prima, due tamburi, due chiostre di denti che scongiurano, quattro mani che fanno giochi d’ombra, così, per divertire. chissà dove, nitrire, frinire, facendo in fretta, nutrire un’altra fine che si stanca. fa, chissà dove, molto caldo. fanno dei fuochi, altrove, per scaldarsi. due o tre sospiri, forse, non di più.

Giuliano Mesa, Chissà, 1999

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L’inchino del predone ho un sesto senso che mi fa rapace pace già panica e forse già logica. non basto al mondo non ribasso il prezzo che non incasso. ho una lapide vermiglia intorno alla gola. qui mi meraviglio di essere la viva vedetta di me che già guarda dormire gl’indici e le vette. padre conserto madre senza latte le verità ataviche del palmo.

Marina Pizzi, L’inchino del predone (2008-2009)

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Sa Sardinna : I vecchi Qui i vecchi non parlano raschiano dalla gola boli di antichi addii densi come universi che sputano per terra come fanno gli dei. Se ne stanno seduti e reggono sul filo delle schiene lo squadro dritto dei muri per quando verrà la sera a sagomare le ombre e i loro contorni da lasciare in testamento : i vecchi, la morte li disegnerà a figura intera nella piazza del paese i più fortunati avranno anche un volto.

Lisa Sammarco, Sa Sardinna (2009)

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Può fiorire anche la ruggine se un albero è vicino, se foglie, spighe e cardi spingono e straziano di una macchina la muscolatura; è questa propulsione che ricorda allo scheletro teatrale quando le sue estremità si provano a toccare. Qual è la cosa che più amate di questi luoghi che non conoscete? Quale anemia vi coglie se intrecciate le mani alla trama screziata di strade e piazze partorite domani? Questa città è un nuovissimo sedimento che non nasconde nulla a gru e scavatrici, e non trattiene pietre impolverate, collane ossidate, cucine corrose, lenti sbeccate, piatti e quaderni, lavatrici e coltelli. Acqua di palude, germe di malaria.

Marilena Renda, Ruggine, 2012

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Ho ancora un po’ di febbre forse è la temperatura che mi apre l’intelletto e sento in frequenze insolite le solite cose che si sentono dovunque. I giornali sono fradici di notizie che sono solo necrologi: dai morti per le bombe ai decapitati malcapitati lungo una strada periferica o nel bersaglio del centro di una l/ama. Apostrofi tra le re(l)azioni ormai s’immettono tra noi sempre in uno snodo di tangenti e spesso nemmeno un sibilo,un sussurro un filo di voce mentre si consuma il suicidio perché questo credo che accada: si uccide l’altro per vedere se stessi morire più di una volta.

Fernanda Ferraresso, Nel lusso e nell’incuria (2010)

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Settentrione – Ho passeggiato in riva alla Folie. – Alle domande del mio cuore, se non ne faceva, cedeva la mia compagna, tanto inventiva è l’assenza. E i suoi occhi in deflusso come il Nilo viola parevano contare senza fine i loro pegni propagandosi sotto i ciottoli freschi. Di lunghe canne taglienti andava chiomata la Folie. In una qualche parte viveva quel rivolo la sua doppia vita. Improvviso invasore l’oro crudele del suo nome veniva a dar battaglia alla fortuna avversa.

René Char, Le Nu Perdu, 1964-1970 Traduzione di Vittorio Sereni

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Nei venti aridi del mattino la parola fiorisce che ancora non conosci mentre cammini per breve tempo ancora nella luce con le tue crudeltà e i tuoi misteri con i tuoi ozii e la tua febbre sazio come coloro che vivono non mai sazio come le cime dei più alti rami Quella parola non fu neppure taciuta solo il ginepro ardente si consuma per volontà di dire la vertigine lunga del mare nei perdimenti dei voli sul filo dell’arenile Vanamente tu credi di averla udita una volta dalle labbra di quelle fanciulle che al cuore cupo dell’alloro s’avvicinano dolci come le piogge notturne al limite della pineta Vanamente tu credi di averla perduta una volta nel brusio di una lenta estate quando ondeggia la conca del cielo nel grano delle costellazioni

Ferruccio Masini, La mano tronca, 1975

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La polvere scossa al primo rimbombo, questione di un attimo, di un niente poi il giudizio, in silenzio e in novità di luce. “Annunciali tu i nomi, tutti, leggili sulle tue carte stese, allontanami i pensieri”.

Parlano di questo andare, del cielo mirabile, non raggiunto. C’è un muro di cinta, esiste, visibile, lontano non ha confini. E nasconde il giardino.

Ma qui nulla sorregge nulla. Neppure quello sguardo che ti riverbera, non si lascia incontrare solo il sogno sale, scivola dalle mani. La destra è aperta, vi si legge dentro: vampate di pensiero agitate dal passo degli anni, dalla flessione delle voci: è la tua stanata severa linea della vita.

Dario Capello, Dove tutto affiora, 2009

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Dio L’orizzonte, le sue tenie – vaste cicatrici a disporre l’occhio alla rete – rive, ancora specchi.

Eppoi imparo a starmi cieco vedendomi visto dal nulla. Informa. E’ un progetto di estasi.

Sonno. Allargano i futuri segni a quarti fluttuanti di dicembrina luna. Muoio.

L’alba mi redime. Il Dio iroso erompe sul mio volto: è fulgido, mirabilmente assente.

Lorenzo Pittaluga, L’indulgenza, 1997

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Avrei voluto portarti con me, Ossip Emili’ovic, ma Marina ha ragione: l’America non si addice ai tuoi piedi, e so che sei contento di aspettarmi laggiù

assieme a Proserpina, e agli dei della casa a cui è stato interdetto il passaggio del mare. Quaggiù, sappi, godo l’estate delle persone non grate

in questo deserto di grattacieli posti a difesa del nulla che viene, e che vive nei fiumi, nelle grandi pianure delle metropolitane.

L’Armenia, qui, è tavolini con tovaglie a quadretti con i bordi macchiati, e non c’è spazio per le nostre lentezze, per il tuo modo di

aspettare che la notte si alzi, che vengano a dirci che è ora di andare. L’esilio si sconta nei tabacchi ignoti, nel sali e scendi per i supermercati.

Mancano, poi, le pattuglie, e per questo se ne sentono i passi avanzare, tra i tombini sopra le tombe levigate dei mezzi piani. Il mondo,

oltre il mare, è fatto per chi crede ai profeti, per i-senza-vergogna nel dire “io”. Mi manchi. Aspettami, te ne prego. Tornerò

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perché il buio di Mosca è diverso, con te e pure la radio annuncia in un modo diverso che è meglio dormire con le finestre sprangate.

Federico Zuliani, Quaderno americano (2011)

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Il suonatore Per tutto il tempo, case e paesi in ogni uguali; le piccole chiesette affrescate a vecchie voci, pantografi sfuggiti alle rondini. Io suono lo zufolo dei semplici assemblati dal lavoro, ché questa culla è l’acqua dei morti un calendario. Potessero le stelle piovigginare insieme ti conterei del cielo lombardo meno duro, di come il vento spazza i metalli e dei fossati. Dove ubriachi a volte, gli amanti, fanno il salto. Ti porterei a vedere i confetti alle vetrine, e gli abiti da sposa sorretti da un normanno che con creanza ha spilli alla bocca e mani d’oro. Le librerie dai lumi sfacciati, e le poete, sedute in uno specchio di tegole più in alto, della madonna ascesa al suo fianco. Avresti il pane, diviso sulle assi malferme dei cantieri; tappeti di rugiada e di juta per pregare sui marciapiedi senza soffitto. E ancora scale, fiumane di salmoni che spingono ad uscire per cementarsi in bocche di orso, fino a sera.

Massimo Botturi (2011)

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Chi non mangerà per non cacare e bagnerà labbra stomaco pioggia quello potrà dirsi un maestro. Colui è negazione del lavoro. Chi non proferirà parola a lungo accompagnando frase con gesto mentre l’incandescenza riverberosa della spenta lampadina nell’ufficio dell’agenzia provinciale quello potrà dirsi un maestro. Colui sta nella negazione del superfluo. Chi smemora, la duna col vento l’onda uguale che muta dietro il dumeto via dai cancelli arbitrari quello potrà forse dirsi un maestro più di quanto lo sia il crapulone il facondo l’affastellatore. Argilla e pietra nel succo identico del ripetersi.

Daniele Poletti, Immarcescibile (2012)

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Lettera (Battaglia di Nikolajewka) Abbracciami, come vedi il mondo mi ha tranciato l’osso che sostiene la carne, per questo chiama da sotto i piedi e mostra il vuoto inesorabile dello squarcio

Attraverso le vene, prendimi, prendi tutto quello che rimane

Se la mia faccia resta senza cielo e gli ultimi sogni ad occhi aperti soffocati nel fango chiudili con la delicatezza della neve

e rivolgi il mio corpo all’altezza del pianto

Nino Iacovella, Latitudini delle braccia, 2013

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Albero genealogico La mano che uccise il bambino di cinque anni a Gaza, nel 2012, era la mano di suo padre in Vietnam, nel 1967, e di suo nonno in Spagna, nel 1936. Il bambino ucciso a Gaza in Vietnam e in Spagna spirato l’ora che l’orologio indica nella chiesa bombardata in Croazia, nel 1991. Il futuro biografo del 21° secolo senza dubbio faticherà di meno.

Spyros Aravanìs, 2011 Traduzione di Massimiliano Damaggio

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Nel ritardo si scorgono le altrui ombre avvicinarsi lente ai sigilli della memoria correre per i binari paralleli del respiro stringendo in mano la rottura della luce, il capovolgimento dell’anatomia, il sacro mistero della porta socchiusa; e ancora l’apertura della maniglia interna, scorre l’altra mano, tira via la chiave del giorno dove la serratura resta una specie bianca di flessibilità del paradiso, una sconosciuta solidarietà a spirale, il gene interno marcio della differenza; e come un batterio succhia attacca l’aria vuota, ammorba la proiezione dell’epidermide invisibile, e infetta nel calco di quella forma cieca, dove contrae l’occhio la conversione orale, l’analogia del mistero.

Antonio Bux, Trilogia dello zero, 2012

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non una storia non un sogno questo silenzio semina soffio e non luce frequenza che il buio subisce e leviga trama di termine in blocchi sospesi e rintocchi nuova abitudine e vista del verso per retro d’immagine dentro la gabbia dei globi oculari che occlude i colori laddove la lima per mano rimane e poi s’agita e preme profonda come in sangue rigirandosi a spaccare i capillari dal piano remoto in cui sorgono scisse e concrete le parti e le pause sospese che fanno discorso protesa a procedere oltre al contagio all’ascesa nel farsi saliva del suono che in bocca stentato s’accenna ai moduli d’aria teatro non gesto del dire che espresso nei segni e nei codici in vertice emerge e per spazi traversi oltre i vincoli ad alba s’inscena

Adriano Padua, La presenza del vedere, 2009

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Una volta concepita la fermezza non c’è vento o idea o luce che possa scardinare l’intimità con le venature del legno della roccia della foglia delle ali o il lento velluto delle tende per tirare in qua e in là il futuro. È tutto come fosse nostro e ci accade di stare nel posto giusto al momento giusto e di fare scorta di erba per prati che non sono più oppure di perdere tempo, piccolo o grande nel fare di ogni giorno un luogo separato dai giorni e dai luoghi intorno. Come se potesse essere un bene durevole il presagio dell’occhio e della mano si insinua nella mente contemporanea e l’abitudine non è mai delusa l’abitudine abusa dell’appagamento tra i beni minimi o minori che siano. Tra i cuscini intanto cresce una muffa che sa di profezia.

Antonella Bukovaz, Sto (2014)

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La follia è protezione dal male della terra quante città sommerse per non mostrarsi mai agli invasori lasciamoli arrivare noi si rimuove il bel paesaggio e i nostri amati averi da loro disprezzati, anche i templi si nascondono a custodire i sogni il fiato sacro degli dèi le spighe nel sottosuolo, i diari segreti come pozzi d’acqua nel deserto ma solo a noi tocca sapere dove è stato steso il velo a riparare linfa e sperma respiro e ragione che il vero saggio non chiamerà follia.

Lucetta Frisa, Sonetti dolenti e balordi, 2013