Il buio dell'anima

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Alexandro Bonanno, fantasy young adults. Quante volte vi siete chiesti chi sia il Diavolo? Se la sua sia una figura reale o solo un’invenzione di qualche grand’uomo per convincerci ad avere una coscienza? Come tutti voi, i miei interrogativi si fermavano a poche domande interrotte da ciò che non può essere spiegato. Tutto cambiò all’età di diciassette anni, quando per la prima volta lo incontrai. Da quel momento ebbi un’idea molto diversa su chi fosse e di come agisse. Mi chiamo Alexander, e questa è la storia di quando per la prima volta le nostre strade s’incrociarono.

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In uscita il 30/9/2015 (15,50 euro)

Versione ebook in uscita tra fine ottobre e inizio novembre 2015

(4,99 euro)

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ALEXANDRO BONANNO

IL BUIO DELL’ANIMA

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IL BUIO DELL’ANIMA Copyright © 2014 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-916-6 Copertina: Immagine Shutterstock.com

Prima edizione Settembre 2015 Stampato da

Logo srl Borgoricco – Padova

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A C.F. per il suo affetto

sempre presente durante la prima stesura

A S.D. Che ha tradotto i miei pensieri in parole

A C.C. Che mi ha spinto a non rinunciare a questo sogno.

A J.B. e la sua “Goodbye my lover”

che puntualmente mi immergeva nelle emozioni che volevo trasmettere a quest’opera.

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INTRODUZIONE Quante volte vi siete chiesti chi sia il Diavolo? Se la sua sia una figura reale o solo un’invenzione di qualche grand’uomo per convincerci ad avere una coscienza? Come per tutti voi, i miei interrogativi si fermavano a poche domande interrotte da ciò che non può essere spiegato. Tutto cambiò all’età di diciassette anni, quando per la prima volta lo incontrai. Da quel momento ebbi un’idea molto diversa su chi fosse e su come agisse. Mi chiamo Alexander, e questa è la storia di quando per la prima volta le nostre strade s’incrociarono.

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CAPITOLO I Chiudo gli occhi ogni giorno immaginando come sarebbe andata, cosa sarebbe successo se, invece di me, il destino avesse scelto qualcun altro. Ero un ragazzo semplice, cresciuto senza mai conoscere mio padre e con un’unica guida, mia madre. Di amici, amici veri intendo, ne avevo solo due: pochi ma sacri. I confini della mia città erano visibili anche dal mio balcone, ma nonostante la realtà in cui vivevo fosse piccola e dalla mentalità spesso ottusa non mi ero mai lamentato; forse, le paure di un genitore troppo ansioso avevano fatto sì che non mi servisse nient’altro che la sua presenza. Mia madre credeva che in ogni istante potesse perdermi, ma io non avevo nessun motivo per farla stare in pensiero. Il nostro rapporto era basato sulla sincerità, non c’era niente che io non potessi dirle, niente che avrei dovuto nasconderle. Avrei voluto che tutto restasse così. Lei c’era sempre, dava un tenero sapore alla mia quotidianità con la sua costante e semplice presenza, rendendo preziosi persino i gesti più ovvi, sin dal mio risveglio. Ogni mattina, era come rivivere lo stesso film. L’immagine era sempre uguale: il suo viso con i suoi occhi grandi e pieni di amore. Scostava il caldo piumone rosso che mi avvolgeva e con una mano mi accarezzava la fronte, mentre con l’altra teneva una grossa tazza di the fumante. Odiavo alzarmi presto, ma tutte le sue attenzioni mi obbligavano a esserne felice. Era sempre troppo presto per me e lei, conoscendo i miei tempi, mi svegliava sempre con largo anticipo, altrimenti ogni giorno avrei perso l’unico autobus che portava in città. Sapeva come coccolarmi; sin da quando ero bambino, aveva sempre puntato a essere la mamma perfetta, un punto di riferimento, un’amica. Restava a gironzolare per la camera finché non scendevo dal mio amatissimo letto; nel frattempo, metteva a posto qualunque cosa un disordinato come me avesse disseminato in giro. Sì, ero viziato, figlio unico e non poteva che farmi piacere. Il sorriso non le mancava mai, così come il fermaglio della nonna che portava tra i lunghi e setosi capelli neri. La ricordo sempre così, con i capelli raccolti, e un grembiule sbiadito per i troppi lavaggi. Non vestiva gonne lunghe o i classici indumenti tipici delle madri quarantenni che si aggiravano per

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il paese. Il suo habitué erano dei jeans molto comodi e un maglione troppo leggero per le basse temperature a cui eravamo abituati. Quando spalancava le persiane, era il segnale che bisognava sbrigarsi. Mi affacciavo dalla finestra di fianco la scrivania che dava verso le montagne, giusto il tempo necessario per capire che giornata mi aspettasse. Non sono mai stato un amante del sole, a una giornata luminosa ne preferisco sempre una più ombrosa. Caldo o freddo che fosse, mi vestivo quasi sempre allo stesso modo: un jeans a tubo e una maglietta bella aderente. Il mio armadio ne era pieno, la roba larga mi faceva sentire goffo e trasandato. Anche i cappotti non erano il mio forte: sempre e solo il mio giubbotto di pelle. Non era pieno di borchie o in stile motociclista, ma fine e sexy, o almeno mi piaceva pensarlo. Amavo le cose che si fotocopiavano addosso, anche per merito del mio fisico che, tutto sommato, non era poi così male. Amavo fare ogni genere di sport, qualunque tipo di competizione attirava il mio interesse e il mio corpo ne aveva tratto i suoi benefici. Avendo quasi diciassette anni, passavo molte ore davanti allo specchio, ero molto narcisista, ma col passare degli anni speravo di abbandonare completamente quella parte del mio carattere abbastanza superficiale e irritante. Il mio viso era caratterizzato dai classici lineamenti mediterranei: sguardo profondo, sopracciglia definite e capelli castani. Il colore dei miei occhi era stato sempre un enigma, verdi o marroni a seconda del tempo. Durante le belle giornate o appena uscito dalla doccia erano chiarissimi, e quel giorno avevano assunto il colore di una foglia di menta. Prima di uscire dovevo affrontare la colazione, momento sacro in casa. Pane imburrato con la marmellata, frutta di stagione, merendine, nutella: un intero banchetto. Anna, era questo il nome di mamma, cercava di farmi ingurgitare qualunque cosa ci fosse sul tavolo, anche le posate se avesse potuto. Io aspettavo il gong come un pugile, che puntualmente arrivava quando Giò e Daniel suonavano il campanello. Erano i miei due unici e grandi amici, quasi fratelli posso dire. Non avevo problemi a socializzare con gli altri ragazzi, ma trovare persone che meritano l’importanza che l’appellativo “amico” rappresenta, è veramente impossibile. Nonostante Giò fosse più grande, un anno sfortunato alle medie, con qualche insufficienza di troppo, lo fece scivolare nella stessa classe in cui eravamo sia io che Daniel, ma non so dirvi se sia stata davvero una sfortuna. Eravamo praticamente inseparabili. Io ero il più piccolo del gruppo: il mio 31/12/1991 sotto la voce “data di nascita” non lasciava spazio a calcoli.

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Tra di noi non c’erano segreti, nessuno aveva il timore di dire come la pensasse e la regola principale era che mai, e dico mai, avremmo litigato per una donna. A differenza delle ragazze, che in gruppo tendono ad assomigliarsi nei modi come nelle apparenze, noi eravamo completamente diversi l’uno dall’altro. Daniel proveniva da una famiglia benestante, forse la più ricca della zona, ma, nonostante potesse sembrare un aristocratico, chi lo conosceva bene sapeva quanto fosse umile. Un piccolo lord selvaggio, così lo avrei definito. Il corpo esile e la pelle chiara non stonavano con i capelli corti biondo scuro, in completa sintonia con i suoi occhi azzurri. Un tipo che, guardandolo, lo avresti immaginato solo seduto davanti a una scrivania con un libro in mano e, invece, era il più avventuriero, molto alla mano, il classico personaggio che, anche se gli cade il panino per terra, si guarda intorno per assicurarsi che nessuno lo abbia visto, poi gli dà un soffio e continua a mangiarlo senza problemi. Giò, invece, sembrava avere antenati greci. La sua carnagione era scura, quasi olivastra, molto diversa dalle nostre sbiadite e verdognole sfumature. I capelli molto corti nascondevano una mole infinita di riccioli, inimmaginabile a chi non lo conosceva. Occhi neri e ciglia lunghe avevano un gran successo con le ragazze, forse per la profondità che conferivano al suo sguardo. L’unico suo difetto era un altezza modesta, per il resto avrebbe potuto benissimo fare il modello. I suoi genitori non navigavano nell’oro e lui, sin da bambino, dava il suo aiuto con il primo lavoro che gli capitava sotto mano. Ha sempre avuto la testa sulle spalle, un piccolo uomo direi. Io ero la parte razionale del gruppo, dispensavo consigli e trovavo la soluzione a tutti i problemi. Purtroppo riuscivo a farlo solo quando non ero io il protagonista. La solita sfortuna. Ero sempre riuscito a tenermi lontano dai guai, non ero un tipo che li cercava, tutt’altro. Fino a quel momento, quell’istante in cui sono uscito di casa quella mattina, tutto nella mia vita scorreva normalmente. Uscimmo di casa poco dopo le sette, correndo per i borghi della città che portavano alla fermata della corriera. Mi ostino a chiamarla "città", ma è di sicuro una parola esagerata da attribuire a Triora, un comune di montagna che sì e no conta al massimo cinquecento abitanti. La gente che ci vive sa tutto di tutti; ancora oggi, c’è la fiducia necessaria a lasciare le chiavi appese alla serratura. È impossibile che succeda qualcosa d’insolito per le sue vie, le vecchiette sono come vedette appostate alle finestre a cui nulla può sfuggire. Tutto sommato non si stava poi così male. Come quasi in tutta Italia, basta fare qualche chilometro per ritrovarti in montagna a sciare o su spiagge da sogno a prendere il sole. Peccato che mamma non volesse

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mai saperne di partire. M’impediva di allontanarmi anche solo per qualche ora senza di lei, diceva che la sua ansia era una malattia capace di guarire solo guardandomi. Non avevo mai messo in dubbio le sue parole; anche se questa sua nevrosi a volte era difficile da sopportare, non potevo che crederle. Anche Triora ha il suo fascino, ma non tutti ne apprezzano la bellezza, capaci come sono solo di lamentarsene. Vi posso garantire che, nel momento in cui le prime luci dell’alba illuminano i boschi che la circondano o il sole tramonta sui tetti delle case abbracciando ogni borgo con la sua calda luce ambrata, ogni suo difetto passa in secondo piano. Ai miei occhi non c’è nulla di più suggestivo. Come al solito, il bus era sul punto di partire. L’autista portava sempre la stessa giacca blu, con il logo della compagnia impresso sul taschino. Doveva averne un armadio pieno, perché nessuno di noi l’aveva mai visto vestito diversamente. Ci sarebbe dovuto essere assoluto silenzio, normalmente all’andata la maggior parte degli studenti dormiva, o qualche ritardatario preparava gli ultimi dettagli di un’interrogazione. Quel giorno, invece, ognuno di noi era gasato ed emozionato. Si ritornava a scuola per l’inizio di un altro anno, il penultimo prima di liberarci di quell’incubo. Dal più piccolo al più grande, chiunque si preparava ad apparire al meglio. Anche noi non ci volevamo distinguere dalla massa, dopo tutto era la prima impressione quella che ti avrebbe accompagnato fino all’ultimo giorno, non potevamo sbagliare. L’edificio, anche dopo quattro anni, era rimasto uguale alla prima volta che avevo varcato quella porta pieno di paure e insicurezze. Avete presente tutte quelle scuole con giardini immensi e cheerleader mezze nude che pascolano su tutto il campus? La mia non avrebbe preso quella piega neanche fra un milione di anni. La scuola era circondata da palazzi, solo cemento e macchine, altro che alberi o viali in fiore. Tra le ragazze straripavano i maglioni a collo alto e le super sedicenni in stile Britney Spears erano esseri mitologici. Gonnelle al vento e canottiere con vertiginose scollature? Oasi nel deserto. Forse le mie compagne non erano a conoscenza che l’Italia fosse il paese della moda. Sul pullman decidemmo quale sarebbe stata la nostra tattica, se presentarci spavaldi e spigliati o optare per un fare più misterioso e riservato. Appena scesi, attuammo la nostra strategia: passo sicuro e deciso verso l’ingresso e, mentre tutti gli altri temporeggiavano sulle scale, noi tre entrammo spediti dentro la scuola, sicuri come non mai. «Fuori di qui!» gridò Frank, il bidello. Era un uomo alto e possente, dall’aspetto trascurato, come se tutto nella vita gli fosse andato male. Non portava un’uniforme, ma ricordo una giacca beige con i bottoni neri, i gomiti sbiaditi e consumati, il colletto

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ormai strappato. Ogni cosa sembrava dire “ti prego buttami sono troppo vecchia”. Ci fece balzare in aria dallo spavento, sbraitò che avremmo dovuto aspettare di essere chiamati come tutti gli altri. Il suo vocione non era passato inosservato, attirando tutta l’attenzione su di noi e mettendo fine ai nostri progetti riguardanti la prima impressione. Uscimmo a testa bassa e senza la tanto ostentata sicurezza precedente, trovando spazio sui gradini insieme agli altri per aspettare che i nostri nomi fossero annunciati. Quell’anno eravamo davvero in tanti e ci misero un po’ prima di assegnare ognuno alla propria classe. Mentre sulle scale scherzavamo ancora sulla brutta figura appena fatta per merito di Frank, fui rapito dall’immagine di una donna ferma a osservarmi dall’altra parte della strada. Avessi dovuto segnare l’istante esatto in cui tutto cambiò, non avrei potuto che scegliere quello. Da lì in avanti niente sarebbe stato più normale. Era avvolta da un’aura misteriosa che mi spingeva a non toglierle gli occhi di dosso. Lei mi fissava e, per quanto fosse distante, sentivo il peso del suo sguardo sulla mia pelle. Sembrava mi stesse aspettando, in un attimo mi trovai perso in un cumulo di pensieri che avevano lei come unica protagonista. Sentii un fervore invadermi tutto il corpo; guardavo le mie mani e sfioravo il mio stomaco non sapendo cosa stesse succedendo, ma avevo l’impressione che dentro di me si fosse smosso qualcosa che, pur non sapendo di che entità fosse, cresceva a dismisura, riempiendo la mia anima di una sensazione piacevole che non avevo mai provato. Sentivo la preside pronunciare il mio nome, ma non riuscivo a smettere di guardare quella sconosciuta, era come se ci fosse un filo immaginario a tenerci legati; non ricordo nemmeno come fosse vestita o che colori portasse, riuscivo solo a vedere i suoi occhi, cupi e neri come la notte. Fu Daniel con qualche strattone a riportarmi alla realtà, facendomi notare che aspettavano solo noi per entrare. «Non senti che ti stanno chiamando?» mi disse ringhiando. Mi voltai solo per un attimo verso Daniel, ma lei non c’era già più, era sparita nel nulla lasciandomi nel dubbio che fosse stato solo frutto della mia immaginazione. Provai a guardarmi intorno, portando lo sguardo ben oltre il punto in cui ero convinto di averla vista: nessuna traccia di lei. «Alexander, che ti prende?» ribadì Daniel, tirandomi con forza verso l’entrata della scuola.

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Mi voltai di scatto e, con un gesto puramente istintivo, non previsto e neppure premeditato, spinsi il mio amico a qualche metro di distanza, sgranando le pupille nel momento in cui mi resi conto dell’assurdità della mia reazione. «Alex, che cavolo fai?» esclamò Giò parandosi tra me e Daniel per fargli da scudo, intimorito dal mio comportamento. Non avevo mai reagito così, né con i miei amici né con nessun altro. Percepii che i nostri tre volti dovevano avere la stessa espressione confusa. «Scusami Daniel, avevo sentito… stavo solo cercando qualcu… ehm, qualcosa» mi affrettai a dire per giustificarmi. Sapevo benissimo che non era un granché come scusa, ma l’accettarono ugualmente lasciando cadere i loro sguardi perplessi. «Andiamo, andiamo» rispose Daniel alla fine. Io annuii e, senza discutere, mi misi in fila dietro di loro, scacciando la voce nella mia testa che mi diceva di voltarmi a ricontrollare quello spazio vuoto ancora una volta. Nonostante tutto però, quella sensazione sconosciuta ma forte che avevo provato pulsava ancora nelle mie vene e nelle mie mani che non smettevano di tremare. Decisi di ignorare le vibrazioni che la mia anima mi trasmetteva, reputandole solo degli scherzi che mi faceva la mente. Mi sbagliavo e me ne accorsi quando, nemmeno un’ora dopo, incontrai Marco, il bullo della scuola. Marco non era assolutamente il primo dei miei pensieri e, seppure fossi girato, era impossibile non sentire la pesantezza dei suoi passi venire verso di me. Di solito puntava i ragazzini più gracili e solitari, nei miei confronti non aveva mai accennato a voler andare oltre le righe. Mi era passata per la testa qualsiasi tipo di scusa per giustificare quello scatto d’ira, ma l’idea che fosse stata quella donna misteriosa a fare in modo che mi aggredisse per testare le mie capacità non mi sfiorò nemmeno. Il fetore che sentii appena fu abbastanza vicino fu rivoltante. Aveva molti chili di troppo e doveva essere arrivato a scuola correndo, altrimenti non ci sarebbe stata una spiegazione plausibile a quegli aloni di sudore che trasudavano dalla sua maglietta. Fu la prima cosa che notai non appena lo degnai della mia attenzione. Mi era quasi addosso e la mia espressione doveva aver assunto dei lineamenti palesemente disgustati dalla vista ravvicinata della sua faccia. I suoi occhi erano piccoli e celesti e le lentiggini riempivano gran parte del suo viso; il suo alito era devastante, come se avesse dimenticato che esiste lo

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spazzolino. Giò arrivò subito a portarmi via, ma lui mi afferrò per il maglione sbattendomi contro il muro. «Dove credi di andare?» pronunciò, e il peso del suo fiato mi fece venir su l’intera colazione. Normalmente sarei stato il primo a evitare quella situazione, ma ero troppo confuso da quello che stavo provando per accorgermene. Anche con le spalle alla parete, la mia mente era ancora rivolta a quella sconosciuta, non riuscivo a pensare ad altro. Ritornai alla realtà solo quando Daniel, per difendermi, fu scagliato al suolo da uno degli scagnozzi di Marco. Non so descrivere cosa successe esattamente, solo uno sconvolgersi di emozioni. Non ero mai stato un tipo violento, tutt’altro, ma quando Daniel cadde, avvertii un fuoco accendersi in un secondo. Ogni singola parte del mio corpo non aspirava ad altro che far soffrire quell’idiota. Più la rabbia cresceva, più quell’essenza che sentivo scorrermi nelle vene prendeva il sopravvento sulle mie azioni. Spinsi Marco lontano da me con la mano destra, mentre con la sinistra continuavo a stringere la mia maglia all’altezza dello stomaco, come se cercassi di afferrare quel bruciore che sentivo. Marco, che non aspettava altro che una mia reazione, non perse tempo a scagliarsi contro di me. Io non provai nemmeno un soffio di paura; anzi, volevo che lui mi attaccasse, già pregustavo il momento in cui mi sarebbe venuto addosso, volevo con tutto me stesso che non si fermasse e lui non desistette provando a colpirmi. Il suo pugno non arrivò mai a destinazione. Cadde di peso e il rumore della sua testa che batteva al pavimento zittì l’intero corridoio. Non l’avevo sfiorato nemmeno con un dito, eppure le sue grida gelavano il sangue. Un dolore indescrivibile che nessuno riusciva a spiegarsi, io in prima persona. Nello stesso istante in cui i suoi polmoni smisero di dar fiato alle urla, mi sentii svuotato e disorientato. Marco non era morto, ma poco ci era mancato. Non credevo fossi io la causa, cercai di rassicurarmi pensando che avesse avuto un malore, ma l’ebbrezza che quel brivido mi aveva lasciato non era così facile da cancellare. Daniel e Giò mi trascinarono via prima che finissi nei guai con la preside, ma non mi sentivo più io. Qualcosa era cambiato, qualcosa dentro di me si era svegliato. Tornando a casa, trovai mia madre ad aspettarmi in cucina, avvolta nel suo grembiule da lavoro. Lei: cena pronta e vestiti già stirati sul letto. Non c’era niente che non facesse per me, a differenza di un padre che non avevo mai conosciuto. Lei non ne parlava molto, era facile intuire che la facesse star male, e io non riuscivo a capire nemmeno se fosse morto o se ci avesse abbandonato prima che io nascessi. Lei lo odiava

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con tutta se stessa, questo era sicuro. Si era fatta in quattro per sopperire alla sua assenza e io, per non ferirla, non avevo nemmeno mai osato chiedere di lui. In compenso parlavamo molto di me, voleva sapere tutto quello che mi succedeva, qualunque cosa facessi o mi passasse per la mente. Le raccontai quello che era successo a scuola, di quel Marco e del suo improvviso malore. Lei mi guardò in modo diverso, quasi spaventata. Notai le sue dita battere insistentemente sul tavolo, atteggiamento tipico di quando era preoccupata. La tranquillizzai dicendole che non era successo niente, che stavo bene, ma il suo viso sembrava perplesso; poi si abbandonò in un sospiro, come se avesse voluto lasciar correre. «Ti voglio bene» disse prima di spedirmi a dormire. La sua espressione non era la solita, ma non ci badai più di tanto. Fu l’immagine di quella donna misteriosa ad accompagnarmi a letto quella notte. Mi domandai se potesse c’entrare o meno con le nuove emozioni che avevo provato. Quella forza sconosciuta mi affascinava. Sapevo che, molto probabilmente, la mia fantasia ci aveva messo del suo, ma nel profondo speravo fosse reale. Finalmente mi addormentai, ma fui svegliato da un incubo. Camminavo sotto un cielo senza stelle e senza luna, su un viale stracolmo di fiori che appassivano al mio passaggio. Un fuoco si accese all’improvviso, mi fermai e sentii il bisogno di toccarlo piuttosto che di allontanarmi. Avvicinai la mia mano incurante dei rischi e, appena lo sfiorai, le fiamme divennero gelide e scure, come se anch’esso avesse perso la sua essenza. Mi alzai con la sensazione di averlo vissuto davvero. Provai ad accendere l'abat-jour, ma la mia mano tremante ci mise un po’ a trovare l’interruttore. Ero sudato, col fiatone, fissai le mie dita che, piano piano, smisero di traballare. Non mi era mai capitato nella vita qualcosa di simile. Provai ad avvolgermi nel piumone cercando di convincermi che fosse solo una giornata strana e, quello, solo un brutto sogno. Quella sera fu facile mettersi tutto alle spalle, convinto com’ero che non sarebbe più successo nulla del genere. Mi sbagliavo: era soltanto l’inizio.

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CAPITOLO II Erano passati pochi giorni dall’inizio della scuola e ormai in classe esistevano solo interrogazioni e verifiche; la Darlian sembrava adorasse metterci sotto torchio. Mari Darlian era la nostra insegnante di origini francesi, ma nata e vissuta in Italia. Nonostante non avesse mai messo piede in Francia, a eccezione di qualche gita scolastica, non faceva altro che lodare le sue radici, andandone fiera e orgogliosa. Fu un piacere immenso incontrarla a scuola nel settembre del 2006, quando sotto il cielo di Berlino, pochi mesi prima, l’Italia aveva strappato alla Francia il suo quarto titolo mondiale. Quell’anno ci torturò realmente: la sconfitta della sua amata nazionale non l’aveva proprio mandata giù e sapere che fosse quello il motivo delle sue sevizie non poteva che darci un sollievo dal sapore inconfondibile. Aveva le sembianze della classica professoressa: occhiali schiacciati e appuntiti, sempre vestita con un tailleur modesto e, tra le mani, il solito registro accompagnato da qualche libro. Quando, scorrendo i nomi in cerca della preda giornaliera o durante la lettura di noiosissimi testi, di punto in bianco si fermava per scrutare le espressioni in cerca del malcapitato sovrappensiero, era in grado di scatenare momenti di pura suspense. Credetemi, non avrei mai voluto capitasse a me perché, con un urlo a pochi centimetri dalle orecchie dello sfortunato di turno, lo faceva balzare come una molla. Tralasciando i suoi modi a volte odiosi, è rimasta piacevolmente nei miei pensieri. Ricordo ancora come fosse oggi il discorso fatto il primo giorno che l’abbiamo incontrata: “Ragazzi, questo è il giorno in cui voi intraprenderete il cammino che porta al vostro futuro. Ogni scelta, ogni azione e ogni reazione che avrete da qui in avanti deciderà il vostro destino. Prima avrete ben chiaro questo concetto e prima troverete lo scopo della vostra vita”. Mi sembrarono parole a effetto, usate apposta per impressionarci, ma col tempo capii quanto fossero saggi i suoi consigli. Non vedevamo l’ora che la campanella suonasse per metterci alle spalle l’ennesima giornata di scuola, anche se, ripensandoci, quelli erano i giorni più belli. Il liceo era a pochi passi dal mare e, in quel periodo dell’anno, l’aria era ancora calda e piacevole. Quando per l’assenza di qualche professore potevamo uscire in anticipo, restavamo seduti su

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una panchina osservando la spiaggia pronta ad accogliere qualche peschereccio che faceva ritorno, prima che l’autobus arrivasse per riportarci a Triora. Differentemente da Ventimiglia, dove risiedeva il liceo, l’estate da noi lassù in montagna era già un ricordo. L’aria si faceva fredda e pungente nel giro di una settimana, le giornate si accorciavano, le piogge erano sempre più intense e il grigiore del cielo infondeva malinconia a tutto il paesaggio. Con i compiti nel vivo, diminuiva il tempo da dedicare a noi stessi. Così, per ritagliarci un po’ di spazio, decidemmo di bigiare le lezioni, preferendo di gran lunga fermarci a casa di Daniel. Era sempre deserta, i suoi genitori erano divorziati e il padre, grazie alle sue conoscenze, era riuscito a ottenere l’affidamento, sebbene non ci fosse mai per impegni di lavoro. Per compensare le sue assenze, Carlo gli comprava qualsiasi cosa, ma per quanto Daniel avesse tutto quello che un ragazzo può desiderare, non era mai riuscito a renderlo felice davvero. Daniel difficilmente faceva notare il suo stato d’animo, ma sia io che Giò sapevamo quanto soffrisse per la mancanza di una famiglia. Dire che aveva tutto è un eufemismo. Nel primo salone, un divano di pelle nera abbracciava la parete di fronte alla TV. Non so se quegli oltre settanta pollici potessero essere catalogati nella categoria “televisione”: sembrava di essere al cinema. Sotto, nel garage, oltre alle due Porsche, c’era una stanza con il biliardo e l’hockey da tavolo. Ogni qualvolta entravo lì, mi sentivo Alice nel paese delle meraviglie. Per quanto Daniel facesse di tutto per entusiasmarsi quanto noi, di tutto quello a lui non importava e proprio la sua indifferenza ci spinse a uscir fuori di casa e abbandonare il paese dei balocchi. C’era il rischio che qualcuno ci vedesse e lo dicesse ai nostri genitori, ma l’unico a esserne preoccupato era Giò; se i suoi avessero scoperto la sua assenza da scuola, l’avrebbero di sicuro punito. Per me e Daniel era completamente diverso: io avrei raccontato tutto a mia madre di mia spontanea volontà e il mio amico, visto o no dal padre, non avrebbe ricevuto nessun rimprovero e, anche se fosse stato, non gli sarebbe di certo importato deluderlo. Ci dirigemmo verso il parco, quando sulla strada, vidi l’ultima persona che mi sarei aspettato d’incontrare. Non fui dispiaciuto nel rivederla, tutt’altro; in quei giorni avevo pensato tanto a lei, ma mi stavo quasi rassegnando all’idea che fosse stato tutto una mia fantasia. Era apparsa dal nulla come il primo giorno di scuola, questa volta a pochi passi da me. Mi guardai intorno per capire da dove fosse arrivata, poi, tutta la mia attenzione fu rapita dalla sua immagine, a piedi nudi sotto il vestito nero consumato dal tempo. Restai fermo a osservarla, incantato e affascinato dai suoi occhi grandi e scuri, così profondi da

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perdermici completamente. Passo dopo passo, senza volere, arrivai al suo cospetto. I capelli neri in disordine mascheravano gran parte del suo volto, ma fra le ciocche s’intravedeva una bellezza senza età. Mi sentivo come sotto l’effetto del miglior oppio in circolazione: confuso, incurante del tempo o dei miei movimenti, non ricordavo nemmeno quando avessi deciso di avvicinarmi a lei; eppure sembrava essere lusingata dalla mia presenza. A un tratto ruppe il suo accattivante sorriso pronunciando la frase: “Lui ti sta aspettando”. Fu come se le sue labbra si fossero mosse a rallentatore e, nonostante desse l’impressione di sussurrare, il suono della sua voce rimbombava nella mia testa scandendo quelle parole una a una. Stavolta nessuno interruppe il nostro incontro. L’esito non fu diverso. Ancora una volta, sparì nel nulla lasciandomi in un mare di domande. Restai sbigottito, non credevo a fantasmi, streghe o quant’altro, ma lei era scomparsa davvero davanti ai miei occhi. Mi voltai subito verso i miei amici, ma pareva che quella scena non l’avessero vissuta. «Avete visto anche voi quella donna? Era qui davanti a me!» dissi impaurito, mentre loro mi guardavano come se stessi delirando. «Di che stai parlando?» rispose Daniel. «Sicuro di stare bene?» aggiunse Giò. Scoppiarono a ridere, deridendomi come se fossi un pazzo. Di certo non mi stavano aiutando; anzi, le loro risatine mi fecero infuriare. Sapevo di non essere matto, io l’avevo vista, l’avevo sentita, ma loro non smisero un attimo di sghignazzare. Gli intimai di tacere, stavano esagerando, o forse ero io che non ero in grado di scherzare in quell’istante. Qualcosa da dentro mi spinse a reagire. «Basta ho detto!» Voce piena e, nello stomaco, lo stesso fervore sentito durante la lite con Marco. Non capivo cosa mi stesse succedendo. Ancora una volta me l’ero presa con i miei amici, vomitando parole autoritarie per intimargli il silenzio, quasi volessi sottometterli. Ero convinto che mi avrebbero risposto in qualche modo, o mandato a quel paese, mi aspettavo un chi ti credi di essere, ma la loro reazione fu diversa da qualsiasi cosa immaginassi o mi aspettassi logicamente. Immediatamente smisero di ridere, diventarono quieti come agnellini e avevano gli occhi privi del loro solito vigore. Non ci feci caso sul momento, ero troppo impegnato a convincermi che non fosse stato tutta un’allucinazione. Ero turbato e anche loro non erano più gli stessi. Decisi che era il caso di ritornare da mia madre, avevo bisogno di confidarmi con qualcuno che non mi avrebbe preso in giro e che mi facesse passare i sensi di colpa per aver reagito così.

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Una volta arrivato, la trovai alle prese con i soliti lavori domestici. Appena mi vide mi chiese il motivo per cui non fossi andato a scuola, ma non mi diede neanche il tempo di rispondere che, vedendo la mia espressione, capì che era successo qualcosa d’insolito che mi aveva spaventato. Si avvicinò lasciando i piatti ancora insaponati sul lavello, mi disse di raccontarle tutto, facendomi segno di sedermi sul divano. Ero ancora molto scosso, ma la vicinanza della mamma mi rassicurò immediatamente. Le dissi di aver bigiato per poter stare un po’ di tempo insieme ai miei amici e, seppure non ne fosse entusiasta, mi lasciò continuare senza fare polemiche. Man mano che il racconto proseguiva, la sua agitazione era sempre più evidente. Le sue mani erano inquiete, continuava a strofinarle sui pantaloni per asciugare il sudore: era visibilmente terrorizzata. Fui sorpreso da tanta considerazione: sapevo che la mia storia aveva dell’impossibile, ma mia madre era lì in attesa di tutti i dettagli, come se ci credesse davvero. Capendo che tra i due la più spaventata era lei, cercai di tranquillizzarla dicendole che sicuramente avevo immaginato tutto e che c’era senz’altro una spiegazione. Lei sbarrò gli occhi voltandosi in direzione della finestra. «Mamma, tranquilla! Sto bene!» dissi prendendole la mano. Lei abbassò il capo per un paio di secondi e, quando lo rialzò, fu completamente diversa. «Dai, dai! Smettila di dire idiozie e vatti a preparare la valigia che domani dobbiamo partire!» Restai allibito dal suo repentino cambio d’umore e dalla sua risposta, non avevo dimenticato i suoi occhi pieni di paura di un istante prima, si capiva lontano un miglio che non era sincera, che a quel racconto lei ci credeva. Allora perché quel finto disinteresse improvviso? Andò in cucina e io la seguii. «Che succede mamma?» «Niente, sei tu che fantastichi troppo con la mente» rispose riprendendo i piatti che aveva abbandonato. «Non sembrava non ci credessi qualche minuto fa. E poi, dove staremmo andando?» domandai infastidito. «A Saorge, dalla zia Madalina, non sta tanto bene e ha urgente bisogno di noi.» Per la prima volta mi ritrovai a dubitare della sua onestà, ma sentendola preoccupata, decisi di lasciar correre. Chiesi maggiori dettagli sulle condizioni della zia e poi andai dritto in camera mia. La sua reazione mi aveva fatto nascere diversi dubbi. Era strano che lasciassimo Triora, non era mai successo prima e la faccenda puzzava parecchio. Decisi

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che era inutile star lì a interrogarsi se fosse vero o meno, arrivando a Saorge l’indomani avrei trovato la verità davanti ai miei occhi. Mettendo da parte il malore della zia, mi resi conto che il viaggio mi aveva dato un pizzico di buon umore nonostante le vicissitudini della giornata, perché mi sarei potuto saltare qualche giorno di scuola ed ero curioso di rivedere la mia unica cugina Sophie. Avevamo la stessa età, solo pochi mesi di differenza; erano passati tanti anni dal nostro ultimo incontro: all’epoca giocava ancora con le bambole e portava uno scintillante apparecchio. Andai a dormire rimandando la preparazione della valigia al mattino. Ero troppo contento di andare a Saorge, quando si è abituati a non vedere mai qualcosa di diverso dal proprio paese, anche una visita a una zia malata riesce a metterti una buona dose di eccitazione. Quel mattino non lo dimenticherò mai: per la prima volta, mia madre non era in camera a svegliarmi con baci e carezze. Mi alzai disorientato e preoccupato che le fosse successo qualcosa. Scesi i gradini lentamente, strofinandomi ancora gli occhi per il sonno e inciampando in uno dei tanti bagagli già pronti e sistemati all’ingresso. «Ahia!» imprecai e, con ancora il tono sofferente, invocai mia madre. Lei apparve dalla cucina, il viso incupito, come se non avesse riposato. «Che è successo?» le chiesi spaventato. «Niente, ma è ora di andare. Preparati che ti aspetto in auto.» La sua riposta mi lasciò perplesso, senza parole. Non erano i rituali mattutini infranti a lasciarmi di stucco, quanto il suo atteggiamento e la freddezza nella sua voce. La seguii con lo sguardo dalla finestra mentre incastrava le valige che aveva preparato nel cofano come se fossero lego. A giudicare da quante ne stava sistemando, sicuramente non sarebbe stato un viaggetto di pochi giorni e la sua triste espressione non poteva che lasciar presagire che la zia fosse in condizioni molto gravi e avesse immediato bisogno di noi. La nostra macchina non era grandissima: una cinquecento rossa in stile Ferrari, che purtroppo di Ferrari aveva solo il colore, il motore di certo non era agli stessi livelli. Mia madre aveva scelto la più economica della serie; in fondo, non faceva nemmeno dieci chilometri al giorno e io non riuscii a far nulla per convincerla a prendere l’Abarth. Filai di sopra a vestirmi come mi aveva ordinato, senza perdere altro tempo. Aprii l’armadio e, come ogni volta che dormivo troppo poco e andavo di fretta, presi i primi vestiti che mi capitarono. Giuro! Non so chi ce l’abbia messo, ma vi posso garantire che quel maglione giallo che indossai quella mattina, non era mai stato catalogato nel mio guardaroba. Purtroppo lo capii troppo tardi, quando uscendo di casa riuscii a strappare un sorriso a mia madre.

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Anzi, a pensarci bene, lo definirei più che altro una smorfia. Ci mettemmo in cammino, sicuro che, arrivati a casa di zia, la prima cosa che avrei fatto sarebbe stata far sparire le tracce di quell’ingiurioso pullover. Saorge non era molto distante, per lo meno in linea d’aria, ma come tutti i borghi avvolti dalle montagne, la prima cosa che avvisti è la punta del campanile che sbuca tra gli alberi. Credi di essere arrivato, ma in realtà ti ritrovi a far su e giù per infiniti tornanti e prende sempre più piede l’idea che la sommità di quella chiesa vista da lontano sia stata solo un miraggio. Avrei voluto parlare durante il viaggio, ma tra quelle curve, sotto la guida di mia madre, avevo timore ad aprire la bocca non sapendo se sarebbero uscite parole o anche quel misero cornetto mangiato nell’area di servizio. Saorge è in Francia, pochi chilometri dopo il confine e, a un primo sguardo, notai subito la somiglianza con il mio paese natale: le strade sconnesse, gli alberi imponenti oltre la carreggiata, persino una vecchietta alla ricerca di qualche fungo. Era come se stessi vedendo il solito film, ma in versione francese e con l’audio in lingua diversa. Pensai alla Darlian, che avrebbe sicuramente apprezzato questa mia vacanza, “La France c’est la France” e nessuno poteva toccargliela. Zia Madalina abitava in una via che portava al centro, in una delle rare residenze che s’intravedevano sulla strada. Non sembrava però essere una villa, piuttosto una casa troppo grande. Una casona! Quando finalmente fummo arrivati, giallo in viso per tutte quelle curve, scesi dalla macchina appoggiandomi allo sportello per prendere una boccata d’aria e solo al terzo sospiro riuscii a calmare il mio stomaco dall’esigenza di liberarsi. La zia uscì subito di casa per accoglierci e venne verso di me a passo veloce abbracciandomi senza alcuna fatica. In viso non mostrava nessun segno di malattie o sofferenza; anzi, tra i due sembravo decisamente io il moribondo. «Sophie, sono arrivati!» gridò la zia prima di prendere la sorella per un braccio e appartarsi da sole in casa. Non avevo mai visto mia madre così agitata, mi sembrò quasi che la zia non avesse nessun problema. Mentre si allontanava, provai a leggere il labiale, ma ovviamente non ero in grado di farlo; ero riuscito a sentire solo i primi bisbigli: “Mi dispiace di essere arrivata qui così, non sapevo cosa fare”. Non saprei dire se fossero state queste le esatte parole, perché la mia attenzione fu interrotta dall’arrivo di Sophie. «Oddio, ma quel maglione è vero?» disse appena mi vide. Mi limitai ad annuire sapendo che aveva totalmente ragione. In compenso però, visto che dopo quelle due ore di viaggio il mio viso era

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diventato persino dello stesso colore, nessuno poteva dire che non fossi abbinato. Osservandola per bene, notai che la bambina di un tempo era sparita: capelli biondi lunghissimi avevano preso il posto delle treccine che ricordavo e l’apparecchio scintillante che portava era svanito lasciando spazio a un radioso sorriso. Era diventata una meravigliosa ragazza, non troppo snella da essere quasi anoressica, ma rotonda nei punti giusti. Smisi di guardarla ricordando che era pur sempre mia cugina; di sicuro, però, se l’avessi incontrata per strada, avrei già provato a conoscerla. «Sì, lo so già. Sono bellissima, vero?» mi disse accorgendosi del mio sguardo non troppo fraterno. «Non tirartela troppo!» risposi, anche se ero pienamente d’accordo con il suo auto-complimento. Era vestita in modo semplice ma raffinato: jeans firmati, come il maglione e le scarpe, una cintura rossa e un braccialetto classico Oops! dello stesso colore. Doveva amare il rosso, perché nessuno metterebbe casualmente almeno due accessori dello stesso colore. Mi chiese se stessi bene e io le risposi che c’erano stati di sicuro tempi migliori, si avvicinò e gentilmente si offrì di portarmi lo zaino. Stavo per affibbiarglielo, ero stanco, assonnato e la nausea non era ancora sparita del tutto, ma ero un uomo, che figura ci avrei fatto? Tirai su la testa e, rifiutando quell’affronto, chiusi la macchina e ci avviammo verso l’ingresso. Lei sorrise. Dovevo avere proprio un brutto aspetto perché, prima ancora di indicarmi quale fosse la mia stanza, mi indirizzò verso il bagno suggerendomi una doccia calda per riprendermi. Io a testa bassa la ringraziai e seguii il suo consiglio: gettarmi sotto l’acqua e non uscire prima di un’ora. La casa era molto curata, i mobili in legno pregiato e i tappeti ricoprivano quasi tutto il parquet. All’interno sembrava ancora più grande: due piani immensi più una mansarda. Avrebbe ospitato minimo dieci persone, eppure erano solo in due ad abitarci. Anche Sophie era orfana: suo padre era morto in uno strano incidente durante una trasferta di lavoro, o almeno questo è ciò che mi aveva raccontato mia madre. Ogni volta che vedevo qualche sua foto in una cornice, non potevo fare a meno di pensare al mio: se non altro Sophie aveva dei ricordi, mentre io non sapevo nemmeno quale fosse il suo volto. La doccia ebbe decisamente un suo perché, ne uscii completamente rinvigorito nel corpo e nello spirito. Usai un accappatoio piccolo e rosa che allo specchio mostrò un’immagine del tutto inquietante che mi convinse a vestirmi immediatamente. Stavolta andai sul sicuro: jeans

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aderente scuro, il mio preferito, e una maglietta bianca attillata, di quelle termiche che pubblicizzano sempre. Senza bussare, Sophie entrò in camera mia chiedendomi se avessi bisogno d’aiuto: ero ancora a torso nudo e il suo sguardo si perse per qualche secondo sulla mia pelle. La sua espressione fu appagante e non persi tempo a renderle la battuta di qualche ora prima. «Sì, lo so già. Sono bell…» «Ma smettila!» esclamò voltandosi e sbattendo la porta prima che il suo viso arrossato potesse tradirla e darmi dazio. Uno a uno e palla al centro pensai mettendo la maglia e raggiungendola di sotto. Pranzammo presto, lì si usava mettersi a tavola già alle dodici, orario discutibile per noi che eravamo abituati a pranzare quasi alle tre. Anche se l’appetito scarseggiava, mi sedetti comunque a tavola. Fissavo la zia in ogni istante, in attesa di un attimo di debolezza che confermasse il bisogno urgente di andare a Saorge, ma non mostrava alcun bisogno d’aiuto; differentemente, mia madre era molto più agitata e frenetica. Ero sempre più convinto che mi stesse mentendo e che non eravamo a Saorge per la povera Madalina. Nel pomeriggio, appena ebbi la possibilità di restare da solo con Sophie, chiesi notizie più sicure e, tentando di non farmi accorgere, domandai come andassero le cose, per scoprire il più possibile sulla fantomatica malattia. Sophie, però, non era una tipa facilmente raggirabile e, alla seconda domanda, mi chiese direttamente cosa volessi sapere. Restai affascinato dal poco tempo che aveva impiegato a smascherarmi e, senza negare, domandai quali fossero le sue condizioni. Lei fece un’espressione stranita e strinse le spalle. «Normali, suppongo. Perché me lo chiedi?» Non sapevo cosa rispondere, così optai per la verità, rivelando i miei dubbi sul nostro viaggio. Lei disse che di sicuro sua madre stava bene, lo avrebbe saputo se fosse stato il contrario. La ringraziai filando in camera mia con molti più dubbi di quanti ne avessi prima, ma una domanda in particolare mi tartassava la mente: perché mia madre mi aveva mentito?

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CAPITOLO III Il sole batteva dritto sulla finestra che puntava al mio cuscino. Non ero nel mio materasso, ma riuscii comunque a riposare, cosa molto strana per me. Di solito, quando mi capitava di restare da Daniel o da Giò, non riuscivo a chiudere occhio, passando intere notti a fissare il soffitto. Erano le undici, la casa era completamente vuota, Sophie era a scuola, mentre mia mamma e la zia erano uscite a fare un po’ di spesa. Lo capii aprendo il frigorifero: completamente vuoto, se non fosse stato per due confezioni di sughi pronti. La zia non doveva essere un’abile cuoca. Vagai un po' per tutta l’abitazione: era immensa, tanto immensa quanto sprecata. In quasi tutte le stanze nessuno sembrava averci messo piede, lo si capiva subito dal cigolio delle porte. C’era della polvere, ma non di sporco, assolutamente: era fuliggine. Evidentemente doveva esserci stato un incendio nei giorni precedenti e la donna delle pulizie ancora non era passata. Immaginai mia madre che, da quando si svegliava a quando andava a dormire, era costantemente alle prese con i lavori domestici; se abitasse qui, non le basterebbe nemmeno un giorno di quarantotto ore per finire. C’era persino una camera dedicata alla palestra: lo zio non aveva tempo per andarci e aveva scelto di costruirsela nella sua proprietà. Non sapendo cosa fare o dove andare, tolsi i lenzuoli che coprivano le macchine e feci un po' d'esercizio. Tornarono tutti mentre io ero ancora sotto la doccia. Sophie salì su e, bussando alla porta del bagno con insistenza, mi obbligò ad aprire. «Sono nudo Sophie, aspetta un attimo!» esclamai, ma lei mi disse di sbrigarmi con la voce tutta eccitata. Girai un asciugamano intorno alla vita e uscii per capire cosa ci fosse di così urgente. Lei rispose che non potevamo restare chiusi in casa con quella splendida giornata di sole. «Ho un segreto da rivelarti, sempre se non hai troppa paura» aggiunse. Non mi conosceva ancora, ma aveva già capito che adoravo le sfide. Non risposi nemmeno, mi vestii velocemente e, dopo aver mangiato un boccone, uscimmo. Le chiesi dove fossimo diretti, ma ancor prima che potesse rispondermi arrivammo da alcuni suoi amici che erano lì ad aspettarci. «Ti sei portata il ragazzo, Sophie?» disse uno di loro.

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Si chiamava Joseph, doveva essere un suo pretendente visto il tono pungente e geloso con cui si era rivolto a noi. Guardandolo, sperai non fosse il suo tipo: fisico gracilino e capelli troppo curati per essere un uomo; i lineamenti non erano male, ma la sua aria da fighetto di certo non lo rendeva affascinante. «Magari, purtroppo sono solo suo cugino, non me la sarei fatta di certo scappare.» Sophie sorrise compiaciuta, anche a lei i modi di Joseph non dovevano andare particolarmente a genio. Sembrava esattamente uno di quei classici tipi che pensa di essere bello e, per questo, si ritiene autorizzato a dire qualunque cosa pensando di essere simpatico. Provai a chiedere loro dove fossimo diretti, ma restarono in silenzio. «Non fate parte di una setta che sacrifica i nuovi arrivati su un altare in nome di qualche Dio, vero?» ironizzai stranito da tutta quella segretezza. «Tranquillo, ci sarà da divertirsi» disse all’improvviso una voce sottile e provocante che comunque non rispose alla mia domanda. Guardai attentamente in direzione di quel sussurro. Era una ragazza smilza, non molto alta, ma con un seno molto prosperoso che i vestiti riuscivano a malapena a nascondere; anzi, sotto la canottiera bianca s’intravedeva un reggiseno molto provocante in pizzo, che non mi fece capire nemmeno di che colore avesse gli occhi. Dovevano essere celesti. Sì, decisamente celesti, e i capelli forse castani. Non amavo il taglio corto su una donna, ma tutto sommato su di lei non sfiguravano. Il suo nome era Elisa. Ci mettemmo in cammino e, dopo quasi un’ora a pascolare nel bosco, finalmente fummo in procinto di arrivare. Sentii l’aria più umida e un rumore scrosciante che sembrava infrangersi su dei sassi. L’espressione di Sophie mi fece capire che c’eravamo quasi e, dopo qualche passo, eravamo finalmente sulla cima di una piccola montagna che segnava la meta. La vista che mi si dischiuse davanti agli occhi aveva dell’incredibile: il sole si rifletteva sulle rocce bagnate da un piccolo fiumiciattolo che si buttava giù per la collina formando una cascata. Il cielo era blu senza l’ombra di una nuvola, e l’acqua aveva lo stesso identico colore. Il verde degli alberi serviva un ottimo contorno. Sembrava di essere in un quadro di Canaletto dai colori vivi e sgargianti. Il panorama toglieva il fiato, è vero, ma non riuscivo davvero a capire se avessimo fatto tutta quella fatica solo per giungere fin lì o ci fosse dell’altro. Quale sarebbe la sfida? Avere il coraggio di camminare fin quassù? Quasi quasi avrei preferito la setta pensai deluso. Mi aspettavo

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qualcosa di più avvincente, ma subito fui sonoramente smentito da Elisa. «Fai presto, ti aspetto giù» mi disse avvicinandosi con tutta la calma e la malizia del mondo. Solo queste parole e poi, senza pensarci un attimo, con un salto volò di sotto. Esatto, proprio ai piedi di quella cascata. Guardai Sophie esterrefatto, ma la sua espressione, per niente turbata da quel gesto, mi fece capire che era quello il segreto da mantenere. Joseph, con tono altezzoso, m’indicò la strada da fare in caso non avessi avuto il coraggio di lanciarmi. Diedi un’occhiata in basso: Elisa sembrava essere uscita dall’acqua sana e salva. I massi che scintillavano laggiù mi spingevano a scendere a piedi, ma ormai non potevo tirarmi indietro. Pentendomi immediatamente di quello che stavo per fare, dissi a Joseph che poteva anche avviarsi da solo lungo il sentiero e mi lanciai anch’io giù dal precipizio. Una volta fatto quel passo non c’era più nessuna via di fuga, nessuna possibilità di tornare indietro: solo aria, acqua e adrenalina nelle vene. Il cuore mi balzò in gola e lo stomaco sembrava non fare più parte del mio corpo. La velocità m’impediva di tenere gli occhi aperti e la tanto sospirata fine sembrava non arrivare mai. A saperlo prima, non avrei desiderato così tanto di raggiungere l’acqua, perché appena la sfiorai fu come se mille aghi fossero lì ad aspettarmi per trafiggermi crudelmente. Per un attimo fui paralizzato, l’impatto era stato violentissimo e restai più di qualche secondo senza fiato. Elisa era in riva ad aspettarmi, prese la mia mano tremante per il freddo e mi portò in un rifugio lì vicino che, a guardare la sicurezza con cui si dava da fare, doveva essere di qualcuno di loro o sicuramente abbandonato. Entrò spedita, prese legni e diavolina e accese subito il camino. Era il tipico chalet di montagna: c’era il focolare, un orribile tappeto e l’immancabile testa di un povero animale appesa alla parete. I miei denti continuavano a battere, nonostante la stanza fosse molto più calda, ma fu solo quando Elisa si sfilò la maglietta sotto il mio sguardo sorpreso ed eccitato che il mio corpo smise di tremare. Quel gesto aveva riscaldato l’ambiente più di quanto avesse fatto quel focolare fino a quel momento. Dalle mie parti sicuramente le ragazze non erano suore, ma non mi sarebbe mai potuta succedere una cosa del genere. «Gli altri non arriveranno prima che io gli dia l’ok» disse schiacciandosi il reggiseno per strizzare via l’acqua e aggiungendo di essere felice che mi fossi lanciato. Con gli occhi mi aveva invitato a raggiungerla vicino al fuoco. Mi sentivo protagonista di un film vietato ai minori, e ringraziai Dio in

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ogni secondo per essere venuto a trovare la zia, almeno fin quando non mi avvicinai poggiandole le mani sui fianchi. «Che diavolo stai facendo?» disse voltandosi di scatto e lasciandomi di sasso. Mi allontanai subito, convinto di aver preso un abbaglio colossale nonostante i suoi gesti e il tono della sua voce mi fossero sembrati chiari. Le chiesi scusa; imbarazzato e in preda alla vergogna, feci finta di aggiustare la brace, cosciente che non avrei mai più avuto il coraggio di guardarla in tutta la mia vita. Lei durò solo qualche secondo, prima di scoppiare a ridere, divertita dal suo gioco perverso. «Stavo scherzando, stupido!» disse tirandomi dalla maglietta; poi, allungandosi sulle punte, mi diede un bacio. Le sue labbra erano gelide e bagnate, le sue mani mi facevano drizzare la pelle a ogni carezza. Ancora un po' confuso per il suo modo di fare, mi lasciai trasportare dal suo impeto senza opporre resistenza. Mi ritrovai sdraiato su quell’orribile tappeto con lei intenta a sfilarmi quell’ormai insopportabile maglietta. Sentivo il suo corpo desiderarmi e la sua carne cercare ansiosamente il contatto con la mia. Mi baciò sul collo, poggiando il suo seno sul mio torace nudo e umido. Ero completamente nelle sue mani, sensuale e provocante come nessuna delle ragazze che avevo mai conosciuto. Seppure avessi freddo e i vestiti fossero bagnati, credetti di sudare. L’aria si era fatta bollente, ma in un secondo mi sembrò di cadere di nuovo nelle acque gelide del lago. Le sue labbra mi sfioravano il collo quando, avvicinandosi all'orecchio, invece di regalarmi altre emozioni, si fermò. «Non è il momento, gli altri ci aspettano e io non posso certo accontentarmi di pochi minuti» sussurrò lasciandomi impietrito. Mi lanciò una trapunta presa da un armadio, poi uscì fuori e diede il via libera ai ragazzi che, diversamente da noi, avrebbero trovato un ambiente caldo e accogliente al loro arrivo. Mi coprii come un cane bastonato e mi avvicinai al fuoco. In viso avevo l’espressione delusa di chi, sul filo del traguardo, inciampa e perde la gara. Dopo aver posato le altre coperte sulle sponde del lago, Elisa tornò nel rifugio e, vedendomi visibilmente segnato, si mise a ridere. La guardai senza dire una parola, ma poi, con il suo solito fare da “femme fatale” mi fece capire che non sarebbe trascorso molto tempo prima che il nostro incontro avesse avuto un seguito. Il suo atteggiamento mi aveva dato non poco fastidio, odiavo essere trattato come un giocattolo, ma avrei dovuto aspettarmelo da una tipa come lei, predatrice consapevole del proprio effetto ammaliatore e per questo capace di giocare abilmente con la sua conquista prendendo qualsiasi cosa desiderasse da

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lei. Nonostante tutto però, quella ragazza aveva scatenato in me una voglia di continuare il nostro incontro tale da farmi mettere da parte il mio orgoglio ferito. Uno a uno, arrivarono tutti, anche Sophie, che non immaginavo potesse essere una ragazza così intrepida, ma soprattutto incosciente. La osservavo bene per cercare di capire che tipo fosse e, nel vederla scherzare e ridere con i suoi amici, non mi dispiacque: non privava nessuno del suo sorriso, neanche Joseph, che molto spesso le si avvicinava cercando quel contatto non proprio amichevole. Ero già geloso di lei, mi infastidiva anche solo se la guardava, ma Sophie era abile e scaltra, sgusciava da ogni suo viscido approccio senza che nemmeno lui potesse accorgersene. Mi sfuggì un piccolo sorriso di approvazione; era così, era stata promossa. Elisa continuava a guardarmi di nascosto, attenta a non farsi scoprire dai suoi amici. Oltre a lei e Joseph, c’erano altri due ragazzi, di cui però non ricordo bene il nome: Carmen, Carmela o qualcosa del genere, era timida e riservata, lontana un miglio dalla sua amica. L’altro invece era un tipo un po’ imbranato, a mio avviso innamorato di Elisa, ma troppo gentile nei modi per attirare il suo interesse. Vederli tutti insieme mi fece venire in mente i miei cari amici: chissà se loro si sarebbero lanciati. Non vedevo l’ora di raccontargli di quella strepitosa giornata. Abbandonammo quel rifugio appena i nostri vestiti tornarono asciutti. Durante il ritorno, Sophie ed Elisa restarono da sole a spettegolare e, a giudicare dalle frequenti occhiate che mi arrivarono, capii che stavano parlando di me. Salutammo gli altri e tornammo a casa che erano le otto, in ritardo per la cena che era già sul tavolo. Gli odori erano differenti dal solito; per quanto i nostri paesi fossero molto vicini, le tradizioni erano completamente diverse e zia Madalina, ormai, cucinava solo pietanze francesi. Il piatto di quella sera era una zuppa: patate immerse in una brodaglia che sembrava il mio latte con i cereali, a differenza del colore rosso. Alla vista non sembrava molto invitante, ma lo sguardo intimidatorio di mia madre mi convinse ad assaggiarla; di sicuro non era buona come i piatti a cui ero abituato, ma il sapore non era male. L’unica cosa che mi preoccupava era il forte odore di cipolla che ero certo non sarebbe andato via tanto facilmente. Quel pomeriggio Sophie ed Elisa mi avevano fatto dimenticare i dubbi che mi avevano assalito la sera precedente. Salii su in camera e mi sdraiai sul letto esausto e tormentato da un solo pensiero: quando avrei rivisto Elisa. Caddi in un sonno profondo, senza nemmeno immaginare che Sophie avesse già disposto la data e che, a momenti, avrebbe bussato alla mia porta…

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CAPITOLO IV Dormivo come un sasso, mi sembrava di non riposare da giorni, ma durò poco, troppo poco. Sophie, facendo silenzio e attenzione, entrò in camera e, stupefatta che io stessi già ronfando, mi tirò uno scossone che mi fece balzare in aria. «Come puoi dormire?» mi disse sotto voce. «Che altro dovrei fare?!» Mi sembrava molto scontata la mia risposta, ma evidentemente non lo era per lei che, durante il ritorno dalla cascata, aveva organizzato la mia uscita con Elisa senza chiedermi nulla. «Ma come? Elisa è già qui fuori che ti aspetta!» «Adesso?» risposi stupito. Sophie si limitò a dire di sbrigarmi e di non fare tardi; poi, con un mezzo sorriso, mi raccomandò di non divertirmi troppo e di non farmi scoprire. Volevo dirle qualcosa, ma non avendo mai avuto nessuno che mi organizzasse incontri segreti in piena notte, non mi restava che ringraziarla. Dopo essermi spruzzato al volo un po' di profumo, misi in atto il suo consiglio e furtivamente uscii di casa. Elisa era lì dietro l’angolo, avvolta in uno sciarpone rosso, con tanto di cappello in tinta. «Non sapevo che ci saremmo incontrati stasera» mi giustificai. «Te l’avevo detto che non sarei riuscita ad aspettare così tanto. Ti dispiace passare la serata con me?» Le risposi di no ed era ovviamente la verità. Lei prese la mia mano dicendomi di seguirla. Non feci alcuna obiezione, anche perché non avrei saputo dove andare nei vicoli bui di Saorge. Mentre camminava davanti a me, sotto un giubbottino bianco avvitato, notai un abitino striminzito molto corto con dei merletti neri sopra le calze a rete, molto probabilmente autoreggenti. Era provocante e sapeva portare i tacchi come una vera donna; il suo lato b ondeggiava creando un movimento quasi ipnotico: sapeva che lo stavo fissando, ma credo fosse proprio quello il suo scopo. Mi fece entrare in un vecchio garage, ma al suo interno non aveva nulla da invidiare a una camera arredata: c’era la TV, una libreria e tanti DVD sparsi sul tavolino davanti al sofà in alcantara beige e molto spazioso. Le pareti erano color sabbia, senza nemmeno l'ombra di un quadro o di una foto. L’odore dell’incenso inondava tutta la stanza e lei

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si tolse il piumino mostrando il suo vestitino di seta nera con delle piccole rose rosse attaccate a una scollatura quasi indecente. Mi sedetti su quel pregiato divano e lei mi venne vicino. Era rimasta in piedi a farsi ammirare dai miei occhi visibilmente appagati. Poi, come se stesse montando in sella a una moto, mi si mise sopra. Non scambiammo nemmeno due parole, io ero lì per quello e lei non era da meno. Quel microscopico pezzo di stoffa che la avvolgeva non poté fare altro che alzarsi e mostrare il perizoma rosso in pizzo quasi trasparente. Il mio cuore iniziò a battere più forte, l’eccitazione era evidente e lei, mettendomi una mano intorno al collo, mi spinse verso il suo seno. Capezzoli duri da mordere e pelle liscia come la seta. Appena la sfiorai con la bocca, lei ansimò come se non aspettasse altro che la facessi mia. Mi persi su di lei assaporandone ogni centimetro, mentre con le dita facevo scendere la prima spallina. Non portava il reggiseno e, quando spostai anche la seconda, il suo vestito cadde leggero come una piuma lungo i fianchi, scoprendola completamente. Spostai i capelli dal suo viso e cominciammo a baciarci. La sua attenzione si diresse sui miei vestiti: prima la maglietta, subito dopo i pantaloni. Sentivo le sue unghie graffiarmi la schiena e il suo ventre ondeggiare sul mio. Il suo respiro era sempre più pesante e, quando entrai dentro di lei, dalle sue labbra uscì un gemito che mi fece rabbrividire. Non era la prima volta per me, ma quel brivido era qualcosa che andava al di là del semplice amplesso. Avevo già avuto esperienze con altre ragazze, ma quella notte non la dimenticherò mai. Lei, come se fosse tormentata da una sete incontentabile, bramava piaceri che solo la mia carne avrebbe potuto darle; al contrario, io non riuscivo a far altro che desiderare la sua mente. Cominciai a sentire sensazioni che non erano mie. Lussuria, desiderio: qualsiasi cosa volesse il suo cervello, io riuscivo a percepirla. Oltre che del suo esile corpo, mi stavo nutrendo della sua anima. Potevo ascoltare le sue voglie e realizzarle. Era incredibile quello che stavo sentendo e, dai suoi lamenti, capii che anche per lei doveva essere lo stesso. Si era lasciata completamente andare alla mia guida, ma era impensabile immaginare che, più che dirigerla, la stavo possedendo. Io comandavo e lei ubbidiva a ogni mio singolo ordine. Non potevo ancora saperlo, inavvertitamente stavo schiavizzando la sua mente e violentando la sua anima. Quella fu la prima volta che mi trovai a sbirciare nel profondo di una persona, ma a quei tempi non ero ancora a conoscenza del mio potere. Non fui in grado di darmi una spiegazione logica, pensai fosse solo

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un’incredibile alchimia, una sensazione esercitata dalla troppa eccitazione, ma non era così. La notte passò in un istante senza che i nostri corpi avessero un attimo di tregua. Gli occhi celesti di Elisa sembravano eclissarsi sempre di più col passare dei minuti, come se avessero perso la loro luce. Era diversa. Mi fermai di colpo, annoiato dal suo amorfo cambiamento. «Andiamo via, è tardi» dissi indispettito. Dalla sua bocca uscì un flebile sì: anche la voce si era trasformata. La malizia e la sicurezza che l’avevano distinta sin dalla mattina erano svanite, come se fosse stata svuotata di tutta la sua essenza. «Va tutto bene?» chiesi con tono scocciato, quasi fosse un rimprovero. Stavolta fece solo un cenno col capo per annuire. Sembrava confusa, frastornata. Restò qualche minuto in silenzio, con le ginocchia raccolte fra le braccia e lo sguardo fisso sulla parete davanti al divano. «Non so cosa mi sta succedendo» esclamò spaventata. Raccolse i vestiti e, indossandoli di corsa, scappò via da quel garage. Avrei dovuto dirle di fermarsi, ma non lo feci. La lasciai andare, incurante di cosa le fosse preso. Feci ritorno a casa con la mente completamente appannata, non riuscivo a pensare a niente e, non appena sfiorai il cuscino, caddi in un sonno profondo che non avrebbe placato la mia inquietudine. Il sogno di qualche giorno prima era riapparso dal mio subconscio. Perché di nuovo le stesse immagini, perché ero così attratto da quel fuoco oscuro? Fu Sophie a risvegliarmi da quell’incubo. Entrò in camera mia per sapere i dettagli della serata, ma ero troppo stanco per risponderle. Le mugugnai di chiederlo alla sua amica, ricordandole che erano già le otto e lei doveva andare a scuola. Disse di odiarmi, ovviamente scherzava, ma era troppo tardi per insistere. Per fortuna se l’era filata, altrimenti non avrei nemmeno saputo risponderle visto come si era conclusa la serata. Provai a riaddormentarmi, ma il mio stomaco non mi dava pace, dovevo mettere qualcosa sotto i denti se volevo riprovare a chiudere occhio. Scesi in cucina con l’idea di stuzzicare qualcosa, controllai un po’ in giro, ma la mia ricerca fu interrotta non appena sentii mia madre intraprendere una di quelle conversazioni a quattr’occhi con la zia. Non potevo non origliare, mi stava nascondendo qualcosa e io dovevo sapere. Mi raccolsi dietro l’angolo senza farmi notare e provai ad ascoltare attentamente ogni parola. «Mi dispiace Anna, ma non so cosa consigliarti» disse la zia. «Lo so, ma cosa potrei fare? Non possiamo restare qui in eterno, e poi lo troverebbero comunque.»

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«Devi dirglielo!» «E come faccio? Che gli dico? Alexander, sai, in realtà tuo padre…» «Calmati! Calmati! Non sai nemmeno cosa vogliono.» «Stai scherzando? Ricordi di chi stiamo parlando? Credi possa essere qualcosa di buono?» esclamò mia madre. «Scusami, quindi che si fa?» «Non lo so, ho tanta paura di perderlo. E se diventasse come lui?» «Non può succedere, è TUO figlio! L’hai cresciuto tu! Non può succedere!» Quella frase mi fece sussultare e il mio gomito fece rumore battendo sul muro. Non si accorsero di me, ma smisero di parlare e io tornai in camera per evitare che mi scoprissero. Avevo capito che intorno alla mia fuga, perché di fuga si trattava, c’era l’ombra di mio padre. Purtroppo non avevo la piena certezza di quello che avevo sentito, ma il panico nelle parole di mia madre mi fece pensare che fosse un uomo cattivo e pericoloso; eppure non mi spaventava l’idea che potesse essere sulle mie tracce. Chi non vorrebbe conoscere il proprio padre, chiunque fosse, anche solo per dirgli che razza di uomo sia uno che abbandona suo figlio? Scelsi di mantenermi sulla stessa linea intrapresa già dal nostro arrivo e di scoprire da solo la verità su di lui. Scrissi una e-mail ai miei amici dicendo che la zia stava ancora male e che di fare ritorno ancora non se ne parlava. Poi, chiesi loro d’investigare nel paese sperando di trovare qualche indizio su di lui: le anziane signore di Triora erano una banca dati preziosa; di sicuro, se era passato da lì, loro lo sapevano e non restava che fare qualche domanda. Li salutai lasciandoli al compito che gli avevo assegnato. Per tutto il giorno il pensiero di mio padre mi consumò le meningi, non potevo continuare così, avevo bisogno di parlarne, avevo bisogno di un parere esterno. Proprio in quel momento, dalla finestra vidi Sophie rientrare accompagnata dall’unico raggio di sole che squarciava il cielo cupo e coperto dai grossi nuvoloni neri. Lo presi come un segno, dovevo confidarmi con lei, era l’unica che potesse ascoltarmi. Appena entrò in casa, la portai in camera mia e le riferii tutto quello che avevo sentito. Durante il racconto, le espressioni sul suo viso variavano senza sosta: la paura, il mistero e i segreti che caratterizzavano questa storia, l’affascinarono. I suoi occhi si erano illuminati, elettrizzati dall’idea di svelare quell’intrigo familiare. Adorava gli enigmi e quello la stuzzicava sotto ogni aspetto. Dovevamo capire chi fosse mio padre e, cosa più importante, perché mia madre fosse tanto spaventata che potesse riapparire nella mia vita. Non potevo più non sapere!

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CAPITOLO V Il pomeriggio seguente, non appena Sophie tornò da scuola, ci mettemmo subito all’opera come due detective. Sophie pensò bene che il primo posto dove cercare un indizio fossero le vecchie foto di famiglia. Andammo dritti in soffitta e lì iniziammo le nostre indagini. Sarebbe stata completamente al buio se non fosse stato per la finestra a forma di quadrifoglio che illuminava la stanza; la lampadina era fulminata e credo che nessuno se ne fosse accorto prima. Avevano riposto tutti i ricordi dello zio lassù, gli abiti, la raccolta di dischi di cui era tanto geloso. Una volta, da piccolo, mi fece ascoltare un disco dei Queen, prima di rimproverarmi per aver appoggiato le mie dita sporche di gelato sopra la custodia. Vidi il viso di Sophie rattristarsi e la spinsi ad aspettarmi di sotto, avrei proseguito le mie ricerche da solo. Lei rispose che forse era meglio così, cercando di nascondere il magone che le aveva riempito lo stomaco. Provai ad aprire qualche cassa, spostare qualche oggetto, ma non c’era niente che somigliasse a una foto. La casa era enorme e la soffitta di conseguenza lo era altrettanto. Tante cose attiravano la mia attenzione, ma nessuna mi incuriosiva quanto il numero infinito di libri sugli scaffali. C’era qualcosa che non andava però; solitamente è la copertina a essere messa davanti, così da poterne rendere leggibile il titolo, ma questi volumi erano tutti al contrario. Se non fosse stato per la troppa fretta che mi richiamava prepotentemente alla vicenda di mio padre, avrei cercato di scoprire cosa si nascondeva dietro quell’anomala disposizione. Dopo aver cercato dappertutto, decisi di rinunciare, quando improvvisamente il riflesso di uno specchio rotto mi fece sobbalzare come un gatto; per ripicca lo girai così che non potesse più spaventare nessuno. La fortuna era dalla mia parte, perché spostandolo vidi gli album che tanto stavo cercando. Le copertine erano piene di polvere, ma aprendone uno a caso notai che le foto erano intatte. Scesi immediatamente di sotto. Aprii i primi raccoglitori e, sfogliandone le pagine, mi godetti la naturalezza delle immagini su rullino; le preferivo alle digitali: la possibilità di rimediare all’errore dava vita solo a ritratti in posa e quasi sempre finti. Dov’era finita la curiosità di aspettare che venissero sviluppate? Ora le abbiamo tutte sul

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computer, ma mai ci soffermiamo a riguardarle come avremmo fatto un tempo. Era stata un’ottima idea iniziare da lì, ottenemmo un’infinità di volti sconosciuti, e non ci restava che fare una selezione, sperando ci fosse quello che stavamo cercando. Fra il dire e il fare, c’è di mezzo il mare. Era proprio così: le persone erano talmente tante che, senza uno spunto, sarebbe stato impossibile fare una cernita. Sophie era molto concentrata a cercare, mentre io mi ero completamente perso nelle foto di mia madre. Com’era giovane e bella, il suo sorriso era radioso e allegro, portava uno di quei vestitini che si vedono nei film di una volta: un prendisole pieno di fiori colorati. Era sempre circondata da tanta gente; eppure, nella mia infanzia non ricordo tutti questi amici, eravamo sempre io e lei, da soli, mai nessuno a farci una visita, se non per qualche sporadica sorpresa della zia. Sophie mi disse che dovevamo iniziare a considerare solo le foto che andavano dalla mia nascita a qualche mese prima del mio concepimento: se ce ne fosse stata una di mio padre, doveva trovarsi in quell’arco di tempo. Sistemandole temporalmente, notai che non ce ne era nemmeno una fatta durante la gravidanza. Mi sembrò molto strano, quell’insieme di ricordi era pieno di attimi immortalati dalla camera prima che arrivassi io, ma dopo, niente, solo qualche scatto. Anche mia madre era completamente diversa, un’altra donna: in viso aveva un'espressione sciupata e sempre turbata, i suoi occhi erano spenti e tristi. Rimasi svampito da quella sequenza, era come se le avessi rovinato la vita. Prima che potessi continuare a farmi strani pensieri, Sophie rubò completamente la mia attenzione con una sola parola. «Eccola!» «Cosa?» mi venne da dire come se non credessi fosse possibile. «Tuo padre, l’ho trovato!» ribadì. I miei occhi scettici si fiondarono subito su quella foto che, per quanto fosse ingiallita e consumata, restituiva ancora un’immagine abbastanza chiara e i colori, per quanto sbiaditi dal tempo e dalla polvere, erano in grado di definire contorni abbastanza netti; se poi si poneva la foto sotto un fascio di luce qualsiasi, erano addirittura ancora visibili le cromature della gente ritratta, dei loro vestiti e dello sfondo circostante. A un primo sguardo non capii cosa avesse visto, c’erano solo mia madre e la zia con tante facce intorno e non potevamo sapere se tra questi ci fosse davvero mio padre. Lei mi disse di guardare meglio e, soprattutto, di notare la direzione dello sguardo di mia madre. Guardai più attentamente e, infatti, gli occhi di lei erano rivolti verso un uomo poco distante.

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«Cosa ti fa credere che sia mio padre?» «Ma dai, siete identici. Quest’uomo è la tua copia, deve essere per forza lui!» mi rispose enfatizzando ogni parola con lo sguardo. Non avevo notato tutta questa somiglianza. «Va beh, è alto, il colore dei capelli è simile. Mah…» dissi pensando ad alta voce. «Mah… stesso taglio d’occhi, stesse labbra, ci manca solo che abbia scritto in faccia che è tuo padre!» La sicurezza che trapelava dalla voce di mia cugina mi fece riguardare quello scatto da un altro punto di vista. Sarebbe diventato il volto che la mia mente avrebbe proiettato ogni volta che avrei pensato a lui. Alto e moro, sguardo profondo e un’espressione sorridente che mia madre doveva amare a giudicare da come lo stava guardando. Dava l’idea di essere un uomo benestante, s’intravedevano un prezioso orologio e una collana con un crocifisso, entrambi completamente in oro. Non ero sicuro che avesse ragione, ma Sophie ne era certa. Prendemmo la foto, l’unica in cui ci fosse, e provammo a partire da lì. Dovevo farla avere a Giò e Daniel, con un’immagine avrebbero sicuramente trovato delle tracce. Andai subito al computer e la mandai via e-mail a Daniel che, intanto, mi aveva risposto a quella precedente. La aprii sperando in qualcosa, ma niente. Diceva che nessuno ricordava niente, che mia madre era rimasta incinta e, durante tutta la gravidanza, c’era stata solo sua sorella al suo fianco. Non mi scoraggiai, sapendo che con l’immagine avrebbero di sicuro ottenuto risultati migliori. Non dovevo far altro che aspettare, sorbendomi Sophie che, nel frattempo, fantasticava su tutte le direzioni che questa storia avrebbe potuto prendere. A Saorge mi svegliavo sempre da solo; Sophie non c’era e mia madre era sempre via con la zia. Solitamente mi rigiravo nel letto fino alle undici. Poi, finalmente decidevo di alzarmi e fare colazione. Erano passati tre giorni dal mio arrivo e, non sapendo mai cosa fare e stufo di rimanere a casa a oziare, decisi di uscire per una passeggiata in direzione della scuola di Sophie. Passai per vicoli strettissimi e forse anche per qualche proprietà privata; con qualche indicazione, approssimativamente intuita dal mio scolastico francese, riuscii ad arrivare a destinazione. Il liceo che frequentava Sophie era molto simile al mio, solo più piccolo e più vecchio. Il portone era di legno antico, color mattone, e sulle finestre c’erano le inferriate. Non doveva dare una bella impressione dall’interno guardar fuori e vedere delle sbarre, ti faceva sentire imprigionato, o almeno è come mi sarei potuto sentire io immaginandomi lì dietro.

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Sentii la campanella suonare e, un attimo dopo, Sophie uscì seguita dalla sua stravagante amica. Sophie portava una gonna sopra il ginocchio e delle scarpe tipiche francesi non molto alte. Elisa, invece, indossava un normalissimo jeans e mi stupì sapere che ne avesse uno. La maglietta era sempre scollata, ma rispetto a come l’avevo sempre vista, quel giorno non era così provocante. Restai fermo, appoggiato al muro di fronte l’uscita. Elisa mi notò subito, ma arrivò con tutta calma, mentre Sophie si lanciò tra le mie braccia contenta di trovarmi lì ad aspettarla. Mi avvicinai a salutare Elisa con due baci sulle guance, ma già al primo notai un certo distacco che mi convinse a lasciar perdere il secondo. «Scusami, avrei dovuto chiamarti» disse lei. «Ma poi non lo hai fatto…» le risposi interrompendo le sue scuse improvvisate. «Lo so, lo so, ma è meglio se ti sto lontano.» Non indagai nemmeno sulla sua risposta, anche perché non sembrava aver tanta voglia di star lì. «A più tardi, Sophie» disse a mia cugina andando via e riservando a me solo un piccolo gesto con la mano. Non la fermai, proprio come quella sera. Questa volta non riuscii a sfuggire alle domande di Sophie, fui costretto a raccontarle tutto nei minimi dettagli, era troppo curiosa. Mi chiese perché la serata fosse finita in quel modo, ma non seppi rispondere, realmente non avevo idea di cosa fosse successo. Le suggerii nuovamente di chiederlo a Elisa e magari di farlo sapere anche a me, per capirci di più anche io. Di fronte alla mia sincerità, smise di tartassarmi e tornammo a casa. Neanche dieci minuti a passo lento e già eravamo arrivati. Mi guardai bene intorno per capire come avevamo fatto a essere già lì in così poco tempo; io ci avevo impiegato più di mezz’ora per trovare la scuola! Entrando sentii odori familiari, e non mi sbagliai perché dietro i fornelli c’era mia madre. Wow oggi si mangia!, pensai sentendomi leggermente in colpa nei confronti della zia, che fino a quel momento si era data tanto da fare per sfoggiare le sue migliori capacità culinarie. Non era un suo demerito, ma credo che chiunque non abbia provato la vera cucina italiana, e non quella dei tanti fantomatici ristoranti in giro per il mondo, non possa capire l’autentico sapore prelibato dei suoi piatti. La zia era stata ormai troppo francesizzata. Non a caso, anche Sophie, come me, restò estasiata nell’assaggiare il sugo pasticciato di mia madre. Sarà stato per la fame, ma quella volta era davvero eccezionale. Come aveva detto, Elisa arrivò a casa nel pomeriggio, ma se all’apparenza sembrava essere venuta per Sophie, la prima cosa che

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fece fu invece bussare alla mia porta. Dopo gli ultimi episodi, tutto mi aspettavo tranne che venisse da me. Ero un po’ scocciato dal suo comportamento e mi mostrai leggermente distaccato. «Che ci fai qui?» le chiesi immediatamente. «Mi sono resa conto di doverti delle spiegazioni.» Mi sedetti sul letto e lei provò a raccontarmi la sua versione dei fatti. Iniziò dicendo che le emozioni provate con me erano indescrivibili; non era una cosa fisica, quanto mentale. «Ero completamente fuori controllo! Non ti avrei detto di no a qualunque cosa tu mi avessi chiesto, mi sentivo impotente, non so, ho avuto paura!» esclamò con un tremolio nella voce. I suoi occhi lucidi mi convinsero ad avvicinarmi, non riuscivo a fare il duro, non era da me. L’abbracciai e lei mi disse che dovevamo rincontrarci. Non era innamorata di me, ma dal momento che ci eravamo separati, non era riuscita più a pensare ad altro. Desiderava stare tra le mie braccia, essere stretta dal mio corpo. Mi diede appuntamento al garage pregandomi di non farla aspettare inutilmente. Di sicuro ci sarei andato, ma preferii non dirle niente, lasciandola nel dubbio. Alla mia mancata risposta, aggiunse che sarebbe stata comunque lì tutta la notte; le feci un cenno come per dire “ricevuto” e lei uscì. Le sue parole, inutile dirlo, avevano gonfiato il mio ego, ma i miei tarli erano altri. Era stato un caso quello che avevamo provato o ero davvero io l’artefice di tutto? La sera andai lì determinato a scoprirlo. Bussai alla porta e lei mi aprì coperta da una leggerissima vestaglia di seta nera. Le sue labbra erano marcate da un rossetto rosso fuoco e, dopo avermi fatto entrare, fece cadere il baby doll a terra. Quel rossetto era l’unica cosa che indossava; tolta la seta, restava solo il suo corpo nudo davanti a me. Feci qualche passo togliendomi i vestiti di dosso e arrivai vicino a lei solo con gli slip. Mi baciò il petto, poi sotto l’ombelico e nel frattempo tirò giù l’unica cosa che era rimasta a coprirmi. Afferrò il mio collo e saltò su di me; la presi per le gambe e l'appoggiai contro la parete. Ci baciammo con ardore, desiderando ognuno il corpo dell’altra, quando, come al nostro primo incontro, iniziai a percepire di nuovo i suoi pensieri e i suoi desideri. Non era stato un caso, riuscivo a sentirli, riuscivo a realizzarli, ma stavolta avevo il bisogno di andare più a fondo. Una sensazione che avevo già vissuto iniziò ad attraversarmi le vene. Deviai i miei interessi dalle sue lussuriose voglie per dirigermi nel profondo della sua anima. Rimasi infastidito da ciò che provavo. Bramosia, invidia, superbia: sentivo queste pesanti ombre soffocarmi, il suo lato oscuro mi dava tormento, mi disgustava. Lasciai quel posto buio e freddo per ritrovare un po’ di ossigeno. L’allontanai da me

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scagliandola sul divano, mi serviva aria e non gradivo la sua presenza così vicina. Lei sembrava così fragile e indifesa, mi sembrava assurdo pensare che fosse quella la stessa ragazza che mi aveva lasciato sulla pelle l’appiccicosa sensazione di un’anima sporca di vizi. Lei, sconvolta e con gli occhi sbarrati, prese gli indumenti che aveva nello zaino e, indossandoli di corsa, scappò fuori dal garage. Cosa stavo facendo? Perché mi stavo comportando così? Ritornai in me e le corsi dietro. Fuori pioveva a dirotto e io uscii indossando solo i jeans. La raggiunsi in pochi passi e l’afferrai per un braccio stringendola forte a me e scusandomi per come l’avevo trattata. Il vento fischiava forte nei vicoli del paese e la pioggia non accennava a fermarsi. Restammo qualche minuto fermi sotto l'acqua che batteva prima di tornare al garage. Asciugammo i nostri vestiti e, non appena il tempo lo permise, l’accompagnai fin sotto casa. Mi salutò con un bacio sulla guancia che di certo non meritavo, mi sentivo uno schifo per i miei modi, ma realizzai che dentro di me c'era qualcosa di strano e pericoloso che, non so come, mi faceva star bene. Fine anteprima.Continua...