I giardini sull'acqua

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Daniele Brunello, giallo storico

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Disponibile anche:

bre 2011)

e-book su CD in libreria: 9,99 euro

Libro: 15,50 euro (dal 16 diceme-book (download): 9,99 euro

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DANIELE BRUNELLO

I GIARDINI SULL’ACQUA

www.0111edizioni.com

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www.ilclubdeilettori.com

I giardini sull’acqua Copyright © 2011 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2011 Daniele Brunello ISBN: 978-88-6307-xxx-x

In copertina: Immagine fornita dall’Autore

Finito di stampare nel mese di Dicembre 2011 da Logo srl

Borgoricco - Padova

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Questo libro è dedicato a Tullio Ballarin, “Tullietto”

che inseguì il suo sogno alle Mesole tra le nuvole rosa dei fiori di pesco.

…o lidi di Altino, emuli delle ville di Baia

o selva memore del rogo di Fetonte

Marziale

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1 Antefatto

Un sogno ad Altino nel III° secolo. La nebbia, alitata dal mare, avanzava veloce sulla piatta superficie della laguna. Rotolando sulle barene camuffava i colori, inghiottiva i rumori, velava il pallido disco solare sino ad addormentarlo sotto una pesante coltre lattiginosa. Era come un’inaspettata eclissi calata improvvisamente sopra la proces-sione che avanzava lungo la strada lastricata. Anche l’imponente basili-ca, che sullo sfondo maestosa sorgeva dalle acque, tremolava incerta alla vista. Le lastre di pietra del selciato, che prima si allungavano come un istmo dorato sotto la luce del sole, ora perdevano definizione. Per un at-timo il vescovo che guidava il corteo sembrò affondare i piedi nel nulla. Poi nel suo volto apparve un’espressione sperduta, quindi il terrore! Nell’attimo in cui la spada trafisse il suo petto i suoi occhi si spalancaro-no e la bocca in una smorfia di dolore lanciò un urlo, ma anche questo soffocato dalla nebbia. Quando la lama venne estratta dal suo cuore spaccato un fiotto di sangue ne uscì, questa volta di un colore così vivido e intenso che sembrò tingere i vapori di nebbia come una schiuma vermi-glia. Allora, in quell’attimo, tutta la tragedia collassò in una nuova di-mensione forte e reale. I movimenti acquistarono azione repentina, i suoni nuove voci di orrore, dolore ma anche di odio eccitato dalla violenza. Sa-gome, prima indistinte, presero nuova forma di vittime e carnefici. Quan-do il corpo del vescovo cadde all’indietro, la mitria sembrò galleggiare per un momento nell’aria. Quando i suoi occhi fissarono la croce sull’elmo del soldato che lo stava uccidendo, le sue mani s’alzarono al cielo aprendosi e il reliquiario che tenevano saldo in un attimo volò altis-simo, compiendo una parabola prima di affondare nell’acqua. Prosdocimo, nel suo letto, in un bagno di sudore, mugolava sembrandogli di soffocare. Poi all’improvviso si destò dal sonno inquieto in cui era ca-duto e ansimando si sollevò a sedere con gli occhi spalancati nel buio, ma le immagini del suo incubo ancora non lo abbandonavano. Il corpo del ve-

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scovo giaceva a terra trafitto e calpestato, ma ciò che soprattutto lo faceva inorridire erano le croci che portavano i soldati suoi carnefici. Ne udiva il ghigno, il calpestio dei calzari che frantumavano le ossa, lo sferragliare delle armi e poi ancora le urla terrorizzate delle vittime. Con un balzo lasciò il suo cubicolo e uscì nel peristilio; lì l’aria fresca del-la notte finalmente scacciò il suo sogno e lo fece tornare in sé. Il candore del marmo delle colonne del porticato emergeva dal buio rischiarato solo dal tenue chiarore delle stelle. Rimase con la schiena appoggiata alla fred-da pietra come in ascolto di un nuovo tragico evento. Ma alcun rumore si udiva se non il leggero borbottio della fontana. Tutta la casa dove egli era ospite era sprofondata nel silenzio, gli uomini in un sonno profondo. Se-guendo il rumore raggiunse lo zampillo e portando le mani a coppa rac-colse l’acqua detergendosi il viso. Lo sapeva di aver mangiato troppo, tut-to quel maledetto garum aveva appesantito le pietanze, ma per non offen-dere il padrone di casa non aveva avuto il coraggio di rifiutare; era infatti un ricco commerciante di quel nauseabondo intruglio di cui i romani an-davano ghiotti. Ma era anche un cristiano da poco convertitosi alla nuova religione che egli andava predicando, e lo aveva così fraternamente accol-to nella sua dimora. Rimase a riflettere sul suo incubo. Le immagini erano così reali come mai gli era accaduto in un sogno, ma se si fosse trattato di una premonizione con chi mai avrebbe potuto confidarsi? Sicuramente con il suo vescovo, che lo aveva inviato in quei luoghi per predicare la nuova fede. Come a-vrebbe potuto fargli avere una lettera? E come avrebbe potuto continuare nella sua missione se i presagi del suo incubo un giorno si fossero avvera-ti? Come predicare l’amore per il prossimo, gli insegnamenti di Gesù, il Cristo, se un giorno una guerra fratricida avrebbe seminato morte tra gli stessi cristiani? Mentre i dubbi lo assillavano notò il chiarore di una lucer-na provenire dal vestibolo, rimaneva lì accesa tutta la notte; andò a pren-derla e la portò nella sua stanza. Aveva con se della pergamena e l’occorrente per scrivere; si sedette sullo sgabello e, appoggiato il rotolo sulle ginocchia, cominciò a descrivere il suo incubo e i suoi dubbi. Non sapeva se mai sarebbe riuscito a far recapitare quella lettera al suo vesco-vo, ma sfogarsi scrivendo gli faceva bene. Quando ebbe finito arrotolò la pergamena legandola con del filo e rimase a fissarla; era ora assolutamen-te convinto della verità della sua premonizione, ma altrettanto che non do-veva essere divulgata, non per ora per lo meno. Era un segreto che doveva essere sepolto lì, dove era stato generato. Mise il rotolo in un robusto co-fanetto di noce e lavorò il resto della notte per rimuovere una pietra dal pavimento e seppellirlo; rimise a posto la lastra. L’indomani all’ora prima

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sarebbe partito da Altino riprendendo la via Claudia Augusta Altinate. Un giorno sarebbe tornato a riprendere quella lettera, forse.

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2 Secolo XVII

in una notte di tempesta La pioggia aveva ricominciato a cadere con maggiore intensità. C’era sta-ta una breve pausa nel pomeriggio ma ora, sul calar della sera, il ritmo in-calzante con cui martoriava le foglie ingiallite dei salici, strappandole dai rami, non lasciava speranze di un miglioramento. Pioveva da giorni ormai, e sembrava che il sole avesse abbandonato per sempre quei luoghi. Gli a-nimi degli uomini si incupivano sempre di più e riaffioravano paure ance-strali. Un uomo avanzava al passo sulla sua cavalcatura; visibilmente pro-vato, l’animale sprofondava nel fango e ne sollevava gli zoccoli pesanti, carichi di mota. Procedeva con il collo basso, e il muso che sfiorava il ter-reno fradicio soffiava nuvole di vapore. Il cavaliere avvolto in un mantel-lo, i cui lembi pendevano pesantemente zuppi d’acqua, non era di natura superstizioso e non si faceva prendere facilmente dallo sconforto. Tuttavia le sue membra stanche altro non desideravano che di potersi stendere ad asciugare al tepore di un raggio di sole, o quantomeno al riverbero di un camino acceso; prospettiva, anche quest’ultima, assai improbabile. Da quasi due giorni infatti viaggiava scendendo lungo il corso della Piave e non aveva incontrato altro che un paio di capanne di frasche, probabil-mente ripari di qualche cacciatore. Del resto aveva scelto quel percorso proprio perché poco frequentato, e aveva fretta di allontanarsi il più velo-cemente possibile da Feltre, la sua città. Cercò di ripararsi dalla pioggia sempre più sferzante ritirando il capo sotto al cappuccio fino a non aver altra visuale se non quella del dorso crespo dell’animale; si lasciò così condurre assecondando il dolce dondolio della sua cavalcatura fino a ca-dere in un torpore insidioso. Non vide una buca profonda piena d’acqua e il cavallo, stremato e senza guida, mise uno zoccolo in fallo stramazzando improvvisamente a terra. Si sentì scivolare in avanti superando il collo dell’animale fino a ruzzolare nel fango mentre il nitrito di dolore dell’animale non lasciava speranze sulla sua sorte. Il cavaliere subito si sollevò, osservando pietosamente la povera bestia che si dibatteva nel fango, cercò di calmarla accarezzandola sul collo. Dopo un po’ giaceva

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tranquilla distesa su un fianco, il corpo fumante s’alzava e abbassava al respiro affannoso. Afferrò le briglie e cercò di far sollevare l’animale ma un nuovo nitrito di dolore lo fece desistere. Rimase così a lungo, incerto sul da farsi, ora accovacciato accanto al cavallo accarezzandolo con dol-cezza, ora aggirandosi intorno come se avesse perduto qualcosa. Prese quindi una decisione. Cercò nella bisaccia che portava con sé e ne estrasse un lungo coltello. Lo nascose dietro alla schiena, e inginocchiatosi vicino all’animale lo accarezzò nuovamente sul collo facendo scorrere la mano, premendo fino a sentire sotto le sue dita le vene gonfie. Un grande occhio vitreo lo osservava implorante e terrorizzato, fisso e spalancato nonostante gli aghi di pioggia che lo trafiggevano; lo coprì con il palmo della mano oscurandogli la vista. Sollevò il coltello e lo piantò nel collo dell’animale tirandolo dentro alla carne dal basso verso su. La lama, estremamente affi-lata, immediatamente si fece strada aprendo un orribile squarcio rosso purpureo, mentre fiotti di sangue bollente gli schizzavano sul viso acce-candolo. Continuò mettendo ancor più forza sul coltello, fino a raggiunge-re l’osso che scricchiolò con il rumore della pietra sull’acciaio. Fu un’azione determinata e fulminea che in un attimo si risolse nel suo epilo-go. Ma in quell’attimo l’animale ebbe una scossa che in un ultimo guizzo di vitalità lo portò a cercare di risollevarsi sorprendendo l’uomo e facen-dolo cadere di lato. Poi un soffio rauco ne annunciò la morte. È sempre tragico per un cavaliere mettere fine alla vita del proprio destriero, anche se l’unica soluzione per alleviarne le sofferenze. Spesso durante il sodali-zio viene da pensare a questa eventualità, ma doverlo fare in modo così cruento può trovare impreparato anche il più determinato degli uomini. La povera bestia giaceva immobile, la testa quasi completamente staccata dal collo; una schiuma vermiglia esplodeva in bolle dense mentre veniva a poco a poco diluita dalla pioggia purificatrice. L’uomo raccolse le sue cose e riprese il suo viaggio. Ora tutta la fatica che gravava sul suo cavallo ricadeva su di lui facendogli apprezzare ancor più il sacrificio con cui quegli animali servivano la sua razza. Era costretto a camminare lungo il margine più esterno del vasto letto del fiume, affon-dando nel fango, poiché il ghiaione al centro, normalmente asciutto, era sommerso dall’acqua della piena che cominciava a montare. Uscì dal sali-ceto che stava attraversando, sbucando in una vasta radura erbosa. Le zol-le d’erba, su cui cercava di appoggiare i piedi, sembravano isole insicure galleggianti su un velo d’acqua; a ogni passo vibravano elastiche resti-tuendo una sensazione di precarietà. Sembrava che tutta la crosta terrestre si stesse spaccando, restituendo al mondo la linfa primordiale che alber-gava al suo interno. Vide alla sua destra un argine, lo raggiunse trovando

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sulla sua sommità un percorso più agevole. Al di là del terrapieno, sul lato protetto dall’acqua, una nuvola di fumo aleggiava bassa senza riuscire a trovare la forza di spirare verso l’alto. S’accorse allora che usciva dal co-mignolo di una casupola parzialmente nascosta dai cespugli. Cominciava a imbrunire e decise perciò di avvicinarsi per chiedere aiuto. Si trattava di una costruzione di assi di legno, non più alta di un uomo di media statura. Il tetto, poco spiovente, sembrava tuttavia ben costruito, con tegole che appoggiavano su una fitta orditura di travetti. Due sole finestre, sbarrate da imposte di legno, si trovavano sul lato più lungo e al centro, tra di esse, una robusta porta, anch’essa chiusa. Bussò, ma nessuno venne ad aprire. Insistette e al contempo diede una voce: «Ehi, c’è nessuno in casa?» Rispose qualcuno, come da lontano: «Chi è là, cosa volete!» «Per favore, ho bisogno di aiuto. Sono in viaggio e il mio cavallo si è az-zoppato e ho dovuto ucciderlo.» «Mi dispiace, non possiamo aiutarti, non ho cavalli.» «Chiedo per favore, signore, sono fradicio e vorrei potermi asciugare un po’ al fuoco.» «Siete solo?» chiese la voce, ora più vicina, al di là della porta. «Sì, sono solo!» Si udì lo scorrere di un catenaccio e con uno strattone la porta si aprì. Ne uscì una folata calda e umida, densa dei vapori di una cucina povera e da essi emerse la sagoma ruvida di un contadino. Nessuno lo aveva mai chiamato signore ed era curioso di conoscere quel cavaliere che lo trattava con rispetto come un suo pari. Si scostò di lato e con modi rozzi fece en-trare il suo ospite. L’interno era buio, ancor più di fuori, rischiarato sola-mente dal riverbero del fuoco acceso nel camino, proprio di fronte. Un pa-iolo, nero come la pece, stava appeso a una catena, anch’essa annerita, che scendeva dalla cappa; vi bolliva del cibo che spandeva tutt’attorno l’inconfondibile aroma del mais, la nuova coltura che andava allora dif-fondendosi in quelle terre. A lato del camino una figura minuta di donna infagottata di scuro reggeva un bastone levigato, ritta come un soldato sull’attenti nella sua postazione. Rimescolava ogni tanto il pastone solle-vandone sbuffi di vapore odoroso che faceva venire l’acquolina in bocca. L’uomo non ricordava più da quanto non mangiava. Durante il suo viag-gio non ci aveva proprio mai pensato, essendo la sua mente presa da con-getture spinte da una paura incalzante; la sentiva alitargli sul collo, tanto da temere di voltarsi. Ora però tutta la sua spossatezza si concentrava in un languore che gli attanagliava lo stomaco con borbottii così rumorosi

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che chiunque fosse in quella stanza avrebbe potuto udirli; in quel momen-to non desiderava altro che cibo. Ma seppe controllarsi rivolgendosi al contadino: «Grazie di avermi fatto entrare!» Ottenne in risposta un grugnito e una seggiola posta vicino al fuoco. Ora la sua vista si stava abituando alla poca luce e poteva osservare i particola-ri del luogo e dei suoi abitanti. Un unico grande stanzone, con il pavimen-to in terra battuta, occupava tutta la pianta della casa; da un lato del cami-no, che la dominava al centro, un tavolo e alcune sedie; dall’altro una se-rie di giacigli, uno vicino all’altro, quasi a formare un unico letto. Da uno di questi due marmocchi rannicchiati in un angolo, dei quali non aveva notato fino ad allora la presenza, lo osservavano fissamente con occhi bril-lanti che emergevano dal buio; un altro ragazzo di circa quattordici anni stava seduto sul bordo con le braccia appoggiate sulle ginocchia e un’espressione distaccata, come se in quel momento fosse altrove. Una cassapanca e una madia completavano l’arredamento. «Come ti dicevo il mio cavallo è morto e mi trovo nell’impossibilità di proseguire il viaggio. Se tu avessi qualche animale, forse un somaro che ti aiuta nel lavoro dei campi, io potrei…» Il contadino continuava a guardarlo muto, si chiedeva dove volesse arriva-re quello strano personaggio piovuto in quella tetra giornata in cui uomini e animali dovrebbero stare nelle loro tane, e non certo viaggiare; forse era caduto dal cielo assieme a tutta quell’acqua. Non sembrava un nobile, ma doveva essere comunque benestante, a giudicare dagli abiti che indossava. Sicuramente uno di città, ma di quale città? Non glielo avrebbe chiesto. Era abituato a farsi gli affari suoi, l’esperienza gli aveva insegnato, nel corso degli anni, che meno si sapeva e meno domande si facevano, soprat-tutto agli stranieri, più tranquilli si poteva continuare a vivere; già abba-stanza erano i suoi problemi da non doversi preoccupare di quelli degli al-tri. «Non sono contadino» disse alla fine «sono pescatore!» Allo straniero si illuminarono gli occhi. «Allora possiederai una barca!» disse, lasciando la frase in sospeso. Il pescatore non rispose. Doveva riflettere. Piegò leggermente il capo grat-tandosi la nuca dai capelli radi. «Mia moglie e i miei figli si occupano di un pezzetto di terra subito di là dell’argine.» Si morse la lingua, aveva già detto troppo; coltivavano abusivamente un pezzetto di terra che erano riusciti a strappare alla boscaglia sulla grava

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del fiume, ma che esso regolarmente ogni due o tre stagioni si riprendeva, durante le piene. «Ma una barca ce l’hai?» riprese lo straniero. «E certo che ce l’ho!» sbottò il pescatore-contadino alzando la voce e sol-levandosi contemporaneamente in piedi «se devi scendere lungo il fiume ti potrei accompagnare io con la mia barca, ma non con questa piena! Il livello dell’acqua continua a crescere e se continua a piovere finirà che dovremmo andarcene anche noi da qui.» «Comprerò la tua barca!» Così dicendo lo straniero si alzò, prese dalla bisaccia un sacchetto di cuoio e posò alcune monete sul tavolo; ignorava quale tipo di imbarcazione pos-sedesse il pescatore, ma sicuramente esse rappresentavano più del doppio del suo valore. Fu un errore. Il pescatore-contadino-commerciante si avvi-cinò al tavolo con occhi pieni di cupidigia; ora capiva che lo straniero a-veva motivi molto importanti per viaggiare con un tempo come quello, forse fuggiva da qualcosa o qualcuno, forse era ricercato per qualche delit-to. Non gli importava, non gli sembrava pericoloso e non fece domande. Alla fine disse solo: «La barca mi serve per procurare il cibo alla mia famiglia. Vedi i tre ron-dinotti da sfamare? E la moglie? È ancora giovane e sana, lavora come una mula, ma mi sono impegnato con la sua famiglia a non farle mancare il cibo.» Alla fine la cifra fu raddoppiata. Concluso l’affare il pescatore diventò improvvisamente socievole ed e-spansivo. Fatti sparire i soldi in una tasca, accese una candela, ordinò alla moglie di rovesciare la polenta sulla tavola e invitò l’ospite a cenare con loro. Con un colpo la donna rovesciò il paiolo sul tavolo e l’impasto fu-mante si distribuì livellandosi sulle rozze assi di legno in un cerchio dora-to e fumante. Subito la vita attorno al tavolo si animò allegramente. «La mia famiglia cena con me anche quando ci sono ospiti» disse il pesca-tore che di ospiti in realtà ne aveva raramente; giusto qualche volta un compagno di battute di pesca che l’accompagnava quando, nella stagione giusta, si spingeva molto a valle, fin quasi alla foce per catturare le pregia-te spigole che in quel tempo risalivano il fiume dal mare, addentrandosi per un paio di chilometri nell’acqua salmastra, attirate da facili prede. Le sedie non erano sufficienti per tutti e i bambini più piccoli rimasero in piedi, ma forse era la strategia più giusta per loro avendo così la testa al livello del piano del tavolo: bastava che con le mani tirassero a loro la po-lenta, ed essa entrava direttamente nelle loro bocche spalancate.

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«Mi spiace, per oggi non c’è altro» disse il padrone di casa «da due giorni non è possibile andare a pesca e l’ultima tinca è finita nello stomaco di questi pulcini affamati proprio ieri sera. Però…» Lasciò la frase in sospeso e si alzò dal tavolo; frugò in un angolo buio e tornò trionfante con tre cose per il suo ospite: un cucchiaio di legno, un bicchiere di vetro opaco e un fiasco di vino. La cifra che aveva versato per l’acquisto della sua barca valeva pure un bicchiere di vino. Ne versò pri-ma allo straniero e poi ne mandò giù una lunga sorsata. Schioccando le labbra, e facendo un verso di approvazione, rimase in attesa di una con-ferma da parte del suo ospite, che non tardò ad arrivare. Il vino era vera-mente ottimo! «Lo facciamo noi, ma soltanto ogni due o tre stagioni, quando il fiume ci lascia le viti e so già che quest’anno verrà a prendersele, maledetto ubria-cone; l’anno prossimo si dovrà cominciare tutto da capo. Ma il terreno è buono, la vite cresce in fretta, basta tagliarla alla base e in poco tempo ec-co la pianta prosperare nuovamente dalle sue radici; e il granturco dà pan-nocchie gonfie e gialle, si nutre dell’argilla portata dal fiume e sfama le mie creature con questa polenta profumata. Guarda come la divorano i miei mocciosi, hanno denti per mordere anche il tavolo» disse ridendo. «Tra non molto insegnerò loro a pescare: diventeranno pescatori come il loro padre. Lui invece no» disse accennando al maggiore che mangiava in silenzio «lui ha paura del fiume, teme l’acqua, ha paura di affogare, lavora nel campo con la madre; non c’è niente di male in questo. Ma mio padre era pescatore e così mio nonno scomparso in un vortice d’acqua a più di sessant’anni dopo aver inutilmente combattuto con un mostro di fiume.» Il pescatore continuava a trangugiare vino ed era diventato estremamente loquace; a ogni sorsata si puliva la bocca con il braccio e puliva la bocca del fiasco con il palmo della mano. «Prendi ancora un bicchiere, senti come è buona questa polenta.» L’ospite continuava ad annuire, non poteva sprecare tempo e fiato, era troppo occupato a riempire lo stomaco. Preso dal raptus di quel rustico banchetto, solo ora si rendeva conto di quanto ne avesse bisogno. In breve tempo il cibo fu terminato; rimase solo il tavolo perfettamente pulito e lucido come fosse stato tirato a cera. Era ora di andare. «Se proprio vuoi scendere il fiume con questo tempo vieni, ti porto alla mia barca.» «Vorrai dire alla mia, visto che l’ho comprata.» «Già certo alla tua barca; l’ho tirata fin sopra l’argine per paura che la piena se la portasse via, ma con l’aiuto di mio figlio maggiore non impie-

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gheremo molto a rimetterla a mollo, tanto più che a quest’ora l’acqua avrà già riempito buona parte della grava.» Fuori la pioggia continuava, questa volta spinta da raffiche di vento sem-pre più impetuose. «Eccola, sotto quelle frasche, la vedi?» L’uomo non capiva se il pescatore lo stesse prendendo in giro o dicesse sul serio; come poteva vedere se fuori l’oscurità era completa? “Forse” pensò “andando a pesca di notte ha sviluppato la vista in un modo particolare, proprio come quella dei gatti o dei rapaci notturni.” Dopo un po’ riuscì a intravedere una sagoma scura, ma ormai ci era quasi finito addosso. “Non posso nemmeno controllare se è in buone condizioni” pensò tra sé “ma lo sarà di sicuro, visto che durante la pesca le affida la propria vi-ta…” cercò di rassicurarsi “…e ora dovrò affidarle la mia!” Ebbe un attimo di apprensione. «È una barca solida e ben costruita; non ti poteva capitare di meglio. Io gli affido la mia vita, durante la pesca» sembrava leggergli nel pensiero «cer-to con un’acqua come questa io non la userei mai. Senti la chiglia, fatta per prendere le onde. Non è una barca da fiume. L’ha costruita un mio a-mico di Giesolo e potrebbe uscire anche in mare, e poi è stata tutta impe-golata la primavera scorsa.» L’uomo fece scorrere la mano sulla chiglia dello scafo rovesciato. Le sue dita e il suo tatto vedevano come quelli di un cieco e confermavano le immagini che l’altro descriveva. O forse, come un disonesto mercante, stava soltanto decantando la merce scadente appena venduta al comprato-re sprovveduto. «Ora io la prendo davanti e faccio strada, tu e il mio ragazzo da poppa; al mio “issa” solleviamo e l’appoggiamo sulle spalle. Issa!» Issarono. Dopo un attimo una voce: «Non si può! Ohé, fermo, il tuo ragazzo è troppo basso!» «Allora non ci resta che procedere sorreggendola con le mani.» Avanzarono così, guidati dalla vista da barbagianni del pescatore. Dap-prima all’uomo la barca non sembrò molto pesante, ma dopo qualche de-cina di metri credette alla tanto decantata robustezza del legno. Il respiro si faceva affannoso, i piedi affondavano nel fango o inciampavano in radi-ci; fecero ben tre soste e impiegarono più di mezz’ora per giungere al cor-so principale del fiume. «Ci siamo!» urlò la voce del pescatore per sovrastare il frastuono dell’acqua.

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Il fiume si era ulteriormente ingrossato. Non si poteva vedere ma lo si in-tuiva dal rombo assordante. Se solo l’uomo avesse posseduto pure lui la vista di un barbagianni, avrebbe assistito a uno spettacolo di una bellezza emozionante come solo la natura nelle situazioni più estreme può offrire. Era come una mandria di stalloni selvaggi che scendevano al galoppo dal-le cime dei monti giù fino a valle; inarcavano le reni sgroppando e schiz-zando spruzzi, le creste delle onde erano criniere che vibravano come bandiere tese nel vento e gli zoccoli tuonavano come il rombo di mille temporali. Se solo l’uomo avesse avuto la vista di un gatto, avrebbe visto la massa marrone dell’acqua scendere vorticosamente, strappando qualun-que cosa incontrasse nel suo percorso e gonfiarsi talmente al centro del fiume da sollevarsi altissima sopra le teste oltre ogni possibile legge fisica, come dovesse all’improvviso straripare abbattendosi, con una gigantesca ondata, sulle sue sponde. Invece continuava la sua corsa infernale, deter-minata verso la sua meta. Se solo l’uomo avesse visto, il terrore lo avreb-be assalito e avrebbe ucciso la sua determinazione. «Caliamo!» ordinò il pescatore. «Bene, io credo che tu debba essere pazzo ma se proprio hai deciso di an-dare accetta qualche consiglio. Non lasciarti trasportare dalla corrente, per quanto avrai la sensazione di sentirti trascinare via, tu rema! Rema e anco-ra rema, con forza; cerca di mantenere la calma e i movimenti il più pos-sibile coordinati. Solo così riuscirai a mantenere la direzione e il controllo della barca. Rimani al centro del fiume, eviterai così i tronchi che possono essere rimasti impigliati tra i rami delle sponde. E poi… ma sai remare?» L’uomo non gli diede risposta. «Bene, allora tu sali e noi ti spingiamo in acqua. E buona fortuna!» «Un ultima cosa» disse allora l’uomo «il cavallo!» Diede loro una spiegazione approssimativa su dove dovesse trovarsi la carcassa dell’animale; sarebbe stato un peccato che tanta buona carne an-dasse sprecata. «Andremo subito a cercarlo, prima che qualche bestiaccia se lo mangi o peggio se lo prenda il fiume. Grazie.» «Grazie a voi!» rispose l’uomo. La barca venne spinta nell’acqua e in un attimo la corrente se la portò via. Il pescatore avrebbe voluto chiedergli se almeno sapeva nuotare, ma tanto che importava ormai. «Vieni ragazzo» disse mettendo il braccio sulla spalla del figlio «andiamo a casa a prendere i coltelli; domani si mangerà carne arrostita!»

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Trovarsi immersi nel buio più assoluto, su di un guscio di legno traballan-te che gira vorticosamente preso dai gorghi di un fiume in piena, è una sensazione che in un attimo può far precipitare nell’assoluto terrore anche una persona che abbia nervi saldi. La paura attanagliò immediatamente l’uomo impedendogli qualsiasi movimento; da seduto si trovò a scivolare lentamente sul fondo della barca fino a essere completamente disteso sul dorso, salvo il capo che rigidamente teneva sollevato. Gli occhi sbarrati cercavano qualche punto di riferimento, ma solo la cresta bianca delle on-de più vicine appariva oltre la fiancata dello scafo. Spruzzi d’acqua gelata si riversavano sul suo viso e ogni volta aveva la sensazione di affogare; riemergeva con una scossa di tutto il corpo e spalancando di colpo la boc-ca che serrava a denti stretti: una boccata di aria fresca allora tornava a gonfiargli i polmoni. Si rese finalmente conto della pazzia che stava fa-cendo e proprio in quel momento la barca ebbe un violento sussulto ac-compagnato da un colpo sordo che fece scricchiolare la chiglia. L’imbarcazione s’inclinò pericolosamente da un lato e l’acqua cominciò ad allagarla affluendo dal bordo della fiancata. L’uomo istintivamente cercò di aggrapparsi a qualcosa e le sue mani incontrarono l’impugnatura liscia e affusolata dei remi che stavano distesi ai lati del suo corpo, sul fondo della barca. Fu allora che riuscì a reagire al terrore che lo immobi-lizzava; si ricordò le raccomandazioni del pescatore, cui al momento, as-sordato dal frastuono, aveva prestato poca attenzione. Cercò di sollevarsi in piedi equilibrandosi con le gambe divaricate e con un remo riuscì a di-sincagliarsi dal tronco. Poi, infilatili negli scalmi, cominciò a remare con forza, rimanendo ritto in piedi come un nocchiero pronto a sfidare la tem-pesta. Ora la barca volava veloce sulle onde. Portata dalla corrente ma di-retta dalle poderose remate, aveva smesso di ruotare su se stessa prenden-do decisa la dritta direzione verso valle. Il vento e la pioggia sferzavano l’uomo sul viso, ma ora erano un refrigerio al suo corpo teso nello sforzo; a poco a poco egli ritrovava la sicurezza in se stesso e da quell’impegno nella sfida un nuovo piacere gratificante. A mano a mano che procedeva anche la corrente sembrava rallentare, la barca scivolava ancora veloce ma senza più gli scossoni e i beccheggi im-provvisi causati dai gorghi e dalle onde. L’andatura più dolce lo indusse a ridurre la forza sui remi; era in un bagno di sudore. Si rese conto allora che il caldo che sentiva non era dovuto solamente allo sforzo fisico: anche l’aria era diventata più calda e il vento calato. La notte sembrava più chia-ra eppure né luna né stelle brillavano nel cielo ancora coperto. La pioggia continuava a cadere ma, all’orizzonte, uno strano barlume evanescente la-sciava individuare i contorni minacciosi di un gigantesco mostro nebulo-

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so. Forse era lui a essersi abituato al buio, proprio come il pescatore che vedeva nella notte; scorgeva ora, anche se in modo indistinto, le due sponde che scorrevano ai suoi lati. Dopo aver superato un’ansa un vento caldo lo investì all’improvviso mentre lontano riecheggiava un rombo di tuono continuo, e più procedeva più aumentava di intensità e più forte e caldo diveniva il vento. Sembrava il fragore di una cascata ma non poteva essere, poiché già la casa del pescatore si trovava in pianura. Sollevò i re-mi dall’acqua e rimase attentamente in ascolto, lasciandosi trasportare dal-la corrente ora molto più lenta, come sospeso in una improvvisa tranquilli-tà, una quiete innaturale che però non poteva che precedere lo scoppio di una nuova tempesta. E infatti il rumore cupo si trasformò velocemente in un clangore assordante e nel riverbero fosforescente dell’orizzonte vide l’onda gigantesca che avanzava. Solo allora capì di trovarsi nel punto in cui due forze immani stavano per scontrarsi. Avrebbe voluto cambiare di-rezione e raggiungere la sponda, ma ormai era troppo tardi. L’acqua tutt’attorno cominciò a ribollire e nell’attimo in cui i due titani, il fiume e il mare, si scontrarono, poté offrire solo l’urlo del suo terrore soffocato dal bollente vento di scirocco che s’insinuò, bruciando, nei suoi polmoni men-tre l’onda lo travolgeva. Nell’impatto perse l’equilibrio e ruzzolò sul fon-do della barca. Sentì in bocca il sapore amaro dell’acqua di mare ma riuscì a trattenere fermi i remi nelle mani e inginocchiato riprese a remare. Ca-valloni giganteschi lo investivano uno dopo l’altro ma lui li affrontava di prua salendo sulla cresta dell’onda, dove il vento soffiava impetuoso come sulla cima di una montagna, e precipitando al di là nell’abisso, dove anche l’aria sembrava venire inghiottita dalle profondità del mare e pareva di soffocare. Ogni volta che un’onda si abbatteva su di lui sembrava volesse strappargli i remi dalle mani con colpi poderosi e trascinarlo giù sotto un muro plumbeo, fino a seppellirlo; ma ogni volta egli riemergeva, ancora e ancora fino a che venne sopraffatto dalla stanchezza e dal dolore. Le sue mani si erano riempite di vesciche che esplodevano una dopo l’altra la-sciando la carne viva al contatto ruvido del legno; l’acqua di mare brucia-va le piaghe e le sue braccia sembravano spezzarsi. Abbandonò la presa sui remi che vennero spazzati via e s’accasciò sfinito. Completamente in balia delle onde imbarcava acqua rischiando a ogni momento di affondare; trovò una sessola incastrata sotto al sedile di poppa e cominciò a togliere acqua dal fondo ma era una impari lotta e ben presto rinunciò. Era stato trasportato al largo dalle correnti e si sentì perduto, svuotato di ogni ener-gia. Poteva solo abbandonarsi al suo destino. Venne preso da un torpore che lentamente lo rapì facendogli perdere i sensi.

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Uno spruzzo d’acqua sul viso lo destò. Era ancora vivo! Destinato a sof-frire ancora e a combattere ancora. Si sollevò rimanendo inginocchiato, l’acqua gli arrivava quasi a metà coscia. Nella fosforescenza del mare riu-scì a scorgere davanti a sé la schiuma bianca di onde che si frangevano sulla riva; cercò, aggrappandosi per non cadere, di sollevarsi il più possi-bile per vedere meglio: si trattava proprio di una spiaggia e si stava avvi-cinando velocemente. Dopo essere stato portato al largo dalle correnti, ora il forte vento di scirocco lo stava spingendo verso terra. C’era ancora una speranza ma avrebbe dovuto superare un’ultima prova; la barriera dei ma-rosi che si abbattevano come mazzate ciclopiche sul litorale avrebbe potu-to distruggere il suo piccolo legno o quantomeno rovesciarlo. Sperò che non ci fossero scogli, in tal caso sarebbe stato perduto. La barca fu presa dalle bianche dita di schiuma di un’onda che gli fece fare un balzo in a-vanti; volò velocemente sulla cresta, poi la risacca la frenò respingendola e così fu per molte volte in un gioco stressante che la avvicinava e la al-lontanava dalla riva. Ogni volta faceva dei piccoli progressi verso la sua meta ma erano troppo poco, e in quella giostra infernale la sua barca non avrebbe resistito ancora per molto. Se solo avesse avuto ancora i remi! Oppure una vela; con quel forte vento che soffiava verso terra sarebbe sta-to un attimo raggiungerla. Gli balenò allora un’idea audace, di quelle in-tuizioni che l’uomo d’azione deve immediatamente praticare, perché se solo un attimo ci pensasse esse verrebbero immediatamente fagocitate dal-la paura. Si sollevò in piedi puntellandosi meglio che poteva allargando le gambe, aprì le braccia e offrì il suo corpo traballante alla spinta del vento, come una vela umana o un cristo. Funzionò! Rapidamente si stava avvici-nando verso quella che ormai gli appariva come una liscia spiaggia di sabbia quando una raffica di vento più forte gli fece perdere l’equilibrio: cadde e batté la testa perdendo i sensi. Il suo corpo galleggiava supino sull’acqua che ormai riempiva per buona parte il fondo della barca. Essa procedeva lentamente, quasi completa-mente affondata, lungo uno stretto e tortuoso canale che dalla riva del ma-re portava verso tranquille e basse acque interne: una laguna riparata dove la furia del vento veniva attenuata dalle fronde dei tamerici, un rifugio si-curo per animali e uomini.

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3 Risveglio

Barbagli di sole vibravano sulla superficie leggermente increspata dell’acqua come merletto dorato sull’azzurro specchio del cielo. Quel mattino l’alba era sorta con l’intenzione vigorosa di un sole deciso a porre rimedio all’incubo tenebroso dei giorni precedenti. Lo scirocco che sof-fiava da tre giorni era cessato e ora una leggera brezza di levante s’affrettava a sgombrare il cielo dagli ultimi spumoni di nuvole, straccian-dole in sottili filamenti sempre più minuti. Era novembre, ma sembrava una di quelle fredde e terse mattine di marzo. L’uomo aprì gli occhi solle-ticato dall’astro luminoso che gli splendeva dinanzi e subito, accecato, li richiuse. Rimase a godersi quelle tiepide dita gentili sul suo volto. Galleg-giava ancora sull’acqua che riempiva la sua barca semisommersa; non av-vertiva freddo, semplicemente non sentiva il suo corpo. Aprì gli occhi a fessura e vide la propria sagoma scura allungarsi davanti a sé, affondata nell’acqua, solo le punte dei piedi emergevano; avevano qualcosa di co-mico. Secondo lui tutte le punte ritte dei piedi dei cadaveri avevano qual-cosa di comico, come volessero, con il loro svettare sopra l’appiattimento della morte, decretare la propria indipendenza. Provò a muoverle ma non ci riuscì. Sembrava che quel corpo non gli appartenesse più, che tutto se stesso fosse ridotto solo all’aureola del viso che emergeva dall’acqua. Ve-dere il suo corpo fluttuare lontano senza più rispondere né a stimoli né a comandi gli fece pensare di essere morto. Sollevò allora la testa tendendo i muscoli del collo ma un dolore lancinante, atroce, lo fece ricadere indie-tro soffocando il gemito di dolore nell’acqua in cui sprofondò. Ora il sole ondeggiava al di là del velo d’acqua e le bolle d’aria che uscivano dalla sua bocca esplodevano davanti ai suoi occhi sbarrati. Poi cessarono. Ebbe uno spasmo violento che inarcò il suo corpo in un guizzo di vitalità facendolo emergere come lo splendido pescespada. Sedette ansimante sul bordo della barca, arenata sul basso fondale nei pressi di un argine. Ora lo sentiva quel corpo, dolorante come non mai e intirizzito dall’aria gelida. Respirava a fatica, l’aria bruciava quando entrava nei suoi polmoni ma era felice. Cominciò a rabbrividire e a battere i denti, doveva assolutamente togliersi quei vestiti bagnati e asciugarsi. Cercò la sua bisaccia, la vide a

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prua, la raccolse grondante d’acqua e frugò al suo interno; l’acqua era pe-netrata anche lì, ma dal fondo, avvolta da altri indumenti zuppi, ne trasse una camicia umida, in parte bagnata, ma era il meglio di cui potesse di-sporre in quel momento. Si portò all’asciutto sul sedile di poppa e si de-nudò completamente. La sua pelle si accapponò accarezzata dalla leggera brezza di bora, i suoi capezzoli si rizzarono turgidi e il sole colorò di un leggero rossore la plasticità dei suoi muscoli. In breve si ritrovò comple-tamente asciutto ma indugiò ancora nella sua nudità, poiché quel contatto aspro con gli elementi della natura gli procurava una sensualità inusitata. Si guardò allora attorno esplorando quel luogo nuovo e insolito, cercando di capire dove si trovasse. L’ultimo ricordo, prima di perdere i sensi, lo vedeva prossimo ad arenarsi su di una spiaggia battuta da una mareggiata; ora si trovava all’interno di uno specchio d’acqua calmo, simile a un lago, circondato da basse isole ricoperte di una prateria a tratti fiorita di viola pallido e intersecate da stretti e tortuosi canali così azzurri da confondersi all’orizzonte col turchino del cielo da cui sembravano nascere. Sicuramen-te attraverso uno di questi egli era giunto fin lì, guidato da una mano pos-sente e invisibile che lo aveva portato in salvo. Nel cielo si libravano uc-celli tra i quali riconobbe i gabbiani, ma altri, candidi e giganteschi, gli e-rano sconosciuti: passeggiavano con l’eleganza delle lunghe zampe che emergevano dall’acqua bassa e catturavano piccoli pesci argentei col bec-co lunghissimo. Un leggero battere d’ali attirò la sua attenzione; volse lo sguardo e vide appoggiato sulla prua della sua barca un uccello dall’elegantissima livrea bianca e nera; le lunghe zampe sembravano fa-sciate da calze rosse, le ripiegò, come i bastoncini di un compasso, sotto al suo corpo e rimase tranquillamente accovacciato. Alle sue spalle, vicinis-simo, un basso ma ripido argine ricoperto di erba verde, che frusciava alle folate di vento, limitava la sua vista; immaginò che esso fosse il confine naturale di quel piccolo paradiso. Tutto il suo essere era perfettamente amalgamato in quello scenario primordiale, e mentre si chiedeva se in qualche modo aveva varcato i confini del tempo, precipitando alle origini dell’uomo, notò poco lontano una figura umana. Camminava nell’acqua bassa costeggiando l’argine, ogni tanto si chinava affondando le braccia nell’acqua e tirava fuori qualcosa che infilava in un sacco portato a tracol-la. Dunque in quel luogo vivevano altri uomini. Cominciò nuovamente a rabbrividire e decise di indossare la camicia asciutta. Si fece schermo con le mani del riverbero e osservò meglio quella figura che si avvicinava sempre più a lui; sembrava un ragazzo ma ancora non si era accorto della sua presenza. «Salve!» urlò quando fu abbastanza vicino.

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Il ragazzo sollevò per un momento lo sguardo verso di lui senza risponde-re, poi ritornò alla sua occupazione: affondava entrambe le braccia nel fango alla base dell’argine, appena sotto il pelo dell’acqua, in una specie di azione a tenaglia e ne traeva dei piccoli pesci, tozzi e color del fango; lo stesso colore che ricopriva le sue braccia fino al gomito e le gambe fino al ginocchio. Anche il viso era striato di fango e i capelli crespi avevano il colore giallo della pancia degli stessi piccoli pesci. «Che cosa peschi?» «Go!» rispose il ragazzo con una voce stranamente sottile. «Go?» ripeté l’uomo sottovoce «e sono buoni?» «Buoni per la zuppa e buoni fritti.» «Tu abiti qui vicino?» «Sì, vicino.» «Io sono Paolo!» Il ragazzo lo osservò annuendo poi riprese la pesca. «E tu come ti chiami?» «Maria!» «Maria…» L’uomo ripeté a fior di labbra mettendo finalmente a fuoco l’identità di quella figura in abiti da ragazzo. Portava pantaloni corti al ginocchio; troppo attillati, si modellavano attorno ai suoi glutei. La camicia, ampia, si rigonfiava leggermente sul petto e ora, mentre la ragazza si chinava nuo-vamente nell’atto della pesca, poteva scorgere dalla scollatura l’attaccatura di due piccoli seni. Improvvisamente si sentì a disagio e ve-locemente cercò d’indossare i pantaloni ancora bagnati che aveva steso ad asciugare. Fu un’azione maldestra; barcollò, inciampò e con un tonfo finì nell’acqua a gambe all’aria, esibendo ancor più ciò che cercava di nascon-dere. Una risata fragorosa accompagnò il suo imbarazzo mentre cercava di risollevarsi. «Aspetta che ti aiuto» disse la ragazza avvicinandosi senza il minimo di-sagio. «No, grazie, faccio da solo.» Ma ella gli allungò la mano continuando a guardarlo sorridendo e senza il minimo turbamento; non era un atteggiamento sfrontato, quello di lei, ma assolutamente schietto. Accettò l’offerta di quella mano infangata e dalle unghie orlate di nero e appena in piedi un tremore incontrollabile comin-ciò a scuoterlo. «Mi sembri in cattive condizioni» disse ella «non certo in quelle ideali per un bagno fuori stagione; ma da dove vieni e come mai la tua barca è quasi affondata?»

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«Sono arrivato con la tempesta di questa notte.» «Arrivato da dove?» La risposta fu solamente una serie interminabile di starnuti. «Sei messo veramente male.» «Vorrei solamente un posto all’asciutto: non ne posso proprio più di stare nell’acqua.» «Vieni, ti accompagno a casa da mio padre.» Si arrampicarono sulla cima dell’argine; c’era acqua anche dall’altra parte, un altro grande lago salato dove luccichii e piccoli tonfi confermavano l’abbondante presenza di pesci. Proseguirono in fila lungo quel sentiero che disegnava un ampia curva sull’acqua, delimitando le due valli, in di-rezione di una casa di mattoni rossi che si scorgeva in lontananza; la ra-gazza faceva strada e lui da dietro sentiva il forte odore che emanava: era odore salmastro, di vento, di fango, di pesce. Era un odore che gli faceva venir fame. In effetti avrebbe avuto voglia di morderla. La casa era molto ampia, costruita su due piani; su di un lato una grande nicchia custodiva un focolare su cui crepitava un fuoco dal calore invitan-te: mai come in quel momento ne aveva sentito il desiderio. Si sentiva come una spugna zuppa che aveva assorbito tutta l’acqua di cui era capa-ce. Lo accolse una vecchia che in un primo momento stava per rimprove-rare la giovane per aver introdotto quell’ospite sconosciuto ma poi, ve-dendo lo stato in cui questi si trovava, lo fece accomodare su di una panca che, nel semicerchio della nicchia, circondava la cappa. «Ti dovrai togliere questi abiti bagnati, se non vuoi prenderti una malora, sempre che tu non ce l’abbia già» disse la vecchia «vado a prenderti qual-cosa di asciutto da indossare.» E così dicendo scomparve salendo la scala di legno che portava al piano di sopra. «Quella è mia nonna!» disse la ragazza, pensando di soddisfare una curio-sità che in realtà l’uomo non aveva. Dal piano di sopra si sentiva la vecchia ciabattare, andava su e giù facendo scricchiolare le tavole di legno del solaio, poi si udì il tonfo di una cassa-panca che si chiudeva e infine la vecchia scese con degli abiti per l’ospite. «Tieni, spogliati, asciugati al fuoco e poi indossa questi!» era il tono di un ordine, più che di un invito «io intanto andrò fuori a prendere dell’altra legna e questo vale anche per te, tosa! Fuori!» La ragazza si lasciò sfuggire una risatina in sordina e seguì la nonna, vol-tandosi maliziosamente prima di chiudere la porta. Al loro rientro l’uomo aveva indossato i caldi vestiti asciutti e se ne stava rannicchiato e tremante

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in un angolo; la vecchia gli diede un’occhiata stringendo le labbra e scuo-tendo la testa, poi prese una scodella e, pescando da un paiolo fumante appeso alla catena, vi versò un paio di mestoli di zuppa. «Tieni, questa ti tirerà su» disse. L’uomo la prese con entrambe le mani, scottava ma ciò gli dava piacere; avvicinò il volto e ne aspirò voluttuosamente il profumo: aveva la fra-granza dell’alloro ed era estremamente appetitoso. Vi immerse il cucchia-io di legno e, rovistando, lo trasse colmo di brodo e di pezzetti sfilacciati di pesce bianco. Mangiò avidamente: era buonissima! In vita sua non ave-va mai mangiato qualcosa di simile; a ogni cucchiaiata sentiva di ripren-dere le forze e alla fine, senza neppure ringraziare semplicemente disse: «Ancora!» La vecchia con soddisfazione gli versò altri due mestoli, scegliendo le par-ti migliori, poi entrambe le donne rimasero affiancate a osservare tutto quell’appetito. Era una cosa un po’ inusuale per loro; si mangiava di gu-sto, nella loro famiglia, e non andava sprecato niente. Avevano la fortuna di abitare in un luogo dove la natura offriva una grande varietà di cibo: c’erano le verdure degli orti, la selvaggina della caccia, e i pesci delle val-li. Ma ciò che si presentava davanti a loro in quel momento era proprio la fame. «Quella la cucina mia nonna, con questi!» Così dicendo la ragazza rovesciò il contenuto del sacco, che ancora teneva a tracolla, in un catino di terracotta posto sul tavolo di cucina. Ne uscì un piccolo trambusto di pesci scuri non ancora rassegnati alla loro sorte. «Comincia a pulirli» ordinò la nonna «che tra poco arriverà tuo padre!» Si sentì proprio allora lo sbattere pesante di stivali sui gradini d’ingresso e l’uscio si aprì; una sagoma un po’ tozza oscurò il vano proiettando una corta ombra sul pavimento di pietra. L’ombra avanzò un poco poi si fer-mò, girò prima a destra poi a sinistra, quindi puntò dritta nella direzione di quel fagotto raggomitolato sulla panca. Si chinò su di lui e proruppe in una voce profonda ma gioviale: «Chi è costui?» «Lo ha accompagnato qui Maria, sembra che la sua barca sia affondata nella valle. Era zuppo e piuttosto malconcio perciò gli ho dato dei vestiti asciutti.» «Vedo, ma chi sei? Non ti ho mai visto da queste parti.» «Vengo da lontano e a dire il vero non riesco a capire né dove mi trovo né come ci sia finito.» All’uomo venne un accesso di tosse irrefrenabile che lo fece diventare pa-onazzo; respirava a fatica e l’aria che inspirava grattava nella sua gola con

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un leggero fruscio. Il padrone di casa versò del vino in un bicchiere e glie-lo porse. Il vino diede temporaneo sollievo alla sua gola e aveva un sapore insolito, era leggermente salato, sembrava quasi che fosse stato mescolato con dell’acqua di mare. Poi pensò che probabilmente, se era il prodotto di viti che crescevano in un luogo completamente circondato da acque salate, era inevitabile che anche il sapore ne risentisse. «Ti trovi a casa mia, Piero Ballarin, detto “Burcio”, fittavolo del nobiluo-mo veneziano Angelo Correr!» L’ospite lo fissava attonito, sembrava non capire. «Sei nelle valli delle Mesole, parrocchia di Torcello!» aggiunse allora, convinto di aver dato l’indicazione più esauriente possibile. Sì, era chiaro, attraverso qualche canale che metteva la laguna in comuni-cazione con il mare era giunto fino a là. Ricordava vagamente la mappa del Pinadello Giovanni, che aveva avuto modo di visionare quando era studente a Padova, e c’era questa possibilità. Ora però la sua lucidità co-minciava a venir meno, sentiva la febbre assalirlo e una terribile spossa-tezza abbatterlo. Se ne rese conto la vecchia nonna: «Questo giovane brucia di febbre! Sarà meglio portarlo di sopra e farlo riposare!»

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4 Il passato riaffiora

La stanza al piano di sopra in cui venne ricoverato era in realtà un fienile. Decise così la vecchia. «Qui starà più caldo!» disse, seppellendolo letteralmente sotto una monta-gna di strame. Quel luogo aveva le pareti esposte a Sud e a Ovest, così da godere della luce migliore e di tutto il calore che poteva donare il sole; attraverso le fe-ritoie i raggi penetravano all’interno della stanza con lame di sottile pulvi-scolo dorato e incendiavano il fieno con chiazze gialle e brillanti. Lenta-mente, col passar delle ore, ruotavano e l’inclinazione diminuiva mentre il sole volgeva a ponente. L’uomo, aggredito dalla febbre, tremava battendo i denti e quando l’immagine dell’astro infuocato gli apparve attraverso l’intrico di fili che schermava la sua vista, scivolò lentamente in un sonno delirante dove affioravano immagini del suo passato. «No, mio caro amico, entrambi concordiamo ormai che la cosmologia scolastica medievale sia retaggio del passato che deve essere riesaminata dai teologi, ma l’infinitismo di Giordano Bruno è teoria talmente radicale da abbattere pure l’antropocentrismo copernicano. Lo capisci cosa signifi-ca questo, vero?» «Certamente! Significa abbandonare l’idea dell’uomo come figura princi-pale del creato e fine ultimo dell’opera di Dio!» «Esatto Paolo! In un universo infinito di mondi quante genesi dovrebbero coesistere? Quanti Adamo e in definitiva quanti Gesù Cristo? Sarebbe la negazione dei principi della cristianità.» «Sarebbe in realtà per l’uomo prendere coscienza del proprio destino all’interno dell’universo e lottare per diventarne protagonista. L’eliocentrismo di Giordano Bruno si evolve ulteriormente rispetto a Co-pernico ma anziché seguire la via scientifica di quest’ultimo, pur condi-zionata da considerazioni filosofiche, viene corrotta da una visione perver-tita della religiosità. L’uomo deve andare oltre tutto questo: superato Ari-stotele e Giordano Bruno deve guardare alla scienza come l’unica via ca-pace di dargli dignità.»

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«Tu ti riferisci a Galilei!» «Mi riferisco all’arroganza dei teologi che attraverso dogmi vogliono avo-carsi il diritto sulla scienza di fautori della verità assoluta.» «L’intenzione di Galileo di portare i nuovi frutti della ricerca scientifica in seno alla chiesa, in una nuova armoniosa complementarità, è onesta.» «Ma non sono onesti coloro che ricorrono al sillogismo aristotelico per confutare i risultati di ricerca e sperimentazione.» Il cortile interno del Palazzo del Bo era ormai invaso dalle ombre, pochi capannelli di studenti si attardavano ancora discutendo la lezione che quel giorno il maestro Galilei aveva tenuto nell’aula magna. Nell’ateneo pata-vino si respirava un’aria di grande fermento per le innovazioni delle nuo-ve teorie. «Vieni Paolo, si sta facendo buio e comincio ad avere appetito.» I due studenti si avviarono verso l’atrio seguendo il perimetro del portico e quando sbucarono sulla via un’aria gelida sferzò loro il viso costringen-doli a sollevare il lembo dei mantelli fino agli occhi. A poche centinaia di metri, nel grigiore dei muri, un’apertura luminosa gettava il suo chiarore giallastro sul lastricato lucido della strada e inghiottiva in continuazione i passanti; le loro ombre vibravano per un attimo nel palcoscenico luminoso poi venivano arse nel fuoco delle lampade. Anche loro si fecero risucchia-re dall’atmosfera calda e torbida della taverna; l’aria odorava di cibo e cat-tivo vino. A quell’ora era affollata di studenti che con pochi soldi poteva-no offrirsi un pasto consumato al caldo ma soprattutto la sceglievano per-ché l’unica, nei paraggi dell’università, così ben illuminata; ciò consentiva loro di poter leggere così da trasformarla in un appendice dell’ateneo dove la voluttà del sapere, scaturita dall’entusiasmo delle discussioni dei giova-ni, si mescolava alla baldoria e alle bestemmie degli altri avventori. Più tardi sarebbero arrivate le prostitute. I due giovani cercarono un posto do-ve sedersi fino a che lo individuarono nell’unico tavolo libero, solo par-zialmente occupato da un uomo intento nella sua cena. «Buonasera!» salutarono entrambi «ci possiamo accomodare?» Il tizio non rispose, semplicemente sollevò la testa dal piatto e li osservò per un attimo annuendo e continuando a masticare. Non sembrava né uno studente, troppo in là con gli anni, né un professore, non frequentavano abitualmente quel posto; neppure con gli altri clienti sembrava avere nien-te a che fare, pareva piombato lì da un altro mondo come per caso, ignora-to da tutti si estraniava dall’ambiente che lo circondava e continuava a consumare lentamente la sua cena. I due studenti, dopo il primo momento di imbarazzo, scordarono completamente la sua presenza e continuarono la loro discussione.

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«A proposito Paolo, ho una buona notizia da darti: ti ricordi quel libro che cercavi?» «“L’isola delle sette chiese” di fra Girolamo da Musestre?» «Proprio quello! Sono riuscito a scovarti una edizione e credimi non è sta-to facile visto che è stato messo all’indice. Per la verità non capisco per-ché ci tieni tanto; gli ho dato un’occhiata e non mi sembra granché inte-ressante.» «È interessante come lo è tutta la storia cosiddetta minore, poiché sono proprio i tantissimi piccoli avvenimenti che costellano il percorso dell’uomo a creare la ricchezza della sua epopea. Ce l’hai con te?» «Non qui, per adesso cerca di guadagnarti la mia benevolenza offrendo la cena; quanti soldi hai nella borsa?» «Abbastanza per tutti e due!» «Lo spero, perché guarda che questa sera ho anche una gran sete.» La prima brocca di vino la svuotarono ancor prima che arrivasse la fuman-te zuppa di fagioli e la seconda e la terza le consumarono sull’onda della conversazione che si faceva sempre più accesa. «L’uomo nel perseguire il sapere deve cercare nuovi metodi, abbandonare il primato biblico che tutto condiziona a cominciare dalla storia; non è for-se una narrazione di parte quella della Bibbia? E la filosofia stessa è da guardare con sospetto quando, per esempio, Tommaso d’Aquino addome-stica la metafisica aristotelica al solo scopo di dare valore di verità razio-nalmente dimostrata al dogma della creazione.» «Ma Paolo, solo attraverso la filosofia possiamo affrontare certi quesiti sull’origine dell’uomo e dell’universo, sull’essere e l’essenza delle cose, sulla materia e la forma. Questo ovviamente non è da tutti; agli altri non rimane altro che accettare i misteri della fede e lasciarsi guidare da chi, avendo le capacità dell’intelletto, si accolli il pesante fardello.» «Ti sbagli, esiste un solo genere di sostanza ed è la materia. Tutti poi han-no il dovere, in virtù delle proprie capacità, di affrancarsi dalla propria i-gnoranza, ma soprattutto dalla classe che custodisce gelosamente il sapere propugnandone una visione distorta e addomesticata.» Il loro dialogo proseguiva a briglia sciolta, senza la cautela che sarebbe occorsa, allora, nell’affrontare certi argomenti in un luogo pubblico. La foga della discussione aveva preso loro la mano e non moderavano il tono della voce come sarebbe stato prudente, inoltre il vino bevuto contribuiva sicuramente a renderli ancora più loquaci; ma del resto in quel luogo fre-quentato quasi esclusivamente da studenti, dove le idee più all’avanguardia saturavano l’aria viziata ancor più dei vapori delle pietan-

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ze e del vino, quale orecchio alieno avrebbe potuto prestare loro attenzio-ne? Uscirono, dopo l’ultimo bicchiere, con il desiderio intenso di immergersi nell’aria fredda della notte e ne riemersero con la mente improvvisamente tersa dalla sferzata gelida. Camminarono per le vie quasi deserte conti-nuando la discussione in modo più pacato. I lembi dei mantelli, aperti sul davanti, svolazzavano sollevati dalle folate di vento che ogni tanto si in-canalavano tra i muri delle case che si ergevano ai due lati e loro appari-vano come due grossi pipistrelli dall’andatura dondolante. Sbucarono, alla fine, nell’ampio spazio del Prato della Valle e, aggirando l’acquitrino che ristagnava al centro, si diressero verso il lato Est entrando nel collegio Da Mula. Non si accorsero nemmeno dell’ombra furtiva che li spiava nel buio seguendoli fino a lì.

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5 Il passato riaffiora - II parte

Passarono due giorni nel corso dei quali l’uomo rimase quasi completa-mente abbandonato a se stesso, arso dalla febbre che lo divorava alternan-do momenti in cui lo faceva sudare come se si stesse sciogliendo, ad altri in cui lo faceva rabbrividire fino a battere i denti. Solo un paio di volte la vecchia era salita portandogli una brocca d’acqua o una tazza di brodo bollente. Scostando il fieno in cui era sepolto gli scopriva il viso, e sor-reggendogli il capo lo aiutava a ingurgitare i liquidi a piccoli sorsi. In quel mentre gli parlava, lo capiva dai movimenti della sua bocca, ma alle sue orecchie giungevano solo dei suoni indistinti, come dei lunghi lamenti strascicati e poco dopo, preso dalle vertigini, doveva lasciarsi cadere all’indietro, assalito da una nausea che gli attanagliava lo stomaco strito-landolo in una morsa; sembrava volesse fargli rigurgitare quel poco che aveva ingoiato. Ripiombava allora in quello stato di semi incoscienza, po-polato di ricordi e paure, che gli faceva cavalcare l’incubo. Una volta gli sembrò di intravedere, al di là del fieno, il volto della ragazza che lo so-vrastava. Lo fissava con un’espressione preoccupata e a poco a poco essa si allontanava da lui sollevandosi fino a librarsi nell’aria, lontanissima. Poi quel viso cominciò a ruotare come in un vortice mescolando nuovamente sogno e realtà. La sera del secondo giorno la famiglia che lo aveva accolto stava in cuci-na, dopo cena, raccolta attorno al focolare. La giovane finiva di lavare al-cune stoviglie di terracotta dentro a una tinozza mentre il padre riempiva per la seconda volta un bicchiere versando, da una piccola dama impaglia-ta, un liquido trasparente come acqua di sorgente. «Quest’anno l’Arnaldo ha portato una sgnapa davvero fenomenale; forse dovremmo farne bere un po’ a quel giovane che sta su nel fienile.» «Che sia un fenomeno lo si capisce dal tuo umore dopo che hai bevuto! Quanto al giovine, lascialo stare tranquillo, non c’è altro che possiamo fa-re per lui. Dovrà guarire da solo. È robusto, e vedrai che dopo una bella sudata sotto al fieno si rimetterà in sesto.» Così aveva parlato la vecchia mentre riempiva un piccolo braciere racco-gliendo i tizzoni dalla pietra del camino, e la sua parola valeva come legge

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in quella casa. Suo figlio Piero, rimasto vedovo da lungo tempo, era sicu-ramente il capofamiglia, la sua volontà valeva sui braccianti che in stagio-ne si recavano presso di lui per lavorare e anche, in parte, sull’educazione di sua figlia, Maria. Ma al di sopra di tutto, e senza neanche mascherarlo tanto, valeva l’autorità della vecchia madre. Quanto fosse vecchia nessuno lo sapeva, perché non era chiara la sua data di nascita. Ma quanto fosse energica piena di vitalità tutti lo riconoscevano, e apprezzavano il suo giudizio in qualunque questione. «Spero che tu ti sia ricordato di chiudere la bova della valle! Questa notte avremo un bel freddo» continuò spargendo della cenere sopra i tizzoni e chiudendo il coperchio del braciere «lo scirocco dei giorni scorsi si è tra-sformato in bora e le mie povere vecchie ossa sopportano malamente il letto gelato.» Così dicendo afferrò lo scaldaletto di rame per il lungo manico e si avviò verso la scala. «Potresti dare una passatina anche ai nostri letti, visto che ci sei!» «Oh, con tutta la sgnapa che hai in corpo tu non ne hai di certo bisogno, e in quanto alla Maria lei ha il sangue caldo di una giovane scrofa.» La nipote si voltò dandole un’occhiataccia ma non proferì parola. Era abi-tuata agli appellativi grossolani che le venivano appioppati dalla nonna. Non si trattava di cattiveria, il tono era sempre bonario, semmai un rozzo tentativo di esorcismo onde preservare la piccola proprio da quelle condi-zioni infamanti. In quel momento si udì un grido fioco giungere da lontano, mescolato al lamento del vento che s’insinuava gelido dalle fessure della porta. I tre nella stanza si guardarono l’un l’altro interrogativi cercando una conferma al loro dubbio. Poi ancora si udì distintamente: «Acqua! Ho sete per favore, acqua!» Al fienile si accedeva dall’esterno, salendo su una scala a pioli appoggiata al muro, attraverso un’ampia porta che si usava per caricare lo strame o maresana: le erbe di palude, secche o fresche, secondo la stagione, che si usavano rispettivamente come lettiera o mangime per gli animali. Dal pa-vimento di assi di legno saliva il calore, ma anche l’odore di bestia, della piccola stalla sottostante, che raramente ospitava più di una mucca. Salì per prima la ragazza, svelta come un gatto, seguita dal padre, che soffiava come un mantice, e infine, dopo un certo lasso di tempo, dalla nonna che, a dispetto dell’età, affrontò la salita lentamente ma con la determinazione di un mulo. L’interno era buio e si dovette attendere l’arrivo della vecchia, che portava la lampada, per avere un tenue chiarore tremolante che illu-minò il volto, dall’espressione finalmente presente, del giovane. Egli se ne

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stava ancora semisommerso nel fieno ma, appoggiandosi sui gomiti, con il capo e il tronco sollevati. Sorrise alla vista di tanta sollecitudine alla sua richiesta d’aiuto: passò lo sguardo dal volto trafelato e paonazzo dell’uomo a quello soddisfatto della vecchia e si fermò su quello radioso della ragazza. «Per favore sto morendo di sete!» esclamò. All’acqua nessuno aveva pensato nel precipitarsi lassù. «Vado a prenderla io!» rispose immediatamente la ragazza sparendo in un baleno nel buco nero della porta, tanto che per un momento tutti credette-ro fosse precipitata nel vuoto. Riapparve di lì a poco con una brocca d’acqua e la porse al giovane con un’irruenza tale che parte del contenuto gli si rovesciò addosso. Egli bevve con avidità l’intero contenuto strabuz-zando gli occhi e tirando, di tanto in tanto, dei profondi sospiri. «Grazie!» disse alla fine restituendo il recipiente con riconoscenza «non credevo si potesse avere tanta sete. Sognavo di stare nei pressi di una fre-sca sorgente, ma per quanto l’acqua zampillasse limpida vicinissima, non riuscivo a raggiungerla e il suo chiacchierio invitante altro non faceva che acuire la mia sete. Quando con uno sforzo sono riuscito finalmente ad av-vicinare la mia bocca spalancata e a immergerla, stranamente però l’acqua non mi dava alcuno refrigerio, anzi sembrava aumentare ancor più la mia arsura.» I tre lo fissarono ammutoliti. «Vado a prenderti ancora dell’acqua!» parlò per prima la giovane Maria sgattaiolando nuovamente giù per la scala. «Bene! Mi pare proprio che tu ti stia riprendendo e la febbre sia scesa» continuò la vecchia avvicinandosi al giovane e appoggiandogli la mano rinsecchita sulla fronte. «Già» annuì infine l’uomo paonazzo avvicinandosi al suo volto per osser-varlo meglio «domani scenderai giù così parleremo un po’.» Terminò la frase alitandogli in faccia i vapori dell’alcol. «Eccomi!» disse in quel momento Maria, riemergendo dal buio della porta portando una nuova brocca d’acqua. Il giovane la prese e ne bevve un al-tro piccolo sorso, come gratifica alle premure della sua piccola infermiera. «Adesso tutti giù» concluse la vecchia «lasciamolo riposare, ne ha ancora bisogno, lui e anche noi. Domani sarà un nuovo giorno!» «Buonanotte e grazie!» disse il giovane mentre la stanza tornava a rabbu-iarsi sprofondando nel silenzio. Rimase ancora appoggiato sui gomiti a osservare la porzione di cielo in-corniciata tra gli stipiti scuri e l’architrave. Alcune stelle brillavano gelide incastonate nel nero lucido della notte. Gli ricordavano un’altra notte lim-

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pida come quella. Come allora osservava una porzione di cielo stellato dalla finestra del convitto; era solo una piccola porzione dell’immensità dell’universo che lo circondava, nel quale andava alla deriva nel piccolo vascello della scienza, guidato dal tremulo lume della ragione e sospinto dal vento della coerenza. Solo un pezzetto di firmamento si proponeva alla sua vista ma la sua profondità lo sconcertava; e se avesse avuto torto? Se tutto ciò fosse stato veramente opera di dio? Era uno di quei momenti in cui il dubbio lo assaliva. Ciò era dovuto sicuramente alla consapevolezza di quanto fosse solo, piccolo e fragile di fronte a tutto ciò, pensò. Ma la mente umana poteva espandersi raggiungendo dimensioni anch’esse infi-nite, attraverso il pensiero valicare i confini dello spazio e del tempo, essa aveva solamente bisogno di essere alimentata dal desiderio di affrancare l’uomo dal suo stato di creatura a quella di artefice del cosmo. Questa vol-ta i ricordi si affacciavano alla sua mente nitidi e consapevoli, non più di-storti dalla nebbia del delirio. Rammentò il rumore pesante dei passi che calpestavano il selciato, i barbagli di fiaccole che giù dalla strada si proiet-tavano verso l’alto ricamando il soffitto della stanza di arabeschi fluidi. Poi i colpi bussati alla porta mentre qualcuno che gli era amico provvi-denzialmente saliva ad avvisarlo: «Fuggi Paolo, ci sono le guardie, sono venuti per arrestarti!» Fuggì, frastornato dal susseguirsi repentino degli eventi che si abbatterono su di lui senza dargli il tempo di pensare, travolgendolo col loro carico di paura. Il trepestio sulle scale gli lasciava intendere di essere in trappola, non gli rimaneva altra via di fuga se non la finestra. Affrontò il nuovo de-stino tuffandosi in quella porzione di universo che stava contemplando e atterrò a quattro zampe come un gatto sulla strada. Ruzzolò facendo un giro completo su se stesso e cominciò a correre guadagnando velocemente la posizione eretta, spingendosi dapprima con le mani e poi annaspando con le braccia fino a trovare il perfetto equilibrio. Come è naturale quando si fugge da una minaccia, non si fermò a valutare quale direzione prendere ma avanzò guidato semplicemente dalla spinta possente delle proprie gambe, rendendosi così conto, poco dopo, di procedere in direzione Nord. Era probabilmente la forza dell’abitudine che lo stava portando verso il palazzo del Bo, l’edificio universitario che ormai da lungo tempo frequen-tava quasi tutti i giorni. Non aveva idea di dove potersi rifugiare e mentre alle sue spalle sentiva gli inseguitori mettersi sulle sue tracce, improvvi-samente una figura gli si parò davanti. Istintivamente rallentò fermandosi con il volto a una spanna da quello dell’altro; entrambi colti di sorpresa si fissarono per un attimo negli occhi, vicinissimi, talmente vicini che l’alito dei loro fiati si mescolava in una unica nube di vapore e lo scintillio delle

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stelle rimbalzava dalle pupille dell’uno a quelle dell’altro come in un gio-co di specchi. Poi le braccia dello sconosciuto si sollevarono verso di lui come nel gesto di volerlo abbracciare; ma fu una reazione troppo lenta, il suo istinto di preda lo fece scartare a destra sottraendosi alla presa e in quell’attimo la sua mente ebbe la certezza di aver già incontrato quel vol-to. Ma dove? Proprio in quel punto un’altra via intersecava la loro; la im-boccò di corsa procedendo verso Est mentre alle sue spalle una voce ani-mò lo sconosciuto: «È qui, da questa parte, fate presto!» Fu allora che una certezza si fece luce nella sua mente: era lo stesso al cui tavolo aveva chiesto di poter sedere, qualche sera prima, alla taverna. Cor-se fino a che un muro circolare quasi gli sbarrò la strada e allora continuò affiancandolo sulla sinistra e girando in cerchio. Si sentiva come gli ani-mali braccati, e come questi spesso cercano la salvezza fuggendo in un luogo elevato, così anche lui seguì lo stesso istinto. Era agile, alto, snello e dalle membra lunghe. Spiccò un salto e allungando le braccia riuscì ad af-ferrare un appiglio; si issò a fatica sull’orlo del muro del giardino botanico ma a quel punto i suoi inseguitori avevano guadagnato terreno. «Guardate, eccolo là, sta scavalcando il muro del giardino dei semplici, si sta mettendo in trappola!» Guadagnando l’ingresso e abbattendo il portone, il gruppo degli inseguito-ri penetrò all’interno dell’orto, lasciando un solo uomo di guardia lungo il perimetro esterno. Il luogo non era vasto e, nonostante l’oscurità, non of-friva grandi possibilità di riparo. Procedettero fino al centro e da qui si di-visero percorrendo i quattro viali principali che formavano le braccia di una croce, ma il fuggiasco sembrava scomparso. Il cosiddetto “Hortus Sphaericus” era circondato da un muro di cinta circolare per impedire i furti delle piante medicinali. Paolo, nel momento in cui stava per saltare all’interno, si era reso conto che così facendo si sarebbe messo in trappola. Si era dunque appiattito il più possibile sull’orlo dando l’impressione agli inseguitori di essersi calato sul lato opposto poi, col favore delle tenebre, era strisciato lungo il bordo compiendo quasi mezzo giro e ridiscendendo dal lato esterno. Ma non era ancora finita. I suoi persecutori, rendendosi conto di essere stati giocati, si rimisero all’inseguimento; dividendosi in due gruppi procedettero ognuno in senso contrario all’altro aggirando il perimetro del muro circolare. Procedendo in una direzione Paolo vide la luce delle fiaccole dei suoi inseguitori venirgli incontro, si voltò ma anche da quel lato giungevano voci e rumore di passi. Davanti a sé il canale Ali-cante gli sbarrava la strada, dietro di lui v’era l’alto muro di cinta dell’orto; vi si appoggiò con le spalle, ansante, doveva riprendere fiato e

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studiare velocemente una strategia. Avrebbe potuto arrampicarsi nuova-mente sul muro e cercare di giocare i suoi avversari allo stesso modo di prima. La fortuna questa volta però gli fu avversa: non riuscì a trovare al-cun appiglio, la parete era perfettamente liscia e per quanti sforzi facesse risultò impossibile la scalata; la stanchezza poi cominciò a farsi sentire e si accasciò seduto con le spalle al muro. I due gruppi di inseguitori si riunirono proprio in quel punto. Erano in tut-to sei persone: quattro guardie più il comandante di guarnigione e l’oscuro individuo che aveva incontrato Paolo alla taverna e che sembrava avere una certa autorità sugli altri. La luce delle fiaccole, riunite tutte assieme, riverberava alta sul muro e vi proiettava le ombre degli uomini simili a quelle di spettri. «Avete trovato niente?» «Niente dalla nostra parte!» «Allora deve essere qui attorno.» «Qui non c’è posto dove si possa nascondere.» «Allora deve essere fuggito attraversando il canale.» «Con questo freddo l’acqua deve essere gelida, e poi l’avremmo visto.» «Forse lì, tra quelle canne. Cercate bene.» Due guardie si avvicinarono al bordo del canale dove cresceva un ciuffo di canne e con le loro lunghe lance cominciarono a rovistare. Paolo senti-va i rumori e le voci giungergli ovattati e confusi. Teneva gli occhi aperti, sbarrati per il terrore, ma l’unica cosa che poteva vedere erano i barbagli delle fiaccole che ogni tanto guizzavano sulla superficie dell’acqua. Poi la punta acuminata di un’asta si piantò nella melma a pochi centimetri dal suo volto sollevando una nube di fango che subito intorbidì l’acqua e gli penetrò negli occhi. D’impulso stava quasi per riemergere schizzando dal fondo su cui si era adagiato ma riuscì a controllarsi rimanendo immobile. Era ormai completamente accecato, sordo e muto; il suo povero corpo immerso nell’acqua gelida succhiava solamente pochissima aria attraverso una cannuccia che teneva stretta tra le labbra. Quando scendendo nell’acqua aveva strappato quel pezzo di canna, non aveva avuto il tempo per controllare se fosse cava; se lo era messo in bocca e si era adagiato sul fondo. All’inizio gli era sembrato di soffocare poi, lentamente, le sue fun-zioni vitali si erano adattate a farsi bastare quel poco di nutrimento. Si sentì scivolare in una specie di letargo, ora non avvertiva più neppure freddo, tutti i suoi sensi si stavano lentamente spegnendo. Soltanto, dentro di sé, il rumore di un piccolo mantice che ancora lo teneva in vita. «Qui non c’è niente» dissero le due guardie allontanandosi dal canale.

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«Secondo me si è nuovamente arrampicato sul muro e ci ha giocato lo stesso scherzo di prima.» «Si vedeva una sagoma scura che cercava di arrampicarsi, ma qui non ci sono appigli, è difficile che ci sia riuscito.» «Quel giovane ha l’agilità di un gatto. Andiamo, è inutile che perdiamo altro tempo qui.» Il luogo fu improvvisamente buio e silenzioso. Paolo nel suo sarcofago liquido smise di succhiare aria, era come se il suo corpo non esistesse più e la sua mente galleggiasse da sola. Poi sentì i polmoni bruciargli, tutto il suo corpo ritornò improvvisamente presente ed egli riemerse col guizzo di un pesce respirando voluttuosamente e gioendo nel riappropriarsi della propria vita. Era per essa che lottava.

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6 A tu per tu con il maestro

Alla sua mente riposata ora quei ricordi apparivano densi di particolari che nella concitazione degli eventi, allora, non era stato in grado di distin-guere, come fosse stata un’unica folle corsa. Strano, pensò, come l’acqua fosse stato un elemento ricorrente e determinante per la sua salvezza. Fo-late di vento gelido entravano nel fienile ed egli sprofondò ancor più sotto la paglia, ma non desiderava il sonno e per tutta la notte le immagini di quei ricordi affluirono a ondate incessanti. Ricordò il freddo, mentre va-gava zuppo per le strade buie della città, la disperazione e lo sconforto che gli impedivano di affrontare con lucidità quella situazione in cui improv-visamente si era venuto a trovare. Pure la causa della sua disgrazia appari-va confusa, anche se probabile. Ogni tanto incrociava qualche passante e allora si appiattiva lungo i muri o si rintanava in una nicchia. Non poteva chiedere aiuto, e il suo corpo cominciava a venire scosso da un tremito che gli faceva battere i denti. D’un tratto però si ritrovò in un luogo che gli era familiare. Si fermò di fronte al portone di una casa, si guardò intorno cercando di scorgere nel buio qualche riferimento più preciso, poi bussò. Nessuno rispose. Forse i suoi colpi erano stati troppo timidi quindi batté nuovamente con maggior vigore. Stava per allontanarsi incerto quando la voce di una donna si fece sentire al di là dell’uscio: «Chi è là a quest’ora di notte!» Non seppe cosa rispondere, pensò tra sé che mai avrebbero aperto a uno sconosciuto e rimase in silenzio producendo solamente il ticchettio del suo battere di denti. Sentì la donna allontanarsi imprecando e allora con la for-za della disperazione balbettò: «Cercavo il maestro…» «Il maestro? A quest’ora?» rispose la voce lontana, al di là della porta «e chi sei tu che lo cerchi?» Ora la voce si era fatta nuovamente vicina. «Sono uno studente» rispose timidamente il giovane. La voce profonda di un uomo ora si era affiancata a quella della donna e riconobbe in essa le calde tonalità e l’autorità del suo insegnante: «Chi c’è, Marina?»

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«Sono un suo allievo, mi chiamo Paolo, maestro!» «Paolo? E perché vieni a casa mia a quest’ora?» Ci fu una lunga pausa, il giovane silenzioso meditava sulla risposta ma fu anticipato da quella dell’uomo: «Mi dispiace, ma non ti conosco, e il buio di questo momento mi consiglia bene di non farti entrare. Se hai qualcosa da dire fallo presente domani all’ateneo durante la mia lezione.» «Maestro Galileo, un giorno contestai il fatto che stesse spiegando la dot-trina tolemaica…» Si sentì lo scorrere di un catenaccio e la porta si aprì. Apparve il maestro sull’uscio mentre una donna stava discosta alle sue spalle. «È vero, ma non avevi evidentemente assistito alla prima parte del discor-so durante la quale spiegavo l’eliocentrismo copernicano; spettava a voi studenti trarre delle conclusioni.» «Quella fu la mia prima lezione ed ero arrivato in ritardo.» «Mi ricordo, e ricordo anche con quale ardore e caparbietà ti scagliasti contro il povero Tolomeo, colpevole solamente di aver cercato di mettere un po’ d’ordine nei cieli, e con quale irriverenza affrontasti l’autorità e la pazienza con la quale il tuo maestro cercava di istruire le povere menti an-cora grezze dei suoi scolari inducendoli all’analisi e al confronto.» «Tutto vero e me ne scuso ancora adesso maestro.» «Puoi entrare» disse allora il suo insegnante, e fu soltanto alla fioca luce dell’interno che vide lo stato in cui si trovava il giovane. «Noto che sei un amante dei bagni, anche fuori stagione, o devo supporre una tempesta, la stessa che ti ha condotto da me questa sera? Ma noto che fuori non piove.» «Una disavventura, maestro, ma della quale ancora non riesco bene a ren-dermi conto tale è stata la subitaneità degli eventi.» «Gli effetti seguono sempre le cause e queste non ti dovrebbero essere sconosciute, se solo guardi con sincerità al tuo operato. Ti sei forse dedi-cato anche tu, come molti dei tuoi compagni, a perseguire le grazie mulie-bri di qualche giovane sposa attirandoti l’ira del marito?» L’ultima battuta non sortì l’effetto sperato e il poveretto se ne rimase mu-to, tremante e con un inconsolabile aria afflitta. «Vedo che la cosa è più seria e soprattutto che hai bisogno di asciugarti e riscaldarti. Vieni da questa parte, il camino è già spento ma rilascia ancora un piacevole tepore.» Dall’atrio passarono alla cucina, non molto ampia ma in compenso parec-chio affollata. Oltre alla donna altri tre bambini di cui l’unico maschio, ancora in tenera età, dormiva in una cesta accanto al camino. Le due

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femmine, che sonnecchiavano con la testa appoggiata al tavolo, si desta-rono eccitate dalla strana e improvvisa visita, fissando con curiosità il nuovo venuto. «Questi sono i miei figli» disse il maestro «Virginia, Livia e il piccolo Vincenzo, come mio padre.» «Marina» aggiunse poi rivolgendosi alla donna «è bene che tu porti i figli a letto, che tra poco giungerà Lavinia per accompagnarti a casa.» Ci fu subito una piccola protesta. «No mamma, proprio adesso? Possiamo rimanere ancora con lo scono-sciuto? Perché è tutto bagnato se fuori non piove?» La donna con modi gentili ma fermi convinse presto le piccole a seguirla, e raccolta la culla si avviò al piano di sopra. «Dunque?» Il maestro Galilei lo fissò con aria interrogativa. Il giovane abbassò gli oc-chi, non era facile dare una spiegazione, forse doveva cominciare proprio dalla fine. «Le guardie sono venute per arrestarmi…» «Per arrestarti? Sei dunque un ladro, un mascalzone o peggio?» «No maestro, penso si trattasse del braccio secolare del Sant’Uffizio.» «Capisco. Ma perché il Sant’Uffizio dovrebbe interessarsi a te? Oltretutto qui nella Repubblica Veneta siamo al riparo dagli artigli di qualche tonaca di Roma impegnata a cacciare gli stregoni, e all’ateneo godiamo di una particolare libertà di pensiero.» Il maestro s’interruppe. Si era forse esposto troppo esprimendosi così, so-prattutto usando quella prima persona plurale? Il giovane se ne accorse e liberò il suo peso: «Una sera, alla taverna, assieme a un mio compagno mi sedetti all’unico tavolo libero, in parte già occupato da uno sconosciuto. Si parlava tra di noi del primato che la scienza dovrebbe avere sulla teologia continuando una discussione iniziata poco prima nel cortile dell’università…» «E continuata a briglia sciolta, ben lubrificata da parecchi bicchieri di pes-simo vino» intervenne il maestro. «Be’ per la verità non poi così pessimo» continuò il giovane un po’ rin-francato dalla possibilità di sfogarsi. «Non vedo comunque cosa ci possa essere di così rivoluzionario da inte-ressare il Sant’Uffizio. L’argomento viene ormai così spesso dibattuto che anche tesi considerate radicali in certi ambienti romani, qui passano spes-so inosservate se non addirittura relegate ad argomento frivolo di qualche salotto aristocratico. D’altra parte ormai anche bottegai e lavandaie di-squisiscono sull’argomento. Vedi, il contrasto tra scienza e religione è in

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realtà solo apparente poiché le Sacre Scritture sono state frutto, in passato, di interpretazioni errate.» «Dunque esiste una sola verità?» «Certamente non possiamo ammettere la teoria della doppia verità.» «Eppure certe volte il contrasto appare inevitabile. Come si dovrebbe agi-re in quel caso, forse tenendo presente il principio della separazione tra Rivelazione e Ragione seguendo l’insegnamento di Tommaso d’Aquino? Non è forse anche questo un artificioso ricorrere al dualismo?» Il maestro sorrise, il giovane allievo lo voleva provocare. Si spostò verso un angolo della stanza, si voltò verso di lui e gli rispose pacatamente: «Qualche volta la scienza non arriva a comprendere e deve accettare le ri-sposte suggerite dalla fede, tuttavia» e qui fece una pausa mentre il suo volto s’illuminava in un sorriso «tuttavia l’orizzonte del sapere umano si ampia ogni giorno!» Così dicendo scostò un drappo da un tavolino scoprendo un oggetto che sollevò con attenzione afferrandolo alle due estremità. Si trattava di un tu-bo costruito con sottili stecche di legno, rivestito di carta e avvolto in un filo di rame, lungo circa un metro e chiuso alle estremità da due vetri. «Si chiama cannocchiale» disse avvicinandosi al giovane «questo ci per-metterà di portare il nostro sguardo nell’universo, cogliendo come una re-altà tangibile quello che sinora solamente la mente dei filosofi o i calcoli di noi matematici aveva potuto ipotizzare. Non più solo pensiero, dunque, ma strumenti sempre più sofisticati ci assisteranno proiettandoci oltre i li-miti fisici umani.» Rimase così, con le braccia sollevate in avanti, reggendo lo strumento come si trattasse del primogenito posto all’attenzione del pubblico; sul volto un’espressione soddisfatta e orgogliosa. «Sono lenti, consentono di ingrandire gli oggetti osservati» disse il giova-ne avvicinandosi per prendere l’oggetto. «Di più, consentono di avvicinarcisi» rispose Galileo scostando le braccia di lato ruotando col busto «esso ci consente di essere più vicino alle stelle e in qualche modo a Dio.» «Maestro, non è peccare di presunzione?» disse L’allievo in tono provoca-torio spostandosi anch’egli di lato e allungando le mani. «Dio ci ha donato l’intelligenza perché ne facessimo buon uso. Egli ha seminato dentro di noi con la certezza che non saremmo rimasti un campo sterile, bensì sapendo che presto avremmo dato il frutto più bello, ed esso si chiama scienza» disse Galileo sollevando alte le braccia sopra la testa «quale migliore ringraziamento verso nostro Signore, dunque, se non

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quello di metterla a frutto per cercare di capire e, pertanto, avvicinarsi a Lui?» Sembrava di assistere a uno strano balletto, un minuetto in cui il maestro sembrava voler offrire l’oggetto all’allievo ma senza convinzione, ritiran-dolo infatti subito dopo per poi fermarsi nuovamente incerto in attesa del-la sua avanzata. «Comunque» disse interrompendo bruscamente quel ritmo ternario «que-sta non è sera adatta alle osservazioni.» E così dicendo girò bruscamente sui tacchi e tornò a riporre gelosamente l’oggetto sotto al drappo. «Ci sono altre cose poi di cui dobbiamo discutere. Or dunque, se sei capi-tato qui questa sera, in tali condizioni, spaventato, inseguito dalle guardie - e spero a questo proposito che non ti abbiano visto entrare qui - vuol dire che sei disperato e in cerca di aiuto.» «È vero maestro» ammise il giovane. «Hai dunque fiducia in me e nella mia saggezza.» Non rispose, pensò tra sé che ciò era vero, oltre naturalmente che aveva freddo e non sapeva dove andare a riparare. «Esaminiamo ora la situazione con calma. Tu presupponi che qualcuno abbia ascoltato i tuoi discorsi alla taverna per poi denunciarti, una spia cioè, che casualmente si trovava lì. Questo può significare due cose: o che la gente non si fa i fatti suoi, o che sei sfortunato. Cosa ti fa pensare che sia stato proprio quell’individuo l’informatore dell’inquisitore?» «Il fatto che questa sera assieme alle guardie ci fosse anche lui.» «Allora sei proprio un ragazzo sfortunato! Ma a questo punto debbo chie-derti di essere sincero, perché non posso credere che l’unico motivo che ha suscitato l’interesse del Sant’Uffizio nei tuoi confronti sia una semplice disquisizione sulla disputa tra scienza e teologia.» «Per la verità parlammo anche di un libro messo all’indice.» «Quale libro?» «L’isola delle sette chiese, di fra Girolamo da Musestre.» «Mai sentiti nominare, né l’uno né l’altro. Certo, il fatto che la Congrega-zione della sacra romana e universale Inquisizione si sia interessata a essi avrà certamente un suo peso nel tuo caso. L’esperienza però mi insegna che spesso tali opere non sono meritevoli della importanza che si vuol loro attribuire, dal punto di vista dell’inquisitore naturalmente.» «È comunque disdicevole il fatto che mettendo il bavaglio alla stampa si oscuri il libero pensiero.» «Già, soprattutto gli stampatori veneziani ne soffrono, e ne soffrono molto anche le loro tasche. Ma non ti preoccupare, sono abbastanza potenti da

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non farsi imbrigliare così facilmente. Dunque, quale sarebbe il tema di questo libro proibito?» «Esso tratta del dubbio che un santo della Chiesa ebbe sulla propria fede.» «Figliolo mio, ma quanti dubitarono della propria fede, a cominciare da san Pietro?» «Dubbi però prima o poi risolti, mentre costui convisse con la propria in-certezza e con il dilemma se rivelare al mondo la causa di ciò.» «Hai forse con te questo libro?» «No, è rimasto al convitto sopra al mio letto. Al momento dell’irruzione delle guardie sono scappato in fretta saltando dalla finestra senza poter prendere alcunché.» «Giacché sono stati soldi spesi male; verrà probabilmente prodotto come prova, dopodiché verrà naturalmente bruciato. Ascolta, io penso che le tue non siano colpe così gravi, neanche secondo il punto di vista di qualche inquisitore romano; semplicemente hai avuto la sfortuna di imbatterti in qualcuno che ha a che fare con le tonache. Quello che è un po’ strano è che si trovasse in quella taverna, sembra quasi ci sia un piano di controllo degli ambienti studenteschi e, non vorrei, accademici.» Il maestro s’interruppe strofinandosi la barba pensieroso, poi riprese: «Comunque tu sei giovane e possiedi l’impulsività tipica dell’età. Ciò ti ha fatto fuggire di fronte al supposto pericolo, ma sei anche intelligente e consegnandoti a chi ti cerca potresti chiarire le tue idee, che non saranno di certo eretiche, spiegandoti e portando le giuste argomentazioni. Gli uomini di chiesa non sono tutti degli ottusi, anzi, tra loro esistono persona-lità di tale acume e intelligenza che sapranno valutare giustamente il tuo caso.» «Non credo ci sia spazio nel mondo cristiano per un ateo che non si penta e non si converta.» «Dunque tu non sei credente?» «No, maestro Galileo, nacqui da famiglia credente e cattolica e fui battez-zato e allevato secondo i tradizionali principi cristiani. Io non rinnego questi principi quando essi portano a un benessere collettivo prevalente su quello del singolo. Essi nobilitano l’uomo. Sentimenti come l’altruismo ci elevano al di sopra di tutti gli altri animali. Ma credo anche in altre priori-tà, quali la libertà di pensiero, il necessario diritto dell’uomo a creare una società perfettamente compatibile con l’autodeterminazione, tollerante e non subordinata a fedi, di molti, ma non di tutti. Nell’essere superiore, creatore di tutte le cose, io non credo.»

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«E dunque come credi siano nate tutte le cose e gli animali? E l’uomo, co-sì intelligente da ergersi su tutto e dominare il creato, non è forse lo spec-chio di un essere superiore, di Dio appunto?» «Molte cose non sono a nostra conoscenza, ma dall’albore della nostra ci-viltà ci siamo lentamente incamminati verso un sentiero sempre più lumi-noso e questa luce sempre più illumina il nostro passato. Il creato non è qualcosa che galleggia per magia all’interno di una mente superiore e che esiste per volontà della stessa, ma obbedisce a precise leggi fisiche; noi le scopriremo. Ma un passo essenziale sarà quello di affrancarci dal potere della chiesa che oggi condiziona le scelte anche di molte menti illustri.» «Eppure qualcuno deve aver seminato» disse debolmente il maestro, quasi parlando tra sé, e volgendogli le spalle si allontanò verso un angolo buio della stanza apparendo come una sagoma indistinta. Anche il tono della voce cambiò diventando improvvisamente più forte e profondo, quasi l’eco amplificata di un urlo proveniente da lontano. Egli disse: «Troppe cose ci sono ancora sconosciute per permetterci di dubitare! Non possiamo fare a meno di Dio!» «Non possiamo perché non ne abbiamo il coraggio, siamo esseri deboli e continueremo a esserlo fino a che non prenderemo coscienza della nostra vera forza. Essa consiste nel liberare la mente dalle superstizioni e accet-tarci per quel che siamo: piccoli, probabilmente non unico centro dell’universo, ma intelligentissimi e soprattutto incredibilmente tenaci. È ora che l’uomo cresca e che non abbia più bisogno del padre, quell’entità astratta a cui appellarsi per risolvere i propri dubbi, quella spalla a cui ap-poggiarsi per cercare conforto al proprio dolore e speranza ai nostri limiti, cui ricorrono filosofi in cerca di conferme alle proprie elucubrazioni, po-vere madri affrante sulla tomba del figlio, re e condottieri in cerca di un’investitura per il loro potere. Ecco dunque come in qualche momento del passato sia nata questa necessità: ci fu un inizio di tutto, una genesi durante la quale l’uomo creò Dio, proiettando in lui la perfezione cui am-biva.» Quelle ultime parole tuonarono nella stanza e rimasero come una lunga nota sostenuta che sembrava non voler mai cadere. Poi dall’ombra la vo-ce, che sembrava quella stanca di un vecchio, debolmente mormorò: «Non è facile rinunciare a un grande conforto.» Dal muro si staccò una sagoma ed essa avanzò verso il giovane, materia-lizzandosi nuovamente nella figura del suo maestro che con la consueta voce sicura e autoritaria lo apostrofò: «Potresti essere accusato di empietà!» Poi con tono paterno continuò:

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«Devi andartene, fuggire, ma temo che in qualunque luogo civile tu arri-verai sarà il faro delle religioni a indicare la via.» «Probabilmente in esse sta la grande perversione dell’uomo» disse il gio-vane. «Probabilmente in esse sta la grande perversione della fede» rispose il maestro e portandosi al centro della stanza continuò: «Forse all’inizio l’uomo necessitava di regole semplici da seguire, che fa-vorissero la convivenza nel bene e la giusta glorificazione di Dio, ma troppe manipolazioni esse hanno subito nel corso dei secoli e tali da porta-re spesso confusione e contrasti.» «E lotte e guerre» aggiunse il giovane «non è dunque giusto affermare che le religioni sono uno dei grandi mali dell’umanità?» «Forse, ma non possiamo dare la colpa di ciò a Dio; è comunque sempre l’uomo a sbagliare nell’interpretare la parola di Dio.» «La parola di Dio? E quale, quella del vecchio testamento, quella di Dio fattosi uomo o quella del suo profeta Maometto?» «Forse si tratta sempre della stessa rivelazione, poiché proprio in questa sta la grande differenza tra quell’arcaico bisogno dell’uomo di credere nell’esistenza di un’entità superiore e la verità finalmente rivelata da Dio stesso ai suoi profeti, e non si tratta forse dello stesso arcangelo Gabriele che parlò prima alla Madonna e poi a Maometto?» «Probabilmente gli autori dei testi sacri attingono spesso alla stessa fon-te…» La frase fu lasciata sospesa allorché si udì bussare alla porta. Un fremito di apprensione percorse il giovane e per un attimo il suo volto assunse la smorfia della paura. Il maestro sollevò la mano verso di lui come per farlo tacere e al contempo tranquillizzarlo, poi imperiosa tuonò la sua voce: «Chi è là?» «Sono Lavinia!» rispose lontana la voce matura ma ancora squillante di una donna. Il maestro Galilei si mosse verso l’atrio, ma passando di fronte all’allievo lo indicò sollevando il braccio sinistro e guardandolo di sottecchi serena-mente gli disse: «La stessa fonte appunto, ed è la purezza di quell’acqua ormai intorbidita che dobbiamo ritrovare.» Quindi proseguì andando ad aprire l’uscio. Il giovane rimase solo nella stanza. Dall’ingresso, che non poteva scorgere dalla sua posizione, gli giungevano le voci della donna e del suo maestro che conversavano fami-liarmente; ciò contribuì a tranquillizzarlo e lo rasserenò ancor di più quando queste, aumentando progressivamente volume, irruppero nella

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stanza in un iperbole di toni gai e squillanti o placidi e profondi. La nuova venuta, una donna non più giovane ma dalla carnagione così florida e di una tale allegria dipinta nel volto da destare immediata simpatia, non sembrava minimamente sorpresa della inconsueta presenza che rappresen-tava quello sconosciuto giovane così male in arnese e anzi lo trattava co-me se la sua presenza fosse assolutamente normale, quasi un persona di famiglia. Ciò contribuì ancor di più a rilassare il giovane che per la prima volta, dopo un periodo così angoscioso da sembrargli senza inizio né fine, si ritrovò il sorriso sulle labbra a una battuta della donna riguardo una cer-ta rotondità che cominciava ad affiorare dagli abiti del suo maestro. Mai gli era capitato di vedere qualcuno trattare con tale confidenza quella figu-ra austera e proprio quella austerità ora si perdeva nelle smorfie accondi-scendenti che egli rivolgeva ora alla donna, ora al giovane sottolineando totale arrendevolezza e benevolo compatimento nei confronti di un’autentica forza della natura. «Oh, ecco Marina!» disse il maestro indicando la figura aggraziata che scendeva le scale con portamento signorile «dormono i figli?» «Certamente, anche se le bambine si sono chieste come mai il loro padre tardasse tanto ad andare a salutarle» rispose Marina in tono di dolce rim-provero. «È vero scusami, più tardi poserò un bacio sulle loro fronti. Ora vogliate scusarmi un momento, devo ancora scambiare due parole con questo gio-vane studente.» Lavinia prese Marina sottobraccio e avvicinando il capo al suo cominciò a bisbigliare ricevendo in risposta risatine e cenni del capo, come se avesse-ro ripreso un discorso interrotto tempo prima, e insieme si avviarono verso l’atrio. I due uomini le guardarono allontanarsi, il ragazzo con un’espressione di-vertita, l’anziano con lo sguardo adorante. Egli disse: «Sono due persone per me molto importanti, Marina mi è anche molto ca-ra.» Non aggiunse altro a questo proposito, né il giovane pensò di avere diritto ad altre spiegazioni. «Ora ascoltami bene» riprese a parlare il maestro Galilei «se è tua inten-zione fuggire da Padova, hai già un posto dove andare?» «Un posto? È successo tutto così repentinamente che certamente non ho avuto il tempo di pianificare una fuga. Potrei tornare a Feltre dalla mia famiglia.» «Lì ti verranno certamente a cercare, e in una città così piccola non avrai ulteriore via di fuga. Ho un amico fidato a Venezia, uno di quegli stampa-

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tori cui accennavo prima, è una persona fidata, di larghe vedute e discreta. La sua non è una grande stamperia ma gli affari gli vanno bene e potrà of-frirti alloggio e un piccolo impiego fintanto che non troverai il modo, se lo vorrai, di fuggire lontano. Potresti facilmente trovare un imbarco e cercare l’avventura verso nuovi mondi.» «Nuovi mondi?» disse il giovane mentre un senso di smarrimento lo assa-liva. «Sì, la gioventù ha il gusto dell’avventura, la maturità solo la consuetudi-ne di proporre buoni consigli» rispose il maestro con una nota di rimpian-to nel tono. Trasse da un cassetto un calamaio e un foglio di carta su cui scrivere. Ri-mase un attimo assorto con la penna a mezz’aria che gocciolò creando due piccole macchie scure che lentamente si andarono allargando in due pic-cole lune, quindi vergò velocemente alcune righe, asciugò lo scritto con della carta assorbente e, piegato il foglio in quattro parti, lo consegnò al ragazzo che lo afferrò senza convinzione. «Ho scritto una breve presentazione e l’indirizzo della persona che dovrai raggiungere a Venezia. Solo a una cosa ti prego di fare attenzione: se per malaugurata sorte dovessi venire catturato da chi ti cerca, dovrai essere lesto nel far sparire questo biglietto; non tanto per paura che tu compro-metta la mia persona, quanto per il mio innocente e inconsapevole amico. Ora ascoltami bene. Di notte le porte della città rimangono chiuse, dunque uscirai domani mattina prima dell’alba, assieme alle due donne che ti ver-ranno a prendere, portando loro la borsa. Esse ti accompagneranno fino a porta Ognissanti, l’attraverserai assieme a loro fingendoti un loro servitore incaricato di una consegna a Venezia. Al Portello ti sarà facile trovare un passaggio su uno dei burchielli che attraverso il Brenta raggiungono Ve-nezia, ne partono a tutte le ore carichi di merci. Hai qualche soldo con te?» Il giovane scosse la testa ancora incerto sulla proposta del destino. «Prendi.» Il maestro gli prese la mano deponendovi poche monete di rame. «Purtroppo le mie condizioni economiche non sono delle più floride, ma queste ti saranno utili. Ora aspettami qui, vado a dare istruzioni alle don-ne.» Il giovane rimase muto fissando i pochi soldi che teneva in mano. Forse avrebbe dovuto essere contento di tanta premura, forse avrebbe dovuto almeno ringraziare, invece una strana improvvisa apatia lo aveva assalito impedendogli qualunque reazione di fronte a chi cercava di pianificargli il futuro. Ebbene, se si era recato lì in cerca di aiuto questo doveva essere

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ben accetto, eppure non riusciva a scuotersi da quello stato di torpore che lo isolava proteggendolo come una corazza. Era sempre stato così, fin da bambino non riusciva a sopportare imposizioni, anche se queste erano per il suo bene, anche nelle cose semplici. Ciò che lo irritava era che qualcuno prendesse, al suo posto, decisioni che lo riguardavano, pure se queste, e lo sapeva, erano le più giuste e ovvie. Anche adesso si sentiva come quel bambino ombroso, deciso a contrastare a ogni costo le scelte dei grandi. «Bene, tutto a posto.» La voce profonda del suo maestro lo scosse. Gli si avvicinò e con un am-pio gesto delle braccia gli pose sulle spalle un mantello. «Me ne sono appena fatto fare uno nuovo» disse «questo ti riscalderà.» Al giovane, sorpreso, questa volta si illuminò il volto in un ampio sorriso. «Grazie!» disse semplicemente, e lo disse di cuore. «Ora però ti dovrai accontentare di riposare qui accanto al caminetto, poi-ché in questa umile casa non esiste una stanza per gli ospiti. In quanto a me sono veramente stanco e me ne vado a dormire. Buonanotte.» Il maestro si voltò senza attendere risposta e scomparve nel buio della sca-la che saliva al piano superiore. «Buonanotte» mormorò il giovane frastornato. Si guardò attorno, poi sedette sulla sedia accanto al camino appoggiando il capo al muro, roteò gli occhi per valutare l’ambiente che lo circondava. Era semplice e disadorno, malamente illuminato da un moccolo consuma-to che stava per spegnersi. Improvvisamente sentì tutta la stanchezza op-primerlo, la luce lentamente si smorzò e il buio più profondo lo avvolse facendolo piombare nell’oblio. Fu svegliato l’indomani dalle braccia robuste del maestro che lo scuoteva-no prendendolo per le spalle. Aveva l’impressione di essersi addormentato solo per pochi minuti, ma gli incitamenti ad affrettarsi gli fecero capire che era ora di andare. Si avviarono verso l’atrio dove le due donne, già in-fagottate, stavano aspettando. Strano quanto fossero tranquille, obbedienti ma sicure di sé. “Come due giumente che mi guideranno verso la salvezza” pensò il gio-vane tra sé. Il maestro aprì l’uscio e l’aria fredda della notte entrò, sembrava volesse portare con sé anche il buio; egli salutò affettuosamente le due donne ba-ciando Marina sulla fronte, poi si rivolse al ragazzo: «Ti auguro nel tuo viaggio di trovare la fede.» «Spero solo di non perdere la mia moralità» rispose lui.

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Il tragitto attraverso la città silenziosa fu lungo ma tranquillo. Per due vol-te aveva sentito in lontananza i rintocchi segnati dall’orologio del Dondi; il suo orecchio era abituato a distinguere quel preciso scandire laico del tempo tra gli innumerevoli rintocchi delle ore canoniche che si sovrappo-nevano. Ora, all’avvicinarsi a porta Ognissanti, il cielo stava ingrigendo preannunciando l’alba. Le strade cominciavano ad animarsi di gente fret-tolosa, mercanti, artigiani che si avviavano verso il Portello, donne devote che accorrevano in chiesa per le funzioni del mattino. A ogni strada che intersecavano qualcuno si aggiungeva a loro come affluenti di un fiume che andava lentamente ingrossando. Camminavano veloci, forse per ri-scaldarsi dal gelo che precede l’alba. Il giovane rabbrividendo si avvolse ancor più strettamente nel mantello che gli aveva regalato il suo maestro, sollevando un lembo sul volto. Quando i primi raggi di sole colpirono il candore marmoreo di porta Ognissanti, essa si aprì di fronte a loro come d’incanto e il fiume di gente si fuse con la marea che dall’altro lato pre-meva per riversarsi in città dando vita a un vociare così intenso che le due donne, Marina e Lavinia, per farsi sentire dal giovane dovettero quasi gri-dare. «Stai dietro e vicino a noi.» Nella strettoia della porta strusciarono e urtarono contro altre persone che andavano e venivano, nessuno controllava il flusso della gente. Le due u-niche guardie se ne stavano al riparo in un angolo, chiacchierando e senza degnare di uno sguardo chi entrava o usciva. Alcune barche stavano at-traccate alla sponda del canale Piovego mentre sulle scalette del Portello un via vai frenetico, come di formiche, caricava o scaricava le più dispara-te merci. Fu tra esse che il giovane scorse, con una fitta che gli attanagliò lo stomaco, i suoi inseguitori. Essi stavano disposti su due ali ai lati della scalinata e controllavano attentamente chi scendeva. Istintivamente il ra-gazzo si fermò chinando il capo e coprendosi ancor più con il mantello; anche le due donne che lo accompagnavano si accorsero che qualcosa non andava e si fermarono. «Che cosa c’è?» disse Lavinia. «Non posso proseguire, chi mi cerca mi sta aspettando al varco.» Marina voltò lo sguardo in direzione della scalinata di pietra che scendeva fin sul pelo dell’acqua mentre Lavinia si avvicinò ancor più al giovane coprendolo con la sua figura massiccia. «Cosa pensi di fare?» «Devo andarmene per un’altra strada» sussurrò il giovane «da quella par-te» disse con un cenno del capo.

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La strada che correva al di là del canale, lungo il terrapieno, proseguiva in direzione Nord; apparentemente da quella parte la via era libera, da lì giungevano solo alcuni contadini guidando carri trainati da buoi. Sembra-va facile, quella strada andava in direzione della sua città. Fu allora che un piccolo trambusto avvenne sulle scalinate del Portello: un giovane, che era stato fermato per essere interrogato, reagì malamente nei confronti delle guardie. Approfittando della distrazione Paolo imboccò la nuova via scel-ta, avviandosi risolutamente ma senza fretta. Il ragazzo ora precedeva un po’ discosto dalle due donne tenendosi dalla parte del terrapieno; contava i passi. Ognuno di essi lo portava verso la libertà ma lo allontanava anche dal suo passato imponendogli una scelta di vita diversa. Si era trasferito a Padova dalla sua piccola città per inseguire il desiderio di conoscenza e forse non avrebbe più potuto farvi ritorno. Doveva dunque rinunciarvi o poteva recarsi in altri luoghi dove i centri del sapere fossero liberi da qua-lunque condizionamento? Forse non in questo mondo, aveva ragione il suo maestro. All’improvviso si fermò accorgendosi di essere solo. Si voltò e vide le due donne lontane che affannate cercavano di raggiungerlo. Chiuso nei suoi pensieri aveva accelerato il passo senza rendersi conto di aver distanziato le due poverette; ora l’ingresso della città appariva lonta-no e nessuno aveva cercato di fermarlo. «Giovanotto» disse Lavinia ansimando «tu puoi anche andare in capo al mondo, ma a questo punto noi due torniamo indietro.» «Sì ormai è certo che nessuno ti sta seguendo» aggiunse Marina. Si congedarono. Al ragazzo fu lasciata la borsa che conteneva delle ciba-rie ed egli ringraziò loro e raccomandò di riferire i suoi ringraziamenti al maestro. Si voltò e riprese la sua strada.

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7 Ritorno a casa

Il primo giorno di cammino proseguì spedito, egli aveva ormai deciso di ritornare nella casa paterna, a Feltre. Continuava a stupirsi del fatto che nessuno avesse cercato di sbarrargli la strada o di seguirlo; ma su quest’ultima convinzione aveva dei dubbi che lo inducevano a voltarsi di continuo, all’inizio ogni pochi passi, poi sempre più raramente man mano che la distanza dalla città da cui era fuggito aumentava. Ormai essa era scomparsa all’orizzonte e lui si trovava in aperta campagna. Continuò a seguire il tracciato della antica via Aurelia fino a quando, illuminate dalla luce radente del tardo pomeriggio, gli apparvero le mura e le torri di mat-toni rossi della città di Castelfranco. Rimase un attimo a contemplare la bellezza di quell’apparizione che sorgeva maestosa dalla piatta pianura, incutendo al viandante il rispetto e il timore di un antico guerriero. Decise, per precauzione, di tenersi a una certa distanza, aggirandola compiendo un semicerchio per poi riprendere la strada più avanti. Questo comportò una notevole perdita di tempo e una grande fatica, dovendo egli avventurarsi attraverso campi spesso incolti e intersecati da fossi che gli sbarravano la via. Fu sorpreso dal buio mentre ancora arrancava in mezzo a un terreno fangoso, la stanchezza aveva trasformato le sue gambe in macigni sempre più pesanti da sollevare e la melma che le risucchiava con avidità sembra-va volesse divorarlo per intero. Giunse finalmente in un luogo in cui sor-geva una leggera altura, come una piccola isola che si ergeva nel mare di fango, sulla cui sommità crescevano alcuni salici e cespugli di bosso a formare un boschetto. Raggiunse, aiutandosi anche con le mani, il bordo dove il terreno, finalmente compatto, saliva dolcemente in un pendio rico-perto d’erba fino al limite della macchia, e vi si addentrò crollando a sede-re con la schiena appoggiata a un tronco. Si guardò attorno approfittando della poca luce crepuscolare che penetrava all’interno; era una piccolissi-ma radura, come una minuscola stanza con muri di cespugli che lo cela-vano garantendogli sicurezza e tranquillità. Ora aveva appetito. Si ricordò della borsa che aveva con sé; per tutto il giorno non aveva mangiato e neppure bevuto nulla. Era appunto la sete ora a tormentarlo e si augurò che ci fosse dell’acqua. Rovistando ne trasse una bellissima bottiglia di

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vetro scuro, tolse il turacciolo e annusò. L’aroma che si sprigionava gli fece venire l’acquolina in bocca. Afferrandola per il collo l’accostò alle labbra e con lunghe sorsate ne tracannò quasi la metà, prendendo fiato a intervalli regolari con profondi e rumorosi sospiri. Alla fine, affannato ma soddisfatto, si ripulì con la manica la bocca dai cui angoli scendevano due rivoli di liquido rosso come sangue. Quella bottiglia era l’ultimo dono del suo maestro, un vino di grande qualità. Non aveva immaginato che egli si trattasse così bene. “Era sicuramente una bottiglia della sua riserva speciale” pensò sorriden-do tra sé. All’interno della borsa anche pane, una pagnotta grande e profumata, e del formaggio, ancora più odoroso. Non c’era dubbio, era incredibilmente af-famato. Addentò pane e formaggio e a ogni boccone ringraziava il suo maestro, a ogni sorso lo lodava. “Certo che è facile comprarsi stima e simpatia di un uomo affamato” pen-sò. Naturalmente la stima e la simpatia che egli aveva nei confronti del suo insegnante era dovuta ad altro, ma considerò che un popolo affamato sicu-ramente avrebbe lodato il tiranno che gli avesse concesso pane a sazietà. Ora però, placata la fame, il buon umore si impossessò di lui, complice anche il vino, e cominciò con ottimismo a guardare al suo futuro. Pensò alla sua famiglia che lo avrebbe accolto, all’esistenza di luoghi più tolle-ranti dove poter vivere, egli stesso in fondo era a volte troppo intransigen-te nelle sue idee. Dialogo e comprensione reciproca erano una ricetta così semplice da applicare… Si sollevò in piedi, strappò alcuni rami di sempreverde per costruirsi una lettiera e vi si adagiò stirando le membra. Quel luogo conservava anche un certo tepore. Si ricoprì con il mantello e volse lo sguardo verso la porzione di cielo che appariva tra gli alberi. Alcune stelle brillavano sopra di lui. Chissà se altri mondi esistevano tra di esse; era bello addormentarsi con una speranza di ottimismo nella testa. La stanchezza gli chiuse gli occhi. Fu un intenso cinguettio a svegliarlo il mattino dopo; la sera prima non se n’era accorto, ma quella macchia era il rifugio di un’infinità di uccelli che probabilmente lì trovavano asilo per la notte e che ora, affamati, osavano avvicinarsi a lui beccando le briciole del suo pasto serale. C’erano anche un paio di mele nella sua borsa, ne prese una e tornando a sdraiarsi la ad-dentò osservando il cielo azzurro sopra di lui e lo svolazzare degli uccelli. Si stava bene in quel posto e per un attimo pensò all’assurdità di non al-lontanarsi più da lì. Poi qualcosa di umido si spiaccicò sulla sua fronte e interruppe l’incanto e la poesia di quel luogo. Si sollevò a sedere pulendo-

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si con un moto di disgusto dall’escremento di uccello e riconsiderò la cosa sotto un aspetto più pratico. Era ora di andare. Rimise a posto nella borsa le cibarie rimaste, si sgranchì le membra stirandosi e uscì dal boschetto riprendendo la via. Il sole era splendido e si preannunciava una di quelle tiepide giornate di autunno che sembrano presagire un ritorno della bella stagione, ma già si sa che si tratta di un’illusione. Arrivò in vista di Asolo nella tarda mattinata. Proseguì lasciando la città alla sua sinistra ma da quel momento in poi il terreno diventava più diffi-cile anche perché, per timore di essere intercettato da chi lo cercava, lasciò la strada principale seguendo un percorso alternativo attraverso prati e bo-schi. Non temeva di perdersi, man mano che si avvicinava alla sua città i luoghi acquistavano una connotazione sempre più familiare; la sua era una famiglia molto agiata e spesso si era recato a caccia nei dintorni, allonta-nandosi anche per un paio di giorni. Meta preferita erano soprattutto i monti che si ergevano al di là della sponda orientale del fiume Piave, sa-lendo su verso il castello di Zumelle dei conti Zorzi; quell’antico maniero, ormai in rovina, lo affascinava e l’occasione della caccia era buona per trascorrervi la notte presso i contadini che lo custodivano. Quindi saliva fino al passo di Praderadego e ridiscendeva sull’altro versante per ritorna-re poi a Feltre risalendo il corso del Piave. Fu dunque solamente verso la sera del giorno dopo che arrivò in vista della sua città. La notte aveva bi-vaccato disteso dentro a un fossato rabbrividendo e alzandosi al mattino, ancor più stanco e indolenzito, temette di non riuscire più a proseguire. La stanchezza aveva rallentato di molto la sua andatura, ma l’idea di essere finalmente giunto a casa gli fece riacquistare entusiasmo e recuperare una riserva di energia che non sospettava di possedere. Per tutto il giorno grosse nubi scure si erano addensate sui monti di fronte e lentamente ave-vano cominciato ad avanzare verso la pianura. Voltandosi poteva ancora scorgere una fascia di cielo sgombra in direzione del mare, ma lui era or-mai immerso in un’atmosfera satura di umidità che minacciava pioggia da un momento all’altro. Le prime gocce cominciarono a cadere proprio mentre giungeva a ridosso delle mura della città e velocemente aumenta-rono d’intensità. “Meglio così” pensò tra sé “con questo tempo ci sarà meno gente in giro e passerò più facilmente inosservato.” Rasentò il muro per un breve tratto tenendosi il più possibile a ridosso per ripararsi dall’acqua che sempre più copiosamente cadeva, e raggiunse fi-nalmente porta Pusteria. Era un piccolo accesso pedonale che attraverso le quattro rampe di una scala coperta portava su fino alla piazza. S’infilò nel-lo stretto passaggio, sbirciò la scaletta constatando con piacere che essa

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era deserta e cominciò la salita finalmente all’asciutto. Svoltata la prima rampa però si fermò di colpo; dall’alto una figura scendeva con passo le-sto. Rimase un attimo indeciso sul da farsi. Poteva voltarsi tornado sui suoi passi sperando che l’altro non lo notasse, oppure andargli incontro confidando di non essere riconosciuto, ipotesi assai probabile visto com’era male in arnese. Appiattirsi in un angolo era improponibile, oltre che destare sospetti non c’erano angoli nascosti. Mentre indugiava sulla decisione l’altro avanzava velocemente; aveva una figura alta dall’andatura dinoccolata, proprio come suo cugino Giovanni. Certamen-te! Era suo cugino Giovanni! Ne ebbe la conferma quando questi fu a po-chi passi da lui. L’altro quando lo incrociò lo sbirciò appena, e dando l’impressione di non riconoscerlo proseguì oltre. Ma dopo qualche passo ancora si fermò; esitò ancora quindi si voltò. Entrambi si voltarono quasi contemporaneamente. «Paolo!» «Giovanni!» «Cosa ci fai qui? Quando sei tornato?» «Adesso! Sto arrivando adesso!» «Ascoltami Paolo!» lo interruppe bruscamente Giovanni, che superata la sorpresa sembrò ricordare qualcosa di importante «non puoi tornare a ca-sa! Sono venuti a cercarti!» Paolo impallidì. «Ma cosa hai combinato! Questo pomeriggio le guardie sono state a casa nostra!» «E adesso dove sono?» «Hanno fatto un sacco di domande a tuo padre; hanno anche voluto vedere in tutte le stanze della casa. La zia ha pianto per tutto il pomeriggio e an-cora adesso l’ho lasciata in lacrime.» Quel pensiero rattristò il giovane, e scordando l’iniziale moto di paura che gli aveva attanagliato lo stomaco rispose al cugino: «Ascoltami, ti spiegherò tutto più tardi con calma. Ora dimmi, la strada è libera?» «Con questo tempaccio neanche un cane in giro, se ti riferisci a chi ti cer-cava. Per la verità anch’essi sono scomparsi, ma non è certo che abbiano lasciato la città.» «Tu li avevi mai visti?» «Mai. Ma in che pasticcio ti sei cacciato? Lo zio non mi ha dato spiega-zione alcuna, ti ha solo definito “stupido mangiapreti”.» Il ragazzo non poté fare a meno di sorridere. Nemmeno a suo padre era simpatico il clero, ma ci faceva ottimi affari. Era religioso praticante so-

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lamente nella forma, forse soprattutto per far contenta la mamma, lei sì, autentica credente. «Allora io vado!» disse Paolo. «Aspetta! È meglio che ti accompagni» replicò Giovanni. La loro era una ricca famiglia di mercanti della lana. Il padre di Paolo, av-valendosi della collaborazione del proprio fratello minore, aveva ampliato la bottega ereditata trasformandola in una florida attività di produzione e commercializzazione di stoffe di lana. La casa si trovava nella zona Est vicino a porta Oria, era un palazzo im-portante al cui piano terreno stava la bottega e i magazzini e sui due piani superiori, caratterizzati dalle eleganti serie di bifore, l’abitazione dei due fratelli. Mentre si avvicinarono videro da lontano due persone uscire; era-no gli ultimi lavoranti che si affrettavano verso casa intabarrati dentro a un sacco per ripararsi dall’acqua. Quando i due cugini furono sotto casa la bottega era ormai deserta; spinsero il portone di legno e sbucarono in un ambiente lungo e stretto. L’interno era immerso nella penombra, solamen-te in fondo brillava una lampada su di un tavolo e proiettava l’ombra di una figura, a esso seduta, in una sagoma grottesca che curvava sulla volta a botte. «Chi è là?» La voce si levò imperiosa dal profondo dell’antro e si spense senza river-bero ma i due giovani non risposero, avanzarono lentamente in un mare di lana suddiviso in balle grezze, nuvole già cardate e rotoli di tessuto. Quando furono vicini la figura si alzò dal tavolo e sollevò verso di loro la lampada; uno sbuffo di fumo nero e oleoso andò a imbrattare i mattoni della volta mentre un lampo di luce illuminava il volto scarno e strapazza-to del giovane rendendolo riconoscibile. «Sei tu!» Non vi furono altre parole, soltanto un caloroso abbraccio tra padre e fi-glio attraverso il tavolo, e tale fu l’impeto che quest’ultimo scricchiolò. Poi la figura imponente del padre trasse, sollevandolo lentamente ma ine-sorabilmente, il figlio al di sopra di esso e lo posò delicatamente dalla sua parte, senza sforzo, come si fosse trattato di un fuscello. «Papà, mi stai stritolando.» La morsa si allentò. «Ecco, per l’appunto, dovrei stritolare quella tua testa vuota! Io assecondo i desideri tuoi e di tua madre spendendo un sacco di soldi per mandarti a studiare, quando qua ci sarebbe bisogno anche del tuo aiuto, e tu cosa combini invece? Predichi contro la chiesa. Senza contare che i preti sono tra i nostri migliori clienti e stai mettendo a rischio le commesse.»

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Il ragazzo non cercò neppure di contrastare quel fiume in piena, a questo ci avrebbe pensato sua madre. Ella perorava sempre le cause dei figli, so-prattutto di quel primogenito maschio, non per partito preso ma per cono-scenza; ella ne comprendeva il pensiero senza bisogno delle parole, con quella specie di unione telepatica che spesso unisce le madri ai propri fi-gli, convinta che se anche fossero stati in errore sicuramente la giusta ra-gione avrebbe col tempo prevalso. Anche ora ella avvertì la sua presenza. Scese dal piano di sopra attraverso la scala interna e sbucò col cuore in gola nel magazzino, capì subito che quella figura male in arnese uscita dalla penombra era il figlio e gli buttò le braccia al collo. Trascorse la notte nel magazzino al pian terreno, nascosto tra le balle di lana grezza, certo di usufruire di una via di fuga più agevole nel caso fos-sero tornati a cercarlo. L’odore della lana gli era familiare e gli trasmette-va un senso di sicurezza ricordandogli quando da bambino giocava in quell’ambiente, soprattutto nelle giornate di pioggia, scivolando tra gli stretti pertugi che si creavano tra i grossi sacchi, fino a raggiungere un piccolo rifugio, come una minuscola stanza tra di essi. Qui, avvolto da un naturale tepore, i rumori gli arrivavano lontani e ovattati, sentendosi pa-drone del suo piccolo regno e per nulla turbato dai continui ammonimenti dei suoi genitori sul rischio di venirne schiacciato. Ora alla luce di quella calma e sicurezza valutò attentamente la sua situazione. Era stato sicura-mente uno sciocco a esporsi così, declamando in pubblico le sue idee. L’ambiente universitario in cui viveva, così ricco di nuovi fermenti della scienza, l’aveva falsamente illuso che anche la società stesse cambiando prendendo in considerazione nuove ipotesi nell’ordine delle cose che da secoli governavano il mondo. Ma evidentemente così non era tra chi effet-tivamente deteneva il potere, e probabilmente non lo era neppure in molti altri settori dello stesso ateneo. Forse veniva semplicemente tollerata una certa libertà di pensiero, purché non superasse certi limiti però, una specie di valvola di sfogo per le giovani menti impulsive pronte comunque a es-sere sempre imbrigliate, o nei peggiori casi represse, da un’entità che con-tinuamente esercitava il controllo occultandosi tra le pieghe di un finto permissivismo. D’ora in avanti sarebbe stato più attento! Ma d’ora in a-vanti la sua vita sarebbe cambiata. Quale direzione avrebbe preso? Si rese improvvisamente conto che tutti i progetti che aveva fatto in passato non avevano più alcun valore. Non avrebbe avuto il coraggio di sfidare la giu-stizia degli uomini ottusi che lo stavano braccando, perciò sarebbe fuggito in cerca di un luogo migliore dove poter ricominciare una nuova vita. Ri-pensò a sua madre e questo lo rattristò, lei che aveva sempre appoggiato il

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suo desiderio di studiare affrancando le proprie segrete aspirazioni, ora ne sarebbe rimasta delusa. E suo padre, non aveva forse il diritto di poter contare sul proprio primogenito maschio quale erede di tutto ciò che ave-va costruito con il proprio lavoro? Era proprio la consapevolezza di ciò a essere per loro soddisfazione e motivo di sprono nella vita. Ciò nonostante aveva deciso. L’indomani, prima del sorgere del sole, sa-rebbe partito per raggiungere a Venezia l’indirizzo che gli era stato indica-to dal suo maestro. Avrebbe lasciato la città a piedi, per dare meno nell’occhio, e oltre le mura suo cugino Giovanni l’avrebbe atteso conse-gnandogli un cavallo. Con quello si sarebbe avviato nella direzione dei vecchi luoghi di caccia e da lì sarebbe giunto fino alla Piave per poi ridi-scenderne il corso. Mentre era assorto nei suoi pensieri la scala di legno che portava ai piani superiori scricchiolò e nella penombra riconobbe la massiccia figura di suo padre. Alla fioca luce di una lampada ne discende-va lentamente i gradini, curvo e pensieroso sembrava valutare attentamen-te ogni passo, avanzando con l’incertezza di chi vorrebbe ritardare il più possibile l’ineluttabile destino. Paolo si alzò in piedi e attese nell’ombra fintantoché la luce illuminò i due volti vicini. Sarebbe stato ora chiaro a un osservatore quanto simili fossero i lineamenti. Lo specchio del tempo che rimandava all’altro l’immagine del passato restituendone quella del futuro. «Allora è deciso» mormorò suo padre. «Sì, è deciso. Devo andarmene e scomparire.» «Almeno per un po’, fino a che le acque non si saranno calmate.» «Fino a che non cambierà il vento che muove le acque.» «Accidenti, sei sempre il solito testone, ma bada a te!» disse suo padre abbracciandolo d’impeto «vedrò comunque cosa posso fare per tirarti fuo-ri da questo guaio. Smuoverò tutte le mie conoscenze tra i preti, e per tutti i diavoli dell’inferno, o strapperò loro un’assoluzione o spaccherò le loro teste!» «Papà, mi stai stritolando!» «Dunque allora ricorda. Ridisceso il corso della Piave, poco prima della foce, troverai l’innesto del canale Caligo che mette in comunicazione il fiume con la laguna, lo riconoscerai da lontano per la torre dei gabellieri al suo imbocco. Lì potrai facilmente chiedere un passaggio a qualche pesca-tore che in poco tempo ti porterà a Venezia. Ricorda però di trovare una famiglia di contadini nelle vicinanze cui affidare il cavallo. Paga loro qualche soldo per la custodia, poi noi andremo a riprenderlo, se non ci sa-rà rubato.»

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Come sempre suo padre era un efficiente organizzatore, anche nelle situa-zioni più difficili, merito del suo lavoro di imprenditore che a volte lo co-stringeva a improvvisare. «Prendi questa borsa di ducati, ti garantiranno una certa tranquillità eco-nomica per i primi tempi.» Parlava tenendo il figlio per le spalle e fissandolo intensamente. Era im-portante quello che gli stava spiegando, non avrebbe dovuto dimenticarlo, ma aveva l’impressione che lui non stesse a sentirlo. Quindi tacque. E nel silenzio ci fu uno scambio di emozioni tale che finalmente capì di avere la sua attenzione e a entrambi si inumidirono gli occhi. «Bene» disse alla fine scuotendosi «tua madre scenderà ad avvisarti quan-do sarà l’ora. Non penserai che ti lascerà andare senza prima salutarti?» Così dicendo si allontanò e scomparve nel buio. La pioggia all’esterno scendeva in scrosci violenti che rimbalzavano sul selciato. Non ci sarebbe stato bisogno di qualcuno che all’alba lo destasse.

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