II. LA CRISI DELLA FAMIGLIA · LA CRISI DELLA FAMIGLIA La ... Isabella Quarantotti ha scritto che...

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II. LA CRISI DELLA FAMIGLIA La famiglia rappresenta sempre, per Eduardo, lo speculum  della società italiana e addirittura del mondo 1 . In questo capitolo ci si accinge ad analizzare la figura della famiglia nell’opera eduardiana. Per fare ciò si è ritenuto utile effettuare un’analisi propedeutica di quella che fu l’esperienza familiare dell’autore 2 . In un primo breve paragrafo si propone una panoramica dei rapporti e delle dinamiche che formarono l’Eduardo figlio, fratello, padre e marito, integrando questo approfondimento con il più generico resoconto biografico del primo capitolo di questo lavoro. Nel secondo e terzo paragrafo si procede analizzando come questa 1 Anna BARSOTTILa drammaturgia di Eduardo De Filippo, in Eduardo in maschera. Incontri sul suo teatro, a cura di Manola BUSSAGLI, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1995, pp. 49-50. 2 Quanto della vita personale dell’autore sia nelle sue commedie è argomento di discussione. Sostiene Bentley: «Spesso si è discusso fino a che punto è necessario conoscere la vita e l’ambiente di un autore per poter giudicare la sua opera. Personalmente ritengo che se ne dovrebbe discutere solo quando c’è pericolo di scambiare per peculiarità dello scrittore quel che invece rappresenta la sua epoca e il suo paese. Alcuni aspetti di Eduardo autore [...] possono sembrare forzati se si considerano manifestazioni della sua volontà personale, ma, in quanto espressioni di una tradizione sociale, sono del tutto comprensibili. Ho l’impressione [...] che con le sue commedie Eduardo cerchi principalmente di esprimere suoi giudizi personali, l’impressione insomma che scriva laboriosi drammi a tesi». Eric BENTLEYEduardo De Filippo e il Teatro napoletano, in AA.VV., Eduardo nel mondo, a cura di Isabella QUARANTOTTI, Roma, Bulzoni & Teatro Tenda, c1978, p. 44. 125

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II. LA CRISI DELLA FAMIGLIA

La famiglia rappresenta 

sempre,   per   Eduardo,   lo 

speculum  della   società 

italiana   e   addirittura   del 

mondo1.

In questo capitolo ci si accinge ad analizzare la figura della famiglia 

nell’opera eduardiana. Per fare ciò si è ritenuto utile effettuare un’analisi 

propedeutica   di   quella   che   fu   l’esperienza   familiare   dell’autore2.   In   un 

primo   breve   paragrafo   si   propone   una   panoramica   dei   rapporti   e   delle 

dinamiche   che   formarono   l’Eduardo   figlio,   fratello,   padre   e   marito, 

integrando   questo   approfondimento   con   il   più   generico   resoconto 

biografico del primo capitolo di questo lavoro. 

Nel   secondo   e   terzo   paragrafo   si   procede   analizzando   come   questa 

1 Anna BARSOTTI, La drammaturgia di Eduardo De Filippo, in Eduardo in maschera. Incontri sul suo 

teatro, a cura di Manola BUSSAGLI, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1995, pp. 49­50.

2 Quanto della vita personale dell’autore sia nelle sue commedie è argomento di discussione. Sostiene 

Bentley: «Spesso si è  discusso fino a che punto è necessario conoscere la vita e l’ambiente di un 

autore per  poter  giudicare la sua opera.  Personalmente ritengo che se ne dovrebbe discutere solo 

quando c’è  pericolo di scambiare per peculiarità  dello scrittore quel che invece rappresenta la sua 

epoca e il suo paese. Alcuni aspetti di Eduardo autore [...] possono sembrare forzati se si considerano 

manifestazioni della sua volontà personale, ma, in quanto espressioni di una tradizione sociale, sono 

del tutto comprensibili. Ho l’impressione [...] che con le sue commedie Eduardo cerchi principalmente 

di esprimere suoi giudizi personali, l’impressione insomma che scriva laboriosi drammi a tesi». Eric 

BENTLEY,  Eduardo De Filippo e  il  Teatro napoletano,   in AA.VV.,  Eduardo nel  mondo,  a cura di 

Isabella QUARANTOTTI, Roma, Bulzoni & Teatro Tenda, c1978, p. 44.

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istituzione   venga   rappresentata   nell’opera  eduardiana.   Naturalmente   i 

lavori di Eduardo sono figli del proprio tempo3, il che implica una diversa 

rappresentazione della famiglia a  seconda del  momento storico.  Come è 

facile   immaginare,   non   tutte   le   commedie   sono  imperniate   su   questa 

tematica, anche se la famiglia come contesto strutturale è sempre presente. 

Ma ci  soffermeremo in questi  paragrafi,   in accordo con l’intenzione del 

presente lavoro, su quelle che investono l’istituzione familiare in maniera 

più  diretta. Di queste una,  Mia famiglia, sarà  analizzata dettagliatamente 

nel quarto ed ultimo paragrafo. 

Il contesto familiare eduardiano, come osserva Barsotti, si fissa in una 

struttura topica che si trova fin da Gennareniello, e che

corrisponde   sostanzialmente   a   quella   di  Natale   in   casa 

Cupiello:   ma   si   ritroverà   poi   in  Napoli   milionaria!  e 

perfino   nella   altoborghese  Mia   famiglia  degli   anni 

Cinquanta.   O   meglio   vi   corrisponde   in   una   misura 

originaria,   le   cui   varianti   saranno   significative.   Padre­

madre­figlio­sorella   (o   fratello)   del   padre;   un   piccolo 

nucleo, cui s’aggiungerà il personaggio della figlia [...] In 

Napoli   milionaria!  Sparirà   invece   il   personaggio 

sorella/fratello del padre (forse da mettere in relazione con 

l’inconscia   rimozione   di   Peppino   dal   «Teatro   di 

Eduardo»).   Ma   la   misura   ideale,   almeno   sul   piano 

spettacolare, doveva comprendere questa figura/funzione, 

tanto è vero che il personaggio del fratello ricompare poi 

in Mia famiglia e in Sabato, domenica e lunedì4.

3  Pur   non   tralasciando   il   concetto   di   “tempo   grande”   (Bachtin)   citato   da   Anna   Barsotti:   «La 

proiezione nel  tempo grande  libera sempre l’opera davvero artistica (più informativa) dalla prigione 

della sua “contemporaneità” [...]». Anna  BARSOTTI,  Eduardo drammaturgo (fra mondo del teatro e  

teatro del mondo), Roma, Bulzoni, 1988, p.43 e nota.

4 Anna BARSOTTI, Eduardo drammaturgo cit., p. 66.

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II.1 La famiglia di Eduardo

1.1 La famiglia­clan

L’istituzione   familiare   condizionò   la   vita   personale   e   artistica   del 

drammaturgo. Il padre Eduardo Scarpetta, lo ricordiamo, non lo riconobbe; 

ma   la   sua   figura   fu   comunque   presente   nella   giovinezza   di   Eduardo, 

insieme a sua madre, ai suoi fratelli e ai nonni. Cresciuto in una famiglia­

clan scoprì  solo a undici  anni che colui  che aveva imparato a chiamare 

“zio” era in realtà suo padre, e quelli che credeva cugini erano fratellastri:

Mi ci volle del tempo per capire le circostanze della mia 

nascita, [...] e quando a undici anni seppi che ero “figlio di 

padre   ignoto”   per   me   fu   un   grosso   choc.   La   curiosità 

morbosa  della  gente   intorno a  me non mi aiutò  certo  a 

raggiungere un equilibrio emotivo e mentale. Così, se da 

una parte ero orgoglioso di mio padre [...] d’altra parte la 

fitta   rete   di   pettegolezzi,   chiacchiere   e   malignità   mi 

opprimeva   dolorosamente.   Mi   sentivo   respinto,   oppure 

tollerato, e messo in ridicolo solo perché “diverso”5.

Nonostante le resistenze della madre, Eduardo seguì la strada che gli si 

apriva innanzi, dietro la scia di Eduardo Scarpetta, ma attraversando anche 

generi “altri”6. La sua paternità rimase per molti anni nascosta ai più, niente 

altro che una voce circolante negli ambienti teatrali, fino a quando Peppino, 

nel   1977,   dichiarò   ufficialmente   la   discendenza   dei   tre   De   Filippo­

5 Eduardo DE FILIPPO, Eduardo De Filippo: vita e opere. 1900­1984, a cura di Isabella QUARANTOTTI e 

Sergio Martin, Milano, Mondadori, 1986, p. 58.

6 Cfr. capitolo I.

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Scarpetta.  Pochi anni dopo, rispondendo alla domanda postagli  da Luigi 

Compagnone «il   tuo era un padre buono o un padre cattivo?»,  Eduardo 

rispose recisamente: «era un grande attore»7.

Non   sappiamo   se   con  questa   risposta   abbia  voluto  difendere  quella 

sfera  privata  che ha sempre voluto rimanesse  tale;  ma potremmo anche 

leggervi una considerazione del padre “a metà” così come il padre aveva 

riconosciuto “a metà” il figlio, facendosi chiamare zio. Per Eduardo costui 

non   sarebbe   stato  dunque  un   “padre”   che   fu   come  un  maestro,  ma  un 

maestro che fu come un padre. 

1.2 Il rapporto coi fratelli

A dividere con lui questa situazione erano la sorella Titina e il fratello 

Peppino,   coi   quali   inoltre   conquisterà   i   primi   successi   formando   la 

compagnia “Teatro Umoristico I De Filippo” negli anni Trenta. Con loro il 

rapporto sarà spesso burrascoso. 

All’inizio degli anni Quaranta Titina, in seguito a malumori avuti con 

Eduardo, lascerà la compagnia per un anno. Ma il legame fra i due è molto 

forte, e Eduardo continua a lavorare con lei fino al 1948, anno in cui la 

sorella   lascia   le scene per   il  malore che la porterà  alla morte  nel  1963. 

Rimarrà traccia di lei in molte commedie del fratello e principalmente nelle 

figure femminili.

Con Peppino invece  i   rapporti  si   incrinano definitivamente nel  1944 

quando i fratelli si separano. Isabella Quarantotti ha scritto che «travolto e 

trascinato dall’entusiasmo del pubblico, poco a poco Peppino non volle più 

dipendere da nessuno. Adulato, istigato da amici e conoscenti, cominciò a 

7 Luigi COMPAGNONE, «Oggi», 21 maggio 1980.

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ribellarsi a Eduardo che,  da parte sua, serviva il   teatro con passione fin 

troppo severa». E continua:

Come   poteva   accettare   tutto   questo   un   giovane   attore 

appena esploso sulla scena, che veniva acclamato in teatro 

e   dovunque   andasse?   Di   carattere   allegro,   ansioso   di 

vivere   fino   in   fondo   la   sua   stagione  di  gloria,  Peppino 

rifiutava la severità, il rigore di Eduardo.

[…] Non aveva saputo capire (come invece anni dopo capì 

Luca)   che   sul   piano   artistico   Eduardo   ne   voleva 

l’abnegazione assoluta e una fiducia senza tentennamenti, 

per poterlo rendere sempre più grande come attore.

Chi   sa,   forse   se   di   tanto   in   tanto   Eduardo   avesse 

incoraggiato suo fratello, questi sarebbe stato meno fragile 

di   fronte   alle   tentazioni;   da   una   parte   gli   applausi,   le 

lusinghe,   l’approvazione  di   tutti,   dall’altra   il   rigore   del 

fratello che lo addolorava, lo sconfortava...8

Da   quel   momento   in   poi   i   rapporti   sono   intermittenti,   ma   non 

torneranno mai insieme in teatro. I rancori e le amarezze emergono da una 

lettera del 1946 con la quale Eduardo risponde ad un riavvicinamento di 

Peppino:

Caro Peppino, ti pare che dopo quanto è accaduto fra me e 

te,   dopo   anni   di   veleno   amarissimo   che   ebbero   come 

conclusione la scenata del Vomero... un semplice colpo di 

spugna può cancellare dal animo l’offesa e il risentimento? 

Tu dici: “Siamo fratelli.” Certo. E chi più di me ha saputo 

affrontare e comprendere questo sentimento? Credi tu che 

da estraneo avresti potuto infliggermi le torture morali che 

8 Isabella QUARANTOTTI, Eduardo polemiche, pensieri, pagine inedite, Milano, Bompiani, 1986, pp. 30­

32.

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sistematicamente,   minuto   per   minuto,   mi   infliggevi? 

L’amore fraterno è un sentimento da asilo infantile, credi  

a me. Fratelli si diventa dopo di aver guardato nell’animo 

di una persona come in uno specchio d’acqua limpida, e  

dopo di averne scorto il fondo. Scusami, ma io guardando 

nel   tuo animo,   il   fondo non  lo  scorgo.  La   tua  lettera  è 

troppo  ingenua.   Io  voglio   tenderti   la  mano,  ma con  un 

chiarimento esauriente, onesto, sincero. Se tu mi vuoi bene 

come ai primi tempo della nostra miseria,  vuol dire che 

nulla puoi rimproverarmi... mentre io, e questo è il mio più 

grande dolore, non ti voglio bene come allora: ti temo. 

[...] Scusami se ti ho parlato così, ma è la maniera migliore 

per far diventare uomini due fratelli, e fratelli due uomini.

Parto domani per un periodo di riposo. Puoi trovarmi al 

Parco Grifeo 53.   Il  portiere   ti  potrà  dire  dove  sono.  Ti 

vedrei volentieri.

Eduardo9

Secondo   Anna   Barsotti   echi   del   loro   tormentato   rapporto   si 

ritroverebbero anche nella drammaturgia eduardiana dopo la separazione. 

Nelle   famiglie   che   Eduardo   porta   in   scena   compare   la   coppia   fratello­

fratello – o la variante fratello­sorella – soprattutto dopo il divorzio artistico 

dei due:

Se   in  Napoli   milionaria!  il   ruolo   del   Fratello   del 

Protagonista scompare, nella topica “famiglia” eduardiana, 

questo ricompare, in un rapporto esclusivo fra i due, in Le 

voci di dentro. Dove, anzi, il minore prepara ai danni del 

maggiore   un   “tradimento”,   cercando   di   svendere   di 

nascosto   il   “patrimonio   di   tradizioni”   che   avevano   in 

9 Eduardo  DE FILIPPO, lettera a Peppino, 7/7/1946 cit. in Isabella  QUARANTOTTI,  Eduardo polemiche,  

pensieri, pagine inedite cit., pp. 47­50. Corsivo nostro.

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comune:   e   proprio   la   scoperta   di   “quel”   tradimento   fa 

esplodere   tutta   l’amarezza   di   Alberto!   Ricordiamo   che 

Eduardo   incolpava,   della   diserzione   di   Peppino,   i 

«mercanti»   che   lo   «assediavano   per   la   loro   cassetta». 

Quindi   il   “dramma  dell’incomprensione”   rispunta,   nella 

variante  Padre­Figlio,  con  Mia famiglia:  c’è  un “padre” 

che non accetta l’emancipazione del “figlio”, né gli parla, 

e   un   “figlio”   che   matura   segretamente   la   propria 

“ribellione”.   [...]   Ma   l’interesse   dell’Autore   per   la 

“famiglia” come luogo di conflitti non meno che di affetti, 

particolarmente adatto  a   rivelare gli   interessi  egoistici  – 

travestiti da sentimenti altruistici –, è confermato, con note 

anche  troppo aspre  e  polemiche,  dalla  commedia subito 

successiva:  Bene   mio   e   core   mio.   Dove   il   titolo,   frase 

idiomatica con cui si commentano ironicamente a Napoli i 

torti insospettati ricevuti dai parenti stretti, e la situazione 

principale   fanno   riferimento   ai   “difficili”   rapporti   tra 

Fratello e Sorella...10 

Paola   Quarenghi   sostiene   che   «anche   in  Natale   in   casa  Cupiello   si 

ritrovano i germi e, insieme, le tracce di questo conflitto»11, riferendosi allo 

stesso   rapporto   dissonante   tra   il   padre   e   il   figlio   all’interno   di   quella 

commedia.

1.3 Eduardo marito

Quanto   detto   richiama   una   figura   problematica   di   Eduardo   figlio   e 

10 Anna BARSOTTI, Eduardo drammaturgo cit., p. 476 nota 51.

11 Paola  QUARENGHI,  Dal pari al dispari. Una commedia del repertorio di Eduardo, in  L’arte della  

commedia. Atti del convegno di studi sulla drammaturgia di Eduardo, a cura di Antonella  OTTAI  e 

Paola QUARENGHI, Roma, Bulzoni, 1990, pp. 45­46.

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fratello. Al contrario, nei panni del padre e del marito sembra ripagato dei 

disagi che ebbe da quella che Peppino molti anni dopo definì «una famiglia 

difficile»12. 

Sposato quattro volte,  Eduardo ebbe tre mogli.  La prima fu Dorothy 

Pennington, giovane americana sposata a ventotto anni, la quale mal riuscì 

a  sopportare  la vita  itinerante e  l’ambiente   teatrale chiuso del  marito;  il 

matrimonio   sarà   annullato   venti   anni   dopo,   nel   1952.   Thea   Prandi,   la 

seconda moglie di  Eduardo,  era  invece nell’ambiente   teatrale,   lavorando 

come soubrette per le riviste dell’impresario Aulicino; conosciuta nel 1947, 

la sposerà solo nel 1956, legittimando i due figli avuti da lei. Ma appena tre 

anni dopo i coniugi si separeranno consensualmente davanti al Tribunale di 

Roma.   Dopo   lunga   malattia   nel   1961   Thea   muore,   ma   poco   prima,   al 

capezzale   di   lei,   Eduardo   la   sposerà   nuovamente,  in   extremis.   Questa 

tragica   scena   chiude   l’esistenza   di   Thea   Prandi,   ricordando   quella 

d’apertura della commedia Filumena Marturano, là dove la protagonista si 

finge malata per strappare un matrimonio sul letto di morte: la finzione al 

teatro, la verità alla vita. Ma già qualche anno prima, nel 1956, Eduardo 

aveva conosciuto Isabella Quarantotti; lei sarebbe diventata poi sua stretta 

collaboratrice,  per  esempio nello sceneggiato televisivo  Peppino Girella, 

tratto da un suo racconto, che sarà diretto e interpretato da Eduardo stesso. 

Molti   anni   dopo,   nel   1977,   i   due   si   uniranno   in   matrimonio,   e   lei   lo 

accompagnerà fino alla fine.

A proposito del matrimonio Eduardo si espresse rispondendo ad alcune 

domande poste da un gruppo di studenti nel 1976; deluso per una società 

che si ostinava a non cambiare disse: «il matrimonio è ancora una catena

che solo la morte di uno dei coniugi può spezzare»13. Ma già per bocca di 

12 Peppino DE FILIPPO, Una famiglia difficile, Napoli, Marotta, 1977.

13  Eduardo   De   Filippo   risponde   alle   domande   poste   da   un   gruppo   di   studenti,   Roma,   Teatro 

Eliseo,1976, cit. in Isabella  QUARANTOTTI,  Eduardo polemiche, pensieri, pagine inedite  cit., pp. 172­

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Domenico   Soriano,   l’antagonista   di  Filumena   Marturano,   si   era 

pronunciato: nel terzo atto, quando i due ormai non più giovani decidono di 

sposarsi, Domenico sottolinea la particolarità di questo matrimonio.

DOMENICO. Tra poco ci troveremo inginocchiati davanti a 

Dio,   non   come  due  giovani   che  ci   si   trovano  per   aver 

creduto amore un sentimento che poteva essere soddisfatto 

ed esaurito nel più semplice e naturale dei modi... Filume’, 

nuie   ’a   vita   nosta   ll’avimmo   campata...   io   tengo 

cinquantaduie anne passate e tu ne tiene quarantotto: due 

coscienze formate che hanno il dovere di comprendere con 

crudezza   e   fino   in   fondo   il   loro  gesto  e  di   affrontarlo, 

assumendone in pieno tutta la responsabilità14.

1.4 Eduardo padre

  Eduardo  ebbe  due   figli  dalla   seconda  moglie  Thea  Prandi,  Luca  e 

Luisella, nati rispettivamente nel 1948 e nel 1949. Era molto fiero dei suoi 

bambini, e pareva scorgere in loro una precoce attitudine al teatro. «È nata 

parlante – dirà di Luisella in un’intervista a Enzo Biagi – e tanto lei, come 

Luca, hanno la passione del teatro nel sangue»15.

Luisella purtroppo venne a mancare il 1959, a soli dieci anni, per una 

emorragia   cerebrale.   Questo   evento   segnò   moltissimo   Eduardo,   come 

racconta Andrea Camilleri:

L’immagine che uno aveva di  Eduardo era di  un uomo 

174.

14 Eduardo  DE FILIPPO,  Filumena Marturano, in  Cantata dei giorni dispari, vol. I, Torino, Einaudi, 

1998, p. 243.

15 Enzo BIAGI, La dinastia dei fratelli De Filippo, «La Stampa», Torino, 5 aprile 1959.

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corazzato,  un uomo che si  difendeva anche recitando  la 

parte   che  si  era  assegnata   lui   stesso  nella  vita.  Non  so 

come nel ’60 ero preoccupato perché una delle mie figlie 

aveva   la   febbre   alta;   non   pensai   all’incidente   della 

bambina di Eduardo e gli dissi che ero un po’ preoccupato 

per mia figlia. Rispose: “Io l’ho persa una figlia”. E mi 

raccontò minutamente come lui aveva vissuto la cosa e si 

mise   a   piangere.   Non   è   una   cosa   che   si   sopportava 

facilmente   veder   piangere   Eduardo.   È   stata   una   cosa 

inenarrabile,   penosa.   Mi   dispiace   anche   di   averla 

rammentata16.

Per quanto riguarda Luca, un anno dopo perderà  anche la madre, ma 

Eduardo lo terrà sempre vicino a sé. Esordirà a soli otto anni nel ruolo di 

Peppeniello in  Miseria e nobiltà, secondo la tradizione; poi,  senza  essere 

forzato   sulla   strada   del   teatro,     proseguirà   gli   studi   fino   alla   maturità 

scientifica  conseguita  nel  1966;  nello   stesso  anno  debutta  ufficialmente 

nell’opera paterna Il figlio di Pulcinella, per la regia di Gennaro Magliulo. 

Da questo momento in poi la sua intensa attività   teatrale sarà  incentrata 

quasi esclusivamente17 sull’obbiettivo di tramandare l’opera del padre18.

16 Andrea Camilleri durante un’intervista per il ciclo Eduardo. Teatro e magia, RaiSat/Università di 

Roma: Dipartimento di Italianistica e Spettacolo, 2000.

17 Luca ha anche preso parte ad alcuni film –  I giovani tigri  (1967),  Il negozio di piazza Navona, 

(1969), Petrosenella, Le scene di Napoli (1982), Naso di cane (1985), Il ricatto, Sabato, domenica e 

lunedì  (1990),  Uscita   di   emergenza  (1992),  Come   te   nessuno   mai  (1999)   –   e   messo   in   scena 

commedie  fuori  dalla   tradizione,   tra   le  quali   ricordiamo:  La casa  del  mare,  di  Vincenzo Cerami 

(1991­1992); L’amante di Harold Pinter (1997, diretto da Andrée Ruth Shammah); Aspettando Godot, 

di Samuel Beckett (2001­2002). 

18 Fausto Della Ceca parlerà di «straordinaria e moderna mimesi». Fausto DELLA CECA, Oltre Eduardo 

riproponendo Eduardo,  in AA.VV.,  Parole mbrugliate, a cura di Emilio  POZZI,  Parole mbrugliate, 

Roma, Bulzoni, 2007, p. 36.

134

II.2 La famiglia nella Cantata dei giorni pari

2.1 Prime commedie

 

Già in  Farmacia di turno, il primo atto unico scritto da Eduardo nel 

1920, si trova una tirata del farmacista Saverio contro il matrimonio, che 

comunque non si spinge oltre l’ironia farsesca della commedia.

 Il dottore, Teodoro, legge sul giornale un fatto di cronaca:

TEODORO (dopo pausa). ...Don Save’ avete letto stu marito 

che   uccide   la   moglie   per   semplice   sospetto   sulla   sua 

onestà!

SAVERIO.  Stupido...   Mo   và   ngalera   e   ti   saluto!   La   vera 

risoluzione del problema la trovai io. Tu con me non puoi 

più  vivere   felice? Preferisci   l’altro,  e  sia!...  Vattene  cu’ 

isso in santa pace e nun ne parlammo cchiù!... 

TEODORO.  Vabbene, ma questo se po’ fa’ quando nun ce 

stanno figli... Caro don Saverio... 

SAVERIO.  Fino  a  un certo punto...   Il  matrimonio...   la  più 

grave sciocchezza che un uomo può  commettere...  Vuie 

pazziate...   ho   riacquistato   la   mia   pace...   Figurateve,   ’a 

guaglione songo stato sempe dint’ ’a farmacia ’a mano a 

papà e sempe appresso a isso: per me non sono mai esistiti 

amici, divertimenti eccetera... Non ho messo mai un piede 

fuori   di   quella   porta   e   poi   anche   volendo...   Vuie   ve 

ricordate   a   papà   negli   ultimi   tempi...   Malato...   nun   se 

puteva cchiù movere...  si passò  gli ultimi mesi della sua 

vita ncopp’ a chella poltrona addò state assettate vuie mo... 

e   lloco   murette...   (Teodoro   si   alza   e   si   siede   su   altra  

sedia).  Io   facevo   tutto...   come   avrei   potuto...   e   peggio 

135

ancora dopo  la  sua morte  che presi  addirittura  le   redini 

della   farmacia...   [...]   Feci   la   bestialità   ’e   me   nzurà, 

credendomi   che   essendo   rimasto   solo   avessi   trovata   na 

femmina che m’avesse fatta una certa compagnia... chi t’a 

dà!   Chella   penzava   a   teatre,   tulette,   cappielle...   il   suo 

cozzava con il mio carattere. Primma ’e me spusà non era 

accussì...  Un bel giorno,   la mia signora  sparì...  Dotto’... 

chillu   iuorno   manco   si   avesse   pigliato   na   quaterna 

secca...19.

Nella commedia successiva, Uomo e galantuomo, del 1922, il secondo 

e   il   terzo   atto20  rappresentano   l’ipocrita   accomodamento   del   marito 

“cornuto” che chiede all’amante della moglie di mostrarsi pazzo per salvare 

le apparenze, minacciandolo di morte. Alla fine del terzo atto l’amante sarà 

salvato da una corrispondenza equivoca che la moglie porterà al delegato di 

polizia,  dimostrando che anche il  marito  la  tradiva.  Il matrimonio come 

facciata funge da spunto per il finale di questa divertente commedia.

La   famiglia   rimane   come   contesto   nelle   opere   successive:  Requie 

all’anema   soja...  (1926),  Ditegli   sempre   di   sì  (1927),  Filosoficamente  

(1928).  Ma è   importante  ricordare  il   tipo di   legame familiare che viene 

rappresentato,   riassunto   nella   scena   finale   di  Ditegli   sempre   di   sì:   qui 

Teresa Lo Giudice, sorella del protagonista Michele, si nega alla proposta 

di matrimonio di don Giovanni Altamura perché dovrà dedicarsi al malato 

di casa: «Tengo nu sacro dovere da compiere: mio fratello»21. Nota Barsotti 

che  «la   famiglia  è  ancora  un’entità  unitaria,   la   trasgressione di  uno dei 

membri   alla   norma   del   comportamento   sociale   coinvolge   tutti   gli   altri 

19 Eduardo DE FILIPPO, Farmacia di turno, in Cantata dei giorni pari, Torino, Einaudi, 1998, p. 12 

20 Il primo atto, quasi a sé stante, è più imperniato sulle vicende di una compagnia di giro, ospiti in 

una località di villeggiatura per merito del De Stefano, l’amante.

21 Eduardo DE FILIPPO, Ditegli sempre di sì, in Cantata dei giorni pari cit., p. 178.

136

[...]»22.

Mentre una immagine familiare più  dolce è  quella paterna data dall’ 

“artista   da   strapazzo”  Sik­Sik,   l’artefice   magico23.   Da   premuroso   a 

bonariamente ironico all’inizio dell’atto unico quando domanda alla moglie 

incinta:

SIK­SIK. Comme te siente?

GIORGETTA. ’O solito... e nun fumà...’o ssaie che m’avota ’o 

stommaco.

SIK­SIK. Famme sentì, si muove? (Le tasta l’addome)

GIORGETTA. No, mo no. Ogge ha fatto un’arte; verse ’e sette 

m’ha dato dduie cauce.

SIK­SIK. Povero figlio... già fa le mie vendette!24

Molto  più   tragico   il  momento   in  cui,  per  colpa  dei  due  “assistenti” 

mescolati al pubblico, il gioco di prestigio della cassa fallisce. La moglie, 

che   vi   è   stata   chiusa   dentro,   sarebbe   dovuta   uscire   manomettendo   un 

lucchetto fasullo, ma l’assistente Rafele lo ha perduto, e lo ha sostituito con 

uno vero:

SIK­SIK.  Un altro  sicondo  ancora e la cascia sarà  aperta. 

Prego   maestro.   (Altro   rullo   di   tamburo   ancora   più  

22 Anna BARSOTTI, Eduardo drammaturgo cit., p.35.

23 Sik­Sik è un personaggio «costretto alle situazioni più spericolate per procurarsi di che vivere, [...] 

pestato e deriso da tutti. Personaggio educato, perciò, all’arte della menzogna per legittima difesa, 

abile nel raggiro e libero di  fantasia; sprovveduto di voglia di lavorare,  parassita e rassegnato per 

vocazione,   disposto   a   tutto   tranne   che   alla   fatica   e   alla   sincerità;   impastato   di   una   sofferenza 

agrodolce,  amara e succube,  ridanciana e disperata.  Il  personaggio di  Eduardo nasce di  qui,  ed è 

ingenuo e scaltro nello stesso tempo, vinto dalla vita e vincitore per quella vocazione di sognatore che 

lo porta a salvarsi sempre dalla tragedia». Giorgio  PULLINI,  Teatro italiano del Novecento, Bologna, 

Cappelli, 1971, p. 125.

24 Eduardo DE FILIPPO, Sik­Sik, l’artefice magico, in Cantata dei giorni pari cit., p. 230.

137

prolungato del primo. Sik­Sik conta come ha fato prima,  

mentre gocce di sudore freddo cominciano a partire dalla  

fronte e discendono giù lentamente per le guance. Ancora 

pochi   attimi   di   esitazione.   Sorride   meccanicamente   al  

pubblico,  s’indugia per lasciare il   tempo che egli  crede  

necessario perché Giorgetta riesca ad aprire il lucchetto,  

poi, deciso e sicuro questa volta dell’effetto tira di nuovo 

la   tenda)  Avanti,  madamigella.  (Ma  la  cassa  è   ancora 

inesorabilmente chiusa.  Che dirà,  che  farà   il  pubblico? 

Ma il dramma di Sik­Sik è un altro: più vasto, più grande,  

più   intimo.   L’illusionista   pensa   alla   povera   moglie  

prossima  a  divenir  madre,   chiusa   là   dentro.  Ed  allora  

l’esperimento, il pubblico, il teatro, tutto, scolora nel suo 

cuore tormentato)25.

Quando   finalmente   Sik­Sik   riesce   ad   aprire   la   cassa,   con   metodi 

disperatamente poco convenzionali (un martello), la didascalia ci dice che 

«interroga con  lo  sguardo  la  moglie e   la sua mano esitante  si  poggia, 

paterna e timorosa, sul grembo di lei»26.

Non   solo   critica   dunque,   ma   anche   descrizione   di   momenti 

fondamentali della natura umana come quelli legati alla paternità. 

La   successiva   commedia,  Chi è cchiù felice ’e me!,   ci   mostra   un 

bilancio di famiglia che il protagonista, Vincenzo, ha rigidamente stilato – 

senza calcolare che questa non è un’isola, e pertanto deve porsi in relazione 

con il mondo esterno. Alla fine del primo atto la tranquillità della scena 

campestre   viene   interrotta   dalla  peripezia:   un   uomo   di   città,   Riccardo, 

inseguito   dalla   polizia,   si   nasconde   nella   sua   casa.   Successivamente, 

scagionato  dalle  accuse,   stringerà   amicizia  con   la   famiglia  di  Vincenzo 

intessendo una tresca con Margherita, la moglie. Proprio un attimo prima 

25 Ivi, p. 239.

26 Ivi, did., p. 240.

138

dell’entrata di Riccardo, Vincenzo afferma:

VINCENZO. ’O destino ce ’o facimmo cu’ ’e mmane noste... 

tu m’ ’e a dicere a mme che me po’ succedere? Niente. Ma 

se   po’   nega   ca   io   so’   n’ommo   felice?   [...]   Io   aggio 

preveduto tutto, che me po’ succedere a me? Margarì nuie 

avimmo voglia d’essere felice!27

2.2 «Natale in casa Cupiello»

Altra   commedia   nella   quale   la   vicenda   ruota   attorno   all’istituzione 

familiare   (e alla  sua fragilità)  è  Natale   in casa Cupiello,  atto unico  del 

1931, cui viene aggiunto un antefatto (primo atto) nel 1932 e un seguito 

(terzo atto) nel 193428. A raccontarci la sua genesi è Eduardo stesso:

[...] questo mio lavoro è stato la fortuna della Compagnia, 

dopo  Sik  Sik,   s’intende.   Ebbe   la   sua   prima 

rappresentazione   al   Kursaal   di   Napoli,   ed   era   un   atto 

unico.   L’anno   seguente,   al   Sannazzaro,   altro   teatro   di 

Napoli, scrissi il primo atto, e diventò in due. Immaginate 

un autore che scrive prima il secondo atto e, a distanza di 

un anno, il  primo! Due anni fa venne alla  luce il   terzo: 

parto   trigemino   con   una   gravidanza   di   quattro   anni... 

Quest’ultimo   non   ebbi   mai   il   coraggio   di   recitarlo   a 

Napoli,   perché   è   pieno   di   amarezza   dolorosa   ed   è 

27 Eduardo DE FILIPPO, Chi è cchiù felice ’e me, in Cantata dei giorni pari cit., p. 268.

28  Secondo  Peppino  Eduardo   regredisce  «a   favore  di   un   ritorno  di  vecchi   schemi   teatrali»,   nel 

momento   in   cui   comincia   a   «   modificare   la   forma   sintetica   e   la   maniera   evolutrice   altamente 

antiretorica di alcune sue commedie in due atti, quali: “Natale in casa Cupiello”, “Chi è cchiù felice ’e 

me?” aggiungendo sia all’una che all’altro un terzo atto». Peppino DE FILIPPO,  Una famiglia difficile  

cit., pp. 288­289.

139

particolarmente commovente per me che conobbi quella 

famiglia.   Non   si   chiamava   Cupiello,   ma   la   conobbi: 

povere creature ai cui occhi il sole di Napoli fa risplendere 

persino le crude miserie della loro triste vita quotidiana; e 

allora, per un bisogno istintivo di liberazione, si urtano, si 

feriscono   a   sangue,   giungono   fino   all’odio,   perché   il 

nostro   sole   ingigantisce   anche   la   loro   puerilità.   Ma   si 

adorano... essi stessi non sanno quanto si adorano...29

La particolarità della commedia sta nel suo doppio registro30: il primo, 

quello della farsa, ci mostra lazzi e battute ricorrenti del quotidiano di una 

famiglia   popolare   napoletana;   l’altro   è   quello   del   dramma   popolare   a 

fosche   tinte   di   stelliana31  memoria.   Già   dall’elenco   dei   personaggi   si 

possono separare quelli che appartengono alla sfera della farsa da quelli che 

rientrano nella sfera del  dramma. Nei primi (ma con effetti  drammatici) 

Luca Cupiello32 (il capofamiglia fittizio), Tommasino (il figlio scapestrato), 

29 Eduardo DE FILIPPO, Primo... secondo (Aspetto il segnale), in «Il Dramma», Torino, n. 240, 1936. 

In una lettera del 22 febbraio 1983 (pubblicata in appendice a Anna Barsotti, Eduardo drammaturgo 

cit.,  p.  511)  Eduardo dichiarò  ad Anna Barsotti  di  aver  scritto   il   terzo atto  nel  1943.  In  realtà  a 

quell’anno risale la prima edizione a stampa, pubblicata sul periodico «Il Dramma» (1 marzo 1943). 

Per un ventaglio di ipotesi circa la datazione del terzo atto cfr. Anna Barsotti,  Nota storico­critica a 

Natale in casa Cupiello, in Cantata dei giorni pari cit., pp. 344­347.

30  A proposito  della   struttura  di  questa  commedia  Paolo Grassi   la  definì  un  «potente   squillo  di 

tromba, in un paese di coscienze addormentate e di ricorrenti banalità  sulla scena».   Paolo  GRASSI, 

Filumena Marturano, «Avanti», 15 aprile 1947.

31 Federico Stella (1842­1927) dal 1980 aveva portato con successo al Teatro San Ferdinando i suoi 

lavori popolari all’insegna di sangue, onore e lacrime, tratti dai racconti di Francesco Mastriani.

32 Luca Cupiello, uno dei più discussi protagonisti eduardiani, è stato così definito da Luigi Ferrante: 

«un personaggio penetrato da una umanità figlia del candore [...]. Ma è altro candore diverso anche 

dal “fanciullino” pascoliano sebbene ne condivida le premesse poetiche. Nel Pascoli è un modo di 

vivere e di vedere scoprendo nuove relazioni tra le persone e gli oggetti, analogie e simboli, una bontà 

disarmata che disarma. Luca Cupiello ha l’animo di “un grande bambino che considerava il mondo 

come   un   enorme   giocattolo”,   in   questa   disposizione,   candida,   sa   accogliere   le   verità   del   cuore, 

accenderle con la fantasia, luce infantile e dolce». Luigi FERRANTE, Teatro italiano grottesco, Bologna, 

Cappelli, 1964, p. 58.

140

Pasqualino   (fratello   di   Luca   e   «eterno   scontento»   che   vive   presso   il 

fratello), i casigliani Olga e Luigi Pastorelli, Alberto, Rita e Maria (vicini di 

casa che secondo la tradizione veglieranno il moribondo nel terzo atto). Nel 

secondo   registro   si   inscrivono   Concetta   (il   capofamiglia   effettivo), 

Ninuccia, Nicola e Vittorio Elia (il fulcro del dramma), il portiere Raffaele 

(personaggio   d’appoggio   per   Concetta),   il   dottore,   Carmela   e   Armida 

(casigliane “serie”). È pacifico che non manchino incursioni dei personaggi 

nell’una e nell’altra sfera, indorando la pillola di una critica familiare forse 

ancora agli albori, ma presente.

La scena si svolge in casa Cupiello. Il primo atto, ambientato durante 

l’antivigilia di Natale, comincia subito all’insegna della farsa con dialoghi e 

screzi   fra   la   moglie   e   il   marito   al   risveglio,   seguiti   da   quello   lento  di 

Tommasino,   protetto   di   Concetta33.  Mentre   si   compiono   gli   ultimi 

preparativi   (fondamentalmente   il   presepe,   maggiore   preoccupazione   di 

Luca34), la figlia, sposata a Nicola, decide una fuga d’amore con  Vittorio 

Elia. La farsa prosegue anche dopo l’arrivo di questa: 

LUCA. Ch’è stato? (Ninuccia tace). Te si’ appiccicata n’ata 

vota   co’   tuo   marito?   (Ninuccia   non   risponde).   Io   non 

capisco… Quello è un uomo che ti adora. [...] Perché vi 

siete  contrastati?   (Ninuccia  rimane  ostinatamente  muta). 

Perché   vi   siete   contrastati?   (visto   che   la   figlia  non 

risponde, tenta di usare un tono più forte e risentito nel  

ripetere   la   domanda   ma   la   domanda   ottiene   lo   stesso  

33 Concetta parlando a Raffaele di Tommasino lo giustificherà dicendo: «Se capisce, è giuvinotto, fa 

qualche pazzaria, ma è l’età: tutto è perdonabile. Don Rafe’ ’o guaio ’e chesta casa è mio marito». 

(Eduardo DE FILIPPO, Natale in casa Cupiello cit., p. 382). 

34  Secondo Anna Barsotti il presepe sarebbe simbolo di una chiusura che ripiega su se stessa. «il 

protagonista resta chiuso nel suo mondo, nella sua a volte patetica, a volte grottesca, alla fine lirico­

simbolica,  monomania  per   “   ’o  presebbio   ”».  Anna  BARSOTTI,  La  drammaturgia  di  Eduardo  De 

Filippo cit., p. 52. 

141

risultato   per   cui   Luca   rivolgendosi   a   sua   moglie   e 

indicando la figlia, sentenzia convinto) Questo è un altro 

capolavoro tuo, il più riuscito!35

Luca sconsolato esce dalla stanza. Il registro muta improvvisamente, 

l’umorismo si eclissa dietro al dramma: la madre cerca di riportarla sulla 

“retta via” e in uno scatto di nervi la figlia distrugge il presepe. Luca torna 

in scena e, resosi conto dell’accaduto, accusa Concetta, come sempre, della 

condotta della figlia.

CONCETTA. È stata figlieta, ’a vi’? Pigliatella cu’ essa.

LUCA.  Cu’  essa?  Me  l’aggia  piglià   cu’  donna  Cuncetta! 

Cunce’, te l’ho detto sempre: tu sei la mia nemica! Ecco 

l’educazione che hai dato ai tuoi figli, e questi sono i frutti 

che   raccogli!   (Ora  sbraita   senza  riserve)  Ma   io  me  ne 

vado!  Vi   lascio   tutti   quanti,   vi   saluto!  Vado   sopra  una 

montagna a fare il romito!36

La battuta non è priva di un certo umorismo amaro. Concetta, avvilita, 

cerca di reagire, ma i sensi le vengono meno e si accascia ai piedi del letto. 

Dopo poco si riprende e Luca,  spaventato,   la rassicura spostando la sua 

35 Eduardo  DE FILIPPO,  Natale in casa Cupiello  cit., p. 371. Vi è un interessante analogia tra Luca 

Cupiello e Luca De Filippo, il nonno di Eduardo. Peppino lo descrive così: «Su don Luca non si 

poteva  fare nessun affidamento serio.  Era a  sua  madre che [Rosina,  sorella  di  Luisa De Filippo] 

confidava   sempre   i   suoi  piccoli   e   grossi   dolori[...].  Spesso   mio  nonno   le   sorprendeva  a   parlare 

sottovoce,  quasi  mormorando e s’arrabbiava se nel  chiedere loro il  perché  di  quelle  segretezze si 

sentiva rispondere: “...è niente... niente!” “Comme? – replicava lui – vuje chiacchierate sottovoce e 

nun pozzo sapè che ve dicite?” “...niente – rispondeva ancora mia nonna o Rosina – è niente...!” Di 

qui,   spesso,   liti   furibonde!   Don   Luca   considerava     “complotto”   quel   parlottare   sottovoce:   un 

complotto contro la sua rispettabile persona: un affronto a lui, uomo di casa: il “pater familias”! Ma 

che uomo di casa? [...] Era abile solamente nel portare con sé confusione e disordine». Peppino DE 

FILIPPO, Una famiglia difficile cit., pp. 114­115.

36 Eduardo DE FILIPPO, Natale in casa Cupiello cit., p. 373.

142

amarezza sui figli:

LUCA.  Tu   nun   m’he   ’a   fa’   mettere   appaura   a   me... 

(Commosso) He ’a vedé che paura me so’ miso! Conce’, 

ccà simme rimaste io e te solamente... ’E figlie nun ’e dda’ 

retta,   tanto   se   sape   ’a   riuscita   che   fanno.   Cunce’, 

penzammo a nuie. (Con sincera amarezza) Hai voglia ’e te 

sacrificà pe’ lloro... È comme si nunn ’e facisse niente... 

Cunce’, si tu muore, moro pur’io! (Un nodo di pianto gli  

stringe   la  gola;   si   toglie   gli   occhiali   e   si  asciuga  una 

lacrima)37.

Suona il campanello e per andare ad aprire Luca lascia nuovamente le 

due  donne  sole,  che   riprendono  il  dramma da  dove era  stato   interrotto. 

Concetta   convince   la   figlia   a   desistere   dai   suoi   propositi;   all’arrivo   di 

Nicola e i due si riappacificano. Il primo atto si conclude come era iniziato, 

sotto il registro farsesco, mentre Luca,  all’oscuro di tutto38, trova per terra 

la lettera indirizzata a Nicola e gliela consegna. 

Il secondo atto invece si apre con aria grave sulle confidenze di donna 

Concetta al portiere:

CONCETTA.   Don   Rafe’,   mi   credete,   mi   è   venuto   lo 

sconfido...

RAFFAELE. Ma c’ ’o dicita a fa’... io saccio tutte cose...

CONCETTA. C’avit’ ’a sapé … che avit’ ’a sapé ….. Io sono 

una povera martire. ’O cielo m’ha voluto castigà cu’ nu 

marito ca nun ha saputo e nun ha voluto fa’ maie niente. In 

37 Ivi, p. 375.

38  «Da   una   fondamentale   inadeguatezza   del   protagonista   nei   confronti   delle   situazioni   nasce   la 

comicità,   o   piuttosto   l’umorismo»   (Paola  QUARENGHI,  Dal   pari   al   dispari  cit.,   p.   37).   Più   che 

inadeguato Luca è «l’inetto a vivere» secondo Barsotti (Anna BARSOTTI, La drammaturgia di Eduardo 

De Filippo cit., p. 49).

143

venticinque   anni   di   matrimonio   m’ha   consumata,   m’ha 

ridotto nu straccio. [...] E se non era pe’ me, chissà quanta 

vote sta casa sarebbe andata sotto sopra.

RAFFAELE. Io e mia moglie lo diciamo sempre: vuie avivev’ 

’a nascere c’ ’o cazone!

CONCETTA. Adesso avete detto una cosa santa39.

Subito   la   tensione   scompare   con   l’apparire   di   uno   dei   personaggi 

comici,  Pasqualino, che lamenta il furto di “una cinque lire” da parte di 

Tommasino.  Quest’ultimo entra   in  casa  con un amico,  Vittorio  Elia,   lo 

stesso che sogna la fuga d’amore con Ninuccia. Ma il dramma non emerge 

finché i personaggi della farsa non sono usciti di scena: in un breve giro di 

battute Vittorio chiede comprensione a Concetta che lo invita a lasciare la 

casa,   raccontando   (a   lui   e   al  pubblico)   con  quanta   fatica   sia   riuscita   a 

riappacificare la figlia col genero dopo la consegna della lettera. Proprio 

mentre   l’ospite   sta   per   uscire   Luca   rientra,   e   con   lui   l’umorismo. 

L’atmosfera  rimane quella   farsesca  fino all’arrivo di  Ninuccia  e Nicola, 

precisamente   fino   al   momento   in   cui   a   quest’ultimo   viene   presentato 

Vittorio Elia.

LUCA.   Mo   te   lo   faccio   conoscere...   (Lo   sgomento  delle  

donne  è  evidente).  Don  Vitto’,   vi   voglio  rappresentare 

mio genero.   (Vittorio  avanza,  a  occhi  bassi).  Niculi’,   ti 

presento Vittorio Elia, fa Natale con noi. (Indicando suo 

genero) Nicolino Percuoco, fabbricante di bottoni. Tiene 

centinaia di operai che dipendono da lui. Tiene i pensieri. 

(Nicolino vedendo Elia resta pietrificato. Gli si legge sul  

volto   la   piena   di   sdegno   che   vorrebbe   traboccare...  

Vittorio   accenna   un   lieve   saluto   col   capo.   Luca   e  

Pasquale   si   guardano   sorpresi   di   quella  freddezza. 

39 Eduardo DE FILIPPO, Natale in casa Cupiello cit., p. 381.

144

Concetta, con la morte nel cuore, aggiusta qualcosa sulla  

credenza,  per  darsi  un  contegno  e  parla  sottovoce  con  

Tommasino. Luca, disorientato chiede al fratello) Ma che 

è stato?

Pasquale si stringe nelle spalle.

NICOLINO  (trae   in   disparte   Ninuccia,   annichilita   e 

sprofondata   nel   suo  dramma,   e   le   chiede   con   rabbia  

repressa). Nun ne sapive niente, tu? (E attanaglia in una 

stretta   potente   la   piccola   mano   di   Ninuccia   nella   sua  

gelida e tremante).

NINUCCIA  (non   resiste   alla   stretta   ed   emette   un   grido  

acuto). Aaaaaaah! (Libera la mano e massaggiandola con 

l’altra   dice   a   denti   stretti)   E   statte   fermo,   ca   me   faie 

male!40

Dopo questa  breve  parentesi   riconquistano  la  posizione  i  personaggi 

comici che, cercando un dialogo con quelli drammatici, presi da tutt’altro, 

creano  gaffes  e esilaranti equivoci (Luca mostrando a Nicolino il manico 

dell’ombrello: «è materia tua, tu te ne intendi: è corno vero»41). Rimasti soli 

Vittorio e Ninuccia si baciano, ma Nicolino entra con orgasmo, assesta uno 

schiaffo   a   Vittorio,   e   all’acme   del   dramma   popolare   esclama:   «Tu   si’ 

n’ommo ’e niente!»42  I  due scendono  in  strada  per  battersi,  Ninuccia   li 

segue per intervenire e Concetta rimane affranta senza riuscire a profferire 

parola. All’improvviso, la farsa: Luca, Pasqualino e Tommasino, travestiti 

da re magi, entrano in scena recando i doni per Concetta e intonando «Tu 

40 Ivi, p. 392.

41 Ivi, p. 397.

42 Ivi, p. 399.

145

scendi dalle stelle, Concetta bella, e io t’aggio purtata quest’ombrella»43, in 

grottesca antitesi con la tragedia che si sta consumando fuori scena. 

Nel terzo atto l’umorismo è più sottile, quasi rispettoso del dolore che si 

vive   in  quei  giorni   in  casa  Cupiello44.  Sono  passati   tre  giorni:  dopo   la 

catastrofe del secondo  atto Luca, investito da quella realtà che la moglie, 

ritenendolo   incapace,   gli   aveva   sempre   tenuta  nascosta,   non   regge:  «la 

realtà dei fatti ha piegato come un giunco il provato fisico dell’uomo che 

per  anni  ha  vissuto  nell’ingenuo  candore  della   sua  ignoranza»45.  Nella 

camera da letto i  casigliani vegliano il  malato che,  quasi privo di sensi, 

continua  a chiedere di  Nicola.  Qualche  breve  sketch,  poi  una battuta  di 

Concetta alla figlia che piomba la scena in un’atmosfera ancora più cupa.

CONCETTA  (a   Ninuccia,   in   tono   di   rimprovero).   Mo   si’ 

cuntenta, mo... a chisto posto ccà t’ ’o dicette: «Giurame 

ca faie  pace con tuo marito e  fernesce tutte cose»...  He 

visto ch’he fatto succedere?46

Dopo la visita del medico, che annuncia a Pasqualino l’inevitabile (con 

43 Ivi, p. 400.

44  Meldolesi   chiama   in   causa   Pirandello   «a  proposito   dello   sperimentalismo   di  quel   terzo   atto. 

Eduardo,  nell’occasione,   sperimentò   una  durata   tutta  per   linee   interne,   senza  colpi  di   scena,  che 

nasceva dallo stesso tema del caffè  del primo atto.  Era questa la principale novità.  Come tutti  gli 

attori­autori, egli  si  era abituato a diagrammi drammaturgici  stretti,  puntellati  da oggetti  di  sicuro 

richiamo. Invece, nel terzo atto di Natale in casa Cupiello, la drammaturgia degli effetti  lasciava il 

campo a  una drammaturgia dilatata  dall’intimità  del  personaggio,  all’interno della  quale   l’effetto, 

anche   l’effetto   comico,   si   faceva   segno   leggero   di   tragedia».   Claudio  MELDOLESI,  La   trinità   di  

Eduardo: scrittura d’attore, mondo dialettale e teatro nazionale, in Fra Totò e Gadda. Sei invenzioni  

sprecate dal teatro italiano, Roma, Bulzoni, 1987, p. 60.

45 Eduardo DE FILIPPO,  Natale in casa Cupiello cit., did., p. 401. Franca Angelini sostiene che Luca 

«reagisce con la malattia, l’immobilità, il silenzio, l’involontaria ricerca dell’assenza e della morte al 

crollo del suo mito familiare».  Franca Angelini, Il teatro del Novecento, Roma­Bari, Laterza, 1976, p. 

139.

46 Eduardo DE FILIPPO, Natale in casa Cupiello cit., p. 404.

146

un invito, «date curaggio ’e femmene», che ha del paradossale), Vittorio 

Elia si presenta in casa Cupiello, cercando il perdono di donna Concetta; 

ma Luca nel suo delirio lo scambia per Nicolino47 e unisce al capezzale la 

sua mano con quella di Ninuccia chiedendogli: 

LUCA. [...] Fate pace in presenza mia, e giurate che non vi 

lasciate   più.   (E   visto   che   i   due   non   parlano,   insiste) 

Giurate, giurate!48

In quel mentre arriva Nicola che assistendo alla scena, «ha come una 

furia di sangue al cervello»49 ed esce di scena trascinato via dai casigliani. 

In chiusura, dopo aver ottenuto dal figlio l’agognato “sì” alla domanda 

«te piace ’o Presebbio?»

Luca disperde lo sguardo lontano, come per inseguire una 

visione incantevole:  un Presepe grande come il  mondo,  

sul  quale scorge il  brulichio festoso di uomini  veri,  ma 

piccoli  piccoli,  che si  dànno un da  fare  incredibile  per  

giungere in fretta alla capanna, dove un vero asinello e  

47 Dopo la consegna della lettera a Nicola nel primo atto e l’invito a cena di Vittorio nel secondo atto,  

Luca, nonostante la buonafede, ancora una volta si mostra come «involontario creatore di odi e non di 

amore». Giovanni  ANTONUCCI,  Introduzione a Eduardo De Filippo,  introduzione e guida allo studio  

dell’opera eduardiana, Firenze, Le Monnier, 1990,, p. 56.

48   Eduardo DE FILIPPO,  Natale in casa Cupiello cit.,  p. 411. Secondo Quarenghi «[...] questo nuovo 

finale   [col   terzo   atto],   con  un  moribondo che  si   fa  giurare   eterna   fedeltà  da  due  amanti,   risulta 

piuttosto difficile da accettare per una società perbenista che pone tra i suoi fondamenti il culto della 

famiglia (e in questo senso si possono individuare nella commedia le tracce di una battaglia verso un 

nuovo modello di famiglia che Eduardo porterà avanti, forse più consapevolmente, anche in opere 

successive)»   (Paola  QUARENGHI,  Dal   pari   al   dispari  cit.,   p.   43).   Inoltre   la   stessa   struttura   della 

commedia   portava   allo   spettatore   una   «specie   di   doccia   scozzese   [...]   propinata   dopo   due   atti 

estremamente comici» (Titina DE FILIPPO in Augusto CARLONI, Titina De Filippo: vita di una donna di  

teatro, Milano, Rusconi, 1984, p. 46).

49 Eduardo DE FILIPPO, Natale in casa Cupiello cit., did., p. 414.

147

una vera mucca, piccoli anch’essi come gli uomini, stanno 

riscaldando   con   i   loro   fiati   un   Gesù   Bambino   grande  

grande   che   palpita   e   piange,   come   piangerebbe   un 

qualunque neonato piccolo piccolo... 50

2.3 «Gennareniello»

Ambientato in una terrazza,  Gennareniello  è  una panoramica su una 

giornata di una famiglia popolare napoletana. La storia, racchiusa in un atto 

unico,  è  semplice:  Gennaro e Concetta vivono col  figlio Tommasino, la 

sorella   di   lui,   Fedora,   e   un   inquilino   insolvente,   Matteo.   Su   questo 

«angusto  terrazzino   tra  i   tetti»51  Concetta  stende il  bucato,   in  mezzo ai 

balconi del  vicinato,  fra i  quali  vi è  quello della bella e discussa vicina 

Anna Maria. Gennaro scrive poesie e crea invenzioni; le prime sono per la 

bella   vicina,   che   si   diverte   a   provocarlo.   Michele,   giovane   ingegnere 

invitato da Gennaro per mostrargli l’ultima invenzione, pare più interessato 

a   Anna   Maria   che   al   brevetto.   Il  climax  della   commedia   si   raggiunge 

quando la vicina chiede un bacio a Gennaro, che si arrampica su una sedia 

per riuscire a darglielo. Sorpreso dalla moglie, viene amaramente ripreso. 

Scoppia  la  lite,  Gennaro minaccia  di   lasciare   la casa,  mentre  Michele  e 

Matteo cercano di trattenerlo, invitando i coniugi alla riappacificazione. A 

un   tratto   il   pittore   e   l’ingegnere,   che   hanno   riso   finora   dello   scherzo, 

passano  allo  scherno.  È   il  momento  della  iacuvella52:   i  due  prendono   i 

panni del bucato e li appoggiano su don Gennaro, deridendolo ferocemente. 

50  Ivi,   p.   415.   Ci   sembra   di   vedere   in   questo   “passaggio   di   consegne”   una   metafora   di   quel 

generazionale “slittamento” di ruoli.

51 Eduardo DE FILIPPO, Gennareniello, in Cantata dei giorni pari cit., p. 427.

52  Con il termine “iacuvella” si indica nel dialetto napoletano un «fatto serio trasformato in cosa 

ridicola da persona poco seria». Ivi, p. 776.

148

MICHELE. Mo, ’a sera, a Gennareniello lo vedremo spesso 

al Trocadero... Però dovete essere più elegante... Ce vo’ nu 

fiore mpietto... camicie di seta...

MATTEO. ’E capille se l’ha da tignere... Na bella scatola ’e 

cromatina nera...

MICHELE.  Mettiteve   accussì...   (Lo   aggiusta   con   un 

bastoncino   e   un   cappello   vecchio   […]   ed   un   paio   di  

calzini spaiati in mano come guanti).

MATTEO. Donna Cunce’, ccà sta Gennareniello...53

 

A questo punto Concetta si ribella, decide di rimettere “al posto loro” i 

due rivendicando il possesso e in tal modo salvando la dignità del marito:

CONCETTA.  Ma  vuie   a   chi   credite   ’e   sfruculià...?  Ma   ’o 

sapite ca io femmena e bona tengo ’o core ’e ve piglià a 

pacchere   a   tutte   dduie...   Maritemo   è   n’ommo   serio... 

Maritemo è d’ ’o mio e ghiatevenne!54

La  commedia   si   chiude  nel   lieto   fine   con  Gennaro   che   si   avvicina 

esitante alla moglie cantando «Nun me dicite no... uocchie che ragiunate... 

senza parlà... senza parlà...» e lei commossa, lo guarda. «La poesia si può 

salvare   anche   nella   mediocrità   quotidiana»55,   e   soprattutto   nella 

quotidianità familiare.

Come ha notato Barsotti, questo atto unico «è senza dubbio fra i più 

interessanti,  anche per  il  rapporto gemellare  che lo lega al  Natale»56  (la 

53 Ivi, p. 441.

54 Ibidem. Il corsivo è nostro.

55 Anna BARSOTTI, Nota storico­critica introduttiva a “Gennareniello”, in Cantata dei giorni pari cit., 

p. 418.

56 Ivi, p. 415.

149

commedia è stata scritta nel 1932 in concomitanza col secondo atto della 

commedia dei Cupiello). Infatti anche i personaggi si corrispondono: Luca 

e Concetta, per età e per carattere, si riconoscono nella coppia di Gennaro e 

Concetta; Tommasino rimane se stesso anche nel nome, sempre “grande 

bambino   cresciuto”,   stavolta   caratterizzato   ulteriormente   da   una 

pulcinellesca fame atavica; Ninuccia, l’innesco drammatico nel  Natale, la 

ritroviamo in Anna Maria, bella vicina di casa; al posto di zio Pasquale 

abbiamo qui zia Fedora, sempre in contrapposizione col nipote. Anche in 

Matteo   e   Michele   si   possono   affiancare,   rispettivamente,   Nicolino   e 

Vittorio Elia. Entrambi sono abbagliati dalla stessa Anna Maria, ma sarà 

Michele­Vittorio   che   con   la   sua   entrata   nell’ambiente   familiare   (in 

entrambe le commedie questo personaggio viene da “fuori”) determina la 

“catastrofe”.

Una interessante chiave di lettura di questa commedia familiare è quella 

di Barsotti: «Gennaro non si rassegna a sentirsi “un uomo finito”; più che 

mostrare il ridicolo d’un innamoramento fuori stagione, il suo personaggio 

esprime il piccolo dramma – quasi cecoviano – di uno coi capelli grigi, che 

sente all’improvviso ritornare l’illusione della giovinezza»57. 

2.4 «Uno coi capelli bianchi»

Seguendo   la   linea  del   “famigliarismo”  arriviamo  a  Uno  coi   capelli  

bianchi58, commedia in tre atti del 1935. La vicenda si svolge intorno alla 

57 Ivi, p. 417.

58  Fiorenza Di Franco istituisce un parallelo fra questa commedia e  Mia famiglia,  nella quale «a 

distanza di vent’anni, si ritrova una tematica simile a quella sviluppata in Uno coi capelli bianchi: il 

rapporto   fra   i   giovani   e  gli   adulti,   la   fede   del   capofamiglia   nella   propria   presunta   superiorità   e 

infallibilità». Fiorenza DI FRANCO, Il teatro di Eduardo, Bari, Laterza, 1975, p. 167 .

150

famiglia   di   Giambattista   Grossi.   Il   vecchio   capofamiglia   vive   nella 

«ricchezza sfrontata degli industriali arricchiti»59, con sua moglie Teresa. 

Sua  figlia  Giuseppina  ha  sposato  Giuliano,  giovane socio  di  Battista,   il 

quale  è   deciso   a  non   lasciargli   troppo  potere  decisionale   («io   so’  vivo 

ancora, eh! Non credere che dopo tanti anni che ho buttato il sangue, mi si 

debba mettere in disparte! Che figura farei?»60).

L’innesto drammatico di tutta la vicenda è dato dal fastidioso modo in 

cui Giambattista rinfaccia la sua vecchiaia per castrare il genero:

BATTISTA. Giulia’, io devo salvaguardare la mia serietà di 

uomo che sta vicino alla sessantina! Quando ci arriverai 

pure   tu,   capirai   come   e   perché   si   deve   camminare   sul 

taglio di un coltello. Io, grazie a Dio, non mi son trovato 

mai   in   mezzo   a   guai   perché,   più   giovane,   lavoravo 

all’oscuro,   accanto   alla   buon’anima   di   mio   padre   che, 

povero vecchio, s’era mezzo rimbambito; e dovevo dargli 

l’illusione che facesse tutto lui, che tutto dipendesse da lui. 

Mo, cu’ na fabbrica ncopp’ ’e spalle,  aggi’ ’a menà a te  

nnanze, perché sei giovane, sei il marito di mia figlia, e 

t’aggi’ ’a fa’ fa’ strada... Ho l’esperienza... n’aggio visto 

che n’aggio visto...61

Giuliano   è   il   genero   di   Giambattista,   ma   la   contrapposizione 

rappresentata è quella eterna tra padri e figli. Quella per cui i primi hanno 

sempre   della   aspettative  nei   confronti   dei   secondi,   pensando   che   la 

formazione dovrebbe essere la stessa che hanno avuto loro da giovani:

BATTISTA.  Come siete  giovane!  Beato voi!  Avvoca’,  che 

59 Eduardo DE FILIPPO, Uno coi capelli bianchi, in Cantata dei giorni pari cit., did., p. 472.

60 Ivi, p. 476.

61 Ivi, p. 475. Corsivo nostro.

151

bella cosa ’a gioventù! Specie per lui che, con la morte 

della buonanima del padre,  si  è   trovato socio mio senza 

sapé   nemmeno   come!...   senza   quel   tirocinio   che   ti 

avvelena tutta un’adolescenza...  E bravo ’o piccerillo! E 

bravo il mio socio!62

Nel secondo atto emerge particolarmente viscida la figura del suocero63, 

che loda  il genero per magnificare se stesso. Il giovane Giuliano mostra 

segni di insofferenza e si sfoga con l’industriale Lorenzo, quando questi, 

parlando di Battista, gli dice:

LORENZO.   Io   non   lo   conoscevo   personalmente,   ma   vi 

garantisco che sono rimasto veramente colpito dal modo 

come tratta gli affari, dalla sua serietà, e soprattutto dalla 

sua modestia. Parlammo a lungo pure di voi, e vi vuole 

molto bene. Quando io gli feci i complimenti, non solo per 

l’idea felice della nostra fusione,  ma anche per  il  modo 

come sono state condotte a termine le trattative, lui disse 

testualmente:  «No,  no,   il  merito   a   chi   spetta...  Tutto   si 

deve a mio genero; io non ho fatto altro che seguirlo...» È 

meritevole   di   ammirazione,   questo,   perché   si   nota   il 

proposito di spingere avanti i giovani. Lui, magari, lancia 

l’idea, dà il consiglio, e poi si ritira tranquillo in disparte... 

Questo è bello... È ammirevole veramente.

62 Ivi, p. 477.

63  Il   personaggio   suocero­padre   è   amplificato   nei   suoi   difetti   quasi   con   accanimento.   Sostiene 

Frascani: «Questa commedia sembra scritta per fatto personale, centrata com’è su di un protagonista 

la cui  odiosità  dà   l’impressione di essere stata ricavata mediante la meticolosa osservazione di  un 

modello vivente. Anche un risentimento, un’antipatia, il ricordo di un torto subìto, possono mettere in 

moto la penna di uno scrittore di teatro. Tra i tanti personaggi la cui paternità spetta ad Eduardo De 

Filippo ve ne sono alcuni che sembrano il pagamento di un conto che l’autore non ha saputo lasciare 

in sospeso. Il Battista di Uno coi capelli bianchi deve appunto essere arrivato sulla scena per questa 

via». Federico FRASCANI, Napoli amara di Eduardo De Filippo, Firenze, Parenti, 1958, p. 41.

152

GIULIANO. Già. L’unico mezzo per farsi credere innocente o 

per   lo  meno   creare   il   dubbio,   è   quello   di   dichiarare 

apertamente: «Io sono il colpevole!» Caro Commendatore, 

sarebbe ora di finirla col fatto dei giovani e dei vecchi. A 

parte il fatto che qualunque cosa fai: «Sì, è grazioso; ma io 

tengo un’altra   esperienza...  Nella  mia  vita  ho  visto  ben 

altro...»   E   vuie   agliuttite,   agliuttite...   a   parte   questo,   ci 

sono   dei   casi  singolari.   Ce   sta   ’o   viecchio   ca   nun   è 

viecchio e nun è giovane, che al suo attivo tiene solamente 

gli   anni...   E   come   se   li   fa   valere!   Con   l’esasperarti, 

sapendo che   ti   esaspera;  col  deridere   la   tua  giovinezza, 

avendo l’aria di fartene una colpa; e te stuzzica, te pogne; 

e tu zitto, perché lo devi considerare: è viecchio! Tene ’e 

capelli bianchi; è un trucco, credete a me. A questo tizio, 

l’ha truccato il Padreterno!64

Nel terzo atto Battista,   inopportuno, rivela  alla figlia una confidenza 

fattagli dal genero, che durante una serata con amico si è trovato a ballare 

con una tedesca ubriaca. Giuseppina reagisce dando sfogo a un malessere 

troppo a lungo serbato: quello di una moglie trascurata e annoiata:

GIUSEPPINA.   [...]   Il   lavoratore!..   L’uomo   che   lotta   per 

affari... che torna a casa stanco... che nun se fida manco ’e 

parlà... E io? Io!... Io nun faccio niente!... Non è più dura 

la condanna mia? Quante volte ce l’aggio ditto: «Famme 

fa qualche cosa...  Un  lavoro qualunque!» Perché   la  mia 

vita   è   vuota,   vuota!   Vuota   pecchè   tengo   nu   marito 

lavoratore!... E sì, va bene... Ma questio marito, poi un’ora 

di   libertà   che  tene,   invece di  dedicarla  alla  moglie,  che 

passa la vita aspettando, se ne va al Circolo, a ballà...65

64 Eduardo DE FILIPPO, Uno coi capelli bianchi cit., pp. 487­488.

65 Ivi, p. 503.

153

Il   finale   della   commedia,   amarissimo,   mostra   Giuliano   esasperato 

riversare sul suocero tutto quello che questi ha provocato con la sua serietà 

mancata e pretesa solo per l’esperienza dei suoi «capelli bianchi»; Giuliano 

all’apice della rabbia inveisce contro Battista schiaffeggiandolo:

GIULIANO. Carogna! M’ha distrutto una casa, m’ha distrutto 

una vita!

[...]

BATTISTA  (alla   vista   degli   astanti   riprende   coraggio   e 

senza alzarsi da terra naturalmente per destare maggiore 

pietà urla con odio). Fuori di casa mia! Fuori! Vigliacco! 

Mi ha schiaffeggiato! Che bell’eroismo! (Ora il suo tono è  

pietoso) [...] Mi ha messo le mani addosso! A me! (Prende 

una ciocca dei suoi capelli bianchi, come per mostrarli) A 

me!66

66 Ivi, p. 508.

154

II.3 La famiglia ne La cantata dei giorni dispari

Questa stagione Barsotti la descrive

scandita   storicamente   dal   passaggio   attraverso   il  boom 

economico,   l’egemonia   culturale   americana,   la 

contestazione   e   il   crollo   dei   pregiudizi   e   degli   antichi 

valori   famigliari   e   sociali,   fino  alla   crisi   stessa   di  quel 

sistema così come si era provvisoriamente costituito. I due 

filoni in cui si articola e si alterna questa fase sono quello 

della   trasformazione   traumatica   della  famiglia  (da  Mia 

famiglia  del ’54 a  Sabato, domenica e lunedì  del ’59), e 

quello   della   necessità   e   problematicità   di   un  impegno 

civile  (da  De Pretore Vincenzo  del ’57 a  Il  sindaco del 

Rione  Sanità  del   ’60).  Opera   riassuntiva  dei   due   filoni 

avrebbe dovuto essere l’ultima:  Gli esami non finiscono 

mai del ’7367.

3.1 «Napoli milionaria!»

In Napoli milionaria! la figura della famiglia assurge a simbolo di una 

società.   Il   luogo   scenico   è   un   “basso”   («enorme   “stanzone”   lercio   e  

affumicato»68  che da’  sulla strada)  nel  cui  spazio angusto si  muovono  i 

personaggi della commedia.

Il  primo atto  si  apre sul   risveglio  della   famiglia  di  Gennaro  Jovine, 

tranviere   disoccupato,   composta   da   Amalia   sua   moglie   e   i   figli   Maria 

Rosaria e Amedeo. La scena si svolge sul finire del 1942, secondo anno di 

67 Anna BARSOTTI, La drammaturgia di Eduardo De Filippo cit., p. 49.

68 Eduardo DE FILIPPO,  Napoli milionaria!, ne La cantata dei giorni dispari, vol. I, Torino, Einaudi, 

1998, did., p. 17.

155

guerra.  Per  portare avanti   la famiglia Amalia si  dedica al mercato nero; 

inoltre il suo basso è un punto di ritrovo per la gente del quartiere che, tra 

un bombardamento e l’altro, vi si ferma per comprare una tazza di caffè, in 

quei giorni introvabile. Amalia è

una   donna   sui   trentotto   anni,   ancora   piacente.   Il   suo  

modo di parlare,  il suo tono e i suoi gesti dànno subito  

l’impressione di un carattere deciso, di chi è abituato al  

comando. [...]  Ha degli  occhi irrequieti:   tutto vedono e  

tutto osservano. Riesce sempre a formarsi una coscienza 

delle   proprie   azioni,   anche   quando   non   sono  del   tutto  

rette. Avida negli affari, dura di cuore; talvolta maschera  

il suo risentimento per una qualche contrarietà con parole  

melate,   lasciando   però   indovinare   il   suo   pensiero 

dall’ironia dello sguardo69.

Gennaro  è   preoccupato  per   l’attività   della  moglie,  ma  non  può   che 

cedere innanzi alla situazione: «Se colla tessera nun se po’ campà, allora si 

deve ricorrere alla borsa nera.. Si deve vivere col pericolo che ti arrestano, 

che vai carcerato...  (Non sa più dove parare con le sue argomentazioni;  

cedendo ad una ineluttabilità, dichiara con un tono umano, comprensivo) 

Ama’, stàmmece attiente...»70. 

Nel secondo atto sono passati alcuni mesi, lo sbarco alleato è avvenuto. 

Gennaro, lo apprendiamo, è stato fatto prigioniero dai tedeschi e non se ne 

è più saputo niente. Amalia intanto si è arricchita col mercato nero e ha 

messo su un’attività di commercio con Errico Settebellizze, giovane scaltro 

del rione. Fra i due esiste una tensione equivoca:

69 Ivi, did., pp. 21­22. 

70 Ivi, p. 35.

156

AMALIA: Voi sapete se io vi stimo e si ci ho o no ci ho una 

simpatia per voi... Anzi sento un trasporto così reciproco 

che alle volte mi sento a voi vicino che mi guardate con gli 

occhi   talmente   assanguati,   ca  me  pigliassi   a   schiaffi   io 

stessa, talmente ca desiderasse che la fantasia fosse lealdà  

(Errico   abbassa   gli   occhi   triste.   Amalia   incalza)   La 

società che ci abbiamo... io accattanno e vennenno e vuie 

cu’   ’e   camionne...   ci   ha   fatto  guadambiare  bene...   e 

ringraziammo  Dio...  (Conseguenziale)   Perché   dobbiamo 

commettere  il  malamente? Io  tengo na figlia  grossa...  E 

Gennarino?

ERRICO  (scettico).   Ma   don   Gennaro,   oramaie,   è   più   ’e 

n’anno ca  nun avite  nutizie...   [...]  Pe’  me,  dico  ca  don 

Gennaro è muorto!71

Anche per gli altri le cose sono cambiate. Il figlio Amedeo ha lasciato 

la società del gas dove lavorava e ora frequenta Peppe «’o Cricco», il quale 

ruba le ruote delle automobili per poi rivenderle. La piccola Rituccia – che 

anche per questo atto e per il seguente non entrerà in scena72 – si ammala. 

La figlia Maria Rosaria rimane incinta di un soldato americano che, dopo 

averle   promesso   di   portarla   con   se   in   America,   è   scomparso.   Nel 

confessarlo   a  Amalia   accuserà   lei   dell’accaduto,   colpevole   di   non   aver 

saputo fare la madre:

MARIA ROSARIA. E io nun ce avevo miso sulo ’o pensiero... 

Ma ’o core, ce avevo miso... E vuie putìveve tene’ nu poco 

cchiù  ll’uocchie apierte ncuollo a me! E mo è inutile ca 

71 Ivi, pp. 61­62.

72 La figura della figlia minore emerge da «una “camera di là”, “in prima quinta a sinistra”, appunto, 

[che] proietta in scena tutta la carica simbolica di Rituccia, personaggio assente, e della sua malattia, 

che è la malattia del vicolo che trapela dal fondo, e la malattia di Napoli». Antonella OTTAI,  Le due 

scritture: il tondo e il corsivo nelle commedie di Eduardo, in L’arte della commedia cit., p. 90.

157

alluccate, pecché nun c’è cchiu rimedio...[...] L’avìvev’ ’a 

vede’ primma! E quann’io ’a sera ascevo cu ’e cumpagne 

meie,   invece   ’e   ve   fa   piacere,   accussì   putiveve   fa’   ’o 

còmmedo   vuosto,   v’avìvev’   ’a   sta   attienta...   Invece   ’e 

penza’ agli affari, a ’e denare... penzàveve a me! [...] Ma 

pecché   teniveve   ’o   tiempo   ’e   penza’   a   me?   E   a 

Settebellizze chi ce penzava? Io?

AMALIA  (riesce   a   stento   a   frenare   il   suo   furore)  Uh, 

guardate?... E io mo t’ ’o spiego n’ata vota... Settebellizze 

e   io   teniamo una società  di  accattare  e  vénnere...  E so’ 

affare   ca   nun   te   riguardano!  (D’improvviso   diventando 

aggressiva)  E me l’aggi’ ’a vede’ io, he’ capito? Ma tu, 

parla...   Fatte   asci’   ’o   spireto.  (Va   in   fondo   e   chiude   i  

battenti della porta) Quanno... Addo’?

MARIA  ROSARIA  (trattando   la   madre   da   pari   a   pari   e 

guardandola negli  occhi le grida). Ccà... ’O facevo trasi’ 

ccà... Quanno vuie, ’a sera, ve ìveve a fa’ ’e passiate e ’e 

cenette cu Settebellizze...

AMALIA  (sbarrando  gli  occhi).  Ccà?  Dint’   ’a   casa  mia? 

Schifosa!   E   nun   te   miette   scuorno   e’   m’   ’o   ddicere 

nfaccia?   E   parle   ’e   me?   Tu   nun   si   degna   manco   ’e 

m’annummena’! Ma io  te scarpéso sott’ ’e  piedemieie... 

Te faccio addeventa’ na pizza...

MARIA  ROSARIA  (non   disarma).  E   chiammate   pure   a 

Settebellizze...  Dicitincelle  ca me venesse  a vàttere pur’ 

isso... Tanto, vuie chistu deritto ce l’avite già dato...

AMALIA (controlla a stento il tono della sua voce perché il  

fatto   non   dilaghi   nel   vicolo).  Malafemmena!   Si’   na 

malafemmena!

MARIA ROSARIA (puntando l’indice verso la madre). Chello 

ca site vuie...

AMALIA (fuori di sé). T’accido, he’ capito?73

73 Eduardo DE FILIPPO, Napoli milionaria! cit., pp. 64­65.

158

D’un tratto un mormorio di voci nel vicolo preannuncia il ritorno di 

Gennaro.   Rientrato   in   casa,   non   riconosce   la   moglie,   bellissima   e   ben 

vestita.   Si   trova   stranito   quando   vede   che   tutti   attorno   a   lui   ridono 

spensierati   festeggiando   il   compleanno   di   Settebellizze.   Nessuno   vuole 

ascoltare quello che gli è capitato ed egli, in mezzo agli schiamazzi gioiosi 

dei commensali, si ritira con Maria Rosaria a vegliare Rituccia. 

Nel   terzo   atto   le   condizioni   della   piccola  peggiorano;   il   medico 

chiederà una medicina introvabile grazie a quelle logiche di mercato nero 

tante volte dalla stessa Amalia adottate. Trovato il rimedio, il medico non 

potrà che osservare: «Mo ha da passà ’a nuttata. Deve superare la crisi»74. 

La   stessa   crisi   e   la   stessa   nottata   dovranno   essere   superate   anche   dai 

familiari  di  Gennaro,  metonimia  dell’intera  società  postbellica.  Gennaro 

riesce a mettere i suoi familiari dinnanzi a quella realtà che non avevano 

saputo affrontare:

GENNARO (chiude il telaio a vetri e lentamente si avvicina  

alla donna. Non sa di dove cominciare; guarda la camera 

della   bimba   ammalata  e   si   decide).  Ama’,   nun   saccio 

pecché, ma chella criatura ca sta llà dinto me fa penza’ ’o 

paese  nuosto.   Io   so’   turnato  e  me  credevo   ’e   truva’   ’a 

famiglia   mia   o   distrutta   o   a   posto,   onestamente.   Ma 

pecché?...   pecché   io   turnavo  d’   ’a  guerra...   Invece,   ccà 

nisciuno ne vo’ sentere parla’. Quann’io turnaie ’a ll’ata 

guerra, chi me chiammava ’a ccà, chi me chiammava ’a 

llà.   [...]   Ma   mo   pecché   nun   ne   vonno  sèntere   parla’? 

Primma ’e  tutto pecché  nun è  colpa  toia,  ’a guerra nun 

l’he’ vuluta tu, e po’ pecché ’e ccarte ’e mille lire fanno 

perdere ’a capa... (Comprensivo) Tu ll’he’ accuminciate a 

74 Ivi, p. 94.

159

vede’ a poco ’a vota, po’ cchiù assale, po’ cientomila, po’ 

nu milione... E nun he’ capito niente cchiù... [...] (Pausa) 

Che   t’aggi’   ’a  di’?  Si   stevo  cca,   forse  perdevo  ’a  capa 

pur’io... A mia figlia, ca aieressera, vicino ’o lietto d’ ’a 

sora, me cunfessaie tutte cosa, che aggi’ ’a fa’? ’A piglio 

pe’ nu  vraccio, ’a metto mmiez’ ’a strada e le dico: «Va 

fa’ ’a prostituta»? E quanta pate  n’avesser’  ’a caccia  ’e 

figlie? E no sulo a Napule. Ma dint’ ’a tutte ’e paise d’ ’o 

munno. A te ca nun he’ saputo fa’ ’a mamma, che faccio, 

Ama’,   t’accido?   Faccio   ’a   tragedia?   (Sempre   più  

commosso,   saggio)  E   nun   abbasta   ’a   tragedia   ca   sta 

scialanno   pe’   tutt’   ’o   munno,   nun   abbasta   ’o   llutto   ca 

purtammo nfaccia tutte quante... E Amedeo? Amedeo che 

va facenno ’o mariuolo? [...]  (Il  crollo totale  di Amalia 

non gli sfugge, ne ha pietà)  Tu mo he’ capito. E io aggio 

capito   che   aggi’   ’a   sta’   ccà.   Cchiù   ’a   famiglia   se   sta 

perdenno   e   cchiu   ’o   pate   ’e   famiglia   ha   da   piglia’   ’a 

responsabilità. (Ora il suo pensiero corre verso la piccola 

inferma).  E se ognuno putesse guarda’ ’a dint’ ’a chella 

porta...  (mostra la prima a sinistra) ogneduno se passaria 

’a  mano  p’   ’a   cuscienza...  Mo  avimm’aspetta’,  Ama’... 

S’ha da aspetta’. Comme ha ditto ’o dottore? Deve passare 

la nottata75.

3.2 «Filumena Marturano»

La   successiva   commedia   in   cui   è   direttamente   trattata   la   tematica 

familiare è Filumena Marturano, ma ricordiamo che questo aspetto, anche 

quando non centrale per l’intreccio, viene affrontato in altre opere. È il caso 

di  Questi   fantasmi!,   commedia   sull’incomunicabilità   nel   rapporto   fra 

75 Ivi, pp. 95­96.

160

coniugi   (non ci   sono figli),  concetto  che  poi  sarà   ripreso  e  allargato   in 

alcune   commedie   successive.   Alfredo,   l’amante   della   moglie   del 

protagonista   (Maria),   ha   abbandonato   la   sua   famiglia   e   paragona 

cinicamente il suo matrimonio (ma anche il matrimonio in generale) a un 

contratto:

MARIA.  [...] quante volte ti ho consigliato di tornare in te, 

alla tua casa...

ALFREDO. Per metterti a posto con la tua coscienza. Pe’ nun 

fa’ peccato... perché è peccato, hanno detto gli uomini, di 

seguire il proprio istinto e d’arrivà addò te porta ’o core. 

Però   sei   venuta   da   me   di   nascosto,   quanno   ’o   core   te 

diceva ’e sì. La gioia l’hai desiderata e l’hai voluta, poi hai 

fatto il caso di coscienza, credendo di metterti a posto con 

Dio, e mi hai detto: «Alfre’, smettiamola!... Torna a casa 

tua,  dai figli   tuoi...»  Vedi,  Mari’   io rispetto  le  tue idee; 

però tu conosci le mie... Non è colpa tua. Te l’hanno ditto, 

l’hanno   predicato,   ’o   ssapive   primma   ’e   nascere   ca   ’e 

ccose   se   fanno   ’e   nascosto.   Ma   il   mio   progetto   non 

cambia. E se è vero che non si può pretendere di cambiare 

da  un  momento  al’altro   tutto   l’ordinamento  di  una  vita 

sociale, ti garantisco che l’ordinamento di un solo mondo, 

quello nostro, lo cambierò io. Con mia moglie ho parlato 

chiaro.  I  figli  andranno per  la  loro strada,  so’ gruosse... 

Pago,   pago   la   penale   per   essere   venuto   meno   ad   un 

contratto, nu piezzo ’e carta ca, quanno ll’ ’e firmato, è 

comm’ a na cundanna a morte... ca te ncatena pe’ tutta ’a 

vita...76

Mentre   Pasquale   riconosce   davanti   alla   moglie   il   loro   dramma,   la 

76  Eduardo  DE  FILIPPO,  Questi fantasmi!, ne  La cantata dei giorni dispari, vol. I, Torino, Einaudi, 

1998, pp. 150­151.

161

perdita della comunicazione.

PASQUALE.   [...]   Che   tristezza...   Come   finisce   tutto 

l’entusiasmo, tutto l’amore. Mesi e mesi senza scambiare 

una parola, un pensiero... [...] Te ricuorde, Mari’, quanno 

facevamo ’ammore?  Ce  guardàvemo dint’  all’uocchie  e 

nun   parlàvamo   per   timidezza,   ma   cu’   ll’uocchie   ce 

dicévemo tanta cose. E io mi sentivo infelice, nel senso 

che   mi   sentivo   goffo   vicino   a   te,   perché   mi   sentivo 

niente...  E quanno uno se sente niente, tutto diventa più 

facile,   più   piacevole...   Per   qualunque   cosa   si   trova   il 

rimedio: pure ’a morte addeventa bella! Si scherza, si ride, 

senza quel preconcetto di superiorità... E invece no, s’ha 

da mantenè ’o punto. E, forse, ci portiamo un cuore gonfio 

di amarezza, di tristezze, di tenerezze, che, se solamente 

per un attimo riuscissimo ad aprire l’uno con l’altro... Ma 

niente... Ha da sta’ chiuso, rebazzato... A nu certo punto se 

perde ’a chiave e va t’ ’a pesca! Avimmo perza ’a chiave, 

Mari’!... (Si avvia triste)77.

 

Filumena   Marturano,   commedia   in   tre   atti,   porta   sulla   scena   la 

questione dei figli illegittimi, come Eduardo stesso. La storia è imperniata 

sulla figura di una prostituta raccolta dal lupanare da un ricco borghese, 

Domenico  Soriano,   che  ha  vissuto  accanto  a   lui   “come una   serva”  per 

venticinque anni, mentre questi, dapprima sposato, poi troppo libertino per 

impegnarsi, non sente verso di lei alcun legame.

FILUMENA.  [...]   ’A   strada   d’   ’a   casa   t’   ’a   scurdave.   ’E 

mmeglie feste, ’e meglie Natale me ll’aggio passate sola 

comm’ a na cana. [...] Comm’ all’ultima femmena m’ he 

77 Ivi, p. 178.

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trattato, sempe! (A Rosalia e Alfredo, unici testimoni delle  

sacrosante verità che dice) E nun parlammo ’e quann’isso 

era  giovane,  che  uno puteva dicere:  «Tene   ’e   sorde,   ’a 

presenza...»   Ma   mo,   all’urdemo   all’urdemo,   a 

cinquantaduie anne, se retira cu’ ’e fazzulette spuorche ’e 

russetto, ca me fanno schifo...78

 Mentre lei continua a portare avanti la casa lui inizia una relazione con 

un’altra  donna,  Diana,   che  vuole  sposare.  Esasperata  Filumena  escogita 

uno   stratagemma  e   fingendosi  moribonda  chiede  a  Domenico  di   essere 

sposata in extremis. Lui non può negarle l’ultimo desiderio, ma subito dopo 

il   rito   lei   si   alza,   nel   pieno   possesso   delle   sue   forze,   sarcasticamente 

affermando: «Don Dummi’ tanti auguri: simmo marito e mugliera!»79.

Il   sottile   intreccio  eduardiano   fa   cominciare   la   commedia   in  questo 

momento,   lasciando   al   pubblico   il   dovere   di   capire   cosa   sia   successo 

attraverso la discussione fra Domenico e Filumena nel corso del primo atto. 

La scena si apre su un ring, che presenta ad un angolo Domenico Soriano 

assistito da Alfredo Amoroso, e all’altro angolo Filumena Marturano, con 

l’anziana confidente Rosalia Solimene. È Eduardo a dirlo, nella didascalia 

introduttiva:

In   piedi,   quasi   alla   soglia   della   camera   da   letto,   le  

braccia   conserte   ,   in   atto   di   sfida,   sta   Filumena 

Marturano. [...] Ella è pallida, cadaverica, un po’ per la  

finzione   di   cui   si   è   fatta   protagonista,   quella   cioè   di  

lasciarsi ritenere prossima alla fine, un po’ per la bufera 

che, ormai, inevitabilmente dovrà affrontare. Ma ella non  

ha paura: è in atteggiamento, anzi, da belva ferita, pronta  

78 Ivi, p. 203.

79 Eduardo  DE FILIPPO,  Filumena Marturano, in  Cantata dei giorni dispari, vol. I, Torino, Einaudi, 

1998, p. 202.

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a spiccare il salto sull’avversario.

Nell’angolo   opposto,   precisamente   in   prima   quinta   a  

destra, Domenico Soriano affronta la donna con la decisa 

volontà di colui il quale non vede limiti né ostacoli, pur di  

far trionfare la sua sacrosanta ragione, pur di spezzare  

l’infamia   e   mettere   a   nudo,   di   fronte   al   mondo,   la  

bassezza con cui fu possibile ingannarlo. [...] Ora è lì, in  

pantalone   e   giacca   di   pigiama,   sommariamente  

abbottonati,  pallido e  convulso di   fronte a Filumena,  a  

quella   donna   «da   niente»  che,   per   tanti   anni,   è   stata  

trattata  da   lui  come una schiava  e  che  ora  lo   tiene   in 

pugno per schiacciarlo come un pulcino80.

Ma la motivazione che ha mosso Filumena all’inganno sembrerebbe 

non essere amore, stando a quanto dichiarato da lei, ma la necessità di dare 

un cognome ai suoi tre figli:

FILUMENA. [...] Ma tu te cride overo ca io ll’aggio fatto pe’ 

te?   Ma   io   nun   te   curo,   nun   t’aggio   maie   curato.   Na 

femmena   comm’   a   mme,   ll’he   ditto   tu   e   mm’   ’o   stai 

dicenno ’a vinticinc’anne, se fa ’e cunte. Me sierve... Tu, 

me sierve! Tu te credive ca doppo vinticinc’anne c’aggiu 

fatto ’a vaiassa vicino a tte, me ne ievo accussi,  cu’ na 

mano nnanze e n’ata areto?

DOMENICO (con aria trionfante, credendo di aver compresa 

la ragione recondita della beffa di Filumena). ’E denare! 

E nun te l’avarria date? [...]

FILUMENA  (avvilita  per   l’incomprensione,  con  disprezzo). 

Ma statte zitto! Ma è  possibile  ca vuiate  uommene nun 

capite maie niente? ...Qua’ denare, Dummi’? Astipatille cu 

bbona salute ’e denare. È n’ata cosa che voglio ’a te... e m’ 

80 Ivi, did., pp. 197­198.

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’a daie! Tengo tre figlie, Dummi’!81

Dopo  aver   rassicurato  Domenico  di   non   esserne   il   padre,  Filumena 

ammette che questi tre figli sono stati cresciuti con i soldi rubati a lui che, 

d’altronde,   non   si   era   mai   accorto   di   niente.   Più   per   spiegare   che   per 

discolparsi, Filumena sostiene che l’unica alternativa sarebbe stata non farli 

mai nascere. In un famosissimo monologo rievoca l’angoscioso dubbio la 

prima volta che rimase incinta:  

FILUMENA  (con   uno   scatto   improvviso).   E   ll’avev’   ’a 

accidere?   [...]  E   chesto   me   cunzigliavano   tutt’   ’e 

ccumpagne meie ’e llà ncoppo... (Allude al lupanare) «A 

chi aspetti? Ti togli il pensiero!» (Cosciente) M’ ’avarria 

miso   ’o   penziero!   E   chi   avesse   pututo   campà   cu’   nu 

rimorso ’e  chillo? E po’,   io parlaie  c’  ’a Madonna.  [...] 

(rievocando   il  suo   incontro  mistico)  Erano’e   tre   doppo 

mezanotte. P’ ’a strada cammenavo io sola. D’ ’a casa mia 

già me n’ero iuta ’a sei mise. (Alludendo alla sua prima 

sensazione   di   maternità)   Era   ’a   primma   vota!   E   che 

ffaccio?  A chi   ’o  ddico?   [...]  Senza  vulé,   cammenanno 

cammenanno,   me   truvaie   dint’   ’o   vico   mio,   nnanz’ 

all’altarino d’ ’a Madonna d’ ’e rrose. L’affruntaie accussi 

(Punta i pugni sui fianchi e solleva lo sguardo verso una  

immaginaria   effige,   come   per   parlare   alla   Vergine   da 

donna a donna): «C’aggi’ ’a fa’? Tu saie tutto... Saie pure 

pecché me trovo int’ ’o peccato. C’ aggi’ ’a fa’?» Ma essa 

zitto, nun rispunneva. (Eccitata) «E accussi ffaie, è ove’? 

Cchiu nun parle e cchiu’ ’a gente te crede? ...Sto parlanno 

cu’ te! (Con arroganza vibrante) Rispunne!» (Rifacendo 

macchinalmente   il   tono   di   voce   di   qualcuno   a   lei  

sconosciuto   che,   in   quel   momento,   parlò   da   ignota  

81 Ivi, p. 204.

165

provenienza)   «’E   figlie   so’   ffiglie!»   Me   gelaie. 

Rummanette   accussi,   ferma.   (S’irrigidisce   fissando 

l’effige   immaginaria)   [...]   ...E   nun   saccio   si   fuie   io   ’a 

Madonna d’ ’e rrose ca facette c’ ’a capa accussì! (Fa un 

cenno col capo come dire: “Si, hai compreso”) «’E figlie 

so’   ffìglie!»  E  giuraie.  Ca  perciò   so’   rimasta   tant’anne 

vicino a te... Pe’ lloro aggio suppurtato tutto chello ca m’ 

he fatto e comme m’he trattato!82

Sul finire del primo atto Filumena decide che i figli devono conoscere 

la   loro  origine,  «hann’   ’a   sapé   chi  è   ’a  mamma...»,   e   soprattutto  «nun 

s’hann’   ’a  mettere  scuorno vicino  all’at’uommene:  nun s’hann’   ’a   sentì 

avvilite quanno vanno pe’ caccià na carta, nu documento: ’a famiglia, ’a 

casa...   ’a   famiglia   ca   s’aunisce   pe’   nu  cunziglio,   pe’   nu   sfogo...»83.   E 

aggiunge   infine   Filumena:   «   S’hann   ’a   chiammà  comm’   a   mme!   [...] 

Soriano»84.

Nel   secondo   atto   vediamo   Domenico,   il   giorno   dopo,   “recuperare 

terreno”,  chiedendo   con   l’avvocato   l’annullamento   del   matrimonio. 

Filumena, messa all’angolo, chiama i suoi tre figli e si rivela loro come per 

agnizione.  Prima  di   lasciare   la   casa,   gioca   la   sua  ultima  carta:   svela  a 

Domenico che uno dei tre è figlio suo. Non glielo ha detto quando nacque 

per   paura   che   lui   l’avrebbe   spinta   all’aborto.   Ma   nella   richiesta   di 

identificare   suo   figlio,  Domenico   si   sente   rispondere:   «Hann’   ’a   essere 

82 Ivi, pp. 206­207. La posizione di Eduardo a proposito del risvolto cattolico della commedia emerge 

da una lettera a Franco Zeffirelli, che si accingeva a mettere in scena l’opera in America: «Io sono un 

autore   non   cattolico,   e   quando   al   terzo   atto,   durante   il   matrimonio   fuori   scena,   sulla   scena   fai 

inginocchiare  Rosalia,   centrandola  con  uno   spot,   e   le   fai  giungere   le  mani,   in  breve  quando  fai 

succedere il “miracolo”, io mi sento, come autore, tradito». Lettera da Roma del 22 novembre 1979, 

cit. in Maurizio GIAMMUSSO, Vita di Eduardo cit., p. 349.

83 Eduardo DE FILIPPO, Filumena Marturano cit., p. 212.

84 Ibidem

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eguale tutt’ e tre!»85

Terzo atto: sono trascorsi dieci mesi. La scena è sempre la stessa, ma 

addobbata  di   fiori   che  preannunciano   le  nozze  di  Domenico  Soriano   e 

Filumena   Marturano.   Si   capisce,   nel   corso   dell’atto,   che   Domenico   ha 

deciso   di   lasciare   Diana   e,   dopo   aver   ottenuto   l’annullamento   del 

matrimonio,   vuole   ora   sposare   nuovamente   Filumena,   per   stare   vicino 

all’ignoto figlio. Ma non si è rassegnato: mette alla prova i tre ragazzi, che 

stanno per prendere il suo cognome, per scoprire di quale sia il padre: li 

invita a chiamarlo “papà” ma rifiutano, e Domenico capisce che nessuno 

dei tre sente un legame filiale con lui, o almeno non così forte. Tenta altre 

strade, cercando passioni comuni: le donne – ma le donne piacciono a tutti 

e   tre  –  e   il  canto  – ma nessuno dei   tre  vi  è  portato.  Rimasto solo con 

Filumena, Domenico esterna il suo tormento:

DOMENICO.  [...]  Si tu sapisse quanta vote, in questi ultimi 

mesi,   ho  cercato  di   parlarti   e  non   ci   sono   riuscito.  Ho 

tentato con tutte le mie forze di vincere questo senso di 

pudore   e   me   n’è   mancato   il   coraggio.  Capisco, 

l’argomento è  delicato e fa male a me stesso metterti di 

fronte all’imbarazzo delle risposte; ma nuie ce avimm’ ’a 

spusà. Tra poco ci troveremo inginocchiati davanti a Dio, 

non come due giovani che ci si trovano per aver creduto 

amore   un   sentimento   che   poteva  essere   soddisfatto   ed 

esaurito nel più  semplice e naturale dei modi...  Filume’, 

nuie ’a vita nosta ll’avimmo campata... [...]due coscienze 

formate che hanno il dovere di comprendere con crudezza 

e fino in fondo il loro gesto e di affrontarlo, assumendone 

in pieno tutta la  resonsabilità. Tu saie pecché me spuse: 

ma io no. Io saccio sulamente  che ti sposo pecché m’he 

85 Ivi, p. 235.

167

ditto che uno ’e chilli tre è figlio a me...86

A questo punto Filumena capitola: «Tu si’ ancora a tiempo. Male nun te 

ne voglio... Lasciammo sta ’e cose comme stano, e ognuno va p’ ’a strada 

soia»87. Domenico esasperato accoglie la proposta e nel chiamare i ragazzi, 

per comunicare loro l’annullamento delle nozze, si sente rispondere dai tre 

in   coro   «Sì,   papà!»88.   Adesso   Domenico   capisce:   tutti   e   tre   adesso   si 

sentono figli suoi, pur credendo ognuno di non esserlo; così lui, accettato 

per padre, li accetta come figli89. Avviene il matrimonio fuori scena, e dopo 

qualche   brindisi  cala   la   tela   sull’ultima   battuta   di   Domenico,   mentre 

Filumena sta finalmente piangendo:

DOMENICO  (stringendola   teneramente  a  sé).  È  niente...  è 

niente. He curruto... he curruto... te si mmisa appaura... si’ 

caduta... te si’ aizata... te si’ arranfecata... He pensato, e ’o 

ppensà   stanca...  Mo nun he  ’a  correre cchiù,  non he  ’a 

penzà   cchiù...   Ripòsate!...   (Ritorna   al   tavolo  per   bere,  

ancora, un sorso di vino) ’E figlie so’ ffiglie... E so’ tutte 

eguale...   Hai   ragione,   Filume’,   hai   ragione   tu!...   (E 

tracanna il suo vino, mentre cala la tela)90.

86 Ivi, p. 243.

87 Ivi, p. 245.

88 Ivi, p. 246.

89 Come nota Felicity Firth «L’uomo incapace di affrontare la vita è una figura consueta. Lo si ritrova 

in Domenico Soriano, nei primi due atti di Filumena Marturano; al terzo, lo stesso Domenico scopre, 

come molti  altri  personaggi di  De Filippo  in chiusura  di  commedia,  che fuggire dalla   realtà  non 

costituisce una risposta». Felicity FIRTH, Un’affermazione di vita, in AA.VV., Eduardo nel mondo cit., 

p. 68.

90 Eduardo DE FILIPPO, Filumena Marturano, in Cantata dei giorni dispari cit., p. 248. Eduardo teneva 

molto a quest’ultima battuta, reputandola rappresentativa dell’intera commedia. Si risentì infatti del 

taglio di questa nella messinscena di Zeffirelli: «So che la Plowright ha contribuito all’abolizione della 

battuta finale di Domenico, ma tu ti  devi imporre per dare alla commedia il giusto significato che 

l’autore ha voluto darle, e cioè la capitolazione assoluta dei privilegi borghesi nei confronti del diritto 

168

3.3 «La paura numero uno»

La trama de  La paura numero uno  non è  strettamente connessa alla 

critica familiare che attraversa alcune commedie eduardiane. Ciononostante 

troviamo   in   quest’opera   una   “storia   nella   storia”,   il   dramma   di   una 

maternità   tormentata  che si   interseca alla vicenda primaria,  quella  di  un 

uomo ossessionato  dalla  minaccia  di  un’ipotetica   terza  guerra  mondiale 

(Matteo Generoso, simbolo della società della “guerra fredda”).

Già nel primo atto incontriamo la figura di Luisa Conforto, una donna 

che ha perduto il marito e un figlio per colpa della guerra («mio marito l’ho 

perduto   nell’altra   guerra...   disperso...   nemmeno   il   conforto   di   sapere   il 

posto dov’è  sotterrato...  L’altro figlio mio, Gastone,  preso e fucilato dai 

tedeschi  nella  guerra  passata...  Mariano   sbandato  per   la   stessa  guerra... 

Iddio me lo volle salvare per  puro miracolo...»91)  e per  questo adesso è 

morbosamente   attaccata   all’altro,   Mariano.   Questo   sentimento   viene 

esternato in uno sfogo con Virginia Generoso:

LUISA.  No, non potete capire quali sono i sentimenti veri 

che   mi   spingono   a   certe   manifestazioni   che   possono 

apparire esagerate agli occhi degli altri. Sono una donna 

sola.  Resto per molte  ore  della  giornata  sola.  E  non ne 

faccio colpa a nessuno: voglio sta’ sola. E penzo, penzo... 

Voi siete anziana come me; tenite na figlia,  e mi potete 

considerare. Io penso che non faccio abbastanza per lui; 

di tutti all’uguaglianza [...]». Lettera da Roma del 22 novembre 1979, cit. in Maurizio GIAMMUSSO, Vita 

di Eduardo cit., p. 349

91 Eduardo DE FILIPPO, La paura numero uno, ne La cantata dei giorni dispari, vol. I, Torino, Einaudi, 

1998, p. 474.

169

che nun ’o voglio bene come sarebbe giusto; che... dentro 

di   me...   non   mi   giudicate   male...   forse   nun   ’o   voglio 

proprio  bene.  Che  ho  voluto   troppo  bene  a  Gastone,   il 

fratello. E che perciò sono stata punita92. 

Questa figura materna angosciata dal senso di colpa, vittima del timore 

di perdere anche l’ultimo figlio, è un prodotto della guerra. La guerra, che 

tanto   ha   sconvolto   l’istituto   familiare,   dove   non   ha   ucciso   ha   lasciato 

famiglie mutilate. Quando Arturo, il fratello di Virginia, induce Matteo a 

pensare   che   sia   scoppiata   una   terza   guerra   mondiale,   nel   tentativo   di 

distoglierlo dalla sua fissazione, Luisa ci crede. Nel timore di vedersi portar 

via   anche   l’ultimo   figlio,   lo   imprigiona;   proprio   il   giorno   del   suo 

matrimonio con la figlia dei Generoso, lo mura in una stanza:

MARIANO.   [...]   Aveva   lasciato   solamente   un   foro   per 

passarmi   il   mangiare.   Infatti   mi   portò   latte   e   caffè. 

«Mammà,  mammà,  che avete fatto? Evelina, il  padre, la 

madre mi stanno aspettando!» «C’è la guerra figlio mio... 

c’è la guerra... Bello ’e mammà, quando finisce ti faccio 

uscire!»   mi   sono   disperato,   ho   gridato:   niente...   faceva 

finta di non sentire93.

Anche quando, nel terzo atto, le viene chiesto «Ma gliel’hanno detto 

che la guerra non c’è, e che fu tutta una storia inventata?», Luisa risponde 

che «la guerra c’è»94. Ma infine Luisa si rasserena, lascia partire i due sposi 

novelli   e   consola   addirittura   Virginia:   «Donna   Virgi’,   ma   perché   voi 

pensavate di tenervela sempre vicina, la figlia vostra? Noi siamo i genitori, 

non siamo i proprietari dei figli». Così, infine, Luisa Conforto è costretta a 

92 Ivi, p. 453.

93 Ivi, p. 489.

94 Ivi, p. 497.

170

deviare  quel   sentimento  di  possesso  che  aveva  verso   il   figlio  sulle  sue 

creazioni, le marmellate:

LUISA.  Io  mi  affeziono  a  queste  marmellate.   ’E  vvoglio 

bene, come se fossero creature mie. Quando sto sola e me 

vene ’o gulìo ’e nu poco  d’amarena,  per esempio,   io ci 

parlo come se fosse una persona viva. «Quanto sei buona. 

Come sei saporita. Ti ho fatta io, con le mie mani. Sono 

proprio   contenta   di   come   sei   riuscita».   E   loro   mi 

rispondono,   dandomi   un   poco   di   dolcezza.   L’unica 

dolcezza   che   ha   il   diritto   di  pretendere   dalla   vita   una 

povera donna come me. [...] È robba mia. Ma è difficile. 

La marmellata è veramente mia e nessuno me la tocca. E 

po’   io   tengo ’a  chiave.  E non commetto un  reato se   la 

chiudo   dentro.   [...]   (Con   tono   di   voce   bonario,  

comprensivo) Vostra moglie poco fa ha detto: «Beata voi 

che ve la pigliate allegramente». Don Matte’, ho  tolto il 

respiro ai miei figli. Da quando cominciarono ad avere uso 

di   ragione.   Se   tardavano   mezz’ora   per   tornare   a   casa 

pensavo   subito   ad   una   disgrazia.   Per   non   farli   uscire 

organizzavo trattenimenti in casa, invitavo ragazze carine, 

giovani: niente, non li potevo frenare. E qualche volta mi 

facevano   capire   apertamente   che   la   mia   presenza   dava 

fastidio.  Scappavano,   se   ne   andavano.  Me  dicevano  nu 

sacco ’e buscie per vivere per conto loro una vita che non 

mi doveva riguardare. Don Matte’, a Mariano l’ho chiuso 

dentro con un muro di mattoni e cemento. E nun se n’è 

scappato?... E se uno di voi andava a denunziare il fatto, le 

autorità  non  mi  avrebbero  rinchiusa   in  manicomio?  [...] 

(Non   può   controllare   più   i   suoi   sentimenti.   La   voce 

diventa opaca, mozzata da qualche lieve singulto subito  

represso) Don Matte’, vi ricordate le ordinanze tedesche 

171

dalla radio? «I giovani che non si presentano al Comando 

saranno puniti con la morte... I  genitori che nascondono i 

propri   figli   saranno   fucilati   sul   posto».   E   avrei   lottato 

ancora, ma avevo capito che Mariano mi avrebbe odiato. 

Un  giorno  mi  ha  detto:  «Ma  lasciami  campare!  Questa 

generazione   passata!   Prima   ci   avete   inguaiati...»   Don 

Matte’,  vi  giuro  davanti  a  Dio  che  non sono  pentita  di 

quello   che   ho   fatto,   no!   No,   sono   felice!   Per   quindici 

giorni l’ho sentito un’altra volta figlio mio, come quando 

ce l’avevo qua. (Con tutte e due le mani aperte si batte  

ripetutamente  sul  ventre)  Come quando,  durante   i  nove 

mesi di gravidanza, trovavo modo di rimanere sola con lui, 

sdraiata sulla poltrona, con le mani come le tengo adesso, 

per parlarci. (Si tocca ancora il ventre) E lui si  muoveva 

dentro   e   mi   rispondeva;   mi   rispondeva   dandomi   una 

dolcezza che voi non potrete mai immaginare! Io capivo 

lui, e lui capiva me, poi non ci siamo capiti più95.

3.4 «Bene mio e core mio»

Tralasciando  per   il  momento   l’analisi  di  Mia  famiglia,   alla  quale  è 

dedicato l’ultimo paragrafo di questo capitolo, un’altra commedia dedicata 

alla famiglia, amaramente96, è Bene mio e core mio. Il significato del titolo 

95 Ivi, p. 502­504. Secondo Eric Bentley in questa e in altre commedie eduardiane le pietas familiari 

«sono la roccia basilare da cui tutto il resto, forse anche la sanità mentale, è stato portato via a colpi di  

cannone. I sani di mente sono solo ipocriti e complici dell’offensiva generale. Il senso di umanità si è 

rifugiato nei pazzi e negli infermi. [...] La vecchia Luisa Conforto della  Paura numero uno  non ha 

bisogno di venir convinta da altri per credere che sia scoppiata la guerra perché sostiene che essa è già 

in atto. Privata di entrambi i figli può chiamare “suoi” solo i barattoli di marmellata e di conserva». 

Eric  BENTLEY,  Eduardo De Filippo e il Teatro napoletano, in AA.VV.,  Eduardo nel mondo cit., pp. 

40­42.

96 Eduardo ebbe a dire, riferendosi a questa commedia: «la famiglia è diventata e resta un’istituzione 

172

lo spiegò l’autore in un volantino agli spettatori della prima milanese, il 13 

dicembre 1955:

“Bene  mio  e   core  mio”  è   l’espressione  abituale   con   la 

quale   la   gente   del   mio   paese   diagnostica   e   sintetizza 

ironicamente il tiro mancino che di sovente viene praticato 

ai suoi danni da una insospettabile persona di famiglia [la 

quale] riesce altresì  a far risultare lo spirito di sacrificio 

che determinò il suo gesto, nonché la colpa totale e l’intera 

responsabilità   delle   conseguenze   che   ne   deriveranno   a 

carico del congiunto danneggiato97.

Al centro della vicenda sono due fratelli, Lorenzo e Chiarina Savastano, 

un restauratore e una quarantenne nubile. La scena si apre su una lite fra i 

due. Chiarina in piedi sul davanzale vuole suicidarsi. «O – e sarebbe più  

attendibile – sta minacciando di farlo, per ricattare e piegare la volontà di  

qualcuno, ad uno scopo preciso», come ci indica la didascalia iniziale98. 

Chiarina accusa il fratello di aver deciso di apportare dei cambiamenti alla 

casa paterna senza averla prima consultata, ma lui la smentisce; lei gioca il 

ruolo della vittima e martire della famiglia: 

CHIARINA. Mi sta offendendo da quando ha capito che non 

sono   scema   completamente.   Perché   è   così.   Il   fatto   di 

mostrarsi   compiacente   e   arrendevole   e   sempre  pronta   a 

qualunque richiesta di sacrificio, non si attribuisce a uno 

spirito   altruistico,   spinto   fino   all’annullamento   d’ogni 

basata sull’ipocrisia e l’interesse». Eduardo De Filippo risponde alle domande poste da un gruppo di  

studenti,   Roma,   Teatro   Eliseo,   1976,   cit.   in   Isabella  QUARANTOTTI,  Eduardo   polemiche,   pensieri,  

pagine inedite cit., pp. 172­174.

97 Il testo è riportato ne «Il Dramma», dicembre 1955, pp. 54­55.

98 Eduardo DE FILIPPO, Bene mio e core mio, ne La cantata dei giorni dispari, vol. II, Torino, Einaudi, 

1998, did., p. 95.

173

proprio diritto, no; ma a fessaggine vera e propria. Quando 

poi, la persona, un bel giorno, si sveglia e dice: «Vuò sapé 

’a verità mi sono stancata di fare il comodo degli altri; da 

oggi   in   poi  voglio   fare  un  poco  pure   il   comodo  mio», 

allora l’altro, visto che ha perduto il privilegio non si può 

fare capace: «Ma come? Quella è stata fessa tanto bello 

fino a pochi minuti fa; come si permette di giovarsi, da un 

momento all’altro, del diritto al ragionamento comune?» E 

s’imbestialisce99. 

Lorenzo, che come tutti i  protagonisti eduardiani non è  mai “buono” 

fino in fondo, accusa la sorella di essere inacidita dal lungo nubilato: «Tu 

non hai la cognizione del tempo che è passato (con una punta di cattiveria) 

pecché  si’   rimasta  zetella,  e   te cride sempre ca  tiene quìnnece  anne»100. 

Chiarina non demorde, e a proposito dell’annunciata intenzione del fratello 

di sposarsi una straniera si finge preoccupata per lui («Quando si saranno 

calmati i bollenti spiriti dei primi tempi, il periodo fisiologico di carattere 

internazionale, diciamo... alla prima discussione: “Io sono tedesca e tu sei 

italiano”»101), poi ammette il suo principale timore: diventerebbe la serva 

della cognata.

Infine Lorenzo, esasperato, decide di interrompere la relazione, ma di 

accettare una proposta di affari che lo porta in America: «Deve andare a 

restaurare dei quadri antichi in casa di un miliardario, il quale da cinque 

mesi lo sta subissando di lettere e telegrammi. Ma lui non ne voleva sapere, 

pure   perché   io   lo   sconsigliavo»102,   dice   Chiarina   ammettendo   il   suo 

egoismo.

99 Ivi, pp. 103­104.

100 Ivi, p. 101.

101 Ivi, p. 104.

102 Ivi, p. 109.

174

In   chiusura   d’atto,   fa   la   sua   comparsa   Filuccio,   il  verduraio  del 

quartiere. «Entra col suo incedere spavaldo, vanesio, invadente. Spavaldo 

perché sa di poter contare sulla struttura solida del suo fisico massiccio.  

Vanesio perché ha successo con le cameriere del rione. Invadente perché  

manca assolutamente del senso della misura»103. Stabilito un contatto con 

Chiarina, riesce a rubarle un bacio, sul quale si chiude il primo atto.

Dieci  mesi dopo troviamo Chiarina incinta di Filuccio,  e Lorenzo di 

ritorno dall’America. La situazione adesso si è ribaltata e Chiarina attende 

con ansia il ritorno del fratello, mentre fanno il loro ingresso Filuccio e suo 

zio   Gaetano   («tronfio   partenopeo   di   eloquio   un   po’   camorrista»104) 

intenzionati a definire con Lorenzo la situazione. Quest’ultimo, arrivato e 

messo a conoscenza dell’accaduto dal vicino di casa che lo ha prelevato 

alla stazione, indugia sulla porta di casa dieci minuti. Poi entra in scena e si 

mostra sereno e disposto alla discussione. Matilde, la vicina, è senza parole, 

come gli altri:

MATILDE. [...] Voi non state parlando come ci aspettavamo, 

e come avreste il diritto di parlare. Mio marito ci ha detto 

che quando avete saputa  la notizia vi siete arrabbiate al 

punto che non volevate salire...

LORENZO  (precisando ciò  che Matilde avrebbe stentato a 

dire).   ...e  adesso   sto   qua,   parlando   con   tutta   la   calma, 

senza   spaccare   nemmeno   una   sedia,   senza   rompere 

nemmeno un oggetto contro il muro... [...] Vedete , donna 

Mati’, quei dieci minuti di sosta sul portone di casa sono 

stati utili per tutti quanti, Quelli che non vedevano l’ora di 

raccontarmi la notizia con tutti i dettagli,  hanno avuto il 

tempo di liberarsi del peso che avevano sullo stomaco; ed 

103 Ivi, did., p. 110.

104 Anna BARSOTTI, Nota storico­critica a Bene mio e core mio cit., p. 88.

175

io, quello di capire che, più si affronta con calma e serietà 

il fatto, meno faremo ridere la gente105.

Ora  che  Lorenzo  è   stato  messo   al   corrente  dell’accaduto,   e   che  ha 

acconsentito al matrimonio tra Chiarina e Filuccio,   iniziano le trattative. 

Qui si cominciano a percepire quelle che sono le vere mire di Filuccio. La 

storia si complica. Filuccio lavora in una bottega che fu del padre, ed è ora 

in mano alla donna che questi sposò in seconde nozze, prima di morire. La 

famiglia, oltre a Filuccio, la matrigna (“la vicchiarella” la definisce lui) e il 

fratello del padre, comprende un fratello ritardato, Pasqualino. 

Proprio davanti alla loro bottega si trova una proprietà di Lorenzo, un 

locale sul quale Filuccio aveva messo gli occhi e che la sorella vorrebbe ora 

come dono di nozze. Il locale comprende anche quattro stanze che i novelli 

sposi potrebbero usare come abitazione. Dopo lunghe e difficili trattative, 

si arriva ad un accordo:

LORENZO.  Lasciatevi   guidare   da   me.   Faremo   le   cose   in 

regola e con la piena legalità. Per ora non c’è bisogno di 

prendere in fitto una casa; restate qua; ’a casa è grossa e 

non   ci   daremo   fastidio.   Per   il   deposito   [...]   faremo   un 

affitto regolare, fissando un tanto al mese di pigione. [...] 

Per le quattro camere, ci metteremo d’accordo dopo [...]. 

Se le cose si mettono bene, e Filuccio dimostra una seria 

attività, quando Chiarina mette al mondo l’erede, io piglio 

il deposito con le quattro camere e ve li cedo come regalo 

di nozze.

[...]

FILUCCIO. E quando vi sarete deciso, io non voglio niente 

per me;  io  tengo ’e  braccia per  lavorare;   la proprietà   la 

dovete intestare a mia madre, a quella povera donna, che 

105 Ivi, p. 136.

176

rimane sola con un figlio scemo: mio fratello.

LORENZO. Questo ti fa ancora più onore. Nun ce penzà: ’a 

mamma   è   mamma.   ’A   Vicchiarella   ’a   mettimmo   a 

posto106.

Prima che il secondo atto finisca fa il suo ingresso Virginia, la matrigna 

di Filuccio, che con sorpresa di tutti è «una bellissima donna di trentasei 

anni»;   i   suoi   gesti   sono   controllati   «affinchè   denunzino   un   complesso  

religioso  spinto   fino  alla  superstizione»,  che  non riesce  ad armonizzare 

«con la flessuosità del suo corpo invadente»107. La chiusura è sarcastica:

LORENZO  (puntando   uno   sguardo   ironico   su   Filuccio,  

bruscamente gli chiede). ’A vicchiarella?

FILUCCIO  (a denti  stretti   e  con  un mezzo sorriso amaro,  

conferma). ’A vicchiarella108.

Nel terzo atto Lorenzo fa una scoperta inquietante:  Pasqualino, nella 

sua ingenuità, racconta che il padre parla ancora a Virginia «dalla pancia di 

Filuccio», il quale facendo leva sulla superstizione della matrigna, riesce a 

controllare le sue decisioni:

 

PASQUALINO.   [...]   Papà   sta   al   camposanto,   ma   sta   pure 

dentro   Filuccio.   (E   continua   a   tagliare)   Quando   vuole 

parlare   con   mammà,   Filuccio   si   addormenta   e   papà   si 

sveglia... E quando si sveglia parla da dentro alla pancia di 

Filuccio.  Poi,  quando  ha  parlato,  papà   si   addormenta   e 

Filuccio si sveglia. E quando si sveglia non si è accorto di 

niente, e  nun sape nemmeno quello che papà  ha detto a 

106 Eduardo DE FILIPPO, Bene mio e core mio cit., p. 145.

107 Ivi, did., p. 146.

108 Ivi, p. 148.

177

mammà.

LORENZO  (falsamente  convinto).  Guardate...  E   tu  non sai 

che lle dice papà a mammà?

PASQUALINO.   Sì!   E   mammà   non   si   può   sposare   un’altra 

volta,   perché   papa   non   vuole.   Lo   dice   sempre:   «Se   ti 

mariti, io non esco dalle fiamme del Purgatorio»109. 

Lorenzo capisce la situazione e trova il modo di restare solo con donna 

Virginia. Deciso a mostrarle la realtà per quella che è, le regala un broccato 

“magico”, inventando una storia che la induca a credere che il tessuto sia in 

grado di guarirla dai suoi malesseri psicosomatici110. Virginia, convinta, è 

ora serena, e Lorenzo ne approfitta per chiederle «con puerile semplicità»: 

«Virgì, ce vulimmo spusà?» Lei acconsente e Lorenzo portata la situazione 

a suo vantaggio – non solo il locale resterà di suo possesso, ma acquisirà la 

proprietà  della  bottega  di  Filuccio  – avverte   i  due sposi  promessi  delle 

decise nozze con Virginia, e lasciandoli increduli chiude la commedia con 

questa battuta:

LORENZO.  Filu’,  e  mi  raccomando:  quando qualche  volta 

andrai a trovare mammà, nun ’o fa’ venì cchiù a papà: so’ 

geluso111.

109 Ivi, p. 152.

110 Osserva Barsotti: «La favola, come sempre, contiene una metafora: “tutto il mistero consiste nel 

disegno e nei colori”; il disegno segue il percorso del pensiero, che nel groviglio finale “cancella 

inesorabilmente la macchia scura del colore triste che ognuno di noi porta sulla coscienza”, il nero; 

una volta cancellato il colore triste, entrano in funzione quelli allegri, “il rosa, il rosso, il celeste, il 

verde...” (Cantata dei giorni dispari,  vol. II, p.167). È   la poetica dei  colori di  Eduardo, di quelle 

“parole colorate” che tentano di opporsi nel suo teatro come nella sua poesia, alle parole “nere” o 

“grigio scure” dell’ipocrisia e del potere». Anna BARSOTTI, Nota storico­critica a Bene mio e core mio 

cit., p. 90. 

111 Ivi, p. 167.

178

3.5 «Sabato, domenica e lunedì»

La  vicenda  di  Sabato,  domenica  e   lunedì  si   svolge,   appunto,   in   tre 

giorni,   che   corrispondono   temporalmente   ai   tre   atti112.   «Questa 

corrispondenza – osserva Barsotti – significa un ritorno [...] all’intenzione 

poetica dell’autore di realizzare, mediante la scena, l’illusione della “vita 

che continua”»113.

La commedia è ambientata in casa Priore, e ci presenta una famiglia 

patriarcale  costituita  da  tre  generazioni:  quella  degli  anziani  ha un solo 

esponente, Antonio Piscopo, il padre di Rosa; quest’ultima con suo marito 

Peppino Priore e i cognati Raffaele e Amelia, costituiscono la generazione 

di mezzo; ad essi si affiancano i vicini di casa, i signori Ianniello, Luigi e 

Elena; i “giovani”, infine, sono costituiti dai figli dei Priore, Giulianella, 

Rocco e Roberto, la moglie di quest’ultimo, Carolina, il figlio di Amelia, 

Attilio, e Federico, amico di Rocco e fidanzato di Giulianella.

Ogni  personaggio  è   indispensabile   all’azione114,   e   l’opera,   dietro  un 

apparente buonismo cela un messaggio più complesso. Federico Frascani 

osserva che la commedia

pur se ritorna sull’argomento dei rapporti tra congiunti non 

per pervenire a un’amara constatazione o far squillare un 

campanello   d’allarme,   ha   un   suo   sentito   e   persuasivo 

avvertimento  da   trasmettere.  Eduardo  questa   volta   vuol 

112  Parlando di questa commedia Eduardo la definì  «come una vita  che si  svolge in tre giorni». 

Eduardo DE FILIPPO, Lezioni di teatro, Torino, Einaudi, 1986, p. 15.

113 Anna BARSOTTI, Eduardo drammaturgo cit., pp. 335­336.

114  Osserva  Federico  Frascani  che   la  commedia «non ha  un  personaggio che non sia  definito  a 

dovere, che non sia plausibile; non ha una scena, una battuta, che non risultino essenziali». Federico 

FRASCANI, Eduardo, Napoli, Guida, 1974, pp. 109­110.

179

soprattutto farci riflettere sul pericolo insito in certi silenzi 

stagnanti fra le pareti domestiche; e, in particolare, sulle 

conseguenze   irreparabili   che   possono   derivare   da 

ingiustificate   reticenze  nei   rapporti   tra  marito  e  moglie. 

Certe   pericolose   tensioni   non   si   attenuano,   ammonisce 

implicitamente l’autore, «parlando d’altro». Queste parole, 

scritte   tra   virgolette,   caratterizzano,   come   è   noto,   il 

comportamento dei personaggi, appartenenti a quel teatro 

che   fu   definito   «intimista».   E   appunto   una   commedia 

sostanzialmente intimista è Sabato, domenica e lunedì, ad 

onta   di   certi   suoi   risvolti   comici   che   teatralmente   la 

ravvivano,   senza   intorbidarne   il   lirismo   di   fondo,   né 

sminuirne la plausibilità psicologica115.

Il   primo   atto,   il   sabato,   comincia   con   la   preparazione   del   pranzo 

domenicale, e ci mostra i coniugi Priore in atteggiamento di insofferenza 

reciproca. Peppino è «un onesto e simpatico commerciante del Rettifilo»116, 

sua   moglie   è   una   donna   piacente,   decisa   e   imponente117.   Mentre   Rosa 

prepara il ragù  Peppino si mostra contrariato all’idea di aver a pranzo il 

giorno dopo i signori Ianniello: «Uno aspetta la domenica per passare una 

115 Ibidem.

116  Eduardo  DE  FILIPPO,  Sabato, domenica e lunedì, in  Cantata dei giorni dispari, vol. II, Torino, 

Einaudi,  1998,  did.,  p.  399.   Il  Rettifilo,  ufficialmente  Corso Umberto   I,  è  una  strada  napoletana 

centrale dal punto di vista commerciale.

117 Achille Fiocco così la descrive: «una povera moglie e madre, che si trascina dalla mattina alla 

sera dietro al marito e ai figli, [che] a un tratto cambia sistema, non cura più il marito, non gli fa più le 

gentilezze di prima, e lui, a cinquantasette anni, ne è geloso, è geloso di lei, che ne ha cinquantatre, e 

alla fine si chiarisce che tutto questo ha origine da un motivo futilissimo [...] e tutto questo porta alla 

scoperta del bene, che si sono sempre voluti, del bene, che si vogliono come non mai, perché è un 

bene,   che  ha   scoperto   l’intimo perché  di   se   stesso:   sotto   l’apparenza  banalissima,  quella  moglie 

trascurata è una donna coraggiosa e accorta, che ha saputo salvare l’integrità dell’amore, e l’uomo vi 

si   riflette   intero».   Achille  FIOCCO,  Teatro   universale   dal   Naturalismo   ai   giorni   nostri,   Bologna, 

Cappelli, 1971, pp. 225­226.

180

giornata in famiglia... nossignore ci vogliono i signori Ianniello a tavola»118. 

La storia procede con l’ingresso in scena degli altri personaggi e di vicende 

periferiche: il nonno che stravede per il nipote Rocco; questi che si mostra 

“scostumato” nei confronti della madre e lei che lo caccia in malo modo; 

zia Memele (Amelia) che fa sentire malato il figlio per tenerlo vicino a sé 

(«era un ragazzo svelto che nel negozio poteva rendere – dirà Peppino nel 

terzo atto – ma mia sorella l’ha rimbambito»119); zio Raffaele che si prepara 

per il giorno successivo a recitare Pulcinella; una piccola lite tra Giulianella 

e  il   fidanzato;   l’incomprensione  tra padre e figlio,  che hanno  intrapreso 

strade   diverse   aprendo   quest’ultimo   un   negozio   più   moderno.   La 

discussione con Rosa monta sul filo della difficoltà di comunicazione fra i 

due coniugi, che è poi la morale della commedia:

PEPPINO  (come   rilevando   una   dura   quanto   evidente  

fatalità). Non ti controlli più.

ROSA  (sincera).   Ma   che   dici?   Che   significa:   «non   ti 

controlli più»?

PEPPINO (ambiguo). Tu mi capisci.

ROSA.  No,   non   capisco.  Sei   tu   che   ti   devi   spiegare.   Io 

capisco soltanto che tutto quello che faccio in questa casa 

è perduto. (D’improvviso perde ogni lume di ragione e si  

mette a gridare come fosse stata presa da un attacco di  

isterismo)   Avete   capito   don   Peppi’?   Non   voglio   più 

combattere con i figli, i parenti, la pazienza ha un limite. 

[…] (battendo ripetutamente la mano sul tavolo). Qua... 

qua... tutta la mia vita qua dentro a fare la serva, a servire 

tutta la famiglia, come una vaiassa120.

118 Eduardo DE FILIPPO, Sabato, domenica e lunedì cit., p. 402.

119 Ivi, p. 432.

120 Ivi, pp. 421­422.

181

Rosa esce avvertendo «mi devono tagliare le mani se metto più piede in 

cucina»; anche Peppino si veste e esce di casa. Zia Memé  manda via la 

cameriera ed esce di scena col figlio spegnendo la luce e lasciando la scena 

vuota. Dopo pochi istanti

Rosa   entra   mogia   mogia   e   riaccende   la   luce.   Poi   si  

avvicina  al   fornello  e  rimette   il   tegame con  il   ragù  sul  

fuoco. Ora va alla dispensa e trae da essa una cartata di  

maccheroni   di   zita   e   una   grande   insalatiera.   Sempre 

lentamente si avvicina al tavolo e si dispone a spezzare i  

maccheroni.   Il   sipario   scende   lentamente   e   allontana 

insieme ai singhiozzi repressi della donna e qualche frase 

mozza, pure quel tinnire allegro e promettente degli ziti  

spezzati che la mano esperta lascia cadere nella grande  

stoviglia di porcellana121.

Atto secondo, la scena rappresenta adesso la sala da pranzo. La tavola è 

fastosamente apparecchiata per il pranzo domenicale. In scena Antonio con 

il sarto, sta provando il vestito per l’inaugurazione del nuovo negozio di 

Rocco, e lo attende per mostrargli l’abito; ma alla notizia che forse il nipote 

non verrà  –  per  una discussione avuta   il  giorno prima con  la  madre  –, 

Antonio la prende sul personale: 

ANTONIO. [...] Vi ho detto tante volte che quello che fate a 

Rocco lo fate a me. Quel povero ragazzo si sente oppresso 

in  questa  casa.  Tu (indica  Rosa)   lo  maltratti  perché   sei 

superba e ti credi una Padreterna, e lui (indica Peppino) lo 

sevizia in malafede.

PEPPINO. In mala fede?

121 Ivi, did., p. 423.

182

ANTONIO (precisando). Per l’invidia122.

Antonio   accusa  Peppino  di   essere   invidioso  del   nuovo  negozio   che 

Rocco vuole impiantare per suo conto. Il vecchio solleva un problema che 

già   si   era   presentato  anni   prima,   come   manifestazione   di   un  gap 

generazionale:

PEPPINO. Siete ingiusto, scusate. [...] Che bisogno aveva di 

fare   un  tentativo   quando   le   cose   al   Rettifilo   andavano 

bene?

ANTONIO.  Il negozio al  Rettifilo non è  più  all’altezza dei 

tempi.

PEPPINO.  Ma scusate,  quando ventisei  anni   fa  presi  nelle 

mani le redini del negozio al Rettifilo e dissi che non era 

più adatto ai tempi e che i soli cappelli non rendevano più 

per cui bisognava trasformarlo in  cappelleria e articoli di 

abbigliamento, n’altro poco facevate correre i carabinieri, 

e non ci volle poco per convincervi; adesso che si tratta di 

Rocco   tutto   va   bene   e   nessuno   si   deve   permettere   di 

contraddirlo?123

Antonio se ne va di malumore. Entrano i signori Ianniello: il ragioniere 

reca per   la padrona di casa una cassata  alla siciliana,  perché  «una sera, 

parlando di dolci,  donna Rosa disse che usciva pazza per la cassata alla 

siciliana». Arrivano anche gli altri commensali,  tutti si siedono a tavola. 

Questa scena è il centro della commedia, non solo perché situata a metà del 

122 Ivi, p. 427.

123  Ivi, pp. 427­428. Barsotti ha definito questa una delle commedie che rappresentano un antitesi 

«tra  presente  e   futuro»,   indicando nei  “giovani”  la  via della  comprensione  per   i   “vecchi”.  Anna 

BARSOTTI, La drammaturgia di Eduardo De Filippo cit., p. 54.

183

secondo atto; è descritta in una delle didascalie registiche più poetiche124 

del teatro eduardiano:

Tutti meno Peppino si accostano al tavolo per conquistare  

un   posizione   più   comoda   che   consenta   loro   libertà   di  

gesti, curando ognuno di limitare al massimo i propri per  

rendere più  agevoli quelli  del vicino.  Questa scena deve 

essere  concertata   in  modo perfetto.  Essa  ha  una grande 

importanza ai fini della commedia, il cui contenuto è, o lo 

è per me, ben chiaro: caratteri, sentimenti umani, costume. 

Il regista senza preoccuparsi di annoiare il pubblico, solo  

in questo momento,   farà  rivivere un pranzo domenicale  

napoletano,  elevandolo,  come  le   famiglie  napoletane   lo  

elevano,   all’altezza   di   un   rito.   Ognuno   conosce  

l’importanza del  proprio compito  e   l’apporto personale 

che deve dare alla perfetta riuscita della funzione. I piatti  

fondi   passano   di   mano   in   mano   come   un   giuoco 

clownesco da circo equestre, e vanno a formare una pila 

che mano mano aumenta di proporzioni, davanti a donna 

Rosa.   Donna   Risa   maneggia   il   mestolo   d’argento   con  

disinvolta perizia. La mano esperta della donna conosce  

l’appetito dei familiari e degli ospiti. Nessuno osa opporsi  

a quella saggia ripartizione. La prima ad essere servita è  

la   signora   Elena   Ianniello:   un   mestolo   solo.   Forse  

ripeterà   perché   sono   davvero   promettenti   quei  

maccheroni,   ma   non   ama   vedere   il   piatto   colmo,   si  

124 Proprio la “poesia” del teatro di Eduardo lo esula dal frequente accostamento ad altri autori del 

Novecento   (cfr.  Claudio  MELDOLESI,  La trinità  di  Eduardo:  scrittura d’attore,  mondo dialettale e  

teatro nazionale, in  Fra Totò e Gadda. Sei invenzioni sprecate dal teatro italiano, Roma, Bulzoni, 

1987, pp. 57­87).  Secondo Carlo Filosa nel suo teatro «si coglie quasi sempre [...], a differenza di 

quanto accade per solito nei lavori di Pirandello e degli autori italiani del «grottesco» e del teatro 

esistenzialista e, soprattutto,  di quelli del cosiddetto «teatro dell’assurdo», una vena d’incalzante e 

semplice   umanità,   di  poesia».  Carlo  FILOSA,  Eduardo   De   Filippo.   Poeta   comico   del   «tragico  

quotidiano», Napoli, La Nuova Cultura, 1978, pp. 30­31.

184

avvilisce.  Zia  Memé?  Per  carità...  meno  di  un  mestolo  

pieno.   Perché   preferisce   mangiarli   la   sera   per   cena  

riscaldati   e   quasi   bruciacchiati:   ne   va   pazza.   Don 

Peppino   riceve   la   sua   porzione   e   l’accoglie   con  

indifferenza, ha altro per la testa lui. Il nonno non ama il  

piatto fondo. Adora l’insalatiera di media grandezza che  

contiene quasi mezzo chilo di pasta. I maccheroni suoi li  

vuole conditi a parte e lì dentro. Poi è la volta del dottore,  

Ianniello e gli altri. Quei due piatti colmi e ricoperti con  

altri   due   capovolti,   sono   stati   messi   ai   posti   dove   si  

dovranno   sedere   Rocco   e   Federico.   [...]   L’euforia   dei  

commensali, fatta di esclamazioni di gioia e di esultante  

ammirazione che abbiamo sentito esplodere, all’unisono,  

nell’attimo   in   cui   Virginia   ha   mostrato   la   «sacra 

insalatiera», si va calmando e vieppiù affievolendosi fino  

a raggiungere un silenzio fitto che definirei «silenzio del  

Ragù», che può essere interrotto soltanto da un traffico  

discreto  fatto  di  cigolii  di  sedie,   tintinnii  di  bicchieri  e  

fastidiosi stridii di forchette golose nei piatti125.

  Il   ragioniere Ianniello  continua,   invadente,  a coprire donna Rosa di 

elogi   e   attenzioni,   defraudando   il   marito   del   suo   spazio.  Quando  Rosa 

chiede a bruciapelo al marito – che per tutto il pasto è restato in disparte – 

per quale motivo non mangi, lui le risponde che non ha appetito e ancora 

una  volta   il   ragioner   Ianniello  si   infiltra:  «avete   torto  perché   il   ragù  di 

donna Rosa non si rifiuta mai»126. Il pranzo prosegue e zia Memé racconta 

ai   commensali  dell’autobiografia  che   sta   scrivendo,   incentrata   sulla   sua 

movimentata   vita   matrimoniale,   dal   titolo  Sì,   ma   ci   vuole   coraggio. 

Peppino coglie il momento per alludere: «Proprio così: ci vuole coraggio, 

125 Eduardo DE FILIPPO, Sabato, domenica e lunedì cit., did., pp. 443­444. Il corsivo è nostro. 

126 Ivi, p. 447.

185

pulizia interna, purezza di sentimenti. Io non sono istruito come il dottore e 

mia sorella [...] ma capisco più di quello che la gente crede. So cogliere i 

particolari, le sfumature di una situazione e mi rendo conto della ipocrisia, 

la   falsità   e   del   furto   continuato   e   l’abuso   di   fiducia»127.   La   rabbia   di 

Peppino monta:

PEPPINO  (non gli   reggono  i  nervi  e  decide  di  vuotare   il  

sacco). Io per questa donna non esisto più, mi tratta come 

se fossi un servitore. La mattina quando esco di casa per 

andare al  negozio non se ne accorge nemmeno. [...]  Da 

quattro mesi donna Rosa si è cambiata nei miei confronti. 

Non mi parla più. Se la interrogo, appena appena risponde. 

Tutto   quello   che   faccio   io   è   mal   fatto,   non   mi   posso 

muovere che le do  fastidio. Insomma un insieme di cose 

che mi dicono chiaramente quanto e come navighiamo io e 

lei in un mare torbido e infetto128.

Finalmente esplode:

PEPPINO.   [...]   Vergogna!   E   io   seduto   qua   (batte   con 

violenza   la   mano   sul   tavolo)   fesso   fesso,   in   continua 

ammirazione di questa tresca schifosa!129

Tutti rimangono senza parole. Il ragioniere, dapprima stupito, si mostra 

comprensivo nei confronti di Peppino: «per giungere a questo significa che 

il   cavaliere,   giustamente  o   ingiustamente,   ha   sofferto,   perché   chissà   da 

quanto tempo si è tenuto in corpo, diciamo, “il rospo”»130. Rosa, «livida e 

127 Ivi, p. 451.

128 Ivi, p. 453.

129 Ivi, p. 454.

130 Ibidem.

186

tutta   tremante di  sdegno»131  esclama  tra   le   lacrime:  «ricordati   l’invito  a 

colazione che mi facesti alla Casina Rossa a Torre del Greco e quello che 

mi   dicesti   a   tavola»;   poi   stringendo   fra   le   braccia   il   figlio   Roberto 

aggiunge: «figlio mio... io e te simme vive pe’ miracolo»132, e sviene. Tutti 

accorrono e il secondo atto si avvia alla sua conclusione mentre Peppino, 

«che fino a quel momento è rimasto inchiodato al suo posto e chiuso in  

una convinzione che man mano ha perduto consistenza e valore realistico,  

ora  si  rende  conto  della  gravità  del  momento  e   smaltisce   la  sua  follia  

schiaffeggiandosi ripetutamente»133.

Il terzo atto si apre sul risveglio mattutino dei vari componenti della 

famiglia. Peppino chiede informazioni a zia Memé sullo stato della moglie. 

Lei lo rassicura dicendogli che Rosa sta inconsciamente ingigantendo il suo 

malore perché  «si  compiace  del   fatto che  tutta   la  famiglia è   seriamente 

preoccupata per lei»134. Peppino è distrutto e la sorella cerca di mostrarsi 

comprensiva:

ZIA  MEMÉ.  [...]   La   tua   non   è   stanchezza   fisica:   è 

abbattimento morale. Uno crede di sentirsi liberato quando 

riesce a mettere fuori certe amarezze, che forse per anni 

non   ha   voluto   dire;   quando   poi   le   ha   dette   gli   rimane 

dentro un vuoto che fino a quel momento non avvertiva, e 

che è più amaro delle amarezze che conteneva135. 

Piano   piano   affluiscono   nella   stanza   da   pranzo   i   componenti   della 

famiglia, chiedendo informazioni sulla salute di Rosa e sdrammatizzando i 

131 Ivi, did., p. 455.

132 Ivi, p. 456.

133 Ivi, did., p. 456.

134 Ivi, p. 459.

135 Ibidem.

187

fatti del giorno precedente. Quando Giulianella dice, citando zio Raffaele, 

che   la   loro   «è   una   famiglia   da   teatro   comico   napoletano»,   Peppino 

indispettito richiama la figlia alla serietà di ciò che è accaduto. Proprio la 

figlia   riporta   il   padre   alla  giusta  prospettiva   e   centra   il   problema  della 

mancata comunicazione dei genitori.

GIULIANELLA. Papà, scusa se te lo dico, ma è la verità. Tu e 

mammà state diventando davvero ridicoli, tu per conto tuo 

e lei per conto suo. [...] Ma è mai possibile che non capite 

come vi dovete comportare per non farvi il sangue cattivo 

e   per   conservare   il   rispetto   l’uno   per   l’altra?   [...]   Ma 

perché  non vi dite le cose non appena succedono? State 

insieme   da   tanti   anni   e   non   avete   saputo   raggiungere 

un’intimità che vi possa permettere di dire pane al pane e 

vino   al   vino,   l’uno   con   l’altra?  Quando  vi   chiudete   in 

camera per delle ore intere... io li conosco i vostri discorsi, 

perché  quando ero piccola mi mettevo dietro  la  porta  a 

sentire; adesso non lo faccio più perché mi sono scocciata 

di sentire sempre le stesse cose; vi raccontate i sogni che 

vi   siete   fatti,   le  malattie   che  vi   sentite   e  «tu  non  vuoi 

mangiare questo e io voglio mangiare quello», pigliate a 

pretesto un motivo qualunque per  litigare e   il  dito sulla 

piaga nessuno di voi due lo vuole mettere. Poi mi devo 

sentire gli sfoghi di mammà quando tu non ci sei e che tu 

sei un egoista e che non riconosci i sacrifici che fa lei, e 

che tu sopra e che tu sotto... e zia Memé quelli tuoi quando 

non c’è lei136.

Finalmente Giulianella svela il motivo per cui la madre è in collera con 

lui, quel “rospo” che Rosa non ha voluto tirar fuori. Quattro mesi prima, 

136 Ivi, pp. 465­466.

188

ospitati a pranzo da Roberto e Maria Carolina, Peppino fece i complimenti 

alla  nuora  per   i  maccheroni  da   lei  preparati:  «Mammà   tornò   come una 

diavola quella sera»137.

Peppino   comprende   finalmente   le   conseguenze   di   una   mancata 

comunicazione fra marito e moglie – e non solo. Chiama il figlio Rocco e 

lo   avverte   che   parteciperà   con   gioia   all’inaugurazione   del   suo   nuovo 

negozio.   Fa   chiamare   il   ragionier   Ianniello,   che   ora   «ha   perduto 

completamente   la   spontanea   invadenza   e   la   caparbia   euforia   che   egli,  

inconsapevole, scambiava per qualità positive e indispensabili ad un uomo  

il cui obiettivo è quello di rendersi estremamente simpatico agli amici»138; 

Peppino si scusa con lui e lo invita di nuovo a pranzo per  la domenica 

successiva. Ora arriva il momento più difficile, deve finire di tirar fuori “il 

rospo” con la moglie. Inizia spiegando il suo atteggiamento nei confronti 

del ragioniere:

 

PEPPINO. Ma come, io sono privo di raccontare un fatto che 

mi   interrompi   continuamente   [...]...   e   quando   parla   il 

ragioniere stai   tutta orecchi e non ti  sfugge una parola? 

Quanto racconta una barzelletta stupida,   lui,   tu  ti  fai  un 

sacco di risate, se la racconto io, nove volte su dieci o dici: 

«Scusa, non ho capito... stavo distratta» o dici: «Si, si, la 

sapevo; l’ha raccontata l’altra sera Rocco».

ROSA. Embè, tu dici che si deve raggiungere l’intimità fra 

di noi e poi ti dispiace che io mi alzo e me ne vado mentre 

tu stai parlando? Il ragioniere è una persona estranea, si 

capisce che quando parla uno deve mettere attenzione a 

quello che dice139.

137 Ivi, p. 466.

138 Ivi, did., p. 469.

139 Ivi, p. 477.

189

Peppino   lamenta   che   per   questa   “intimità”   da   quattro   mesi   viene 

“trattato  come un servitore”,  ma quando vede  che   la  moglie  non vuole 

spiegarne   la   ragione,   che   lui   conosce,   non   insiste.   Però   le   chiede 

spiegazioni   circa   l’enigmatica   frase  del   giorno  prima  –  «Robe’   io   e   te 

siamo vivi per miracolo» – e lei gli ricorda di quando, giovani, lui fidanzato 

con una vedova “faceva l’amore” con Rosa; quando, in un primo momento, 

aveva deciso di lasciarla, lei non aveva replicato, ma ammette solo ora che 

già allora era incinta di Roberto, e lo aveva taciuto perché: «tu mi avresti 

sposata solo perché avevamo fatto un figlio»140. Finalmente

i due si guardano lungamente negli occhi e scoprono per 

la prima volta la vera natura dell’amore che li ha tenuti  

legati per tanti anni. Hanno insomma finalmente capito il  

motivo   per   cui   due   persone   che   vivono   insieme   si  

tormentano in un’ansia fatta di bene, di male, di dubbi e  

perfino di disistima e rancori reciproci141.

Infine Peppino chiede a Rosa: «Tengo nu desiderio. [...] Mi devi fare un 

bel ruoto di maccheroni al forno, alla siciliana, con le melanzane», lo stesso 

piatto   che   quattro   mesi   prima   aveva   lodato   a   Maria   Carolina.   Adesso 

invece sostiene: «vuoi mettere i maccheroni alla siciliana che fai tu e quelli 

che fa Maria Carolina?»142.

140 Ivi, p. 482.

141 Ivi, did., p. 482.

142 Ivi, p. 483.

190

II.4 Mia famiglia

4.1 Sinossi

La   trama   è   sviluppata   sulle   vicende   di   una   famiglia   altoborghese 

napoletana, la scena si svolge in casa Stigliano. Alberto, il pater familias, si 

sente   esautorato   e   per   questo   non   si   assume   le   sue   responsabilità, 

intessendo una relazione con un’altra donna. Sua moglie Elena trascura la 

casa dedicandosi solamente al giuoco con le amiche del circolo. Il figlio 

Beppe, giovane arrivista, è entrato in contrasto col padre per aver rifiutato 

la proposta di un posto di lavoro alla radio:   incitato dall’amico Guidone 

progetta di sfondare nel cinema, e riesce a farsi scritturare per un film a 

Parigi. La figlia Rosaria, che si distingue «per l’atteggiamento spigliato e 

moderno»143, in passato ha avuto una relazione con un uomo più grande di 

lei, con il quale ha diviso il tetto e – pare – il letto, prima di essere lasciata; 

è   fidanzata  con  Corrado  Cuoco,   che   sembra  accettare   in  nome del   suo 

carattere   spavaldamente   modernista   il   passato   di   Rosaria,   pur 

dispensandole “schiaffoni” dai quali trapela qualcosa di represso. Alberto 

ha anche un fratello, Arturo, nostalgico ex militante fascista che vive per 

suo conto e vede come soluzione ai problemi familiari l’imposizione e la 

rettitudine. Fra gli altri personaggi di contorno (la cameriera, le amiche di 

Elena del circolo, il giornalista e il fotoreporter, i vicini di casa...) spiccano 

i signori Cuoco, Michele e Carmela, genitori di Corrado: la loro figura di 

genitori si contrappone a quella degli Stigliano, come vedremo nell’analisi 

143 Eduardo DE FILIPPO, Mia famiglia, in Cantata dei giorni dispari, vol. II, Torino, Einaudi, 1998, p. 

55.  (D’ora in avanti   le  citazioni al   testo  in esame faranno sempre riferimento a questa edizione). 

L’osservazione  è  di  un  personaggio  esterno,  un  giornalista,   che   indovina  il   suo  carattere  da  una 

fotografia.

191

della commedia.

Il primo atto si apre su Beppe che, con l’amico Guidone, ride alle spalle 

del padre, ignaro della sua imminente partenza per Parigi. Nel frattempo 

arrivano Corrado e Rosaria, portando in scena la loro relazione disinvolta e 

moderna.   Alberto,   rientrato   in   casa   sua,   non   degna   nemmeno   di   uno 

sguardo i figli, e amareggiato constata la presenza in casa sua di Guidone. 

Scontroso verso tutti,  porta i  figli  e Guidone a uscire,  uno dopo l’altro, 

lasciandolo solo con Corrado. 

Anche il futuro genero non è stimato da Alberto, ma gli è simpatico; dal 

dialogo fra i due emerge che anche a lui era stato offerto il posto di lavoro 

rifiutato   da   Beppe,   e   anche   lui   lo   aveva   rifiutato.   Amareggiato   per 

l’atteggiamento di Corrado che se da un lato si mostra tanto “moderno” da 

accettare il passato di Rosaria, dall’altro si mostra con lei manesco ad ogni 

occasione, Alberto riesce a far uscire di scena anche lui. 

Dopo poco arriva Arturo, il fratello, che lo incita a risollevare le sorti 

della   famiglia   con   autorità   e   fermezza,   e   soprattutto   gli   rimprovera   il 

“cattivo esempio” dato con la sua relazione adulterina: Alberto risponde 

che trovandosi impotente di fronte a quello che succede non può fare altro 

che aspettare l’evolversi degli eventi. E questi precipitano quando torna a 

casa la moglie, Elena, che, dopo essersi mostrata inacidita e insofferente di 

tutto  quello  che  la circonda,   riceve  la  visita  delle  “amiche del  circolo”; 

queste tre donne vengono a chiedere conto di un grosso debito di gioco 

contratto da Elena mesi prima, in seguito al quale non si è più fatta vedere. 

Alberto assicura alle tre signore che provvederà egli stesso al pagamento 

degli oneri della moglie e rimasto solo con lei viene a sapere che ha perso 

una   cifra   esorbitante:   novecentocinquantamila   lire.   La   situazione  è   più 

grave  di  quanto  Alberto  pensasse  e,  per   il  dispiacere,  non   riesce  più   a 

parlare. Cala il sipario sul primo atto.

192

Nel secondo atto la situazione cambia notevolmente, ma solo per alcuni 

aspetti. Sono passati quattro mesi e Alberto, speaker radiofonico, non ha 

più potuto lavorare. Per questo motivo Elena si è ingegnata ed è riuscita 

con duro lavoro a mettere su una piccola attività  di sartoria.  Veniamo a 

sapere che Beppe nel frattempo è partito per Parigi, subito dopo l’inizio 

della malattia del padre. 

Elena   riceve   in   casa   la   visita   improvvisa   di   un   giornalista,   che   si 

professa un  inviato di  una rivista  di  moda,   interessato alle  attività  della 

“donna che lavora”; ma intanto chiede foto dei figli, soprattutto di Beppe, e 

prima di andarsene si informa presso la cameriera circa i movimenti della 

famiglia Stigliano. 

Alberto,   tornato   dal   medico,   entra   in   scena   per   pochi   momenti 

rispondendo a gesti  alla moglie che si   interessa del  suo stato.  Uscito di 

scena, Elena sente bussare alla porta, e nell’aprire si trova inaspettatamente 

davanti il figlio che, agitatissimo, viene raggiunto da Corrado e Rosaria: dal 

dialogo   di   questi   si   evince   che   Beppe  è   ricercato   dalla   polizia.   Infatti 

mentre   era   a   Parigi   il   produttore   del   film,   che   lo   ospitava,   è   stato 

assassinato   e   lui,   spaventato,  è   scappato  per  paura  di   essere   coinvolto. 

Alberto durante il dialogo è silenziosamente entrato in scena e telefona alla 

polizia. Tutti stupiti si accorgono che Alberto ha ripreso la parola, per poi 

scoprire che non l’aveva mai persa, ma si era visto costretto ad isolarsi 

smettendo di parlare, perché  inascoltato. Nell’attesa della polizia viene a 

sapere   della   presenza   del   giornalista,   intuendone   le   intenzione 

scandalistiche.   Inizia   una   dura   requisitoria   contro   la   sua   famiglia, 

imputando   alla   moglie   la   responsabilità   di   quello   che   è   successo,   e 

rinfacciando al   figlio  che   la sua ricerca  di  “indipendenza” ha finito  per 

coinvolgere tutta la famiglia. L’atto si chiude tra i flash dei fotografi che 

riescono a intrufolarsi in casa Stigliano per preparare la cronaca del giorno 

193

successivo.

Il sipario si leva stavolta su due personaggi nuovi, Michele e Carmela 

Cuoco,  genitori  di  Corrado.  Si viene a sapere che questi  sono venuti  di 

nascosto per le nozze del figlio, il quale li ha apertamente invitati a non 

presentarsi.   In   Michele   Cuoco,   uomo   semplice   dotato   di   una   saggezza 

contadina,   si   scopre   una   figura   paterna   in   netta   antitesi   con   quella   di 

Alberto. Quando stanno per partire, un altro colpo di scena porta in casa 

Rosaria   tirata   per   un   braccio   da   Corrado.   Pentitosi   del   matrimonio, 

quest’ultimo   vuol   tirarsi   indietro   e   ha   riportato   dai   genitori   la   moglie. 

Questa, in lacrime, chiede di parlare da sola col padre, e gli racconta di 

come la perdita della sua dote (la verginità) fosse tutta una montatura per 

mostrarsi   all’altezza   dei   giudizi   della   società   “giovane   e   moderna”. 

Riscattatasi   agli  occhi  del  padre,  questo   la   abbraccia  e   la   tranquillizza: 

parlerà lui con Corrado, e sicuramente anche l’atteggiamento manesco del 

marito muterà. 

Elena invece parlando con Arturo lo inviterà a trasferirsi da loro, per 

tenerle compagnia ora che il marito è definitivamente andato a vivere da 

quell’altra   donna.   La   commedia   si   chiude   su   Alberto   che,   uscendo, 

rassicura la moglie, con uno sguardo, che presto tornerà alla sua casa.

4.2 Storia della commedia

Mia famiglia è una commedia che Eduardo porta a termine alla fine del 

1954.   Poche   settimane   dopo,   il   16   gennaio   1955,   debutta   al   Teatro 

Morlacchi  di  Perugia;  poi  viene  portata  al  Teatro  Eliseo  di  Roma il  18 

gennaio.   Annunciata   a   Venezia   l’estate   del   1950,   l’opera   entrò   in 

preparazione   l’autunno   seguente.   In   un’intervista   a   Silvio   d’Amico   del 

194

1951   Eduardo   già   descrive   uno   dei   temi   della   commedia: 

«l’incomprensione dell’uomo, l’uomo d’oggi, verso la sua compagna. Lui 

continua a chiederle di essere quella che sua madre fu per suo padre»; e 

vede in questo un problema «tipico dei nostri paesi»144. La commedia, che 

non incontra il gusto della critica né quello del pubblico, viene replicata da 

Eduardo145 solo due volte: il 7 marzo del 1955 al Teatro Odeon di Milano e 

il   10   maggio   dello   stesso   anno   al   San   Ferdinando   di   Napoli,   oltre 

all’edizione televisiva del 1964.

Il testo sarà edito la prima volta da Einaudi nel 1956; due anni dopo 

viene  pubblicata  dagli  stessi   tipi  nel  secondo  volume della  Cantata dei  

giorni   dispari  (prima   edizione);   non   presenta   varianti   nelle   successive 

ristampe   della  Cantata.  Ne  I  capolavori   di   Eduardo  la   commedia   è 

presente già dal 1973 (prima edizione).

La lunga gestazione della commedia è data dai notevoli cambiamenti 

apportati, come si vede dal confronto fra la prima stesura, i vari copioni e 

l’edizione a stampa. Nel primo atto la maggiore variante è data dall’assenza 

di Arturo, il fratello del protagonista, e conseguentemente manca la scena 

del dialogo fra i due sul “disordine” della famiglia di Alberto. Il secondo 

atto   inizialmente   mancava   della   prima   scena   tra   Corrado   e   Rosaria, 

rappresentativa  del   loro rapporto.   Il  mutismo di  Alberto,   inoltre,  veniva 

interrotto da uno sfogo col giornalista Bugli, e nello stesso emergeva come 

tale artificio fosse all’inizio un’effettiva reazione psicologica al trauma del 

primo atto (mentre nell’edizione a stampa questo non è definito). Nel terzo 

atto, quello maggiormente modificato, viene dato un rilievo di gran lunga 

maggiore   al   personaggio   di   Michele   Cuoco,   che   si   intrattiene   in   una 

144 Silvio D’AMICO, «Il Tempo», 3 gennaio 1951.

145 All’estero invece avrà maggiore fortuna. Lo si evince anche da un articolo di Enzo Biagi, che 

riporta:  «nell’Urss,  quaranta  compagnie  rappresentano contemporaneamente  Mia Famiglia».  Enzo 

BIAGI, La dinastia dei fratelli De Filippo, «La Stampa», Torino, 5 aprile 1959.

195

discussione sulla sua passione per la ceramica. Inoltre al posto della scena 

di Corrado che irrompe in casa “riportando” la figlia ai suoceri,  Rosaria 

originariamente entrava in scena da sola, piangendo, affermando di essere 

stata picchiata dal marito. Dopo la discussione col padre, questi usciva e 

rientrava poco dopo con Corrado che pubblicamente si scusava per il suo 

comportamento.   Infine   nel   momento   finale   della   commedia,   quando 

Alberto ed Elena si  salutano,  lei   lo  invita a  tornare e  lui,  con un breve  

cenno del capo che vuole significare un promettente «sì» (III, did., p. 81), 

esce di scena. Nelle versioni precedenti invece Alberto la rassicurava con 

un reiterato «sì, sì, sì...»146.

4.3 Fortuna scenica della commedia

Questa   commedia   «dell’incomunicabilità»147  sarà   una   delle   più 

aspramente criticate, tacciata di moralismo e accusata di rappresentare «una 

famigliola come  tante»148.  Secondo Nicola  Chiaromonte Eduardo,  «nella 

lotta di un grande attor comico con se stesso per attingere alla serietà», 

fallisce nel suo intento; egli infatti sarebbe «rimasto vittima dell’illusione 

che, eliminando il comico, automaticamente si rivelasse la profondità della 

sua   tristezza»149.   Una   netta   stroncatura   viene   da   Federico   Zardi,   che 

definisce la commedia «un enorme tonfo»; addirittura «nel  secondo atto 

146  Mia Famiglia, manoscritto del Gabinetto Viesseux, parzialmente riportato in  Appendice  a  Mia 

famiglia, a cura di Paola QUARENGHI, in Cantata dei giorni dispari, vol. I, Milano, Mondadori, 2005, 

pp. 1483­1504.

147  Carlo  FILOSA,  Eduardo De Filippo. Poeta comico del «tragico quotidiano», Napoli, La Nuova 

Cultura, 1978, pp. 30­31.

148 Mario STEFANILE, Mia famiglia, «Il Mattino», 11 maggio 1955.

149 Nicola CHIAROMONTE, Mia famiglia, «Il Mondo», 1° febbraio 1955.

196

Eduardo  viola   il   teatro»150.  Una   commedia  «brontolona»  e  «moralista», 

questa, secondo Anton Giulio Bragaglia151.

Poche invece le critiche positive: ne citiamo alcune. Una «commedia 

validissima,   ricca   di   umanità   e   di   vigore»,   secondo   Cavacchioli152.   Per 

Lucignani l’opera è addirittura «uno dei pezzi migliori del nostro teatro»153. 

Positiva anche la critica di Eligio Possenti:

Come   autore,   non   era   per   lui   facile   superare   i   lavori 

precedenti, e dobbiamo notare che ha saputo tenersi alla 

pari con essi per la sincerità della psicologia, la pensosità 

delle battute e la felicità di certi passaggi che danno ai tre 

atti un’animazione che non varca mai limiti di un’abilità 

sorvegliata ed esperta. E oltre tutto il De Filippo ha scritto 

una commedia necessaria. Richiamare le eterne norme nel 

viver sano è oggidì un ardimento. Il De Filippo l’ha avuto, 

senza   rispetti   umani,   apertamente,   lealmente,   convinto 

della   tempestività   della   sua   commedia   in   questi   anni 

sconnessi,   incerti,   in  cui  tutti  cercano un appoggio,  una 

soluzione, una bussola. [...]

Eduardo De Filippo si  aggiunge,  con  la  originalità   e   la 

forza  persuasiva  della  arte   sua,  alla   schiera  degli  autori 

nostrani   e   stranieri   che,   preoccupati   dell’avvenire   delle 

generazioni,   hanno   tratto   argomento   dall’osservazione 

della vita d’oggi154.

Comunque   Eduardo   si   dichiarò   incompreso   e   in   diverse   occasioni 

150 Federico  ZARDI, «Cronache», 1° febbraio 1955, cit. in Paola  QUARENGHI,  Nota storico­teatrale  a 

Mia famiglia cit., pp. 1349­1350. 

151 Anton Giulio BRAGAGLIA, Un eccellente padre di famiglia, «Film d’Oggi», 27 gennaio 1955.

152 Luigi CAVACCHIOLI, «Oggi», 3 febbraio 1955.

153 Luciano LUCIGNANI, La famiglia di Eduardo, «Vie Nuove», 6 febbraio 1955.

154 Eligio POSSENTI, «Corriere della Sera», 8 marzo 1955.

197

accusò la critica: «hanno raccontato il fatto e il fatto in Mia famiglia non è 

importante»155.   Nella   presentazione   all’edizione   televisiva   spiegò   le 

intenzioni della sua critica:

Presento una famiglia che si sbanda; naturalmente io devo 

presentare i difetti per poi trarre delle conclusioni e dare 

un costrutto alla fine del terzo atto. A me sembra che ci sia 

riuscito. Qualcuno potrà pensare che io sia contro l’istituto 

del matrimonio... per carità. Anzi in tutte le mie commedie 

ho speso sempre qualche parola in favore della famiglia156.

4.4 Analisi della commedia

«Alla   base   del   famigliarismo   scenico   del   nostro   autore»,   sostiene 

Barsotti,  «c’è   la convinzione che i problemi individuali e sociali  sono il 

riflesso di quelli domestici [...]. Il punto d’osservazione interno consente al 

teatro di Eduardo di rispecchiare anche il modo di vivere esterno»157. Infatti 

questa commedia porta in scena la crisi della famiglia come metafora della 

crisi   della   società.   E   se   il   rappresentante   della   prima   è   il   protagonista 

Alberto Stigliano, la seconda trova il suo referente nel fratello di questi, 

Arturo Stigliano: ad ogni modo, entrambi sono colpevoli di non aver saputo 

reagire,  come vedremo,  alla relativa crisi,  se non chiudendosi  nelle loro 

ragioni (o presunte tali).

L’ambientazione di Mia famiglia è la stessa per tutti e tre gli atti: «una 

155 Eduardo DE FILIPPO, «Sipario», n. 119, marzo 1956.

156  Presentazione alla ripresa televisiva di  Mia famiglia, 1964, ora in  Eduardo racconta Eduardo, 

VHS allegato, Torino, Einaudi, 2003. Trascrizione nostra.

157 Anna BARSOTTI, Eduardo drammaturgo cit., p. 65. 

198

stanza  di  passaggio  che  divide   tutti  gli  ambienti  dell’appartamento» (I, 

did., p. 21). Come osserva la Barsotti, «l’unità di luogo dei testi eduardiani 

che hanno come centro tematico la “famiglia” non è certo la stessa [...] del 

Topos   scenico   e   morale   dei   drammi   naturalisti   “borghesi”»158;   qui   gli 

oggetti di scena «non fungono solo da corredo scenico, [...] assumono ora 

una significanza nell’intreccio drammatico»159.  Infatti   la scena del  primo 

atto è così descritta dalla didascalia:

L’arredamento dell’ambiente si riduce a pochi mobili di  

un certo buon gusto, mal disposti e mal curati. Qualche  

poltrona zoppicante; del sediame malfermo; un telefono  

ed   un   apparecchio   radio.   Cumuli   di   giornali  

cinematografici, sparsi un po’ da per tutto, completano il  

disordine dell’insieme. (I, did., p. 21).

Su questo  “campo di  battaglia”   si   trovano   in  apertura  di  commedia 

Beppe e Guidone: quest’ultimo si mostra subito tanto sensibile160  quanto 

trasgressivo:

GUIDONE.   [...]   Se   c’è   un   tizio   che   odia   le   convenzioni 

sociali,   i   luoghi   comuni,   l’ipocrisia,   questo   tizio   sono 

proprio   io… [...]  Anzi,  quando  tu  hai  chiuso  gli  occhi, 

pensando che ti eri addormentato, ho appoggiato la testa 

sulla spalliera della poltrona, immergendomi in ipotesi e 

fantasticherie spirituali per mio conto (I, p. 22).

Ancora Guidone, parlando con Beppe di Alberto lo definisce «un essere 

158 Ivi, p. 307.

159 Ivi, p. 308

160  Già nel 1953, intervistato da Raul Radice, Eduardo disse della commedia in preparazione che 

trattava il «tema scottante dell’inversione sessuale». Raul RADICE, «L’Europeo», 22 gennaio 1953.

199

brutale» e aggiunge: «non va d’accordo con te;   la moglie,  come se non 

esistesse; tratta la figlia come se fosse un’estranea… È proprio un bestio» 

(I,  p.  22).  Secondo Guidone del   resto   la   famiglia  si   forma e cresce  sul 

«desiderio egoistico dei tuoi genitori, specialmente da parte del padre, di 

volerti imporre la propria volontà, i propri gusti e tendenze al solo scopo di 

fare di te un doppione di se stessi».

Beppe, dal canto suo, si duole nel constatare che il padre, oltre a non 

aver saputo accettare la sua “indipendenza”, pensa che il figlio potrebbe 

seguire le sue orme, mentre secondo lui “la vita è cambiata”:

BEPPE.   [...]   Che   ti   credi,   che   si   preoccupa   di   dare   uno 

sguardo intorno, per vedere con quali mezzi e per quali vie 

la gente di oggi riesce a sfondare e vincere? Individui che 

nun   te   putevano   pulezza’   nemmeno   ’e   scarpe,   oggi 

marciano   in   automobile   e   comandano   i   milioni;   con 

qualunque arma, buona o cattiva, ricattatoria o disonesta: 

sfondano!   E   i   milioni   li   comandano,   e   in   automobile 

marciano. Vittorio Sardelli come ha fatto? 

GUIDONE. (con ammirazione). Che cervello!

BEPPE. E l’hanno dovuto salvare. Proprio quelli che sono 

stati   truffati   da   lui.   Lo   hanno   dovuto   salvare,   se   no 

finivano in galera tutti quanti. E guarda la posizione che 

tiene Vittorio Sardelli; riverito e rispettato da tutti! (I, p. 

23)

Dopo   questo   “elogio   dell’arrivismo”,   comincia   con   quello 

“dell’indipendenza”:

BEPPE. L’accordo fra me e mio padre finì il giorno in cui 

gli dissi:  “Papà,   io e te siamo due cervelli  differenti.  Ti 

ringrazio di avermi messo al mondo… e accontentati che 

200

ti dico: ti ringrazio. Ma non mi devi scocciare più. Quello 

che   farò   nella   vita   dipenderà   esclusivamente   dalla   mia 

volontà: me nguaio, m’arruvino, nun aggi’ ’a da’ cunto a 

nisciuno”.[...]  (borioso conclude)  La vita è un dono! E a 

me quando me regalano na cosa, io ne faccio chello che 

me pare e piace. E poi, il donatore non fu mio padre. Lui, 

se mai, funzionò da intermediario (I, p. 23).

Questa   scena,   con   l’ingresso   in   sequenza   dei   “giovani”,   è 

rappresentativa di quel «processo di omologazione culturale che Eduardo 

intravede e sembra temere, l’Italia degli anni Cinquanta»161. Anche quando 

arriva Corrado,  «un tipo di  giovane sui  ventitré  anni,   [...]   indifferente  a 

tutto ciò che lo circonda», il suo dialogo con Beppe e Guidone ci mostra 

una “gioventù bruciata” che fa sfoggio di un linguaggio insolente e di un 

atteggiamento arrogante:

CORRADO. Rosaria?

BEPPE. E chi l’ha vista. Io non so nemmeno se stanotte ha 

dormito qua.

GUIDONE. Ieri sera non eravate insieme?

CORRADO.   Fino   a   mezzanotte   quasi…  (Dopo   una   breve 

pausa, con semplicità) La schiaffeggiai!

BEPPE (con lo stesso tono semplice). Per la strada?

CORRADO.  No.  Eravamo in casa  di  Mirella,  quella  cagna 

eternamente in calore… che ieri sera mi fece più schifo del 

solito.   C’era   pure   altra   gente,   ma   non   mi   ricordo   di 

nessuno. Difficilmente avverto la presenza degli altri (I, p. 

26).

161  Paola  QUARENGHI,  Nota storico­teatrale  a  Mia famiglia,   in  Cantata dei  giorni dispari,  vol.   I, 

Milano, Mondadori, 2005, pp. 1349­1350.

201

A   completare   il   quadro162  entra   Rosaria,   una   ragazza   ventenne 

dall’aspetto   «malsano   di   un   ragazzaccio   avvizzito,   dal   volto   pallido   e 

malaticcio»,  portando  tipici  oggetti  da “contestazione giovanile”:  «nella 

grande borsa a sacco,  di vecchio cuoio, reca due pacchetti  di sigarette  

americane,   due   scatole   di   fiammiferi   svedesi   e   mezzo   chilo   di   noci  

sorrentine,   incartocciate   in   un   pezzo   di   giornale.   Col   braccio   sinistro  

stringe un fiasco di Chianti» (I, did., p. 28). La giovane viene informata 

dell’imminente partenza di Beppe, e anche lei, come Guidone, gli consiglia 

di   comunicarlo   al   padre   direttamente   da   Parigi.   In   quel   mentre   arriva 

Alberto,   il  «titolare della casa»: «Parla poco, ma in compenso prodiga 

cenni   del   capo   e   abbozzi   di   sorrisi,   ogni   qual   volta   gli   si   chiede  

d’intervenire  in una discussione.  Ad osservarlo bene, però,  si  scorge in 

quei cenni ed in quei sorrisi una rassegnazione distaccata da ogni cosa  

che gli fu cara e sacra». (I, did., p. 29). Il suo essere distaccato verso i figli 

porta   nella   vicenda   un’amarezza   che   sembra   venire   da   molto   lontano, 

cresciuta   sul   terreno   fertile  di  una  famiglia  dalla  quale  non si  è   sentito 

compreso.   Entrando   Alberto   non   saluta   gli   altri,   così   come   loro 

«ammutoliscono ostili» (I, did., p. 30). Dopo aver parlato alla cameriera si 

siede al tavolo e – sempre senza guardare in faccia nessuno – liquida con 

battute acide uno ad uno tutti i personaggi. Rimane in scena solo Corrado. 

Il rapporto con lui è leggermente più cordiale di quello con i figli: «non 

esiste nessuna intesa fra i due, ma un tenue filo di simpatia istintiva, una 

lieve   affinità   d’animo,   naturale,   sì»   (I,   did.,   p.   32).   I   due   iniziano   a 

dialogare e Corrado rifiuta il posto alla radio offertogli dal suocero, il quale 

162 A proposito del sarcasmo di questa ed altre commedie eduardiane Giovanni Calendoli sostiene: 

«il   commediografo   aderisce   sentimentalmente   soltanto   ai   personaggi   che   posseggono   un   bene 

fondamentale, sia pure oltre e contro le forme convenzionali; ma relega inesorabilmente tutti gli altri 

nel piccolo inferno dell’inganno sociale, smantella il castelletto delle menzogne dietro le quali essi si 

nascondono e li ferisce a sangue con la sua ironia, con il suo scherno, con la sua allegra cattiveria».  

Giovanni CALENDOLI, «La Fiera letteraria», Roma, 5 agosto 1956.

202

cerca di riportarlo coi piedi per terra: è meglio un lavoro umile ma onesto 

che “l’arte di Michelasso”: 

CORRADO. Non mi conviene. Penso ad altro.

ALBERTO. Per esempio?

CORRADO.  Come   si   può   dire   specificamente   qual   è   il 

pensiero migliore […] fra le mille idee che ti vengono in 

mente   durante   il   giorno?  Vedremo  come   si  mettono   le 

cose.

ALBERTO.  Ma  quali,  Corra’?  Le  cose  noi   le  mettiamo a 

posto   e   noi   le   spostiamo.   E   non   credere   che   le   cose 

spostate si possono rimettere a posto per conto loro.

CORRADO.  Signor Alberto, non credo che le cose spostate 

dagli altri le debba rimettere a posto proprio io.

ALBERTO (bruscamente). Da chi? Mi dici da chi sono state 

spostate queste benedette cose?

CORRADO. Io che ne so.

ALBERTO  (conclusivo). Da noi. Hai capito, Corra’: da noi! 

Da che è nato il mondo l’uomo sposta e l’uomo rimette a 

posto le cose. Tu mi dirai: “Ma allora fa l’arte dei pazzi”. 

E io ti rispondo: “Meglio fare l’arte dei pazzi che quella di 

Michelasso: mangiare bene e andare a spasso”. (I, pp. 32­

33).

Quasi in confidenza, Alberto confessa al giovane la sua amarezza nei 

confronti della figlia, rievocando la situazione che portò il rapporto padre­

figlia ad un punto di rottura:

ALBERTO.  Tu  puoi   capire   con  quanta   amarezza   io   te   ne 

parli… Una figlia che ti costa quello che costa una figlia… 

la quale inizia una vita per conto suo. Naturalmente fuoco 

e fiamme in famiglia, e previsioni catastrofiche da parte 

203

mia… Perché  non era difficile  prevedere   la   fine che ha 

fatto!   Incontra   il  mascalzone…  mascalzone   poi   perché, 

chiunque al suo posto avrebbe fatto lo stesso… E non se 

ne  vergogna:  niente  affatto.  Quale  vergogna?  Lo dice  a 

tutti… se ne fa un vanto, come se avesse commesso un 

eroismo. Lo ha detto pure a te. (I, p. 33).

Non riesce a capacitarsi di come Rosaria abbia potuto contravvenire ad 

un  dictat  morale   così   ingenuamente,   e   senza   neanche   prendere   in 

considerazione l’ipotesi che  lei possa avere un codice etico differente dal 

suo, carica il comportamento della figlia  di un significato altro, quello di 

una sfida, di uno sfoggio; e sembra quasi voler salvare il futuro marito, il 

quale invece si mostra indifferente (ma non lo è, come si scopre in seguito). 

Alberto   ancora   una   volta   scambia   l’indifferenza   del   futuro   genero   per 

rassegnato disprezzo verso il genere femminile: 

CORRADO. Ma non m’interessa. Lo volete capire si o no? 

Quello   che   ha   fatto   Rosaria   per   il   passato   riguarda 

solamente lei.

ALBERTO. Già, tu non salvi nemmeno l’uno per mille delle 

donne.

CORRADO.   Vi   sbagliate.   Io   voglio   salvarle   nella   piena 

totalità. Io, la donna, la metto su di un altro piano. Credete 

a  me:   la  verginella  a  diciotto  carati  non  esiste  più.  Ma 

fatemi il piacere, signor Alberto, noi viviamo i tempi del 

cellophan,  della   televisione,  del  nylon,  dell’atomica,  dei 

dischi   volanti…  Non  possiamo  pretendere  di   andare   in 

giro   con   il   campanello   della   parrocchia,   cercando   il 

candore, l’innocenza, la verginità, senza fare un bagno di 

ridicolo. C’è stata una evoluzione, un riscatto, una messa a 

punto. E non mi potete credere in mala fede. Se non fossi 

204

convinto di quello che vi dico, non avrei scelto Rosaria per 

moglie.

ALBERTO  (avverte  un  senso  di  disagio  che   lo   scuote,   lo 

amareggia,  ed allora esclama a denti  stretti  un appena 

percettibile).  Già.  (Un   breve   silenzio   gli   basta   per  

meditare   e   riprendere   l’argomento)  Però,   scusa, 

Corrado… [...]  Tu sei manesco. Tu non perdi occasione 

per usare le mani, e mi risulta che spesso Rosaria piglia 

schiaffoni da te, e quasi sempre per futilissimi motivi… 

Allora?   Mi   dici   dove   vanno   a   finire   l’evoluzione   e   il 

riscatto, il cellophan e i dischi volanti?

CORRADO.  Allora non mi sono spiegato. Quelli  non sono 

schiaffi,   sono   prove   di   considerazione.   Lo   schiaffo 

significa: io ti  tratto da pari a pari;  ti  ritengo all’altezza 

mia.   […]   C’è   il   pro   e   il   contro;   nell’evoluzione   e   nel 

riscatto ci sono pure gli schiaffi.

Nonostante la parodia della rivolta giovanile degli anni Cinquanta che 

vede negli “schiaffoni” un passaggio per l’evoluzione e la parità dei sessi, 

Alberto, seppure in linea con la mentalità della sua generazione, lotta dalla 

parte del torto: dalla stessa parte dell’autore. Infatti se nel terzo atto – come 

vedremo – la condizione di personaggio positivo sarà messa in discussione, 

non così l’accusa del protagonista (e dietro di esso dell’autore) contro una 

morale   che   vede   nel   sesso   prematrimoniale   (da   parte   della   donna, 

naturalmente) uno dei fattori della crisi dei valori; in finale di commedia 

infatti  la figlia si  salverà  non riuscendo a far accettare il suo sistema di 

valori, ma rivelando di non aver mai trasgredito quello del padre.

Altro momento interessante nel primo atto è la scena del protagonista 

che   si   confronta   con   un   terzo   sistema   di   valori,   quello   di   Arturo,   che 

sembra separato dal fratello da un  gap  generazionale:  «tipico soldato in 

205

ritiro» (I, did., p. 35),  anche lui vede nella famiglia del fratello «una casa 

disordinata» (I, p. 36), ma ne incolpa il mancato capofamiglia:

ARTURO. E se permetti il pazzo principale sei tu. Ma come? 

[…] Un uomo come te, che porta in casa quello che porta, 

non riesce a far valere la sua autorità?

ALBERTO. E che dovrei fare?

ARTURO. Mostrarti uomo e stringere i freni.

ALBERTO. Ma nun me fa’ ridere, Artu’! Ma perché, tu credi 

fermamente   che   solo   la  mia   famiglia   si   trovi   in  queste 

condizioni? Qua chi più chi meno tutti cercano di tirare a 

campare  come meglio  possono.  Ci   sta   chi  non   lo  dà   a 

sembrare   e   cerca   di   salvare   il   salvabile   fin   quando  gli 

riesce, e chi arriva con l’acqua alla gola e scoppia. E leggi 

la cronaca nera. (I, p. 36).

 

Ciò che accomuna i due fratelli è la convinzione che le macerie di oggi 

vengono dai bombardamenti di ieri: la crisi dei valori risulterebbe da un 

codice morale imposto (quello del fascismo) che poi cadendo ha lasciato 

una situazione di disordine: 

ALBERTO.   [...]   Perché   con   il   fascismo   caddero   illusioni, 

idoli e miti. E l’umanità, giovani e vecchi compresi, capì 

che gli incrollabili  e i potenti si  reggono in piedi fino a 

quando “sono le nove e tutto va bene”. E questo non è 

successo  solo  da noi,  ma  in   tutto  il  mondo.  Allora  non 

crediamo   più   a   niente,   ed   ecco   che   si   vive 

all’arrembaggio…   alla   giornata:   minuto   per   minuto.   (I, 

p.37)

Senza soluzione di continuità, quasi ad indicare un flagello della stessa 

206

portata,   il  protagonista  porta   sul  banco  degli   imputati  quel  consumismo 

figlio  della   ricostruzione,  del   ritorno  alla  vita,  preludio  al  boom  che   si 

svilupperà nel decennio successivo:

ALBERTO.   Artu’,   tu   che   vuo’   sape’,   qua   nun   ce   stanno 

denari   che  bastano.  Si   spende   quello   che   guadagni   nel 

mese in corso, quello del mese appresso, e quello che forse 

guadagnerai.  Ed  allora   noi   ci   troviamo di   fronte   a   due 

specie   di   disordini:   finanziario   e  morale.  La  gente   non 

crede più a niente… Vive alla giornata minuto per minuto. 

Tu vuoi stringere il freno a quello finanziario, d’accordo; 

ma credi che il freno isolato di un padre di famiglia sia 

sufficiente a fermare il disordine morale che è dilagato in 

tutto   il  mondo,   che  è   poi   quello   che  ha  determinato   il 

disordine   finanziario?   Ecco   perché   mi   sono   messo   in 

finestra, e aspetto. (I, p. 37).

Dunque Alberto imputa il disordine familiare a quello sociale,  e non 

riuscendo  a   fare  altro   sta   “in   finestra”,   e  aspetta.  Arturo   invece   riporta 

l’uomo   di   fronte   al   problema,   invitandolo   ad   assumersi   le   proprie 

responsabilità:  egli  coltiva infatti  apertamente una relazione con un’altra 

donna. Ma Alberto, ottuso, ne imputa la colpa all’assenza dei suoi familiari 

– senza considerare la possibilità di invertire il rapporto causa­effetto.

Entra   in   scena   Elena,   la   moglie   di   Alberto.   Il   suo   personaggio   è 

multiforme. Nel primo atto è così descritta:

Elena è la signora Stigliano, moglie di Alberto. L’età di  

costei si avvicina più ai quaranta che ai trentacinque. Di  

salute   florida,   di   aspetto   giovanile;   le   sopracciglia  

aggrottate; gli occhi controllati rigorosamente da un’idea 

207

testarda, e il mastichio incessante con cui tormenta il lato  

destro del labbro inferiore,  costituiscono nell’insieme la 

smorfia amara e scontenta di un essere inumano che, per  

aver  rimuginato   e   sognato  di   continuo   la   vendetta,   ha  

definitivamente elevato le sue sembianze a simbolo della  

stessa.   Il   suo  modo  di  parlare  è   sempre   farraginoso   e 

vago. Quando ascolta gli altri, capisce male e non chiede 

di   capire  meglio;   quando   si   esprime   lei,   quasi   sempre 

tronca a metà il suo discorso, o per pigro disinteresse o  

perché via via dimentica soggetto e predicato.  (I, did., p. 

38).

Alberto,  considerando la famiglia ormai perduta,  cerca  di “salvare  il 

salvabile”, ovvero il suo matrimonio:

ALBERTO  (sinceramente   convinto).  Bisogna   tirare   le 

somme, Elena.  Non è   la prima volta che te  lo  dico.  La 

casa, come istituzione, è diventata un ricordo; la visione 

nostalgica di un racconto fiabesco. Convinciti, la casa non 

esiste   più.   Bisogna   fare   sforzi   incredibili   per   farla 

funzionare in qualche ricorrenza eccezionale, e quando e 

se ci riesci,  non hai realizzata che la rievocazione di un 

fatto storico superato. Ormai siamo rimasti io e te. I figli? 

Fanno la loro vita. Vendiamo questi quattro mobili… ca 

nun me fido d’ ’e vede’ cchiu… e pigliamoci un paio di 

camere in una pensione, un albergo… (I, pp. 39­40).

Elena non raccoglie e devia la discussione raccontando la sua giornata 

“lavorativa”: «Possibile che devo pensare a tutto io? Stammatina la cucina 

elettrica fulminata […] …e io sono andata in rosticceria. Dalla sarta ci devo 

andare? Mi è permesso qualche volta di andarmi a lavare i capelli, o devo 

208

puzzare   come   una   mendicante   schifosa?»;   poi   si   accende   una   sigaretta 

perché «qua questo ci è rimasto» e continua il suo resoconto: «sono stata a 

casa di Teresa Falanga. Mi ha telefonato per rimpiazzare un quarto […]. 

Dovevo interrompere il giro? Così non mi chiamano più e finisce pure quel 

tanto di distrazione innocente che una signora maritata si può concedere» 

(I, p. 41).

Ma la distrazione si rivela per niente “innocente” nel momento in cui 

fanno la loro “apparizione” le compagne del Circolo:

La signora Fucecchia dalla destra, seguita da altre due 

amiche, la signora Muscio e la signora Micillo. Queste tre  

donne   hanno   in   comune   fra   loro   lo   stesso   modo   di 

parlare, di porgere e gestire. Tutte e tre benestanti, tutte e  

tre sposate, tutte e tre appartenenti alla media borghesia.  

[...] La Fucecchia è la più anziana, ed è infatti quella che  

con   ogni   artificio   cerca   di   nascondersi   gli   anni.   La  

Micillo   è   giovanissima   e   bella;   ma   già   presa  

nell’ingranaggio del tenore di vita che menano le amiche,  

per cui poco si accorge più del privilegio che vanta sulle  

altre.   La   Muscio   si   avvicina   all’età   di   Elena   e   della  

Fucecchia.   L’ingresso   di   queste   tre   donne   paralizza 

l’abituale   energia   di   Elena.   Inchiodata   su   quattro  

piastrelle,   la   donna   non   fiata,   non   gestisce;   si   limita  

appena a seguire con lo sguardo le tre amiche, le quali  

con passo lento avanzano inesorabili fino a schierarsi in  

atto di sfida di fronte a lei. Alberto stupito segue la scena  

con curiosità. E la Fucecchia, più pratica di vertenze del  

genere, rompe l’incanto. (I, did., p. 42).

Questo  “schieramento”   rivela  il  motivo  della   sua  “calata”:  Elena  ha 

contratto un debito di gioco e da allora si è dileguata. Alberto risolve la 

209

situazione promettendo alle tre che il giorno seguente manderà i soldi che 

spettano loro. Rimasto solo con Elena scopre l’ammontare del debito. Dopo 

un attimo di   sbigottimento,  deciso  a  mettere   la  moglie  davanti  alle   sue 

responsabilità, si accorge che nemmeno lei potrà saldare il debito, trovando 

al   posto   dei   suoi   gioielli   delle   polizze   di   pignoramento.   La   moglie   si 

abbandona a un pianto dirotto  invocando pietà  e  Alberto,   il  quale  sente 

definitivamente che la situazione gli è sfuggita di mano, tenta di reagire:

ALBERTO (più irritato che commosso, reagisce al pianto di  

lei con uno scatto rabbioso, come se imprecasse contro se 

stesso).  Presentati   al   mondo   chiudendoti   nello   stomaco 

tutta la bile e il veleno che te ne viene da tutto quello che, 

con sacrifici e rinunce, hai creato con le tue mani, e che 

pensavi   ti   dovesse   dare   in   cambio   soltanto   gioia.   La 

casa…   i   figli…   la   famiglia…  (Ora   è   preso   da   una 

disperazione  intima,   cattiva   e   inesternabile   che   lo  

costringe   a   comprimersi   le   mani  sul   volto,   come   per  

contenere lo scoppio dei tessuti) Ma che ho creduto io? E 

chi me l’ha fatto credere? Perché ho insistito nel credere? 

(E se ne va in camera da letto). (I, p. 47).

A questo punto accade qualcosa di interessante, quasi in sordina, una 

didascalia  di   tre righe indica  una metafora:  quella  dei   figli  che,  davanti 

all’handicap  comunicativo   dei   genitori,   cercano   punti   di   riferimento 

all’esterno del contesto familiare: 

Rosaria entra dalla sinistra, come se non la riguardasse  

quello   che   è   accaduto,   e   che,   evidentemente,   ha   udito  

dalla sua camera; attraversa la stanza ed esce silenziosa 

dalla porta d’ingresso. (I, did., p. 47).

210

Infine   Alberto,   come   reazione   a   una   situazione   più   grande   di   lui, 

davanti alla quale “non ci sono parole”, implode nel mutismo. Elena solo 

adesso, innanzi alla tragedia, ritrova le energie e subisce una metamorfosi, 

trasformando   quella   donna   stanca   che   si   trascinava   dalla   sarta   al 

parrucchiere   al   tavolo   da   gioco   nella   moglie   disperata   che   muove   in 

soccorso al marito «con tono energico» e corre «svelta e tutta presa dalla  

gravità del momento», impartendo disposizioni alla cameriera. In chiusura 

d’atto Elena «senza perdersi d’animo, e con vigore sconosciuto fino a quel  

momento anche a se stessa, si avvicina ai due materassi e li trascina verso  

la camera da letto» (I, did., p. 48).

Il  mutismo di  Alberto  è   stato   interpretato   in  modi  diversi.  Secondo 

Gennaro  Magliulo  il  protagonista  «inutilmente ha   tentato  di  comunicare 

con gli altri: è  impossibile», perché  «ognuno deve trovarsi di fronte alla 

propria   realtà»;  «Alberto  dovrà   farsi  da  parte,  ognuno  è   solo,  ma  deve 

anche essere solo», poiché «in se stesso è la sua salvezza»163. Per Federico 

Frascani Alberto «perde la parola o meglio, finge  di perderla […] perché 

ritiene opportuno farsi credere muto in una casa dove la sua voce, la voce 

del buon senso, resta inascoltata»164. Questo mutismo sarebbe secondo la 

Barsotti «il silenzio metaforico – in cui egli si era già chiuso nei confronti

dei famigliari e di tutto quanto il presente – [che] si letteralizza, diventa

reale»165.

Nel secondo atto assistiamo ad una trasformazione. Il tavolo da pranzo 

è stato spostato per lasciar posto a «sei macchine da cucire che figurano,  

allineate   a   poca   distanza   l’una   dall’altra,   come   in   un   vero   e   proprio  

laboratorio» (II,  did.,  p.  49).  Si   tratta della  nuova attività  che Elena  ha 

messo in piedi per sostituire le entrate che l’indisposizione del marito ha 

163 Gennaro MAGLIULO, Eduardo De Filippo, Bologna, Cappelli, 1959, p. 75.

164 Federico FRASCANI, Napoli amara di Eduardo De Filippo, Firenze, Parenti, 1958, p. 84.

165 Anna BARSOTTI, La drammaturgia di Eduardo De Filippo cit., p. 53.

211

fatto mancare. Essa ha reagito guadagnandosi uno spazio di indipendenza. 

«’A signora mia, quando il marito parlava, non alzava una sedia da qua a 

là» (II, p. 52) dirà  la cameriera166  poco dopo a un giornalista.  Ma il suo 

riscatto   si   inserisce   nel   contesto   della   commedia   come   alternativa   alla 

sterile   denuncia   della   crisi   della   famiglia.   Quello   che   Eduardo   sembra 

presagire167  è   una   possibile  soluzione   al   problema:   l’evoluzione 

dell’istituzione.   Anche   il   rapporto   col  marito  è   cambiato.   Ora   che   non 

parla, la sua voce gli manca:

ELENA  (al   marito).   E   sei   stato   dal   medico?   (Alberto  

accenna di sì). E ti ha dato buone speranza? (Alberto c.s.). 

Non per niente. Grazie a Dio il lavoro mio va bene, e non 

ci manca il pane...  ma per scambiare quattro chiacchiere 

regolarmente,   per   sentire   un   tuo  parere   su  questo  o   su 

quello argomento. E poi, mi credi? Io ’a voce toia nun m’ 

’a ricordo. Sarà un fenomeno strano; ma ho l’impressione 

che   quando   tu   parlavi,   io   nun   sentevo  niente.   (Alberto 

annuisce ironicamente). (II, pp. 57­58).

Dopo   un   breve   dialogo   fra   Maria   Rosaria   e   Corrado,   che   delinea 

ulteriormente   il   loro   rapporto   all’insegna  della   comunicazione  mancata, 

irrompe nella stanza il giornalista Bugli: costui si dichiara un reporter della 

rivista «Donna d’oggi» che sta conducendo un’inchiesta sull’attività della 

donna moderna – in realtà raccoglie informazioni sulla famiglia Stigliano 

per lo  scoop  che comparirà  sui giornali il giorno successivo. Nel mentre 

166 Maria è una tipica figura che discende dalla tradizione della commedia dell’arte, quella del “servo 

sciocco”   (presente   in  molte   commedie   eduardiane),   spalla  del  protagonista   (in  questo   caso  della 

deuteragonista) che non perde occasione per dire spudoratamente la verità. 

167 «Il mio è finito col diventare un discorso profetico: nelle commedie ho trattato una verità che è 

diventata verosimile... Credo che in questo senso del futuro sia il compito dello scrittore». Eduardo DE 

FILIPPO, «Il Giornale d’Italia», 19 maggio 1981.

212

entra Arturo, constatando con amarezza un ribaltamento dei valori che vede 

la   stampa   interessarsi   più   allo   Stigliano   attore   che   allo   Stigliano 

“combattente di guerra”.

BUGLI. Siete lo zio di Beppe Stigliano? Bravo.

ARTURO (con amaezza). A servirvi. (Ed esclama come per  

sottolineare   una   dura   constatazione)  S’è   avutato   ’o 

canisto.

BUGLI (che non l’ha compreso). Come?

ARTURO. Il cesto si è capovolto! Il mondo è una caccavella 

di fagioli. Sapete come fanno i fagioli, nella pila, quando 

bollono? Quelli di sotto arrivano sopra, e quelli di sopra 

vanno a  finire  sotto.  La stampa non mi conosce perché 

sono Arturo Stigliano, combattente dell’altra guerra, ardito 

nel Battaglione d’assalto “I fulminanti”, ferito in battaglia 

alla  gamba sinistra  e  promosso  sergente  sul  campo,  per 

merito di guerra… no; ma perché  sono lo zio  di Beppe 

Stigliano, attore cinematografico in voga, pagato con fior 

di   quattrini   e   colpi   di   obiettivo   che   ne   proiettano   le 

sembianze in tutto il mondo… In altri termini: mio nipote 

è il fagiolo di sopra, e io il fagiolo di sotto. (II, p. 55).

Il  momento  della   “catastrofe”  arriva  poco  dopo  che   il   giornalista  è 

uscito,  con   l’entrata  di  Beppe,   fuggito  dal   luogo dove  è   stato  ucciso   il 

regista che lo ospitava. Alberto entra in scena e inizia la scena madre, la 

peripezia   del   capofamiglia   che   riprende   la   parola   e   la   sua   autorità 

innanzitutto con un richiamo all’ordine,   telefonando alla polizia: «se sei 

innocente che paura hai?» dice al figlio come per invitarlo ad affidarsi nelle 

mani dell’autorità giudiziaria, là dove sente che ha fallito l’autorità paterna.

ALBERTO. […] Voglio dire tutto quello che non ho detto in 

213

tanti   anni,   e   forse  per  non averlo  detto,   ci   troviamo  in 

questa situazione. Già, che fa, che fa che ci troviamo così 

combinati? Ci sentiamo uniti, legati fra noi? Esiste forse 

un vincolo che ci  accomuna nella  buona e  nella  cattiva 

sorte? (II, p. 61).

L’autocritica però dura poco, e non è incentrata sul non aver cercato 

una via di comunicazione con la famiglia, bensì  sul non aver perseguito 

fino in  fondo quello  che secondo lui  era   il  suo ruolo.  Infatti  dopo aver 

rinfacciato al figlio la sua fallita indipendenza («Hai capito? Sei rimasto 

con le mani dentro? Ti sei reso conto che quando in famiglia c’è uno che 

cade, si trascina appresso tutti quanti?») scarica la colpa sulla moglie: «io e 

te siamo stati in lotta perché tu non volevi la stessa cosa che volevo io». 

Mentre per il suo progressivo distacco dalla famiglia (giunto all’estremo 

del mutismo simulato) trova giustificazione negli errori degli altri: «se mi 

sono disamorato e disinteressato della mia famiglia,  una ragione ci  sarà 

stata. Ho lottato, fin quanto ho potuto, per farti capire che i figli costano 

sacrifici   e   rinunzie;   ma   poi   ho   mollato»   (II,   p.   61).   Il   figlio   cerca   di 

ribellarsi un’ultima volta all’autorità paterna, ma Alberto lo riporta davanti 

alla realtà dei fatti:

BEPPE.  Io non volevo arricchirmi illecitamente. Ho scelto 

una   via   come   potevo   sceglierne   un’altra.   Volevo 

sganciarmi da te per non esserti di peso. Mi sono trovato 

implicato in un fatto di sangue che non mi riguarda: ma 

questo   non   significa   che   l’uomo   debba   rinunciare 

all’indipendenza  personale:  ognuno  è   padrone  della   sua 

vita.

ALBERTO.  No.  Questo   lo  diciamo quando  ci   fa   comodo. 

Perché, se ammettiamo che ognuno di noi, per vivere nel 

214

consorzio umano, deve ubbidire ad un autocontrollo delle 

proprie   azioni,   già   riconosciamo   che   l’indipendenza 

personale   ha   dei   limiti   precisi.   Non   siamo   liberi,   non 

possiamo disporre egoisticamente della nostra vita. Siamo 

agganciati come una catena: una maglia  cede, e  tutte  le 

altre appresso. (II, p. 62)

In ultima istanza, la colpa è stata di un mancato accordo tra moglie e 

marito («la lotta fra me e te c’è stata e i figli l’hanno avvertita»), che ha 

portato inevitabilmente a una destituzione del pater familias, fino a svilirlo, 

a farlo dubitare di se stesso e del suo ruolo. Infine la dura requisitoria si 

accanisce   contro   Guidone,   elemento   esterno   alla   famiglia   (vero 

“indipendente” perché  «una famiglia non se la potrà  mai creare»).  È  un 

duro   atto   d’accusa   verso   l’intera   categoria   che,   come   ha   notato   la 

Barsotti168, è «al limite della paranoia»:

ALBERTO.  Una   setta   diabolica,   che   funziona  da  un   capo 

all’altro del mondo, ramificando e mettendo radici da per 

tutto. S’impongono servendosi dell’Arte per corrompere e 

distruggere quel tanto di buono che ci serve a credere nella 

vita che dobbiamo vivere giorno per giorno. E si servono 

del gusto “raffinato”. Mettono su negozio? E tutti di corsa 

al negozio dei “raffinati”. “Non sapete niente? È uscito il 

romanzo del “raffinato”.  In quella strada,  c’è   la  sartoria 

del   “raffinato”;   in   quell’altra   c’è   il   parrucchiere 

“raffinato”. (II, p. 63).

A questo  punto  Elena,   inserendosi  nel  punto  di  vista  del  marito,   lo 

accusa di aver esitato invece di far valere la sua autorità.  Ma Alberto si 

difende: «un padre di oggi, di fronte alla strafottenza dei figli, o parla o è 

168 Anna BARSOTTI, Eduardo drammaturgo cit., p. 332.

215

muto, è ’a stessa cosa». E spiega al figlio il significato della paternità; ma 

non prima di aver licenziato la figlia:

  ALBERTO.   Per   te   no.   Per   te   non   ci   sono   argomenti   da 

smaltire.  (Indicando   Beppe)  Lui,   dopo   una   quindicina 

d’anni di galera, può rifarsi una vita; tu no! E se te ne vai 

mi fai piacere. (Rosaria, intimamente ferita, china il capo 

e lentamente si apparta. Intanto Alberto, dopo un silenzio  

che gli è servito a mettere un po’ d’ordine nelle sue idee  

confuse,   riprende   il   filo   del   suo   discorso   interrotto) 

Quando sposai tua madre… lei sta qua, lo può dire… ne 

parlavamo da  fidanzati...   [...]  Volevo dei   figli.  E   infatti 

venisti tu: il  maschio! Mi sentii un Dio. E pensai: “Nun 

moro cchiù”. Non vedevo più nessuno; non mi occupavo 

più di tante cose che mi erano sembrate indispensabili fino 

a   quel   momento.   Dicevo:   “Tengo   nu   figlio…   che   me 

mporta d’ ’o riesto!” Mi sentivo felice perché capivo che, 

finalmente,   potevo   riversare   su   me   stesso…  perché   un 

figlio è parte di te stesso… tutto l’affetto che mio padre e 

mia madre avevano riversato su di me, evidentemente con 

lo stesso sentimento mio. E faticavo, faticavo cu’ na forza 

e na capacità di resistenza che facevano meraviglia a me 

stesso.   “Nun   moro   cchiu”.   Cammenavo   p’   ’a   strada,   e 

parlando   solo   dicevo:   “Nun   moro   cchiu”.   Poi   venne   il 

periodo   delle  malattie;   sciocchezze,   si   capisce,  malattie 

che   tutti   i   bambini  devono  avere;  ma  ogni  volta  avevo 

l’impressione di tornare a casa e di non trovarti più. E vuoi 

sapere quali erano i pensieri che mi venivano in mente in 

quei momenti? Uno dei pensieri che più mi torturava era 

quello  che  mi  faceva credere  che  se   tu  morivi   la  colpa 

sarebbe   stata   mia.   Non   perché   ti   avevo   fatto   mancare 

qualche  cura  o  qualche  specialista;  ma perché  pensavo: 

216

“L’ho messo  io  al  mondo,   la  colpa è  mia!” Tu capisci, 

allora, che un padre, di fronte a un figlio, la responsabilità 

se la sente; per quello che deve fare, per come deve vivere 

quando   sarà   grande.  Che   Iddio  mi   fulmini   se   una   sola 

volta  pensai di  fare  qualche cosa per costringerti  a farti 

prendere la mia stessa strada,  e farti avere il  mio stesso 

avvenire. (II, pp. 65­66; corsivo nostro).

Sul finire dell’atto entrano due agenti di polizia, preceduti da un gruppo 

di   giornalisti   che   investono   la   stanza   del   flash   dei   fotografi.   Beppe 

raggiunge   gli   agenti   mentre   Elena   è   affranta   dal   dolore   e   Alberto   «si  

apparta in un angolo della stanza, coprendosi il volto con le mani» (I, did., 

p. 66).

All’inizio del terzo atto, un anno dopo lo scandalo che ha colpito gli 

Stigliano, fanno la loro comparsa i coniugi Cuoco, introducendo un sistema 

di valori “altro”. Laddove nel primo atto avevamo assistito allo rovina dei 

“giovani” (fra i quali, oltre ai figli, Corrado e Guidone, rientra Elena, la cui 

modernità emerge nella sua “indipendenza positiva”) e nel secondo atto al 

rinfacciato trionfo dei “vecchi” (classe che comprende l’autorità di Alberto 

ma   anche   quella   più   esasperata   di   Arturo)169,   ora   la   dicotomia   sembra 

spaccarsi, presentando un’autorità alternativa, “morbida”. 

È  quella  di Michele Cuoco,  venuto dalla campagna beneventana per 

assistere clandestinamente (era stato invitato a non venire) alle nozze del 

figlio con Rosaria: egli  già  anni prima si  trovò  ad affrontare quello che 

Alberto ha affrontato col figlio, ma mentre quest’ultimo ha spiegato la sua 

paternità con una visione “introspettiva” («perché un figlio è parte di te»), 

il padre di Corrado la spiegò al figlio da un’angolazione “proiettiva”. Dopo 

essere   scappato   con   una   cavallerizza   di   un   circo   equestre,   e   dopo   che 

169  Per la distinzione in categorie di personaggi o sistemi di valori cfr. Anna  BARSOTTI,  Eduardo 

drammaturgo cit., pp. 309­334.

217

Michele riuscì a riportarlo a casa «venne il periodo più tragico, quanno se 

vuleva suicida’!» 

MICHELE. [...] Don Albe’, ore intere parlavamo del suicidio, 

io e lui, come due pazzi. (Indicando sua moglie) E lei non 

sapeva niente.  (Ricostruendo una delle  tante discussioni  

avute col   figlio)  “Ma perché  vuoi morire?” “Ma perché 

devo   vivere?”,   rispondeva   lui.   “Come,   perché?   E   non 

consideri il dolore che ne riceverebbe tua madre, io?” “Va 

bene,  ma dopo un poco di   tempo vi  mettete  l’anima  in 

pace   tutti   e   due”.   “Vuoi   fare   un  viaggio?  Vuoi   andare 

all’estero per un poco di tempo?” “No, voglio murì’”. “Ma 

perché?” (Con un senso di dolore sofferto in quel tempo,  

che risente ancora dello smarrimento che  provocò in lui  

la   risposta   del   figlio)  Don   Albe’,   indovinate   che   mi 

rispose? “Allora mi devi dire che significa la vita e che 

significa la morte. Una di queste due spiegazioni mi potrà 

chiarire l’altra e allora io nun m’acciro cchiu!” Don Albe’, 

io che potevo rispondere? Stavamo fuori al terrazzo, sopra 

al   parapetto   camminava   una   formica…   (Prende   dal  

portafogli della tasca interna della giacca una bustina di 

carta   bianca)  Guardate,   don   Albe’.  […]  La   formica. 

Questa   forse  salvò   la  vita  di  mio figlio.  (Ripigliando  il  

tono del racconto interrotto) “Corra’, figlio mio, io songo 

nu pover’ommo, che ne pozzo sape’?… ’A vita, secondo 

me, significa tutto. E dicendo tutto, voglio dicere tutto! ’A 

morte  nun  significa  niente,  pecche   ’a  morte  nun esiste. 

Guarda sta furmica.” E con un fiammifero la stuzzicavo. 

[...] “Guarda, se mette paura e scappa pecche vo’ campa’. 

Certo,   ’a   furmicola   nun   fa   tanta   ragiunamente   che 

putimmo fa’ nuie; ma ’a vita ’a capisce, nun capisce ’a 

morte. ’A vita è na cosa ca se vede con gli occhi. E se nun 

218

teniamo gli  occhi,  pecche’ a   furmicola  nun ce  vede,   se 

tocca   cu’   ’e   mane.   Perciò   ’a   furmicola   vo’   campa’. 

Quando po’ sta furmicola finisce di vivere naturalmente, 

nun se  mette paura e  nun scappa.  E pecche? Pecche ’a 

morte nun esiste.  Se tu  ti uccidi,  sei   tu che rinunzi alla 

vita.  Allora  questo  che  significa?  Che   ’o Padreterno ha 

creato   la   vita,   e   noi   abbiamo   creato   la   morte”   “E   la 

speranza   nostra   qual   è?”   Allora   perdette   ’a   pazienza   e 

dicette: “Corra’, si tu nun capisce ch’ ’a speranza mia si 

tu, e che ’a speranza toia hann’ ’a essere ’e figlie tuoie, fa 

chello che vuo’  tu… Sparati,   scannati,  menate  ’a coppa 

abbascio… speranze pe’ te nun ce ne stanno”. (II, pp. 70­

71).

Il modo in cui Michele affronta la situazione è più calmo di quello di 

Alberto, più sereno, e soprattutto arriva a conclusioni diverse: «un figlio è 

parte di te stesso» aveva detto Alberto a Beppe; «’a speranza mia si tu, e 

[…] ’a speranza toia hann’ ’a essere ’e figlie tuoie», secondo Michele.

Da un dialogo fra Arturo ed Elena veniamo a sapere che Beppe, uscito 

indenne dal processo, adesso lavora alla radio; Alberto invece, da quella 

sera,   si   è   trasferito   definitivamente   a   casa   dell’altra   donna.   Quando   il 

fratello   gli   chiede:   «Albe’,   ma   non   pensi   di   tornare   qua   e   chiudere 

definitivamente la parentesi?» lui risponde netto «Oramai le strade sono 

tracciate.  Significa  che   così   doveva   andare».  Arturo,   invitato  da  Elena, 

decide di trasferirsi in casa di questa, per farsi reciprocamente compagnia. 

In  un   momento  di   gratitudine   il   suo   carattere   schivo   si   apre   lasciando 

intravedere   per   un   attimo   un’altra   storia,   quella   di   un   uomo   vittima 

dell’incomunicabilità:   «Albe’,   ho   sofferto!   E   zitto!   Sempre   zitto!   Ho 

sbagliato pure io. Mi sono chiuso in corpo tutto quello che, per la cattiveria 

degli altri, o per deficienza mia, non lo so… mi è successo nella vita». (III, 

219

p. 73)

All’improvviso arrivano Corrado e Rosaria, con un cappottino a coprire 

la camicia da notte. La figlia è stata “riportata” dal marito, che solo adesso 

si è reso conto di non riuscire a sopportare l’idea che gli altri, gli “amici”, 

ridessero alle sue spalle perché «finalmente il fesso era arrivato». Quando a 

casa lo ha confidato alla moglie lei, senza comprendere, si è messa a ridere 

e lui, ancora una volta, ha reagito con violenza. Ora non è più sicuro di 

voler  portare questo matrimonio fino in fondo.  Uscito di  scena,  Rosaria 

chiede   di   parlare  da   sola   con   il   padre.  A   questo  punto   il   meccanismo 

risolutore   non   risiede   nell’accettazione   da   parte   di   Corrado   di   una 

situazione,  ma   in  una   rivelazione  «un  po’  da   romanzo  d’appendice»170: 

Rosaria confessa al padre di non aver mai perduto la sua verginità, solo di 

averlo simulato per conformarsi all’ambiente delle amiche che altrimenti 

avrebbero   riso   di   lei.   Il   pretesto   drammaturgico   appare   debole   e 

inizialmente focalizzato sul padre. «Le ferite del suo cuore sono ancora  

troppo vive perché egli possa dare giusto valore al sentimento che anima 

sua figlia in quel momento».  Tuttavia la figlia lo aiuta a capire che non 

tutto può essere misurato con lo stesso metro, e che nella sua crescita il 

distacco dal padre era un passaggio obbligato:

 

ROSARIA.   Non   complicare   le   cose.   Non   pensare:   questa 

cosa   è   così,   mentre   invece   vuole   significare   questo   e 

quest’altro. Perché vuoi confondere momenti con momenti 

e fatti con fatti? […] Vedi, papà, se tu sapessi per quanto 

tempo ho cercato di risolvere da sola i problemi che mi 

riguardavano.  E quale,   secondo  te,  poteva  essere  quello 

che   più   mi   stava   a   cuore,   e   che   mi   dava   maggiore 

pensiero, se non di trovare marito? E tu che cosa avresti 

potuto fare, povero papà, per consigliarmi e facilitarmi il 

170 Anna BARSOTTI, Eduardo drammaturgo cit., p. 317.

220

compito? Che ne sai tu della nostra generazione? E credi 

che l’astuzia della tua esperienza poteva essere utile a me 

come lo fu a te all’epoca tua? Capii che dovevo fare tutto 

da me. E ti pare facile agire da soli senza urtare contro il 

modo di vedere e di sentire degli altri? Ecco perché cercai 

di essere libera, incontrollata. Sì, per non incontrare i tuoi 

occhi che mi rimproveravano ogni passo che facevo. (III, 

p. 77).

Poi   passa   al   racconto   di   una   storia   di   incomprensioni,   dove   lei   si 

fingeva   altro   per   incontrare   le   idee   del   fidanzato   («volevo   mettermi 

all’altezza delle sue teorie e del suo modo d’intendere la vita di una ragazza 

d’oggi   [...]  e  gli   raccontai   la  storia  di  un errore commesso…»),  mentre 

Corrado simulava soltanto queste idee, probabilmente perché non accettava 

che il suo pensiero fosse uguale a quello del padre. Infine la confessione 

della   sua   conservata  verginità.   Grazie   a   questa   avviene   in   Alberto   una 

mutazione: 

 

ALBERTO  (tace.   Il   racconto di  Rosaria  lo  ha annientato.  

Ora   guarda   la   figlia   con   infinita   tenerezza.   L’ultima  

affermazione di   lei   lo ha disorientato,   trova soltanto  la  

forza per dire e ripetere). Non capisco, non capisco! (Poi 

ci ripensa e afferma) No, invece capisco… Capisco tante 

cose. (III, p. 77).

La cameriera comunica che Corrado sta aspettando la moglie sotto casa, 

e Alberto,  riprendendosi quello spazio tradizionale di cui era stato privato, 

«offre   il   braccio  alla   figlia,  al   quale  Rosaria   si  aggrappa  con   infinito 

amore».  Quando   risale  la  moglie  gli   chiede   spiegazioni,   e   lui   racconta 

l’accaduto:

221

ALBERTO.   Io   stasera  non  mi   sento  veleno  nel   sangue.  È 

successa una cosa che mi ha messo dentro un’altra volta la 

fiducia che avevo prima.  [...]  Una cosa sublime! Poveri 

figli! Tu capisci in quale situazione si trovano i giovani di 

oggi… Se vulevano bene, e se mettevano scuorno ’e s’ ’o 

dicere. E noi, forse, con il nostro atteggiamento ostile, li 

abbiamo   disorientati   ancora   di   più.   Non   bisogna 

confondere   momenti   con   momenti   e   fatti   con   fatti.   La 

confusione c’è stata per loro e pure per noi. Ma questo non 

ci deve far credere che se n’è caduto ’o munno. Può cadere 

una  pietra,   due… ma   ’e  muntagne   so’  muntagne,   e   ’o 

munno è ’o munno. (III, p. 81).

Questo ritrovato ottimismo sembra spingere Alberto nuovamente verso 

la moglie.  Sarebbe il   trionfo della (vecchia)  famiglia.  Il finale di questa 

commedia   vede   la   soluzione   in   un   ritorno   all’Ancien   régime,   una 

restaurazione, piuttosto che un evoluzione: Beppe è andato a lavorare dove 

voleva   il   padre,   il   che   dimostra   che   la   sua   non   era   un’indipendenza 

sbagliata, ma che è sbagliata l’indipendenza; Rosaria non ha mai smesso di 

credere nei valori della famiglia quali erano quelli del padre, ha solo finto; 

Corrado non è riuscito nel suo intento di elevare la figura della donna, e 

addirittura il suo essere manesco viene giustificato come “riflusso” di una 

forzata trasgressione al padre; perfino Arturo viene “risucchiato” da questo 

vortice familiare che lo riporta nella casa del fratello. Gli altri,  fuori dal 

consorzio familiare,  sono visti  come “estranei”.  «Sempre un’estranea  è» 

dice Arturo della sua padrona di casa (III, p. 73); «È un’estranea, Albe’» 

(III, p.81) sostiene Elena a proposito della sua “rivale”.

L’ultimo tassello lo deve mettere a posto Alberto, che però si mostra 

incerto:   su   questo   indugio   («Mo   vedimmo...»;   III,   p.   81)   si   chiude   la 

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commedia,   lasciando   il   pubblico   senza   una   epilogo,   come   avveniva   in 

Napoli milionaria!: «ha da passa ’a nuttata»171.

171 Eduardo DE FILIPPO, Napoli milionaria! cit., p. 98.

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